Fumi-Postumi

di _vally_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - La mia velocità ***
Capitolo 2: *** 2 - Il mio inizio difficile ***
Capitolo 3: *** 3- Il mio cuore, il mio respiro ***
Capitolo 4: *** 4 - Il mio saggio amico ***
Capitolo 5: *** 5 – Il mio secondo tentativo ***
Capitolo 6: *** 6 - Le mie idee masochiste ***
Capitolo 7: *** 7 - I miei occhi, le mie mani ***
Capitolo 8: *** 8 - La mia lunga notte ***
Capitolo 9: *** 9 - I miei gemelli ***
Capitolo 10: *** 10 - Il mio cuore, la mia mente, la mia anima ***
Capitolo 11: *** 11 - La mia porta chiusa ***
Capitolo 12: *** 12 - La mia fine che non c'è ***
Capitolo 13: *** 13 - La mia fine ***



Capitolo 1
*** 1 - La mia velocità ***


Eccomi ritornata, con un'altra storia huddy, o meglio, con la continuazione di una mia precedente fanfic: "Fumi".

La terza serie di House MD è finita, dovremo resistere fino a settembre. Non ci resta che scrivere storie!

Vorrei dedicare questa fanfic a Giò (socia Huddy!), Mara (lo so, lo so che non apprezzi le ship...ma mi serve qualcuno di fortemente critico che mi costringa a mettermi continuamente in gioco) e Rem (omaggio al comitato!), in onore del nostro incontro di diverse settimane fa.

Ci sono un paio di altre persone che voglio ringraziare di cuore: Apple e Diomache, che con le loro splendide storie mi tengono compagnia, alla faccia delle guerre tra ship che vedo in giro! Ho qualcosa in mente anche per voi, Cotton care, datemi solo un po' di tempo.

Per i titoli dei capitoli, ho usato lo stile dei titoli degli episodi di Scrubs, serie tv adorata, che mi fa ridere sempre e comunque, combattendo la mia metereopatia e gli sbalzi d'umore!

Attendo con ansia le vostre recensioni. Preziosissime!

Buona lettura!

Vally

 

Ps: il primo capitolo è solo una breve introduzione, a breve con l'aggiornamento!

 

 

1-La mia velocità

James Wilson, phon alla mano, tentò di sistemare una ciocca di capelli che non voleva sapere di rimanere in ordine.

Erano già le 8 passate, ma si era alzato da poco: doveva aspettare che House lo passasse a prendere, il che significava non muoversi di casa prima delle 9. Odiava arrivare in ritardo, ma aveva ancora i postumi della sbornia della sera precedente, e quell’ora di sonno in più gli era stata indispensabile.

Sbuffando, fece l’ultimo tentativo con la ciocca ribelle, ma quella mattina i suoi capelli non volevano proprio collaborare.

Decise di rinunciare ai capelli, e si diresse in camera da letto: avrebbe scelto un abbigliamento particolarmente accurato, così da compensare il disordine dei capelli.

Stava ragionando sull’abbinamento cravatta-camicia più appropriato, quando sentì l’inconfondibile suono del clacson della sua macchina.

“Impossibile!” pensò, guardando l’orologio. Erano anni che conosceva House e non l’aveva mai visto sveglio prima delle 9.

Si affacciò dalla finestra: si, era la sua macchina.

Il clacson suonò ancora, insistentemente.

Wilson afferrò al volo la prima cravatta che gli capitò tra le mani, se la mise malamente attorno al collo e si affrettò verso la porta. Fece giusto in tempo a buttare un’ultima occhiata alla sua figura nello specchio d’ingresso, poi si chiuse la porta alle spalle.

Raggiunse con passo svelto la sua auto, e salì al posto del passeggero.

“Dovevi scegliere proprio oggi per arrivare puntuale al lavoro? Mi sono svegliato dieci minuti fa, ho i postumi di una sbornia e questi capelli…” disse tutto in un fiato, aprendo lo specchietto davanti a sé e osservando con disapprovazione la sua faccia riflessa.

