Fumi-Postumi di _vally_ (/viewuser.php?uid=18200)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - La mia velocità ***
Capitolo 2: *** 2 - Il mio inizio difficile ***
Capitolo 3: *** 3- Il mio cuore, il mio respiro ***
Capitolo 4: *** 4 - Il mio saggio amico ***
Capitolo 5: *** 5 – Il mio secondo tentativo ***
Capitolo 6: *** 6 - Le mie idee masochiste ***
Capitolo 7: *** 7 - I miei occhi, le mie mani ***
Capitolo 8: *** 8 - La mia lunga notte ***
Capitolo 9: *** 9 - I miei gemelli ***
Capitolo 10: *** 10 - Il mio cuore, la mia mente, la mia anima ***
Capitolo 11: *** 11 - La mia porta chiusa ***
Capitolo 12: *** 12 - La mia fine che non c'è ***
Capitolo 13: *** 13 - La mia fine ***
Capitolo 1 *** 1 - La mia velocità ***
Eccomi ritornata, con un'altra
storia huddy, o meglio, con la continuazione di una mia precedente fanfic:
"Fumi".
La terza serie di House MD è finita,
dovremo resistere fino a settembre. Non ci resta che scrivere storie!
Vorrei dedicare questa fanfic a Giò
(socia Huddy!), Mara (lo so, lo so che non apprezzi le ship...ma mi serve
qualcuno di fortemente critico che mi costringa a mettermi continuamente in
gioco) e Rem (omaggio al comitato!), in onore del nostro incontro di diverse
settimane fa.
Ci sono un paio di altre persone che
voglio ringraziare di cuore: Apple e Diomache, che con le loro splendide storie
mi tengono compagnia, alla faccia delle guerre tra ship che vedo in
giro! Ho qualcosa in mente anche per voi, Cotton care, datemi solo un po'
di tempo.
Per i titoli dei capitoli, ho usato lo
stile dei titoli degli episodi di Scrubs, serie tv adorata, che mi fa ridere
sempre e comunque, combattendo la mia metereopatia e gli sbalzi
d'umore!
Attendo con ansia le vostre recensioni.
Preziosissime!
Buona lettura!
Vally
Ps: il primo capitolo è solo una breve
introduzione, a breve con l'aggiornamento!
1-La mia
velocità
James Wilson, phon alla mano, tentò di sistemare una
ciocca di capelli che non voleva sapere di rimanere in ordine.
Erano già le 8 passate, ma si era alzato da poco: doveva
aspettare che House lo passasse a prendere, il che significava non muoversi di
casa prima delle 9. Odiava arrivare in ritardo, ma aveva ancora i postumi della
sbornia della sera precedente, e quell’ora di sonno in più gli era stata
indispensabile.
Sbuffando, fece l’ultimo tentativo con la ciocca
ribelle, ma quella mattina i suoi capelli non volevano proprio
collaborare.
Decise di rinunciare ai capelli, e si diresse in camera
da letto: avrebbe scelto un abbigliamento particolarmente accurato, così da
compensare il disordine dei capelli.
Stava ragionando sull’abbinamento cravatta-camicia più
appropriato, quando sentì l’inconfondibile suono del clacson della sua
macchina.
“Impossibile!” pensò, guardando l’orologio. Erano anni
che conosceva House e non l’aveva mai visto sveglio prima delle
9.
Si affacciò dalla finestra: si, era la sua
macchina.
Il clacson suonò ancora,
insistentemente.
Wilson afferrò al volo la prima cravatta che gli capitò
tra le mani, se la mise malamente attorno al collo e si affrettò verso la porta.
Fece giusto in tempo a buttare un’ultima occhiata alla sua figura nello specchio
d’ingresso, poi si chiuse la porta alle spalle.
Raggiunse con passo svelto la sua auto, e salì al posto
del passeggero.
“Dovevi scegliere proprio oggi per arrivare puntuale al
lavoro? Mi sono svegliato dieci minuti fa, ho i postumi di una sbornia e questi
capelli…” disse tutto in un fiato, aprendo lo specchietto davanti a sé e
osservando con disapprovazione la sua faccia riflessa.
Si bloccò di colpo però, perché con la coda dell’occhio
notò che al posto di guida non c’era House.
Si voltò verso il suo capo, guardandola strabiliato. “Ma
tu…”
“Hai la cravatta slacciata” osservo Lisa Cuddy,
ingranando la prima e imboccando la strada per il PPTH.
Wilson si guardò confuso la cravatta, e se la sistemò
con gesti veloci. “Ma tu…” ritentò poi, tornando a posare lo sguardo sulla donna
che guidava accanto a lui.
Non disse nient’altro, rimase a fissarla a bocca
aperta.
Dopo qualche istante, si rese conto che avevano superato
di parecchio il limite di velocità.
“Cuddy rallenta!” esclamò.
“Sono in ritardo, ho una riunione del consiglio tra
dieci minuti.” rispose lei impassibile, senza rallentare.
Wilson si lasciò andare ad un sospiro, appoggiandosi
allo schienale e chiudendo gli occhi.
“Dov’è House?” chiese, continuando a tenere gli occhi
chiusi, mentre il cerchio alla testa incominciava a diventare un dolore
pulsante.
“Viene in moto.” rispose impassibile Lisa, buttando uno
sguardo fugace all’oncologo, prima di tornare a concentrarsi sulla
strada.
Rimasero due lunghissimi minuti in
silenzio.
Lisa era imbarazzata. Pensava che non lo sarebbe stata,
non con Wilson.
Ma ora si vergognava profondamente per quello che
sicuramente stava passando per la testa del collega, per quello che lui poteva
pensare di lei.
Perché non aveva chiamato un taxi quella
mattina?
Stava praticamente sbandierando ai quattro venti la sua
notte con House.
Non era da lei.
Wilson, d’altra parte, era stupito dall’indifferenza del
suo capo.
Aveva capito che quella notte lei era con House, l’aveva
letto chiaramente tra le parole dell’amico, nella breve telefonata che c’era
stata tra di loro.
Si sarebbe però aspettato che la riservatissima Lisa
Cuddy avesse tentato di nasconderlo in ogni modo.
A meno che…
“Ne vuoi parlare?” chiese tutto d’un fiato l’oncologo,
rompendo il pesante silenzio.
“Cosa?” chiese lei, sperando che non si riferisse a
quello che pensava.
Wilson fece un bel sospiro, e si voltò completamente
verso la donna. “Del fatto che sei venuta a prendermi con la mia macchina, che
aveva House. Del fatto che hai passato la notte a casa sua.”
Un semaforo rosso la costrinse a fermarsi. Sentiva lo
sguardo del collega posato su di lei.
Si voltò per guardarlo negli occhi. “No.” disse,
stupendo se stessa per la tranquillità che la sua voce emanava, mentre il cuore
le batteva un po’ troppo veloce.
“Ok.”
“Ok.”
L’imbarazzo fu sostituito da una strana inquietudine, e
ad un certo punto Lisa non riuscì più a sopportare quel silenzio. Lo sentiva
come accusatorio.
“Non sono stata a letto con lui.” disse
decisa.
“…” Wilson rimase disorientato da
quell’affermazione.
Sapevano entrambi che era una
bugia.
“Hai capito?” insisté lei.
“Si, ma…”
“Ma cosa?!” il tono di voce troppo acuto tradì la sua
agitazione.
“Niente…ok. Va bene.” Quella conversazione non piaceva
all’oncologo. E Lisa Cuddy stava guidando decisamente troppo veloce. “Forse
dovresti rall…”
“Va bene cosa? Mi stai assecondando?!”
“Lisa rallenta santo cielo!”
Non lo aveva mai sentito alzare la voce
così.
Rallentò di colpo, accostandosi a lato della strada,
fino a fermarsi.
Le mani ferme sul volante, lo sguardo fisso davanti a
sé: rimase qualche istante immobile, cercando di calmarsi.
Wilson la guardava sconvolto.
“Guido io.” disse ad un tratto, scendendo
dall’auto.
Senza dire una parola, scese anche Lisa e prese il posto
dell’oncologo.
Rimasero in silenzio finché non arrivarono al parcheggio
del Plaisboro.
Prima di scendere Wilson aprì lo sportello del
cruscotto, e tirò fuori delle pillole.
Ne passò una alla collega: “Aspirina. Ci farà bene.” le
disse, accennando un sorriso.
“Grazie.” rispose lei, prendendo la
pillola.
Poi scese dall’auto, e si diresse rapida verso
l’ingresso dell’ospedale.
Con passo deciso e testa alta.
Come sempre.
Solo un leggero rossore sulle sue guance, tradiva
l’agitazione che aveva dentro.
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Capitolo 2 *** 2 - Il mio inizio difficile ***
Grazie davvero a chi ha recensito il primo capitolo!
Wilson spettinato è piaciuto anche a me...devo ammettere
che ho la fissa con l'aspetto delle persone appena sveglie...qui nel 2° cap ne
avrete un altro assaggio!
Buona lettura, e a presto!!!
2- IL MIO INIZIO DIFFICILE
19 ottobre 2006, h 08.30
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Ufficio
di House
Chase era in
ritardo.
Erano rimasti
d’accordo di trovarsi prima delle 8 quella mattina: avevano un articolo da preparare, tutti e tre insieme, e le
uniche ore di calma erano quelle di prima mattina, quando House non c’era
ancora.
Era stata
dura per Cameron convincere Foreman a fare qualcosa di importante tutti insieme,
e ora sentiva il peso del ritardo del collega tutto su di sé.
Gli sguardi
accusatori che il neurologo le lanciava ogni due minuti non facilitavano certo
le cose.
Prese il
cellulare e fece partire la stessa chiamata che stava facendo ormai da più di
mezz’ora.
Niente, Chase
non rispondeva al telefono.
“Non vorrei
che fosse successo qualcosa…” disse titubante.
Chase
considerava quell’articolo come un’opportunità importante, non era da lui
ritardare così senza neanche avvisare.
Come
risposta, ricevette solo un sorrisetto sarcastico da parte di Foreman che,
scuotendo la testa, finì in un sorso il suo terzo caffè della mattina.
Come se non
fosse già abbastanza nervoso di suo…
“Devo ricordarmi di sostituire la miscela
con quella decaffeinata.” pensò Cameron, mentre osservava speranzosa la
porta di vetro, pregando che il collega comparisse il prima possibile.
“Starà
dormendo.” disse ad un tratto il neurologo, alzandosi e dirigendosi per
l’ennesima volta verso la macchinetta del caffè.
“Ancora
caffè?!” chiese la dottoressa, posando su di lui uno sguardo accusatorio.
“Si. Mi sono
svegliato un’ora prima del solito per esser qui all’orario che abbiamo
concordato. Ho puntato la sveglia prima, come hai fatto tu. Non è difficile,
possono farlo tutti. Se vogliono.”
“Simpatico…” pensò ironica Allison,
mentre sorrideva imbarazzata al collega.
Guardò
l’orologio: 8.45.
Incominciava
davvero ad essere preoccupata per Chase…non era da lui… Sapeva che lei ci teneva
a quest’articolo, e…non l’avrebbe mai delusa di proposito.
Si alzò,
afferrando la giacca e indossandola rapidamente. “Vado a casa sua.” disse, dirigendosi alla porta “Tanto House non
sarà qui prima delle 9.30.”
“Ma dai,
Cameron! Starà dormendo, cosa vuoi che sia successo?” Foreman usò quel tono che
lei odiava: accondiscendente. Le parlava come se stesse cercando di far
ragionare una ragazzina adolescente.
“Magari alla miscela decaffeinata ci
aggiungo anche un po’ Guttalax” pensò, mentre rivolgeva al neurologo un
sorriso insicuro.
“Preferisco
controllare. Ok?” si limitò a dire.
“Come
vuoi.”
Mentre
Cameron varcava per la seconda volta in un’ora la porta del PPTH, House, a
qualche chilometro di distanza, raccoglieva dal pavimento della sua camera da
letto una maglia sgualcita.
E
sorrideva.
19 ottobre 2006, h 08.45
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Sala
conferenze
Lisa Cuddy
entrò trafelata nella grossa stanza, e si bloccò improvvisamente, sentendo tutti
quegli occhi puntati su di lei.
Troppi
occhi.
In effetti,
non le era mai capitato di arrivare in ritardo ad un incontro così importante.
Se c’era un ritardo lei era sempre dall’altra parte, lei era quella che ammoniva
con lo sguardo.
Fece ammenda
di essere più indulgente con i poveri ritardatari da oggi in poi.
Fece un
respiro profondo, tentò un sorriso e, pregando che nessuno si accorgesse delle
profonde occhiaie nascoste dal correttore, si buttò nella fossa dei leoni.
“Buongiorno,
scusate il ritardo.”
Sorridente.
Amabile.
“Nessun
problema dottoressa, a lei un ritardo di un quarto d’ora lo perdoniamo
volentieri.”
Grazie al
cielo era nata donna…
19 ottobre 2006, h 08.55
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital
-Ufficio di House
Foreman,
ormai solo e innervosito dal risveglio di quella mattina, stava sfogliando
pigramente un giornaletto di enigmistica, abbandonato la sera prima da
Chase.
Sentendo dei
passi, alzò lo sguardo speranzoso.
“Hai qualcosa
per me?” chiese a Wilson, appena varcò la soglia.
“Buongiorno
anche a te.” rispose sarcastico l’oncologo, guardandosi in giro. “Non c’è
nessuno?”
Foreman allargò le braccia al vuoto attorno a sé. “Ci sono
io, e sono qui dalle
7.30 a
bere caffè. Hai qualcosa per me?”
Wilson
appoggiò distrattamente una cartella sulla scrivania. “Si, ho bisogno di tutti
voi. House?”
Il neurologo,
di risposta, indicò l’orologio.
L’oncologo
annuì. “Chase? Cameron?”
“Chase non si
è fatto sentire stamattina, e Cameron è andata a controllare che sia ancora
vivo.”
Un’espressione perplessa si
dipinse sul volto di Wilson, che decise però di lasciar perdere. “Ok, allora
puoi leggere intanto la cartella. Mark Shone, 22 anni. E’ un mio paziente ma…dai
un’occhiata!”
Foreman
afferrò la cartella del paziente e, dimenticando finalmente il suo caffè,
incominciò a leggerla.
“Fammi
chiamare da House appena arriva.”
“…”
“Foreman!”
“Cosa?”
“House.
Quando arriva House ho bisogno di parlarci. Sono in ambulatorio.”
“Si,
certo.”
Wilson rimase
a guardare qualche secondo il neurologo, pensieroso.
“Potrei rasarmi a zero come lui…”
Scacciò
subito quella stupida idea, e lasciò la stanza.
19 ottobre 2006, h 9.00
am
Appartamento di Robert
Chase
Era la terza
volta che Allison schiacciava il campanello di casa del collega, e incominciava
seriamente a preoccuparsi.
Stava già
pensando di suonare a qualche vicino per chiedere notizie, quando finalmente la
porta si aprì.
Chase, a
petto nudo e con la faccia stravolta, la guardava incredulo. “Cameron…che ci fai
qui a quest’ora?”
“Sono le
9.” rispose
lei titubante “L’articolo…”
“L’articolo…”
ripeté il collega, passandosi una mano sul viso assonnato. “Scusa…è che…Non è
suonata la sveglia. Foreman mi ucciderà.”
“Probabile.”
L’immunologa accennò un sorriso imbarazzato.
Aveva ragione
Foreman, colpa della sveglia.
Si sentiva
terribilmente stupida per essersi preoccupata in quel modo.
“Mi preparo
subito.” farfugliò Chase, continuando a passarsi una mano sugli occhi.
La testa lo
stava uccidendo.
Spalancò del
tutto la porta, facendo gesto di entrare alla collega.
Lei esitò
qualche secondo, e poi entrò: era la prima volta che vedeva l’appartamento di
Chase, e si stupì di trovarlo così in ordine, ben arredato e…quadri, quadri
ovunque!
“Che bella
casa.” disse la dottoressa, guardandosi attorno.
“Rob è
un’esteta!”
Cameron si
voltò nella direzione della voce che aveva parlato: un ragazzo sulla trentina,
con indosso solo un paio di boxer, la guardava sorridente appoggiato allo
stipite di una porta.
Si diresse
deciso verso di lei, porgendole la mano: “Sono William, piacere!”
“Allison.”
rispose lei, disorientata.
Temeva di
trovare qualcuno a casa del collega, ma non certo un ragazzo che si aggirava
mezzo nudo e con l’aria di chi ha passato lì la notte.
“Si,
immaginavo. Robert mi ha parlato di te.” continuò William, sfoggiando uno dei
suoi migliori sorrisi.
“Ok Will, ora
torna pure a dormire, io devo andare a lavorare.” si intromise Chase, prendendo
per un braccio la collega e attirando così la sua attenzione. “Beviamo un caffè
e poi mi preparo, va bene?”
“Certo.”
Si sedettero
in cucina.
Chase
incominciò a trafficare con tazze e pentolini, passandosi spesso una mano sul
viso.
“Non ti senti
bene?” chiese la collega, notando le occhiaie e la faccia distrutta del
collega.
“No.” ammise
lui, sedendosi di fronte a lei e passandole una tazza di caffè fumante. “Ieri
sera mi sono ubriacato, mi ha portato a casa William praticamente in braccio, e
a ditti la verità, la sveglia non l’ho neanche puntata.”
Disse tutto
in un fiato, sicuro che la collega l’avrebbe coperto.
Si fidava di
lei.
“Immaginavo
qualcosa di simile...” rispose lei sorridendo “Ma facciamo in modo che Foreman
non lo sappia, o mi rinfaccerà a vita di essere troppo apprensiva.”
“Ok, mi hai
trovato svenuto sul pavimento!”
Risero
insieme, complici.
William entrò
in cucina, si versò un bicchiere d’acqua ed uscì, senza dire una parola.
Cameron
guardò il collega, aspettandosi una spiegazione.
“Cosa c’è?”
chiese Chase “Perché mi guardi così?”
“E’ per…” era
imbarazzata “Lui…William.”
“Cosa?”
Cameron non
rispose, limitandosi a guardarlo esitante.
Chase assunse
un’espressione incredula. “Credi che io sia gay?” disse ridendo.
“No, non
volevo dire questo!” mentì Cameron.
In effetti
l’idea le era passata per la testa.
“Il fatto che
una donna con cui sei stato a letto creda che tu sia gay, mi lascia molto da
pensare.” esclamò William, spuntato da chissà dove.
Ridendo,
sparì un’altra volta dalla stanza.
L’intensivista posò uno sguardo
rassegnato sulla collega. “Grazie tante, mi tormenterà per mesi.”
“Ma io… E’
solo che non mi aspettavo di trovare un uomo a casa tua. Poi così…svestito!”
Chase si
prese la testa tra le mani. “E’ un mio carissimo amico.” mugugnò sconsolato.
“Ehi
carissimo amico! Ora che te ne vai posso buttarmi sul tuo letto? Quel divano mi
ha ucciso stanotte.”
“Fai pure.”
rispose Chase alzandosi. “Divano.” Continuò poi rivolto alla collega. “Ha
dormito sul divano.”
Cameron
annuì, pentita per le allusioni fatte.
“Prendo
un’aspirina, mi vesto e andiamo. Prima che arrivi anche House.”
Chase uscì
dalla cucina, lasciandola pensierosa, seduta al tavolo con la tazza di caffè
ormai vuota ancora stretta tra le mani.
“Che bella casa” pensò.
Senza che ne
capisse il motivo, le venne una gran voglia di abbracciarlo.
19 ottobre 2006, h 09.45
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital
-Ufficio di House
House entrò
in ufficio con passo spedito.
“Buongiorno!”
esclamò.
Foreman alzò
uno sguardo perplesso dalla cartella che stava leggendo. “Sei…allegro?!”
“Dove sono
tutti?”
“Ti sei fatto
la barba?!”
“Cameron e
Chase?”
“Hai la
camicia perfettamente stirata…”
Prima che
potessero aggiungere altro, Chase e Cameron varcarono la soglia
dell’ufficio.
“Ti sei fatto
la barba!” Cameron era piacevolmente stupita.
“Troppo
tardi, la gara delle ovvietà l’ha vinta Foreman qualche secondo fa.”
“Stai bene
così.” disse Chase, ignorando il sarcasmo del suo capo.
House, di
risposta, gli rivolse uno sguardo truce. “Anche tu stai bene. Le occhiaie ti
donano. Dovresti ubriacarti fino a vomitare l’anima un po’ più spesso.”
Chase incassò
la battuta in silenzio: stava riflettendo.
Aveva ricordi
confusi della sera precedente: Cuddy ubriaca quanto lui, quel bagno.
House che li
scopriva e li ricopriva di battute sarcastiche.
Il fratello
della Cuddy, e poi la sua fuga.
Un’idea
incominciò a farsi largo nella sua testa…
Sorrise al
suo capo. “Alla fine è stata una bella serata, no?”
Cameron e
Foreman, all’oscuro del loro incontro della sera precedente, li guardavano
disorientati.
House si
limitò a fissare per qualche istante il suo assistente, e poi strappò malamente
la cartella di mano al neurologo. “Che abbiamo qui?”
“Maschio, 22
anni. Cancro ai polmoni, metastasi a fegato e pancreas.”
“Merce per
Wilson.” tagliò corto House, richiudendo subito la cartella e gettandola sul
tavolo più vicino.
“Non più.” lo
corresse Foreman, attirando l’attenzione degli altri tre medici.
House riprese
la cartella e incominciò a sfogliarla con cura.
“Due
settimane fa il ragazzo viene in ospedale per farsi dare le sue medicine. Dice a
Wilson di sentirsi molto meglio, e lui gli fa fare un controllo.”
Ormai gli
occhi di tutti erano fissi sul neurologo.
“Non c’era
più niente.” concluse questi. “Polmoni puliti, idem per fegato e pancreas.”
“Non è
possibile.” Cameron si avvicinò alle spalle di House cercando di leggere la
cartella.
Il diagnosta
se la attaccò gelosamente al petto, voltandosi e guardandola torvo.
“Tu stai
lontana da questo ragazzo.”
“Perché?”
“Perché
scopriremo che ha ancora il cancro, e tu te lo vorrai sposare!”
Cameron alzò
gli occhi al soffitto, e si scostò dal suo capo, appoggiandosi alla scrivania e
incrociando le braccia, offesa.
“Ok, aveva un
cancro ed è sparito… Sta bene. Perché abbiamo noi la sua cartella?” chiese
Chase.
“Perché stava bene. Fino a due giorni fa, quando
l’hanno ricoverato d’urgenza. E’ venuto al pronto soccorso per dispnea; gli
hanno fatto un controllo aspettandosi di ritrovare il tumore, ma niente. Stavano
per rimandarlo a casa, quando ha avuto un infarto. Dagli esami risulta che il
cuore è sano.” spiegò Foreman.
“E’ cancro!”
ripeté House. “Dev’esserci stato un errore negli esami. Trovatelo.”
“Ma se sei
convinto che sia cancro, perché non rimandi la cartella a Wilson?” chiese
Cameron.
“Perché tu e
Chase siete arrivati in ritardo, e Foreman …ha una cravatta che non mi
piace!”
I suoi
assistenti lo guardavano con aria interrogativa.
“Vi voglio
fuori di qui, fate tutti gli esami che potete al paziente di Wilson, rivoltatelo
come un calzino e trovate quel tumore. Se finite presto…ho qualche ora arretrata
di ambulatorio che potete fare al posto mio. Non voglio vedervi per tutto il
giorno.”
I tre
assistenti rimasero qualche istante immobili, stupiti dal cambiamento d’umore
improvviso del loro capo.
“Meno male che era allegro…” pensò
Foreman, mentre recuperava la cartella e precedeva i colleghi fuori dalla
sala.
“Ma che gli è
successo?” chiese Cameron ai colleghi, una volta arrivati agli ascensori.
“E’ colpa
vostra.” affermò Foreman sicuro. “E’ entrato che sembrava quasi…felice. Poi
Chase ha aperto bocca ed House è tornato il bastardo di sempre. A proposito…di
che serata stavi parlando prima?” chiese poi rivolto all’intensivista.
“Niente, ci
siamo incontrati per caso.” i due colleghi lo guardavano sulle spine. “Tutto
qui!” concluse.
Non aveva
nessuna intenzione di parlare con Foreman degli incontri della notte
precedente.
A Cameron
magari l’avrebbe detto, ma non adesso.
Ora voleva
trovare quel tumore il prima possibile, e tornare a casa a dormire; la testa
aveva ricominciato a pulsare in modo insopportabile.
House si
sedette dietro la sua scrivania.
Rimase per
qualche minuto con lo sguardo perso nel vuoto, cercando di riflettere.
Stava bene,
fino a qualche minuto prima.
Gli era
bastato quel riferimento di Chase alla serata precedente per fargli precipitare
l’umore.
“Guastafeste di un
australiano!”
Non ci aveva
ancora pensato quella mattina.
Non aveva
pensato al fatto che Chase aveva lasciato Cuddy, ubriaca, con lui; che poteva
sospettare qualcosa. Anche il fatto che quella mattina Cuddy era andata a
prendere Wilson, confermando i suoi sospetti sollevati dalla telefonata di
quella notte, era una cosa a cui non aveva pensato.
Tutto questo
lo innervosiva.
Quello che
era accaduto quella notte era suo e basta.
Magari anche
un po’ di Cuddy.
Ma di nessun
altro.
Era dei
momenti suoi, privati, di cui era geloso.
Nessuno ne
doveva parlare, nessuno ci doveva nemmeno pensare.
Lo squillo
del telefono lo fese sobbalzare.
Sollevò la
cornetta e l’avvicinò all’orecchio, senza dire niente.
“House?”
La voce
famigliare del suo migliore amico gli arrivò confusa al mormorio della sala
d’aspetto dell’ambulatorio.
“Mhm…”
“Stai
bene?”
“Stavo meglio
prima di sentire la tua voce.”
Wilson
sospirò, capendo all’istante il tono dell’umore dell’amico. “Foreman ti ha detto
che ti devo parlare?”
“No.”
“Come
immaginavo…Puoi raggiungermi in ambulatorio?”
“No.”
“Ok... Salgo
io. Dammi 10 minuti.”
“No.”
“House…Mi è
venuta a prendere Cuddy stamattina, con la mia macchina.”
La forte
sensazione che stessero intaccando qualcosa di SUO lo colpì ancora più forte.
Senza replicare nulla, riattaccò.
19 ottobre 2006, h 11.15
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Sala
conferenze
Quella
dannata riunione era finita.
Finalmente.
Cuddy aspettò
che fossero usciti tutti prima di lasciare anche lei la sala, chiudendola a
chiave.
Camminò
svelta verso il suo ufficio, ignorando il richiamo di un’infermiera. Qualunque
cosa doveva firmare, avrebbe aspettato.
Si chiuse la
porta alle spalle, chiuse le tendine e, toltasi le scarpe, si lasciò cadere sul
suo divano.
Quella
riunione era stata terribile. Non per quello che avevano analizzato, valutato,
approvato o respinto. Quello neanche se lo ricordava.
Era stata
terribile perché l’aveva costretta a ragionare, a pensare razionalmente, a
concentrarsi su tutte quelle parole senza senso.
Lei aveva
solo una cosa in testa, ed erano delle immagini: il divano di House, la maglia
di House, il letto di House.
In quel
momento quello era tutto ciò che aveva senso per lei.
Erano
immagini violente, invadenti, che le risvegliavano le sensazioni di quella
notte.
Aveva provato
a cacciarle, ci provava dall’istante in cui si era chiusa alle spalle la porta
di casa di House.
Niente;
tornavano e tornavano, stordendola.
Non poteva
essere così sconvolta per una notte di sesso, non lei.
Non ci
sarebbero stati problemi…i rapporti tra lei e House sarebbero presti tornati
come prima, magari ci avrebbero anche riso sopra, assieme.
Erano due
adulti.
No, non era
quello il problema.
Il problema
erano le immagini, le sensazioni.
Ancora quel
divano, ancora quel letto, nella sua testa.
Ancora,
ancora e ancora.
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Capitolo 3 *** 3- Il mio cuore, il mio respiro ***
3- IL MIO CUORE, IL MIO
RESPIRO
19 ottobre 2006, h 1.30
pm
Princenton Plaisboro Teaching
Hospital-Ufficio di Cuddy
Lisa si
svegliò di soprassalto, e ci mise un po’ a capire che il rumore sordo che stava
sentendo, proveniva dalla porta del
suo ufficio: stavano bussando insistentemente.
Si alzò dal
divano, cercando di capire quanto tempo poteva essere passato da quando si era
sdraiata un po’ per riflettere. Non molto, a giudicare dalla posizione del
sole.
“Arrivo.”
mugugnò tra sé e sé, mentre i colpi alla porta sembravano sempre più dure
martellate sulla sua testa.
Aveva bisogno
di un’altra aspirina…
Aprì la porta
seccata, e quando si ritrovò davanti Robert Chase, che sfoggiava delle occhiaie
che facevano a gara con le sue, le ritornò in mente, con una velocità
destabilizzante, tutto ciò che aveva preceduto la notte con House.
“Merda…” pensò la donna, mentre bloccava
l’impulso di sbattere la porta in faccia all’intensivista e tornare a dormire
sul divano.
Anche Chase
doveva essere parecchio imbarazzato nel vederla, ma fu il primo a reagire in
modo consono alla situazione.
“Cuddy, scusa
se ti disturbiamo, ma abbiamo un problema.”
“Abbiamo?” Lisa si accorse così che,
dietro a Chase, c’erano anche i suoi due colleghi, che la guardavano parecchio
perplessi.
Sperò che lui
avesse mantenuto la promessa fatta: “Noi
qui non ci siamo mai incontrati…”.
Se no lo
avrebbe ucciso.
O
licenziato.
Meglio
licenziato, decisamente più coerente con la sua posizione lavorativa.
“Che
succede?” tentò di scandire bene le parole per coprire il sonno di pochi minuti
prima, ma come risultato la sua voce risultò squillante e allarmata.
