HISCORDIA - anima senza dimora

di Alaire94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Quella notte di giugno ***
Capitolo 3: *** Edentia ***
Capitolo 4: *** bugie o verità? ***
Capitolo 5: *** Di nuovo sulla Terra ***
Capitolo 6: *** emozioni che non dovrei provare ***
Capitolo 7: *** Tigri in camera da letto ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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HISCORDIA

anima senza dimora

 

 

 

Prologo

 

C'era un tempo in cui io vivevo ancora felice, in cui il mio cuore batteva nel petto e sussultava ad ogni emozione. C'era un tempo in cui avevo un futuro davanti a me e lottavo perché fosse sempre migliore.

A quei tempi mi piacevano le cose semplici. Mi piaceva preparare il caffè la mattina, sentire il suo aroma spandersi per la cucina ed entrarmi nelle narici. Mi piaceva fare lunghe passeggiate la sera, quando il sole stava per tramontare dietro i profili delle case, colorando il cielo di un insolito color rosa. Ma più di tutto mi piaceva far sorridere la gente, donare attimi di felicità non solo a me stessa, ma anche agli altri.

C'era chi collezionava francobolli, chi monetine. Io collezionavo sorrisi. Sorrisi tirati, sorrisi di gratitudine, sorrisi maliziosi e, più rari, i sorrisi di vera gioia. Per ottenerli cercavo di essere carina con tutti, di aiutare la gente come meglio potevo e la maggior parte delle volte non ricevevo solo la loro felicità, ma anche la mia. Amavo la vita più di ogni altra cosa.

Purtroppo, però, per quanto cerchiamo di tenerci strette le cose che amiamo, c'è sempre qualcuno pronto a portarcele vie, a strapparcele di mano. Non siamo nient'altro che pedine di un destino avverso e non possiamo fare altro che accettarlo.

Eppure a quei tempi non lo sapevo. Volevo solo aiutare gli altri, essere felice, non immaginavo che la mia propensione all'aiuto mi si sarebbe rivoltata contro. Forse tutto ciò poteva essere evitato, ma se tornassi indietro, non cambierei una virgola di ciò che ho fatto. Non ho rancore né pentimento per gli eventi di quella terribile notte di giugno.  

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***

Angolo autrice:

questa storia ha partecipato al concorso "Leggi. Scrivi. Vinci un sogno" indetto da Fazi Editore. Purtroppo non ha vinto e perciò sono lieta di presentarvela :) Spero che vi sia gradita! Qualche parere in merito è sempre ben accetto! :)

 

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Capitolo 2
*** Quella notte di giugno ***


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1

Quella notte di giugno

 

 

«E così questa sera andrai a una festa», ripeté papà, aprendo il frigorifero in cerca di qualche stuzzichino da mangiare in velocità. Era sempre affamato quando tornava dal lavoro e solitamente non riusciva ad aspettare l'ora di cena: dovevano stressarlo all'inverosimile in quel posto.

Annuii leggermente, appoggiando la schiena contro il lavello.

Si sedette a tavola, in mano aveva una brioche confezionata. Si passò una mano fra i pochi capelli bruni e l'addentò con avidità. «Una festa con la musica, di quelle dove devi andare coi tacchi alti?».

«Sì, papà», risposi, questa volta buttando gli occhi al cielo. Quasi mi pentii di averglielo detto; d'altronde era necessario per la richiesta che avevo in serbo.

Vidi il sorriso aprirsi sul suo volto. Inevitabilmente sorrisi anche io, contenta di averne guadagnato un altro. Quello di mio padre era il sorriso più bello: le guance si imporporavano e qualche ruga appariva agli angoli degli occhi, dandogli un aspetto più saggio e allo stesso tempo più divertente.

«A te non piacciono quelle feste», osservò.

Mi sedetti di fianco a lui. «E' vero, ma Debora, la mia amica... sai, mi ha chiesto di accompagnarla».

Assunse l'espressione di chi ha già vissuto troppo tempo per accettare certe scuse. «Ah, Gioia... non me la racconti giusta. Sono sicuro che c'entra un ragazzo».

Questa volta fui io a lasciarmi andare a una risata. «E' vero, ma non è a me che interessa... Debora mi ha chiesto di andare con lei perché vuole conquistarlo e io sono l'unica che lo conosce».

«Chi è questo fortunato?», domandò, sinceramente divertito dalle mie confessioni.

Non ne avevo ancora compreso il motivo, ma le vicende di quel genere lo facevano sempre divertire come un matto. Probabilmente gli facevano ricordare i tempi andati o magari pensava a quanto possiamo essere patetiche noi donne quando c'è di mezzo un uomo.

«Si chiama Leonardo e frequenta il mio stesso corso di teatro».

Annuì, per poi infilarsi in bocca l'ultimo boccone della brioche. Fu allora che decisi di agire.

«Avrei bisogno della macchina stasera...», dissi semplicemente, sapendo che con lui non erano necessarie troppe parole, soprattutto se si trattava di una richiesta.

Si fece serio, incerto se acconsentire. Avevo preso la patente da poco e ancora non si fidava del tutto.

«Va bene, ma fai attenzione, mi raccomando. Sia a te che all'auto!», concluse.

Proprio in quel momento Lorenzo spuntò dalla porta della cucina. «Voglio venire anche io alla festa!».

Capii immediatamente che aveva origliato tutta la conversazione, come suo solito. Aveva dieci anni, ma ancora non aveva imparato a non ficcanasare.

«Non puoi andare con tua sorella: non c'è nessuno della tua età!», osservò papà, prima che potessi rispondere.

Mi avvicinai e mi piegai per raggiungere la sua altezza, guardandolo nei piccoli occhi neri. Aveva un'espressione decisamente afflitta; mi sembrava giusto confortarlo. «Non avere fretta: arriverà anche il tuo momento!», dissi spettinandogli i riccioli bruni.

Aprii il frigorifero, prendendo fuori la tavoletta di cioccolato. «In compenso per te c'è tanta cioccolata, perché non ne approfitti?».

Prese la tavoletta e mi rivolse un sorriso. I suoi erano teneri, forse i più soddisfacenti: mi ricordavano i peluche della mia infanzia.

Mentre Lorenzo mangiava e papà accendeva la televisione, io diedi uno sguardo all'orologio: era decisamente ora di andarsi a preparare.

 

Feci il mio ingresso nel garage adibito a locale con un certo imbarazzo. Avevo infilato un vestito celeste aderente e con una scollatura che consideravo troppo vistosa, avevo reso i miei capelli lisci, facendo momentaneamente sparire la zazzera di boccoli neri, e per la prima volta avevo usato un trucco forse troppo pesante. Mai mi era capitato di osare tanto.

Le pareti della sala erano state coperte di festoni e perfino con qualche luce di Natale, sul soffitto una palla stroboscopica era già in funzione e rendeva l'atmosfera piuttosto inebriante.

Non ebbi difficoltà a trovare Debora in mezzo alla calca: aveva indossato un vestito di un rosso talmente intenso che avrei potuto vederla anche a chilometri di distanza. Tuttavia, riusciva sempre ad essere graziosa con quel suo portamento elegante e i modi gentili. Perfino la sua voce vellutata contribuiva a bilanciare il look stravagante.

«Non ti sembra di aver esagerato?», commentai, sollevando un sopracciglio.

Oltre all'abito, notai che si era rifatta la tinta, colorando i capelli corti di una sfumatura tra il rosso e l'arancione.

«Mi piace molto e poi... devo far colpo», replicò assumendo un'espressione maliziosa.

Buttai gli occhi al cielo e la presi per un braccio. «Togliamoci subito il dente».

Mi lanciò uno sguardo perplesso, ma quando cominciai a passare in rassegna i volti dei presenti, capì che ero alla ricerca di Leonardo.

Lo individuai in poco tempo: si trovava vicino al tavolo delle bevande e parlava con una sua compagna di classe, sorseggiando un cocktail.

Lo raggiungemmo e, dopo aver congedato la sua amica, si voltò verso di noi con un bel sorriso allegro, uno dei più comuni, in effetti, ma di cui non mi stancavo mai.

«Ehi, Gioia! Sono felice di vederti», esordì scoccandomi due baci sulle guance.

Era un bravo ragazzo e piuttosto carino - dovevo ammetterlo - con un paio di perle azzurre e penetranti e capelli sempre a posto. Era perennemente abbronzato; doveva essere merito di tutti gli sport all'aperto che praticava.

Unico difetto: la predilezione per l'alcol e la mondanità. Ecco spiegato un altro dei motivi per cui avevo deciso di seguire Debora alla festa: volevo verificare che tutto andasse per il meglio.

«Ciao, Leo... volevo presentarti una mia amica: Debora», esordii, facendole spazio.

Si strinsero la mano, lei con sguardo a dir poco famelico e lui cordiale come al solito.

A quel punto, mentre cominciavano a scambiare qualche parola, dovetti trovare il modo di togliermi di mezzo.

«Scusatemi, ma devo fare una chiamata», annunciai.

Soltanto Debora si voltò, giusto in tempo per farle l'occhiolino, mentre Leonardo mi salutò con un cenno della mano.

Mi feci strada fra la gente che beveva un drink o che aveva già cominciato a ballare. Mi sentivo finalmente tranquilla: ormai il mio compito principale era finito, dovevo solo controllare ogni tanto che non succedesse nulla di male.

Perciò, visto che non avevo niente di meglio da fare, approcciai il buffet. Avevano allestito una tavolata con stuzzichini vari: pizzette, tartine e panini infilzati con i classici stuzzicadenti con le bandierine. Ne presi uno con quella del Canada e, mentre lo addentavo, immaginai una foresta di aceri canadesi, sentendo l'intenso desiderio di trovarmici: mi avevano sempre affascinato i paesaggi d'oltreoceano.

Ben presto lasciai il tavolo del salato per giungere a quello dei dolci, dove mi ingozzai fino a scoppiare. Non ero solita mangiare in quel modo, ma probabilmente lo trovai un modo per seppellire la solitudine che provavo. Certo, ero in un locale gremito di giovani della mia età , potevo perfino vedere qualche bel ragazzo, ma non conoscevo nessuno e mi parevano tutti troppo occupati per fare amicizia con me.

Quando decisi di aver mangiato abbastanza, uscii dal locale per assaporare un po' d'aria fresca, sorseggiando una coca-cola con ghiaccio e limone.

Un brezza leggera mi fece sventolare il vestito e i capelli, mi diede la sensazione di essere più leggera; avrei quasi voluto farmi portare via dal vento dal tanto conforto che mi donava.

Mi guardai attorno e mi soffermai sulle villette del vicinato: possedevano quasi tutte un bel giardino curato con qualche vaso di fiori, alcune perfino un vialetto in porfido. Potevo vedere le luci accese nelle stanze e da una delle finestre intravidi qualcuno guardare la televisione; per un attimo mi immaginai la vita di quell'uomo, di come trascorreva le giornate al lavoro e il conforto di un comodo sofà e di un buon film.

