That place between sleep and awake

di Melchan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Che brivido avrai, quando m'incontrerai ***
Capitolo 2: *** Questo bellissimo cielo stile Monet ***
Capitolo 3: *** Cause perse ***
Capitolo 4: *** Halos ***
Capitolo 5: *** A thousand miles down to the sea bed ***
Capitolo 6: *** Immeritato ***



Capitolo 1
*** Che brivido avrai, quando m'incontrerai ***


!!!!!!!!!!!!!!!!!LEGGERE PRIMA DELLA FIC!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Buondì o/° Sono una piccola nota introduttiva, e vi prego con tutto il cuore di non ignorarmi.

Allora, questa qua è un'Inception!AU, ovvero un Alternative Universe ambientata nel mondo di Inception (d’oh!). Se avete visto il film nessun problema, spero vi piaccia e ci salutiamo qui 8D

Se non l’avete visto e avete comunque voglia di leggerla (tanto amore su di voi), vi metto due righe con le cose da sapere per capirci qualcosa.

“Il mondo di Inception” è semplicemente il nostro mondo, dove però è stata inventata una macchina (il Pasiv) in grado di far sognare le persone insieme.

Traduzione: un gruppo di tizi si addormentano stando vicini vicini, attaccati alla fantascientifica macchina, e il risultato è che si ritrovano tutti nello stesso sogno e fanno COSE.

Nel film Inception c’è un gruppo di professionisti che devono andare a impiantare un’idea nel cervello di un ragazzo, convincendolo che questa idea sia sua e non siano stati loro a ficcargliela in testa, ma il film fa capire che nei sogni si possono fare anche tante altre cose, come vivere l’equivalente di una vita completa in poche ore o diventare onirici Arsenio Lupin e rubare idee altrui.

Detto questo, cercando di non raccontare tutta la storia nelle note introduttive XD ecco due termini due che vi serve sapere:

Limbo: il Limbo mentale è uno strato profondissimo della coscienza, e se il sognatore ci cade o non si sveglierà più, o si sveglierà e sarà ridotto a un infermo mentale che non capisce cosa è successo/dov’è/chi è/avete afferrato.

Totem: Sono piccoli oggetti che i sognatori si portano sempre dietro per poter capire se tanno lavorando (ovvero sono in un sogno) o se è la realtà. La caratteristica è che, quando il sognatore sogna (e quindi l’oggetto non ce l’ha davvero con sé, lo crea la sua mente), l’oggetto cambia rispetto alla realtà. Esempio: nel film il protagonista ha un trattola; quando sogna, se le dà la spinta la trottola gira all’infinito, non smette più. Nella realtà, per via della nostra amica/nemica Fisica, ciò non accade.

Se non siete ancora fuggiti vi voglio bbbene e vi lascio alla fic.
Ultimissima nota: il titolo e la citazione (penso lo abbiate già capito ma precisiamo) sono tutti da Re del blu di Nightmare Before Christmas <3<3<3




Che brivido avrai, quando m’incontrerai

Avrai visto e toccato il più grande terrore che c’è.


Prologo

Ovviamente non ci furono funerali.

Sherlock non era morto, si trovava solo di un passo avanti a tutti gli altri pazienti che vegetavano nell’ala più silenziosa dell’ospedale - dopo l’obitorio.

Sarah non aveva indagato su quello che suo fratello aveva spiegato o raccontato alla famiglia, ma supponeva che avesse a che fare con i rischi del mestiere o qualcosa di simile. Si era stupita lei stessa nel ritrovarsi a pensare a cose del genere, che a conti fatti non le importavano niente, ma la prima volta che si era trovata davanti la porta chiusa della stanza di Sherlock si era chiesta cosa avrebbero raccontato a sua madre.

Dopo si era detta che magari erano solo lui e suo fratello Mycroft, ma per qualche motivo si era immaginata da subito che Sherlock avesse ancora almeno una madre.
Una vecchia signora innamorata del suo bimbo geniale e arrogante.

Dopo si era detta che era ingiusto, non sapeva nulla della vita personale di Sherlock: magari sua madre era proprio una delle cause per cui era diventato così. Forse era riuscito a irritare a morte persino lei, e così la sua stessa madre era stata la prima a trattarlo come l’immenso rompiscatole che era.
Per qualche motivo non riusciva a convincersene.


Si era concessa di indugiare su pensieri riguardanti Sherlock solo il primo paio di giorni dopo l’incidente, poi ci aveva dato un taglio. John aveva bisogno di aiuto pratico, qualcuno che stesse con lui, gli facesse compagnia e si assicurasse con discrezione che non facesse sciocchezze in preda alla disperazione. Probabilmente pensava lui a Sherlock abbastanza per tutto il Regno Unito, se non per tutto il mondo; le elucubrazioni di una che lo conosceva nel modo più superficiale possibile, e non lo aveva nemmeno in simpatia, erano inutili e vagamente da arpia.

I suoi buoni propositi divennero più difficili da seguire il terzo giorno, quando si rese conto che John non sembrava volerla intorno. “Starò bene”, “Non preoccuparti” e “Voglio stare un po’ da solo” erano la maggior parte delle parole che le rivolgeva, e sarebbe stata prontissima a reagire e rifiutare con fermezza, se nel pronunciarle non fosse stato così assurdamente calmo.

Dopo tre giorni in cui aveva cominciato a sentirsi più che altro un’impicciona, che John era troppo educato e troppo inglese per cacciare via in malo modo, gli chiese cosa avesse intenzione di fare con il lavoro all’ambulatorio.

Sarah poté osservare il suo volto appena coperto dal vapore del tè (che in via del tutto eccezionale gli aveva preparato lei) diventare il più stupito del mondo.

- Il lavoro? Verrò, perché non dovrei? -

Lei gli chiese se era sicuro.

- Certo, sarebbe assurdo il contrario. - le rispose tranquillo. - Rimanere chiuso qui di sicuro non mi farebbe stare meglio. -

Sarah annuì, portò le stoviglie nel lavello ignorando le sue educate proteste e poi si preparò ad andare, ben avvolta nel cappotto, dopo averlo congedato con un “Va’ a letto presto, mi raccomando.” John fece cenno di sì e chiuse gentilmente la porta dietro di lei.

-*-*-*-

- Come ti sembrava? -

- Come al solito, non l’hai visto stamattina in clinica? -

- Sì, ma mi preoccupo lo stesso. -

Gregory sospira da dietro la cornetta.

- Non c’è motivo di farlo, non più del solito. È sempre uguale, tranquillo e spento. -

- Confermi la mia idea che sembri uno zombie, allora? -

- Uno zombie sazio, se proprio tieni al paragone. Altrimenti sarebbe parecchio più agitato. -

Si sforza di fare un mezzo verso sorridente, per farlo contento. Gregory è gentile con lei, si merita un po’ di complicità quando cerca di smorzare l’atmosfera.

- Ci sentiamo presto, allora. -

- Sì, stai tranquilla. Dico davvero, a questo punto si può solo aspettare e vedere come evolve la situazione. -

Quando fa uscire l’ispettore di polizia che è stato per cinque anni, invece, le viene solo voglia di riattaccargli sul muso. La irrita da morire anche quel tono determinato, come se si aspettasse di veder Sherlock saltare su dal suo letto d’ospedale da un momento all’altro, per chiedere dove sono i suoi vestiti. Pure lui, ma che problema hanno?

- Va bene, grazie. Ciao. -

Mette giù, chiama l’infermiera e le dice di far entrare il primo nome delle visite pomeridiane.

Non controlla neanche il cellulare per vedere se John le ha scritto qualcosa nel frattempo, sa che non lo ha fatto. Si chiede distrattamente quanta voglia abbia di vederla quella sera (okay, magari non tanto distrattamente), poi decide che sono domande da ragazzina e sposta una sedia per la signora Wilkins.

*

S’incontrano davanti al ristorante, lui le fa un cenno con la mano mentre Sarah sta ancora scendendo dal taxi. È arrivato in anticipo, molto strano. Glielo fa notare mentre entrano nel ristorante, la mano ben lontana dai suoi fianchi. Prima dell’incidente John gliene appoggiava sempre una sulla schiena: era calda e non faceva mai pressione, le piaceva sentirla. Adesso è come se la dimenticasse, non gli viene neanche in mente.

Ordinano carne e vino, John fa un cenno negativo al cameriere quando tira fuori l’accendino per le candele. Sarah non dice niente.

- Scusa, ho un po’ di mal di testa. - le dice dopo che il ragazzo se n’è andato insieme alle due candele che erano sul loro tavolo. - Le fiammelle mi darebbero fastidio. -
Gli sorride. - Non preoccuparti, non c’è problema. -

Non puoi certo pretendere romanticismo dal tuo fidanzato due settimane dopo la caduta del suo migliore amico in uno strano Limbo mentale, no?

Mentre aspettano John le chiede come è andata al lavoro, lei risponde simulando entusiasmo ed evita ogni domanda sul suo, di lavoro. Quello vero, dove passa pomeriggi e serate senza bisogno di fare turni. Sarah si chiede per un momento quando è stata l’ultima volta che ha fatto uno straordinario in ambulatorio, e gli vengono in mente solo episodi vecchi di mesi e mesi, forse addirittura di un anno prima.

- Come sta Gregory? - chiede poco dopo mentre taglia il pollo. In quel ristorante sono veloci, è una cosa che ha sempre apprezzato nella gente. Solo in Sherlock le dava fastidio, perché lo era tanto più di lei.

John non alza lo sguardo dal proprio piatto, anche lui impegnatissimo a tagliare bocconi di carne alla piastra. - Tutto normale, ci coordina bene come al solito. Si è separato dalla moglie di nuovo, però. -
- Mi dispiace, non se lo merita. -

John annuisce. - Lo penso anch’io. Spero risolva presto la situazione. -

Le viene in mente una cosa, e fa una domanda a John senza prima passare al vaglio ogni parola per essere sicura che non sia scomoda. Non lo fa da due settimane, e per un momento si sente libera, spontanea.  - Sai come mai hanno litigato? Le ha fatto qualcosa, o è stata lei? -
John continua a guardare il suo piatto, e borbotta qualcosa sul bisogno di attenzione. - In che senso? Pensavo avessero risolto la questione. - aggrotta le sopracciglia senza sentire davvero il bisogno di farlo. -  Sapevo che Gregory le aveva parlato di nuovo, pensavo avesse capito che un lavoro come il vostro richiede molto tempo. -
- Non è per quello. -
- Cosa allora? - Lo sa che è stupido insistere su una cosa del genere, che non sono affari loro, ma per qualche assurdo e futile motivo vuole sapere.
Vuole sentirglielo dire.