“Niente di
grave…” rispose Foreman, confuso dall’eccessiva reazione della donna. “E’ che
non troviamo House, e abbiamo una comunicazione importante da fargli.”
“Pensavamo
fosse qui da te.” concluse Chase, con un’espressione che a Lisa non piacque
affatto.
Qualcosa tipo:
insinuazione…
“No, non
c’è!” rispose lei prontamente, allargando le braccia in segno d’impotenza.
“Avete provato a chiamare Wilson?”
“Si, è a
pranzo con il dr. Willmore, ha detto che l’ha cercato anche lui diverse volte,
senza successo. E’ stato lui a consigliarci di provare qui da te.”
“Bastardo…” pensò Lisa, sfoggiando un
sorriso di circostanza.
“Mi
dispiace.” concluse poi. “Ora ho da fare, ciao.”
Senza tante
cerimonie, chiuse la porta in faccia ai tre medici.
Anche per
Chase, vedere Cuddy, era stato un po’ destabilizzante. Gli erano tornati in
mente i particolari del precedente incontro, ed aveva fatto fatica a non
scoppiare a ridere. Quando poi aveva visto il suo rossore appena avevano
nominato House…le idee che gli erano passate per la mente qualche ora prima, su
come i suoi due capi avessero concluso la serata di ieri, diventavano sempre più
plausibili.
Cercò di
cancellarsi il sorriso dalla faccia, prima di voltarsi verso i suoi
colleghi.
“E ora che
facciamo?” chiese, rivolta agli altri due medici.
“Torniamo in
ufficio, e incominciamo a lavorare. Non possiamo perdere tempo in giro a cercare
House!” rispose acido Foreman.
Chase si
voltò verso Cameron, per sentire anche il suo parere: l’immunologa lo guardava
con la fronte aggrottata, senza dire nulla.
“Cameron, tu
che dici?” la sollecitò l’intensivista.
“Torniamo in
ufficio.” le parole le uscirono dalla bocca, mentre i suoi pensieri erano
chiaramente altrove. Chase se ne accorse, e non gli piacque affatto.
Mentre
tornavano verso l’ufficio, fece andare avanti Foreman, trattenendo la collega
qualche passo indietro.
“Tutto bene,
Allison?” le chiese.
“Cuddy non ci
ha neanche chiesto qual era la comunicazione importante per House. E’ strano,
non trovi?”
“No. Magari
era solo molto impegnata.” tagliò corto lui.
L’immunologa
gli rivolse ancora quello sguardo sospettoso di qualche secondo prima.
“Ma cosa
c’è?!” sbottò Chase, sulla difensiva.
“Niente.”
rispose, accennando un sorriso. “Magari era solo un po’ stanca. I postumi di una
sbornia sono difficili da far passare…”
Le ultime
parole Chase le sentì a malapena, mentre la donna allungava il passo
raggiungendo Foreman e incominciando a parlare fittamente con lui del
paziente.
Non capiva
perché, ma aveva sentito un tono risentito in quelle ultime parole.
Le donne.
Che palle.
19 ottobre 2006, h 1.40
pm
Princenton Plaisboro Teaching
Hospital-Tetto dell’edificio
Ormai erano
due ore che era lassù.
Forse
tre.
Le macchine,
parcheggiate qualche decina di metri sotto di lui, emanavano dei riflessi
metallici colorati, che gli ferivano gli occhi.
Il suo
cercapersone era suonato più volte, così come il suo cellulare.
Non aveva
risposto, e neanche aveva guardato chi fosse.
Ufficialmente, si era rifugiato
sul tetto dell’ospedale per sfuggire a Wilson.
In realtà,
sapeva che l’unica persona che avrebbe potuto cercarlo lassù era proprio il suo
amico.
Ma non
l’avrebbe fatto.
La sua
fottuta sensibilità ai bisogni altrui, gli avrebbe fatto capire che voleva
restare solo per un po’.
“Grazie
fottuta sensibilità” disse, senza rendersi conto di parlare ad alta voce.
“Cosa?”
House
sobbalzò, girandosi di scatto.
Non aveva
sentito arrivare nessuno, e l’ultima voce che si aspettava di sentire in quel
momento, era quella di Lisa Cuddy.
Quell’apparizione lo
disorientò.
“Ti ho
spaventato?” chiese lei, scrutando la sua espressione meravigliata.
“No.” si
limitò a rispondere il diagnosta.
La squadrò
rapidamente, facendo scendere lo sguardo lungo le sue gambe. Si stupì di non
riuscire poi a riportarlo sui suoi occhi.
Allora si
voltò, fingendosi interessato a un qualcosa nel parcheggio sotto di loro.
Quei bagliori
di luce ad esempio.
“Che ci fai
qui?” disse, dandole le spalle.
“Ti stavo
cercando.”
Cuddy fece
qualche passo verso di lui.
Un brivido lo
percorse, sentendola avvicinarsi.
Anche la
dottoressa si appoggiò alla balaustra, accanto a lui, forse un po’ troppo
distante da quello che ci si aspetterebbe tra due amici o colleghi di
lavoro.
House notò
questo particolare.
Lui notava
sempre i particolari.
“I tuoi
assistenti ti cercano da ore, e anche Wilson.” Lisa decise di svelare subito il
motivo ufficiale della sua presenza lassù.
“Wilson sa
dove trovarmi.”
“Dovresti
tornare giù.”
“Tu non
dovresti essere qui.”
Un lungo
silenzio imbarazzato seguì quelle banali parole.
Era vero. Lei
non doveva essere lì.
Non c’era
nessun motivo concreto per cui lei avrebbe dovuto salire fin sul tetto a
recuperare House.
Lisa lo
sapeva.
Ma non le
importava., aveva bisogno di un contatto.
Aveva bisogno
che la sua giornata andasse avanti, non poteva restare tutto il giorno su quel
divano, soprafatta dai ricordi di quella notte.
Per andare
avanti però doveva vederlo, solo qualche secondo.
Doveva
ristabilire un contatto con House, il misantropo primario del reparto di
Diagnostica del suo ospedale, per mettere da parte quell’altro House, quello che
l’aveva tenuta stretta tutta la notte…
Messa da
parte.
Quella notte
doveva essere messa da parte per permetterle di continuare a fare il suo lavoro
con serenità.
Forse stava
esagerando, forse tutta quella confusione era solo colpa della sbornia di ieri
sera.
“Comunque sia…le cose devono tornare come
prima.” questa voce, nella testa della donna, riuscì a prevalere sul caos di
pensieri e immagini che non la abbandonava da ore, permettendole di interrompere
il silenzio tra loro, quando ormai stava diventando insopportabile.
“Questo è il
mio ospedale, e io posso stare dove voglio!” lo disse con tono autoritario,
voltandosi verso House e guardandolo fisso negli occhi. Come aveva già fatto in
passato, come faceva sempre con lui. “E ora torna nel tuo ufficio e fai il tuo
lavoro. Le ore che hai passato qui a guardare le nuvole le recupererai in
ambulatorio.”
“Grazie Cuddy…” House si stupì di come,
un’altra volta, avesse fatto esattamente ciò di cui lui aveva bisogno.
“E io che
pensavo bastasse una notte di sesso per addolcirti un po’!” le si avvicinò di un
passo, inclinando la testa come se la stesse studiando. “Sono un illuso!”
concluse, scuotendo la testa.
Poi le diede
le spalle e, con passo claudicante, rientrò nell’edificio.
Lisa sorrise,
mentre lo seguiva con lo sguardo allontanarsi.
Quando non ci
fu più traccia di lui, si appoggiò ancora alla balaustra, e alzò la testa verso
il cielo.
Non c’era
neanche una nuvola, il cielo era limpido.
La colse un a
risata improvvisa.
“Grazie House…”
Non avrebbe
dovuto cancellare quella notte, non avrebbero dovuto far finta di niente.
Quei momenti
potevano continuare ad esistere.
E tutto
poteva continuare come prima.
Era ovvio,
erano due adulti.
Avevano fatto
sesso una volta, tutto qui.
Semplice.
Ora tutto era
a posto.
Tutto era
come prima.
19 ottobre 2006, h 3.00
pm
Princenton Plaisboro Teaching
Hospital-Ambulatorio, stanza 1
“Buongiorno”
salutò Wilson, sentendo aprirsi la porta dietro di sé.
L’ultimo
paziente e poi avrebbe finito il suo turno in ambulatorio.
“Ciao.” la
voce familiare di Allison Cameron lo colse alla sprovvista.
“Che ci fate
tutti qui?”
La squadra di
House al completo entrò nella stanza.
Tranne House,
ovviamente.
“Consulto!”
esclamò Chase, sventolando una cartella clinica.
“E’ ancora il
mio paziente?”
“Già.”
“Novità?”
“Si.” Foreman
si fece avanti. “Gli abbiamo fatto una tac total body, controllato il midollo,
colon, retto, stomaco e cuore. Niente di niente. Pulito.”
“Ma?” Wilson
sapeva che se erano venuti tutti e tre insieme c’era sicuramente un “ma”.
Nei casi che
passavano per le mani di House c’era sempre un “ma”.
“Ha avuto un
altro infarto alle 11 circa, e dopo neanche un’ora un ictus.”
Wilson prese
la cartella, guardandola perplesso, senza aprirla.
“Come sta?”
chiese poi.
“E’
cosciente, ma per ora non parla.”
Wilson fece
scorrere lo sguardo su di loro. “Di che genere di consulto avete bisogno? Se non
avete trovato nessun cancro…”
“Qualunque
idea è ben accetta.” intervenii Chase “Niente cancro, ma anche niente
House!”
“Stiamo
brancolando nel buio.”
Data ignota, ora ignota.
Luogo ignoto.
La bocca
premeva sulla sua con insistenza.
Oppose
resistenza per qualche secondo, per dispetto. Per farla un po’ arrabbiare.
Lei si alzò
di più sulle punte, facendo aderire perfettamente il corpo a quello dell’uomo, e
stringendo di più la presa dietro al suo collo.
Lui non poté
più resistere: dischiuse le labbra, e lasciò che la lingua della donna si
incontrasse finalmente con la sua.
Le sue mani
erano ferme sui fianchi, innocenti.
Passarono
diverse manciate di secondi prima che le facesse scivolare intorno alla vita,
rispondendo alla stretta della donna.
Lei si
abbandonò contro di lui, e questo quasi gli fece perdere l’equilibrio: la sua
gamba malata reggeva a malapena il suo peso, figurarsi quello di due corpi
agitati.
Si ritrovò
con le spalle al muro, e le mani a contatto con la pelle nuda della donna…la sua
schiena nuda.
Le aveva
tolto la camicetta, o se l’era tolta lei.
Doveva essere
accaduto pochi istanti prima, ma non ricordava.
Sapeva solo
che quel bacio era infinito, che lo stava lasciando senza fiato.
Sentì un
rumore, qualcuno che saliva le scale.
Forse avrebbe
dovuto staccarsi da lei, forse avrebbero dovuto aspettare col fiato sospeso che
quel rumore cessasse.
No, era
impensabile.
Se si fossero
fermati sarebbe stata la fine.
I passi erano
comunque lontani, forse primo o secondo piano.
Il rumore era
così forte solo perché il rimbombo della tromba delle scale lo enfatizzava.
Erano
lontani, non erano un pericolo.
Trasalì
quando sentì le mani di lei suo petto.
Pelle contro
pelle.
Erano
scivolate sotto la sua maglietta, senza che quasi se ne accorgesse.
La stretta
dietro al collo non c’era più.
Gli mancò
solo per qualche istante, poi le carezze di quelle piccole mani si spostarono
più in basso, sulla sua pancia, e il nuovo piacere spazzò via il ricordo di
quello vecchio.
Il sapore di
lei gli stava entrando dentro, passando dalla sua bocca gli stava invadendo il
corpo.
Per un
istante sperò che non lo lasciasse mai, ma poi scacciò questo pensiero
assurdo.
Le sfiorò le
spalle, incontrando le spalline del reggiseno.
Con tocco
leggero le fece scorrere giù, e le sue mani corsero poi ancora sulla schiena, a
completare l’opera sganciando abilmente il gancetto.
Lei si scostò
quel che bastava per far cadere l’indumento a terra, ai loro piedi, stando
attenta a non sciogliere il caldo contatto tra le loro bocche.
Tornò poi a
schiacciarsi contro di lui, più forte, agganciandosi ai suoi pantaloni per
attirarlo a sé.
Forse
potevano fare l’amore lì, adesso.
Fermarsi ora
sarebbe stato difficile, probabilmente impossibile.
Ancora
passi.
Più vicini
questa volta.
Anche la
donna li sentì, perché esitò per qualche secondo.
Si fermarono,
la paura li costrinse a farlo.
Le loro
labbra si separarono lentamente, attenuando la pressione, ma non del tutto.
Tentarono di
respirare piano, per non farsi sentire, ma il loro corpo aveva bisogno di
ossigeno, e si ritrovarono ad ansimare all’unisono, uno sulla bocca dell’altra.
I passi si
erano fermati, ma quella persona era ancora lì: nessuna porta era stata aperta o
chiusa.
“C’è qualcuno
lassù?” disse una dura voce maschile.
Lisa si
staccò di qualche centimetro da House, voltandosi verso la direzione da cui
proveniva la voce. “Sono Cuddy, tutto bene.” disse con voce ferma, che non
ammetteva replica.
I passi
ripresero, allontanandosi questa volta.
Il cigolare
della porta del terzo piano, l’uomo che usciva.
Le scale
ancora deserte, per loro.
Sentiva il
battito del suo cuore accelerato.
Il loro
battito.
Cuore e
respiro, nient’altro.
Riprendeva
fiato, senza guardarlo.
Con un
sospiro appoggiò le mani sul suo petto, la fronte sulle mani.
Sentiva il
suo respiro che gli solleticava lo stomaco.
Il leggero
chiarore che proveniva dal vetro smerigliato della porta che dava sul tetto,
illuminava i capelli e la schiena della donna.
House
appoggiò la testa al muro che lo sorreggeva, facendo scorrere lo sguardo sul
soffitto.
Era un ottimo
momento per una battuta delle sue, ma non gli veniva in mente niente.
Era
bloccato.
Chiuse gli
occhi nello stesso momento in cui lo faceva anche lei.
Ricominciare
era impossibile.
Staccarsi
anche.
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Capitolo 4 *** 4 - Il mio saggio amico ***
Grazie di cuore a tutti quelli che hanno
recensito finora! Siete preziosissimi!
Questo è un capitolo in
cui alcune cose rimarranno in sospeso...ma non vi preoccupate, saranno
spiegate!
Solo
un consiglio: leggete attentamente ora e luogo, per non rischiare di
perdervi!
Al
prossimo capitolo,
Vally
4 – IL MIO SAGGIO AMICO
19 ottobre 2006, h 4.00
pm
Princenton Plaisboro Teaching
Hospital-Ambulatorio, stanza 1
Ormai era
un’ora abbondante che costruivano ipotesi e poi, immancabilmente, le
distruggevano alla luce di qualche particolare individuato da qualcuno di
loro.
L’ipotesi del
cancro era la migliore, ma questo cancro non c’era.
Sapevano
benissimo che House gli avrebbe fatti combattere anche contro un tumore
invisibile, se i sintomi l’avessero convinto che fosse stato quello ma…adesso
House non c’era.
Erano con un
oncologo, poco propenso a credere nei tumori invisibili.
“Infezione?”
chiese Wilson alla dottoressa Cameron, con un sospiro.
“Bhè…non ci
sono dei sintomi che indichino chiaramente un’infezione, ma se proprio non ci
viene in mente nient’altro possiamo fare qualche esame…” rispose lei
titubante.
Foreman
guardò Chase che, imperterrito, componeva a ripetizione il numero di House,
aspettando che gli rispondesse.
“Ci vorranno
ore per avere i risultati delle infezioni più diffuse, e giorni se ci dobbiamo
spostare su quelle più rare.” osservò l’intensivista, con il cellulare
all’orecchio.
“Però è
l’unica ipotesi che ci da’ un’alternativa al restar qui a far niente.” ribatté
Cameron, frustrata dall’ultima ora di discussione inconcludente.
Wilson
osservò per qualche secondo i tre dottori: Cameron era seduta sul lettino, e si
guardava le mani n grembo, pensierosa. Chase camminava avanti e indietro per la
piccola stanza, continuando a tentare quella telefonata. Foreman…aveva lo
sguardo fisso nel suo adesso, ed un espressione seria, troppo seria. Come se lo
rimproverasse di qualcosa.
Forse dell’assenza di
House?
La cosa non
lo avrebbe stupito, non era la prima volta che le conseguenze dei problemi
creati da House ricadessero su di lui.
“Foreman, non
ho idea di dove sia né di come rintracciarlo.” gli disse, reggendo il suo
sguardo.
In quel
momento la porta si aprì e Lisa Cuddy si bloccò di colpo, stupita di trovarli
tutti là dentro.
Si chiuse poi
la porta alle spalle, e fece qualche passo verso l’oncologo.
“Ma che ci
fai qui? Il tuo turno in ambulatorio è finito da un’ora!”
“Lo so, è che
i ragazzi avevano bisogno di una mano.”
Cuddy fece
scorrere lo sguardo sugli assistenti di House; quando arrivò a Chase entrambi,
senza forse rendersene conto, distolsero lo sguardo e incominciarono
nervosamente a parlare, uno sopra l’altra.
“Non ce
l’avete un uffic…?” disse provocatoria la dottoressa.
“Avevamo
bisogno di una mano.” tentò di giustificarsi per tutti Chase, guardando verso
Allison, l’unica da cui si aspettasse di esser spalleggiato.
Ci fu qualche
secondo di imbarazzante silenzio; la domanda più naturale che Cuddy avrebbe
dovuto fare e che tutti si aspettavano era: “Dov’è House?”.
Ma questa
domanda non arrivò.
“Ok, ok. Ora
però andate in ufficio, questa stanza dovrebbe essere vuota.”
I medici si
guardarono perplessi, poi Cameron si alzò. “Va bene.” disse, osservando
attentamente Lisa Cuddy, mentre le girava attorno per avviarsi verso la porta.
Era rossa in viso, e anche gli occhi erano strani.
C’era
qualcosa che non andava.
Fu la prima a
prendere la porta, seguita dai colleghi.
Wilson si
trattenne, aspettando che tutti fossero usciti, per poi chiudere la porta e
rimanere solo con la donna.
“Tu non vai?
Hanno bisogno di una mano e quel paziente è il tuo caso.” disse lei per prendere
tempo, sapendo benissimo cosa la aspettava.
“Cosa
succede?” chiese infatti l’oncologo, ignorando la sua domanda.
Lei non gli
rispose, limitandosi a guardarlo in un modo che voleva significare “sono fatti
miei”, ma che probabilmente non riuscì nel suo effetto.
Oppure era
riuscito e Wilson l’aveva bellamente ignorato.
“Perché sei
venuta a nasconderti qui dentro?” incominciò lui, incrociando le braccia.
Cuddy si
immaginò House nella sua stessa situazione, e capì perché i due uomini erano
tanto amici. Ci volevano la fermezza e la cocciutaggine di Wilson per scuotere
un po’ il cuore di House.
Ed era una
cosa che faceva bene…ogni tanto ci voleva.
“Non sono
venuta a nascondermi.”
Si rese conto
che si stava comportando come una bambina che non voleva confessare qualcosa di
palese, e si difendeva negandolo all’infinito.
“Sei venuta
qui perché ti aspettavi di non trovare nessuno, ed è una delle poche stanze con
la chiave…”
“Potevo
chiudermi nel mio ufficio se volevo stare da sola.”
Ma quanto sono infantile?
“Si ma
avresti insospettito tutto l’ospedale, qui invece non se ne sarebbe accorto
nessuno.” Wilson non sembrava aver intenzione di concederle un attimo di tregua.
“Quindi sei venuta qui a nasconderti, perché?”
Anche Lisa
incrociò le braccia e lo guardò con sfida, cercando di darsi un contegno.
“In più non
hai fatto quella domanda.” continuò l’oncologo, per niente colpito dai suoi
gesti.
“Che
domanda?” Lisa assunse un tono infastidito, come se Wilson stesse dicendo delle
assurdità.
In realtà
aveva capito perfettamente a cosa si riferiva, e incominciò a vacillare.
Lei riusciva
a combattere anche quando si sentiva fragile, quando era in difficoltà. Ma
adesso Wilson la stava mettendo a nudo, ed era sicura che avrebbe continuato
imperterrito a distruggere tutti i castelli che lei avesse costruito come
scusa.
Non si
sarebbe fermato, l’avrebbe costretta ad affrontare la cosa.
Ne ebbe
paura.
“Sai
benissimo a cosa mi riferisco.” disse lui, non perdendo mai il contatto visivo
con lei.
Ad un tratto,
Lisa capì cosa vedeva nei suoi occhi: dispiacere. Wilson era dispiaciuto per
lei, e per quello che le stava facendo.
Questo però,
evidentemente, non condizionava le sue azioni.
“Dovevi
chiedere dov’è House.”
Si è vero, se
avesse fatto quella domanda probabilmente si sarebbe risparmiata quel
quadretto.
“Io non so
dov’è House.” rispose lei, intuendo dove voleva arrivare l’amico.
“Allora
perché non l’hai chiesto?”
“Perché è
ovvio che nessuno di voi sa dov’è, visto che non state discutendo il caso con
lui, ma state sparando ipotesi a casaccio!” alzò la voce, sperando di spaventare
Wilson, sperando di scoraggiarlo almeno un po’.
Tentativo
fallito.
Lui non batté
ciglio e continuò a parlare con voce pacata ma sicura: “L’avresti chiesto
comunque. Lo chiedi sempre. E’ il tuo lavoro.”
Lisa rimase
in silenzio, le braccia ancora incrociate e l’espressione di sfida sul
volto.
Non le veniva
in mente nulla da ribattere, e anche se avesse trovato qualcosa di sensato da
dire sapeva che sarebbe stato inutile. Wilson non si sarebbe fermato.
Distolse lo
sguardo da quello dell’oncologo, incominciando a farlo vagare per la stanza,
finché non lo posò, sconfitta, sul pavimento.
Lui aspettò
in silenzio, rispettando quel suo momento di smarrimento.
Cuddy si
immaginò House nella sua stessa situazione e si visualizzò perfettamente le sue
azioni: lo avrebbe guardato fisso negli occhi per qualche secondo, poi si
sarebbe voltato e, senza dire una parola, avrebbe lasciato la stanza.
Per qualche
istante pensò di utilizzare la stessa tecnica: la fuga.
Ma non era da
lei.
“Ok, ci sono
stata a letto.” disse in un fiato, continuando a fissare il pavimento.
Solo qualche
istante, poi rialzò lo sguardo e lo puntò ancora negli occhi di Wilson.
“Contento?”
Wilson scosse
la testa, mentre un ampio sorriso si dipingeva sul suo viso.
“Cos’hai da
ridere, Wilson? Non era questo che volevi? Che ammettessi di aver scopato con
House, così che tu potessi partire con la tua predica su quanto sia rischioso,
su tutte le cose terribile che accadrebbero se mi legassi a lui o cose simili?!”
la risata distratta dell’oncologo l’aveva fatta terribilmente arrabbiare, e ora
gli stava urlando contro la sua indignazione. Non riuscì ad individuare un
motivo razionale per essere così arrabbiata con Wilson, ma lo era. Eccome.
Che diritto ha di farmi sentire
così?!
Wilson alzò
verso di lei i palmi della mani e indietreggiò di un passo, senza però mostrare
di essere realmente colpito dalla reazione del suo capo.
“Lisa…” disse
il suo nome con dolcezza mista a rassegnazione.
Come se
quella scenata fosse normale, come se fosse tutto perfettamente normale e
gestibile senza difficoltà.
Come se se lo
aspettasse.
Lei continuò
a fissarlo con sguardo infuocato, senza però violare quella distanza che lui
aveva preso facendo quel passo indietro, e senza dire nient’altro.
Wilson si
assicurò che la donna si fosse calmata almeno un po’, prima di incominciare a
parlare. “Lisa…Cuddy. Non sono fatti miei con chi vai a letto. Però…tu sei il
capo di questo ospedale. Devi contenere la stravaganza di House e devi
preoccuparti di dove sia. Quel ragazzo sta morendo. Il mio paziente sta morendo.
E questi sono fatti miei.”
Poi si avviò
verso la porta, mentre la dottoressa lo seguiva con lo sguardo, senza trovare il
coraggio di dire nulla.
Aveva
ragione, aveva dannatamente ragione.
Prima di
aprire la porta l’oncologo si voltò ancora verso di lei.
“Tu non sei
House. Puoi gestire questa cosa senza mettere in mezzo la tua professionalità,
ne sono sicuro. Continua a fare il tuo lavoro.” le rivolse un sorriso
incoraggiante, e lasciò la stanza.
Lisa fece un
respiro profondo, cercando di calmarsi.
Si vergognava
terribilmente.
Aveva
aggredito Wilson, senza motivo.
Lui voleva
solo assicurarsi che non tralasciasse il suo ruolo in ospedale.
Lui era
sempre così…giusto.
Faceva sempre
la cosa giusta.
Tu non sei House. Puoi gestire questa cosa
senza mettere in mezzo la tua professionalità, ne sono
sicuro.
Se lo diceva
il saggio James Wilson…
Si accorse
che le tremavano le mani.
“Stupida…”
mormorò, senza accorgersi che stava parlando ad alta voce.
Sbuffò
sonoramente e si diresse verso la porta. Si bloccò a metà strada, tornando
indietro.
Scosse la
testa e, questa volta, aprì decisa la porta e tornò nel suo ufficio.
Si sedette
alla sua scrivania, prese il telefono e incominciò a fare il suo lavoro.
Incominciò a
cercare il dottor Gregory House.
19 ottobre 2006, h 4.00
pm
Princenton Plaisboro Teaching
Hospital-Camera di Mark Shone
Il petto del
giovane ragazzo sdraiato nell’unico letto della stanza si alzava ed abbassava
regolarmente. Gli occhi chiusi e la bocca semiaperta gli davano un’espressione
rilassata.
Sembrava
dormisse.
In realtà era
sveglio, il suo cervello era attivo, per quanto l’ictus che l’aveva da poco
colpito lo permettesse. Lo sforzo che stava facendo era enorme, e forse solo
l’immagine delle sue mani, che stringevano le lenzuola così forte che le nocche
erano diventate bianche, poteva dare l’idea del tormento che stava passando.
Stava
cercando di parlare.
Stava
cercando di formulare una parola, una qualsiasi parola.
Quella
prigione di silenzio in cui era rinchiuso lo stava facendo impazzire.
Ed erano solo
passate poche ore; i medici gli avevano parlato di giorni.
Ci sarebbero
voluti giorni perché tornasse a parlare.
Sempre che
ciò accadesse. Era sempre più convinto che non sarebbe mai accaduto, che sarebbe
rimasto muto per sempre.
Una forte
rabbia prese il posto dello sconforto che lo invadeva, facendogli stringere i
pugni con ancora più forza.
Ad un certo
punto sentì un rumore di passi al suo fianco.
Spalancò gli
occhi e…avrebbe urlato, se il suo cervello gli avesse obbedito.
Rimase invece
immobile, gli occhi spalancati e le braccia improvvisamente senza forza.
Un ragazzo lo
fissava dall’alto in basso, con un sorriso stampato in faccia.
“Sono stati
loro.” la voce arrivò chiara nella sua testa.
Quel ragazzo
però non aveva parlato, non aveva aperto bocca.
“Ti stanno
usando come cavia, ti vogliono far diventare pazzo.”
Terrore.
Il terrore si
impossessò di lui, percorrendogli il corpo, come fosse un viscido animale che lo
avvolgeva lentamente, fino a soffocarlo.
Era il
terrore della consapevolezza.
Aveva capito
tutto.
Era tutto un
esperimento, lo stavano usando.
Quei medici
lo stavano studiando come una cavia da laboratorio.
Gli avevano
tolto la parola, e chissà cos’altro gli avrebbero fatto.
Aveva ragione
lui.
Suo fratello
non gli avrebbe mai mentito.
19 ottobre 2006, h 4.20
pm
Princenton Plaisboro Teaching Hospital-River’s
Park
Il cellulare
riprese a vibrare insistentemente.
House alzò
gli occhi al cielo, mentre combatteva con la voglia di gettarlo nel cestino più
vicino.
Chase non
aveva smesso un attimo di chiamarlo, probabilmente le onde magnetiche del
cellulare gli avevano ormai fuso il cervello.
Buttò
un’occhiata distratta sul display, convinto di dover leggere per l’ennesima
volta il numero del suo giovane assistente.
Ma questa
volta non era Chase.
Era
Cuddy.
La scritta
“Non rispondere” lampeggiava sul piccolo schermo; aveva salvato così il numero
dell’ufficio del suo capo.
Non se lo
aspettava.
Era convinto
che lo avrebbe evitato per un po’.
Era la
seconda volta che i fatti andavano contro le sue previsioni, in pochi secondi, e
questo non gli piacque.
“Palla!!!” un
gruppo di ragazzini aveva lanciato il pallone troppo forte, facendolo finire tra
i suoi piedi, seduto sulla panchina più isolata del parco.
“Vienitela a
prendere!” rispose House, scocciato.
Non
demordeva.
Continuava a
chiamarlo, a ripetizione.
Per il
caso.
Era l’unico
motivo per cui l’avrebbe chiamato.
Forse quel
ragazzo aveva davvero bisogno di una sua diagnosi.
Avrebbe
dovuto sentire la sua curiosità incominciare a smuoversi, fino ad invaderlo
completamente.
Ma non
accadde nulla.
Non aveva
voglia di pensare a quel ragazzo, di giocare con l’enigma del giorno.
Voleva solo
restare lì seduto, col sole che di tanto in tanto spuntava fra le nuvole e
riscaldava un po’ il gelo che aveva dentro.
Quel gelo che
lo paralizzava.
Non avrebbe
mai risposto, non ci pensava neanche.
19 ottobre 2006, h 1.45
pm
Princenton Plaisboro Teaching
Hospital-Tetto dell’edificio
…..