Aspirai una boccata d'aria, insieme ad un intenso odore di pioggia. Proprio in quel momento un fulmine balenò all'orizzonte e illuminò la notte di un surreale bagliore; evidentemente si stava avvicinando un temporale.

Quando ruotai la testa verso destra, mi sentivo ancora appagata dall'atmosfera serale e rimasi momentaneamente indifferente, incapace di realizzare appieno ciò che accadeva davanti ai miei occhi: un gruppo di ragazzi stava tormentando una ragazza ubriaca almeno quanto loro.

Soltanto la visione di un vestito rosso e di corti capelli dello stesso colore mi risvegliò dal torpore. La risata di Debora ruppe la tranquillità della notte e non potei più ignorare la scena.

Corsi - per quanto i tacchi lo permettessero - verso il gruppetto. «Lasciatela stare!», urlai, attirando la loro attenzione.

Uno di loro, un tipo coi capelli lunghi legati in un codino e un pizzetto sul mento, ridacchiò leggermente. «Vieni a divertirti con noi!».

Si avvicinò barcollando e io indietreggiai, ma non abbastanza perché non sentissi il suo alito alcolico. Quasi rischiai di vomitare i deliziosi stuzzichini che avevo mangiato.

Sospirai, prendendo coraggio. Lo devi fare per lei, mi dissi, mentre con una spinta distrussi il fragile equilibrio del ragazzo che cadde sull'erba umida come un sacco di patate.

Dopodiché agii velocemente e loro erano troppo ubriachi per fermarmi: pestai un piede agli altri due con il tacco a spillo, presi Debora per un braccio e, strattonandola, la costrinsi a seguirmi vicino alla porta del garage.

La guardai negli occhi. Se di solito luccicavano del loro bagliore ambrato, in quel momento erano spenti e vacui.

«Deb, stai bene?», le chiesi, afferrandola per le spalle.

Assunse un'espressione dura; fortunatamente l'alcol non aveva ancora fatto effetto del tutto. «Che diavolo stai facendo?».

Repressi un moto di rabbia, sforzandomi di mantenere un tono calmo. «Quei ragazzi volevano...».

«Volevano farmi divertire e tu la devi piantare di fare la stupida crocerossina! Goditi la vita una buona volta!», gridò, per poi liberarsi della mia presa e sparire all'interno del garage.

La seguii con lo sguardo, a bocca spalancata. Uno strano dolore mi opprimeva il petto, come una spina che non riuscivo a togliere. Quelle parole erano state una stilettata, una pugnalata al cuore.

Avevo sempre cercato di aiutare tutti, di fare qualcosa di buono senza avere nulla in cambio se non sorrisi e rispetto. Invece mi accorgevo di pretendere già troppo: nemmeno la riconoscenza mi spettava.

Mi lasciai scivolare contro il pilastro che sosteneva il portico davanti alla costruzione, sedendomi scompostamente.

Lasciai che le lacrime mi solcassero il viso, che liberassero la frustrazione che provavo.

Avrei dovuto immaginare che prima o poi una reazione simile sarebbe arrivata con la stessa potenza del temporale imminente. Tuttavia, dovevo stringere a me le convinzioni, continuare a perseverare.

Ero nel giusto, in fondo, e prima o poi mi avrebbero ringraziata. Avrei collezionato un altro sorriso.

Rimasi così per un tempo indeterminato, a osservare i fulmini che si abbattevano sempre più vicini, finché non sentii qualcuno avvicinarsi a me.

Mi voltai, incrociando gli occhi azzurri di Leonardo. Non era certo sobrio, ma sicuramente più di Debora, appoggiata a lui: aveva un colorito verdognolo, un sorriso ebete stampato sul viso e si muoveva in continuazione, sebbene non riuscisse nemmeno a reggersi in piedi.

«Portala a casa, per favore: non sta affatto bene», disse Leonardo.

Chiunque, dopo le parole che aveva sputato poco prima, l'avrebbe lasciata senza pensarci.

Io, invece, avevo il difetto di volerle troppo bene e, per quanto mi avesse ferita, non sopportavo l'idea che stesse male.

Mi alzai in piedi e Leonardo mi aiutò ad accompagnarci all'auto, parcheggiata poco più avanti lungo il viale.

Proprio quando la accesi, il temporale scoppiò. Era irruento e, mentre guidavo, faticavo a vedere bene la strada; i tergicristalli erano perfino troppo lenti per la velocità con cui cadeva la pioggia.

Debora si agitava nel sedile di fianco al mio e parlava in modo sconnesso.

«Tranquilla, Deb. Presto saremo a casa».

Lei scoppiò a ridere. Le sue risa si fusero col rombo del tuono che quasi fece tremare i vetri dell'auto.

Un brivido freddo mi corse lungo la schiena, mi fece venire la pelle d'oca.

Mi concentrai sulla strada che ormai era diventata un fiume nero, rischiarato solo dai fanali e dai lampioni a margine.

I lampi squarciavano il cielo, i tuoni spezzavano il silenzio della notte, le gocce di pioggia parevano bucare il parabrezza.

Soltanto qualche minuto e mi sarei fermata davanti a casa di Debora, l'avrei portata al sicuro al caldo della sua abitazione e magari sua madre mi avrebbe offerto una delle sue tisane.

Sarebbe bastato solo qualche minuto ancora per evitare il peggio, ma la fatalità giocò bene le sue carte. Io persi miseramente la partita.

Debora mi abbracciò all'improvviso, trascinandomi verso di con una risata sommessa. «Scherzetto!», gridò allegra.

Mi spaventai; feci un salto sul sedile e persi il controllo dell'auto. Cercai di recuperarlo, col cuore che pulsava in gola e il cervello in acqua, ma l'asfalto era troppo bagnato. Le ruote slittarono.

Tentai qualche manovra, ma nulla che servì a qualcosa. La vettura sbandò verso destra, dritta verso una sagoma nera mossa dal vento. Minacciosa e salda come una roccia.

Un grido mi sfuggì dalla gola, mi gelò il sangue nelle vene.

L'impatto arrivò, mille volte più irruento, violento del temporale che si abbatteva fuori. Tutto diventò nero come pece, come un velo che si stendeva sul mondo.

***

Angolo autrice

Ringrazio quei pochi (ma buoni) che hanno letto il prologo! :) spero che qualcuno riesca ad apprezzare anche il resto della storia 

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Capitolo 3
*** Edentia ***


 

2

Edentia

 

Aprii gli occhi lentamente, compiendo uno sforzo immane. Una forte luce penetrava fra le ciglia tutte le volte che tentavo di sollevare le palpebre, rendendomi estremamente difficoltoso quel semplice gesto.

Quando ci riuscii, subito capii da dove proveniva quella luce tanto forte: il sole, ovviamente. Quei raggi parevano molto più potenti del solito, o forse non ne ero più abituata?

Non ricordavo molto di ciò che era accaduto prima di risvegliarmi. Se ci pensavo, vedevo solo un buio soffocante.

Era senz'altro per questo: ero passata troppo velocemente dall'oscurità alla luce.

D'altronde il sole non poteva spostarsi. E se avesse cominciato a farlo, allora il mondo sarebbe andato a rotoli. Era una certezza matematica.

Mi alzai a sedere e guardai attorno a me con curiosità. Mi trovavo in un letto di narcisi bianchi, al centro di un'aiuola bordata di cespugli di rosa gialla.

Quel luogo era perfetto, come uscito da un film o da uno di quei sogni da cui non vorresti mai svegliarti.

Si trattava di un giardino che pareva estendersi all'infinito in un tripudio di colori allegri. Vi erano aiuole come quella in cui mi trovavo, vialetti di fine ghiaia, alcuni ombreggiati da stupendi ciliegi in piena fioritura, fontane zampillanti dall'acqua cristallina.

Mi alzai in piedi e, dopo aver scavalcato con attenzione la siepe di rose, mi immettei in uno dei vialetti.

Soltanto in quel momento, quando cominciai a camminare incerta, mi accorsi di quanta gente popolasse il giardino e mi stupii di come non l'avessi notata subito.

La maggior parte era vestita normalmente, con t-shirt e jeans scoloriti, altri invece portavano lunghe tuniche bianche con ricami dorati. Ciò, però, che più saltava all'occhio erano i loro capelli: candidi come nuvole, si illuminavano d'argento ai raggi del sole.

Mentre accennavo qualche passo lungo il viale, guardandomi attorno con gli occhi sgranati, la gente arrivava nel senso opposto, lanciandomi qualche sguardo.

Se fino a quel momento ogni cosa di quel luogo mi era parsa allegra e paradisiaca, come una visione celeste, quando incrociai i volti di quelle persone, quell'idea si disperse in un alito di vento.

I loro visi erano statici, scolpiti nel granito. Non avevano espressione emozione, avevano perso ogni calore umano. Gli occhi erano spenti, come palle di vetro colorato infilate a forza nelle orbite.

Mi ricordavano quelle teste di animali imbalsamati appese nelle sale dei grandi castelli; mi avevano sempre inquietata, quando le osservavo provavo lo stesso vuoto allo stomaco che percepivo guardando negli occhi di quella gente.

Come per chi ammazzava a sangue freddo gli animali per averne la testa sopra il camino, provai disprezzo per coloro che li avevano ridotti a quel modo.

Feci ancora qualche passo, andandomi a sedere su una panchina di legno di fronte a una fontana. Non sapevo se definire tutto ciò un sogno o un incubo. L'unica cosa di cui ero sicura era che volevo svegliarmi il più in fretta possibile, aprire gli occhi nella mia camera da letto e vivere la mia vita normale. Magari non me ne sarei neanche più ricordata.

Appoggiai la schiena alla panchina, buttando gli occhi in alto verso il cielo di un azzurro intenso; neanche una nuvola lo attraversava. Tutta quella perfezione cominciava a darmi su i nervi, quasi mi opprimeva.

Chiusi gli occhi, stringendo con forza le palpebre. Adesso mi sveglio a casa, adesso mi sveglio a casa, ripetevo mentalmente in continuazione.

Quando stavo per alzare le palpebre per verificare che il mio desiderio si fosse avverato, una voce mi fece sobbalzare.

«Devi essere Gioia».

Aprii gli occhi di scatto, accorgendomi con disgusto di essere ancora in quel giardino.

Annuii leggermente.

«Salve, io sono Harry», disse lo sconosciuto porgendomi la mano.

Era un ragazzo alto, dai corti capelli candidi e indossava una di quelle tuniche bianche. Il suo volto, tempestato da qualche lentiggine, era granitico come quello di tutti gli altri.

Gli presi la mano, titubante. «Gioia, piacere».