John posa le bacchette sul piatto. Forte. Non abbastanza per far girare gli altri tavoli, ma Sarah sobbalza come se le avessero fatto “buh!”. Si morde un labbro.
Un istante dopo John la guarda, poi fissa le posate che ha lasciato cadere sul piatto di porcellana. - Scusa. - le dice. - Anche per le candele. -
Lei scuote la testa con forza. - Stai tranquillo. So che non ti senti ancora bene, non fa nulla. -
- Invece fa. - ribatte John, un filo meno calmo di quanto è stato fino a quel momento. Adesso scuote la testa lui. - Ti sto trattando malissimo, lo so. Io non… non ti considero abbastanza, anche se fai tanto per me. In questo senso, sono sicuramente peggio di Lestrade. -
- Ti ho detto che non importa, in questo momento hai il diritto di essere strano quanto ti pare. Sei ancora in lutto, non è… -
- NON E’ UN LUTTO! -

Questa volta la gente si volta. Sarah lo guarda negli occhi sgranati e capisce che non se n’è accorto.
- John, abbassa la voce. Non ha senso mettersi a fare piazzate qui. -

Lui sembra rendersi conto solo in quel momento anche di essere scattato su dalla sedia, e si rimette giù subito. Pian piano gli altri clienti, probabilmente persone senza migliori amici caduti in stato vegetativo da poco, smettono di guardarli e tornano alle loro cene.

- Lo vedi? Mi dispiace. - Le dice, massaggiandosi la fronte con due dita.
- È la prima volta che scatti da quando è successo. Era anche l’ora, John. -

Lui le fa il fantasma di un sorriso.
- Forse hai ragione. La prossima volta cercherò di farlo senza platea. -
Lei avvicina una mano al suo viso, come poco tempo prima gli avrebbe preso un braccio mentre passeggiavano. John la lascia fare, ma Sarah sente che non reagisce in nessun modo, tantomeno con l’espressione allegra che pochi mesi prima gli fioriva sul volto a quei gesti.
In effetti è chiedere un po’ troppo. Tra un paio di mesi, forse.

Tornano a casa dividendo lo stesso taxi, lei gli chiede se vuole bere qualcosa e John rifiuta gentilmente. Sarah non insiste, e non lo fa nemmeno quando lui decide di pagare il taxi per entrambi, dopo che gli ha già concesso di pagare da solo tutto il conto del ristorante.
Si sporge per darle un bacio, e Sarah per un momento si emoziona come una scema. Almeno, scema ci si sente quando si aspetta che il bacio diventi profondo e invece John si scosta dopo aver appena sfregato le labbra contro le sue.
Le viene da chiedergli se si sentiva costretto, ma riesce a frenarsi un secondo prima.
- Buonanotte, ci sentiamo domani. In giornata. -
- Va bene, riposati come si deve. -

Entra in casa, facendogli anche un ultimo cenno di saluto senza voltarsi. Sa già che il giorno dopo lui se ne dimenticherà almeno fino all’ora di cena. Anche se è domenica, poco prima che arrivasse la carne John le ha accennato che il giorno dopo sarebbe andato di là, che nella sua lingua significa da Lestrade e gli altri.

S’impone si smettere di rimuginare e appende il cappotto, scalda una tazza di latte caldo e la porta a letto. Beve, si lava i denti e poi legge un paio di documenti per lavoro sotto le coperte, poi prova a fare zapping sul piccolo televisore che tiene in camera ma non riesce a concentrarsi su niente, nemmeno sulle repliche di C.S.I. che le piacciono tanto. Spegne dopo pochi minuti e cerca di addormentarsi.

*

Quando apre gli occhi, ha davanti una fila di sedie arancioni: l’arancio non le è mai piaciuto, ma in quel momento meno che mai. Da fuori non arriva luce e le lampade al neon dell’ospedale danno un’aria irreale a tutto l’ambiente. È lì solo perché John le ha mandato un messaggio per chiederle scusa di aver bucato il loro appuntamento, a mezzanotte passata. Si è svegliata solo perché aveva il cellulare vicino e la suoneria dei messaggi impostata sul volume più alto. Le è bastato leggere le parole “incidente” e “St. Barts”, rintronata di sonno, per scaraventarsi là.
È arrivata in taxi e lì ha chiamato John chiedendo in che reparto erano, col cuore che gli faceva venire male alla gola talmente ci batteva contro. John ha risposto che erano nella sala d’attesa del reparto rianimazione, e lei si è precipitata lì senza nemmeno sapere bene cos’era successo e chi era rimasto ferito. Quando ha visto che lui non c’era, ha capito.

- Che è successo a Sherlock? -
Non va ad abbracciare John, non ci prova neanche. Si siede sulla sedia arancione accanto a lui e aspetta che le risponda, senza nemmeno stupirsi più di tanto quando non lo fa. Non ha mai visto le sue occhiaie così profonde, sembra che qualcuno gli abbia scavato due tunnel sotto gli occhi con un chiodo. Le passa un brivido lungo la spina dorsale, poi le vengono in mente i crepacci dove cade Willy Coyote e sente una gran voglia di ridere istericamente.
Alla fine Donovan le si avvicina e borbotta qualcosa riguardo a un incidente mentre erano dentro. - È finito nel Limbo. Tornarne indietro è praticamente impossibile, perciò se anche una volta finito il sedativo si sveglierà, sarà… insomma, la sua mente… -
- Basta, Donovan. Ne parliamo dopo. - Sarah si gira verso la voce di Lestrade, che fino a quel momento era rimasto vicino a una porta bianca a cui lei non aveva fatto molto caso, occupata com’era a pensare ai cartoni Warner Brothers. Le prende un colpo quando si rende conto che ha gli occhi rossi e pesti come quelli di un drogato. O come uno che ha pianto, ma in quel momento tra le due possibilità le sembra più ragionevole la prima.

Prima che chiunque gli possa rispondere, la porta bianca si apre e ne esce un uomo coi capelli grigi e un camice bianco sporco addosso.
- Chi di voi è un parente? -

- Io. -
Sarah quella voce non la riconosce. Viene da un uomo elegante che non aveva nemmeno visto, fermo vicino all’unica finestra della stanza. Si accorge che hanno dimenticato di chiudere le imposte, si vede il cielo nero, poi ricorda che non ha la minima importanza.
- Sono suo fratello. - L’uomo raggiunge il dottore a passo svelto, compostissimo e gli dice che preferisce andare a parlare in camera del paziente. Sarah si stupisce di sentirglielo chiamare così, come se fosse lui stesso un dottore.
L’uomo con il camice, in teoria la vera autorità nell’assembramento di esseri umani spauriti che ha intorno, lo guarda un momento, poi fissa il documento che l'uomo gli sta mostrando a pochi centimetri dal naso e dice solo “Si accomodi, Signor Holmes”.

Sarah si domanda come si chiami e allo stesso tempo sa che il suo nome è Mycroft. A quel punto capisce di star sognando e batte rabbiosamenti i pugni sulla base della sedia, ma nessuno nella stanza sembra farci caso.
Ovvio, non fanno caso a lei a cose normali, figurarsi in un momento del genere. Anche se il sogno dove si trovano appartiene a lei.

- Non c’è un modo per farlo… tornare indietro? Come funziona? - ripete le stesse battute, perché tanto sa che il sogno non si fermerà (non lo fa mai, ricorda) e si sente stupida come la prima volta. Lei è un dottore, dovrebbe essere l’esperta in queste situazioni, quella che dice agli altri cosa sperare; quando si tratta del lavoro di John però non capisce da che parte sbattere la testa. Questa gente lavora mentre dorme, guadagna coi sogni nel modo più concreto e più astratto possibile, e John le ha detto che lì per salvarsi basta morire. Una laurea in Medicina per loro vale quanto il diploma da estetista alla City.

- No, non c’è. - le risponde Sally Donovan, atona.
- Questo lo dici tu. - le abbaia contro Lestrade.

Lei lo fulmina con gli occhi. - Non essere stupido, sai benissimo come funziona. Tanto vale fartene una ragione subito. -- Tu non capisci di cosa è capace, lui… -

Come nella realtà, Sarah li lascia a litigare e guarda John. Non dice niente e nonostante le occhiaie profondissime, da malato, non ha gli occhi rossi come Lestrade.
- John? - lo chiama a bassa voce, come se fossero in Chiesa - Non ci sono davvero speranze? Dimmelo tu, lo sai che non capisco nulla di queste cose. -
John non le risponde e chiude gli occhi.
Lei aspetta qualche minuto, poi gli controlla il respiro e il polso, delicata. Mentre gli lascia la mano si prende un momento per accarezzarla piano, con dolcezza. Nella realtà non lo ha fatto.
Il cervello di John ha chiuso i battenti per il resto del sogno, lo sa. Aveva bisogno di andarsene.

Resta sveglia lei. Aspetta che il fratello di Sherlock esca dalla stanza dove loro non possono entrare, composto come prima, e annunci che lui sta ancora dormendo e il sonnifero durerà almeno altre otto ore. Dopo vedranno cosa succederà.

L’unica gentilezza rispetto al reale che il sogno le concede, è che i minuti di stasi passano più in fretta. Mentre aspettano Mycroft ascolta le discussioni a voce troppo alta di Sally e Lestrade, ma la mezz’ora scarsa di silenzio che era seguita salta, e Mycroft esce dalla stanza appena smettono di discutere. Quando finisce di spiegare la situazione il cielo diventa bianco in un istante (le torna in mente che in realtà la persiana era chiusa) e non ci sono ore di parole smozzicate, John addormentato, Lestrade che va e torna da posti che lei non sa, sempre con gli occhi rossi. Salta anche il suo pisolino di un paio d’ore.

Arriva la tarda mattinata, invece, sempre stipati nella stanzetta bianca con le sedie arancioni dove senza l’influenza di Mycroft probabilmente non avrebbero potuto nemmeno entrare. Il solito medico coi capelli grigi torna nella camera dove dorme Sherlock, esce e spiega quello che Sarah ha già sognato un numero inquietante di volte da due settimane a quella parte: il paziente è entrato in coma, non si sa se e quando si sveglierà. Come tutte le volte chiede a Mycroft di avvicinarsi per parlare di alcuni dettagli, che, almeno questo Sarah lo sa, significano alimentazione artificiale e altri scomodi particolari che nessuno lì tiene a sentir nominare.
Proprio come nella realtà, dopo l’ultima volta che il medico entra nella stanza dove dorme Sherlock, si scorda di guardare verso John finché non lo vede uscire e terminare il suo discorso sul coma.
A quel punto si gira verso di lui e vede che è sveglio.

- Mi dispiace tanto. - non riesce a dirgli altro. Si sente come se dovesse fare le condoglianze a una giovane vedova, e lo trova molto ironico visto che sta parlando col suo fidanzato.
Prima che John le risponda in qualsiasi modo, Lestrade sputa che forse ora è il caso di avvertire Molly. La Donovan risponde prontamente chiedendo se vuole che le venga una sincope prima di pranzo, e Sarah chiude gli occhi aspettando di svegliarsi, Dovrà comunque saperlo, non ti pare?

“Avrei potuto suicidarmi e svegliarmi” pensa per la prima volta da quando ha capito di essere in un sogno, ma a quel punto ha già aperto gli occhi.