“E ora torna
nel tuo ufficio e fai il tuo lavoro. Le ore che hai passato qui a guardare le
nuvole le recupererai in ambulatorio.”
Il famigliare
tono autoritario di Lisa Cuddy non gli era mai sembrato così piacevole.
Non avrebbe
mai pensato che l’ordine di restare in ambulatorio per ore extra gli avrebbe
provocato un piacere sottile, prima o poi.
Ma alla fine
quello era un ritorno alla normalità, una testimonianza che l’incidente di
quella notte non aveva portato a grandi cambiamenti.
Lui odiava i
cambiamenti.
Le ore extra
le avrebbe affibbiate a Chase; dopo che lo aveva beccato in quello stato la sera
precedente, avrebbe potuto massacrarlo per mesi.
Si sentì
improvvisamente più forte.
Se le cose
dovevano tornare come prima, anche lui doveva fare la sua parte:
“E io che
pensavo bastasse una notte di sesso per addolcirti un po’! Sono un illuso!”
Percepì il
suo sorriso mentre le voltava le spalle e se ne andava a fare il suo lavoro.
Tentò di
ignorare quella strana sensazione che gli inquinò l’animo per qualche secondo:
delusione forse?
Aprì la porta
per tornare nell’edificio, preparandosi a fare quei pochi gradini che separavano
il tetto dal primo pianerottolo, dove c’era l’ascensore.
Non arrivò
neanche a metà che dovette fermarsi.
La porta
dietro di lui si era aperta, lei lo stava raggiungendo.
Si voltò
quando la sentì vicina, troppo vicina.
La trovò lì
davanti, a pochi centimetri da lui.
Senza
esitare, lo abbraccio e posò la bocca sulla sua.
La bocca
premeva sulla sua con insistenza.
….
Quell’interruzione non ci
voleva.
Quando mai
aveva ordinato alla sicurezza di controllare le scale, ogni ora.
Si odiò per
quello.
Io e la mia stupida
paranoia.
Cosa aveva
fatto?
Perché aveva
rovinato tutto?
Il suo tanto
desiderato ritorno alla normalità giaceva sconfitto sul pavimento, insieme alla
sua camicetta e al suo reggiseno.
Non aveva il
coraggio di alzare lo sguardo, né di fare nessun’altro movimento.
La fronte
appoggiata sul petto di House, lo sentiva respirare veloce.
In quel
momento sperò che ricominciasse a baciarla, o che si arrabbiasse con lei per
come gli era saltata addosso.
Qualunque
cosa, pur che fosse lui a farla.
Quei secondi
di immobilità le sembrarono interminabili.
Poi sentì la
pressione delle sue mani sulle spalle, mentre la scostava dal suo petto.
Lei lo lasciò
fare, portandosi d’istinto una braccio sul seno, come per proteggersi.
Si costrinse
a guardarlo negli occhi.
Lui però,
aveva già voltato il viso verso le scale.
Se ne andò,
scendendo faticosamente gli ultimi scalini che lo separavano dal
pianerottolo.
Non disse
nulla, non la guardò neanche.
Questa
era la cosa peggiore che poteva fare.
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Capitolo 5 *** 5 – Il mio secondo tentativo ***
5 – IL MIO SECONDO TENTATIVO
20 ottobre 2006, h 8.00
am
Princenton Plaisboro Teaching
Hospital-Camera di Mark Shone
Mark la spinse con forza lontana da lui.
Cameron fu
presa alla sprovvista, e quasi perse l’equilibrio.
Finì in mezzo
ai macchinari, e il rumore che provocò fece accorrere un’infermiera.
“Tutto bene,
dottoressa?” chiese questa, vedendo l’immunologa disorientata.
“Si…no.” posò
lo sguardo sul paziente, che la guardava con aria di sfida. “Sembra che Mark non
voglia che gli attacchi la flebo.”
“Devo
chiamare qualcuno?”
“No, non si
preoccupi.” Cameron aspettò che l’infermiera uscisse, poi parlò al giovane
ragazzo che continuava a fissarla con astio. “Mark, devo metterti questa, sono
antibiotici. Pensiamo tu abbia un’infezione che ti provoca i coaguli, e questi
combattono le infezioni più comuni.”
Aspettò un
cenno d’assenso dal ragazzo, ma questi la fissava immobile.
Riprovò ad
avvicinarsi, ma appena fu a portata del paziente, questi l’afferrò per un
braccio, e con l’altra calò qualcosa che poteva essere un coltellino da cucina,
o un bisturi, su di lei.
Cameron sentì
un dolore acuto al braccio, che riuscì a strappare dalle mani del ragazzo con un
strattone. Indietreggiò spingendo sulla ferita per evitare che sanguinasse
troppo e guardando con gli occhi terrorizzati Mark, che ora aveva un’espressione
strana sul viso.
Sorrideva
forse?
20 ottobre 2006, h 8.15
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital -
ambulatorio, stanza 2
“Sembra che
rifiuti le cure.”
Chase alzò lo
sguardo dal braccio ferito, e la guardò negli occhi perplesso. “Sembra che rifiuti le cure?! Cameron, ti
ha aggredita!”
“Era
spaventato.”
“Aveva un
coltello. Era un’aggressione premeditata.”
Cameron
distolse lo sguardo da lui, pensierosa.
Il taglio le
faceva un male cane, era profondo anche se non troppo grosso: uno squarcio di
pochi centimetri sul bianco avambraccio.
Faceva fatica
a trattenere le lacrime di dolore, e di rabbia.
Se fosse
stato qualcun altro probabilmente avrebbe fatto sedare il paziente al primo
rifiuto, senza procurarsi una ferita come quella.
Aveva troppa
fiducia nelle persone, ancora troppa fiducia.
Quando House
avrebbe saputo dell’incidente, avrebbe deriso lei invece di arrabbiarsi con il
paziente.
Come stava
facendo Chase.
“Quell’idiota, lo lascerei
morire in preda ai suoi ictus!” l’intensivista stava cercando di concentrarsi
sulla medicazione, e aveva intenzione di tranquillizzare Cameron, ma la rabbia
che gli era montata dentro gli rendeva impossibile mantenere la calma.
“Devi
denunciarlo!”
“Chase no…E’
un casino…Cercherò solo dei stare più attenta ad avvicinarmi a lui.”
Il medico
scosse la testa, mentre disinfettava il taglio.
“Brucerà un
po’, scusa.”
Non la sentì
replicare nulla, e continuò il suo minuzioso lavoro.
“Quindi
facciamo finta di niente?”
Non
sentendola rispondere, alzò lo sguardo su di lei.
Una lacrima
le percorreva il viso, mentre distoglieva gli occhi lucidi dai suoi.
“Fa così
male?” le chiese confuso.
“No, è che…”
non voleva scoppiare a piangere davanti al collega, quindi rimase in silenzio,
che era l’unico modo per trattenere i singhiozzi.
Abbassò lo
sguardo sulla sua ferita, e indugiò sulla mano di Chase, ferma accanto al
taglio, mentre reggeva il bastoncino di cotone imbevuto di disinfettante.
La vide
posare il cotone e la mano sparì dal suo campo visivo.
La sentì poi
appoggiarsi sulla sua spalla, e stringerla affettuosamente.
“Tu ti sei
comportata da bravo dottore. Io avrei fatto esattamente lo stesso.”
Alzò lo
sguardo sul viso del collega, e quando vide gli occhi lucidi di rabbia, e il
sorriso rassicurante che le rivolgeva, le venne ancora quella forte voglia di
buttargli le braccia al collo, com’era accaduto la mattina precedente a casa
sua.
“Ti viene da
piangere perché sei scossa, spaventata. E’ normale.”
Poi la
stretta sulla sua spalla si trasformò in una debole pacca amichevole e la mano
tornò ad afferrare il bastoncino e a fare il suo lavoro.
Nonostante il
caso apparentemente irrisolvibile, la sparizione di House e l’aggressione,
entrambi erano davvero felici di essere lì, insieme.
20 ottobre 2006, h 9.00
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di Wilson
Il bussare
energico alla porta lo fece trasalire.
“Avanti!”
Quando vide
entrare Cuddy, con un’espressione che voleva apparire sicura e decisa, ma che
lui sapeva benissimo tradire preoccupazione, si tolse gli occhiali e spostò da
parte i documenti che stava compilando.
“Tutto bene?”
le chiese, facendole cenno di sedersi.
“Si” rimase
in piedi “Ma non ho ancora notizie di House.”
La donna
aspettò che Wilson replicasse qualcosa, ma questi continuava a guardarla in
attesa.
“L’ho
chiamato tutto ieri, sia sul cellulare che a casa. Anche ieri sera. Non mi ha
mai risposto.”
“Io sono
passato a casa sua e non c’era.”
“Magari non
ti ha aperto…”
“No, non
c’era. Ho le chiavi.”
Rimasero
entrambi in silenzio, pensierosi.
Cuddy teneva
le braccia incrociate, nervosamente.
Mosse qualche
passo verso la porta. “Non può sparire così senza avvisare. Devo prendere dei
provvedimenti.”
Wilson annuì
distrattamente.
Lisa era
quasi sulla porta quando lui parlò: “E’successo qualcosa?”
Lei si voltò
e lo guardò con aria interrogativa.
“Intendo tra
voi due, oltre all’altra notte. E’ successo qualcosa?
“No.” mentì
lei.
“Ok, fai
quello che devi fare.”
20 ottobre 2006, h 9.10
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di House
“Allora,
l’avete trovato quel tumore?”
I tre
assistenti di House si voltarono verso il loro capo, che entrava in quel
momento, mangiando una ciambella.
Restarono
qualche istanti in silenzio, confusi da quell’apparizione improvvisa.
“Ma dov’eri
finito?!” chiese Foreman indignato.
“Sono andato
a comprare questa ciambella.” rispose House, mostrando l’ultimo boccone per poi
infilarselo prontamente in bocca. “Le vendono a Vancouver, mi è venuta una
voglia insaziabile e…ehi! Ho preso il primo aereo per tornare il più presto
possibile qui da voi, e mi ricompensate con quell’espressione vacua!” si diresse
verso la lavagna. “E neanche uno straccio di diagnosi…siete un disastro!”
“Non c’è
nessun tumore, potrebbe essere infezione.” disse Chase, il più rapido ad
adeguarsi all’altalenante House.
“Il
condizionale non mi piace.”
“Sembra non
esserci nient’altro.”
“Scommetto
neanche un’infezione.”
“Non
l’abbiamo ancora trovata, ma pensavamo di somministrare al paziente degli
antibiotici ad ampio spettro, per vedere se migliora.”
House sembrò
riflettere qualche istante. “Va bene, per festeggiare il fatto che in un giorno
senza di me non avete ucciso nessuno, potete giocare con i vostri
antibiotici.”
“Ci abbiamo
già provato, ma il paziente ha aggredito Cameron appena ha tentato di
avvicinarsi.” Chase indicò il braccio fasciato della collega, seduta accanto a
lui.
“Dobbiamo
noleggiarti una guardia del corpo. Prima quasi ti contagi con un paziente
affetto da HIV, ora ti fai mordere da un ragazzino…”
“Mi ha
tagliata con un coltello.” lo interruppe l’immunologa, impassibile.
Il sarcasmo
del suo capo, di certo, non la sorprendeva.
“Ah.” House
sembrò esitare un attimo “E dove lo ha preso un coltello?”
“Dalle posate
della cena di ieri.” Chase parlò per la collega.
“Hai anche un
zelante avvocato accusatore! Dirò a Cuddy di risparmiarsi i soldi del legale
questa volta…” il tono sprezzante del suo capo non ferì minimamente Chase, che
continuò a parlare, apparentemente indifferente. “Ha deciso di non sporgere
denuncia.”
House guardò
Cameron per qualche secondo. “Come vuoi!” esclamò poi, “Io però vado a parlare
con l’imputato. La parola “follia omicida” starebbe proprio bene lì, tra arresto
cardiaco e ictus!”
“Il paziente
non parla ancora.” lo fermò Foreman.
“Però potrà
scrivere!”
“E’
pericoloso, non è ancora sedato.”
House, di
risposta, sollevò il suo bastone, e poi lasciò la stanza, speditamente com’era
entrato.
20 ottobre 2006, h 9.15
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Corridoio del primo piano
Cuddy si
stava dirigendo all’ufficio di House, sperando di riuscire ad avere qualche
notizia sul diagnosta da qualche membro del suo staff.
Quando lo
vide venirle incontro in corridoio, con la cartella del paziente in una mano e
il bastone stretto nell’altra, tante emozioni si condensarono in lei, dal
sollievo, alla frustrazione, alla rabbia. Oltre a quella morsa allo stomaco, a
cui preferì non dare un nome.
“Buongiorno
Cuddy!” si limitò a dirle lui, passandole accanto e proseguendo senza esitare
neanche un secondo.
Lisa esitò
qualche istante, indecisa sul da farsi, poi si voltò e lo seguì, raggiungendolo
dopo pochi passi.
“Si può
sapere dove diavole sei finito?!”
“Che importa
del passato!? Ora sono qui e faccio il mio lavoro!”
“Importa
eccome! E’ tutto ieri che…” si bloccò di colpo, realizzando a cosa si
riferissero le sue parole.
Anche House
si era fermato, e la guardava negli occhi, tentando di seguire il corso dei suoi
pensieri.
“Che importa del
passato!?”
House non si
stava riferendo solo alla sua sparizione di ieri.
Si stava
riferendo a quello che era accaduto tra loro.
Ci stava
riprovando.
Provava di
nuovo a cancellare tutto e a continuare come se niente fosse.
Il primo
tentativo era fallito clamorosamente, ed era stata colpa sua.
Ma anche lui
aveva contribuito.
Non l’aveva
respinta, non subito almeno.
Aveva
risposto al suo bacio con la stessa passione, aveva incominciato a
spogliarla…
Il suo
silenzio stava diventando troppo lungo, e House fece per andarsene.
Voleva che le
cose tornassero come prima?
Questo
significava niente indulgenza per lui.
“House!” il
diagnosta si voltò ancora, con l’aria scocciata. “Nel mio ufficio, entro ora di
pranzo! Stabilizza la situazione con il paziente e poi raggiungimi.” Cuddy parlò
con voce ferma.
House fece un
cenno col capo, che probabilmente rappresentava un “si”.
Si diedero
entrambi le spalle nello stesso momento, andando per le loro strade.
Tentativo numero due in
corso.
20 ottobre 2006, h 9.45
am
Princenton Plaisboro Teaching
Hospital-Camera di Mark Shone
Erano diversi
minuti che House sedeva nella camera del suo paziente.
Il ragazzo
dormiva, l’espressione rilassata.
Sembrava più
giovane della sua età, era magro e ossuto.
Gli sembrava
difficile che avesse potuto aggredire qualcuno, anche una donna gracile come
Cameron.
Ma l’aveva
fatto, e con un coltello.
Un coltello
che si era procurato durante la cena, probabilmente con lo scopo di fare del
male a qualcuno.
Di ucciderlo
magari.
O di
difendersi?
Poteva
sembrare una distinzione superficiale, ma anche se la conseguenza a cui aveva
portato era comunque l’aggressione a una dei suoi assistenti, il fatto che
stesse attaccando o difendendosi per lui era fondamentale.
Significava
follia omicida o paranoia.
Due sintomi
diversi, due indizi diversi per la sua diagnosi.
Mark aprì gli
occhi, e appena si rese conto di avere qualcuno così vicino, sembrò molto
spaventato.
Provò a
parlare, senza riuscirci.
Il vederlo
così disperato e spaventato, mentre boccheggiava alla ricerca della parola
giusta, che non gli sarebbe venuta per ancora diverso tempo, House non provò
nulla che assomigliasse al dispiacere o alla pietà.
Solo
curiosità, una curiosità che invadeva tutto, che non gli permetteva di pensare
ad altro.
Sorrise,
fiero di sé.
Ieri era
passato.
Quella notte
in un anonimo hotel, lontano dalla sua casa, gli aveva permesso di ritrovare sé
stesso.
Aveva
allontanato le immagini che lo avevano provocato tutto il pomeriggio, le
sensazioni della pelle sulla pelle, e del respiro dentro al respiro.
Le aveva
chiuse dentro una bella scatola, che aveva nascosto in qualche angolo buio della
sua mente.
Dovevano
restare lì, non poteva permettersi che avessero la meglio su di lui.
Sulla
ragione, sui suoi freddi calcoli.
Sulla
diagnosi.
Quella doveva
venire prima di tutto.
I pensieri, i
ricordi, le sensazioni, potevano essere sepolte.
Rimaneva solo
quella fastidiosa morsa allo stomaco quando la incontrava…su quella doveva
ancora lavorarci.
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Capitolo 6 *** 6 - Le mie idee masochiste ***
6 – LE MIE IDEE MASOCHISTE
20 ottobre 2006, h 11.15
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di House
Foreman
rientrò in ufficio dopo un giro d’ispezione nella camera del paziente. “E’
ancora lì, il ragazzo sembra dormire. Sta lì e lo guarda.” disse sconsolato ai
colleghi, riferendosi a quello che stava facendo il suo capo nella stanza del
paziente, ormai da un paio d’ore.
“L’ha
sedato?” chiese Cameron, passandosi distrattamente una mano sulla fasciatura al
braccio.
“Non lo so,
non ho chiesto niente. Ho fatto in modo che non mi vedesse.” rispose il
neurologo, versandosi l’ennesima tazza di caffè sotto lo sguardo contrariato
degli altri due medici.
Ci fu qualche
minuto di silenzio, quel silenzio che mette agitazione in situazioni innaturali,
ma che ha un benefico effetto rilassante su persone che sono abituate a passare
tanto tempo insieme.
Foreman
sorseggiava il suo caffè, facendo scorrere lo sguardo pensieroso sulla breve
lista di sintomi scritti in modo frettoloso sulla lavagna; Chase teneva in mano
il suo solito giornale d’enigmistica, senza però prestarci realmente attenzione;
Cameron si massaggiava il braccio, e spostava alternativamente lo sguardo sugli
altri due medici seguendo il corso dei suoi pensieri.
L’ingresso di
House ebbe il solito effetto a ciclone su di loro: la calma e l’armonia vennero
spazzati via in pochi istanti, e l’agitazione prese il sopravvento.
“Paranoia!”
esclamò, raggiungendo rapido la lavagnetta e aggiungendo il nuovo sintomo.
“Cosa…?”
chiese confuso Chase.
“Ehi, sveglia
bambini!” House alzò ulteriormente il tono della voce, sollevando
pericolosamente il bastone da terra. “Il paziente con l’hobby dell’intaglio! Il
signor ictus e attacco cardiaco!”
Gli altri tre
annuirono.
“Non voleva
ucciderti, voleva difendersi.” continuò House rivolto a Cameron.
“Te l’ha
detto lui?”
“No, l’ho
dedotto io, hai un aspetto così minaccioso che è praticamente impossibile non
aver paura di te!” rivolse alla dottoressa un’espressione sarcastica. “Mi sono
addentrato nel folle discorso che ha farfugliato. Straparla di esperimenti su di
lui e cose simili. E’ paranoia.” concluse, puntando soddisfatto il dito sul
sintomo appena aggiunto.
Cameron,
Forman e Chase annuirono ancora.
House rimase
a guardarli qualche secondo, in attesa.
“Allora?!”
I tre medici
si guardarono a vicenda, sperando che qualcuno tirasse fuori un’idea.
“L’infezione
è nel cervello…” tentò Foreman.
“O il
tumore.” lo seguì Chase.
“Potrebbe
essere un sintomo psichiatrico, legato ai traumi degli ultimi giorni. Potrebbe
non essere legato al resto.” intervenne Cameron. “Magari…è una persona che non
si fida dei medici e, visto la diagnosi di cancro terminale, le terapie dolorose
e la sua miracolosa guarigione, questa sfiducia si è trasformata in paura.
Magari la sua paranoia è…normale…”
Ci fu qualche
istante di silenzio.
“Per essere
una donna che si è fatta aggredire da un uomo praticamente morto, non sembri
tanto stupida.” disse poi House, guardandola pensierosa.
“Grazie…”
mugugnò le, rassegnata alla pungente ironia del suo capo.
“Credi che la
paranoia non sia un sintomo?! Credi sia una sorta di disturbo post traumatico da
stress? E allora che hai scritto a fare “paranoia” lì?” chiese Chase,
confuso.
House
incominciò a passeggiare avanti e indietro per l’ufficio, mentre i suoi tre
assistenti lo seguivano con lo sguardo. “Quello che ha detto Cameron non è così
impossibile. Quel paziente ha subito diversi shock negli ultimi mesi, e può
essere che sono stati quelli a farlo andare fuori di testa. Mettiamo però che,
oltre a quello che sembra essere paranoia, io trovo un altro sintomo
neurologico: allucinazioni ad esempio. Che direste?”
“Se la sua
fosse realmente paranoia, e avesse
delle vere allucinazioni, il campo si
restringerebbe parecchio.” rispose prontamente Foreman.
“Esatto. Ma
il paziente non ha le allucinazioni. O almeno non abbiamo garanzie che ce le
abbia.”
“Ma allora
questa ipotesi è pura fantasia?” chiese Cameron ,cercando di capire cosa stava
passando nella testa del suo capo.
“No, ha una
base di realtà. Il ragazzo mi ha detto che suo fratello è venuto qui e gli ha
parlato, ma dall’anamnesi non risultano fratelli. Quindi il fratello non esiste,
se l’è inventato. Oppure esiste, da qualche parte, e lui ha immaginato di
vederlo qui, quindi ha avuto un’allucinazione. Ultima ipotesi: esiste ed è stato
qui, quindi l’anamnesi di Wilson fa schifo!”
“Tre
possibilità, ed ognuna ci da’ un’informazione diversa.” Foreman era riuscito a
raggiungere il ragionamento del suo capo, capendo finalmente dove voleva
arrivare.
“Inventarsi
un fratello indica un procedimento mentale complesso, potrebbero essere falsi
ricordi. Se invece avesse avuto un’allucinazione, sarebbe un altro tipo di
sintomo da aggiungere alla lista. Dobbiamo trovare questo fratello, sia che si
trovi solo nella testa del paziente, sia che esista veramente.”
House aveva
un’espressione quasi felice, gli occhi lucidi e un tremolio leggero alle mani: i
sintomi dell’eccitazione, quella che lo prendeva quando si buttava dentro un
caso con tutto se stesso. Tutti e tre i suoi assistenti riconobbero
quell’espressione, e, come sempre, senza che lo volessero quell’eccitazione
contagiò un po’ anche loro.
“Che facciamo
allora?” domandò Chase, impaziente.
House scosse
la testa, e fece quei pochi passi che lo separavano dall’intensivista. Gli
strappò via dalle mani l’enigmistica e la buttò brutalmente nel cestino,
sbuffando.
Poi sparì nel
dietro la sua scrivania, incominciando a frugare nei cassetti.
“Cameron,
rintraccia i genitori del ragazzo, la sua fidanzata e i suoi amici. Devi
scoprire se ha un fratello.” ordinò alla dottoressa, continuando a rovistare tra
vecchie cartelle e riviste scientifiche. “Foreman, dai un’occhiata al cervello
del paziente. Una po’ più approfondita se l’hai già fatto.”
Il neurologo
annuì, dirigendosi verso la porta.
“Chase…”
House si allontanò dalla scrivania, reggendo una rivista tra le mani e
sfoggiando un’espressione vittoriosa. Mise il giornaletto tra le mani
dell’intensivista. “Un regalo da parte mia, da utilizzare al posto di quella
robaccia.” indicò con un gesto frettoloso la spazzatura, dove giaceva
l’enigmistica tanto cara al ragazzo. “Non finirai mai di imparare da me.”
Soddisfatto,
si avviò anche lui verso la porta dell’ufficio.
Chase posò lo
sguardo sulla copertina della rivista, dove una donna completamente nuda lo
guardava con espressione provocante. D’istinto, spostò lo sguardo su Cameron,
che gli rivolse un’espressione disgustata, prendendo le distanze da lui.
“Io sto qui a
sfogliare i tuoi giornaletti porno?!” chiese allibito Chase al suo capo.
“Il tuo
giornaletto! Te l’ho appena regalato, piccolo ingrato!” House lasciò la stanza,
per poi affacciarsi alla porta pochi istanti dopo “Va con lei.” ordinò infine,
indicando Cameron con un gesto del capo.
Senza dare ai
medici la possibilità di ribattere, si allontanò velocemente.
Lisa Cuddy lo
stava aspettando.
20 ottobre 2006, h 11.30
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di Cuddy
“Cosa dovrei
fare esattamente?” chiese Wilson perplesso, in piedi davanti alla scrivania
della donna.
“Siediti. Lì,
sul divano.” rispose lei distrattamente, continuando a battere rapidamente sulla
tastiera.
Wilson
sembrava confuso, ma decise comunque di fare come lei gli diceva.
Si sedette
sul divano, e aspettò.
Passarono
alcuni minuti, ma Lisa non sembrava avere intenzione di dargli una
spiegazione.
“Hai bisogno
di qualcos…”
“Fai silenzio
per favore. Questi documenti sono importanti.” non distolse lo sguardo dallo
schermo del computer neanche per un istante.
“Quindi…sto
qui seduto?” chiese l’oncologo titubante.
“Si.”
“Zitto?”
“Si.” ”Senza sapere perché.”
osservò infine Wilson. Era una constatazione più che una domanda, e infatti non
ci fu nessuna risposta da parte della donna.
L’aveva
chiamato qualche minuto prima, chiedendogli se era disponibile per
un’oretta.
Lui le aveva
risposto che era libero, e l’aveva raggiunta nel suo ufficio.
Poi gli era
stato ordinato di stare seduto in silenzio.
“Se io
volessi una spiegazione?”
“Sei mio
amico, vero?”
“Certo.”
“Quindi puoi
farmi un favore senza fare domande?”
“Devo
ubbidirti perché sono tuo amico?”
“Si. O se
preferisci perché sono il tuo capo.” concluse la dottoressa, finalmente posando
gli occhi su di lui.
Wilson si
lasciò andare sui cuscini dietro di lui, sentendosi impotente.
Vedendo che
non aveva nient’altro da ribattere se non un grosso sospiro, Lisa riprese a
lavorare ai suoi documenti.
Passarono
altri minuti, riempiti solo dal nervoso battere sulla tastiera di Cuddy. Wilson
aveva lo sguardo perso nel vuoto, e la fronte corrugata: stava riflettendo.
“Stiamo
aspettando qualcuno?” chiese improvvisamente, come colto da
un’illuminazione.
Sentendo la
voce dell’oncologo, Lisa quasi si spaventò.
Si era
dimenticata della sua presenza.
“No.” rispose
in un soffio, scocciata per l’interruzione.
“Stiamo
aspettando House.” concluse Wilson, soddisfatto per esser finalmente riuscito a
capire qualcosa di quell’assurda situazione.
Cuddy non
fece in tempo a ribattere nulla, che House entrò nel suo ufficio, come sempre
senza bussare.
“Eccomi,
puntuale come sempre!” esclamò al suo ingresso.
Entrambi gli
uomini si accorsero del leggero sussulto di Lisa, al suono della voce di
House.
Le dita
esitarono per un istante sulla tastiera, e poi ripresero a battere in maniera
ancora più frenetica.
“Siediti.”
ordinò decisa al diagnosta.
House obbedì,
stranamente senza replicare nulla.
Nel momento
in cui si fece avanti, notò una presenza con la coda dell’occhio; si voltò verso
Wilson, guardandolo con aria confusa. “E tu che ci fai qui?”
“Me lo sto
chiedendo anch’io…”
Entrambi si
voltarono verso Lisa per avere una spiegazione, ma questa continuò a scrivere a
computer, senza prestar attenzione a ciò che le accadeva attorno.
O almeno così
sembrava.
“Lo hai
chiamato perché non vuoi restare sola con me?” insinuò House, mentre un sorriso
appena percettibile gli saliva alle labbra.
“Ma non dire
stronzate.” rispose lei in modo brusco.
Forse troppo
brusco, tanto da bloccare ogni replica da parte di House e Wilson.
Aspettarono
in silenzio i secondi che servirono alla donna per finire di compilare i suoi
documenti.
Il rumore
della stampante che completava il lavoro suonò per tutti come il “gong” d’inizio
di una battaglia.
Ci aveva
ragionato.
Dopo il
rapido scambio di battute con House, in corridoio, si era costretta a pensare
bene cosa fare.
Tornare come
prima era ciò che sarebbe stato meglio per entrambi.
Non era,
però, ciò che lei voleva.
Aveva dovuto
ammetterlo con se stessa: si era presa una cotta per House.
Certo, gli
era sempre piaciuto, ma dopo che era stata a letto con lui, il pensiero di non
farlo più le risultava terribilmente angosciante.
Quindi fare
finta di niente, e comportarsi come se non fosse accaduto nulla, sarebbe
stato…innaturale.
Non ce
l’avrebbe mai fatta, finché il suo cuore avesse battuto a quella velocità solo
sentendo parlare di lui, e finché l’avessero colta i brividi pensando a quei
loro pochi momenti insieme, il pensiero di continuare a fare il capo, con la
solita autorità, e quello di accettare con ironia le sue battutine com’era
sempre stato, le sembrava impossibile.
Finché era in
quello stato, doveva accettare i suoi limiti e comportarsi di conseguenza.
A questo
punto, le soluzioni erano due: o riuscivano a stare insieme, oppure doveva
toglierselo dalla testa in fretta.
House era
fuggito per quasi un’intera giornata, ed era tornato a comportarsi come prima,
con naturalezza.
Lui ce
l’aveva fatta, e questo era per lei l’ostacolo principale alla soluzione numero
uno: non potevano stare insieme se lui riusciva a lasciarla mezza nuda nella
tromba delle scale senza neanche guardarla, e la mattina dopo comportarsi come
se i due giorni precedenti non fossero mai esistiti.
Lui non
voleva nient’altro da lei, oltre quello che si era già preso.
Non voleva
finire a sperare che, sotto la sua aria cinica, ci fosse qualcuno in grado di
amare: non voleva comportarsi come una ragazzina ingenua, aveva visto abbastanza
da sapere che era un’illusione.
