Gaia - Le fonti del potere

di Rico da Fe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Estremi rimedi ***
Capitolo 2: *** La Fenice Rossa ***



Capitolo 1
*** Estremi rimedi ***


Il sole brillava alto nel cielo di Napoli.
Dai bastioni di Castel Nuovo l’imperatore Ruggero contemplava la capitale dell’impero di Meridia: il porto con le navi provenienti da tutta l’Hitalya, le case, le botteghe, la gente indaffarata, il chiacchiericcio delle massaie e le urla dei pescivendoli, tutto si svolgeva sotto lo sguardo altero del sovrano. Quei suoni, quei colori, tutto quel guazzabuglio di gente, di odori, di musica proveniente dalle osterie gli parlava di ricchezza e prosperità, una prosperità che, lo sapeva, sorrideva da tutte le città dell’impero, e dipingeva di verde le facce dei sovrani di tutto il continente.
A Ruggero piaceva starsene lì, sulla terrazza più alta, ad ammirare il blu intenso del mare nel golfo, incorniciato dalla nefasta sagoma del Vesuvio che si stagliava contro il cielo luminoso: in quel tripudio di luci e colori, persino il vulcano non sembrava poi così minaccioso.
Il vento caldo di Libeccio gli scompigliò i riccioli neri; era un vento che profumava di spezie, di fiori, ma soprattutto di pace.    
Il volto di Ruggero si rabbuiò: ripensò alle guerre che dieci anni prima avevano sconvolto l’Hitalya durante il regno di suo padre Tancredi, guerre a cui lui stesso aveva posto fine quando suo padre era morto valorosamente sotto le mura di Roma, lasciandogli la corona in eredità.
Allora aveva appena diciotto anni, e si era subito impegnato a ritirare sia le truppe dallo Stato del Vaticano, sia le dichiarazioni di guerra fatte agli altri stati, ma si era fermamente rifiutato di restituire la Corsica a Genova: era l’unica terra che suo padre era riuscito a conquistare, il cui prezzo era stato il sangue di innumerevoli soldati, e non l’avrebbe restituita per nulla al mondo.
Perso nei suoi pensieri, Ruggero si accorse di quanto fosse fragile la pace che aveva creato, e vedendo l’allegria che pervadeva le vie della sua Napoli sentì che doveva assolutamente impedire che l’odio, l’avidità e la brama di potere degli uomini deturpassero la bellezza di quei luoghi.
Sentì il sole che irradiava i suoi raggi benevoli sulla sua testa e sulle teste di tutti i napoletani che lavoravano per dare lustro alla loro patria, la Meridia, che traeva energia da quell’immenso e sfolgorante globo luminoso sospeso nel cielo e da quell’enorme distesa splendente di un blu acceso che era il mare. Il mare, quella sconfinata pianura d’acqua che abbracciava l’impero e gli dava forza e nutrimento.
In quella distesa d’acqua salata si gettavano i fiumi che irrigavano i campi della Meridia, corsi d’acqua che donavano la vita…
L’idea si formò pian piano nella mente dell’imperatore. Sì, sarebbe stato proprio un corso d’acqua a garantire la vita all’Hitalya e alla Meridia, un corso d’acqua che aveva già concesso i suoi servigi a un eroe che per la vita aveva lottato… bisognava solo trovarlo.
Ruggero abbandonò i bastioni e si immerse nelle fresche sale del castello. Quando trovò la porta che cercava, la aprì, ed entrò in un labirinto di scaffali ricolmi di libri polverosi, antichi tomi e papiri consumati dal tempo: la Biblioteca Imperiale.