La luce grigiastra di Londra entra dalle fessure delle persiane, e quando sbircia la sveglia sul comodino vede che sono quasi le dieci.
Ci mette pochi secondi a dimenticare cosa ha sognato.

*

Non ha voglia di scendere in strada al freddo per fare colazione con paste e caffè, così sciacqua la tazza della sera prima e mette a scaldare altro latte con cui riempirla. Accende la televisione e si guarda Mrs. Flecther che incontra il suo trentacinquemillesimo cugino di terzo grado e svela che a uccidere il suo amico ubriacone è stata la ragazza della lavanderia. Nel frattempo inzuppa frollini nel latte e si sente bene come non capitava da (due settimane) tempo. 
Prima di pranzo legge qualche altro documento, poi ordina cibo italiano e si sdraia sul divano a cercare altre repliche della Signora in giallo, perché dopo l’episodio della mattina le è rimasta la voglia.
Verso le due e mezza sente il cellulare trillare e lo vede mentre si agita sopra il tavolino davanti a lei. Jessica sta chiacchierando allegramente con la padrona di un bed&breakfast.

“Mittente: Sally Donovan

Come stai? Il tuo ragazzo è di umore peggiore del solito, quanto ti ha già fatto impazzire?”

Sarah si ritrova a sorridere prima di rendersene conto. Ormai può dire che lei e Sally sono diventate amiche: l’aveva già incontrata diverse volte prima dell’incidente, ma quel giorno lei in effetti è stata quella (l’unica) che le ha dato davvero relazione, e da allora hanno cominciato a vedersi. In realtà Sarah ha l’impressione che l’altra la consideri qualcosa di molto simile a un’alleata nella poco silenziosa guerra a Sherlock -  al suo ricordo, almeno. Ma se il loro rapporto è partito da questo, ormai le pare che Sally abbia cominciato ad affezionarsi davvero a lei.

“Come sempre, dopo così poco tempo è normale che non sia in sé. Lì va così male?”

“Mittente: Sally Donovan

Solita aria da mortorio. Stiamo aspettando che arrivi la Hooper con i progetti definitivi del prossimo labirinto, ma è in ritardo.”

“Lei come sta? John non me ne parla mai. L’altro giorno hai detto che pensavi sarebbe stata meglio entro breve, come sta andando?”

“Mittente: Sally Donovan

Non bene, ieri l’altro è scoppiata a piangere su una vecchia sciarpa che lo strambo aveva abbandonato nell’ufficio di Lestrade. Se ci incontriamo ti racconto come si deve, ti torna verso le sei? Solito Starbuck’s?”

“Se tu non sei impegnata col lavoro va bene. A dopo!”

“Mittente: Sally Donovan

Se la Hooper si sbriga sarà una cosa veloce. Il tempo di controllare che non abbia combinato guai, cambiarmi e prendo un taxi. Ci vediamo tra poco.”

A dieci alle sei Sarah è a un tavolino abbastanza appartato dello Starbuck’s vicino al magazzino dove lavorano John, Sally e Gregory. Il tempo di spogliarsi di cappotto, sciarpa e guanti che vede i suoi ricci sulla porta.
La raggiunge con gli occhi già alzati al cielo. Sarah si alza per andare con lei a prendere paste, caffè e cioccolata, borsa alla mano, sperando che a nessuno venga in mente di rubare il suo cappotto in quei pochi minuti di coda.

- Pensavo di impazzire, te lo giuro. - È la prima cosa che l’altra le dice, mentre squadrano la vetrinetta delle paste.
- Giornataccia fino alla fine? -
- Puoi dirlo. Alla fine Hooper è arrivata con i progetti, perfetti, e l’atmosfera era anche migliorata… - si interrompe per indicare una crostatina di frutta e ordinare un caffè nero, paga e poi le lascia il posto alla cassa.
- Dicevo, - continua mentre Sarah prende il portafogli - l’atmosfera si era alleggerita, ma quando ho proposto di chiamare Anderson come Estrattore per questo lavoro è scoppiata. -
Si siedono al loro tavolino, il cappotto ancora al suo posto, e Sarah inarca appena un sopracciglio. - A piangere, dici? Come con la sciarpa? -
Sally scuote la testa. - No, ma pensavo volesse azzannarmi alla gola come un cane rabbioso o qualcosa del genere. È partita con i soliti discorsi sul fatto che non è nemmeno venuto in ospedale e così via, come se cose del genere influissero sul lavoro. - si massaggia le tempie, chiudendo gli occhi per un momento.
- Ammetto di non essere un tipo pieno di tatto. - riprende un momento dopo. Sarah trattiene una risata: è uno dei più grandi eufemismi che abbia mai sentito. - … Ma non può nemmeno pensare che certe sceneggiate le saranno concesse a lungo, se vuole lavorare ancora con noi. Questa volta ho lasciato correre, ma la prossima può scordarsi di fare uscite da prima donna e passarla liscia. -
Sarah sul momento non dice niente e la osserva e basta da dietro la sua tazza di cioccolata. Scommetterebbe soldi sul fatto che non le sta dicendo tutto.
Ormai la conosce quel minimo per sapere che farle domande non servirebbe a niente, e così aspetta con pazienza che faccia da sola.

Sally resiste il tempo di tre sorsi prima di sbottare: - Potranno anche darmi della stronza, non m’importa. Faccio il mio lavoro e lo faccio bene, non prendo soldi per stare una giornata a consolare una specie di vedova mai sposata. Lui non se l’è mai filata di striscio da quel punto di vista, anzi, se ne approfittava per chiederle favori sul lavoro. Che bastardo.-
- … gli altri sono molto comprensivi con lei, vero? - le chiede Sarah, asciugandosi la bocca con un fazzoletto di carta.

- Comprensivi è poco, ci manca solo che le facciano le unghie e offrano biscotti. E poi le vanno a raccontare storie impossibili, il che di sicuro non è fare il suo bene. - E rieccolo, sempre lo stesso argomento. Sarah era sicura che ci sarebbero arrivate, ci arrivano sempre. - Ho perso il conto delle volte che ho sentito quella maledetta frase da due settimane a questa parte. -
- “È solo questione di tempo.” - ripete Sarah, quasi tra sé e sé più che rivolta a Sally. Non ha mai sentito quella frase in bocca a John, ma Lestrade gliel’ha ripetuta al telefono così tante volte che non ce n’è bisogno. All’inizio pensava che non sentire mai parole del genere dalla sua bocca fosse un buon segno, pensava volesse dire che non si faceva illusioni al riguardo, non forti come quelle di Gregory, almeno. Episodi come quello della sera prima le hanno dimostrato che era lei a illudersi.

Sally sospira. Di nuovo. Sarah si domanda se lo facesse così spesso anche prima dell’incidente. - Quello che tutti sembrano volutamente ignorare è che se a finire nel Limbo fosse stato uno qualsiasi di noi, lo strambo avrebbe detto che non c’era niente da fare e avrebbe tirato dritto per la sua strada senza un bah. -
Non ci crede nemmeno lei. Sarah glielo vede nella smorfia che ha in faccia, nel modo deciso in cui ora fissa la tazza e abbassa la testa, come se si vergognasse un po’ di sé. Sarah sente l’ingiusta voglia di urlarle in faccia “non ti azzardare a compatirmi”. Dio, che pena. Tutte e due.
Tutti questi imbarazzi, questi silenzi per non dire quello che è chiarissimo a loro e a chiunque altro li conoscesse.
Se a finire in quella… cosa fosse stato John, Sherlock non si sarebbe dato pace.

Sarah non ne sa abbastanza del rapporto con Lestrade per sapere cosa avrebbe fatto se fosse toccato a lui, ma è del tutto ovvio che se lui e John si fossero scambiati il posto (John lo farebbe, se potesse, sai che è così) – a ruoli invertiti Sherlock sarebbe andato fuori di testa. Un po’ come John, ma in modo meno pacato.

Sarah adesso ha voglia di piangere, e per qualche assurdo motivo le sembra che Sally si senta in modo spaventosamente simile. Eccole lì, quasi in lacrime per colpa di un uomo che non è mai piaciuto, in nessun senso, a nessuna di loro.
Sally ha un bel ripetere che Sherlock è praticamente morto, ma se riesce ancora a sconvolgere così due persone ostili come loro, come possono pretendere che i suoi amici (il suoi amici e il suo grande amore, ammettilo, abbi il coraggio di farlo) si riprendano e vadano avanti come nulla fosse?

- Che ne dici di andare a casa? - chiede, cercando di mantenere la voce più stabile di quello che è. Sally annuisce.
- Penso sia meglio. È stata una brutta giornata. Se però ti va di vederci un film… -

A Sarah non va, ha ancora paura di mettersi a piangere senza motivo (senza motivo, certo, come no), ma questa volta è lei che si sente dispiaciuta per Sally. Ha una faccia tremenda, ha bisogno di qualcuno vicino. Per quel che ne sa lei, l’unica altra persona al di fuori della famiglia che potrebbe chiamare è Anderson. Ma ha l’impressione che non voglia quel tipo di consolazione, adesso.
Ha bisogno di sentirsi importante, almeno un po’. Tu nei sai qualcosa, vero?

Se il genio delle tazze di Starbuck’s apparisse in quell’istante e le chiedesse cosa desidera di più al mondo in quel momento, Sarah non risponderebbe “che John mi amasse la metà di quanto ama il corpo comatoso di Sherlock”, no, risponderebbe: “Fai sparire queste cattiverie che hanno la sua voce.”

*

Sally se ne va da casa sua verso le undici, dopo averla aiutata a lavare i piatti. Hanno cucinato insieme uova strapazzate e verdure (più un pranzetto che una cena, a ben vedere) e dopo due barre di cioccolato, guardando il Fast and Furios ambientato in Giappone. Avevano già concordato telepaticamente di evitare qualsiasi polpettone sentimentale.

Si salutano sulla porta con la promessa di sentirsi il giorno dopo, e per un momento Sally sembra volerle dire qualcos’altro oltre a “’Notte, a domani”, ma all’ultimo lascia perdere.
Sarah chiude la porta sentendosi stanchissima. E pensare che la giornata era cominciata così bene, con il latte, Jessica Fletcher e la luce perlata di Londra che entrava dalle finestre.

Va a letto sperando di non sognare.

*

Si ritrova in un posto che è sicura di aver visto in un film, anche se non ricorda il titolo. Ci sono delle colline a forma di guglia e una luna troppo grande. Davanti ha solo una strada, e non c’è niente da fare a parte percorrerla.
Pensa che sia un posto inquietante, ma non sente paura. Mentre cammina osserva i bordi della stradina: sono grigi come le colline lontane, ma ogni tanto spunta una lanterna accesa. Sarah pensa che devono averle messe i paesani, anche se non sa spiegarsi il perché.