Harry sospirò. «Su, alzati! Ho molte cose da spiegarti prima di lasciarti cominciare il tuo lavoro».

Serrai i pugni, sentendo i nervi tirarsi come le corde di un violino. Mi alzai in piedi di scatto, senza alcuna intenzione di fare ciò che diceva quel tipo. «Che lavoro? E dove cavolo sono?», strillai in un tono che non celava la rabbia.

Harry sospirò ancora, scuotendo la testa. «Matricole!», esclamò.

Mi appoggiò una mano pallida sulla spalla. «Tranquilla, le pulsioni umane ti perseguiteranno ancora per poco».

La rabbia aumentò ancora di più, spingendomi a liberarmi della sua stretta. «Allora? Mi vuoi rispondere?».

«Certo, era proprio di quello che ti volevo parlare. Permettimi di accompagnarti in perlustrazione», rispose, con un gesto galante che calmò in parte la mia irritazione.

Lo seguii lungo il vialetto, dove una leggera brezza gli faceva sventolare la veste. «Questa è Edentia, quello che voi umani potreste definire "aldilà"».

Lo fissai con gli occhi sgranati, non riuscendo a metabolizzare appieno ciò che mi aveva appena detto. C'era qualcosa che mi sfuggiva.

«Come posso fare per tornare a casa?».

Harry prese un altro profondo respiro. «Non tornerai a casa».

Mi sentii mancare la terra sotto i piedi. Dovevo assolutamente tornare a casa: papà, Lorenzo, Debora avevano bisogno di me e io di loro. Non potevo restare, qualsiasi cosa questo tizio volesse da me.

«Io ci devo tornare».

Harry scosse la testa. «Temo che non sia possibile, Gioia. Ormai sei una Harveil, una protettrice, l'Oracolo ti ha scelta proprio per questo».

«Non mi interessa un fico secco di questo Oracolo e di quello che vuole da me, ma io devo tornare a casa, dalla mia famiglia e dai miei amici», affermai, mentre l'irritazione prendeva nuovamente possesso di me.

«Non c'è un modo semplice per dirtelo. Non puoi tornare a casa perché...». Prese un altro respiro. «Perché sei morta».

***

Angolo autrice 

Grazie a coloro che hanno letto e commentato il primo capitolo! Spero che anche questo sia gradito! So che è un po' corto, ma ho ritenuto opportuno suddividere la storia in questo modo, abbiate pazienza: il prossimo sarà più lungo! :) 

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Capitolo 4
*** bugie o verità? ***


scusatemi per il carattere minuscolo ma oggi il programma html rompe le scatole :/ HTML Online Editor Sample

 

3

Bugie o verità?

 

Lo fissai per qualche secondo inespressiva quanto lui, mentre dentro di me si agitavano emozioni indescrivibili e impossibili da far convivere. Mi sentivo esplodere, chiedendomi se sarei riuscita a sopportare tutte quelle fesserie tutte in una volta.

«Tu... tu...». Lo puntai col dito indice, stringendo il pugno dell'altra mano. Volevo insultarlo, ma le mie corde vocali faticavano ad articolare qualche parola. «Tu sei un imbroglione, un bastardo! Non puoi dire queste cose pensando che ti creda!».

A quanto pareva la furia aveva sovrastato qualsiasi altra emozione e aveva preso possesso della mia voce, espellendo parole a caso.

Inspiegabilmente Harry non protestò, rimase impassibile, quasi mi volesse spingere a continuare. Non mi feci pregare.

«Mi avete rapita, portata qui facendomi credere di essere nell'aldilà, ma non mi convincerete a rimanere! Mai! Bugiardi, imbroglioni e rapitori di povere ragazze!».

Mi voltai e cominciai a camminare veloce nella direzione opposta. Solo in quel momento la situazione mi risultava chiara più che mai: dovevo solo trovare la fine di quel giardino e allontanarmi da quella strana setta che mi aveva rapita. Erano solo dei fanatici; non capivo come potessi aver pensato di crederci anche solo per qualche momento.

Sentii dei passi e qualcuno mi afferrò un braccio, costringendomi a fermarmi. «Puoi anche non credermi, Gioia, ma sei una Harveil. Niente potrà cambiare ciò e prima o poi sarai costretta ad accettarlo. Quando lo farai potrai trovarmi qui alla fontana», affermò Harry. Il suo tono era pacato, senza traccia di risentimento o qualsiasi altra emozione.

Mi lasciò andare, permettendomi di continuare a camminare lungo il vialetto.

Camminai senza sosta, sotto i raggi del sole, imboccando viali su viali; ero ostinata più che mai a raggiungere la fine del giardino dove, magari prendendo un autobus o un treno, avrei potuto ritornare a casa.

Proseguii per ore e ore, ma non giunsi mai alla fine. Cominciai seriamente a credere che quel posto continuasse all'infinito, con le sue aiuole e le fontane e il via vai di gente.

Quando mi fermai su una panchina, avevo camminato per talmente tanto tempo che ricordavo a malapena il motivo per cui avevo cominciato a farlo.

Mi pareva passata una vita dal mio incontro con Harry e forse era così - non avrei saputo dirlo con certezza -, eppure non era calato il sole nemmeno una volta e non avevo sentito né fame, né sete, né alcun segno di stanchezza.

Normalmente, camminando così a lungo con le scarpe col tacco, avrei cominciato a sentire dolore ai piedi e quel sole cocente mi avrebbe fatto sudare, ma non era accaduto nulla di tutto ciò. Avevo semplicemente camminato, senza provare fatica.

Era vero, percepivo i raggi del sole accarezzarmi la schiena e la testa, o la sensazione del terreno sotto le suole e avevo ancora i rimasugli del nervosismo, ma ogni bisogno era svanito.

Ciò non mi procurava alcun tipo di fastidio, pareva una cosa normale. Nel profondo, però, sapevo che non lo era affatto.

Seduta su quella panchina, a guardare l'acqua zampillare da un pesce scolpito nel marmo della fontana, si stava attuando una lotta dentro di me.

Harry non aveva detto la verità, niente poteva incrinare questa convinzione. Eppure c'era una voce che sussurrava, da un angolino remoto del mio cervello. Diceva che c'era qualcosa che non andava, che dava importanza a quei bisogni che non avevo più.

Per zittirla del tutto, ricominciai a camminare.

Il vestito celeste che avevo alla festa aveva cominciato a sporcarsi e, ormai rovinato, lo strappai sui lati per permettermi di procedere meglio.

Camminavo, cercando di ignorare i volti scultorei di coloro che incrociavo; erano inquietanti, ci vedevo disprezzo e un vago sospetto.

Dopo aver proseguito per un tempo indeterminato, cominciai a sentire la frustrazione rodermi l'animo. Ormai era chiaro che non c'era una fine o, se c'era, era troppo lontana perché potessi raggiungerla in breve tempo.

Inoltre la camminata non era servita a placare quelle voci, anzi, erano divenute sempre più forti e chiare. Mi stavano trapanando il cervello e con più mi sforzavo ad ignorarle, con più prendevano forza.

Mi sedetti di nuovo, all'ombra di uno dei ciliegi che costeggiavano i viali. Arrotolai una ciocca di riccioli sul dito e, mentre la guardavo, il mio cuore fece un balzo. Erano bianchi.

Provai a spostarmi, in modo che il sole non li colpisse, ma non riuscii a cambiare la sostanza della cosa. Qualche ciocca, da nera com'era, era divenuta bianca come i capelli di tutti coloro che mi circondavano.

Sentii le voci dentro di me farsi ancora più insistenti: non vedi? Stai diventando come loro. Sarai un essere inespressivo e spento; è inevitabile.

Non era vero. Non poteva essere vero. Io ero umana, viva e vegeta e lo sarei sempre stata. Harry diceva solo delle fesserie. Solo delle fesserie.

Sentii qualcuno sospirare e voltai di scatto la testa, accorgendomi solo in quel momento che qualcuno si era seduto di fianco a me.

Era una ragazza; forse aveva più o meno la mia età. I capelli candidi erano lisci e lunghi fino a metà schiena, gli occhi grandi e di un azzurro intenso. Aveva un aspetto grazioso tutto sommato: con quel viso perfettamente ovale e una piccola fossetta sul mento.

«Cosa ci fai qui? Perché non sei dal tuo tutore?», mi domandò, penetrandomi con gli occhi. C'era un briciolo di rimprovero nella sua voce.

«Di che cosa stai parlando?».

Piegò la testa da un lato. «Sei una matricola, giusto? Tutte le matricole hanno un tutore».

Annuii, abbassando gli occhi sulla fine ghiaia sotto i piedi. Cominciai a giocarci col tacco, in imbarazzo. A quanto pareva Harry doveva essere il mio tutore. «Mi ha detto che sono morta, così sono scappata». Sollevai le sopracciglia. «Doveva essere pazzo. Magari potresti dirmi dove posso trovarne un altro che mi accompagni di nuovo a casa».

Alzai lo sguardo su di lei, sperando che stesse scuotendo la testa per la fesseria che mi aveva detto Harry. Non ne capivo il motivo, ma credevo che lei, in fondo, fosse come me. Invece la trovai a fissarmi con la testa ancora piegata da un lato. «Be', è la verità. Sei morta e anche io lo sono».

Sentii mille lame attraversarmi il corpo. Fu una tortura, quella frase lo era per le mie orecchie.

Cercai di trattenere le gambe, impedendomi di fuggire come avevo fatto con Harry. Queste parole mi provocavano l'irrefrenabile desiderio di andarmene il più lontano possibile da colui che le aveva pronunciate.

«So che all'inizio può risultare strano...», aggiunse vedendo che non pronunciavo una parola.

«Strano? E' assurdo!».

Annuì, mettendosi più comoda sulla panchina. «Non è così terribile. Comunque puoi verificarlo tu stessa: mettiti una mano al polso, sul petto o alla gola, dove normalmente sentiresti il battito del cuore».

Per quanto fosse assurdo, mi ritrovai a seguire le sue istruzioni. Appoggiai due dita sulla gola, aspettandomi di sentire il leggero pulsare del sangue nell'arteria, a conferma delle mie convinzioni. Aspettai un bel po', quasi tre minuti, ma non avvertii nulla. Feci la stessa cosa sul petto e sul polso.

Niente di niente.

«Vedi? Il tuo cuore non batte più», affermò.

Avrei voluto ribattere, argomentare, ma non avevo nulla da dire. Purtroppo aveva ragione: non c'era più alcuna prova a sostegno della mia tesi. I miei capelli stavano diventando bianchi, non avevo più alcun bisogno fisico e il cuore non batteva. Ero morta e presto sarei stata come tutti in quel posto.

Tale consapevolezza mi uccise un'altra volta. Niente più emozioni o sentimenti, niente più sorrisi da collezionare. Ero morta.