Con passi rapidi si diresse verso la sezione mitologica, i tacchi degli stivali che risuonavano sul pavimento di marmo, e quando l’ebbe raggiunta iniziò a scorrere i libri con la punta del dito indice, il guanto di pelle che correva sui tomi inciampando nei rilievi delle lettere che componevano i titoli, finché finalmente non incontrò il titolo che cercava. Afferrò il volume e scorse rapidamente le pagine, finché non vide quell’illustrazione: Teti che immergeva Achille nel fiume Stige tenendolo per il tallone. Eccola, la soluzione. Lo Stige, il fiume infernale che garantiva l’invulnerabilità a chiunque vi si immergesse. Scorreva nel Tartaro, assieme ai fratelli Cocito, Flegetonte, Acheronte e Lete. Ora doveva solo trovare il Tartaro, ma quello non era un problema: conosceva la persona giusta che non gli avrebbe negato il privilegio di conoscere l’ubicazione dell’entrata del fatale luogo.
Ruggero si sentiva come se avesse già portato a termine la missione; mentre se ne tornava dalla biblioteca, decise di fare una passeggiata nel porto, e uscì dal castello.
Fu mentre bighellonava tra le banchine del porto, senza scorta e con il cappuccio del mantello calato sulla testa a nascondere la corona, che la vide.
Stava in piedi sul ponte di una magnifica caravella dalle vele rosse, tipiche delle navi pirate meridionali; indossava una camicia scollata a maniche larghe stretta in vita da un corpetto nero, da cui partiva una gonna rossa lunga fino alle ginocchia. Ai piedi, un paio di sandali.
Era bella come una visione, nei suoi occhi castani si scorgeva un lampo di fierezza mista a audacia, i capelli neri e ondulati le scendevano fino ai fianchi, una dolce cascata d’ebano corteggiata dal vento. Il corpo era agile e flessuoso, sinuoso come quello di una leonessa, i seni morbidi, la pelle olivastra baciata dal sole…
Ruggero ne restò abbagliato.
-Ora che ci penso- disse tra sé –per raggiungerlo avrò bisogno di una nave…
Si avvicinò al molo e esaminò la caravella. Non era molto grande, ma sembrava solida e veloce.
Lei lo notò, scese dalla barca e gli si avvicinò. Il cuore del sovrano accelerò i battiti, sentì qualcosa salirgli dal petto e inondargli il volto.
-Allora? Qualche problema?
-Assolutamente no! Cioè, ecco, io… ho bisogno di un passaggio. Per Palermo.
Lei socchiuse gli occhi e lo squadrò da capo a piedi. Ruggero non indossava le vesti regali, ma il suo abbigliamento tradiva comunque la sua condizione elevata: non era da tutti andare in giro con farsetto di seta viola, camicia di lino e stivali in pelle alti fino al ginocchio.
Per fortuna il mantello era provvisto di cappuccio, in modo tale da coprirgli la corona.
-Quanta grana puoi darmi?- chiese lei.
-Ti pagherò… qualsiasi cifra.- Ruggero era certo che il suo popolo non avrebbe avuto nulla da ridire se prendeva in prestito qualche spicciolo dalle casse imperiali.
Lei stette un attimo in pensiero.
-Facciamo milleduecento fiorini. Da pagare prima dell’entrata in porto.
-D’accordo. Ci vediamo domattina presto, prima dell’alba. Se per te non…
-Ti aspetterò qui, Maestà.- sorrise lei e risalì sul ponte.
-Non mi hai…
-Valentina. Il mio nome è Valentina.
E gli voltò le spalle lasciando il sovrano con un palmo di naso.
 