- Che noia! -
Le prende un colpo. Per un momento pensa che deve essere lui, ma le basta guardare gli occhi neri del gatto piazzato in mezzo alla strada, a due passi di distanza, per capire che non è così. La guarda sornione, come farebbe un ragazzino dispettoso (so qualcosa che tu non sai) ed è convinta che Sherlock non sia mai stato capace di fare un’espressione del genere. Lui la disprezzava, e quando decideva di deridere qualcuno lo faceva con un'espressione appuntita quanto i suoi zigomi. Sherlock non farebbe mai finta di essere simpatico, non con me.

- Che noia - ripete il gatto - Tutte queste fiammelle mi fanno venire mal di testa. Sarà meglio spegnerle. -
La testa di Sarah invece gira. Sa dove ha già sentito quella frase, e anche se non ha senso crede che il gatto l’abbia detta apposta per farla piangere.

Che stupido, lei non piange praticamente mai. Non l’ha fatto quando ha provato a toccare con John una settimana dopo che Sherlock era sparito, e lui le ha fermato la mano e ha detto “No, non ci riesco.”
Quando il terzo giorno è andata al 21 di Backer Street  e ha trovato un mucchietto di bigliettini di condoglianze da parte di colleghi di lavoro indirizzati a John Watson, lo ha aiutato a portare fino ai bidoni i fiori con cui erano arrivati e non ha detto una parola.

Ma adesso ha solo tanta voglia di piangere e dire a quel gatto che è cattivo, nemmeno avesse cinque anni. Sta per farlo, ma poi si accorge che il gatto se n’è andato. È apparso giusto il tempo di farla soffrire.

Continua a camminare, sollevata all’idea di essere di nuovo sola. Guarda in su e vede che non ci sono stelle, solo un cielo nero come le penne che usa in ufficio - per casa preferisce quelle blu.
Si chiede dove sbucherà la stradina, perché se guarda dritto davanti a sé non vede altro che quella; una città dovrà pur esserci, e continua a camminare.

Quando pensa “si sta proprio bene, non fa nemmeno freddo” si accorge di due cose: che è in pigiama, e che quello seduto su un sasso tutto bianco a pochi metri da lei sembra proprio Sherlock.
Le dà le spalle e non può esserne sicura, ma quei riccioli sembrano proprio i suoi; è anche magro e dritto come lui.

Le viene in mente che se davvero è lui, quella è la prima volta che lo vede seduto.

- Smettila. - dice, e se davvero aveva bisogno di una conferma eccola lì. Ovviamente è Sherlock, impensabile che potesse smettere di infastidirla solo andando in coma.
- Non ti chiederò cosa dovrei smettere di fare - lo informa, fregandosene del fatto che non si è ancora girato a guardarla - Ma visto che ci siamo vorrei chiederti di non parlarmi più nella testa, se non ti dispiace. -
- Ti assicuro che non metterei piede nella tua mente da sveglia, se così possiamo chiamarlo, nemmeno se potessi. Dev’essere un posto insopportabilmente noioso, pieno di paranoie e preoccupazioni frivole. -
Non pensa nemmeno per un secondo che stia mentendo. Voleva solo una conferma, perché le cattiverie che sentiva avevano un vocabolario e un tono troppo poveri per essere davvero quelle di Sherlock. Figurarsi.

Decide di cambiare argomento. - Ho incontrato un tuo amico venendo qui, lo sai? - Si avvicina un po’, abbandonando il centro della stradina, e quando guarda l’asfalto sotto di lei si accorge che ha cambiato direzione. Adesso si piega in una curva dolcissima, più bianca che grigia, e porta dritto al masso dove siede Sherlock. Per un momento si chiede se sia stato lui, se riesca a piegare la materia anche dei sogni che non sono suoi (dal pochissimo che John le ha detto, il suo lavoro consisteva in qualcosa di molto simile); poi si dà dell’idiota, perché Sherlock non farebbe mai una cosa tanto… tanto dolce. Non per lei.

- Non è affatto amico mio. - le risponde lui.
- Potresti provare con uno spray scaccia-gatti onirico. Ci sono negozi nel Limbo? -

- Se pensi di essere divertente ti sbagli - le sputa addosso Sherlock, le parole rapide come una sparachiodi - I tuoi tentativi di fare dell’umorismo fanno pietà, Sarah. Mi sembrava di avertelo già fatto capire. -

“Sì, moltissimo. Se avessimo una bambina John cercherebbe di convincermi che Sherlock è un nome bisex!”
“Non vorrei le portasse male.”

“È interessante che parliate di avere bambini proprio quando i vostri uteri sono nel periodo di rilascio della materia inutilizzata, non sapevo amaste l’umorismo macabro. Per niente interessante.”

- Già, beh, in compenso io sono ancora viva. -
- Se è un tentativo di influenzare i miei sentimenti, sappi che sei ancora più patetica di quello che pensavo. -
- Io almeno ho ancora una vita, Sherlock. - Sarah si sta arrabbiando. Hanno già tanto discusso da svegli, possibile che non cambi mai nulla nemmeno nei sogni? - Tu sei solo un vegetale attaccato a una macchina, e persino io so che non uscirai più da quel posto. Me l’hanno spiegato bene. -
- Chi, esattamente? La tua amica Sally Donovan? Un luminare della meccanica onirica, non c’è dubbio. -
Riesce a dare della stupida a Sally anche da dentro un sogno non suo. È così tipico di lui.

- Non tutti avranno la tua testa, - continua, cercando di non dargli la soddisfazione di perdere la pazienza - ma chiunque non sia troppo infelice per pensare lucidamente dirà che se anche ti svegliassi, saresti solo un essere sbavante che non capisce cosa diavolo gli sta succedendo. - Non è mai stata così soddisfatta di aver capito qualcosa di quel mondo fatto di sogni e roba che esiste solo nella testa di chi ci lavora.

- Hai finito? - Sarah non riesce a cogliere nemmeno una sfumatura di rabbia nella sua voce. Non ce la farà mai a scalfirlo, vero? - Se è così, avrei un messaggio da farti recapitare. -
Per un momento è sicura, sicurissima di aver capito male. - Scusa? -

- Digli che tra poco non starà più in una tasca. -

Deve ripetersi la frase un paio di volte prima di esser certa che non ha davvero nessun senso.
- Scusa? -

- Ora hai anche bisogno di ripeterti? Hai capito benissimo, recapita il messaggio. -
- Non starà più in una tasca, ma sei impazzito?! Dio Sherlock, se sei davvero tu e non un parto masochistico della mia mente, almeno non comportarti da pazzo! -

Si gira verso di lei. Non pensava l’avrebbe fatto davvero.
- Non sono pazzo. -
È davvero Sherlock, in spirito e ossa di teschio. La luna è gentile con lui, la sua luce gli accarezza il viso come una mamma (è fiera del suo bimbo arrogante e geniale), e fa lo stesso col minuscolo teschio che tiene tra le mani. Lo alza all’altezza del viso di Sarah, che per un momento ha l’impressione le sorrida. - Guardalo bene. - dice Sherlock, più serio di quanto sia mai stato da quando le è apparso - di schiena, ovviamente. Figurati se poteva chiederle aiuto senza schiacciarle l’orgoglio sotto la scarpa uno momento prima - Smettila di provare a pensare metafore e guardalo. -

Sarah vorrebbe almeno provare a disubbidirgli, ma quel minuscolo teschio

(No, ti sbagli. È che Mrs. Hudson ha buttato via il suo teschio.)

le sembra

(Sì, vero. Lo teneva sopra il camino, occupava lo stesso spazio di un portafoto o una tabacchiera. Solo che… beh, che era un teschio.)

bellissimo.

- Vero? Sherlock lo adora! Penso che se non fosse stato per quel mucchietto d’ossa con la buona abitudine di rimpicciolirsi appena lui chiude gli occhi, Sherlock si sarebbe scelto come totem il proprio cervello. Che vanesio - il gatto di prima adesso è accanto ai piedi di Sherlock. Prova a strofinarsi contro una delle sue gambe lunghe, e Sherlock si alza con uno scatto più elegante di quanto lei riuscirà mai a fare.
- Non pretendo che mantenga la tua parola, ma evita di parlare di cose che lei non riuscirebbe a capire.  I suoi tentativi di farlo mi disturbano. -
Il gatto fa un verso allegro e molto poco da gatto.
- Vedo che ti stavi divertendo, ma è tempo di andare amico mio. Sono spiacente, ma anche gli angeli hanno delle scadenze. -
Sherlock lo strina con lo sguardo. - Non sono tuo amico. E qui non c’è nessun angelo. -
- Che scortese che sei. - per un attimo Sarah è certa che il gatto abbia messo il broncio, poi si dice che ha visto male. Deve, per conservare quel fil di fumo che al momento sta al posto della sua sanità  mentale. - Povera signorina Sarah, non mi stupisco che non ti rivoglia a casa a fare il maleducato e sbaciucchiare il suo fidanzato. Sei stato davvero cattivo - la guarda e ride - a scegliere proprio lei. È un peccato che la piccola Molly e re Artù dormano così male in questo periodo, vero? Per non parlare di JohnnyBoy… -
Sherlock si volta verso di lui come se gli avesse dato una frustata sulla schiena. Sarah pensa che la cosa che gli ha visto fare più spesso da quando lo conosce è essere ostile con la gente (quando non è troppo impegnato a strabiliarla, certo), ma si rende conto che è la prima volta in vita sua che lo vede guardare qualcuno come se lo odiasse.
- Sta’ zitto e portami via. Tu - la fissa un’ultima volta, e Sarah riesce a leggere nei suoi occhi grigi da felino che se anche ritiene qualcuno più sciocco e tardo di lei, quel qualcuno può avere solo un paio di nomi. Non mi stupisce che Sally e Anderson lo odino tanto. - Tu non provare nemmeno a pensare di non recapitargli il messaggio. Non vuoi sapere cosa ti accadrà appena chiudi gli occhi se non lo farai. Davvero, non vuoi. - Sarah non pensa nemmeno per un istante che stia bluffando.

Il gatto fa un verso che dovrebbe essere un miagolio, ma assomiglia tanto a un umanissimo “awww” - Ma guardalo, - le dice - l’unica persona che ami la teatralità più di lui sono io. Avresti dovuto vedere la mia morte, una cosa da Oscar. - il gatto le strizza un occhio buio, e mentre loro scompaiono, il cielo nero diventa bianco e la strada sotto i suoi piedi non esiste più, Sarah solo sente solo paura.



Apre gli occhi sul soffitto della sua camera da letto.
Devo dire a John che tra poco non starà più in una tasca.        

La luce grigiastra di Londra entra dalle fessure delle persiane Devo dire a John che tra poco non starà più in tasca e quando sbircia la sveglia sul comodino Devo dire a John che tra poco non starà più in una tasca vede che sono quasi le otto. Devo dire a John che tra poco non starà più in una tasca.                                                       
Non ricorda cosa ha sognato. Devo dire a John che tra poco non starà più in tasca.     

Telefona a John e glielo dice. Quando lo sente piangere, la prima volta dal giorno dell’incidente, non riesce nemmeno a chiedergli perché.