Abbastanza
matura per capire che voleva stare con lui, così come per capire che questo non
poteva accadere.
Quindi doveva
farsi passare quella cotta: la soluzione numero due.
Non vederlo
per un po’ sarebbe stato l’ideale, ma impossibile dal punto di vista logistico.
Non poteva allontanarlo dall’ospedale, né poteva farlo lei.
Aveva pensato
allora a una soluzione alternativa: overdose di House. Gli sarebbe stata accanto
il più possibile, fino ad avere nausea di lui, fino a non sopportarlo più.
Sapeva che
sarebbe successo.
I suoi occhi
si incrociarono per un istante con quelli di Wilson, ammonitori ma
comprensivi.
Ok, aveva
deciso di essere onesta con se stessa fino in fondo.
Stare accanto
ad House era la sua tecnica per farsi passare quella cotta inopportuna, ma era
l’unica via che lasciava anche una speranza all’ipotesi numero uno: se c’era un
modo per stare con lui senza che nessuno dei due finisse per suicidarsi, stare
accanto a lui…era l’unico modo per scoprirlo.
La stampante
finì il suo lavoro, e il silenzio li costrinse a parlare.
“Il caso non
è più tuo.” disse la donna, guardando House negli occhi.
Le mani le
tremavano, ma erano in grembo e non potevano vederle.
“Lo vuoi
assegnare ancora a Wilson?!” chiese il diagnosta, scocciato.
“Non so se è
il caso...Non sembra trattarsi di cancr…” l’oncologo provò a dare il suo parere,
anche se gli sembrava che non fosse lì che Cuddy volesse andare a finire.
Lo interruppe
infatti, ancora una volta in maniera troppo brusca rispetto ai suoi soliti modi
di fare.
“Il caso lo
prendo io.”
“Cosa?!”
esclamarono insieme i due uomini.
“Vuoi far
morire quel povero ragazzo?!” chiese sprezzante House “Tu sei una burocrate, non
puoi occuparti di un caso del genere!”
Nessuno
doveva toccare i suoi pazienti nel momento in cui li stava guarendo lui,
studiando, scoprendo i loro segreti. Nel momento in cui erano il suo
giocattolo.
“Non ho detto
che non te ne occuperai più. Ho detto che il caso lo prendo io: le diagnosi
differenziali verranno fatte in mia presenza, voglio un aggiornamento costante
sullo stato del ragazzo e l’ultima parola su tutte le decisioni, dopo che le
avremo discusse. Lavoreremo insieme: io, te e la tua equipe.”
House sembrò
esitare, disorientato da quella strana proposta.
Ordine, più
che proposta.
Avrebbe
controllato ogni sua mossa, e questo era terribilmente irritante.
Allora perché
l’idea di averla sempre tra i piedi lo…eccitava?
“Non puoi
starmi addosso mentre lavoro Cuddy!” tentò di essere convincente, ma sentì la
sua voce molto meno indignata di quanto avrebbe voluto.
“Sei
scomparso mentre quel ragazzo peggiorava, e sono il tuo capo. Non solo posso,
devo!”
Ottima scusa Lisa…
Lei stava
recitando.
Lui stava
recitando.
Entrambi lo
sapevano.
Ma tutte
queste sensazioni si riducevano ad un confuso stato di turbamento interiore, di
natura indefinita, ma...piacevole forse?
House
sospirò, abbassando lo sguardo, solo per un istante.
Poi lo
riportò su di lei, con aria di sfida.
“Va bene, ma
io continuo a lavorare a modo mio. Preparati a giorni movimentati, non sarà
facile.”
“Neanche per
te.” ribatté Cuddy prontamente.
House scosse
la testa, voltandosi e camminando verso la porta.
Si bloccò
improvvisamente, come se lo avesse colto un pensiero, o come se qualcosa di
indefinito fosse arrivato alla coscienza…
Probabilmente
preferì però lasciar perdere, perché dopo aver buttato un’occhiata divertita a
Wilson, lasciò l’ufficio senza dire una parola.
Appena la
porta si chiuse alle spalle di House, Lisa tirò un sospiro di sollievo,
dimenticandosi quasi della presenza di Wilson.
Lui aspetto
in silenzio che lei lo notasse.
Appena i loro
occhi si incontrarono spalancò le braccia. “Ora mi spieghi cosa ci faccio
qui?”
Lei gli fece
un debole sorriso.
Sembrava
imbarazzata.
“Puoi andare
Wilson, grazie.”
L’oncologo
lasciò cadere le braccia, sconsolato.
“Aveva
ragione House? Sono qui perché non volevi stare sola con lui?”
“Sei qui
perché avevo bisogno di qualcuno che mi tranquillizzasse. Ora puoi andare,
grazie.”
Wilson si
alzò titubante, e fece qualche passo verso di lei.
“Lisa, sei
sicura di i quello che stai facendo? Dove vuoi arrivare?”
“So dove si
potrebbe arrivare, ma no, non sono sicura di niente Wilson. Scusa se ti ho
coinvolto.”
“Hai
coinvolto House, quindi indirettamente ci sarei finito dentro comunque. Non
capisco però…cosa hai in mente?”
“Non importa.
Vai per favore.”
Wilson aprì
la bocca per ribattere qualcosa, ma vedendo l’espressione della donna decise di
lasciar perdere.
L’aveva
tenuto lì senza un motivo per quasi un ora, e ora lo stava cacciando ancora
senza spiegazione.
Avrebbe
dovuto essere almeno un po’ irritato, ma non lo era.
Vedeva il
tormento di Lisa nei suoi occhi, quanto le costava tutto questo.
Probabilmente
aveva avuto realmente bisogno della sua presenza, e si sentiva debole e stupida
per questo bisogno irrazionale.
Le sorrise.
“Quando vuoi
un’altra presenza silenziosa al tuo fianco, chiama pure.”
Lei non disse
nulla, ma da come le sue mani si sciolsero leggermente, e le sue spalle si
rilassarono, capì che era sollevata.
“Grazie.” gli
rispose in un sussurro.
Forse cercare
l’aiuto di un amico ogni tanto, non era poi così patetico.
20 ottobre 2006, h 13.15
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di House
“Si, a dirle
la verità Mark aveva un fratello.” la voce della donna si incrinò un po’
pronunciando le ultime parole.
Cameron toccò
il braccio di Chase, per attirare la sua attenzione.
Lui posò la
cornetta dell’altro telefono, e si concentrò sulla conversazione della
collega.
“Aveva? E’
deceduto signora?” chiese Cameron, con la dolcezza che usava sempre in queste
occasioni.
“Non lo so,
dottoressa, e non ho modo di saperlo.”
“Si spieghi
meglio.”
“L’ho dato in
adozione alla nascita, non potevo occuparmi di due bambini, ero giovane e sola.”
il senso di colpa della donna arrivò chiaro a Cameron: solo il rimorso di una
madre che abbandona il figlio poteva essere tanto intenso.
“E’
comprensibile signora, lei aveva già Mark a cui badare… Ho bisogno ancora di
qualche informazione però: quanti anni aveva Mark quando lei ha dato in adozione
il fratello? C’è modo che lui se ne ricordi?”
“No
dottoressa. Il bambino che ho dato via era suo fratello gemello.”
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Capitolo 7 *** 7 - I miei occhi, le mie mani ***
7 – I MIEI OCCHI, LE MIE
MANI
20 ottobre 2006, h 13.30
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di House
“Un fratello
gemello?” Foreman sembrava perplesso. Aveva fatto un’altra tac a Mark, ma non
era risultato niente di nuovo, quindi quell’informazione era tutto ciò che
avevano.
“Si. La mamma
di Mark ha partorito due gemelli, e ne ha dato uno in adozione subito.” spiegò
Cameron a Foreman e House, che avevano raggiunto lei e il collega in ufficio
appena i loro cercapersone avevano suonato.
“Allora il
fratello non è inventato…” disse il neurologo, pensieroso.
“No, lo è
ugualmente.” lo interruppe Chase “Mark non sa niente di suo fratello, la madre
non gliene ha mai parlato.”
“Quindi il
fratello esiste ma…se l’è comunque inventato?”
“Così
sembra.” confermò Chase.
I tre medici
si voltarono verso House, che aveva seguito la loro conversazione senza
intervenire.
“Non se lo è
inventato. Bisogna solo capire se il fratello è stato qui davvero o se ha avuto
un’allucinazione.”
“Ma…se la
madre dice che non ne sa nulla…” ribadì Cameron, titubante.
“Il ragazzo
parla di un fratello e, guarda caso, salta fuori il fratello gemello segreto.
Non può essere una coincidenza.” insistette House, avvicinandosi alla lavagna e
prendendo il pennarello.
“Certo che
può essere una coincidenza!” otto occhi stupiti si posarono su Lisa Cuddy, che
aveva appena varcato la soglia dell’ufficio e stava in piedi, a braccia
incrociate, osservando la lavagna con i sintomi.
“Ah!
Dimenticavo…Abbiamo un nuovo membro dell’equipe!” informò House, indicando con
un gesto Cuddy, che posò lo sguardo su di lui, aspettandosi da un momento
all’altro qualche acida battuta da cui difendersi.
La battuta
non arrivò, ma il silenzio imbarazzato che seguì la dichiarazione di House fu
forse peggio per la donna.
I tre
assistenti si guardarono tra loro, confusi.
“Ma…perché?”
chiese Foreman, dando voce ai dubbi di tutti.
Lisa esitò;
quella domanda, così diretta, non se l’aspettava proprio
Quei secondi
diedero la possibilità ad House di intervenire al suo solito modo: “Perché non
c’è cosa più eccitante, per lei, che gironzolarmi attorno tutto il giorno.”
A Chase
sfuggì un sorriso, mentre si voltava verso Cuddy per vedere la sua reazione. Il
sorriso gli scemò non appena incontrò lo sguardo infuocato della donna.
“Non c’è
niente da ridere Chase, e tu, House, non dire fesserie. Vista la sua condotta di
ieri, preferisco essere presente a tutti i passaggi della diagnosi, così posso
controllare da vicino come lavora…” ripeté meccanicamente la scusa che si era
preparata quella mattina, e si avvicinò decisa ai colleghi. “Quindi? Cosa
sappiamo di questo fratello?”
Si voltò
verso Cameron, cercando di concentrarsi sul paziente e non pensare ad House, che
si stava lentamente avvicinando, dietro di lei.
“Sappiamo
solo che è stato dato in adozione il secondo giorno di vita, la madre di Mark
non sa chi sono i genitori adottivi né dove vivono. Non c’è modo di
rintracciarli, e non credo neanche che ce ne sia la ragione.” le ultime parole
le disse a bassa voce, quasi rivolgendosi solo a Cuddy.
Lei annuì e
si voltò dando le spalle a Cameron, per parlare con il resto dell’equipe.
Il suo cuore
saltò un battito quando si trovò il petto di House a pochi centimetri dal suo
viso.
Il suo
profumo arrivò chiaro ai suoi sensi, e un flashback della loro notte insieme
annullò prepotentemente i suoi pensieri, cancellando ogni traccia di ciò che
stava per dire.
Alzò
d’istinto il viso verso quello del diagnosta e, dal suo sorriso arrogante, capì
che lui aveva capito.
House aveva
capito l’effetto che le aveva fatto, e si stava godendo lo spettacolo di vederla
arrossire e boccheggiare le prime sillabe delle sue considerazioni sul paziente,
senza riuscire ad andare avanti, né a spostarsi da lì, né a fare
nient’altro.
Due veloci
colpi sul vetro della porta fecero trasalire entrambi.
“Posso?”
Lo spettacolo
che Wilson si trovò davanti lo lasciò parecchio spaesato: House e Cuddy erano a
pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro, lei visivamente sconvolta e lui
decisamente soddisfatto, mentre gli altri tre medici osservavano immobili la
scena.
House alzò
gli occhi al cielo, mentre Lisa, come se un incantesimo si fosse rotto, prendeva
un passo di distanza da lui, incrociando le braccia sul seno.
“Che
succede?” chiese seria all’oncologo, resistendo all’impulso di saltargli al
collo per ringraziarlo di averla salvata in extremis da una figura penosa.
“Mark rifiuta
gli antibiotici che gli avete dato.”
“Ha parlato?”
chiese prontamente House.
“No. Ma…”
“Lo ha
scritto allora?”
“No House.
Però non ha fatto avvicinare l’infermiera che doveva cambiargli la flebo, e
quando gli ho parlato mi ha fatto capire chiaramente che non voleva più nessun
farmaco.”
“Quindi non
ha detto né scritto di non volere i nostri antibiotici.”
“No, non l’ha
fatto.” rispose Wilson con un sospiro, sapendo dove voleva arrivare House.
“Ottimo,
allora se gli somministriamo un po’ di sedativo perché è parecchio agitato, e
poi gli cambiamo quella flebo, non facciamo niente di illegale giusto?” l’ultima
domanda era rivolta a Lisa, che aveva assistito sconcertata a quello breve
scambio di battute.
“Veramente…”
tentò di ribattere, ma si bloccò subito. “No, puoi farlo.” disse, scuotendo la
testa.
Tutti i
medici la guardarono sbalorditi, House compreso.
“Non ti
opponi?” domandò disorientata Cameron.
“No.” rispose
Cuddy decisa “Ora devo andare, fatemi sapere come reagisce il paziente alla
prossima dose di antibiotici.”
“Ma come? Ci
lasci di già?!” chiese House, con voce piagnucolosa.
Lei gli
rivolse un breve sguardo, per poi lasciare la stanza senza dire nient’altro.
“Sei sempre
gentile tu.” il tono accusatorio di Wilson fece sorridere Foreman.
Non si può dire che tu non abbia il tuo
grillo parlante, House!
“Che ho detto
di strano?!” chiese prontamente il diagnosta, fingendosi offeso.
“Lascia
perdere.” rispose rassegnato l’oncologo. “Io devo scendere in ambulatorio
adesso. Vedete di scoprire qualcosa su questo ragazzo, ora sembra stabile ma ho
la sensazione che sia solo la tranquillità che precede la tempesta.”
“Ti adoro
quando parli per frasi fatte!” esclamò House, canzonatorio.
Wilson scosse
la testa, ed uscì dall’ufficio dopo aver fatto un rapido cenno di saluto agli
altri medici.
Il diagnosta
si voltò verso i suoi assistenti. “Cameron, Chase, andate in laboratorio e
restateci finché non scoprite che infezione ha colpito il ragazzo.”
“E se non
fosse un’infezione?” chiese Cameron.
“Significa
che gli stiamo somministrando antibiotici contro la sua volontà inutilmente. Se
scopriamo che c’è un motivo valido per farlo non sarebbe male, non credi?”
“Già…”
confermò arrendevole la dottoressa.
“Foreman, tu
occupati del paziente e tienilo in vita finché non scopriamo qualcosa in più su
di lui. Ho la sensazione che ci stia sfuggendo qualcosa…” le ultime parole di
House le disse così a bassa voce che i colleghi percepirono solo un anonimo
sussurro.
“Tu cosa
farai?” si informò Foreman, recuperando la cartella del paziente dal tavolo
ingombrato.
“Io e Cuddy
cerchiamo il fratellino misterioso!”
Detto questo,
lasciò in fretta la stanza, sotto lo sguardo perplesso dei suoi assistenti.
Senza
aggiungere altro, anche gli altri tre medici uscirono dall’ufficio preparandosi
ad un pomeriggio d’intenso lavoro.
20 ottobre 2006, h 13.50
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Toilette
Lisa stava
guardando il riflesso del suo viso nello specchio.
Aveva ancora
le guance rosse, non sapeva più se per l’imbarazzo o per la rabbia che provava
verso se stessa.
Gli occhi
erano lucidi, ma non aveva pianto. I suoi occhi diventavano così ogni volta che
provava un’emozione intensa, indipendentemente da quale fosse.
Era una cosa
di lei che aveva imparato ad apprezzare, ma ora, insieme al rossore, quegli
occhi lucidi contribuivano a farla sembrare sconvolta, e questo la faceva
arrabbiare da pazzi.
Non poteva
ridursi così solo perché lo aveva avuto così vicino, solo perché aveva sentito
quel profumo e aveva ricordato qualche sensazione confusa di una notte di
sesso.
“Non posso.”
disse a se stessa, passandosi una mano sulla fronte.
Difficilmente
si vergognava di se stessa, e ora ci era pericolosamente vicina.
Aveva deciso
di lavorare con lui, ed era bastata una subdola provocazione per farla scappare
col volto in fiamme.
Non era da
lei.
Non è assolutamente da
me.
Non capiva
cosa le stava succedendo, la sua capacità di controllare tutti e tutto, comprese
le sue reazioni emotive, la stava pericolosamente abbandonando.
Questo la
spaventava.
Era
vulnerabile, e non era solo House a saperlo.
Wilson.
E adesso
anche Chase, Cameron e Foreman.
“Non posso
mollare.” quella semplice ammonizione, detta a mezza voce, le dette un po’ di
coraggio.
Aprì il
rubinetto e lasciò che i polsi le si rinfrescassero un po’ sotto il gelido getto
dell’acqua.
Fu quel
piacevole scroscio a coprire il rumore della porta che si apriva e si
richiudeva.
“Il mio modo
di lavorare ti ha già stancata?”
Trasalì
sentendo la sua voce.
“House…”
spense il rubinetto e si voltò verso di lui, allungando una mano verso il
distributore della carta.
Lui la
precedette, prendendo due fogli e porgendoglieli.
Lisa si
asciugò le mani, mormorando un “grazie.”
“Ti ho
spaventata?”
“Abbastanza.
Lo sai che questo è il bagno delle donne?”
“Si, lo
conosco bene. Vengo qui di tanto in tanto, per riscoprire il mio lato femminile
che a volte si perde tra le volgarità della gente attorno a me.” guardò dietro
di lei, nello specchio, passandosi una mano nei capelli con enfasi e rimanendo
imbambolato qualche istante a fissarsi con ammirazione.
Lisa non poté
fare a meno di sorridere per quella divertente scenetta.
“Vieni in
bagno a piangere ogni volta che finisci per darmi ragione?” le chiese, tornando
a posare gli occhi su di lei.
“Non stavo
piangendo. Sono solo venuta qui a rinfrescarmi un po’.”
“Bene, e ora
che ti sei rinfrescata possiamo metterci al lavoro.” House alzò un braccio verso
la porta. “Prego.”
“Dove
andiamo?” Lisa era sorpresa da quella strana scena: House che la raggiungeva in
bagno, House che si preoccupava di averla spaventata…House che faceva in modo
che lei non mollasse.
Non aveva
molto senso quel comportamento, la confondeva.
“Dobbiamo
cercare il fratello del paziente.”
“House, non
c’è nessun fratello!”
“Se io dico
che c’è un fratello bisogna cercare il fratello. Ti sei infiltrata nella mia
squadra ma io sono ancora il capo del mio reparto. Nel momento in cui lavori al
mio caso perdi tutti i tuoi privilegi di amministratrice del regno, Cuddy. Se
lavori con me, lavori per me.”
L’ennesimo
sorriso si dipinse sul volto della donna, illuminandolo così tanto che quella
morsa allo stomaco colse House ancora una volta.
“Se lavori
con me, lavori per me?! Cos’è un nuovo slogan? Mai pensato di farlo scrivere su
una maglietta?” chiese divertita Lisa.
“Se il capo
dell’ospedale me le finanzia, ne faccio fare una per tutti i miei assistenti. E
se fai la brava faccio preparare un modello scollato apposta per te.”
Lisa scosse
la testa, ridendo.
“Non penserai
davvero di potermi dare ordini?”
House si fece
improvvisamente serio, e la guardò negli occhi, così in profondità come solo lui
sapeva fare. Tanto da paralizzarti.
“Cuddy quel
fratello esiste. Devo sapere se è un’allucinazione o è stato qui davvero. Sai
che ho un intuito infallibile…”
Lei sospirò.
“Va bene, proviamo
a trovarlo. Ti do tempo fino a domani mattina, poi lasciamo perdere quest’idea
folle e ci concentriamo sul paziente, va bene?”
Il compromesso era
sempre stato il loro miglior modo di comunicare.
House sembrò
riflettere qualche secondo, poi continuò la sua trattativa: “Va bene. Ho tempo
fino domani a mezzogiorno, ma tu mi affianchi nelle ricerche. Cameron e Chase
sono in laboratorio, Foreman è col paziente. Visto che ho un nuovo membro
dell’equipe, devo utilizzarlo in qualche modo, no?”
Lisa incrociò le
braccia, il che di solito indicava che stava arrivando l’offerta finale. “Fino
alle 10 di domani mattina e io ti aiuto. Però lavoriamo alla pari. Nessuno mi da
ordini da anni e ti assicuro che non è un buon momento per ricominciare.”
House le porse la
mano, che lei afferrò e strinse con forza.
Se qualcuno li
avesse osservati, si sarebbe accorto che quella stretta di mano era durata un
po’ di più del normale, che i loro sguardi erano un po’ troppo intensi e il loro
respiro più veloce della media.
Avrebbe notato
anche che entrambi sorridevano, e che ogni traccia di sofferenza era scomparsa
dai loro visi.
20 ottobre 2006, h 15.30
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Laboratorio
“Non
troveremo mai questa infezione, non c’è nessuna infezione.” disse rassegnata
Cameron, mentre osservava al microscopio l’ennesimo vetrino.
“Ci mancano
ancora alcune delle infezioni più comune e tutte quelle più rare, non darti per
vinta.” replicò Chase, accennando un sorriso.
“Ti diverti a
stare chiuso qui dentro come un topo da laboratorio con tutti i tuoi adorati
virus?” chiese ironica l’immunologa.
“Veramente
questo dovrebbe essere il tuo
passatempo preferito, non il mio.”
“Col tempo i
gusti cambiano…” disse Cameron, quasi tra sé e sé.
Chase le si
avvicinò, appoggiando i gomiti allo stesso tavolo dove stava lavorando lei.
“Cosa c’è?”
chiese la donna, continuando a guardare nel microscopio.
Chase esitò
qualche secondo, prima risponderle: “Può essere che House e Cuddy siano stati a
letto insieme.”
Lei si separò
dal macchinario, e guardò il collega perplessa. “Lavoriamo qui da anni, perché
tiri fuori adesso questa storia?”
“Non parlo di
una storia di anni fa, ma di qualcosa di recente.”
Allison si
tolse lentamente gli occhiali, appoggiandoli con cura sul duro ripiano. “Stai
per spiegarmi lo strano comportamento tuo, di Cuddy e House degli ultimi due
giorni?”
Chase le
sorrise apertamente, scostandosi i capelli dal viso con un gesto ormai
famigliare alla collega. “Già! Ricordi ieri mattina, quando mi sei venuta a
svegliare a casa?”
“Si, non
credo che me lo dimenticherò in fretta.”
“Avevo i
postumi di una sbronza…”
“Si, fin lì
ci ero arrivata. E non eri stato l’unico a prenderti una sbronza…anche Cuddy non
aveva un bell’aspetto. Quello che mi lascia perplessa è che collegamento può
esserci tra questi due fatti…”
“Solo un
collegamento casuale…” Chase raccontò alla collega quello che era accaduto due
sere precedenti: il suo incontro nel bagno dell’Alexander con Cuddy, l’arrivo di
House, e la sua fuga.
Lei ascoltava
in silenzio, con gli occhi spalancati dallo stupore, lasciandosi sfuggire ogni
tanto un “Oddio…” sussurrato.
“Quindi…tu
hai lasciato Cuddy ubriaca in bagno con House.”
“Esatto, e
visto il comportamento strano di entrambi la mattina dopo…” Chase lasciò cadere
la frase; era ovvio dove voleva arrivare.
“Certo che ci
è stato a letto, Chase! House aspettava solo l’occasione e se l’è trovata
servita su un piatto d’argento.”
La voce
sprezzante della collega colpì l’intensivista.
“Sei…infastidita?” chiese
scettico.
“No, sono
solo stupita dalla tua ingenuità. Come fai a credere che forse sono stati a letto insieme l’altra
notte? E’ ovvio Chase, è palese! Non li hai visti prima?!”
Il medico era
meravigliato dalla reazione della collega. “Cameron, non sono un ingenuo. Credo
anch’io che abbiano fatto sesso, volevo solo dar loro il beneficio del
dubbio.”
“No, tu sei
proprio un ingenuo.” disse lei, rivolgendogli un sorriso rassegnato.
Chase corrugò
la fronte, mentre piegava leggermente la testa di lato, studiando la
collega.
“Cameron…sei
gelosa?”
Lei incrociò
le braccia, e lo guardò con espressione di sfida. “Può essere…tu sei geloso del
fatto che io sia gelosa?”
Chase
spalancò la bocca, fingendosi indignato; incrociò a sua volta le braccia,
piantandosi davanti a lei.
“Può essere…”
rivelò, tenendo gli occhi incollati a quelli della collega.
Quelle
insinuazioni aleggiarono nell’aria per qualche istante, poi entrambi
incominciarono a vacillare, indecisi su come terminare quello strano gioco di
potere.
Fu Cameron la
prima a parlare.
“Perché mi
hai voluto raccontare tutto questo Chase?” l’imbarazzo nella sua voce era in
netto contrasto con l’insolenza di pochi secondi prima.
Lui sembrò
spiazzato da quella domanda. “Così…perché sei mia amica.”
“Volevi
vedere la mia reazione?” chiese lei, fattasi improvvisamente seria.
Chase la
osservò attentamente: quello che vide fu solo paura di essere presa in giro,
paura che qualcuno giocasse coi suoi sentimenti, come forse troppa gente aveva
fatto.
Le sue
intenzioni erano decisamente meno complesse.
Le rivolse un
ampio sorriso, e le cinse le spalle con un braccio.
“No Allison.
Gossip! Adoro il gossip!” la spinse verso la porta, tenendola stretta. “Andiamo
a bere un caffè, stare troppo al chiuso ti fa venire idee strane!”
Lei sorrise a
sua volta, mentre si godeva quell’abbraccio sincero.
20 ottobre 2006, h 15.30
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di Cuddy
“E se si
fossero incontrati per caso?”
Lisa era
semisdraiata sul divano, dopo quasi due ore che ascoltava le idee assurde
dell’uomo per cui aveva un’ingestibile cotta.
House era
seduto sulla poltrona di fronte a lei, e le storielle su come Mark poteva
conoscere suo fratello gemello, sembravano non esaurirsi ancora.
Avevano
parlato a lungo con la madre, con la fidanzata e con amici del paziente, ma
quelle telefonate non avevano portato a nulla.
Lisa stava
seguendo le pazze idee del diagnosta perché così erano i loro patti, ma era
molto scoraggiata e quasi certa che l’esistenza di un fratello gemello separato
alla nascita fosse solo una coincidenza.
La testa
appoggiata al gomito, guardava House parlare con entusiasmo, mentre la sua mente
creava scenari tra loro molto diversi da quello in cui si trovavano.
Nelle
fantasie in cui si stava perdendo, erano entrambi poco vestiti e si divertivano
sicuramente di più.
“Se si
fossero incontrati per caso in qualche colonia, o campeggio, da ragazzini, e si
fossero accorti di essere identici?”
Lisa si tirò
a sedere più composta, e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, tendendosi verso di
lui. “House, questa è la trama di Genitori in trappola(*)." gli disse, come se
parlasse a un bambino.
All’uomo
scappò una breve risata, mentre distoglieva lo sguardo. “Hai ragione, guardo
troppa tv.”
Cuddy si rese
conto che nelle ultime ore House aveva sorriso molto di più di quello che lo
aveva visto fare in intere settimane. E le aveva appena dato ragione.
Non lo
riconosceva quasi.
Fece ammenda
di sforzarsi di parlare con Wilson appena avesse potuto, quei continui
cambiamenti di House la stavano stordendo, aveva bisogno che qualcuno le dicesse
che poteva capitare, e soprattutto che era reale.
Aveva bisogno
di essere certa di non stare sognando.
L’aveva
provocata e umiliata davanti ai suoi assistenti, e ora la trattava…bene.
La cosa
stupefacente era che le era passata tutta la vergogna e il rancore per quello
che era accaduto poche ore prima, e ora era tutta presa da questo lato di House,
che osservava da lontano, come se quell’armonia fosse una bambolina di cristallo
che poteva rompersi al primo movimento brusco.
Lui era
tornato ad osservarla, ma i suoi pensieri erano decisamente altrove.
Nessuno
riusciva a capire fino a che punto un caso potesse ossessionare House.
“Se i
genitori del fratello gli avessero parlato dell’adozione, e questo avesse
rintracciato in qualche modo la madre naturale, scoprendo che aveva un figlio
della sua età?”
Cuddy
sospirò. “Abbiamo tartassato già quella povera donna House, ce l’avrebbe detto
se il fratello di Mark l’avesse contattata.”
Lui accolse
quella verità in silenzio, soppesandola.
Lisa decise
di agire.
Aveva pensato
a qualcosa che lei poteva fare, di concreto, per sapere qualcosa di più di
questa faccenda, ma avrebbe sollevato un polverone eccessivo…decise che non
importava.
House non
avrebbe mollato finché non avesse avuto qualcosa in mano, quindi era inutile
rimandare quella telefonata, prima o poi avrebbe dovuto farla.
Preferì
pensare che era questo il motivo per cui lo aiutava, e non perché voleva farlo
contento.
Non era
perché voleva vederlo soddisfatto, e voleva che le fosse grato…
Si alzò dal
divano, andando decisa verso la sua scrivania.
Lui la seguì
con lo sguardo, mentre un’espressione interrogativa gli si disegnava sul
volto.
Come Lisa
incominciò a parlare con il centralino, chiedendo il collegamento con l’ospedale
in cui era nato il loro paziente, quell’espressione interrogativa lasciò spazio
all’ennesimo sorriso.
Era passata
più di un’ora da quando Cuddy si era messa al lavoro, e ora reggeva trionfante
un bigliettino.
Lo porse ad
House. “Puoi smettere di ossessionarti per oggi.” gli disse. “L’indirizzo dei
genitori che hanno adottato il fratello di Mark.”