Le lacrime cominciarono a sgorgarmi dagli occhi, implacabili. I singhiozzi mi scossero la schiena e mi presi il viso fra le mani.

D'improvviso rividi tutto; la pioggia che picchiettava sui finestrini, il ritmo del tergicristalli, il cono di luce dei fanali sulla strada bagnata.

«Tranquilla, Deb. Presto saremo a casa».

Il viso sconvolto dalla sbronza di Debora, la sua risata mentre mi saltava addosso. Poi l'albero che si avvicinava e la violenza dell'impatto.

Piansi ancora più forte, ogni lacrima che ancora riuscivo a piangere. Era stata una cosa così stupida; uno scherzo. E aveva rovinato tutto.

Sentii una mano appoggiarsi sulla mia schiena scossa dai singhiozzi. «Non è colpa tua, sai? L'Oracolo ha deciso il tuo destino. Devi sentirti fortunata ad essere morta così giovane: rimarrai sempre così, non ti vedrai mai vecchia».

Avrei voluto urlarle in faccia che non capiva nulla, che non m'importava di essere vecchia o giovane. Io volevo solo vivere ancora, insieme a Lorenzo, mio papà e ai miei amici. Potevo fare ancora molto per loro.

Alzai leggermente la testa. Il dolore mi stava divorando dentro, ma ne ero orgogliosa: era meglio quello che essere vuoti come questa tizia che mi stava a fianco.

«Forse è meglio che ritorni dal tuo tutore, non credi? Sta a lui spiegarti tutto», suggerì, alzandosi in piedi dopo essersi lisciata la gonna di un vestito a fiori.

Sebbene mi sentissi d'improvviso senza forze, mi asciugai le lacrime e mi alzai dalla panchina.

Mi porse la mano. «Mi chiamo Erika».

La afferrai, un po' contrariata. «Gioia».

«Hai già usato il teletrasporto?», mi domandò.

Scossi la testa, ormai neanche troppo meravigliata. Ero morta; non poteva esserci niente di più assurdo.

«E' facile: basta che pensi intensamente a dove vuoi andare».

Cercai di sorridere. «Grazie, Erika».

Sollevò le spalle, noncurante. «Di niente. Ci vediamo», concluse, per poi chiudere gli occhi e sparire nel nulla.

Abbassai le palpebre e mi figurai nella mente la fontana dove avevo incontrato Harry, con quella donna nuda scolpita che faceva fuoriuscire l'acqua da un secchio che teneva in mano.

Un formicolio cominciò ad attraversarmi il corpo, ma non persi di vista l'immagine. Appena cessò, una vento forte parve spazzarmi via, finché anche questo smise di soffiare e al suo posto udii il vociare della gente, lo zampillare di una fontana.

Riaprii gli occhi, ritrovandomi proprio nel posto a cui avevo pensato.

Harry era seduto sulla panchina, intento a leggere da un grosso libro aperto sulle ginocchia. Ne rimasi alquanto affascinata: era rilegato in pelle marrone, le pagine avevano gli angoli ingialliti e le parole erano evidentemente state scritte a mano con un fine pennello.

Il giovane alzò la testa soltanto dopo qualche secondo. «Cominciavo quasi a dubitare che saresti tornata».

Sollevai le spalle, piuttosto contrariata. «A quanto pare sono stata costretta a farlo».

Fece un leggero segno di assenso col capo e mi invitò a seguirlo lungo un vialetto sulla destra dopo aver lasciato il libro sulla panchina.

Per qualche tempo procedemmo in silenzio. Lui con lo sguardo rivolto a terra e le mani infilate nelle maniche della tunica, io guardandomi attorno e cercando un lato positivo in tutta quella faccenda. Inutile dire che non l'avevo ancora trovato.

Alla fine Harry si decise a parlare, spezzando il religioso silenzio e mettendo fine ai miei pensieri del tutto pessimistici. «Dunque... innanzitutto è meglio che ti spieghi che cos'è un'Harveil», esordì, alzando di scatto la testa.

«Cerchi, per favore, di usare un linguaggio semplice e chiaro. Per me sarà già abbastanza difficile impegnarmi a credere a quello che dirà», precisai, espellendo amarezza da tutti i pori.

Lui annuì. «Non dubito che sia difficile, per tutti lo è stato, ma anche tu riuscirai ad accettarlo».

«Allora, mi dice che cosa sono diventata?».

Sfilò le mani dalle maniche e le portò dietro la schiena, assumendo una camminata alquanto altezzosa. «Un'Harveil è un protettore. Il tuo compito sarà quello di proteggere qualcuno in pericolo, al fine di mantenere l'equilibrio. E' proprio questo il motivo per cui esiste Edentia: l'equilibrio». Si prese una pausa, probabilmente nel tentativo di rendere il suo discorso il più chiaro possibile. «L'equilibrio fra bene e male. Edentia fa sì che la Terra non venga distrutta dai suoi stessi abitanti».

Mi lanciò uno sguardo, probabilmente per verificare che avessi assorbito le sue parole.

Non avevo trovato tali concetti difficili in sé, bensì era la loro astrattezza che mi rendeva faticoso concepirli.

Nonostante ciò annuii leggermente con la testa: ero curiosa di trovare un senso a tutti quegli eventi inspiegabili.

«L'Oracolo sceglie continuamente sulla Terra persone idonee a diventare Harveil e siccome questo è un mondo ultraterreno, a cui non si può accedere se non con la morte, fa cessare la vita mortale di tali individui e ne fa cominciare una nuova: la vita dell'anima».

A queste ultime affermazioni mi ritrovai alquanto confusa. «Quindi l'Oracolo è Dio?».

Harry scosse la testa. «Lui non è Dio. Nessuno qui sa se esiste. Vedi...». Si prese un'altra pausa, mettendosi a osservare la fine ghiaia scorrere sotto le suole delle scarpe. «Ci sono cose che nemmeno noi possiamo sapere. Forse ti aspettavi con la morte di risolvere questo mistero, ma purtroppo non sei stata fortunata: l'Oracolo non ci permette né di sapere qual è la fine di coloro che non vengono scelti, né come faccia a procurare la morte. Noi siamo qui solo per svolgere il nostro lavoro».

Sospirai, frustrata più che mai: era il destino peggiore che potesse capitarmi. Non mi spettava nemmeno il privilegio di scoprire cosa aspetta la gente normale dopo la morte.

«Ma se sono morta come faccio ad avere ancora il mio corpo?», chiesi. Era un quesito che mi aleggiava nella mente da qualche minuto.

«Il tuo vero corpo è rimasto sulla Terra e probabilmente ora giace già in una bara...».

Trovai quell'immagine piuttosto raccapricciante e mi fece provare una sensazione sgradevole indefinibile. Mi disgustava alquanto pensare a me stessa in una bara.

«... Quello che vedi qui è una trasfigurazione corporea della tua anima. E' un corpo normale se non per il fatto che non ha bisogni fisici, che può scomparire nel nulla e altre capacità che ti spiegherò. L'Oracolo ce lo concede per svolgere al meglio il nostro lavoro».

Annuii, annodando una ciocca di capelli attorno al dito. Era tutto così strano, così astratto che avevo l'impressione di sognare. Quanto avrei voluto fosse davvero solo un sogno!

«L'Oracolo che forma ha? E' un uomo? L'avete mai visto?», domandai. Cominciava a incuriosirmi questa figura: era qualcuno che se ne stava al di sopra di tutti, come un comandante che muove i suoi soldati nel campo di battaglia, avvolto da reverenza e mistero.

«No, non si sa che forma abbia l'Oracolo. Egli si manifesta come una voce nella mente, per congratularsi o rimproverare».

Harry svoltò a sinistra e all'orizzonte cominciai a vedere qualcosa. Strinsi gli occhi, cercando di dare forma alle costruzioni che vedevo, ma erano ancora troppo lontane.

«Ti è tutto chiaro?», domandò Harry lanciandomi uno sguardo.

«Ora sì», risposi distrattamente, ancora attratta dalle figure all'orizzonte.

Si passò una mano fra i capelli e si schiarì la voce, tentando forse di attirare di nuovo la mia attenzione.

«Prima di arrivare alle abitazioni, vorrei spiegarti qualcosa sui doveri di un Harveil».

Voltai la testa verso di lui, piantando gli occhi sui suoi, spenti e senza luce. Così quelle sagome erano delle abitazioni?

Avrei voluto chiedere spiegazioni, ma Harry continuò. «Ci sono poche semplici regole da rispettare ... mi segui? E' di fondamentale importanza».

Annuii, cercando di assumere un'espressione più interessata, nonostante quei discorsi cominciassero a stufarmi; avevo talmente tanti pensieri nella testa che non avevo idea di come dominarli tutti.

«Regola numero uno», cominciò sollevando il pollice. «Non potrai mai più cercare di ritornare alla tua vecchia vita. Ogni legame verrà spezzato».

D'improvviso mi feci seriamente interessata. Mi parve di essere colpita al fianco con una forte ginocchiata.

Ogni legame verrà spezzato, ogni legame verrà spezzato, ogni legame verrà... quella frase cominciò a vorticare nella mia mente come una nenia ed ogni volta che si ripeteva mi sentivo sempre peggio.

«Regola numero due», continuò alzando anche l'indice.

C'era un numero due? Non era già abbastanza traumatica la regola numero uno?

«Non potrai più provare emozioni umane. Niente paura, felicità, rabbia... amore o desiderio. Dovrai essere al di sopra di ogni passione mortale».

Fu una mazzata nello stomaco, un colpo brutale che però presto si attenuò, segno che la mia natura di Harveil si stava già lentamente rivelando.

«Non sarà difficile, Gioia. La nostra stessa costituzione propende all'apatia», precisò, probabilmente notando il mio turbamento.

«Regola numero tre». Sollevò il medio. «La tua protetta dovrà essere la prima delle tue preoccupazioni. Regola numero quattro: dovrai rispettare il volere mio e dell'Oracolo. Ultima regola: i poteri di cui sei dotata si usano solo ed esclusivamente per lavoro, non per interesse personale».

Questi ultimi doveri non mi spaventarono più di tanto: non poteva esserci niente di peggio delle prime due.

Harry si fermò d'improvviso, posizionandosi di fronte a me e guardandomi dritta negli occhi: forse voleva assicurarsi che ciò che stava per dire mi entrasse bene in testa. «Quando infrangerai una regola apparirà un simbolo sul tuo braccio sinistro. Soltanto un'infrazione ti sarà perdonata, alla seconda sarai un'Hiscordia, un'anima senza dimora».

Non sapevo bene perché, ma quella rivelazione mi provocò una sensazione strana. Probabilmente se fossi stata ancora viva avrei percepito un brivido. «Che cosa vuol dire?».

«Sarai bandita da Edentia. La tua anima non avrà più un posto in cui stare».