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Capitolo 2
*** Questo bellissimo cielo stile Monet ***


John ha sete. Non fa troppo caldo, ma ha bisogno d’acqua in un modo che gli ricorda certi pomeriggi in Afghanistan.
Entra nel bar più vicino e chiede un bicchiere grande, lascia sul banco un paio di monete e poi si sbriga a tornare in strada.

Non sa con precisione quanto abbia pagato quell’acqua, ma era buona da morire e a trovare un bar ci ha messo più del previsto. Si chiede quanto sarà irritato Sherlock, e appena lo vede capisce che la risposta giusta è la più semplice: moltissimo.

- Abbiamo un concetto diverso della parola minuto. -

- Sherlock, non puoi pretendere che da qui al bar più vicino ci siano davvero sessanta secondi. È illogico. -

- Lo è che tu non abbia aspettato che finissimo. - risponde lui, piccatissimo, e si rimette a osservare la strada come un falco.

John sospira. Prima di imitarlo fa notare che non è colpa sua se sono lontani da qualsiasi via turistica di Parigi, e quando Sherlock non si degna nemmeno di rispondere lascia stare.

*

Due ore dopo sospira di nuovo, stavolta sdraiato su un morbido, tiepido e meraviglioso letto. Sherlock ovviamente non segue l'esempio, e si limita a uscire dalla doccia con i riccioli fradici e un accappatoio troppo corto per le sue gambe infinite.

- Se prendi un malanno pur di non asciugarti i capelli avrai problemi a star dietro al caso, lo sai vero? -

Lui fa una specie di sbuffo stizzito e risponde che non è un bambino, ovvio che si asciugherà i capelli. - All’aria. - aggiunge subito.

John apre un occhio, dopo averlo chiuso tipo tre secondi prima. – Scusa? –

- Ti lamenti sempre che non riusciamo a vedere niente dei posti dove andiamo, visto che l’appuntamento dei capibanda è fissato per domani possiamo anche arrivare da qualche parte. -

Comincia a vestirsi come se fosse solo nella stanza; John non si preoccupa nemmeno più di guardare altrove. Lo osserva mentre si china sulla valigia per prendere un paio di boxer, esile come una lancia e con le ginocchia aguzze che gli fanno da perno per le braccia mentre cerca.

- Sherlock, siamo svegli dalle cinque di stamattina, il turismo non è la mia priorità. - e spinge la faccia contro il cuscino di piume d’oca.

Sherlock sbuffa, in un modo ancora più da ragazzino del solito. John nota solo ora, vedendoli bagnati, che gli sono cresciuti troppo i capelli. Lo fanno sembrare più giovane di quanto già non appaia a cose normali.

- Non ho intenzione di vegetare qui fino a stasera. - Si tampona i capelli con l’asciugamano per un minuto buono, poi comincia a infilarsi i pantaloni e decide di interrompere definitivamente la comunicazione. John sa che se lasciasse fare lo vedrebbe uscire dalla stanza senza aggiungere una parola, offeso e con i capelli ancora umidi.

Lo manda mentalmente a quel paese e si alza dal letto che sperava di non lasciare fino all’ora di cena. Riesce a sentire la soddisfazione supponente di Sherlock senza vederlo in viso, emana da lui come fanno certi sorrisi, gli pizzica la pelle in modo appena meno irritante di quando lo fissa alle spalle.

Si schiarisce appena la voce e dice, serissimo: - Penso che scriverò un messaggio a Mycroft riguardo a oggi, visto che sono i suoi a pagare la camera ha diritto a un po’ di particolari. -

Gli basta lo scatto di Sherlock verso di lui per prendersi la sua rivincita. Gli scoppia a ridere praticamente in faccia, ancora più forte quando lui si rigira subito, offeso.

Mentre continua a ridere e prende la giacca dalla sedia dove l’aveva abbandonata, gli cade l’occhio sulla ciotola di frutta fornita dall'albergo: l’hanno sistemata sul tavolincino davanti alla portafinestra della camera, e la luce del sole fa splendere la porcellana.

È rosa antico, non saprebbe dire quanto preziosa, ma non è questo che lo colpisce: a farlo sono delle pesche che prima non aveva notato, tutte blu. Si chiede se siano frutto di qualche incrocio genetico o cosa: in qualche maniera sono riusciti a renderle dello stesso identico colore della vestaglia da casa di Sherlock.

- Che cosa stai fissando? - John si volta verso di lui, e per un momento resta immobile davanti alla sua faccia: sembra arrabbiato, come se lo avesse visto fare una cosa che non approva affatto. Scrolla le spalle e risponde che non è niente, si era solo incantato.

I lineamenti di Sherlock si addolciscono, in un modo strano che fa tremolare qualcosa proprio sotto la gola di John. Non ricorda di avergli mai visto un sorriso così dolce in viso, come se fosse quasi un’altra versione di sé, più morbida.

- Bene. - dice, e prende il cellulare dallo scrittoio per metterselo in tasca. - Passami una mela. - aggiunge un momento dopo, e John gliela tira da lì. Sherlock l’afferra senza nemmeno guardarla arrivare, e mentre si avvia col suo solito passo svelto verso la porta gli dice anche di portarsi un’arma, per sicurezza.

Gli tira un’occhiata aprendo la porta: - C’è un trenta per cento di possibilità che non abbia visto una spia mentre inseguivamo quei tre. -

John prende il coltellino che ha comprato in città e si chiede tra sé quanto sia biasimabile per aver pensato che in caso di perquisizione ci penserebbe Mycroft.

Vista la situazione, decide che può anche conviverci.

*

Sherlock è già stato a Parigi, e si vede. Probabilmente conoscerebbe le strade anche se fosse la prima volta, anzi, ha sicuramente studiato tutti i percorsi che potevano interessarlo prima di partire, ma cammina come se riconoscesse anche i lampioni a cui passano accanto. Gli dice di stare attento a una scalinata, perché i gradini sono molto ripidi, e quando arrivano davanti a un parco aggiunge “Bene, lo sapevo”.

John si limita a guardarlo a sopracciglia arcuate, e lui risponde che non c’è nessuno nonostante sia domenica, come avevo immaginato.

- Sei già stato qui, allora? -

- Una volta, con mia madre e Mycroft. Da bambino. - Non gli lascia il tempo di replicare e lo supera, avviandosi per il sentiero polveroso che fa da ingresso al parco.

- Come si chiama? - gli chiede John appena lo raggiunge. È un bel posto, anche grande. Si aspetta un nome famoso, ma è strano che ci sia così poca gente di domenica pomeriggio, se davvero lo è.

- Cabrer Steet. -

A John viene da ridere: è il francese più maccheronico che abbia mai sentito, e lui ha sentito Harry provare a parlarlo. È praticamente certo che per qualche strana congiunzione astrale Sherlock non ricordi il nome del parco e se ne sia inventato uno sul momento.

Decide di non pungolarlo nell’orgoglio e si limita ad analizzare la zona come se fosse potenzialmente pericolosa: un prato molto ampio di erba rigogliosa, alberi con rami da cui traboccano fiori chiari, qualche signore anziano e due bambini che giocano con la sabbia di una buca.

Sherlock affretta di nuovo il passo e si mette a descrivergli la vita di una nonnina che sta leggendo un libro su una panchina.
John non ha molta voglia di parlare, preferisce guardarsi intorno e ascoltarlo parlare di foulard scelti da nipoti minorenni.

Camminano per un lasso di tempo che non si sforza di misurare, senza che la luce cambi nemmeno sfumatura, e costeggiano il laghetto sulla destra del parco. Sherlock è in forma, davvero. Parla a macchinetta, ma senza la vena isterica delle grandi occasioni. Sembra solo… beh, sembra solo contento. Sta facendo deduzioni straordinarie, come al solito, ma per una volta sono cose positive. John è sinceramente felice per i tre nipoti affettuosi della vecchietta.

Guarda un cane spuntare da chissà dove e correre accanto a loro prima di sparire tra gli alberi, che sono ancora più fioriti di quanto gli fosse sembrato appena arrivato.

Un momento dopo si ritrova a seguirci in mezzo Sherlock.

- Che vuoi fare? -

Sherlock si sdraia sull’erba a pancia in su, gli dice “non ci tenevi tanto a riposare?”.

Lui lo guarda un po’ stupito, poi decide di imitarlo e appoggia le mani sull’erba dietro di sé, inclinandosi un po’. Un signore legge il giornale vicino al laghetto, i bambini che giocavano con la sabbia sono ancora lì. John riesce a vedere che hanno i capelli dello stesso colore della sabbia con cui giocano, un po’ come lui e Harry da piccoli.

Quando l'occhio gli sale verso il cielo, si accorge che i i fiori rosa cresciuti quasi a grappoli sui rami gl’impediscono di vederlo bene. Si sforza di più e tra le finestrelle lasciate dai rami più alti vede che sembra quasi bianco.

Una ventata tiepida fa agitare i loro vestiti, e Sherlock sbuffa e poi si alza per levarsi il cappotto. Era leggero, primaverile, ma lui sbuffa una seconda volta e dice che fa un caldo insopportabile.

- Non è così terribile. - replica John, ma in realtà fa un po’ troppo caldo anche per i suoi canoni. Toglie la giacca e se l’appoggia vicino.

Guarda Sherlock, sdraiato lì accanto, e nota gli occhi chiusi. Ha un’aria così pacifica, così poco da lui.

Si sbottona i primi bottoni della camicia, per prendere una briciola d’aria in più, e la sua dog-tag gli ciondola sul petto.

Con una mano resta appoggiato all’erba, con l’altra la gira da tutti e due i lati: è liscia, non c’è scritto niente. John non si agita, è sicuro che se il suo cuore fosse monitorato non registrerebbero nessuna oscillazione. D’altronde, quando mai Sherlock dormirebbe per il puro gusto di farlo?

(Quando sono arrivati a Parigi? Che giorno è?)

Quando mai sarebbe così dolce?

John passa una mano sui suoi capelli ricci, e lo Sherlock dagli angoli smussati della sua mente sorride senza aprire gli occhi e dice “Continua”.

“Sicuro.” Risponde lui.

Prende il coltellino dalla tasca dei jeans con la mano libera, lo fa scattare e si trafigge all’altezza del cuore. L’odore dei fiori e lo shampoo di Sherlock gli riempiono il cranio.

-*-

Lestrade lavora in silenzio sulle sue carte, è concentrato e non sente entrare Sally finché lei non sbatte una tazza di caffè sulla scrivania.

- Che c’è? -

- John è di nuovo sotto. Lo sapevi? - a Lestrade bastano i suoi occhi rabbiosi per capire che sa già la risposta. Qualunque cosa dica servirà solo a darle una scusa per sbottare come si deve.
Si passa una mano sul collo, che si è incriccato a forza di stare piegato sui documenti.