Si bloccò di colpo però, perché con la coda dell’occhio notò che al posto di guida non c’era House.

Si voltò verso il suo capo, guardandola strabiliato. “Ma tu…”

“Hai la cravatta slacciata” osservo Lisa Cuddy, ingranando la prima e imboccando la strada per il PPTH.

Wilson si guardò confuso la cravatta, e se la sistemò con gesti veloci. “Ma tu…” ritentò poi, tornando a posare lo sguardo sulla donna che guidava accanto a lui.

Non disse nient’altro, rimase a fissarla a bocca aperta.

Dopo qualche istante, si rese conto che avevano superato di parecchio il limite di velocità.

“Cuddy rallenta!” esclamò.

“Sono in ritardo, ho una riunione del consiglio tra dieci minuti.” rispose lei impassibile, senza rallentare.

Wilson si lasciò andare ad un sospiro, appoggiandosi allo schienale e chiudendo gli occhi.

“Dov’è House?” chiese, continuando a tenere gli occhi chiusi, mentre il cerchio alla testa incominciava a diventare un dolore pulsante.

“Viene in moto.” rispose impassibile Lisa, buttando uno sguardo fugace all’oncologo, prima di tornare a concentrarsi sulla strada.

Rimasero due lunghissimi minuti in silenzio.

Lisa era imbarazzata. Pensava che non lo sarebbe stata, non con Wilson.

Ma ora si vergognava profondamente per quello che sicuramente stava passando per la testa del collega, per quello che lui poteva pensare di lei.

Perché non aveva chiamato un taxi quella mattina?

Stava praticamente sbandierando ai quattro venti la sua notte con House.

Non era da lei.

Wilson, d’altra parte, era stupito dall’indifferenza del suo capo.

Aveva capito che quella notte lei era con House, l’aveva letto chiaramente tra le parole dell’amico, nella breve telefonata che c’era stata tra di loro.

Si sarebbe però aspettato che la riservatissima Lisa Cuddy avesse tentato di nasconderlo in ogni modo.

A meno che…

“Ne vuoi parlare?” chiese tutto d’un fiato l’oncologo, rompendo il pesante silenzio.

“Cosa?” chiese lei, sperando che non si riferisse a quello che pensava.

Wilson fece un bel sospiro, e si voltò completamente verso la donna. “Del fatto che sei venuta a prendermi con la mia macchina, che aveva House. Del fatto che hai passato la notte a casa sua.”

Un semaforo rosso la costrinse a fermarsi. Sentiva lo sguardo del collega posato su di lei.

Si voltò per guardarlo negli occhi. “No.” disse, stupendo se stessa per la tranquillità che la sua voce emanava, mentre il cuore le batteva un po’ troppo veloce.

“Ok.”

“Ok.”

L’imbarazzo fu sostituito da una strana inquietudine, e ad un certo punto Lisa non riuscì più a sopportare quel silenzio. Lo sentiva come accusatorio.

“Non sono stata a letto con lui.” disse decisa.

“…” Wilson rimase disorientato da quell’affermazione.

Sapevano entrambi che era una bugia.

“Hai capito?” insisté lei.

“Si, ma…”

“Ma cosa?!” il tono di voce troppo acuto tradì la sua agitazione.

“Niente…ok. Va bene.” Quella conversazione non piaceva all’oncologo. E Lisa Cuddy stava guidando decisamente troppo veloce. “Forse dovresti rall…”

“Va bene cosa? Mi stai assecondando?!”

“Lisa rallenta santo cielo!”

Non lo aveva mai sentito alzare la voce così.

Rallentò di colpo, accostandosi a lato della strada, fino a fermarsi.

Le mani ferme sul volante, lo sguardo fisso davanti a sé: rimase qualche istante immobile, cercando di calmarsi.

Wilson la guardava sconvolto.

“Guido io.” disse ad un tratto, scendendo dall’auto.

Senza dire una parola, scese anche Lisa e prese il posto dell’oncologo.