 

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Capitolo 2
*** La Fenice Rossa ***


Valentina risalì sul ponte e riprese fiato.
Era stato terribilmente difficile mantenere il sangue freddo di fronte a quel magnifico Adone dagli occhi viola. Aveva capito subito di chi si trattava dal baluginio sotto il cappuccio.
Era piuttosto insolito vedere l’imperatore di Meridia osservare navi nel porto della capitale, senza scorta e camuffato.
Malamente, ma camuffato.
Aveva il fisico del guerriero, alto, spalle larghe, muscolatura possente e mani grandi e forti. I capelli nerissimi e la pelle olivastra creavano uno strano contrasto con gli occhi viola acceso. Le labbra carnose e ben disegnate invece gli si adattavano benissimo, gli conferivano il caratteristico aspetto meridionale.
Valentina sentiva il cuore battere più forte che mai, e aveva fatto una gran fatica a controllarsi.
E l’indomani lui sarebbe salito a bordo della Fenice Rossa! E avrebbero viaggiato assieme per tre lunghe settimane alla volta di Palermo!
Felice, la giovane piratessa aspettò che il sovrano si fosse allontanato, dopodiché impose un sigillo sulla nave e scese a terra.
Il sigillo era un incantesimo piuttosto semplice che aveva imparato di recente: serviva a bloccare la nave lì dov’era e a impedire così a chiunque di rubarla.
Messa al sicuro la Fenice, la ragazza si avventurò tra le locande e le osterie del porto.
Doveva recuperare al più presto l’equipaggio, composto da sua sorella Rosalia, suo fratello maggiore Vincenzo (il capitano) e i due gemelli quattordicenni Damiano e Simeone.
La necessità di formare un equipaggio interamente ricavato da un’unica famiglia nasceva dal fatto che, una volta morto il padre, i tre fratelli si erano ritrovati soli, senza un centesimo e con quella caravella pirata ormeggiata al porto di Siracusa, la loro città.
Non avendo nessun’altra fonte di sostentamento, i tre si erano imbarcati e avevano preso il largo verso la pirateria. I gemelli invece venivano da Crotone, erano dei piccoli ladruncoli e si erano imbarcati sulla Fenice Rossa per sfuggire alle guardie.
Valentina era salita su quella nave dieci anni prima, all’età di otto anni, e quei quattro compagni erano l’unica famiglia che aveva.
Li trovò in una taverna, dove erano gli unici non ubriachi, e li informò del prezioso carico che l’indomani avrebbero imbarcato per poi depositarlo fresco fresco in Sicilia.
-Bene- disse Vincenzo – ben fatto, ottimo lavoro! Milleduecento fiorini senza sfoderare le armi… e per un lavoretto facile facile come un passaggio…
Vincenzo era il maggiore dei tre fratelli, e in quanto tale, era il capitano.
Aveva ventitrè anni, ed era piuttosto bello, con quella barbetta da duro, i capelli neri e scarmigliati e l’espressione corrucciata.
Era alto e ben piazzato, e la pirateria ancora non lo aveva trasformato in uno di quei brutti ceffi che ogni tanto si trovavano nelle osterie, con cicatrici chilometriche, vestiti sporchi, denti mancanti o cariati e il fegato devastato dall’alcol. Proprio per questo veniva additato nei porti d’Hitalya come il “pirata damerino”.
Ma la disperazione aveva gettato diverse volte Vincenzo nelle spire dell’alcol, e Valentina l’aveva riportato diverse volte a bordo ubriaco fradicio e con le lacrime agli occhi.
L’essere cresciuto troppo in fretta a causa della malattia della madre e l’assenza del padre, con due sorelle da crescere e l’ignoranza della gente da fronteggiare, lo avevano sempre fatto sentire come se tutto dipendesse da lui, soprattutto ora che alla miseria si erano aggiunti tutti i rischi e le privazioni della vita da pirata, vita che impediva alla famiglia di trascorrere un’esistenza normale, con una casa, un lavoro…
Invece la loro vecchia casa nel porto di Siracusa l’avevano venduta, per pagare i debiti contratti per pagare le cure della madre.
Adesso l’unico tetto che avevano era quello del castello di poppa della Fenice. A questo pensava Valentina mentre ritornava sulla nave, mentre il sole e il mare si fondevano nel magico tramonto del golfo di Napoli. Sorrise.
Di tramonti ne aveva visti tanti, ma quello di Napoli era sempre il più suggestivo, la incantava ogni volta di più, e le sembrava quasi un simbolo della Meridia: il sole e il mare, i due fattori che abbracciavano l’impero donandogli vita e prosperità, si fondevano assieme di fronte ai magnifici palazzi della capitale.
Chissà se in quel momento anche l’imperatore stava guardando il tramonto, da una delle terrazze che si aprivano in cima a Castel Nuovo…
 
 
 

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