- Sì, lo sapevo. Impedirglielo sarebbe una crudeltà, finché si limita. -

- Sai benissimo che non lo sta facendo. - la vede digrignare i denti, e resiste appena all’impulso di dirle di smetterla. - Cosa pensi che faccia quando rimane qui fino a tardi? -

- Lavora. - toglie la puntina da un foglio che tiene attaccato alla lavagna di sughero dietro la scrivania e lo appoggia davanti a lei - Da quando Sherlock è… - si sforza di dirlo per bene - finito dentro Reichenbach abbiamo fatto tre estrazioni, e sono tutte riuscite. -

- È solo questione di tempo. - insiste lei, la fronte corrugata in minuscole pieghe che la fanno sembrare più vecchia.

Lestrade rimane tranquillo. - Io spero di no. Ha retto il colpo sul lavoro, mi auguro che continui a farlo. -

- Non stavo parlando del lavoro. - gli abbaia addosso Sally.

Lui si limita a guardarla, con l’unico risultato di farla innervosire ancora di più.

- Andiamo! Quanto pensi che resista ancora prima di fare la fine di quell’altro? - Scuote la testa, e per un solo, singolo istante sembra abbia voglia di fare qualcosa di assurdo, tipo lasciar uscire un singhiozzo. Lestrade sa che se pure avesse visto bene, e ne dubita, sarebbe solo per John. Non riesce quasi nemmeno più a dispiacersene. - Finirà anche lui a vegetare in ospedale, e tutti quanti qui ad aspettare che si svegli. Ma tanto non accadrà mai. -

Lestrade si alza di scatto, con la sensazione di averne abbastanza, davvero, riserva di pazienza azzerata. Il suo cipiglio basta a chiudere la bocca di Sally in una linea stretta di disapprovazione.

Raggiunge la finestra che dà sulla sala dove tengono il Pasiv. La porta è accostata, ma non ha bisogno vedere John per sapere che ha gli occhi chiusi ed è da un’altra parte.

- Non lo farà. - si rivolge più a se stesso che a lei, sempre in piedi davanti alla scrivania. Non gli serve nemmeno vedere gli occhi Sally, per sapere che sono scettici. Lavora con i dati concreti, lui, ma ci sono casi rari e non sempre piacevoli in cui può farne benissimo a meno.

- Non se ne andrà. - dice. Pensa alla faccia cerea di Sherlock, al Limbo, la bocca serrata di John, gli aghi, i macchinari per l’alimentazione artificiale. - John sta aspettando. -

*

Note di Melchan:

Il titolo è una citazione di Vanilla Sky <3 (messaggio non tanto subliminale: GUARDATELO!).

Comunque, questo è quello che esce dal mio cervello in un'oscura notte pre-esame all'Uni e_e Non so quanti di voi abbiano visto Inception (spero tutti, perché su, dai come fate a non vedere Inception? ;_;), né quanto sia comprensibile la fic senza conoscerlo, ma... spero un minimo, ecco ''XD se ve la sciroppate e non capite nulla, fatemelo sapere e provvederò a rimpolpare l'avviso in introduzione XD Per tutti gli altri, spero vi sia piaciuta anche solo un pochino >_<

A presto :*

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Capitolo 3
*** Cause perse ***


- So che non ti viene mai a trovare. Forse la cosa dovrebbe farmi sentire meglio, ma dato che dimostra l'esatto contrario dell'averti dimenticato chissà come mai non mi rallegra comunque. -
Si soffia il naso, sperando che da fuori non la senta nessuno. Sherlock non la sta guardando, ma tanto non l'ha mai fatto.
- Dovresti vedere che faccia fa quando provo a proporglielo, sembra che lo abbia preso a schiaffi. Penso che questa storia lo renda più infantile di quanto fosse da piccolo, che buffo. Sai Sherlock… - chiude un secondo gli occhi, il sangue le batte forte contro le palpebre, come tutte le volte che  cerca di non piangere anche se ne avrebbe l'istinto. Non aveva voglia di farlo così tanto spesso nemmeno quando andava al liceo. - Dicevo - si schiarisce la voce - A questo punto, penso sinceramente che sarebbe meglio tu ti svegliassi. Sembra strano anche a me, ma a quanto pare vivere senza di te è peggio che farlo con la tua costante presenza a rovinare tutto. -
Si ritrova a stringere forte il tessuto dei vestiti tra i pugni sudati e umidicci. Si sente patetica, sa benissimo di essere una visione tristissima, ma vuole dirlo almeno una volta ad alta voce e al diretto interessato. E' così tanto che pensa quelle cose, senza mai dirle a nessuno, nemmeno a Sally, che sta cominciando a sentirle come malattia. A volte le sembra di avere solo loro al posto del cuore, come se glielo avessero mangiato.

- Quando c'eri riuscivo ad avere qualche ritaglio di lui solo per me, c'erano dei momenti che… - le si chiude la gola  - In certi momenti sembrava proprio che mi amasse, anche se non come con te. Magari non era la più grande storia d'amore romantico dai tempi di Shakespeare, ma una parte di lui - gli punta contro un dito, in un modo teatrale che è sicura apprezzerebbe. Non glielo farebbe capire, ma lo apprezzerebbe - Ma una parte di lui mi amava, e di questo di questo sono sicura. Adesso però non è rimasto niente per me. Sicuramente penserai che è stupido, ma io lo sento, sai? E' sempre stato un uomo gentile, lo è anche adesso, ma non mi ama più perché è troppo occupato a farlo con quel che ricorda di te. -

Ecco, alla fine è riuscita a dirlo. - Potrebbe anche passargli un po' col tempo - con gli anni pensa - ma non sarà mai più come prima. Quindi tanto vale che ti svegli e tutto torni com'era. -
Si alza, si soffia di nuovo il naso cercando di non sentirsi una vecchia sfatta e stanca, riprende il cappotto ed esce dalla stanzetta dove giace Sherlock con l'aria più dignitosa che riesce a mettere insieme.

Fuori dalla porta c'è Mycroft. Sembra un gentiluomo del '900 come sempre, e la guarda tranquillo e insondabile da dietro il suo ombrello nero, puntato contro il pavimento bianco come un grosso chiodo.

- E' gentile a venire a trovare mio fratello. -
- Non fa niente. - risponde lei composta - Mi dispiace che non veda mai John qui, ma temo non se la senta. -
Mycroft scuote appena la testa. - So bene che il signor Watson non è indifferente alla situazione. - La guarda meglio, un po' più attento di prima, come per misurare qualcosa - Dopotutto, li conoscevo. Entrambi. -

Sarah annuisce appena, fingendo di non capire dove vuole arrivare.
- Sa, signorina Sawyer, c'è una cosa che vorrei dirle. E' liberissima di farmi notare che non sono affari miei, ma… - Sarah aspetta la stoccata.
Arriva, con la voce più odiosamente conciliante del mondo. - Nella sua situazione, credo che nessuno avrebbe da ridire se lei decidesse di interrompere la sua relazione romantica con il dottor Watson. Potrebbe essere ingiustamente accusata d'insensibilità se dopo decidesse di abbandonarlo a se stesso, ma una semplice interruzione del rapporto amoroso tra voi non credo che sarebbe una stranezza. Penso che lei abbia già fatto più che abbastanza per proporsi alla santificazione. -
Le sorride come sorride sempre, e Sarah ha voglia di picchiarlo.

- Aveva ragione, non sono affari suoi. Ora la lascio andare da suo fratello, e la prego di non origliare più le conversazioni altrui. -
Mycroft alza appena le spalle. - Penso che in questo specifico caso sarebbe più adatto il termine monologo. Comunque le posso assicurare che non ho origliato. -

La supera, tranquillissimo, e tira giù la maniglia della porta chiusa. - Non c'è bisogno di ascoltare quello che dice a Sherlock per sapere che al momento si occupa di una causa persa. -

Mentre la porta si chiude con un fruscio, Sarah pensa che è la prima volta che sente nominare i suoi sentimenti come una causa persa. A quanto pare essere degli stronzi è un male di famiglia.

*


Note di Melchan:

Ho fatto qualche cambiamento, e dopo l'aggiunta di questa shot ho deciso di mettere tutto insieme e bon. L'ordine di lettura fin qui è quello dei capitoli, i prossimi ancora non lo so, vedrò sul momento cosa fare x_x Spero che a qualcuno possa piacere/interessare, anche se è una storia un po' strana :3 Baci e giga-abbracci a chiunque decida di lasciare un commentino :*

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Capitolo 4
*** Halos ***


Halos

 

Molly Hooper ha conosciuto Sherlock in Dicembre, mentre veniva giù una bufera di neve già acclamata come “la peggiore degli ultimi 20 anni” da qualsiasi mass media su cui avesse messo gli occhi quel giorno.

Era arrivata all'hangar dove la squadra aveva appuntamento con venti minuti d'anticipo, e si sentiva nervosa come ogni volta che doveva vedere una nuova squadra. Dei tre compagni da incontrare quel pomeriggio aveva trovato lì almeno Lestrade, l'unico che conoscesse già e la persona che aveva messo insieme il loro team.

- Nervosa? - le aveva chiesto con un sorriso - Non devi. Sono tutti tipi a posto… beh, a parte Sherlock. Se ti dice qualcosa di strano tu ignoralo e basta. E cerca di non rimanerci male. -

Lei l'aveva guardato e basta. Era il peggior tentativo di rassicurazione che avesse mai sentito, e soprattutto il modo migliore per spaventarla a morte ancor prima di incontrare il fantomatico Sherlock Holmes, noto per essere un genio della meccanica onirica e un grandissimo stronzo.

Lestrade le aveva già accennato qualcosa quando l'aveva chiamata per proporle il lavoro, accennando a "colleghi un po' particolari", ma non aveva mai parlato di non rimanerci male, come se dovesse aspettarsi un bullo da scuole medie.

 

Aveva cercato di calmarsi con qualche respiro profondo, dicendosi che era stupido agitarsi a quel modo e pregando che il deodorante non l'abbandonasse proprio nel momento del bisogno.

Stava ancora borbottando tra sé quando era arrivata la Donovan, il braccio destro di Lestrade, fradicia di neve e con la bocca già impegnata a maledire i guanti che aveva lasciato a casa. Si erano strette le mani (erano davvero gelate in effetti) e dopo averla guardata negli occhi la prima cosa che Molly pensò fu Non le piaccio.

Un'occhiata non era abbastanza per capire una persona, di questo era sempre stata sicura, ma il malcontento di Sally Donovan davanti a lei se lo sentiva addosso come un cattivo odore, tanto per rimanere in tema.

Nell'arco di cinque minuti dal suo arrivo Sally si era liberata di cappotto e sciarpa, aveva tamponato i capelli umidi con un asciugamano che teneva in un cassetto della scrivania, l'aveva messo ad asciugare sul calorifero e poi si era messa a digitare sul cellulare. Dopo un minuto in cui ancora non si vedeva traccia di Sherlock il cellulare di Sally era squillato di nuovo e lei aveva fatto un sorriso, il primo da quando era entrata, e avvertito che alla fine Anderson accettava di fare il Chimico nonostante quello lì.