Rimasero in silenzio finché non arrivarono al parcheggio del Plaisboro.

Prima di scendere Wilson aprì lo sportello del cruscotto, e tirò fuori delle pillole.

Ne passò una alla collega: “Aspirina. Ci farà bene.” le disse, accennando un sorriso.

“Grazie.” rispose lei, prendendo la pillola.

Poi scese dall’auto, e si diresse rapida verso l’ingresso dell’ospedale.

Con passo deciso e testa alta.

Come sempre.

Solo un leggero rossore sulle sue guance, tradiva l’agitazione che aveva dentro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** 2 - Il mio inizio difficile ***


Grazie davvero a chi ha recensito il primo capitolo!

Wilson spettinato è piaciuto anche a me...devo ammettere che ho la fissa con l'aspetto delle persone appena sveglie...qui nel 2° cap ne avrete un altro assaggio!

Buona lettura, e a presto!!!

 

2- IL MIO INIZIO DIFFICILE

 

19 ottobre 2006, h 08.30 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Ufficio di House

 

Chase era in ritardo.

Erano rimasti d’accordo di trovarsi prima delle 8 quella mattina: avevano un articolo da  preparare, tutti e tre insieme, e le uniche ore di calma erano quelle di prima mattina, quando House non c’era ancora.

Era stata dura per Cameron convincere Foreman a fare qualcosa di importante tutti insieme, e ora sentiva il peso del ritardo del collega tutto su di sé.

Gli sguardi accusatori che il neurologo le lanciava ogni due minuti non facilitavano certo le cose.

Prese il cellulare e fece partire la stessa chiamata che stava facendo ormai da più di mezz’ora.

Niente, Chase non rispondeva al telefono.

“Non vorrei che fosse successo qualcosa…” disse titubante.

Chase considerava quell’articolo come un’opportunità importante, non era da lui ritardare così senza neanche avvisare.

Come risposta, ricevette solo un sorrisetto sarcastico da parte di Foreman che, scuotendo la testa, finì in un sorso il suo terzo caffè della mattina.

Come se non fosse già abbastanza nervoso di suo…

“Devo ricordarmi di sostituire la miscela con quella decaffeinata.” pensò Cameron, mentre osservava speranzosa la porta di vetro, pregando che il collega comparisse il prima possibile.

“Starà dormendo.” disse ad un tratto il neurologo, alzandosi e dirigendosi per l’ennesima volta verso la macchinetta del caffè.

“Ancora caffè?!” chiese la dottoressa, posando su di lui uno sguardo accusatorio.

“Si. Mi sono svegliato un’ora prima del solito per esser qui all’orario che abbiamo concordato. Ho puntato la sveglia prima, come hai fatto tu. Non è difficile, possono farlo tutti. Se vogliono.”

“Simpatico…” pensò ironica Allison, mentre sorrideva imbarazzata al collega.

Guardò l’orologio: 8.45.

Incominciava davvero ad essere preoccupata per Chase…non era da lui… Sapeva che lei ci teneva a quest’articolo, e…non l’avrebbe mai delusa di proposito.

Si alzò, afferrando la giacca e indossandola rapidamente. “Vado a casa sua.” disse,  dirigendosi alla porta “Tanto House non sarà qui prima delle 9.30.”

“Ma dai, Cameron! Starà dormendo, cosa vuoi che sia successo?” Foreman usò quel tono che lei odiava: accondiscendente. Le parlava come se stesse cercando di far ragionare una ragazzina adolescente.

“Magari alla miscela decaffeinata ci aggiungo anche un po’ Guttalax” pensò, mentre rivolgeva al neurologo un sorriso insicuro.

“Preferisco controllare. Ok?” si limitò a dire.

“Come vuoi.”

Mentre Cameron varcava per la seconda volta in un’ora la porta del PPTH, House, a qualche chilometro di distanza, raccoglieva dal pavimento della sua camera da letto una maglia sgualcita.

E sorrideva.