Non ebbi tempo di commentare, ormai giunti alle costruzioni a cui mi aveva accennato.

Harry mi condusse di fronte a una delle abitazioni; erano case in miniatura, da un solo piano e non più grandi di una stanza. Avevano muri bianchi candidi, scuri marroni e fiori lilla pendevano dai davanzali. Circondati da alberi e da altre aiuole fiorite, avrebbero potuto confondersi con l'ambiente circostante.

Harry mi mise fra le mani una chiave e mi fece segno di aprire la porta. Io ubbidii, infilando la chiave nella serratura; si udì un leggero cigolio mentre entravo nella mia nuova casa.

Era arredata nel modo più semplice possibile: al centro vi era un divano di pelle marrone, mentre le pareti erano ricoperte da un'enorme libreria, salvo quella di fondo, in cui si alzava un armadio ad ante scorrevoli.

Soltanto dopo qualche secondo notai che nell'angolo in fondo a destra, vi era anche una specie di piccolo camerino: una cabina le cui pareti erano di leggera stoffa azzurra.

Rimasi alquanto meravigliata da quello che vidi: poteva sembrare un'abitazione come molte altre sulla Terra, ma a ben guardare non c'erano bagni, letti né una cucina, segno che dove mi trovavo bisogni come dormire e mangiare non esistevano più.

«Qui potrai leggere libri per incrementare la tua cultura e nell'armadio troverai qualche vestito pulito per cambiarti», spiegò Harry.

Annuii leggermente, già intenta ad accarezzare il dorso dei libri della libreria.

«Bene, ora ti lascio a familiarizzare con la tua nuova abitazione. Se hai bisogno di me, basta che penserai a me e io apparirò», disse.

Annuii ancora, gettandomi sul divano al centro della stanza. Era più comodo di quanto pensassi: ci si affondava, come avvolti in un abbraccio.

Salutai Harry, ringraziandolo per ciò che aveva fatto per me, per poi prendere uno dei libri della libreria e sedermi sul divano a sfogliarlo con curiosità.

Tutto mi sembrava ancora totalmente assurdo: ero morta, intrappolata per l'eternità in un mondo ultraterreno, destinata a non provare più alcuna emozione. Era assolutamente deprimente, tuttavia qualche lato positivo c'era: dei poteri magici e una stanza tutta per me, dove potevo stare in pace ad assaporare un minimo di normalità, visto che la vera normalità non l'avrei avuta indietro mai più.

***

 

Angolo autrice

scusate per il ritardo enorme e imperdonabile, ma ultimamente non ho proprio avuto tempo di dedicarmi a queste cose... purtroppo l'esame di maturità mi sta risucchiando le energie XD Ad ogni modo, colgo l'occasione per ringraziare tutti i lettori e coloro che saranno così gentili da lasciarmi una recensione

 

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Capitolo 5
*** Di nuovo sulla Terra ***


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4

Di nuovo sulla Terra

 

Camminavo di nuovo lungo una stradina, di quelle asfaltate e non l'inutile ghiaino a cui mi ero abituata negli ultimi tempi.

Abitazioni antiche, costruite le une vicine alle altre come vecchie amiche che non volevano separarsi, fiancheggiavano la strada, facendomi sentire proiettata in un altro tempo e in un'altra realtà.

In vita avevo abitato in una grande città, Roma, dove era difficile incontrare vie strette e tranquille come quella in cui stavo camminando. Lì c'erano larghe strade trafficate, l'aria era impregnata dello smog, le orecchie sempre oppresse da rumori. A Roma c'era tutto: vitalità, maestosità, persone importanti. L'unica cosa che mancava era la calma, quella sensazione di benessere interiore che ti fa procedere con le mani nelle tasche, respirando a pieni polmoni, con l'idea di non avere fretta.

Lì dove mi ero ritrovata c'era poco o nulla di quello che possedeva Roma. Ferrara era una piccola città senza pretese: non c'erano persone importanti, non c'era vitalità se non nei periodi di turismo. In compenso c'era pace, una pace davvero ristoratrice. Nell'aria percepivo il sapore dell'antichità, il conforto di una casa, una leggera punta di mistero data da quei vicoli oscuri e umidi in cui mi ero ritrovata.

Era da qualche giorno che girovagavo per la città, alla ricerca di una certa Milena Ricchi, colei che avrebbe dovuto diventare la mia protetta.

Negli ultimi tempi che avevo trascorso a Edentia, prima di ritornare sulla Terra, avevo imparato a usare i miei poteri: invisibilità, scudi protettivi, teletrasporto, telecinesi.

Nel tempo che avevo passato lì, avevo cercato di essere il più ubbidiente possibile, perfino avevo cominciato a controllare le emozioni, sapendo che con più mi sarei impegnata, con prima sarei tornata sulla Terra.

Ero entusiasta, almeno finché non ritornai e misi davvero di nuovo piede fra la gente. Fu allora che mi accorsi davvero di quanto fossi cambiata rispetto alle persone che camminavano per le strade, che facevano azioni normali e quotidiane come guardare l'orologio da polso o parlottare tranquillamente. Loro avevano mille espressioni diverse: una per il compiacimento, per la rabbia, per l'impazienza, per la felicità...

Avevano mille sorrisi. Quei sorrisi che fino alla mia morte non facevo che collezionare, che mi facevano sentire felice e realizzata, che mi davano un motivo per vivere.

Io mi accorsi di non avere più niente di tutto ciò. La mia pelle era fredda, i miei capelli stavano sbiancando, il mio cuore si stava lentamente ricoprendo di una patina dura che prima o poi nemmeno un martello sarebbe riuscito a scalfire. E la cosa peggiore era che non potevo fare più nulla: era la mia natura, la mia orrenda, inespressiva e apatica natura.

Nonostante quella frustrazione che cercava di penetrare nel mio cuore, ma che inconsciamente reprimevo, mi misi subito al lavoro.

Così, proprio in quel momento, mi stavo dirigendo a casa della mia cara protetta, inoltrandomi nelle vie del centro storico con una cartina in mano: in fondo nemmeno un'Harveil poteva sapere tutto.

Ben presto trovai l'abitazione: era un appartamento al secondo piano di uno di quei palazzi alti che si affacciavano sue vie strette che, da quel che avevo letto sul retro della cartina, anticamente facevano parte del ghetto ebraico.

Ero soddisfatta di aver raggiunto il mio primo obiettivo, ma soltanto dopo qualche secondo, mi accorsi di non avere la minima idea di cosa fare. Come l'avrei approcciata? Cosa le avrei detto? Realizzai con disgusto di non essere più capace di interagire con gli umani, esseri ancora così pieni di vita e di emozioni.

Mentre ero ancora lì, paralizzata davanti al portone, esso si aprì e mi trovai faccia a faccia con una ragazza di circa quindici anni. Aveva l'aria di un'adolescente ribelle, con quell'espressione sprezzante e il piercing al sopracciglio. Portava un abito nero e scollato e, come notai con una certa perplessità, aveva colorato di un verde acceso qualche ciocca dei capelli neri lunghi fino al sedere.

Mi guardò come fossi una svitata scappata dal manicomio. Cosa avevo di strano a parte il colorito cadaverico? E' vero, avevo i capelli bianchi, ma li avevo raccolti e nascosti dentro una cappello.

«Chi stai cercando?», domandò. Il tono era piuttosto aggressivo.

«Una certa Milena Ricchi, la conosci?». Cercai di mostrarmi sicura di me, senza farmi intimidire in alcun modo. Forse se fossi stata ancora umana mi sarei sentita in imbarazzo o irritata, ma quel vuoto apatico che avevo nel petto mi permetteva di controllare la situazione, di essere neutrale. Era questo che intendeva Harry quando aveva detto "al di sopra di ogni passione umana", soltanto così potevo mantenere l'equilibrio.

Sollevò le sopracciglia.«Sono io. Che cosa vuoi?».

Tossicchiai leggermente, avendo la sensazione di somigliare a Harry quando l'avevo incontrato per la prima volta a Edentia.«C'è qualcosa che devi sapere prima che sia troppo tardi. Hai tempo di fare quattro chiacchiere?». Cercai di assumere un tono confidenziale, ma mi riuscì alquanto difficile: quelle che uscirono dalla bocca sembravano le parole che pronuncia un insegnante prima di fare la predica a uno studente.

«Veramente no, stavo uscendo», mi rispose e dalla sua espressione era palese che non le importava un tubo di quello che avevo da dirle. Era comprensibile: quando si è vivi, soprattutto a quella giovane età, si pensa di essere invincibili, di vivere in una piccola sfera indistruttibile che nessun pericolo può sfiorare. Anche io ero così soltanto qualche tempo prima dell'incidente.

Milena stava per passare oltre e avviarsi lungo la stretta via, quando io le afferrai un braccio. Mi fulminò con lo sguardo.«Ma che diavolo vuoi?! Mi hai fatto male!», esclamò, liberandosi dalla stretta e massaggiandosi il braccio; c'erano dei segni rossi sulla sua pelle lì dove le mie dita l'avevano afferrata e io non mi ero assolutamente accorta di aver stretto troppo.

Per un breve momento sentii il senso di colpa oltrepassare la patina dura del mio cuore. Mi ci crogiolai, capendo che da quel momento in avanti tali sensazioni si sarebbero fatte sempre più sporadiche.

«Scusa, mi dispiace», dissi in un sussurro da cui traspariva perfettamente ciò che provavo.

Il vuoto sciolse come acido quell'emozione, scavandosi il consueto posto all'interno di me.«Come ti ho detto, ti devo dire una cosa importante e tu mi devi ascoltare».

Milena attese qualche attimo, tormentando la cerniera della borsa che aveva a tracolla.«Se ti ascolto mi libererò di te?».

Sospirai.«Temo di no, ma ne capirai il motivo solo se mi lascerai parlare».

Esitò ancora, poi, con un movimento brusco estrasse il cellulare dalla tracolla.«Posso almeno fare una telefonata?».

Annuii ed incrociai le braccia al petto, per poi accennare qualche passo mentre Milena avvisava qualcuno che non sarebbe più andata dove doveva andare.

«Ecco, va bene, vieni con me», annunciò una volta aver riattaccato.

La seguii lungo una scala dagli stretti gradini, fiancheggiata da muri macchiati di muffa, fino ad arrivare all'appartamento dove abitava.

Era piccolo e alquanto disordinato: cumuli di vestiti appoggiati sulle sedie della cucina, qualche piatto sporco nel lavello e strati di polvere sui pochi mobili. Fu però l'odore di quella casa che un po' mi stupì: era un fresco profumo di lavanda che donava un'atmosfera accogliente all'ambiente.

Mi esortò a raggiungere la sua camera, senza nemmeno darmi il tempo di dare un'occhiata approfondita alle altre stanze.