Lestrade non aveva detto niente e si era limitato ad annuire, ma a Molly non era sfuggito il suo sospiro appena la Donovan aveva voltato le spalle. Non sembrava arrabbiato, solo un po’ stanco. Si appuntò in testa di chiedergli se era tutto okay o prevedeva guai appena fossero rimasti soli, ma a quel punto la porta si aprì un’altra volta e tutti i pensieri di Molly si catalizzarono solo sulla persona che era appena scivolata nell’hangar.

Molly se ne innamorò subito.

 

*

- Sherlock, lei è Molly. Il nostro Architetto. -

Molly aveva pregato Dio di lasciarle sulle guance il suo color londinese pallido naturale, ma quando Sherlock l’aveva squadrata da capo a piedi, passando dalle sue ginocchia stranamente poco stabili alle mani strette a pugno fino agli occhi un po’ troppo spalancati, aveva capito di aver già perso. Il calore sulla faccia le diceva tutto quel che c’era da sapere, e anche se non sempre da quel giorno in poi l’avrebbe ammesso, non aveva dubitato nemmeno per un istante che lui non avesse capito. Lui e tutti gli altri presenti nella stanza.

Avrebbe tanto voluto non essere un libro aperto allo sguardo di chiunque avesse più spirito di osservazione di un mollusco, ma davanti a Sherlock non era riuscita a far nulla, figurarsi nascondere la botta di calore da cui si era sentita invadere.

Era riuscita a tirar fuori solo un patetico - Cia… salve. - e Sherlock si era limitato a passarle oltre e chiedere a Lestrade se potevano cominciare.

Molly s’impegnava sempre nel suo lavoro, ma dopo quel giorno cominciò a metterci un’attenzione tutta nuova. La prima cosa che aveva capito di Sherlock era la sua totale, quasi spaventosa dedizione al lavoro: magari non l’avrebbe mai notata, non davvero, ma la parte di sé di cui un po’ si vergognava pensava che vederlo guardare progetti perfetti, sapere che escogitava piani da attuare in un luogo che lei stessa aveva creato… sarebbe stato un po’ come farlo pensare a lei, anche se a tradimento.

Col tempo Sherlock cominciò almeno a rivolgerle la parola, in effetti: di solito lo faceva per chiederle qualche favore, e Molly quando poteva (e trovava sempre il modo di potere) lo aiutava con gioia. Sapeva che la Donovan la disprezzava per questo, probabilmente aveva cominciato a farlo dalla prima volta che l’aveva vista arrossire, ma per una volta non le importava di quello che pensavano gli altri. Per quanto sapesse di non avere la più minuscola, infima speranza con lui, un cenno con la testa di Sherlock per qualcosa che aveva fatto (non osava quasi sperare che lo facesse direttamente a lei) valeva universi più dell’opinione di una PointMan scontrosa.

 

Poi, un bel giorno accadde John.

 

*

Quando Sherlock aveva portato John Watson al lavoro per la prima volta, Lestrade era stato ben attento a non giudicare.

Sherlock non aveva mai fatto niente di simile, e Lestrade voleva innanzi tutto capire. Era stato un poliziotto, un bravo poliziotto, e sapeva che se l’istinto è importante, tale è anche aspettare di avere delle prove in mano prima di avanzare ipotesi.

 

La prima volta erano scesi tutti nel sogno di un sospettato terrorista per rubare informazioni da portare all’Interpool, e John aveva sparato con un L85A1 a tre proiezioni che si erano lanciate contro Sherlock tutte insieme.

Niente di strano, si era detto. Sono colleghi. Era sicuro che persino Sally durante un lavoro importante gli avrebbe coperto le spalle.

Sherlock ovviamente non l’aveva ringraziato, perché era grato, ma non ubriaco. La sua gratitudine a Lestrade però era bastata, perché lui di solito a malapena guardava negli occhi chi gli salvava il culo.

A John, invece, aveva sorriso.

Uno.

 

Al terzo lavoro erano nella mente della presunta assassina di sei mariti, tutti suoi, e indagavano sulla riva dove la donna passava l'Estate da bambina. Quando una sirena aveva prima baciato John sulla bocca e poi tentato di castrarlo con un coltello che teneva sotto il pelo dell’acqua, fallendo solo perché lui era stato abbastanza svelto da vedere la mano fare un guizzo sbagliato ma ritrovandosi a lottare con una bestia abbastanza forte da tenergli testa e con due denti a sciabola che di sicuro un momento prima non erano lì, Sherlock aveva mollato l’interrogatorio della sognatrice e staccato la testa alla sirena con una sciabola.

E questo non era stata normale amministrazione, non lo era stata affatto, perché quante volte Sherlock aveva lasciato colleghi al proprio destino di dolore e sveglia traumatica senza battere ciglio, troppo impegnato a risultare brillante e risolvere enigmi intricati per aiutarli? Lestrade faceva prima a ricordare quante volte avesse fatto il contrario.

Due.

 

Pochi mesi prima dell’Incidente avevano dovuto collaborare con una famosa ladra internazionale, tale Irene Adler. Alla Adler Sherlock era piaciuto tantissimo. A John la Adler non era piaciuta neanche un po’, nonostante fosse una donna davvero bella e la passione di John per le donne davvero belle fosse cosa nota. Visto che Sherlock parlava male e trattava come pezze da piedi tutte le ragazze con cui John usciva, Lestrade aveva pensato che in un certo, malsano senso adesso erano pari.

Gli sbuffi, le occhiate al cielo e i commentini di Sally e Anderson si sprecavano ogni volta che si ritrovavano tutti insieme, e Molly guardava la Adler come se le avesse fatto un torto personale. Lestrade non poteva biasimarla, perché nonostante Sherlock avesse fatto un’arte del farsi superiore, che quella donna lo avesse colpito era evidente per chiunque si prendesse la briga di conoscerlo un filo e poi si limitasse a osservare.

Lestrade si era sentito poi al centro di qualcosa di molto scomodo e dotato di un equilibrio impalpabile, più che fragile, quando John aveva reagito a una moina più spinta del solito da parte di Irene con un gelato “John Hamish Watson. Se cercate il nome per un bambino.”

Per un momento era stato certo che John si sarebbe alzato dalla sedia e se ne sarebbe andato, mortalmente teatrale (non quanto Sherlock, ovviamente, ma visto che di solito John era l’esatto opposto di teatrale, sarebbe stato comunque d’impatto quanto basta). Non l’aveva fatto, era rimasto seduto dov’era, ma l’atmosfera era diventata lo stesso pesante come un masso. Persino Sally e Anderson non avevano detto nulla, e si erano sbloccati tutti solo quando la Adler aveva ripreso a parlare del progetto di Molly come niente fosse.

Tre.

 Mettendo insieme quei tre eventi e tanti altri momenti sparsi e dolciastri per poi unirli come i pezzettini del più banale e intuitivo dei puzzle, sarebbe arrivato alla sua stessa conclusione anche qualcuno che non fosse Gregory Lestrade. Qualcuno di nome Molly Hooper, per esempio.

 

Dopo l’Incidente, aperti gli occhi John come prima cosa provò a prendere a schiaffi Sherlock per farlo svegliare. Non servì a niente, ovviamente.

Era notte fonda, e quando l’ambulanza chiamata da Sally arrivò davanti all’hangar e illuminò con la sua luce vivida e fastidiosa le finestre e lo stanzone dove si trovavano, Lestrade pensò che quando era bambino alla parola incubo gli veniva in mente un’atmosfera molto più simile a questa che non ai sogni dove si avventurava per lavoro.

Quando erano arrivati Sally era corsa ad aprire, ma Lestrade no, lui era rimasto a guardare John che ascoltava le pulsazioni di Sherlock con gli occhi stretti e ripeteva “no” all’infinito, così piano che se la sua sedia non fosse stata alla sinistra di Sherlock probabilmente non lo avrebbe sentito. Quando John aveva staccato l’orecchio dalla vena del polso di Sherlock, gli aveva stritolato la mano afflosciata tra le sue e aveva detto “Non puoi, non puoi” Lestrade aveva smesso di contare le prove di quale esatto tipo d’amore ci fosse tra Sherlock e John.

Era un amore fottutamente doloroso, un po’ come quello che lo costringeva a ripetersi “passerà, troveremo un modo” ancora prima che i paramedici entrassero a strappare il corpo di Sherlock dalle mani di John, e tanto bastava.

 

*

 

Note di Mel-chan

Ecco un'altra botta di allegria \o/ La fic è per Be!Alterntive 2 di Sherlock Fest Italia (lo era anche Che brivido avrai, quando m'incontrerai=> anime gemelle), AU Libere. Non ho idea di quanti esattamente si fileranno questo capitolo (o questa fic, continuo a stupirmi che ci sia chi oltre a me apprezza questo macello inceptionesco), comunque a quelli: giurin giurello che prima o poi ci sarà anche un finale (che dev'essere con le controballe, quindi piuttosto ci metto sei mesi ma lo pubblico che ne sono soddisfatta). Vabbuò, spero che Molly e Lestrade vi siano piaciuti <3

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Capitolo 5
*** A thousand miles down to the sea bed ***


 

A thousand miles down to the sea bed

 

Mycroft non ha mai sognato Sherlock, dopo che è successo. Sa che la maggior parte dei sogni non si ricordano, che il cervello durante la notte è sempre in movimento, ma non ha nessun ricordo cosciente di  Sherlock nei propri sogni da dopo l’incidente nel Limbo.

È soddisfatto così: non servirebbe a niente, sarebbero solo una seccatura e rischierebbero di distrarlo dalla realtà. E Mycroft non è mai stato il tipo d’uomo che si abbandona a illusioni più... gradevoli della verità.

Per questo è così infastidito, quando apre gli occhi nel bar che si trova sotto l’appartamento di Sherlock e lo vede seduto davanti a lui, con una tazza bianca piena di tè tra le dita lunghe e pallide.

 

- Mi vedi? – chiede Sherlock prima che lui faccia effettivamente qualcosa, e Mycroft si limita a una scrollata di spalle quasi invisibile. Quasi.

- Questo è… inaspettato. Non che m’importi, comunque. -

Mycroft s’impone di non dire nulla finché la sua mente non cambierà scenario e personaggi.  Anche Sherlock non dice niente e così restano fermi lì, seduti a un tavolo immaginario nella sua mente, a bere un tè che Mycroft si è trovato in mano senza sapere chi ce l’ha messo.

Osserva con distacco che il suo cervello non ha fornito proiezioni di altri clienti, oltre a loro c’è solo il barista che ha servito lui e John quando si sono incontrati per parlare della scomparsa della Adler e della reazione di Sherlock.

Mycroft trova lasciarglielo riconoscere scioccamente sentimentale da parte del suo subconscio, ma s’impegna per mantenere un’espressione impassibile. Come la maggior parte delle volte che s’impegna in qualcosa, riesce.