Il diagnosta
prese il foglietto dalle mani della donna, con insolita delicatezza.
“Sei un
mostro della diplomazia Cuddy.” le disse, leggendo la grafia tondeggiante del
suo capo.
“Grazie.”
House tornò a
guardarla, e più quello sguardo diventava profondo, più l’espressione tranquilla
e rilassata spariva dal volto di Lisa, per lasciare ancora posto alle guance
arrossate e agli occhi troppo lucidi.
Il diagnosta
le prese la mano che fino a pochi istanti fa reggeva il foglietto, e tirò Lisa
verso di sé con delicatezza.
Si piegò su
di lei, e la baciò.
Lei lo lasciò
fare, attonita da quel gesto così improvviso, e dal suo ennesimo
cambiamento.
Le loro
labbra si incontrarono, e pochi istanti dopo le loro lingue.
Fu un bacio
dolce, casto rispetto ai loro precedenti incontri.
Mentre la
baciava, House le strinse un po’ di più la mano, e lei si limitò a ricambiare la
stretta, senza osare muovere nessun altro muscolo.
Si baciarono
a lungo, tenendosi per mano.
Poi però la
paura di essere scoperti, o forse solo il timore di continuare qualcosa che non
si sapeva come controllare, li fece separare, insieme.
“Era un bacio
di gratitudine?” chiese Lisa seria, prima che House distogliesse lo sguardo dal
suo.
“Non lo so.”
House sembrava a disagio, forse più di lei.
Sembrava
sincero, non c’era traccia di sarcasmo o cinismo nelle sue parole.
Lei decise di
credergli.
House fece un
passo indietro, e si preparò al suo solito modus operandi per le situazioni che
non sapeva gestire: la fuga.
Sollevò il
bigliettino nella sua direzione, solo un istante, come per ringraziarla.
Poi si voltò
e sparì.
Il suo
profumo si sentiva ancora, e Lisa ne fu felice.
(*) è praticamente
impossibile che non abbiate mai visto questo film...è quello che ha come
protagonista Lindsay Lohan che interpreta due gemelle che, ancora bambine, si incontrano
per caso in campeggio e scoprono di essere gemelle divise alla nascita...Visto
almeno 500 volte!!!!
Ringrazio di cuore chi
dedica il suo tempo a leggere storie, e a dare un feedback!
Un
abbraccio,
Vally
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Capitolo 8 *** 8 - La mia lunga notte ***
La mia media di un aggiornamento a
settimana è stato stravolto da questo mese e passa di assenza...lo so,
perdonatemi.
Sono
andata a lavorare in Irlanda, e la chiamata mi è arrivata pochi giorni prima
della partenza, non ho avuto tempo di fare nulla!
Scusatemi per
l'interruzione :(
Ora
sono tornata e tenterò di essere regolare con gli aggiornamenti!
Quiondi ecco l'ottavo
capitolo...
Come
al solito, aspetto con ansia le vostre recensioni!
Baci,
Vally
8 – LA MIA LUNGA NOTTE
21 ottobre 2006, h 01.10
am
Casa di Lisa Cuddy
Il sonno non
arrivava.
Troppi
pensieri si accavallavano uno sull’altro, spintonandosi brutalmente per avere il
posto d’onore, occupandole la testa e i sensi.
Quello strano
caso medico che sembrava non aver soluzione, House che la provocava, House che
la baciava senza un perché, House che la trattava male e poi cercava di farsi
perdonare, a suo modo. Ma soprattutto lei.
Lei, Lisa
Cuddy, che perdeva il controllo e restava in balia di tutto quello, senza
trovare una soluzione.
Guardò la
sveglia sul comodino: l’una passata.
Si sentiva
stanchissima, nelle ultime due notti non aveva dormito che poche ore, ed erano
state ore travagliate, in cui sogni tutt’altro che innocenti si alternavano a
bruschi risvegli in cui elaborava imbarazzata quelle immagini, senza riuscire ad
ammettere a se stessa che non erano nient’altro che i suoi desideri che le
invadevano la testa appena il sonno dava loro il via libera.
Quei desideri
su House, decisamente incompatibili con il suo lavoro, con la sua vita.
Si alzò
pigramente e, al buio, si diresse verso il bagno, decisa a mandar giù qualche
pillola che l’aiutasse a dormire un po’.
Incominciava
a temere che la mancanza di sonno avesse potuto dare il colpo di grazia al suo
equilibrio mentale.
Prese due
pillole cacciate in fondo a una scatola non troppo piccola, che considerava il
suo kit d’emergenza: ansiolitici, sonniferi e, cosa che non avrebbe mai detto a
nessuno, qualche pillola di Vicodin. Le era capitato di sfruttare i loro
“effetti collaterali” buttandone giù qualcuna con un po’ di whisky, in momenti
troppo tristi da sopportare o in altri da festeggiare in modo speciale.
Ovviamente,
aveva sempre saputo moderarsi nei suoi vizi.
Anche il
vizio “House” era sempre stato sotto controllo: un gioco malizioso fatto di
battute e mezze frasi, alternate a scontri verbali in cui sfogavano la tensione
che c’era tra loro. Era sempre andato bene così.
Poi c’era
stata quella notte, e quella sorta di armonia era stata distrutta.
Con le
pillole in una mano, e l’altra che l’aiutava ad orientarsi sfiorando le pareti,
camminò lentamente verso la cucina.
Si trovava
circa a metà corridoio quando sentì bussare debolmente alla porta.
Si bloccò,
sentendosi improvvisamente oppressa dal buio fitto intorno a lei.
Trattenne il
respiro per qualche secondo, e il silenzio totale in cui precipitò la casa fece
accelerare i battiti del suo cuore.
Fece mente
locale di dove fosse l’interruttore della luce più vicino, e dopo i primi
momenti di smarrimento, riprese a camminare, aggiungendo mentalmente
“allucinazioni uditive” alla lista delle conseguenze che tutta quella faccenda
stava provocando in lei.
Quando però
fu il campanello a suonare, squarciando violentemente il silenzio della casa,
trasalì facendo cadere le pillole.
Chiuse gli
occhi un istante, cercando di calmarsi.
Il cuore
continuava a batterle forte nel petto, ma non più per lo spavento.
Le batteva al
pensiero di chi poteva essere a suonare a quell’ora a casa sua, al pensiero
martellante che fosse lui.
Come per
confermare i suoi sospetti, arrivo un altro trillo, questa volta più
insistente.
Solo House
poteva venire a suonare al campanello di casa tua in piena notte e pretendere
anche che gli aprissi in fretta.
Meccanicamente, camminò in
fretta verso la porta d’ingresso e la aprì.
La luce dei
lampioni ferì aggressiva i suoi occhi, costringendola a portarsi una mano al
viso per proteggersi.
“Che ci fai
qui?” chiese al diagnosta, cercando di sembrare dura.
La sua voce
però tremava, e non solo quella.
“Abbiamo un
accordo.” rispose impassibile House.
Sentì la sua
mano che le avvolgeva il braccio e la spingeva indietro, dentro casa sua.
Si fece
guidare da quel tocco deciso, perfettamente conscia che avrebbe dovuto chiedere
spiegazioni, o invitarlo ad entrare, o ordinargli di stare fuori. Insomma,
qualunque cosa che non fosse stare imbambolata con una mano sugli occhi, il
cuore in gola e il respiro eccessivamente affannato.
Lui si chiuse
la porta alle spalle e Lisa sprofondò ancora nel buio più completo.
Questa volta
però non era da sola.
La mano di
House le lasciò il braccio, ma lo sentiva ancora di fronte a lei.
Rimase in
silenzio, combattendo contro la voglia di buttargli ancora le braccia al collo e
baciarlo, assecondando i suoi sogni, o desideri, o quel che erano.
“Rimarrei
molto volentieri qui al buio con te, credimi.” la voce di House era stranamente
gentile. Non vi era traccia di sarcasmo.
Lo sentì
muoversi, e il click dell’interruttore arrivò insieme alla luce accecante.
Lisa si
riportò la mano davanti agli occhi.
“Io quando
vado in giro per casa accendo la luce, soprattutto se sto andando ad aprire a un
misterioso molestatore notturno.”
“Io no.”
rispose Lisa dopo un istante di esitazione, facendo cadere pesantemente il
braccio lungo il fianco e guardandolo dagli occhi semichiusi.
“Donna
coraggiosa.”
“Già…”
Lo sguardo di
House cadde sulle pillole che lei aveva fatto cadere poco prima.
Le passò
accanto, e andò a raccoglierle.
“Dottoressa,
prendere due di queste insieme è pericoloso, non avevi studiato medicina anche
tu?”
“Parla il
drogato di Vicodin.” rispose aspra lei, togliendoli in bottino dalle mani.
“Non puoi
prenderle quelle.”
“Sono due
notti che non dormo.”
“Non dormirai
neanche stanotte.”
Lisa lo
guardò sinceramente perplessa. “House, che ci fai all’una di notte a casa
mia?”
“Non quello
che speri tu!” con una mossa rapida le strappò le pillole di mano e se le mise
in tasca.
“Ehi!”
protestò lei, tentando di ignorare la chiara allusione fatta dal diagnosta.
“Queste te le
ridò dopo, ora vai a vestirti.”
Lisa sospirò.
“Dove andiamo?”
“A cercare il
fratello del moribondo.”
“Di
notte?!”
“Non è colpa
mia se tu mi hai dato le dieci di domani mattina come limite di tempo! Il
ragazzo abita a cinque ore d’auto da qui, se aspettiamo domani mattina ci
giochiamo ore preziose.”
“E io cosa…”
tentò di protestare Lisa, ma non fece in tempo a finire di parlare.
“L’accordo
era chiaro: entro le 10, e tu mi aiuti.” House non ammetteva replica.
Dato lo stato
in cui era, Lisa si rese conto che tenergli testa sarebbe stato impossibile,
quindi si diresse verso la camera da letto, a vestirsi.
Si accorse
perfettamente di House che la seguiva, e sentì i suoi occhi addosso mentre, con
meticolosa e studiata lentezza, si toglieva vestaglia e pigiama, camminava nuda
verso l’armadio e, indossato uno dei suoi sofisticati tailleurs, tornava
magicamente ad essere la dottoressa Lisa Cuddy, solo un po’ meno razionale del
solito.
I loro occhi
si incontrarono nello specchio, solo per un istante.
Lisa fu
sicura di ciò che vide: l’immodificabile idea di House di gettarsi in quella
notte fredda a cercare il gemello fantasma di un paziente stava vacillando sotto
il peso di un’idea decisamente migliore.
Quando gli
passò accanto per uscire dalla stanza, sentì i brividi che lo percorsero, ma si
sforzò di apparire indifferente.
Lui fece lo
stesso.
Così due
persone che morivano dalla voglia di fare l’amore subito, per avere finalmente
ciò che tormentava i loro ricordi e i loro sogni, si limitarono a passarsi
accanto, sfiorandosi con lo sguardo e spiandosi nei pensieri.
Lisa andò in
bagno, si lavò la faccia e si truccò.
Il sonno era
passato, si stupì di sentirsi improvvisamente così bene.
Mentre
aspettava la collega, House prese le pillole di sonnifero e le buttò nel
cestino.
Non era
quello il modo in cui l’insonnia di Cuddy, e la sua, andavano combattute.
C’era solo un
modo per tranquillizzare i loro sogni, e la consapevolezza di quanto questo
fosse chiaro ad entrambi lo fece stare bene.
Per un
istante si sentì davvero bene.
“Andiamo?”
Lisa lo
aspettava sulla porta, perfettamente vestita, truccata e pettinata.
Perfettamente
Cuddy.
Perfetta con
i vestiti e senza.
Sorrise, al
pensiero del gioco malizioso che Lisa aveva fatto con lui poco prima.
“Cos’hai da
sorridere?” gli chiese lei, fingendosi sospettosa.
“Niente.” le
lanciò le chiavi della sua macchina. “E’ che devo raccontare una cosa a
Wilson.”
Lisa gli tirò
uno schiaffo sul braccio, mentre tratteneva a stento un sorriso.
House si mise
al posto del passeggero, lanciando alla donna l’esplicito messaggio che toccava
a lei guidare.
In pochi
minuti si addormentò.
21 ottobre 2006, h 03.15
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Spogliatoio
Foreman si
bloccò di colpo appena varcata la soglia dello spogliatoio.
Era piena
notte, era stanco, il ragazzo dalla malattia misteriosa l’aveva tormentato fino
a pochi minuti prima e non aveva neppure cenato.
Ci mancava
solo la scenetta che si trovò davanti a complicare le cose: Chase, a petto nudo,
dormiva su uno dei lettini, come un sasso. Cameron, abbracciata stretta a lui,
faceva la stessa cosa, con un’espressione beata che non le vedeva molto spesso
in volto.
“Fantastico,
io sto dietro al delirio di quel ragazzino fino a notte fonda, e voi amoreggiate
nei sotterranei dell’ospedale!”
Vedendo che i
due colleghi non accennavano a svegliarsi, andò sconsolato verso le docce: si
lavò e si preparò per tornare a casa.
Quando tornò
nell’altra stanza, Cameron si era svegliata ed era seduta accanto
all’intensivista.
“Ciao
Foreman.” gli disse assonnata, appena lo vide.
“Buongiorno,
dormito bene voi due piccioncini?”
Cameron
guardò Chase, come se si fosse accorta in quel momento che fosse lì accanto a
lei.
“No…Noi…E’
solo che eravamo stanchissimi e io non me la sentivo di guidare fino a casa
allora…”
“Novità sul
paziente?” la interruppe lui, notando che era in imbarazzo e confusa.
Cameron fu
disorientata dal brusco cambiamento di discorso, poi sembrò riprendersi e
tornare il medico professionale di sempre.
“No, abbiamo
fatto test su tutte le infezioni più comuni e sulle più rare. Non è infezione.
Siamo in un vicolo cieco.”
“Hai avvisato
House?”
“Si, mi ha
detto di andare a dormire e non fare nulla finché non ci saremmo incontrati
domani mattina. Non so cos’ha in mente, ma sicuramente ha a che fare con il
fratello misterioso del paziente.”
“Probabile…bè, finché agisce di
notte non dovremo giustificare la sua assenza alla Cuddy.”
Cameron
sorrise al collega. “Tu, novità?”
“No, continua
a rifiutare le cure, non parla, ma per ora è stranamente stabile.”
“Bene.”
Un silenzio
imbarazzante calò su di loro.
Ad
interromperlo fu Chase, che mugugnò qualcosa nel sonno, voltandosi dall’altra
parte.
Entrambi
posarono lo sguardo su di lui, e rimasero immobili finché non si tranquillizzò
del tutto.
“Io vado, mi
restano poche ore di sonno.” disse il neurologo, prendendo la giacca.
“Torno a casa
anch’io, credo di poter guidare ora.”
“Ok.”
“Ok.”
Radunarono in
silenzio le loro cose, buttando ogni tanto uno sguardo a Chase, che dormiva
ignaro dell’imbarazzo che si era creato attorno a lui.
“Foreman.”
Cameron fermò il collega, sulla porta. “Eravamo stanchi e ci siamo addormentati.
Tutto qui. E l’abbraccio…c’è solo quello.”
“Non devi
darmi spiegazioni.” rispose il neurologo, sorpreso dall’agitazione della
collega.
“Lo so, ma tu
lavori tutto il giorno con noi e…se ci fosse qualcosa saresti il primo con cui
ne parlerei.”
Lui sembrò
sorpreso da quella dichiarazione, e non poté trattenere un sorriso.
“Ok Allison,
sono onorato. Lo lasciamo qui?”
“Meglio. A
casa c’è ancora il suo amico, credo che stia più tranquillo qui.”
“Notte
allora.”
“Buonanotte.”
Entrambi
lasciarono l’ospedale, mentre Chase continuava a dormire.
21 ottobre 2006, h 04.35
am
On the road
La strada si
stendeva davanti a loro, piatta, dritta e deserta. I fari dell’auto creavano un
cono di luce che scompariva non appena ci passavano attraverso.
House aprì
gli occhi e ci mise qualche secondo a capire dov’era e cosa stava
succedendo.
Si voltò
verso Cuddy, che guidava spedita, con lo sguardo concentrato sulla strada.
“Quanto
manca?” chiese con voce assonnata.
“Buongiorno.”
rispose lei dopo un attimo di sorpresa, come se si fosse dimenticata della sua
presenza, come se fosse sprofondata nei suoi pensieri. “Credo che tra un’oretta
arriveremo.”
“Bene.”
“Posso sapere
qual è il tuo piano?”
“Piano?”
“Si, come
intendi procedere una volta arrivati all’abitazione del ragazzo? Sempre che viva
ancora lì, sempre che non sia morto o emigrato chissà dove.”
“Pessimista.”
A Lisa scappò
una debole risata. “House, è una follia. E io ti sto seguendo in tutto
questo…”
Le ultime
parole le sussurrò, come se stesse parlando a se stessa.
“Non puoi
fare a meno di seguirmi.” disse lui, senza staccare gli occhi dal suo
profilo.
“Oh si che
posso. E’ solo per questo stupido accordo, lo sai che sono fedele alla parola
data.” tentò di difendersi lei.
“No, tu mi
avresti seguito comunque. Passare una notte con me è un invito troppo allettante
per te, non ci avresti rinunciato mai. Anche se si tratta di guidare tutta la
notte…”
Lisa rimase
qualche istante in silenzio, distruggendo l’aspettativa di House di sentire una
pronta risposta tagliente, a cui ribattere con allusioni ancora più pesanti, per
arrivare a uno delle loro solite discussioni cariche di doppi sensi e stupide
rivendicazioni.
“Forse
dovremmo smetterla con questo gioco di potere e parlare da adulti di quello che
sta succedendo.” guardò House, che però non accennò ad abbassare lo sguardo, né
a risponderle.
Sospirando,
tornò a guardare la strada. “Con te è impossibile comportarsi da adulti, House,
ed è impossibile aspettarsi un comportamento coerente o maturo. Doveva essere
solo una notte, una notte in cui abbiamo perso il controllo e siamo finiti a
letto insieme. Tutto qui, semplicissimo. Capita tra colleghi, mi è già capitato
con colleghi. Non se ne parla più, o magari ci si ride un po’ sopra, ma finisce
lì. Cosa stiamo facendo noi, invece? Non capisco cos’è, non capisco dove
vogliamo arrivare, non…”
“Basta.”
House la zittì brutalmente, come infastidito dalle sue parole. “Sei l’unica
donna che verrebbe con me a cercare il
gemello fantasma di un paziente, in piena notte e a 500 km
di distanza. Quindi non provare a paragonare quello che sta accadendo tra noi a
una delle scopate che ti sei fatta per noia con qualche tuo amico o collega. Non
voglio più sentire queste cazzate.”
Dopo quel
breve scambio, il silenzio scese ancora tra di loro.
House era
pietrificato, glielo aveva detto: le aveva detto che quello che c’era tra loro
per lui non era un po’ di sesso capitato per caso, ma qualcosa di più. Lo aveva
detto a suoi modo, certo, ma sapeva che lei aveva capito.
Lisa,
infatti, aveva capito.
Non che fosse
meno confusa, dopo quelle parole, ma aveva almeno ottenuto una delle risposte
che cercava: andavano da qualche parte. Entrambi non sapevano dove, e magari non
erano nemmeno diretti nella stessa direzione, ma House aveva la sua stessa
sensazione: le cose non sarebbero mai tornate come prima, l’equilibrio si era
rotto e loro erano caduti uno addosso all’altra.
Circa un’ora
dopo arrivarono davanti all’abitazione dei signori King, genitori adottivi del
gemello di Mark. Non erano neanche le sei di mattina, e tutto il quartiere era
immerso nel silenzio.
Stava
albeggiando, e i colori delle villette attorno a loro incominciavano a
risplendere nella luce del primo sole. Ero un quartiere ricco, con case grandi e
giardini curati.
“Al paziente
è andata male, sarebbe stato più fortunato se il caso avesse scelto lui per
crescere in questo bel quartiere.” osservò House, guardandosi in giro mentre si
stiracchiava.
“Non penserai
di piombare a casa di queste persone alle sei del mattino?!” lo ammonì Lisa.
“Secondo te?”
la provocò lui, incominciando ad incamminarsi, senza esitazione, lungo il
vialetto che portava all’ingresso.
Cuddy alzò
gli occhi al cielo, seguendolo rassegnata. Ancora circa quattro ore, e non
avrebbe avuto più nessun obbligo nei suoi confronti.
Si stupirono
entrambi quando, suonato il campanello, una donna dall’aria distrutta aprì loro
la porta dopo pochissimi istanti, come se si trovasse sveglia dietro la porta,
ad aspettarli.
“Buongiorno
signora, sono la dottoressa Lisa Cuddy del Princenton Plaisboro Teaching
Hospital, mi scusi per l’ora e per lo scopo insolito della visita ma…”
“Dobbiamo
vedere suo figlio.” tagliò corto House, parlando sopra la collega.
La donna li
guardava inespressiva. “Volete parlare con Simon?”
“Non sappiamo
come si chiama, ma solo che è stato adottato alla nascita da lei e suo
marito.”
Un uomo
arrivò alle spalle della signora. “Non potete parlare con mio figlio. Simon è
entrato in coma due giorni fa.”
21 ottobre 2006, h 05.15
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Spogliatoio
Lo squillo
insistente del cercapersone si mischiò prima ai suoi sogni, fino a riportarlo
alla triste realtà: non stava assistendo ad una partita di football insieme a
una dolce bionda che teneva per mano, ma era in ospedale, sdraiato sullo scomodo
lettino nello spogliatoio.
Lesse il
messaggio sul display, e si chiese perché era condannato ad avere sempre
risvegli così brutti.
Si guardò in
giro, Cameron non c’era più.
Probabilmente
si era svegliata durante la notte ed era tornata a casa.
Peccato, era
stato piacevole dormire accanto a lei, come avevano fatto solo una volta in
passato.
Era
stato…tenero.
Il
cercapersone suonò ancora, e Chase si chiese il perché di quell’insistenza.
Mark Shone
era entrato in coma.
Non c’era
nulla che lui potesse fare.
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Capitolo 9 *** 9 - I miei gemelli ***
9 – I MIEI GEMELLI
21 ottobre 2006, h 8.50
am
Atlantic
City Hospital – Ufficio del Dott. Montgomery
“Il coma è
sopraggiunto dopo due infarti, a distanza di circa 12 ore uno dall’altro.” disse
serio il dottor Montgomery, alla strana coppia di medici che si era presentata
quella mattina, decisamente troppo presto, nel suo studio.
L’elemento
più strano era lui: un uomo di mezz’età, alto e vestito in modo sportivo, con un
bastone che lo aiutava a camminare, e un modo di porgere le domande che lo stava
parecchio innervosendo. La donna aveva un aspetto decisamente più normale, se
normale si poteva considerare la sua bellezza così…nobile. Osservava preoccupata
il suo collega mentre interrogava tutti i medici che erano stati accanto a
Blacket durante gli ultimi giorni. Talvolta gli posava una mano sul braccio,
come per contenerlo, oppure lo precedeva nei suoi movimenti, per fare in modo
che le cose fossero fatte a modo suo. Erano due persone abituate a comandare,
che riuscivano però, in un modo insolito e difficile da spiegare, a muoversi in
armonia.
“Abbiamo
bisogno di una copia della cartella clinica.” affermò decisa Cuddy.
“Abbiamo
bisogno del paziente.” disse House, a voce un po’ più bassa, come se la sua
fosse solo una correzione di poco conto all’ordine del suo capo.
Una
correzione che però non ammetteva replica.
“Cosa?”
chiese Cuddy confusa. “House…”
“Il paziente
è stabile, ma non è comunque in condizione di viaggiare.” rispose prontamente
Montgomery. “Non credo poi che i genitori…”
“Dobbiamo
portarlo a Princeton.” ripeté House, quasi tra sé e sé, come se non avesse udito
le parole dei colleghi.
“Ci scusi…”
mormorò Lisa a mezza voce, mentre afferrava House per un braccio, e lo portava
fuori dall’ufficio. “Sei impazzito?!”
Cuddy sapeva
benissimo come si sarebbe conclusa quella conversazione, lo sapeva sempre come
sarebbero finite quel genere di conversazioni.
Non poteva
però fare a meno di provare a farlo ragionare, non tanto per obbligarlo a fare
come diceva lei, ma almeno per capirci qualcosa: cosa passava per la testa in
quei momenti a quel geniaccio di House?
“Lo voglio
nel mio ospedale, nella stessa camera del mio paziente. Li voglio vicini. E
voglio che la mia equipe li veda uno accanto all’altro.”
Lisa scosse
la testa, anche se aveva già un piano preciso su come trasportare entro il
pomeriggio quel ragazzo nel suo ospedale, su come convincere il dottor
Montgomery e i genitori di Simon. Ormai non solo assecondava House, ma
addirittura anticipava i suoi desideri.
Si odiò un
po’ per questo.
“Vedo cosa
posso fare.” disse alla fine sconsolata.
Si stupì
quando vide le spalle di House rilassarsi, e la sua bocca prendere aria, come se
avesse trattenuto il respiro aspettando il suo responso.
“Tu però vai
a farti un giro, stai innervosendo tutto il personale dell’ospedale.”
House annuì
docilmente, si voltò senza aggiungere nient’altro, e sparì lungo il
corridoio.
“Strano…” pensò Lisa, ma poi dovette
concentrarsi sulla discussione che stava per affrontare.
Si passò una
mano tra i capelli e, rientrando decisa nello studio di Montgomery, si preparò a
tirar fuori il suo lato diplomatico.
21 ottobre 2006, h 09.00
am
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di House
“Scusate il
ritardo.”
Era difficile
che Cameron arrivasse in ritardo, ma quella mattina non aveva sentito la
sveglia.
“Non ti
preoccupare, tanto non c’è molto da fare.” le rispose Chase, alzando lo sguardo
dal suo cruciverba per seguire i movimenti della dottoressa, mentre si toglieva
la giacca e indossava il camice.
“Dov’è
Foreman?”
“In
ambulatorio.”
“Mark?”
chiese Cameron titubante, avendo intuito che qualcosa era cambiato.
Chase chiuse
il cruciverba e si alzò per preparare un caffè. “E’ entrato in coma stanotte.
Terzo stadio. Il cuore sembra reggere, respira da solo.” fece una pausa, per
fare cenno all’immunologa di sedersi. Lei obbedì.
“Di House
nessuna traccia.” continuò l’intensivista “E’ da stanotte che provo a chiamarlo
sul cercapersone e a casa, ma nulla.”
Mise il caffè
fumante tra le mani di Cameron, accennandole un sorriso.
“Quindi che
facciamo?” chiese lei confusa.
Chase prese
in mano il suo cruciverba. “Sei orizzontale: il contrario di tutto.” Poi guardò
la collega che gli sorrise con gli occhi sopra il suo caffè.
Passarono
pochi istanti, e sentirono dei passi arrivare in fretta.
Era
Wilson.
“Ciao
ragazzi.” li salutò distrattamente. “House si è visto?”
“E’ presto.”
disse Chase, indicando l’orologio.
Tanto sapeva
che se Wilson cercava lì House, era perchè non l’aveva trovato in nessun altro
posto.
“Lo so ma a
casa non c’è.” rispose infatti l’oncologo.
“E’ dalle
cinque di stamattina che provo a contattarlo. Il paziente è entrato in coma.”
spiegò l’intensivista.
Wilson rimase
soprappensiero qualche istante.
Poi si
rivolse ancora ai colleghi, con uno strano imbarazzo. “Avete visto Cuddy…per
caso?”
“No.” rispose
Cameron, con espressione perplessa. “Sono passata davanti al suo ufficio e non
c’era.”
Un silenzio
imbarazzante avvolse i tre medici.
“Credete…che
le due sparizioni siano collegate?” domandò l’immunologa, cercando di misurare
le reazioni di entrambi i colleghi.
Wilson e
Chase, d’istinto, si voltarono uno verso l’altro, per poi abbassare lo
sguardo.
“Può essere.”
disse infine l’oncologo, rassegnato. “Se si fa sentire avvisatemi subito per
favore.”
“Va
bene.”
Quando Wilson
lasciò l’ufficio, Cameron si voltò verso Chase, che si era piegato ancora sul
cruciverba, sperando di non venir interpellato sulla questione.
“Allora è
vera questa storia di House e Cuddy?” chiese l’immunologa.
Chase si
limitò a fare spallucce, senza muovere nessun’altro muscolo.
La sentì bere
il suo caffè, poi alzarsi.
Gli passò
accanto e, senza dire una parola, lasciò la stanza.
21 ottobre 2006, h 9.45
am
Atlantic
City Hospital – Stanza di Simon
Blacket
Cuddy si
fermò sulla porta, pronta a dirgli qualcosa per il tempo che le aveva fatto
perdere a cercarlo in giro per l’ospedale.
Poi vide
l’espressione sul suo volto, e si dimenticò che l’aveva fatta arrabbiare già più
volte quella mattina.
Riconobbe
quello sguardo, e le fece un po’ paura il pensiero di dover dividere il viaggio
di ritorno con lui, il resto della giornata con lui, forse anche qualcosa di più
intimo.
Aveva nello
sguardo quel misto di terrore e adorazione, che gli aveva visto poche volte. Era
immerso nel suo enigma, in qualcosa di estremamente affascinante, ma anche di
troppo insolito per non spaventare.
Stava in
piedi davanti al letto del paziente, stringendo in una mano la cartella clinica,
così tanto da avere le nocche bianche.
Si avvicinò e
capì l’origine di quella tensione: Simon era Mark.
Era identico,
indistinguibile.
Non un chilo
di più, stessa pettinatura…stesso pigiama.
Non era
possibile che fossero cresciuti così lontani e fossero diventati così
simili.
“Non
parla.”
La voce di
House le arrivò lontana.
Sentì la sua
mano che le attraversava la schiena, sfiorandola appena, e si voltò a guardarlo,
riuscendo finalmente a staccare gli occhi da quella che avrebbe preferito fosse
un’allucinazione.