Si accomodò sul letto che si trovava al centro e mi indicò di sedermi vicino a lei, sulla sottile coperta beige dai motivi d'altri tempi. Al contrario dell'arredamento piuttosto all'antica, la camera era stata personalizzata con poster di cantanti rock, qualche foto qua e là e schizzi appesi alle pareti con delle puntine.

Mi mostrai sicura, statuaria come la mia natura m'imponeva.«Sei in pericolo», affermai senza mezzi termini.

La guardai, cercando di intuire i suoi pensieri, ma siccome non ci riuscivo, continuai.«Dovresti possedere un oggetto, si tratta di un medaglione, non è così?».

Si fece improvvisamente più interessata.«Sì, apparteneva a mia nonna. Me l'ha regalato anni fa».

Aprì un cassetto del comodino di fianco al letto; era stipato di quaderni, fogli e vecchi giocattoli. La sua mano si diresse con sicurezza verso una scatola ricoperta di stoffa rossa.

Teneva a quel medaglione. Lo vidi dalla premura con cui prese in mano la scatola, la lentezza con cui aprì il coperchio ed estrasse l'oggetto, poggiandoselo delicatamente sul palmo della mano.

Aveva l'aria di qualcosa proveniente da un passato lontano, che aveva visto talmente tanti eventi e passato per talmente tante mani da essere ormai stanco.

Una volta, forse, aveva brillato di un intenso bagliore dorato, aveva attirato sguardi ammaliati e complimenti farciti di invidia, ma in quel momento non aveva che l'aspetto di un vecchio monile, di quelli che si trovano sulle bancarelle dell'usato. Pareva incredibilmente esausto e con quella pietra rosso sangue dalle mille sfaccettature, non diceva altro che buttatemi, distruggetemi. Invece, per quanto triste, il mio compito era proteggerlo.

Milena lo osservò, perdendosi con un sorriso nel colore intenso della pietra.«Sai, mia nonna, quando me l'ha donato mi ha detto che avrei dovuto custodirlo con molta cura, che era qualcosa di importante e antico e che avrei dovuto passarlo ai miei figli perché non andasse mai perduto».

Anche io lo osservai mentre parlava, lasciando che lo sguardo accarezzasse delle ormai illeggibili incisioni lungo il disco dorato in cui la pietra era incastonata.

«Tua nonna aveva ragione». Quando alzai lo sguardo, capii improvvisamente quanto sarebbe stato duro dire quello che dovevo dire.«Qualcuno ti sta cercando perché vuole questo medaglione».

Milena, a quelle parole, lo strinse di più nella mano. C'era qualcosa di affettuoso in quel gesto che stonava col suo aspetto ribelle; dovevo aver pigiato un tasto che la rendeva estremamente fragile.«Com'è possibile? Non è che un vecchio cimelio».

«E' magico, Milena. Creature...». Presi un profondo respiro: quanto mi sentivo ridicola a dire certe cose! «Creature sovrannaturali lo cercano per giungere sulla Terra e conquistare i nostri territori».

Per qualche istante la sua espressione restò imperscrutabile: le labbra erano una linea sottile , lo sguardo leggermente spento. Poi gli angoli della bocca si incresparono finché non scoppiò in una risata divertita che mi lasciò del tutto sorpresa.

«Guarda, mi dispiace, ma non ho tempo per queste storielle», affermò alzandosi dal letto.

«Non è una storiella! E' la verità!», sbottai, alzandomi in piedi.

Non considerò affatto la mia obiezione e si limitò a sistemare il medaglione nel cassetto.«Sei davvero fortunata: avrei potuto offendermi per aver scherzato su qualcosa che è appartenuto a mia nonna e ti assicuro che quando mi offendo non sono molto accomodante».

Non avevo dubbi su ciò: quel suo look aggressivo faceva presupporre che non si spaventasse di fronte a una rissa.«Non scherzerei mai su certe cose! Devi credermi!».

Mi lanciò uno sguardo sprezzante.«Come faccio a crederti? Non so chi tu sia e sei... ». Esitò alla ricerca dei termini giusti.«Sei così strana! Guardati...». Mi allungò uno specchietto che aveva appoggiato sul comodino.«Sei truccata da Halloween e per tutto il tempo che abbiamo parlato hai avuto sempre la stessa espressione. Non sapevo se ridere o spaventarmi», disse con l'aria di essersi liberata di un peso. Probabilmente prima di quel momento non aveva fatto alcun commento per non offendermi.

Era da molto che non vedevo il mio riflesso e ne rimasi quasi spaventata: il mio viso aveva un aspetto scarno, malato con quel colorito che mi ricordava terribilmente i cadaveri che vedevo alla tv nei film polizieschi. A completare il quadro mancava solo una bella striscia violacea sul collo da morta impiccata. E pensare che quei programmi li avevo sempre odiati.

Riposi lo specchio sulla scrivania.«Mi dispiace, ma devi credermi perché è la verità».

Milena si mise a braccia conserte, sul viso un'espressione del tutto scettica. Avrei dovuto aspettarmi che una tipa come lei, dall'aspetto ribelle e impaziente di crescere, non avrebbe mai creduto alle mie affermazioni riguardo quel medaglione.«Scusa, ma ora ho altro da fare», concluse con una certa ostilità.

Avrei potuto insistere, tentare ancora di convincerla e rifiutarmi di andarmene, ma non avrebbe portato ad alcun risultato oltre che essere scortese: mi aveva dato l'impressione di essere talmente ostinata e concreta che non avrebbe accettato la verità senza averla davanti agli occhi. Come avevo reagito io stessa, in fondo.

Mi feci condurre alla porta senza opporre resistenza e, dopo averla salutata, mi appostai non lontano: non potevo lasciarla sola. Io ero responsabile della sua incolumità e la riuscita del mio compito dipendeva solo da me; la protetta per un Harveil doveva venire prima di ogni altra cosa.

***

Angolo autrice 

scusate per il solito ritardo nella pubblicazione, sempre colpa della maturità XD comunque, eccomi qui e spero che questo capitolo possa essere di vostro gradimento! Grazie a chi ha lasciato una recensione e a chi lo farà 

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Capitolo 6
*** emozioni che non dovrei provare ***


Emozioni che non dovrei provare

 

Quella mattina vidi l'alba. Era da tempo immemore che non la vedevo, precisamente da quella volta in cui io e la mia famiglia avevamo raggiunto in anticipo la località della nostra vacanza estiva dopo un viaggio durato tutta la notte. Ci eravamo appostati su uno sperone di roccia che andava a strapiombo sul mare e da lì, con in mano cornetti ancora caldi, avevamo visto il sole spuntare da dietro l'orizzonte.

Mi ricordai che avevo avuto l'impressione che il mare fosse la sua coperta e che si risvegliasse allo stesso modo con cui io mi alzavo la mattina. All'inizio era assonnato, la sua luce ancora oscurata dalle ombre della notte e poi, lentamente, prendeva vita e donava i suoi raggi al mondo, dando inizio a un nuovo giorno.

Quella mattina, invece, non fu meravigliosa come quella volta.

Ero distesa su un muretto di mattoni rossi nella piazza a fianco al Duomo e, con tutti i palazzi, non potei fare altro che vedere l'ambiente rischiararsi.

Il cielo, oltre i tetti, era la tavolozza di un pittore ; nel blu notte avevano aggiunto un po' di bianco, ottenendo un azzurro sempre più chiaro che diventò presto un timido rosa pallido finché, finalmente, quando ormai il nuovo giorno era nato in tutto il suo splendore, raggiunse la tonalità di un azzurro intenso.

Io amavo l'alba, ma ciò che odiai di restare lì a guardare il cielo, fu che non provai assolutamente nulla. Non sentii la meraviglia farmi spalancare gli occhi o la felicità riscaldarmi il cuore per l'arrivo della mattina dopo l'oscurità della notte. Guardai l'alba come si osserva un cane raspare nella spazzatura o un ragno zampettare sul soffitto. Fu assolutamente deprimente col ricordo di quell'alba lontana che mi ronzava nella mente.

Mi alzai a sedere solo quando giunsero circa le otto di mattina e la piazza cominciò di nuovo ad animarsi. Se fossi stata ancora umana sarei andata al bar, mi sarei comprata un cornetto per fare colazione, invece, stetti seduta per un tempo imprecisato. Se non altro ringraziai che la noia era una sensazione che non mi toccava più.

Osservai chiunque passasse di lì, attenta a quando sarebbe arrivata Milena per raggiungerla e seguirla a scuola.

E lei arrivò. Portava i capelli striati di verde legati in una coda di cavallo sulla nuca, lasciando intravedere la lunga fila di orecchini che seguiva il profilo delle orecchie. La t-shirt con la stampa di un teschio era di qualche taglia più grande e nascondeva quelle curve ben proporzionate che da viva le avrei invidiato.

Camminava lentamente con andatura dinoccolata e sguardo rivolto al porfido della piazza. Pareva un condannato a morte diretto al patibolo.

Io mi alzai in piedi con uno scatto e altrettanto velocemente la raggiunsi; non vedevo l'ora di fare qualcosa di produttivo dopo un'intera notte trascorsa a bighellonare distesa sul muretto.

«Ehi, ciao!», la salutai.

Sobbalzò ed emise un leggero gemito. Avevo dimenticato dell'esistenza dello spavento.«Scusami tanto».

Mi fulminò con lo sguardo.

«Mi dispiace anche esserti così sgradita, ma purtroppo non posso lasciarti sola».

Continuò a tacere e a guardarmi con gli occhi color nocciola velati dalla stanchezza. La sua, quindi, non era aperta ostilità ma sonnolenza, a giudicare dalle linee violacee sotto gli occhi mal celate dal fondotinta.

«E perché no? Una madre già ce l'ho», commentò, sbuffando.

«Ti assicuro che contro chi ti cerca una madre non può fare nulla».

«Tu ancora meno visto che avrai sì e no la mia età».

Sospirai. Dal suo punto di vista non aveva tutti i torti: avevo appena diciotto anni ma ne dimostravo meno - forse per la pelle liscia e la bassa statura - e ai suoi occhi ero una giovane ragazza come tutte le altre, anche se perennemente truccata da Halloween e alquanto inquietante. Che fosse già il caso di rivelarle chi ero? No, non avrebbe creduto nemmeno a questo.

«In realtà non è così, ma al momento sarebbe un tantino complicato spiegarti il perché».

Sul suo viso passò un lampo d'interesse.«Dimmelo».

Scossi la testa.«Di' la verità: pensi che mi crederesti?».

La bocca divenne una linea sottile e tornò a fissare i ciottoli della via stretta che avevamo appena imboccato.«Credo di no».

«Allora è inutile che sprechi fiato».

Scrollò le spalle con una smorfia di indifferenza.«Se non me lo vuoi dire, io posso impedirti di seguirmi in continuazione. Ti denuncerò alla polizia per stalking».