 

- Non dovrebbe mancare molto. – Sherlock rompe il silenzio quando il tè di Mycroft è quasi finito. Lui si limita a guardarlo da sopra la tazza, ripetendosi di non dare troppa importanza a quello che sentirà. Immagina che sarà qualcosa di stupido, considerando il barista.

- Mentre sistemo gli ultimi dettagli continua a comportarti come sempre. E fa’ in modo che John diminuisca la quantità di sonniferi, è eccessiva. -

Un piede di Mycroft lotta per cominciare a battere su un pavimento che non esiste, ma lui non gli dà il permesso di farlo e rimane immobile. Fissa il volto di Sherlock, ripetendosi che è perfettamente normale che sia così realistico, sta sognando suo fratello, dopotutto. Chi potrebbe ricostruirlo meglio di lui?

È ovvio che il suo subconscio sia in grado di ricreare tutto di lui, anche l’illusione dell’esatta e improbabile sfumatura dei suoi occhi.

 

Gli risponde, infine, ma solo perché pensa che così il sogno s'interromperà una volta per tutte e questa… questa cosa finirà. Solo per questo, si ripete, solo per questo. Non è come se volesse aggrapparsi alla stupida illusione creata dalla sua mente per confortarlo, non lo è assolutamente.

- Controllerò. – risponde quindi, appoggiando la tazza sul piattino e sbattendo appena le ciglia quando il rumore di un tuono risuona nel locale poco illuminato.

 - Ci vediamo, Mycroft. - è un suono così basso che Mycroft s’impone di non prestarvi attenzione. Vorrebbe solo che il muscolo a sinistra della sua cassa toracica fosse altrettanto ubbidiente, e smettesse di risuonargli così forte nelle orecchie quando si accorge che dopo il tuono e il suo battito di ciglia Sherlock se n’è andato.

Non fa in tempo a cercare di convincersi che non è mai stato lì, e che quella che sente non è voglia di fare qualcosa che non si permette da quando era un ragazzino, che è sveglio

 

Si è addormentato sulla propria scrivania per la prima volta in quasi vent’anni. Si accorge che la manica sulla quale ha riposato è leggermente sgualcita e la scuote subito. Poi tira fuori il fazzoletto di tela che tiene nella tasca destra dei pantaloni e se lo passa sulle palpebre chiuse per togliere i residui di sonno. Finito, lo ripiega in modo che le parti inumidite dai rimasugli fastidiosi si trovino all’interno e lo rimette in tasca.

Quando esce dallo studio ignora la sensazione degli occhi irritati e sa già come costringere John a diminuire la dose di sonniferi. Avevo già intenzione di farlo, pensa tranquillo. È la verità, ed esserselo sentito dire da una versione con gli occhi aperti (e inesistente, inesistente, inesistente) di suo fratello non la cambierà.

 

*

 

- Awww, ti mancava il fratellone? - miagola il gatto, stirando la schiena e ruotando appena la testa per sgranchirsi il collo.

- Come se fosse possibile. - sibila Sherlock, sedendosi sul bordo stranamente asciutto della piscina dove la versione umana e reale di Moriarty l’ha quasi fatto esplodere.

- Avanti, non fare il timido. È fin troppo semplice capire quando scompari per andare a trovarlo, sai? Terribilmente noioso, da parte tua, considerando che questa è stata la prima volta che ti ha visto. -

- Gli ho detto quello che dovevo. - risponde Sherlock in tono piatto, tenendo lo sguardo puntato sull’acqua scura sotto i suoi piedi. - Adesso posso smettere di perdere tempo cercando di comunicare con lui. –

Moriarty si avvicina, sinuoso e nero, e si siede accanto a lui, facendo ondeggiare la coda sul pelo dell’acqua, senza mai toccarla davvero.

- Aaaah, sei proprio un gran maleducato a non guardare la gente in faccia quando parli, sai? Sembra quasi che queste cose tu le stia raccontando a qualcuno che non sono io. - Sherlock sente i suoi occhi brillare anche senza disturbarsi a guardarli. - Ma non è proprio questo il caso, vero? -

 

Sherlock lo fissa, adesso, e in quello sguardo mette tutto l’odio che sente, per tante cose.

Moriarty sorride e basta, come solo un gatto potrebbe fare, e Sherlock deve concentrarsi per non provare nemmeno un briciolo d’inquietudine fissando i pozzi neri che ha dentro le orbite.

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Capitolo 6
*** Immeritato ***


La sua famiglia non è mai stata particolarmente religiosa. Per questo si sente un po’ stupida entrando in Chiesa, per la mancanza di abitudine. Ha paura che le si legga in faccia l’imbarazzo, l’impaccio.

In realtà basta fare pochi passi per rendersi conto che nessuno fa caso a lei. Ci sono poche persone, distanti tra loro e silenziosissime.

Si bagna i polpastrelli di Acqua santa, li passa sulla fronte facendo il segno della croce come ricorda di aver visto fare a sua nonna durante le messe di Natale. Va a sedersi vicino a una postazione di candele, dove c’è più luce. Stringe le mani in grembo e non guarda nessun punto in particolare.

 

Buonasera. Spero che stia ascoltando, ho pensato che avrei avuto più probabilità venendo nella Sua Casa. Qui ci venivo da bambina, per questo l’ho scelta.

Si sistema meglio sulla panca rigida. Sente le mani formicolare un po’ e le scioglie.

Se gli altri sapessero quello che sto facendo sicuramente mi prenderebbero in giro, perciò cerchiamo di tenerla una cosa tra noi. Ho pensato che valeva fare un tentativo, arrivati a questo punto… sicuramente sa di cosa sto parlando, considerando che è… beh, che è Lei.

Va bene, vengo al punto. Lo faccia svegliare, per favore. So che riceverà tante richieste simili, persone che chiedono i loro cari si risveglino dal coma o altre malattie simili, e sono sicura che lui non creda in Lei… sarebbe stupefacente se venisse fuori il contrario, e sicuramente ci sono tantissime persone con un carattere più altruista, più buono. Ma la prego comunque di pensare anche a lui.

Si stringe la coda di cavallo, che si è allentata nel tragitto da casa a lì. Deve ancora lavare i capelli dalla sera prima, ha fatto tardi in ospedale. Un incidente subito prima che finisse il turno.

Stanno soffrendo in troppi per questa storia, la situazione affonda invece di migliorare e tutto quello che serve è che Sherlock si svegli e torni a fare quello che faceva prima.

 

Ha cominciato a fissare la luce delle fiammelle senza rendersene conto, ed è quello ad annebbiarle gli occhi, non la stanchezza e la tristezza che le covano dentro da due mesi, quello a farle perdere il po’ di contegno che voleva mantenere.

Quindi te lo chiedo per favore, Dio. Fa’ svegliare Sherlock. Fai tornare tutto com’era, va bene anche se non avrà visto nessuna luce salvifica e rimarrà il solito stronzo impenitente di sempre. Va bene anche se la prima cosa che farà appena sveglio sarà insultare qualcuno, o dare a me dell’incompetente. Non se lo merita, non mi merita qui e tu solo sai quanto tutto questo sia ingiusto, ma ti prego, fallo tornare a casa.

 

Si alza dalla panca. Si è rifiutata di piangere per lo Strambo per tutto quel tempo, e di certo non inizierà ora. Ci sono già abbastanza anime candide a disperarsi per il lungo pisolino di Sua Grazia L’essere Superiore, lei sta benissimo nel suo ruolo di acida insensibile che non dimenticherà mai che razza d’infame sia sempre stato Sherlock Holmes.

 *

Quando esce dalla Chiesa, ha cominciato a piovere. Apre l’ombrellino che teneva in borsa e si avvia verso l’uscita della metro da cui è arrivata.

- Sally! Sally, tutto apposto? -

Guarda Sarah correre verso di lei, il suo ombrello nero che ondeggia sopra la testa per il passo affrettato. Sally si lascia osservare dal suo cipiglio preoccupato.

- Sembra… hai una faccia strana. Che succede? Stai male? -

Sono andata a pregare per lo stronzo che continua a rubarti il fidanzato anche dal coma. Sì, sto davvero male.

- Un po’ di stanchezza, nulla di che. Ti va un tè? -

Sarah la guarda pensierosa per un momento, poi annuisce.

- Va bene, ho finito ora di fare un paio di commissioni.  -

- Passami una busta, dai. -

 Sarah gliene dà una senza protestare, a dimostrazione che i tre sacchetti che regge devono pesare un bel po’.

E così se ne vanno in cerca di una sala da tè o uno Starbucks caldo, parlando di tutto tranne Sherlock Holmes.

*

- Stupida. -

- Immagino che il tuo orgoglio stia intonando l’Alleluja, Sherly. -

Moriarty si strofina contro il braccio di Sherlock mentre l’acqua della piscina torna trasparente e le sagome di Sally Donovan e Sarah Sawyer spariscono dalla loro visuale.

Sherlock scuote il braccio per scacciare il gatto, poi si passa una mano sulla manica del cappotto per spazzare via qualsiasi pelo immaginario.

- Se mi rallegrassi di una cosa del genere avrei davvero toccato il fondo. -

- Ma davvero? -

- Assolutamente. - soffia rabbioso - Cosa dovrebbe importarmi delle preghiere a un presunto essere superiore di un’incompetente come lei? -

- Abbastanza da non smettere di guardarla finché non ha finito d’insultarti e pregare il tuo ritorno al Padre Eterno, direi. -

Moriarty è deliziato, e Sherlock lo affogherebbe in piscina se non fosse già morto.

- Non aveva nessun significato particolare. Se avesse evitato di concentrarsi a tal punto su di me avrei potuto evitare di sentire le sue chiacchere fin qui. -

- Davvero convincente, Sherlock. -

 

Decide di ignorarlo e si alza in piedi, avviandosi a larghi passi verso l’uscita della piscina. Si sveglierà, ovviamente. E farà tutto da solo, nessun dio da ringraziare, solo per magnanima concessione della sua stessa mente.

Alla faccia di tutte le sciocche Sally Donovan e delle loro preghiere non richieste, inaspettate e pungenti come un archetto ficcato nel petto.

 

_*_

 

Note di Melchan

Forza gente, ché ci avviciniamo alla fine XD Sto cominciano a plottarla seriamente, non prometto che arrivi prima dell'inizio della terze serie (ho sentito che forse il primo episodio verrà mandato in onda in anteprima a Dicembre... speriamo sia vero!) ma spero davvero di farcela in tempi umani. Quando scrissi il pezzo su John (il cielo stile Monet, insomma) non avrei mai pensato che questa storia mi avrebbe preso tanto, ma mi è proprio scattato qualcosa. So che è una storia stramba e infatti non mi stupisce che non sia commentatissima (anche se chi la segue c'è, e li ringrazio <3), ma io la amo molto e scriverne per me è sempre un piacere.

In questa shot ho voluto provare a far sembrare che a parlare inizialmente fosse Molly, per poi rivelare la verità piano piano X3 Non so quanto successo abbia avuto, ma anche questa è stata una prova divertente ^^

Grazie a chiunque legga, a presto :*

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