 

19 ottobre 2006, h 08.45 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Sala conferenze

 

Lisa Cuddy entrò trafelata nella grossa stanza, e si bloccò improvvisamente, sentendo tutti quegli occhi puntati su di lei.

Troppi occhi.

In effetti, non le era mai capitato di arrivare in ritardo ad un incontro così importante. Se c’era un ritardo lei era sempre dall’altra parte, lei era quella che ammoniva con lo sguardo.

Fece ammenda di essere più indulgente con i poveri ritardatari da oggi in poi.

Fece un respiro profondo, tentò un sorriso e, pregando che nessuno si accorgesse delle profonde occhiaie nascoste dal correttore, si buttò nella fossa dei leoni.

“Buongiorno, scusate il ritardo.”

Sorridente.

Amabile.

“Nessun problema dottoressa, a lei un ritardo di un quarto d’ora lo perdoniamo volentieri.”

Grazie al cielo era nata donna…

 

19 ottobre 2006, h 08.55 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital -Ufficio di House

 

Foreman, ormai solo e innervosito dal risveglio di quella mattina, stava sfogliando pigramente un giornaletto di enigmistica, abbandonato la sera prima da Chase.

Sentendo dei passi, alzò lo sguardo speranzoso.

“Hai qualcosa per me?” chiese a Wilson, appena varcò la soglia.

“Buongiorno anche a te.” rispose sarcastico l’oncologo, guardandosi in giro. “Non c’è nessuno?”

Foreman allargò le braccia al vuoto attorno a sé. “Ci sono io, e sono qui dalle 7.30 a bere caffè. Hai qualcosa per me?”

Wilson appoggiò distrattamente una cartella sulla scrivania. “Si, ho bisogno di tutti voi. House?”

Il neurologo, di risposta, indicò l’orologio.

L’oncologo annuì. “Chase? Cameron?”

“Chase non si è fatto sentire stamattina, e Cameron è andata a controllare che sia ancora vivo.”

Un’espressione perplessa si dipinse sul volto di Wilson, che decise però di lasciar perdere. “Ok, allora puoi leggere intanto la cartella. Mark Shone, 22 anni. E’ un mio paziente ma…dai un’occhiata!”

Foreman afferrò la cartella del paziente e, dimenticando finalmente il suo caffè, incominciò a leggerla.

“Fammi chiamare da House appena arriva.”

“…”

“Foreman!”

“Cosa?”

“House. Quando arriva House ho bisogno di parlarci. Sono in ambulatorio.”

“Si, certo.”

Wilson rimase a guardare qualche secondo il neurologo, pensieroso.

“Potrei rasarmi a zero come lui…”

Scacciò subito quella stupida idea, e lasciò la stanza.

 

19 ottobre 2006, h 9.00 am

Appartamento di Robert Chase

 

Era la terza volta che Allison schiacciava il campanello di casa del collega, e incominciava seriamente a preoccuparsi.

Stava già pensando di suonare a qualche vicino per chiedere notizie, quando finalmente la porta si aprì.

Chase, a petto nudo e con la faccia stravolta, la guardava incredulo. “Cameron…che ci fai qui a quest’ora?”

“Sono le 9.” rispose lei titubante “L’articolo…”

“L’articolo…” ripeté il collega, passandosi una mano sul viso assonnato. “Scusa…è che…Non è suonata la sveglia. Foreman mi ucciderà.”

“Probabile.” L’immunologa accennò un sorriso imbarazzato.

Aveva ragione Foreman, colpa della sveglia.

Si sentiva terribilmente stupida per essersi preoccupata in quel modo.

“Mi preparo subito.” farfugliò Chase, continuando a passarsi una mano sugli occhi.

La testa lo stava uccidendo.

Spalancò del tutto la porta, facendo gesto di entrare alla collega.

Lei esitò qualche secondo, e poi entrò: era la prima volta che vedeva l’appartamento di Chase, e si stupì di trovarlo così in ordine, ben arredato e…quadri, quadri ovunque!