A quelle parole sentii nascere qualcosa dentro il mio petto. Percorse l'esofago, arrivò alla gola e venne espulso dalla bocca. Una leggera risata che si lasciò alle spalle una scia di dolore ai muscoli facciali, ormai intorpiditi per il poco uso. Cosa mi stava succedendo a stare fra gli umani? Stavo forse ritornando umana anche io?

Magari, pensai fra me e me, per quanto sapessi che dalla morte non si può risorgere.

Quando voltai lo sguardo verso di lei, la trovai stupita e confusa insieme.«Non pensavo sapessi ridere», disse sorridendo a sua volta.

«In effetti è qualcosa che la gente come me non fa».

La confusione prese di nuovo possesso della sua espressione.«Quello che mi sfugge è perché ridevi».

«Se mi denunciassi, be'... saresti tu a sembrare pazza: so qualche trucchetto che tra poco vedrai».

Veramente trucchetto non era il termine esatto, ma non mi sembrava il caso di farla scappare a gambe levate davanti alla parola potere.

«Questa è la mia scuola», annunciò, fermandosi davanti a un edificio dall'aria antica, con un cortile erboso su cui svettava qualche panchina malandata e due pini che non avevano un bella cera. Per non parlare delle finestre: le tapparelle verdastre erano malmesse, scrostate e storte.

Voltò la testa verso di me squadrandomi con rimprovero.«Non puoi venire con me».

«Sì che posso», la contraddissi.

Chiusi gli occhi e cercai di concentrarmi, di scacciare qualsiasi pensiero dalla mente. Sentii del calore generarsi a livello delle tempie e poi fluire in basso, percorrendo la spina dorsale. Le mani formicolarono, segno che avevo chiamato a me abbastanza energia mentale da usare i poteri.«Invisibles», sussurrai. Tutto il corpo prese a formicolare, a scuotersi di piccoli tremiti. Non durò più di due secondi, dopo i quali aprii gli occhi e constatai con soddisfazione di non vedere più le mani.

L'invisibilità era il potere che mi piaceva di più. Quante volte in vita avevo desiderato scomparire, passeggiare come uno spettro fra la gente senza essere vista! Potevo ascoltare qualsiasi conversazione, trovarmi in posti a cui non avrei dovuto accedere e il tutto in completa tranquillità.

In fondo chi non ha mai desiderato di starsene in completa solitudine con la certezza di non essere disturbato da nessuno? Perfino io, che ero la ragazza più sociale e disponibile che potesse esistere, avevo avuto quel desiderio.

La cosa triste era che a causa della mia apatia non potevo godermi appieno questa capacità. La usavo, certo, ma il massimo che il mio cuore di pietra produceva era un misero briciolo di soddisfazione. Non felicità né pace interiore.

«Ma che diavolo...?». Il viso di Milena era il ritratto della perplessità, mista a stupore. Si guardava attorno convulsamente, probabilmente chiedendosi dove fossi finita.

Prima che andasse nel panico, le afferrai il polso e, chiudendo gli occhi, le infusi un po' dell'energia mentale che avevo usato per il potere.

Diventai immediatamente visibile ai suoi occhi, ma solo ai suoi.«Dov'eri finita?».

«Ti avevo detto che conoscevo un paio di trucchetti».

Scosse la testa, adirata e si avviò verso l'entrata della scuola. Io la seguii a ruota, come il più fedele dei cagnolini.

«Non puoi venire con me, ti ho detto. Vattene ora».

Quella situazione mi divertiva: gli esseri umani erano così vitali e allegri! Gli angoli della bocca si tirarono in un sorriso.«Tranquilla: nessuno si accorgerà di me».

Mi guardò con aria scettica, per poi proseguire all'interno del cortile.«Sappi che io non ti conosco».

Misi il dito indice sulle labbra, indicandole di farle silenzio.«Ti consiglio di non parlarmi se non vuoi sembrare pazza».

Scosse di nuovo la testa, facendosi cadere davanti agli occhi alcuni capelli verdi. Dovevo sembrarle alquanto incomprensibile.

 

Avevo dimenticato quanto potesse essere noiosa la scuola. Ero seduta in un angolo della classe, spiaccicata contro il muro in un punto che non vedeva una scopa da molto tempo. Avevo i vestiti pieni di polvere e la consapevolezza che in seguito avrei dovuto fare un salto a Edentia per cambiarli mi era a dir poco sgradita. Adoravo la Terra, lì dove il mondo era animato da mille emozioni diverse e dove gli eventi erano imprevedibili.

Stare lì mi aveva fatta rinascere, mi stava facendo sentire ancora umana. Eppure non mi illudevo: sapevo che ormai tra me e gli umani c'era un abisso incolmabile, quello che si trovava nel mio petto. Eravamo estremamente diversi, opposti come lo sono la vita e la morte.

Tanto per cominciare, se fossi stata ancora umana, mi sarei trovata anche io seduta a uno dei banchi, probabilmente con la stessa aria annoiata di quei ragazzi. Invece mi dovevo accontentare di un angolino impolverato.

Mi guardai attorno, lasciando che i miei occhi si perdessero nelle località indicate nella cartina geografica e lungo i disegni divertenti appesi al muro con qualche pezzo di scotch.

Scotch. Delle immagini scorsero d'improvviso davanti ai miei occhi come diapositive di un film che non volevo più vedere. Era un ricordo, uno dei primi che si erano dissolti nel tempo trascorso a Edentia. E ritrovarmelo lì, schiacciato davanti agli occhi, mi sorprese: quasi nemmeno sapevo di averlo.

Avevo concluso un disegno; le linee erano storte, le forme sproporzionate, ma la soddisfazione mi travolse come allora. Mi inondò, riempiendo per qualche attimo il vuoto nel mio petto.

Presi fra le mani il foglio e lo osservai, provando il desiderio di appenderlo in camera. Mi spostai nello studio del papà - una stanzetta traboccante di libri in cui trovava posto solo una scrivania e una sedia - e rubai un rotolo di scotch poggiato di fianco al computer.

Tagliai qualche pezzo con le forbici dalla punta arrotondata e, una volta applicati al foglio, lo appesi sull'anta dell'armadio. In questo modo gli occhi del cagnolino disegnato mi avrebbero osservata anche mentre ero stesa a letto, come un immaginario angelo custode.

Dalla porta spuntò la figura longilinea di mamma. Il suo viso era così nitido, così reale che mi sentii stringere lo stomaco dal dolore che provavo; gli occhi verdi, il viso ovale incorniciato da riccioli neri, la bocca dalle labbra sottili accompagnata da quelle linee a lato che le conferivano un'aria matura e confortevole.«Non attaccarlo con lo scotch: non si stacca più», disse con una nota di rimprovero.

Staccò con precisione il disegno dall'armadio, lo guardò con attenzione e poi mi rivolse un sorriso dolce. Era così premuroso ed espressivo, il più bello che avessi mai collezionato.

Mi accarezzò i capelli, riccioli neri che avevo ereditato proprio da lei.«Non credi che questo bel disegno stia meglio in una cornice?».

Le immagini sfumarono, lasciandosi una lunga scia di emozioni travolgenti che nemmeno il vuoto avrebbe potuto sciogliere in poco tempo. Mamma, quanto mi mancava!

L'ultima volta che l'avevo vista era incinta di Lorenzo, felice di avere un nuovo bambino, di potermi dare un fratellino. Non sapeva il destino che l'attendeva, non sapeva che sarebbe morta di parto, lasciandoci tutti soli con un vuoto incolmabile nel petto. 

***

Angolo autrice

Scusate per l'immenso ritardo, ma ho avuto molte cose da fare... ora ecco a voi il nuovo capitolo! Spero possa essere di vostro gradimento... non dimenticate di lasciare un commento ;) 

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Capitolo 7
*** Tigri in camera da letto ***


Tigri in camera da letto

 

La campanella di fine lezione mi fece ritornare alla realtà. Ero intontita, come avessi dormito per ore e mi mossi dall'angolino solo quando ormai tutti erano usciti dall'aula.

Sentivo una morsa dolorosa all'altezza dello stomaco ed era alquanto strano visto che non potevo provare dolore.

Mi mischiai fra gli studenti.«Invisibles an», pronunciai a bassa voce, ritornando così ad essere visibile.

Dovevano esseri i ricordi improvvisi. Ricordare mi faceva provare emozioni, a quanto pareva. Nonostante ciò, i conti continuavano a non quadrarmi: com'era possibile che accadesse? Ero ormai un'Harveil e da qualche tempo mi ero arresa alla mia natura. I miei capelli erano ormai completamente candidi, il mio viso granitico e quelle poche emozioni che provavo erano talmente lievi che faticavo a percepirle.

Eppure in quel momento sentivo molte cose, tutte ugualmente forti. Il vuoto per la mancanza di mamma nella mia vita, la nostalgia per i tempi andati e il desiderio di essere ancora come gli studenti che mi circondavano. Nel profondo volevo una normalità che non sarebbe mai tornata.

Sono un'Harveil, nulla può cambiare questo, dissi a me stessa, contrastando quel tumulto che mi si agitava dentro. Mi provocava un dolore acuto: il mio corpo non era più adatto ad ospitare qualcosa di così profondamente umano. Eppure, come mi era stato dimostrato, succedeva e avrei dovuto recarmi di nuovo a Edentia per scoprire cosa mi stava succedendo.

Mi concentrai nel cercare la testa di Milena fra gli studenti, ma senza successo. Doveva essere stata una dei primi a schizzare fuori dalla classe, probabilmente entusiasta di liberarsi di me almeno per qualche tempo. Decisi di non affrettarmi per raggiungerla: in fondo era impertinente quello che noi Harveil facevamo. Ci infiltravamo come ladri nella vita della gente e, anche se per il loro bene, rubavamo il loro spazio personale.

M'incamminai lungo le strade acciottolate del centro, preceduta da altri studenti, senza fretta di arrivare a casa di Milena.

Attraversai la piazza di fianco al Duomo, quella in cui avevo dormito la notte. A quell'ora del primo pomeriggio era animata da studenti di ritorno dalla scuola e turisti con lo zaino in spalla e macchina fotografica alla mano. Il silenzio, rotto solo dal borbottio in una qualche lingua straniera, donava un'atmosfera intima, di relax, dovuta anche all'abbraccio del sole di settembre.

Ben presto giunsi di fronte alla porta del palazzo di Milena. Feci per allungare il dito verso il campanello, ma rimase lì, a mezz'aria. Non sapevo bene per quale motivo, ma qualcosa non mi convinceva; un allarme suonava nella mia testa, sebbene non avessi idea da che cosa fosse provocato. Decisi di dargli ascolto: mi fidavo ciecamente del mio istinto perché non mi aveva mai tradita. Dovevo agire in fretta, prima che accadesse qualcosa di irreparabile.