“Simon non
parla, da quindici anni.” ripeté alla collega.
“Cos’è
successo?” chiese Lisa, tornando a posare gli occhi su quel ragazzo, non
potendone farne a meno.
“Un cancro.
Una guarigione miracolosa.” guardava il profilo della donna, tenendo gli occhi
lontani da quello che gli sembrava una specie di fantasma “Poi ha smesso di
parlare, da un giorno all’altro. Aveva 7 anni.”
Finalmente i
loro occhi si incontrarono.
“Un ictus?”
chiese lei, sapendo benissimo che un ictus in un bambino di quell’età era
qualcosa di eccessivamente raro.
“Non
risulta.”
Rimasero in
silenzio, gli occhi di lui immersi in quelli di lei, mentre tentava di
trascinarla nella sua ossessione.
“Ce lo
portiamo a Princeton.” disse lei, come per rassicurarlo.
Sembrò
funzionare.
House annuì,
posando finalmente la cartella.
“Arriverà un
elicottero a prenderlo, sarà a Princeton nel pomeriggio.” precisò la
dottoressa.
Senza dire
nient’altro camminarono fianco a fianco fuori dalla stanza, fuori
dall’ospedale.
Erano ormai a
metà strada, e Lisa guardava fuori dal finestrino del passeggero a metà tra il
sonno e la veglia, quando il tocco della mano di House sul ginocchio la fece
trasalire.
“Stavi
dormendo?” le chiese lui, stupito dalla sua reazione, così esagerata.
“No, è che…”
“…quando mi tocchi non capisco più
niente”?
“…non vedevo l’ora di sentire le tue mani
ancora addosso”?
“…stavo sognando a occhi aperti di te”?
Decise di far
cadere la frase, ogni continuazione che le veniva in mente sarebbe stata
decisamente inappropriata.
“Sai…stavo
pensando a stanotte.”
Lisa
ringraziò Dio che stesse guidando, perché almeno doveva tenere gli occhi sulla
strada. Se in quel momento l’avesse guardata, l’avrebbe vista arrossire come una
ragazzina.
“Lo fai
spesso? Intendo spogliarti davanti ai tuoi colleghi.” House sembrava aver intenzione di
tormentarla, ora che non poteva scappare.
Un modo come
un altro per non ossessionarsi col caso di quel ragazzo, almeno finché non aveva
la possibilità di tradurre ogni ragionamento in lista ordinata, con lavagna e
pennarello.
“No!” rispose
lei indignata. “E lo sai benissimo.”
Ancora
imbarazzante silenzio.
“E’ stato
simile: guardare te che ti spogliavi, e quel ragazzo, quel Simon, mezzo morto in
ospedale.”
Lisa gli
rivolse uno sguardo allibito, indecisa se insultarlo subito o aspettare che si
spiegasse meglio.
“Ero in
entrambi i casi bloccato, rapito da qualcosa di affascinante tanto da far paura,
sapendo benissimo che il mio compito, in quel momento, era quello di fare
qualcosa. Ma nulla, non ho fatto niente.”
Lei rimase
immobile e silenziosa, a riflettere su quelle parole.
House non
poté sopportarlo, i silenzi così pieni lo confondevano. “Tranne le reazioni
fisiologiche!” esclamò a voce un po’ più alta. “Quelle sono state decisamente
diverse.”
Lisa
sorrise, anche se ancora imbarazzata dalla sua sfacciataggine di quella
notte.
Non
era pentita ma…era come se avesse liberato un lato di lei che sapeva essere
troppo personale. Ed era contenta d’averlo fatto.
Quello che
House disse qualche istante dopo però, le fece passare quella sensazione di
serenità che la stava avvolgendo.
“Non so se
saprò affrontarlo, Cuddy.” Questa volta si voltò a guardarla, solo per un
momento, solo per assicurarsi che lo stesse ascoltando. “Non so se riuscirò a
fare quello che dovrei.”
La sua mano
scivolò lentamente dal ginocchio della collega e nessuno dei due parlò più per
tutto il viaggio.
21 ottobre 2006, h 2.45
pm
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di House
“Arriverà tra
circa un’ora.” House entrò a passo spedito nel suo ufficio, bloccandosi di colpo
quando si accorse che ad aspettarlo non c’era nessuno dei suoi assistenti.
Solo Wilson,
seduto alla scrivania, con il suo Game Boy in mano.
Avrebbe fatto
dietro front e fatto perdere le sue tracce fino all’arrivo del paziente, se
Wilson non avesse fatto in tempo a rivolgergli uno dei suoi sguardi ammonitori,
che riuscivano a farlo sentire in colpa anche nei momenti in cui,
miracolosamente, non aveva combinato nulla.
Alzò gli
occhi al cielo, per mostrare il suo disappunto.
“Dov’eravate
finiti?” chiese l’oncologo, incrociando le braccia.
“Motel a
ore!” esclamò candidamente House. “Per sbaglio ho pagato fino all’ora di pranzo,
e non avevo intenzione di buttare via i soldi, quindi siamo rimasti fino ad
ora.”
Rapidamente,
raggiunse la sua lavagna, sperando che Wilson demordesse.
Ovviamente,
questa opzione poteva considerarsi quasi paranormale.
L’oncologo,
con calma, si alzò e seguì l’amico nell’altra stanza.
“Cosa
succede?” chiese al diagnosta, che gli dava le spalle, rivolto alla lavagna, con
il pennarello sospeso a mezz’aria.
“Il mio
paziente è stato clonato.” House si voltò verso l’amico, posando il pennarello.
“Sono sconvolto!”
Wilson lo
guardò con espressione perplessa.
“Non riesco a
pensare, non so come risolvere questo caso, Wilson! Ho bisogno di pensare, ho
bisogno di stare solo!” alzò eccessivamente la voce, ma l’oncologo non fece una
piega.
“Che tu la
chiami “caso”, o Lisa Cuddy, il senso non cambia.” le parole di Wilson lo
irritarono e lo spaventarono nello stesso momento. “Lo vedo che sei
sconvolto.”
Rimasero a
guardarsi qualche istante, in silenzio, poi Wilson lasciò solo l’amico, come lui
desiderava.
21 ottobre 2006, h 2.45
pm
Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Stanza
di Mark Shone
La camera di
Mark Shone, fu il primo posto dove Lisa andò appena arrivò in ospedale. Doveva
vedere quel ragazzo, ora che aveva ancora stampata chiara nella mente l’immagine
del fratello gemello.
Entrò, si
avvicinò al letto e sfiorò il braccio del ragazzo: era in coma, proprio come il
fratello.
Si accorse di
avere la pelle d’oca.
Forse fu per
quella strana inquietudine in cui era immersa che si spaventò così tanto quando
sentì un rumore dietro di sé.
“Scusa Cuddy,
non volevo spaventarti.”
Cameron era
seduta su una sedia, in un angolo della stanza, con in mano una rivista
scientifica.
“Non mi hai
spaventata.” rispose Lisa, ricomponendosi “Solo che non ti ho vista
entrando.”
Cameron si
alzò, avvicinandosi a lei e al paziente.
“E’ entrato
in coma stanotte, ma resta stabile.” spiegò.
“Lo so, Chase
ha chiamato House un paio d’ore fa, mentre tornavamo da Atlantic City.” lo
sguardo perplesso della ragazza la spinse a continuare “Abbiamo trovato il
fratello gemello. E’ nello stesso stato…ed è identico.”
Entrambe
guardarono il ragazzo, immobile nel suo letto.
“E pensare
che tutti davamo ad House del pazzo…invece questo fratello fantasma esisteva
veramente.” disse Cameron, soprappensiero. “Lui è sempre un passo avanti a
noi.”
Lisa la
guardò, indecisa se farle o no quella domanda che aveva pensato più volte di
rivolgerle, anche se non avevano un rapporto abbastanza confidenziale da
renderlo opportuno.
Cameron la
precedette.
“Sono tutti
convinti che io sia innamorata di House.” alzò gli occhi su Cuddy, sorridendole.
“E ora mi tengono segreto ciò che c’è tra di voi, per paura che ne possa
soffrire.”
Lisa inarcò
le sopracciglia, perplessa.
Rifletté
qualche istante, poi prese per un braccio la collega, allontanandola da quel
letto e da quello strano paziente.
“Se dovessi
scoprire cos’è che ti tengono segreto, per favore vienimelo a dire. Perché io
non riesco proprio a capire cosa ci sia tra me e House.”
Entrambe
sorrisero, forse per la prima volta una all’altra.
“Agli
ordini.” mormorò l’immunologa, prima di prendere la porta.
“Cameron!”
Lisa la chiamò quando ormai stava girando l’angolo, e lei si voltò. “Io non
credo che tu sia innamorata di House, né che lo sia mai stata.”
La dottoressa
alzò le braccia, in un gesto di indifferenza “Neanch’io!”
Cameron
lasciò la stanza, dirigendosi all’ufficio di House.
Dopo tre anni
che lavorava lì, quella era la prima volta che sentiva Lisa Cuddy, in qualche
modo, vicina.
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Capitolo 10 *** 10 - Il mio cuore, la mia mente, la mia anima ***
10 – IL MIO CUORE, LA MIA MENTE, LA MIA
ANIMA
21 ottobre 2006, h 4.15
pm
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Stanza di Mark Shone
“Mettetelo
lì.” ordinò House ai due infermieri che spingevano il letto di Simon Blaket.
I due uomini
ebbero qualche esitazione quando videro il ragazzo che giaceva immobile
nell’altro letto presente nella stanza.
“Che c’è? E’
il vostro primo gap spazio-temporale?!” House si avvicinò al letto, facendo
cenno agli infermieri di muoversi, con i suoi soliti modi non molto cortesi.
“Questi due ragazzi stanno morendo, sbrigatevi così poi potrete correre a dire
alle vostre mamme che avete visto il primo clone umano della storia.”
I due uomini
posizionarono il letto di Simon accanto all’altro, e lasciarono la stanza, non
prima di aver buttato un’ultima occhiata a quei due corpi precisamente
identici.
Cameron,
Foreman e Chase aspettarono che gli infermieri si fossero allontanati, prima di
entrare nella camera.
House fissava
i due pazienti come in trance; si posizionarono alle sue spalle, cercando di non
far nessun rumore, come se ci fosse qualcosa di sacro nell’esistenza di due
individui così simili.
“Non ho mai
visto gemelli identici fino a questo punto.” Foreman parlò a bassa voce, ma
bastò a destare House dai suoi pensieri.
Si voltò
verso di loro, e li guardò negli occhi uno per uno.
Nessuno di
loro abbassò lo sguardo, e lui si chiese per un istante qual era stato il
momento in cui quei tre ragazzi che aveva assunto perché doveva farlo, erano
diventati tre medici di cui si fidava.
“Spero
abbiate portato il pigiama e lo spazzolino, perché nessuno tornerà a casa
stanotte.”
21 ottobre 2006, h 4.15
pm
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di Cuddy
Lisa alzò lo
sguardo dalle carte che stava firmando, sentendo bussare al vetro della
porta.
Era
Wilson.
“Ciao, ti
disturbo?” chiese, avvicinandosi alla scrivania.
“No, vieni
pure.” Lisa si tolse gli occhiali, posandoli accanto ai documenti.
“E’ arrivato
il fratello fantasma.”
“Si, insieme
a mille fogli da firmare. Odio tutta questa burocrazia…”
“E’ il tuo
lavoro.” osservò l’oncologo, sorridendole apertamente.
“Hai
ragione…”
Wilson non
disse nient’altro, limitandosi a guardarla mentre faceva vagare lo sguardo per
il suo ufficio, imbarazzata da quel silenzio, ma forse più da quello che temeva
sarebbe venuto dopo.
Quella scena
ricordava ad entrambi, in modo troppo nitido, la loro conversazione di un paio
di giorni prima, in ambulatorio.
“Siediti
Wilson, tanto non cercherò di scappare.” disse Cuddy alla fine, incominciando,
senza rendersene conto, a giocare nervosamente con la sua collana.
Wilson
obbedì, continuando a guardarla senza parlare.
“Sto facendo
il mio lavoro: ho trovato quel ragazzo insieme ad House, e ora compilo le
scartoffie.”
“Lo sai che
la probabilità di trovare quel ragazzo erano minime, così come le possibilità
che fosse in qualche modo utile al nostro paziente.?” chiese con tranquillità
Wilson.
“Si, ma il
ragazzo esiste ed è probabilmente la chiave del caso.” si sporse verso il
collega “E io sto bene, nel pieno delle mie facoltà mentali.”
“Già, è
perfettamente da te seguire un collega a 500 chilometri di distanza,
dopo che ti è venuto a svegliare in piena notte direttamente a casa, quando
potevi semplicemente cercare il numero di telefono sulle guide e risolvere in
cinque minuti questa mattina. Dimmi che non ci avevi pensato.”
Lisa alzò gli
occhi al soffitto, sconcertata dall’ostinazione del collega.
“Wilson, non
mi tatuerò il suo nome intorno all’ombelico, né preparerò lenzuola ricamate per
il corredo! Non mi trasformerò in una quindicenne con una cotta per il suo
professore! Sono IO! Forse ho esagerato andando fino ad Atlantic City con lui,
ma è andato tutto bene. Cosa vuoi fare?” incrociò le braccia, lasciandosi andare
contro lo schienale della sedia “Licenziarmi?”
L’oncologo
non riuscì a trattenere una risata.
Lisa non gli
staccò gli occhi di dosso, aspettando che la smettesse spontaneamente e cercando
di allontanare l’idea di fermarlo prendendolo a calci.
“Finito di
ridere di me?” chiese la dottoressa, appena Wilson si ricompose.
“Scusami,
scusa davvero.” L’oncologo fece il possibile per ritornare serio. “E’ che a
volte reagite in maniera molto simile, e mi fa un po’ paura. Ridevo per
sdrammatizzare.”
“Io non
reagisco come House!” si oppose Lisa, realmente sorpresa da quall’accusa.
“Cuddy non ti
arrabbiare con me, per favore…”
“Si lo so, tu
sei solo qui per accertarti che la mia serietà professionale non affoghi in un
mare di cuoricini rosa.”
“No.” Wilson
tornò completamente serio. “Questa volta volevo parlarti di House. Di quello che
sta succedendo tra voi due.”
Senza farlo
apposta, la mano di Lisa tornò lentamente a tormentare la catenina che portava
al collo.
“Non credo
potrei dirti molto…”
“Dimmi solo
una cosa: è solo sesso per te?”
Wilson le
fece questa domanda senza un attimo di esitazione, guardandola negli occhi,
serio.
“Ma…cosa?”
Lisa divenne rossa in viso. Fece un respiro profondo prima di continuare.
“Perché dovrei parlartene? Perché dobbiamo parlarne?”
“Perchè House
è mio amico. Tu lo conosci bene, ma non quanto me. Sto cercando di proteggerlo
perché credo che il fondo l’abbia già toccato, e non lo voglio vedere
scavare.”
A Lisa scappò
una risata nervosa. Scosse la testa, passandosi una mano in fronte. “Credo che
tutte le tue preoccupazioni con House siano sprecate. Non è certo un uomo che
rischia di venire usato e di veder feriti i suoi sentimenti. Se c’è qualcuno di
cui ti devi preoccupare non è certo lui.”
“Sei tu?”
“No! Non devi
preoccuparti per nessuno Wilson, siamo due adulti! Sei patetico…” si pentì
subito di quello che aveva appena detto.
“Sarò
patetico, ma tu ti stai comportando come una ragazzina testarda!” le puntò un
dito accusatore, mentre per la prima volta in vita sua, Lisa lo sentiva alzare
la voce.
Lo guardò con
gli occhi spalancati, senza sapere cosa dire. Nessuno, che non fosse sua madre,
si era mai rivolto così a lei.
“Se House
avesse voluto solo portarti a letto, l’avrebbe fatto già da tempo! Non avrebbe
avuto nessun problema a passare una notte di sesso con te, Cuddy! Se non l’ha
mai fatto fino ad ora è perché ti stima come medico e come persona, ti considera
un’amica, si fida di te! Per questo deve mantenere le distanze, lui ha paura di
avvicinarsi troppo alle persone che gli piacciono! Ora è successo quello che è
successo, e lui è sconvolto.”
Lisa
continuava a fissarlo trattenendo quasi il respiro, con la bocca semiaperta,
come se le parole che stava per dire le si fossero bloccate a metà strada.
“Io…” si
schiarì la voce “Io non credo sia solo sesso.”
Lo disse con
un filo di voce, senza perdere il contatto visivo con Wilson.
L’oncologo
annuì, rilassandosi un po’. “Scusa se ti ho parlato così, ma io e House siamo
amici da tanto e sento di avere delle responsab…”
“Ok.” lo
interruppe lei in modo forse troppo deciso. “Va bene, Wilson. Ora è meglio che
vai.”
Lui annuì,
alzandosi dalla sedia.
“Solo una
cosa.” disse ancora lei.
“Si?”
“Sei anche
mio amico. Se questa volta a raschiare sul fondo ci finisco io, ti dovrai
occupare di me.”
“Va bene…”
rispose a mezza voce l’uomo.
Poi si voltò
e, senza aggiungere nient’altro, lasciò l’ufficio del suo capo.
21 ottobre 2006, h 4.50
pm
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di House
Un riga
verticale divideva la lavagna in due per tutta la sua lunghezza.
Com’era
capitato solo raramente, in cima alle due colonne si trovavano i nomi dei
pazienti.
“Mark” e
“Simon”, e a seguire tutti i sintomi, elencati con ordine.
La scrittura
non era quella di House; aveva consegnato il pennarello a Cameron, si era
appoggiato alla parete con lo sguardo fisso sulla lavagna, e aveva incominciato
a dettare quel macabro elenco.
Lei aveva
scritto tutto senza dire una parola, buttando ogni tanto uno sguardo preoccupato
al suo capo.
“Allora!”
esclamò il diagnosta, allontanandosi dalla parete e camminando verso la lavagna.
“Il nostro paziente aveva il cancro. E’ guarito per un motivo che ancora non
conosciamo. Lo mandiamo a casa finalmente sano e lui torna pochi giorni dopo
lamentando dispnea. E’ un sintomo terribilmente noioso e lui, per non deluderci,
si fa venire un infarto. E poco dopo anche un ictus! Che tesoro…” House fece un
bel respiro per riprendere fiato. “Quando si risveglia scopriamo che non riesce
a parlare. Una bella donna si avvicina al suo letto e lui prova a tagliuzzarla
con un coltello…” d’istinto tutti buttarono uno sguardo sulla fasciatura al
braccio di Cameron. “Follia omicida provocata dalla paranoia, provocata a sua
volta da un’allucinazione! Il suo fratellino esiste, e non può esser stato qui:
quindi, allucinazione.”
House si
voltò un attimo verso l’entrata dell’ufficio: Lisa Cuddy lo fissava appoggiata
alla parete.
Tornò a
guardare la lavagna. “E ora veniamo al gemello separato nella culla…A circa 5
anni gli diagnosticarono un cancro al fegato, che guarì, sempre per un motivo
che ancora non conosciamo, un anno dopo. Circa sei mesi dopo il bambino
miracolato smette di parlare, senza motivazione apparente. Cresce, diventa un
uomo, ma continua a non spiaccicare parola. Due giorni fa arriva al pronto
soccorso di Atlantic City con un arresto cardiaco. Lo stabilizzano e dopo 12 ore
ha un altro infarto. Si riprende ma non completamente: resta in coma.”
Quando House
si zittì, nessuno ebbe niente da dire.
Gli occhi di
tutti i medici erano incollati a quella lavagna, e i loro cervelli cercavano di
collegare fatti, analizzare possibili cause, pensare possibili soluzioni. Ma era
un rompicapo.
“Ci troviamo
con due fratelli gemelli di 22 anni in coma, che hanno perso l’uso della parola
e che sono guariti improvvisamente dal cancro.” osservò Lisa.
Gli occhi di
tutti erano posati su di lei.
“Il risultato
è lo stesso, ma le tempistiche sono state diverse. Non c’è niente in comune nel
loro…tempo.” concluse Cuddy.
“E neanche
nello spazio.” aggiunse Foreman. “I ragazzi sono cresciuti separati.”
Seguirono
altri minuti di silenzio carico di dubbi.
“Qualcuno ha
qualche idea?” chiese Chase infine.
Tutti,
d’istinto, si voltarono verso House, che fissava ancora la lavagna,
impassibile.
“Io credo…”
disse, a voce così bassa che per un attimo i suoi assistenti pensarono stesse
parlando da solo “Io credo che dev’esserci un punto di contatto. Un punto in cui
si sono incontrati nel tempo e nello spazio. Quello è il nostro momento
chiave.”
Cameron
incrociò le braccia, perplessa. “Quindi?”
House sembrò
destarsi in quel momento dallo stato di trance in cui era caduto.
Si voltò
verso i suoi assistenti: “Cameron, rifai tutti gli esami di routine al gemello e
uno screening genetico ad entrambi, voglio sapere che suggerimento ci danno i
loro cromosomi. Chase, contatta i genitori e gli amici di entrambi i ragazzi e
chiedi tutti gli spostamenti che hanno fatto da quando sono nati: gite
scolastiche, fughe da casa, campeggio con gli amici. Trovami il momento in cui
si sono incontrati.” Chase annuì, prendendo per un braccio Cameron e
trascinandola fuori dalla stanza.
“Foreman” il
diagnosta si voltò verso il neurologo “Voglio sapere come mai un bambino smette
di parlare a 7 anni, di punto in bianco. Fai delle ricerche, cerca dei
precedenti: voglio una lista delle possibili cause entro stasera.”
“Ok.”
Anche Foreman
uscì dall’ufficio.
House tornò a
fissare la lavagna, stringendo nervosamente il suo bastone.
“Posso
esserti d’aiuto anch’io?”
La voce di
Lisa lo colse di sorpresa, si era quasi dimenticato che c’era una persona in più
nella stanza.
“Oh,
dimenticavo che fai parte dell’equipe per questo caso.”
“Già…”
“Bhe,
sfrutterò la tua potenza istituzionale…”
Lo guardò con
espressione perplessa.
“Chiama
l’FBI. Chiedi degli agenti Mulder e Scully, temo che ci sarà bisogno della loro
esperienza.”
Cuddy gli
rivolse un ampio sorriso. “House, quello è un telefilm.”
“Peccato.”
rispose il diagnosta, abbassando per un istante lo sguardo. “Si sarebbero
divertiti un mondo qui, quei due.”
Tornò a
guardarla, e il cuore di lei perse qualche battito quando vide che
sorrideva.
Un sorriso
appena accennato, ma bellissimo.
Fece quei
pochi passi che lo separavano da lei, e le si fermò davanti, un po’ più vicino
di quanto avrebbe fatto con un collega qualunque. Non tanto vicino da
insospettire le persone che passavano davanti all’ufficio e potevano vederli
attraverso le pareti di vetro, ma abbastanza da far venire i brividi ad
entrambi.
“Ci stiamo
bruciando con tutto questo fuoco, lo sai Cuddy?”
“A me piace
il fuoco.”
“Anche a me
piace, ma non so se ne usciremo vivi.”
“E chi ha
detto che dobbiamo uscirne?”
Quel breve
scambio di parole senza senso apparente, aleggiò su di loro per qualche istante.
Le sentirono poggiarsi sulla loro pelle, come gocce di lava.
House sentì
che la sua solita paura lo assaliva, ma questa volta non fu un peso sul cuore,
ma solo una piuma che gli solleticava l’anima.
Per la prima
volta sentì che forse poteva conviverci per un po’.
Sentì che per
lei ne valeva la pena.
“Ti conviene
andare nel tuo ufficio Cuddy, il dottor Montgomery potrebbe chiamare per avere
informazioni sul ragazzo.” era una semplice comunicazione di lavoro, ma il tono
con cui House lo disse le fece venire la pelle d’oca. “Io devo portare queste
cartelle a Wilson.”
Detto questo
le passò accanto, senza aspettare nessuna risposta, e lasciò la stanza.
Lisa riprese
a respirare quando i passi di House non si sentivano ormai più.
Alzò gli
occhi al soffitto, prendendo una boccata d’aria.
“Aiuto…”
Questa parola
assurda le sfuggì in un sussurro, e si sentì terribilmente stupida.
Era solo un
uomo, un uomo che conosceva bene.
Sorrise tra
sé e sé.
Lo sguardo le
cadde sull’armadietto di metallo, dove vide il suo viso riflesso.
Era rossa in
viso , aveva gli occhi lucidi e un sorriso ebete stampato in faccia.
Sono completamente pazza di lui…
Finalmente,
riuscì ad ammetterlo a se stessa.
21 ottobre 2006, h 5.10
pm
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di Cuddy
Lisa era in
piedi di fronte alla finestra.
I suoi occhi
vagavano distrattamente sul monotono paesaggio, mentre la sua mente correva
dietro a pensieri veloci e confusi, ma soprattutto forti.
Così forti da
soffocare i suoi sensi, impedendole di sentire, dietro di lei, la porta che si
apriva e si richiudeva, il frusciare delle tendine che venivano chiuse con un
rapido gesto, e i passi lenti di un uomo che la raggiungevano.
Non un uomo
qualunque, ma quello che le aveva occupato l’anima in modo violento e arrogante,
e che ora la percorreva in lungo e in largo, cercando forse un’uscita, forse un
nascondiglio dove rimanere per sempre: lei non lo sapeva.
Si accorse di
lui solo quando sentì il tonfo del bastone che cadeva, dietro di lei.
Non si
spaventò, ne si voltò; non se la sentiva di guardarlo negli occhi, non in quel
momento.
La vampata di
calore al ventre la colse prima che potesse capire cosa l’aveva provocata.
Bastò un
rapido viaggio lungo la sua pelle per trovare i punti di contatto, quelli da cui
il fuoco era entrato.
Il braccio di
House era scivolato agile intorno alla sua vita, sotto la camicetta, e ora i
polpastrelli della sua mano le sfioravano la pancia, così delicatamente da farla
impazzire.
Con l’altra
mano aveva percorso tutta la lunghezza del suo braccio, abbandonato lungo il
fianco, e dopo aver giocherellato un po’ con le dita di lei, le aveva
intrecciate alle sue.
Per un tempo
che sembrò lunghissimo rimasero in religioso silenzio, e tutto quello che Lisa
riuscì a percepire fu il leggero contatto delle sue carezze sulla pancia, che
perdendo senza fretta la loro innocenza, si spostavano sempre più in basso, fino
a che arrivarono a sfiorarle l’orlo delle mutandine. Chiuse gli occhi, cercando
di tuffarsi con tutti i tuoi sensi in quel momento, e di scacciare il suo
raziocinio che da un angolo della sua mente le ricordava che erano nel suo
ufficio, in ospedale, con un caso importante tra le mani…non era il momento di
perdere tempo in fantasie erotiche, o realtà che fossero.
House era
perso nella visione del riflesso del viso della donna nel vetro della finestra:
osservò il suo respiro che accelerava, e le labbra che si dischiudevano
leggermente per catturare più ossigeno, gli occhi che si chiudevano e le guance
che prendevano colorito.
Non aveva il
coraggio di riflettere in quel momento su cosa provasse per lei, ma un pensiero
non riusciva proprio a scacciarlo: non ricordava di aver mai visto o sentito
cosa più bella.
Lasciò la
mano della donna e con il braccio le cinse le spalle, attirandola a se e
affondando il viso nei suoi capelli.
Lei non
oppose resistenza, e si lasciò sfuggire un gemito che gli fece girare la
testa.
Le afferrò
anche la vita e la strinse forte contro il proprio corpo.
Finalmente i
loro sguardi si incontrarono, nel riflesso della finestra.
Lisa sentiva
quanto lui la desiderasse, e quello che provò quando se ne rese pienamente
conto, fu qualcosa di pericolosamente simile alla felicità.
House le
tolse le parole di bocca quando, sussurrando tra i suoi capelli, disse quelle
parole che avrebbero aleggiato su di loro per molto tempo.
“Ho bisogno
di te.”
Questo, le
disse.
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Capitolo 11 *** 11 - La mia porta chiusa ***
11 – LA MIA PORTA CHIUSA
21 ottobre 2006, h 5.10
pm
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di Cuddy
[…]
“Ho bisogno
di te.”
Questo, le
disse.
Era la prima
volta che si metteva così a nudo, in un terreno così pericoloso come poteva
essere quello del suo rapporto con Lisa.
Non aveva mai
ammesso di aver bisogno di qualcuno, nemmeno con se stesso.
Tanto meno
con la diretta interessata.
Ma i loro
corpi si urlavano addosso questo bisogno da tempo, e ora che anche la sua mente
era così intrisa di lei, le sue labbra non erano più riuscite a trattenere la
verità.
Quella verità
che si era impossessato di lui, togliendoli ogni controllo.
Non smise di
guardarla nel debole riflesso sul vetro, come se staccare gli occhi da lei
avrebbe significato perderla.
Con le
braccia la stringeva forte contro di sé, con gli occhi la incatenava in una
comunicazione silenziosa, con un significato troppo spaventoso per esprimerlo ad
alta voce.
Erano due
persone indipendenti, dedite al lavoro, sole da tempo; da troppo tempo.
Non potevano
stare insieme.
Lui non era
capace a stare con nessuno.
Le avrebbe
fatto del male, e lei non era tipo da farsi annientare da un uomo.
Per questo
l’amava, e per questo quell’angoscia snervante gli attanagliava l’anima.
Un terribile
paradosso: voler vicino qualcuno che però standoti accanto soffrirebbe e
basta…distruggendo così anche una parte di te.
Ora però
lasciarla andare era impossibile.
Le sue
braccia si opposero al suo raziocinio, stringendo Cuddy ancora più forte.
La sentì
trasalire, come se non si aspettasse che un contatto fisico potesse diventare
più intimo di quello che già era.
House chiuse
gli occhi, appoggiando il viso ai suoi capelli, cercando di dimenticare che
Cuddy era un’altra persona, cercando di dimenticare che poteva allontanarsi da
lui.
Voleva fosse
solo qualcosa di suo.
“House…” la
voce di Lisa gli arrivò lontana, come se fosse caduto in uno stato di
trance.
“House, mi
fai male.”
Sciolse
l’abbraccio.
Scostando il
braccio dalle sue spalle, con la mano le sfiorò per sbaglio il seno, provocando
una scossa elettrica ad entrambi.
“Scusa.”
disse, un po’ in imbarazzo.
“Niente.”
rispose lei, trattenendo il sorriso che le salì spontaneo alle labbra, pensando
a tutte le volte che l’aveva toccata di proposito, sostenendo con insolenza di
averlo fatto per sbaglio.
Allora era un
gioco e adesso si faceva sul serio.
La fragilità
di House, ben nascosta sotto la sua sfrontatezza, le apparve d’un tratto come
qualcosa di palpabile.
Fu solo per
un istante, poi si voltò e il contatto con i suoi occhi di ghiaccio le impedì
un’altra volta di pensare coerentemente.
Avrebbe
voluto dirgli qualcosa, ma non trovava le parole.
Allora lo
baciò, e sembrò il gesto più naturale del mondo.
Come il
giorno veniva con il sole, e spariva con lui, così le loro labbra dovevano
essere unite in quel momento.
Era l’ordine
delle cose.
Gli passò le
braccia intorno al collo, mentre le mani di House tornarono a posarsi sui suoi
fianchi.
Si persero in
quel bacio; occhi chiusi e orecchie solo per la musica che avevano dentro.
Wilson e
Chase si diressero con passo spedito verso l’ufficio della Cuddy, sperando di
poter riferire almeno a lei le importanti novità sul caso, e magari di avere
notizie di House, sparito per l’ennesima volta.
Non fecero
caso alle persiane chiuse; in qualunque altra situazione Wilson avrebbe bussato,
ma in quel momento aveva notizie troppo importanti da comunicare, più importanti
della sua buona educazione.
Non ci fu
niente, quindi, ad impedirgli di trovare House e Cuddy in piedi accanto alla
finestra, impegnati in un bacio da oscar, tanto da non sentirli neanche
arrivare.
Wilson si
bloccò di colpo sulla soglia, con la maniglia della porta ancora in mano.
Chase, che
aveva fatto fatica a stare dietro al suo passo e quasi correva dietro di lui,
gli finì pesantemente addosso.
“Oddio…”
l’oncologo si portò una mano agli occhi, dando le spalle ai due colleghi.
Voltatosi, si
trovò Chase a pochi centimetri, che guardava lo spettacolo con occhi e bocca
spalancata, neanche fosse un ragazzino davanti al suo primo film porno.
“Via, via!”
lo incalzò a bassa voce.
L’intensivista sembrò destarsi e
fece quei due passi indietro che permisero a Wilson di chiudersi la porta alle
spalle.
Si trovarono
uno di fronte all’altro, decisamente confusi sul da farsi.
“Ma hai
visto?!” chiese Chase sconcertato.
“Si
ma…lasciamo stare, sono fatti loro.” Wilson si ricordò che, da bravo amico, era
il caso tentasse di difendere la privacy di House e Cuddy.
“Si certo,
immaginavo ci fosse qualcosa tra loro dopo quella notte in bagno…tutti
ubriachi.” Le parole confuse di Chase furono accolte dall’espressione perplessa
di Wilson. “Ma…vedere House con una donna! Insomma, non pensavo potesse baciare
una donna senza…senza divorarla!”
Wilson era
sempre più perplesso.
Scosse la
testa, preoccupato da quella situazione.
“Adesso
facciamo finta di non aver visto niente, bussiamo, e quando Cuddy ci apre
esponiamo le novità sul caso e poi ce ne andiamo senza il minimo accenno a ciò
che abbiamo visto. Credi di potercela fare?” rimase in ansiosa attesa di una
risposta da parte del giovane collega, che sembrava perso nei suoi pensieri.
“Chase!”
“Ah, si si.
Nessun problema.”
Wilson non
era affatto convinto, ma non aveva scelta.
Si voltò di
nuovo verso l’ufficio di Cuddy, e quasi si spaventò nel vederla sulla porta,
mentre li fissava, forse un po’ turbata.
“Tutto bene?”
chiese ai due uomini, cercando di sembrare il più rilassata possibile.
In realtà,
aveva aperto gli occhi appena in tempo per vedere Wilson che si chiudeva la
porta alle spalle, ed era terribilmente in imbarazzo.
“Si, abbiamo
delle novità sul caso.” disse Wilson avvicinandosi.
“Per caso
House è con te? Lo stavamo cercando…” Chase pensò che era un ottimo modo per
togliere a Cuddy ogni dubbio di esser stata vista.
Mise però
troppa enfasi nella sua domanda, col risultato che suonò quasi ridicola.
Lisa sospirò,
fissando Wilson negli occhi, in un misto di rimprovero e ricerca d’aiuto.
“Entrate.” disse rassegnata.
Wilson buttò
un’occhiata infastidita a Chese.
“Ma che ho
fatto?” sussurrò questi all’oncologo mentre lo seguiva, ma l’unica risposta che
ricevette fu un gesto stizzito.
Trovarono
House stravaccato sul divano di Cuddy, con la sua solita aria arrogante.
“Allora? Che
porti a papà?” si alzò e raggiunse Chase, strappandogli di mano i fogli che
portava con sé.
“I due
fratelli si conoscevano.”
“Lo
immaginavo. Qualcosa di più interessante?”
“Si sono
conosciuti quindici anni fa, durante una colonia estiva. L’estate in cui Simon
ha smesso di parlare.”
House sembrò
soprappensiero.
Si voltò un
istante verso Cuddy “Hai visto che faccio bene a guardare tanta tv? E’ come nei
film.”
Poi rivolse
ancora l’attenzione al suo assistente. “Altro?”
“Si. Il
migliore amico di Mark mi ha riferito che i due fratelli si vedevano
regolarmente, almeno un paio di volte l’anno nell’ultimo periodo. Mark gli aveva
chiesto di non farne parola con nessuno, e così non ne sapeva nulla neanche la
sua ragazza.” Chase prese fiato. “E il ragazzo parlava con lui, House! Intendo
Simon…l’amico di Mark sostiene che i due fratelli si parlavano spesso al
telefono. Questo significa che Simon non è realmente muto.”
“Intendi che
finge di essere muto da quindici anni?!” chiese incredula Cuddy.
“No, non
esattamente.” passò un foglio a Lisa, scritto con calligrafia quasi illeggibile.
“Questo risale a circa un anno fa.”
“Caro
fratello, devo confessarti una cosa.” incominciò a leggere la donna, mentre gli
altri tre ascoltavano in completo silenzio “Se non parlo con nessuno oltre che
con te, non è per i motivi che tu pensi. E’ che non ne sono capace. L’ho capito
ora. Io non posso parlare, perché la mia voce è quello che Dio si è preso in
cambio della mia vita, della mia guarigione dal cancro. Ho capito ora la verità:
tu sei me. Noi non siamo fratelli separati alla nascita, ma un anima brutalmente
divisa in due corpi. Tu non esisti senza di me, ed io esisto solo con te. Per
questo mi senti. Ed è per questo che tu soffrirai, come ho sofferto io. Per
questo impazzirai, come sono impazzito io. Non puoi scappare fratello. Quando il
tuo destino ti avrà preso ci sarò solo io accanto a te. Solo la mia voce
sentirai, e solo io potrò sentire la tua.”
Ci fu qualche
istante di silenzio.
“E’
completamente pazzo.” dichiarò poi House, sprezzante.
“Già…”
confermò Chase, a mezza voce. “Grazie a questa corrispondenza ho però tutta la
lista di posti in cui si sono incontrati. Ho fatto una ricerca e uno dei nomi
che ho trovato è un paesino sperduto nell’africa centrale. Potremmo partire da
lì…Foreman sta cercando possibili virus e parassiti che si possono incontrare in
quella zona, e sono riuscito a rintracciare un paio di persone che li hanno
accompagnati in una parte del viaggio, così ci diranno cos’hanno visitato.”
“Bravo.”
disse House.
Chase guardò
scettico il suo capo, aspettandosi da un momento all’altro l’accompagnamento
sarcastico a quel complimento.
Ma non arrivò
nulla.
“C’è ancora
una cosa.” disse Wilson, interrompendo quel momento idilliaco per il giovane
assistente.
Tutti gli
occhi furono su di lui.
“Il tumore si
è riformato. In entrambi.”
Nessuno osò
dire niente, mentre la speranza di aver finalmente incastrato due pezzi del
puzzle, veniva immediatamente distrutta.
Scusate la brevità del capitolo, ed eventuali errori.
Sono in partenza per Kiev, e ci tenevo a pubblicare un capitolo prima di
iniziare questa settimana, che sarà emotivamente impegnativa.
Se trovate errori, per favore segnalatemeli, e provvederò a correggere al mio
ritorno.
Vi ringrazio tantissimo per le recensioni, che sono preziosissime.
Spero di trovare presto il tempo di rispondervi personalmente.
A presto!
Vally
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Editor
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Capitolo 12 *** 12 - La mia fine che non c'è ***
12 – LA MIA FINE CHE NON
C’E’
21 ottobre 2006, h 5.50
pm
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di House
Cameron
trasalì quando House, Cuddy, Wilson e Chase entrarono con passo spedito
nell’ufficio, come un piccolo esercito pronto ad attaccare.
House sbatté
le cartelle che teneva in mano a
pochi centimetri dal suo braccio ferito, che lei ritrasse rapidamente,
portandoselo al petto e guardando il suo capo con aria interrogativa.
“Voglio il
mio neurologo, dov’è?” le chiese.
“Sta facendo
delle ricerche…” rispose lei esitante.
“Chiamalo.”
le ordinò House.
Cameron
raggiunse la scrivania del suo capo, e alzò la cornetta per contattare il
collega; il suo sguardo si incrociò con quello di Chase, e capì che c’erano
novità importanti.
Nell’arco di
pochi minuti, furono tutti riuniti davanti alla solita lavagna, a cui era stata
aggiunta doppiamente la dicitura “cancro”, con la scrittura inclinata di
Wilson.
“Ho trovato
qualcosa” disse Foreman, aprendo al centro del tavolo un libro che dalle
dimensioni poteva racchiudere l’intera storia dell’umanità. “Chrystopea
carnya.”
L’intero
gruppo di medici si raccolse intorno a quel libro, osservando perplessi la foto,
ingrandita centinaia di volte, di quello che sembrava un innocuo verme.
Alzarono lo
sguardo insieme, e si ritrovarono a fissarsi l’un l’altro.
House
incrociò gli occhi di Cuddy, e riabbassò subito lo sguardo, come se guardarla in
pubblico avesse potuto rivelare a tutti quello che provava per lei.
“Vuol dire
che c’è un parassita che può provocare tutti questi sintomi in un così largo
lasso di tempo?” chiese Wilson al neurologo, dubbioso.
“No.” si
intromise House. “Questo parassita spiega gli infarti, l’ictus, il cancro. Se
poi colpisce due psicotici, possono aggiungersi sintomi che non c’entrano
nulla…che non sono neanche sintomi.”
“Il fatto che
i due fratelli non parlino non è un sintomo?” Cameron sembrava confusa.
“Se non potessero parlare, si potrebbe
considerarlo un sintomo. Ma loro possono, semplicemente non parlano.” chiuse il
libro, provocando un sordo tonfo che ruppe il silenzio che si era creato. “Simon
è pazzo; da quando è bambino. Un bambino psicotico che è cresciuto coltivando la
sua malattia nel silenzio più completo, cosa che l’ha fatto classificare come
bambino strano, problematico, ma che non ha permesso di capire la sua reale
condizione mentale. Alcune patologie psichiatriche hanno una componente
genetica, e si possono scatenare in seguito ad un trauma…un cancro ad esempio,
con ospedalizzazioni, terapie, distacco dai genitori.”
House
camminava ora avanti e indietro, appoggiandosi al suo bastone con una mano e
gesticolando con l’altra. Di tanto in tanto si fermava, guardava qualcuno di
loro.
Chase,
Cameron e Foreman, ma anche Wilson e Cuddy, seguivano ogni suo movimento con lo
sguardo, cercando di non perdersi nessuna parola, nessuna pausa. Quello era il
suo momento, quella era la parte del gioco in cui dava il meglio di sé.
“A Mark è
andata meglio…fino ad un certo punto almeno. Conosce il fratello, decide di
dividere un segreto enorme con lui. Una persona normale avrebbe fatto fatica a
reggere. Per uno che, come lui, ha iscritte nei geni le tracce della pazzia, è
la partita che ti porta alla perdita dell’intero campionato. Regge finché non si
ammala di cancro…o meglio, finché non guarisce dal cancro. A quel punto le
teorie del suo fratellino segreto, quelle che abbiamo trovato nella lettere, lo
assalgono, e perde la ragione. Smette di parlare, perché -tu impazzirai come
sono impazzito io-!” accompagnò la citazione con un ampio gesto, e con un
sorriso sinistro. “E con questo vi ho spiegato la parte della loro malattia
dovuta all’idiozia della psiche umana; ora Foreman vi spiega quella medica…io ho
bisogno di un sorso di whisky.”
Camminò fino
alla libreria e, spostati un paio di libri, tirò fuori una bottiglia quasi
vuota. Bevve a canna, assaporando il familiare sapore, e nel frattempo la
sensazione di poter fare qualcosa di proibito davanti al suo capo…senza che lei
prendesse provvedimenti. Perché era sicuro che dopo gli ultimi giorni, un po’ di
potere su di lei l’avesse ottenuto. Probabilmente a discapito di ogni sua difesa
emotiva, ma era comunque una consolazione.
Foreman si
schiarì la voce, attirando l’attenzione dei medici. “Il Chrystopea carnya è un
parassita che vive in molte regioni dell’Africa, ma che difficilmente attacca
l’uomo. Quando lo fa, si riproduce in fretta e colpisce il sistema
cardiocircolatorio: da qui ictus e infarti. Per quanto riguarda i tumori, questo
parassita provoca, dopo qualche mese, mutazioni cellulari, a livello del tessuto
molle, causando la formazione di piccoli tumori maligni, di solito asportabili
senza conseguenze, se presi in tempo.”
“Come i
tumori che ho trovato poco fa nei due fratelli…” chiarì Wilson. “Ma cosa mi dici
a proposito del cancro che ha colpito Simon da bambino e Mark un anno fa…e delle
loro guarigioni?”
Foreman
scosse la testa.
“Io avevo
detto che spiegava infarti, ictus e cancro, senza specificare quale cancro!”
disse House in sua discolpa.
“A questo
punto però la causa delle guarigioni non devono interessarci più di tanto.
Abbiamo una diagnosi che spiega tutto quello che non va adesso nei pazienti, e
possiamo curarli.” affermò pragmatica Cuddy.
“Si, i tumori
vanno rimossi, e bisognerà fare un intervento esplorativo per eliminare le uova
del parassita, che di solito si accumulano nel fegato. Infine, con una
plasmaferesi ripuliamo il sangue ed eliminiamo il rischio di altri infarti o
ictus.”
La donna
annuì e, vedendo che House aveva lo sguardo perso nel vuoto e sembrava non voler
dare nessuna indicazione ai suoi assistenti, ordinò loro di procedere con le
operazioni e la terapia.
Cameron,
Chase e Foreman lasciarono la stanza, dopo essersi divisi rapidamente i
compiti.
“Due psicosi
che provocano il mutismo, e due tumori guariti miracolosamente? Ti accontenti di
una diagnosi che lasci fuori questi elementi?” lo provocò Wilson, appena furono
rimasti solo loro due e Cuddy.
House lo
guardò appena. “Perché, credi che stiamo sbagliando?”
“No! Io credo
che la diagnosi sia corretta. Quello che mi stupisce è che sia tu a
crederlo…insomma, quei due tumori possono essere una coincidenza, ma non per
te!”
Lisa seguiva
la discussione a qualche passo di distanza, sorpresa anche lei dalla facilità
con cui House aveva accettato una diagnosi che sicuramente non lo
convinceva.
Lo conosceva
bene, e vedeva che c’era qualcosa che non andava.
I loro
sguardi si incontrarono.
“Lisa…” si
rivolse a lei chiamandola per nome, con una spontaneità che spiazzò
entrambi.
Anche Wilson
ne fu molto sorpreso, anche se sapeva della quasi-relazione tra i due, non si
aspettava certo un cambiamento così brusco in House.
“Vi lascio
soli.” disse “Vado a dare una mano a Chase per organizzare quelle
operazioni.”
House annuì
distrattamente, senza distogliere lo sguardo da quello di Cuddy.
Le si
avvicinò di qualche passo. “Ceni da me stasera? Poi possiamo vederci un
film…”
Lei non
dovette dire una parola, perché il sorriso che le salì alle labbra,
illuminandole il volto, era meglio di qualunque “si”.
21 ottobre 2006, h 7.20
pm
Abitazione di Gregory
House
House ci
aveva provato, ci aveva provato davvero.
Aveva
boicottato il vecchio minimarket sotto casa per il supermarket in periferia di
Princeton, quello di cui facevano anche la pubblicità in tv.
Solo per il
fatto di essere entrato in un supermarket, Wilson sarebbe stato orgoglioso di
lui.
Aveva preso
un carrello e aveva incominciato a spingerlo per le corsie di…di
quell’inferno.
Risultato?
Dopo quasi
un’ora era riuscito finalmente a trovare l’uscita senza acquisti; la speranza di
comprare qualcosa si era dissolta nel momento in cui si era trovato bloccato in
un ingorgo di carrelli carichi di cose inutili e bambini, nella corsia di
bagnoschiumi.
Un’intera
corsia di bagnoschiumi…
Aveva preso
il suo primo Vicodin della giornata, mollato il carrello, e facendosi largo col
bastone era riuscito a liberarsi da quel covo di serpi.
La
probabilità di trovare quello che cercava là dentro era praticamente nulla.
Aveva ripreso
la moto ed era tornato verso casa, e verso l’amato minimarket, con il vecchio
commesso italiano che lo conosceva bene, e glielo dimostrava ogni giorno non
rivolgendogli mai la parola: proprio il genere di accortezza che lui amava.
Quando si era
trovato davanti alla serranda chiusa, gli era improvvisamente tornato in mente
che il suo minimarket di fiducia chiudeva alle sei e mezza…e per questo a casa
sua non c’era mai niente da mangiare.
Colpì diverse
volte la saracinesca col bastone, sperando che il suo amico italiano vivesse là
dentro, e che potesse dargli qualcosa, qualunque cosa di commestibile da
cucinare.
Non accadde
nulla.
Per qualche
secondo pensò addirittura di chiamare Wilson implorandolo di cucinare qualcosa
per loro; ma non avrebbe mai ammesso con l’amico di non riuscire a gestirsi da
solo neanche un appuntamento.
Non era un
appuntamento, era una cena col suo capo.
Non importava
cosa quella cena rappresentasse, era comunque una cena e quindi bisognava
mangiare.
Tornò a casa
dieci minuti prima delle 7 e mezza, dieci minuti prima dell’ora
dell’appuntamento.
Non aveva
avuto tempo di cambiarsi, né di lavarsi, né di mettere in ordine la casa.
Aprì il
frigo: un hamburger, una cassa di birra e uno yogurt.
Nel freezer
trovò una pizza surgelata.
Da quanto
tempo non invitava qualcuno a cena?
21 ottobre 2006, h 7.37
pm
Abitazione di Gregory
House
Il campanello
suonò, con sette minuti di ritardo.
Aveva almeno
una decina di battute con cui tormentarla solo per quel piccolo dettaglio, ma
quando aprì la porta e se la trovò davanti, le parole che voleva dirle si
confusero tutte nella testa, e gli uscì solo un automatico “ciao”.
“Ciao
House.”
Sembrò non
notare che aveva ancora addosso la camicia di quando la era andata a svegliare
nel pieno della notte, la barba di due giorni prima, e che sul suo divano c’era
ancora la coperta di quella notte…la notte in cui lei era stata lì.
Si tolse il
soprabito, e lui pensò che forse doveva fare qualcosa come prenderlo e andarlo a
posare da qualche parte, ma lei fece da sola, lasciandolo cadere su una
sedia.
Le
aspettative di Cuddy nei suoi confronti in quanto ad appuntamenti galanti erano
scarse, e questo lo fece sentire più tranquillo.
Il modo in
cui vestiva era semplicemente perfetto: ancora in rosso, come in quella
splendida notte. Il vestito era però più sobrio, senza peccare di
professionalità: quella era ancora Cuddy, il suo capo, e non Lisa, la donna con
cui era stato a letto qualche giorno prima.
Probabilmente
la paura di lasciarsi andare non era solo una prerogativa del diagnosta.
“Hai fame?”
le chiese, con un tono di voce un po’ troppo alto, che tradì il suo
imbarazzo.
“Si, un po’”
rispose lei, guardandosi attorno.
“Avrei
preferito tu mi dicessi di no.” mugugnò House tra sé e sé, mentre si dirigeva
verso la cucina. “Guarda pure un po’ di tv, io vado a cucinare, e a fare un po’
di cose…ho passato due ore al supermercato, non ho avuto neanche tempo di
cambiarmi!” le disse, quando ormai le aveva voltato le spalle.
Lisa si
sedette sul divano, e prese il telecomando, accendendo meccanicamente la tv,
mentre i suoi pensieri erano decisamente altrove.
Era rimasta
davvero sorpresa da quell’invito a cena: era strano da parte di House…non era da
House! Solo pensarlo in un supermercato le era praticamente impossibile, e
l’idea che cucinasse per lei…
Era tutto
troppo normale, e lei era terribilmente spaventata.
Passò circa
mezz’ora, prima che House si facesse rivedere, comparendo improvvisamente alle
spalle di Lisa, ancora persa nei suoi pensieri.
“E’ pronto”
le disse, posandole una mano sulla spalla.
Lei si voltò,
e non poté fare a meno di sorridere quando vide che si era fatto la barba e che
indossava una camicia azzurra, quella che lei preferiva per come faceva
risaltare i suoi occhi.
Sfiorò con le
dita la mano di House sulla sua spalla, prima di alzarsi e seguirlo in
cucina.
Lo scenario
che si trovò davanti non fu quello che ci si poteva spettare da una cena per il
primo appuntamento: i due piatti, uno davanti all’altro, contenevano mezza pizza
e mezzo hamburger a testa, e oltre ai due bicchieri e alle posate, c’erano solo
cinque lattine di birra ghiacciata.
Lisa avrebbe
dovuto forse essere un po’ offesa per quella strana accoglienza, ma in realtà si
sentiva rincuorata: quello era l’House che conosceva lei, era ancora se
stesso.
“Fuori dal
supermercato hai incontrato dei bambini affamati e il tuo buon cuore ti ha
costretto a donar loro tutto il cibo comprato?” gli chiese, prendendo posto, e
iniziando quel gioco ironico tra loro che li rassicurava entrambi.
“Ho detto di
essere andato al supermercato ma non ho mai detto di aver comprato qualcosa.”
rispose House, cercando confusamente qualcosa in un cassetto.
Sembrò poi
aver trovato ciò che cercava, e lo portò trionfante al tavolo.
Era un
vecchio mozzicone di candela, che mise in fondo ad un bicchiere, e accese.
“Così è tutta
un’altra cosa vero?”
Cuddy, di
risposta, gli fece uno di quei sorrisi che gli facevano girare la testa.
“Buon
appetito.” House aspettò che lei sollevasse le posate e incominciò a
mangiare.
Mangiarono in
silenzio, incrociando spesso gli sguardi e scambiandosi fugaci sorrisi. Non che
non avessero nulla da dirsi, ma l’esperienza di mangiare insieme, in un contesto
così intimo, era qualcosa di così nuovo e speciale che meritava un religioso
silenzio.
Lisa finì la
sua mezza pizza, riconoscendo che con il forno a microonde House doveva essere
un maestro.
“L’hamburger
non lo mangi?! L’ho fatto con il braccino di un bimbo di quattro
anni…gliel’hanno amputato, non gliel’ho tagliato io! Giuro!”
House vide
una finta espressione disgustata affacciarsi sul suo viso, e si rese conto che
provocarla era una delle cose più divertenti che avesse mai fatto. Con lei si
divertiva sempre, forse anche quando litigavano e lo faceva arrabbiare
negandogli qualche permesso.
“Quasi quasi
mi hai convinta.” rispose lei, prendendo la forchetta e avvicinandola alla
carne. Poi la posò ancora al suo posto, e lo guardò. “House, non mangio carne
e…” gli versò un po’ di birra nel bicchiere. “…io non bevo birra.”
House alzò
gli occhi al soffitto “Ma non puoi consegnare un libretto di istruzioni quando
ti chiedono di uscire?! Io come faccio a farti ubriacare se non bevi birra?”
Lisa non poté
fare a meno di ridere davanti alla sua finta esasperazione. “Non ti preoccupare,
avevo avuto uno strano presentimento e avevo mangiato un’insalata prima di
venire qui, quindi la pizza mi è bastata. In quanto al bere…grazie alla mossa
della candela verrò probabilmente a letto con te anche da sobria!”
“Guarda che
scherzavo.” rispose House, fattosi improvvisamente serio.
“Anch’io.”
ribatté la donna, con la sua stessa espressione.
Dopo qualche
istante in cui si fissarono indecisi sul da farsi, scoppiarono entrambi a
ridere.
House mandò
giù l’ultimo boccone di carne e una lunga sorsata di birra, poi si alzò e portò
in tavola una bottiglia d’acqua.
La osservò
mentre si versava un po’ del limpido liquido nel bicchiere, e beveva lentamente,
come per prendere tempo.
Quando posò
il bicchiere, e si trovarono a fissarsi dai due lati del piccolo tavolo, quel
fastidioso imbarazzo li colse ancora.
Probabilmente
sarebbe bastato che uno dei due si alzasse e si avvicinasse all’altro per
rompere quel leggero velo d’ansia, ma non lo fecero.
Quello era il
loro primo appuntamento, e doveva procedere come un vero appuntamento.
Era una sorta
di test per capire se potevano funzionare al di là di come colleghi o compagni
di letto.
“Allora, a
che film hai pensato?” chiese Lisa, inclinando leggermente la testa, come per
studiarlo.
Merda, il film!
House si era
organizzato per prendere un film al noleggio vicino al supermarket, ma con il
fallimento della “missione spesa”, quel dettaglio gli era passato di mente.
“Ehm…o
qualcosa in casa, decidi pure tu.”
“Va bene!”
rispose lei, alzandosi rapidamente dalla sedia, e precedendolo in salotto.
House buttò
un occhio al mezzo hamburger rimasto illeso, lo prese con la mano e fece un
grosso morso; poi lo abbandonò dove l’ave trovato e seguì la donna nell’altra
stanza.
La trovò
seduta per terra, davanti alla sua piccola bacheca dei VHS, con un’espressione
parecchio perplessa in volto, e una videocassetta familiare tra le mani.
“No,
aspetta!” si diresse rapidamente verso di lei, e gliela strappò di mano “In
questo film ci sono un sacco di donne che fanno strane cose con altre donne…non
vorrei che ti venissero strane idee e mi andasse in bianco la serata.”
Lisa lo
guardò con gli occhi spalancati. “House, ma sono tutti film porno!”
“No.” precisò
lui, porgendole la mano.
Lei, dopo un
attimo di esitazione, la afferrò e lui l’aiutò ad alzarsi.
Non mise di
stringere la sua mano quando furono in piedi uno di fronte all’altra, né quando
incominciò a camminare verso la camera da letto.
“Non dovevamo
vedere un film?” chiese Lisa titubante, mentre lo seguiva con un misto di timore
e curiosità.
“Si, ma visto
che sembri non apprezzare la mia selezione, ti faccio decidere tra quelli di
seconda scelta.”
Lasciò la sua
mano solo quando fu davanti al suo armadio, lo aprì, tirò fuori una vecchia
scatola di scarpe e gliela aprì davanti.
“Rambo…Rambo
2, Rambo 3…” lesse ad alta voce Lisa, “Vada per Rambo.” disse infine sconsolata,
accorgendosi che la seconda scelta si esauriva con quei tre film.
“Fantastico,
adoro Rambo! Abbiamo gli stessi gusti in fatto di film, incoraggiante vero?”
senza aspettare una sua risposta, il diagnosta tornò nell’altra stanza.
Cuddy lo
seguì, lanciando sguardi attenti a tutto ciò che c’era intorno a lei: disordine
ed eccentricità, che invece di irritarla le davano una piacevole sensazione di
familiarità .
House fece
partire il film e si sedette sul divano accanto a lei, passandole un braccio
intorno alle spalle ed attirandola a sé in modo teatrale.
Lisa si
lasciò cadere contro il suo corpo, e qui rimase, godendosi la sensazione di
piacere che provava nello stare a stretto contatto con lui, e dimenticandosi
totalmente del film.
Lo stesso
probabilmente aveva fatto House, perché il volume era bassissimo, e i dialoghi
praticamente incomprensibili.
Nessuno dei
due sembrava preoccuparsene.
“Cuddy?”
chiese lui dopo diversi minuti, quando ad entrambi stava venendo il dubbio che
l’altro si fosse addormentato.
“Si?”
“Credi che la
diagnosi dei gemelli sia corretta?”
Il tono che
House aveva usato non piacque a Lisa, che si liberò del suo abbraccio e si voltò
per guardarlo in viso. “Perché mi fai questa domanda?”
Lui scosse la
testa, soprappensiero.”Ho la sensazione che mi stia sfuggendo qualcosa…” disse a
mezza voce.
In quel
momento Lisa sentì una grossa confusione: aveva anche lei la percezione che ci
fosse qualcosa di mancante…dopo tutto il movimento che c’era stato intorno a
quei ragazzi, quello che avevano ottenuto le sembrava troppo poco. Ma sapeva
anche che era tutto quello a cui sarebbero arrivati, e se avrebbe fatto stare
bene i gemelli, tutto si sarebbe risolto per il meglio.
House non era
abituato a lasciare scoperti alcuni sintomi, e la sua tensione derivava
probabilmente da questo.