Chiusi gli occhi, visualizzai nella mente la stanza di Milena e mi ci teletrasportai. Forse si sarebbe spaventata, forse avrebbe avuto una reazione che io non potevo prevedere, ma il mio istinto diceva chiaramente che il teletrasporto era la cosa giusta da fare e io mi convinsi a non soffermarmi su certe sottigliezze.

Quando aprii gli occhi, mi si presentò uno scenario che avrei potuto benissimo immaginare. Harry mi aveva messa in guardia quando mi aveva presentato la missione, mi aveva spiegato come reagire.

Sai cosa devi fare, mi dissi. Eppure, per quanto fossi preparata a vedere due tigri in una camera da letto, non potei impedire di avere un attimo di esitazione.

Milena era relegata nell'angolo di fianco alla finestra. I capelli spettinati, gli occhi sbarrati dal terrore e il viso talmente pallido che credetti stesse per svenire.

Mi lanciai verso di lei un momento prima che una delle tigri spiccasse un balzo per poi cadere a terra, scossa da scintille blu. A quanto pareva il mio scudo aveva funzionato: non avevo ancora avuto occasione di testarlo.

Restai per qualche secondo immobile, a guardare l'enorme corpo della tigre dimenare le zampe e produrre mugolii di dolore. Era un esemplare davvero maestoso con quel folto pelo ramato striato di nero che sfumava sempre più verso il bianco della pancia. E gli occhi, che fino a poco prima erano minacciosi e felini, in quel momento di agonia, parevano chiedere pietà.

Spostai lo sguardo verso l'altra tigre. Non c'era più; al suo posto era apparso un ragazzo sui vent'anni. Aveva i capelli corti e spettinati, pelle pallida e il viso punteggiato da qualche elegante lentiggine. Il mento appuntito rendeva il viso allungato, in armonia col corpo slanciato, gli occhi verdi avevano un qualcosa di surreale.

Era chiaro che, per quanto si sforzasse, non avrebbe mai potuto passare per umano, non ai miei occhi; si muoveva in modo sinuoso, più simile a un animale che a un uomo, il suo sorriso era di un tipo che non avevo mai visto e che avrei preferito non vedere mai. Era un ghigno inquietante, talmente inumano che risvegliò in me una paura che mi bloccò.

O forse... forse non era paura. Era un'emozione intensa che non riuscivo ad identificare: non ero più capace di dare un nome a quello che provavo. Nel mio stato tutto si confondeva irrimediabilmente.

«Che cosa gli hai fatto?», mi domandò, indicando quella che poco prima era una tigre e che si era trasformata in un cane, un dobbermann per la precisione. I suoi potenti guaiti di dolore mi stavano perforando i timpani.

«Si riprenderà», risposi. Non ne ero del tutto sicura, ma sapevo che noi Harveil tendevamo a provocare meno dolore possibile. Il nostro compito era solo quello di mantenere l'equilibrio.

Si avvicinò e io indietreggiai automaticamente, schiacciando Milena contro l'angolo. La sentivo tesa e il suo silenzio era la prova di quanto fosse terrorizzata.

«Non ti avvicinare o proverai le stesse pene che sente il tuo compagno», lo avvertii.

Il suo ghigno si allargò mentre continuava ad avanzare. Scansò la sedia della scrivania, per poi giungere di fronte a me, appena al di là dello scudo. Doveva essere un amante del rischio o forse, semplicemente, credeva di non aver nulla da perdere.

Fui costretta a guardare negli occhi verdi, a studiare ogni minuscolo lineamento di quel viso bellissimo e inquietante allo stesso tempo. C'era malinconia nel suo sguardo, frustrazione; cose che non mi sarei mai aspettata di vedere. Harry mi aveva parlato di mostri crudeli e senza scrupoli, avidi di potere. La tristezza non era certo un'emozione che mi faceva pensare alla malvagità.

«Io non ho paura dei morti», affermò, scrutandomi duramente.«Forse non oggi o domani, ma avremo quello che vogliamo e non sarà uno stupido scudo a fermarci».

Non riuscii a formulare una risposta. Lui era estremamente determinato, lui aveva attaccato per scelta. Io non ero così sicura di quel che facevo; non era la mia battaglia. In vita avevo combattuto mille guerre non mie, ma era diverso: in cambio avevo ricevuto sorrisi.

Nella situazione in cui mi trovavo non avrei avuto niente a rendermi felice, se non forse l'approvazione di altra gente apatica come me.

Lo guardai impalata, mentre prendeva fra le mani il suo compagno - diventato un criceto dal pelo bianco - e, dopo avermi perforata con lo sguardo, si lanciò dalla finestra aperta proprio di fianco a noi.

Attesi qualche secondo prima di sciogliere lo scudo. Quel ragazzo, anzi, quell'essere mi aveva lasciato talmente tante emozioni incontrollabili che impiegai del tempo per reprimerle a dovere.

Era stato alquanto devastante. Avrei voluto fare qualcosa, dire qualcosa, ma mi aveva paralizzata. Perché non ero riuscita ad essere un vera Harveil per una volta che lo desideravo?

Devi andare a Edentia, devi verificare, mi dissi, promettendo a me stessa che ci sarei andata a breve.

Mi sedetti sul letto, cercando di recuperare la consueta apatia.

Milena fece qualche passo incerto. Se di solito era sicura di sé, in quel momento la sua espressione tradiva paura e confusione.

«Cos'erano?». La sua voce non era più che un sussurro.

Alzai lo sguardo verso di lei e le feci segno di sedersi di fianco a me.«Erano dei mutaforma e vogliono il monile di tua nonna. Mi credi adesso?».

Vidi i suoi occhi spalancarsi e la sua mano correre istintivamente alla tasca dei jeans stracciati, da cui estrasse il medaglione. Accarezzò la pietra scura con le punte delle dita.«Sì, ti credo». Alzò lo sguardo su di me.«Ma perché?».

«Quelle creature...». Presi un profondo respiro, cercando nella mia mente le parole che più avrebbero potuto rendere credibile quella storia.«Vivono in una città sotterranea, sotto i nostri piedi. Sono estremamente malvagie e desiderano intraprendere una guerra con voi umani per vivere in superficie. Cercano il tuo medaglione per risvegliare il loro antico sovrano Akamazur in quanto in passato un potente mago l'ha usato per addormentarlo per sempre». Mi fermai prima di continuare, per controllare che mi stesse seguendo. Mi guardava con occhi spalancati, accesa di interesse.«Deve essere passato di mano in mano fino ad arrivare a te e io sono qui per impedire che ciò accada».

«Ma neanche tu sembri... normale», osservò con espressione alquanto confusa.

Ero vagamente offesa, ma sapevo che, per quanto scomoda ai miei occhi, era la verità. Io non ero normale, ero diversa da lei e per un qualche arcano motivo faticavo ancora a mettermelo in testa.

Mi alzai dal letto e mi diressi verso la scrivania, dove era appoggiato uno specchio insieme ad altre inutili cianfrusaglie. Lo presi in mano e guardai distrattamente il mio riflesso, forse nel tentativo di convincermi della verità.

I miei occhi spenti, il mio inquietante pallore cadaverico ne erano le prove. Eppure avevo l'impressione che fosse una maschera, un involucro che avevo dovuto infilare a forza.

I capelli ne erano sfuggiti, erano ancora in parte neri e, se pochi giorni prima il bianco sembrava prevalere, ora non ve n'era che qualche striatura. Chi o cosa ero veramente? Pensavo di averlo capito, ma in realtà il dubbio non era mai svanito. Era rimasto in stallo, fermo, in attesa di lampeggiare ancora in cerca di considerazione.

Non potevo dare una risposta. Per ora dovevo continuare a indossare la maschera: era l'unica sicurezza che avevo.

«No, non sono normale», ammisi, riponendo lo specchio sulla scrivania.«Sai, è stato difficile anche per me accettare tutto questo e lo è ancora. Io sono un'Harveil e sono stata mandata qui per mantenere l'equilibrio fra bene e male».

«Da dove vieni?».

Scossi la testa.«Non posso dirtelo: mi è proibito. L'unica cosa che posso dirti è che io cercherò di proteggerti. Ti puoi fidare di me».

Lo sguardo di Milena si perse lungo i poster appesi alle pareti, mentre le labbra sottili si tiravano leggermente; non era ancora sicura di potermi credere. Si spostò i lunghi capelli striati di verde alla destra del collo e prese a toccarli distrattamente.«Va bene, mi fiderò di te». Alzò gli occhi su di me. Non li avevo mai notati, forse perché mai mi aveva lanciato uno sguardo tanto intenso, ma erano azzurri con qualche sfumatura grigio chiaro.«D'altronde non ho altra scelta».

Sospirai, rendendomi conto che io e lei eravamo nella stessa, medesima situazione. Tutte e due non potevamo fare altro che arrenderci alle scelte di altri.

In quel momento sentii il rumore di una serratura scattare; la porta di ingresso si aprì con un tenue cigolio, seguito dal ticchettio di tacchi sulle piastrelle lisce della cucina.«Sono tornata!», annunciò una voce di donna.

«Ora è meglio che... che usi il tuo trucchetto di questa mattina», suggerì Milena con un sospiro malinconico. Cominciavo a capire che forse il suo atteggiamento ribelle, il suo look sfrontato non erano che una reazione alla solitudine.

In fondo dava l'idea di essere una brava ragazza: per quanto lo negasse, si era fidata di me sin dall'inizio perché, in caso contrario, non mi avrebbe mai fatta salire in casa sua.

Riuscii a diventare invisibile giusto un attimo prima che una donna sulla quarantina, slanciata e fin troppo magra entrasse in camera.

«Come va, Milly?», le domandò, cercando di accennare un sorriso.

Aveva un'aria davvero stanca: i capelli corti tinti di biondo erano spettinati e, per quanto avesse cercato di nasconderlo col fondotinta, aveva profonde occhiaie sotto gli occhi.

«Tutto bene», rispose non del tutto sicura. D'altronde era appena stata attaccata da una coppia di mutaforma, era più che normale che non si sentisse del tutto bene.

Mi alzai dal letto, decisa ad uscire di casa: non mi sembrava corretto origliare quella conversazione tra madre e figlia. Non volevo invadere a tal punto la sua vita, l'avevo già fatto anche troppo.

Più silenziosamente che potei, passai dietro la schiena della donna e uscii dalla porta della stanza. Vidi Milena seguirmi con gli occhi e assumere un'espressione perplessa, ma io mi portai un dito sulle labbra, facendole segno di tacere.

«Sei sicura che vada tutto bene?», sentii domandare ancora la madre mentre mi dirigevo verso la porta d'ingresso e furtivamente la aprivo.

 

***

Angolo autrice

Finalmente le feste mi lasciano un attimo di tregua e così ho deciso di postare un altro capitolo... Spero che qualcuno possa gradirlo 

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