Si rese conto
che qualunque risposta da lei data in quel momento avrebbe fatto iniziare un
discorso a sfondo medico che non aveva nessuna voglia di affrontare.
Così si
sporse verso di lui e lo baciò.
Un bacio
leggero, sfiorandogli appena le labbra.
Poi si scostò
quel poco che bastava a guardarlo negli occhi e vide che la fissava incerto sul
da farsi.
Si ricordò la
prima volta che si erano trovati su quel divano insieme, e le tornò in mente
l’indecisione che a turno aveva colto entrambi e la confusione che aveva
impacciato inizialmente i loro gesti.
Lo baciò
ancora, questa volta in modo più deciso, e sentì che lui rispondeva al suo bacio
e si avvicinava lentamente a lei.
Sentì le sue
mani che incominciavano a percorrerle il corpo, soffermandosi proprio dove lei
preferiva, come se la conoscesse da sempre.
Dopo pochi
minuti, si trovò sotto di lui; indossavano ancora tutti gli abiti, ed House
stava incominciando a farle scorrere le dita sotto il vestito quando si bloccò
di colpo.
Cuddy ne
rimase sorpresa, e aspetto col fiato sospeso che accadesse qualcosa.
Allora il
diagnosta allontanò le labbra dalle sue, solo quei pochi millimetri che gli
permettevano di poter parlare. “Lisa devo andare.” disse, come se fosse per lui
qualcosa di inevitabile e doloroso.
“Che
succede?” chiese lei preoccupata, mentre si sistemava il vestito e scostava
distrattamente una ciocca di capelli dal viso.
“La
diagnosi…manca qualcosa. Devo tornare in ospedale.”
Lei si limitò
a guardarlo con un’espressione stupita mentre indossava la giacca e recuperava
il bastone.
Poi si piegò
su di lei. “Tu resta qui, ti prego.” la baciò sulle labbra. “Faccio il prima
possibile.”
Non aggiunse
altro e non si voltò prima di chiudersi la porta alle spalle.
Lisa fece un
respiro profondo, mentre lo sconcerto per il modo improvviso in cui se n’era
andato si mischiava alla piacevole sensazione di stordimento che le sue ultime
parole le avevano dato.
Guardò il
televisore che continuava a trasmettere Rambo.
Lo avrebbe
aspettato.
Avrebbe
sopportato la sua ossessione per il lavoro perché era anche per quello che lo
amava.
Ma stare
seduta su un divano davanti alla tv mentre House si girava indisturbato per il
suo ospedale non era da lei.
Indossò il
soprabito, si sistemo i capelli e, recuperata la sua macchina, prese la strada
per il Princeton Plaisboro Teaching Hospital.
Questo è il penultimo capitolo!
L'ultimo è in produzione, e non credo di pubblicarlo tra molto!
Scusate il ritardo, ma riprendere la vita universitaria/lavorativa è stato un
po' traumatico...
A presto con l'ultimo capitolo e grazie ancora alle genitilissime anime che
recensiscono!
Baci
Vally |
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Capitolo 13 *** 13 - La mia fine ***
13 – LA MIA FINE
21 ottobre 2006, h 11.35
pm
Abitazione di Robert
Chase
Non era da
Foreman andare a prendere a casa, di persona, i suoi colleghi, ma House gli
aveva telefonato mezz’ora prima, chiedendogli di andare immediatamente in
ospedale, e di contattare gli altri.
In realtà la
telefonata era consistita in poche parole.
“Chiama Quo e
Qua e raggiungetemi in ospedale. Adesso.”
Click.
Nel
linguaggio di House quella indicava un’emergenza, o comunque qualcosa che lui
considerava un’emergenza.
Le emergenze
di House venivano certamente prima delle sue rimpatriate con vecchi amici,
quindi aveva dovuto abbandonare il tavolo carico di vino che stava dividendo con
gente che non vedeva da anni, inventandosi una scusa poco credibile.
Questo era il
primo motivo per cui era nervoso.
Il secondo
era che aveva provato a contattare Chase e Cameron diverse volte, sia sul
cellulare che a casa, ma tutti i telefoni suonavano a vuoto.
Il terzo era
che a questo punto avrebbe preferito andare a cercare Cameron, che Chase, ma il
ristorante si trovava accanto a casa del collega, quindi era costretto a passare
a casa sua, per dire ad House di averci almeno provato.
Era la terza
volta che suonava il campanello, e questa volta insistette un po’ di più,
tenendo premuto il bottone e accompagnandosi con qualche imprecazione detta a
mezza voce.
Aveva visto
la luce accesa, Chase era in casa.
“Foreman…”
sentì la voce dell’intensivista dall’altra parte della porta “Che succede?”
“Credi che
sia venuto qui per una visita di piacere?! E’ mezz’ora che ti chiamo, dobbiamo
andare in ospedale.”
Dall’altra
parte non ci fu nessuna risposta.
“Chase?! Vuoi
aprire la porta? Non riesco a trovare neanche Cameron, se non siamo in ospedale
entro pochi minuti House ci licenzia.”
Ancora
silenzio dall’altra parte.
Stava per
prendere in considerazione l’ipotesi di buttare giù la porta con una spallata
quando sentì le chiavi girare nella toppa.
Chase aprì la
porta, quel tanto che bastava per tirare fuori la testa.
“Dobbiamo
andare adesso? Non siamo di turno…”
Foreman alzò
gli occhi al soffitto. “Ma ti ricordi per chi lavoriamo noi?!”
Poi aggrottò
le sopracciglia, notando qualcosa di strano nel collega: le guance più colorite
del solito, i capelli spettinati, un velo di sudore sulla fronte…e il rifiuto
categorico di aprire la porta.
“Sei con una
donna?!” gli chiese, abbassando il tono di voce.
“Si…” rispose
Chase. “Non puoi incominciare ad andare? Ti raggiungo il prima possibile…”
Foreman
sembrava un po’ titubante. “Come vuoi. Se poi House ti rende la vita impossibile
non ne voglio sapere niente.”
Mentre
parlava prese in mano il telefono, e dopo aver fatto partire una chiamata, se lo
portò all’orecchio.
“Chi chiami?”
chiese Chase, mentre uno strano presentimento lo coglieva.
“Cam…”
Foreman fu interrotto dallo squillo famigliare di un telefono, proveniente
dall’appartamento di Chase.
I due medici
si guardarono qualche secondo negli occhi, entrambi con la bocca semiaperta,
senza sapere cosa dire.
“Ehm…” iniziò
Chase.
“Sei con
Cameron?!” chiese il neurologo allibito. “Stavi facendo sesso con Cameron?!”
“No…” tentò
di difendersi l’intensivista in modo poco convincente, ma fu interrotto
dall’immunologa stessa che, arrivando alle sue spalle, afferrò la maniglia della
porta e la spalancò.
“Si, è con
Cameron.” rispose lei a Foreman, che la guardava ammutolito.
Poi lo
sguardo gli cade su Chase, e un’espressione disgustata gli si dipinse sul volto.
“Vai a vestirti per favore.”
L’intensivista si rese conto che
Cameron aveva approfittato di quei due minuti per vestirsi, sciacquarsi la
faccia,e legarsi i capelli: solo il colore della pelle lievemente rossastro
tradiva ciò che stava facendo fino a pochi minuti prima.
Lui era
praticamente nudo, con solo un asciugamano un po’ troppo piccolo intorno alla
vita, che si teneva allacciato con una mano.
Si sentì
improvvisamente molto a disagio.
“Due minuti e
sono pronto.” disse quasi tra sé e sé, sparendo nella camera da letto.
Gli sguardi
degli altri due medici si incontrarono, non appena furono da soli.
“Io credo…che
siamo andati oltre l’abbraccio innocente.” disse lei titubante, ricordando
quando Foreman gli aveva visti dormire insieme, appena un paio di giorni
prima.
Il neurologo
annuì, accennando quello che voleva essere un sorriso comprensivo.
Non aveva
nient’altro da aggiungere.
22 ottobre 2006, h 0.15
pm
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di House
“Quindi
questo sarebbe solo un modo, terribilmente molesto nei miei confronti, per
fuggire dall’appuntamento con Cuddy?” Wilson, capelli arruffati, jeans e vecchia
felpa, lo guardava con espressione assonnata dalla poltrona dell’ufficio, sulla
quale era quasi sdraiato.
“No!
L’appuntamento stava andando benissimo…” rispose House, con lo sguardo perso
sulla lavagna dove c’erano ancora, scarabocchiati, i sintomi dei due
gemelli.
“Allora ti è
solo venuta un’indomabile voglia di abbandonare la donna per la quale sei
completamente cotto a casa tua, da sola, davanti a Rambo, per venire a buttare
giù dal letto il tuo migliore amico e trascinarlo in ospedale blaterando
qualcosa su una diagnosi a metà?”
“Questa frase
contiene due imprecisioni: uno, tu non sei il mio migliore amico; due, …” House
esitò quel tanto che bastava per permettere all’oncologo di contrattaccare.
“Ah! House
non può mentire! Quindi non può dire che non è innamorato di Cuddy!” Wilson
sembrava essersi improvvisamente animato, e dimenava con foga un dito nella sua
direzione “Il burbero dottore tutto d’un pezzo ha perso la testa per il suo
capo, per la donna contro cui combatte da anni! Le sue difese sono crollate
davanti al suo dolce sguard…”
“Wilson scopa
con le malate terminali.” affermò crudele House, zittendo brutalmente
l’amico.
“Sei un
bastardo.” dichiarò Wilson, incrociando le braccia al petto e lasciandosi ancora
andare contro lo schienale della poltrona. “Le hai dato da mangiare, almeno?”
chiese, cercando si ritornare sulla conversazione originale.
“Certo,
conosco il significato della parola cena.” rispose controvoglia il diagnosta,
continuando a rivolgere lo sguardo alla lavagna.
“Cosa?”
“Pizza,
bistecca e birra.”
“Ma Cuddy non
mangia carne…e non beve birra!” esclamò l’oncologo, sorpreso.
House per la
prima volta si voltò verso di lui. “E tu come fai a saperlo?”
“E’ mia
amica! Mi è capitato di mangiare con lei…” rispose tranquillo Wilson.
House lo
fissò per qualche istante serio, come se cercasse di leggergli qualcosa nella
testa.
“Sei geloso…”
proferì l’oncologo, con un sorrisino che innervosì House ancora di più.
La situazione
sarebbe potuta precipitare, ma fu salvata dall’ingresso di Foreman, Chase e
Cameron.
House aveva
intenzione di tormentarli un po’ per il ritardo, ma visto il loro arrivo nel
momento perfetto, decise di risparmiarli.
“Vedi Wilson?
Tu sembri uno zombie, mentre loro sono freschi e attivi! Stai invecchiando…”
House si rivolse verso i suoi colleghi “Ho interrotto una serata speciale? Non
che me ne importi qualcosa ma…”
“Ero a cena
con amici che non vedevo da dieci anni.” disse serio Foreman.
Non che gli
interessasse informare il suo capo della sua vita privata, ma sapeva che, dopo
la sua risposta, House si sarebbe aspettato qualcosa anche dagli altri due…e non
vedeva l’ora di godersi la scena.
“Io…Io
stavo…” balbettò Chase, preso alla sprovvista. Non era bravo ad improvvisare, e
d’istinto si voltò verso Cameron, che rimase a fissarlo con le labbra
serrate.
“Idiota!” lo
apostrofò House “Bastava che mi rifilassi una balla qualunque…”
Il diagnosta
si zittì improvvisamente, vedendo entrare a passo spedito Lisa Cuddy.
L’attenzione
di tutti fu in pochi istanti su di lei…il suo vestito “sobrio” sul posto di
lavoro era decisamente fuori luogo. Il problema non era tanto quello, visto che
il capo era lei, ma il fatto che tutti i presenti sembravano gradire un po’
troppo.
Cameron la
squadrò da capo a piedi, con lo sguardo analitico che solo una donna può avere
nei confronti di un vestito.
Si sentì un
po’ a disagio.
House non
migliorò certo le cose.
“Ti avevo
chiesto di aspettarmi a casa…”
Gli occhi dei
colleghi si spostarono rapidamente su House, e poi ancora su di lei, mentre
l’espressione sorpresa sui loro visi si trasformava in sconcerto, misto al
timore della sua possibile reazione.
Dal viso di
House trapelava la medesima espressione: appena era entrata gli era mancato il
fiato, come se la vedesse così bella per la prima volta, poi si era accorto di
come i colleghi la stavano guardando, e la cosa lo aveva infastidito parecchio.
Aveva reagito d’istinto marcando il suo territorio con quell’inopportuna
affermazione…ed era adesso meravigliato quanto tutti gli altri di essersi spinto
così oltre, di aver messo così a nudo sia se stesso che Lisa.
“Non ti
lascio scorrazzare in giro per l’ospedale in piena notte senza il mio
controllo.” disse lei poco convinta, sperando inutilmente che le parole di House
fossero sfuggite ai colleghi.
“Ultimamente
succedono cose strane alla gente che lavora in questo ospedale…” asserì Foreman,
pensando ad alta voce.
“Già!”
esclamò House a voce alta, facendo trasalire tutti quanti. “Ma cose ancora più
strane succedono ai nostri fratellini moribondi! Foreman, ci sono miglioramenti
nella loro condizione?”
“Quando me ne
sono andato qualche ora fa erano stabili, ma ci vuole tempo prima che la
plasmaferesi abbia effetto, e devono riprendersi dall’anestesia delle
operazioni.”
“E’ normale
che non si siano ancora ripresi dal coma.” intervenne Cameron.
“Già”
confermò Chase.
House fece
scorrere lo sguardo sui suoi tre assistenti. “Tralasciando il parere di Chase
che ha dato ragione a Cameron solo per garantirsi l’opportunità di poter finire
ciò che a causa mia è stato interrotto, siamo due contro due: io e Wilson
crediamo che questa diagnosi sia incompleta” affermò con decisione, ignorando la
fronte aggrottata dell’oncologo, decisamente di parere contrario “Foreman e
Cameron che ci voglia solo un po’ di tempo per vedere migliorare i gemelli.”
spostò lo sguardo su Cuddy.
Tutti si
voltarono verso di lei, aspettando il suo parere decisivo per avere una
maggioranza.
Lisa stava
per rispondere, quando House la interruppe “…ma visto che il diagnosta qui sono
io, me ne frego della democrazia e vi faccio rimanere qui lo stesso.”
Cuddy
richiuse la bocca, offesa dall’arroganza di House.
I loro
sguardi si incontrarono e lui si accorse che la stava facendo arrabbiare; non
voleva si arrabbiasse, voleva tornare a casa con lei il prima possibile.
Ma il suo
istinto di autodistruzione, caratteristica assente nella maggior parte degli
esseri viventi tranne che in lui, ebbe la meglio, impedendogli di rivolgerle un
qualunque gesto di scusa, d’intesa, di pace…Gli occhi del diagnosta rimasero
fissi in quelli di Lisa finché lei non fu costretta ad abbassarli.
“Bene! Visto
che siamo tutti d’accordo, mettiamoci al lavoro!”
“Io vado a
dare un’occhiata ai pazienti.” disse Foreman.
“Ti seguo.”
Chase seguì il collega fuori dall’ufficio.
“Io
ricontrollo i risultati dello screening genetico.” Cameron prese delle cartelle
e si posizionò alla scrivania.
House si
voltò verso di lei pronto a farle notare quanto inutile fosse quello che stava
facendo, ma si rese conto che neanche a lui veniva in mente un’idea alternativa
su cosa riprendere in esame.
“Io vado in
ufficio, visto che devo stare qui in piena notte tanto vale che mi porti avanti
con alcune pratiche.” disse Cuddy, che incominciava ad essere irritata da come
House aveva rovinato la serata a tutti, lei compresa, per qualcosa che
probabilmente non era altro che la sua solita ossessione “House, se alla fine si
scopre che questi ragazzi ormai stanno bene, scalo queste ore da quelle che i
tuoi assistenti dovranno fare in ambulatorio la prossima settimana, e sarai tu a
sostituirli.”
Si voltò e
lasciò la stanza, senza che il diagnosta avesse tempo di pensare ad una replica
sarcastica delle sue.
Wilson si
alzò, avvicinandosi all’amico che era tornato imperterrito a studiare i sintomi
sulla lavagna.
“L’hai fatta
arrabbiare. Ha ragione.” disse l’oncologo, abbassando la voce per non farsi
udire da Cameron.
“E’ solo
frustrata perché ho rovinato il nostro appuntamento. Questa assurdità delle ore
in ambulatorio è solo un modo di vendicarsi per essermene andato sul più
bello.”
Wilson scosse
la testa.
“House, sarà
sicuramente offesa, ma ti conosce, sicuramente si aspettava qualcosa di simile
da te. Le ore in laboratorio sono solo un modo per cercare di farti capire che
le tue azioni hanno delle conseguenze. Non c’è niente di diverso dagli altri
provvedimenti che prende nei tuoi confronti.”
House si
voltò verso l’amico, guardandolo con la fronte corrugata.
Wilson
continuò: “Anche se esci con lei, anche se fai sesso con lei, anche se prova
qualcosa per te…è comunque il tuo capo. Resta la stessa Lisa Cuddy di sempre;
stesso ruolo, stessa persona. Anche se mostra di adorarti non significa che
smetterà di fare il capo con te. E’ la sua natura…”
House lo
fissava ormai trattenendo quasi il respiro, e con un’espressione che faceva
trapelare uno sforzo di concentrazione notevole.
Chiuse gli
occhi, si voltò verso la lavagna, e appoggiò rumorosamente la fronte contro di
essa. “Idiota…” mormorò.
Cameron si
voltò verso i due medici. “Tutto bene?” chiese, perplessa.
“Sono un
idiota!” esclamò ancora il diagnosta, prendendo la distanza dalla lavagna.
“Anzi, siamo tutti degli idioti!”
Cameron e
Wilson lo guardavano sempre più confusi.
“Anzi, voi
siete degli idioti perché prendete tutto quello che esce dalla mia bocca come
oro colato!”
“Perdonami,
non ti seguo.” disse Wilson, diplomatico.
House scosse
la testa, sbuffando.
Si voltò poi
verso Cameron. “Chiama gli altri.” le ordinò.
Dopo pochi
minuti Chase e Foreman raggiunsero gli altri medici nell’ufficio di House.
“Quei ragazzi
sono malati mentali!” esclamò House, appena ebbe l’attenzione di tutti su di
sé.
“Questo lo
sappiamo…” rispose titubante Chase.
“Si,
l’abbiamo scoperto, ne abbiamo preso atto, e l’abbiamo messo da parte senza
dedicargli neanche un po’ d’attenzione.” continuò il diagnosta.
“Abbiamo
ipotizzato che il mutismo fosse dovuto alla psicosi, e poi abbiamo cercato una
spiegazione per gli altri sintomi.” osservò Foreman.
“E perché non
abbiamo cercato una spiegazione per la psicosi?” chiese House. “Perché abbiamo
tralasciato il sintomo più grosso, quello che colpisce ogni aspetto della loro
vita. Perché abbiamo tralasciato la loro natura, la loro natura psicotica?!”
House aveva quell’energia che lo invadeva solo quando vedeva la luce accecante
in fondo al tunnel, ed era sicuro che quella era l’uscita giusta.
Andò alla
lavagna e aggiunse psicosi alla lista dei sintomi.
“Cosa provoca
psicosi e cancro?” chiese poi ai suoi assistenti.
“La sindrome
di Kinter!” rispose Cameron “Una mutazione genetica che causa modificazioni
nella produzione di neurotrasmettitori a livello del sistema limbico, con
conseguenti problemi di personalità che possono sfociare in psicosi. Inoltre,
provoca dei gap nella riproduzione cellulare, causando frequentemente tumori. E’
rara, ma l’incidenza sembra essere concentrata nei gemelli monozigoti.”
“Una
caramella per Cameron!” esclamò House.
“E questa
diagnosi sarebbe più potente della precedente?” chiese scettico Wilson.
“Bhè…cosa
fanno gli psicotici per contenere i loro disturbi? Prendono psicofarmaci. E cosa
provoca una forte dose di neurolettici? Magari neurolettici comprati sottobanco
e assunti in dosi spropositate, magari insieme a qualche droga per combattere
gli effetti collaterali…insomma, se ti senti un po’ strano e ti dai al mix di
farmaci, cosa succede?”
“Problemi di
coagulazione, quindi ictus e infarti. Anche coma. Ma non avremmo dovuto trovare
qualche traccia di queste sostanze?” chiese Foreman, ancora poco convinto della
nuova idea del suo capo.
“Cameron?”
House interrogò ancora la dottoressa.
“Le mutazioni
derivate dalla sindrome di Kinter provocano anche il metabolismo anomalo di
molti principi attivi…è possibile che quando abbiamo fatto le analisi i farmaci
presi avessero assunto una forma non individuabile con i nostri test.”
“Quindi la
sindrome di Kinter spiega i tumori e la psicosi, che a sua volta spiega il
mutismo e l’abuso di farmaci che avrebbe portato a infarti, ictus e coma. Le
allucinazioni e la paranoia sono sintomi dello spettro psicotico e…le guarigioni
miracolose… Simon era sotto chemioterapia, e può esser semplicemente guarito
grazie a quella. Magari in un modo più rapido del normale ma…non sottovalutiamo
il potere degli agenti chimici sul corpo di un bambino. Per quanto riguarda
Mark…Wilson, qual è la percentuale di tumori maligni guariti spontaneamente
senza apparente spiegazione?”
“Circa il
2%.”
“E visto che
al Plaisboro non capitano miracoli da parecchio tempo, direi che il ragazzo può
benissimo essere inserito in questa percentuale.”
Seguirono
lunghi istanti di silenzio, in cui ognuno tastava mentalmente la nuova
ipotesi.
“Per me può
andare. Sembra più convincente del Chrystopea carnea. Anche più probabile visto
lo stretto vincolo di parentela tra i due.” affermò Cameron.
“Non che me
ne freghi qualcosa della vostra approvazione comunque…apprezzo l’appoggio.”
replicò arrogante House. “Non ho intenzione di aspettare che le rotelline dei
vostri cervelli raggiungano le mie. Iniziate il trattamento per la sindrome di
Kinter, sperando che non sia troppo tardi.”
“I farmaci
per la Kinter sono ancora in fase sperimentale…non esiste una cura sicura per
questo disturbo.” precisò Cameron.
“Lo so! Vado
ad estorcere alla Cuddy l’autorizzazione per l’uso della terapia sperimentale.
Voi intanto procuratevi i farmaci e incominciate a somministrarli ai pazienti.
Se quando convinco la Cuddy i ragazzi saranno morti, sarà stata una fatica
inutile.”
Detto questo,
lasciò trionfante il suo ufficio.
22 ottobre 2006, h 0.55
pm
Princenton Plaisboro Teaching Hospital –
Ufficio di Cuddy
Lisa aveva
fatto il possibile per concentrarsi su qualcosa di utile da fare, ma la guerra
che si stava combattendo dentro di lei catturava tutte le sue energie: dura
battaglia tra i suoi sentimenti e la ragione.
Il suo
orgoglio le inviava forti segnali di disagio per essere stata abbandonata in un
modo parecchio brusco sul più bello di un appuntamento ufficiale, dopo esser
stata messa al secondo posto dopo un paziente dalla diagnosi poco convincente;
al terzo posto se si considerava che i pazienti erano due.
D’altra
parte, il suo cuore e il suo stomaco le inviavano segnali di gioia ed
eccitazione profonda, per quello che era successo quella sera, prima della
brusca interruzione.
La sua
ragione cercava faticosamente di fare da mediatrice, cercando di sedare il suo
orgoglio con la spiegazione che…”House è House, ed è per questo che l’ho
assunto”, e di dare qualche motivo al suo cuore per trattenersi un po’,
razionalizzando il fatto che l’insicurezza che provava in quel momento nei
confronti del rapporto con House non sarebbe mai svanita.
Quindi era in
preda ad alternate ondate di rabbia e felicità, quando lui varcò la soglia del
suo ufficio, ovviamente senza bussare, ovviamente senza chiedere permesso.
“Mi serve
un’autorizzazione per utilizzare i farmaci sperimentali per la sindrome di
Kinter sui gemelli psicopatici.”
Ovviamente
senza un briciolo di diplomazia.
“Sarebbe
meglio prima che diventassero i due gemelli psicopatici morti.” insistette House, vedendo che
Cuddy lo guardava senza dire una parola.
A questo
punto lei avrebbe potuto mostrarsi contraria, lui si sarebbe innervosito e
avrebbe incominciato a riempirla di commenti sarcastici mischiati a valide
motivazioni mediche, e lei avrebbe ceduto.
Il loro
familiare e rassicurante gioco.
Stava
pensando che non aveva proprio voglia quella notte di fare ancora il solito
gioco, quando fu lui a interromperlo.
Si avvicinò
ancora di più alla scrivania, le posò il documento davanti, prese una penna e
gliela mise tra le dita della mano sinistra. “Lisa ti prego, firma questo modulo
e torniamocene a casa.”
Lo disse con
un tono che non aveva mai sentito uscire dalla sua bocca: una sincerità
disarmante.
Davvero
voleva chiudere questa storia, liberarsi di quell’episodio della sua ossessione
e andare a godersi insieme a lei la relativa tranquillità mentale che avrebbe
preceduto il prossimo paziente, il prossimo puzzle a cui dedicare tutto se
stesso.
Cuddy pensò
che poteva anche essere una recita molto ben fatta per convincerla a firmare, ma
firmò lo stesso, subito.
Se la
prendeva in giro per una volta ci sarebbe cascata senza combattere, per una
volta avrebbe corso il terribile rischio di abbassare la guardia nel momento
sbagliato.
Ci avrebbe
sbattuto la testa, e forse avrebbe imparato.
Non avvenne
niente di tutto questo.
Lisa firmò il
foglio e rimise la penna a posto.
Alzò la
cornetta e chiamò Cameron, informandola che avevano l’autorizzazione per
procedere con la terapia.
Posò la
cornetta e alzò lo sguardo su House.
“Sindrome di
Kinter?” come medico, la curiosità era troppo grossa, e non riuscì a rimandare
quella domanda ad un altro momento.
“E’ la loro
natura…la Kinter determina la loro natura. Non abbiamo pensato alla natura dei
due ragazzi.”
Lisa non capì
esattamente cosa intendeva, ma la sicurezza con cui parlava la convinse in pochi
istanti che era la cosa più ovvia del mondo. Bisogna sempre tener conto della
natura di una persona.
“Tu sei il
mio capo, e resterai il mio capo, nonostante tutto.” House con le sue parole
seguì il corso dei pensieri della donna “E io sono misantropo e ossessionato dal
mio lavoro, e rimarrò tale.”
“Se cambiassi
ti licenzierei.” osservò lei, con un sorriso appena accennato.
“Già…”
Rimasero a
fissarsi ancora qualche secondo in silenzio.
“Io penso di
poter sopportare per un po’ la tua natura, se evitiamo di indagare su cosa
significhi sopportare la tua natura nel mio linguaggio.” disse
House, facendo scivolare la mano sulla scrivania, fino a raggiungere le sue
dita, alle quali si appoggiò appena.
“Io penso…”
Lisa si interruppe, non riuscendo a trovare qualcosa di coerente da dire. “…io
non penso niente.”
Anche House
sorrise ora, pienamente soddisfatto di una risposta che, a chiunque altro, non
avrebbe detto assolutamente nulla di buono.
Ma a loro,
che si amavano ma ogni tanto si odiavano, che conoscevano cento pregi e cento
difetti l’uno dell’altro, e che, soprattutto, potevano dare l’uno all’altro
felicità o dolore, piacere o frustrazione, senza un minimo di prevedibilità,
quelle parole racchiudevano il fulcro del loro rapporto: era inutile pensare,
tra di loro aveva la meglio sempre il cuore, o l’istinto, o l’anima…tutto tranne
la loro venerata razionalità.
“Ora possiamo
tornare da te?”
House non
rispose, ma andò a prenderle il cappotto, aspettò che la raggiungesse e glielo
posò dolcemente sulle spalle, stringendola un po’ prima di lasciarla andare.
Non era un
“ti amo”, ma quello era House.
Ripensandoci,
poteva anche essere un “ti amo”.
EPILOGO
Nessuno
definiva la loro una storia.
I primi a non
farlo erano loro.
In realtà, la
loro non fu mai una storia.
Ma un amore,
quello si.
Lisa non
portò mai lo spazzolino da House…ma lui ne aveva comprato uno in più, anche se
continuava ad arrabbiarsi con lei quando usava “il suo spazzolino di
scorta”.
House non si
stupì quando, in giro per l’appartamento di Cuddy, incominciò a trovare riviste
di nefrologia e saggi medici, e neanche quando trovò il piano che giaceva in un
angolo del suo salotto perfettamente accordato.
Non parlarono
mai di quanto tempo era passato dalla loro prima cena insieme, ma il 21 ottobre
del 2008, House si presentò a casa di Lisa, senza preavviso, e lei gli fece
trovare nel piatto mezza pizza e mezzo hamburger, e una bottiglia di birra.
Per
completare il loro “anniversario” in bellezza, fuggì in ospedale con una scusa
nel momento in cui i loro baci si stavano facendo più voraci, e le loro carezze
più spinte.
House la
raggiunse in ospedale e, dopo una discussione su cosa fosse più importante tra
la diagnosi dell’anno prima e le scartoffie notturne di Cuddy, crollarono
stremati sul divano nell’ufficio di Lisa, finendo lì quello che avevano iniziato
poche ore prima, e restandoci fino alla mattina dopo.
A volte si
chiedevano, ognuno a se stesso, se sarebbero andati avanti così a lungo.
La cosa
strana è che la riposta positiva che si davano, li rendeva pazzamente
felici.
FINE
Ecco il finale.
Spero non vi abbia deluso.
Ringrazio di cuore Earine, Miky91, Siyah, Zoe
MonBlanck, madda, sara, the bride, Jo_Ch_90, Rabb-it, marghe999, gioalle1,
remsaverem, logan, gengy, apple per i commenti, e per aver seguito
questa storia!
A presto!!!!
Vally
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