“Che bella casa.” disse la dottoressa, guardandosi attorno.

“Rob è un’esteta!”

Cameron si voltò nella direzione della voce che aveva parlato: un ragazzo sulla trentina, con indosso solo un paio di boxer, la guardava sorridente appoggiato allo stipite di una porta.

Si diresse deciso verso di lei, porgendole la mano: “Sono William, piacere!”

“Allison.” rispose lei, disorientata.

Temeva di trovare qualcuno a casa del collega, ma non certo un ragazzo che si aggirava mezzo nudo e con l’aria di chi ha passato lì la notte.

“Si, immaginavo. Robert mi ha parlato di te.” continuò William, sfoggiando uno dei suoi migliori sorrisi.

“Ok Will, ora torna pure a dormire, io devo andare a lavorare.” si intromise Chase, prendendo per un braccio la collega e attirando così la sua attenzione. “Beviamo un caffè e poi mi preparo, va bene?”

“Certo.”

Si sedettero in cucina.

Chase incominciò a trafficare con tazze e pentolini, passandosi spesso una mano sul viso.

“Non ti senti bene?” chiese la collega, notando le occhiaie e la faccia distrutta del collega.

“No.” ammise lui, sedendosi di fronte a lei e passandole una tazza di caffè fumante. “Ieri sera mi sono ubriacato, mi ha portato a casa William praticamente in braccio, e a ditti la verità, la sveglia non l’ho neanche puntata.”

Disse tutto in un fiato, sicuro che la collega l’avrebbe coperto.

Si fidava di lei.

“Immaginavo qualcosa di simile...” rispose lei sorridendo “Ma facciamo in modo che Foreman non lo sappia, o mi rinfaccerà a vita di essere troppo apprensiva.”

“Ok, mi hai trovato svenuto sul pavimento!”

Risero insieme, complici.

William entrò in cucina, si versò un bicchiere d’acqua ed uscì, senza dire una parola.

Cameron guardò il collega, aspettandosi una spiegazione.

“Cosa c’è?” chiese Chase “Perché mi guardi così?”

“E’ per…” era imbarazzata “Lui…William.”

“Cosa?”

Cameron non rispose, limitandosi a guardarlo esitante.

Chase assunse un’espressione incredula. “Credi che io sia gay?” disse ridendo.

“No, non volevo dire questo!” mentì Cameron.

In effetti l’idea le era passata per la testa.

“Il fatto che una donna con cui sei stato a letto creda che tu sia gay, mi lascia molto da pensare.” esclamò William, spuntato da chissà dove.

Ridendo, sparì un’altra volta dalla stanza.

L’intensivista posò uno sguardo rassegnato sulla collega. “Grazie tante, mi tormenterà per mesi.”

“Ma io… E’ solo che non mi aspettavo di trovare un uomo a casa tua. Poi così…svestito!”

Chase si prese la testa tra le mani. “E’ un mio carissimo amico.” mugugnò sconsolato.

“Ehi carissimo amico! Ora che te ne vai posso buttarmi sul tuo letto? Quel divano mi ha ucciso stanotte.”

“Fai pure.” rispose Chase alzandosi. “Divano.” Continuò poi rivolto alla collega. “Ha dormito sul divano.”

Cameron annuì, pentita per le allusioni fatte.

“Prendo un’aspirina, mi vesto e andiamo. Prima che arrivi anche House.”

Chase uscì dalla cucina, lasciandola pensierosa, seduta al tavolo con la tazza di caffè ormai vuota ancora stretta tra le mani.

“Che bella casa” pensò.

Senza che ne capisse il motivo, le venne una gran voglia di abbracciarlo.

 

19 ottobre 2006, h 09.45 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital -Ufficio di House

 

House entrò in ufficio con passo spedito.

“Buongiorno!” esclamò.

Foreman alzò uno sguardo perplesso dalla cartella che stava leggendo. “Sei…allegro?!”

“Dove sono tutti?”

“Ti sei fatto la barba?!”

“Cameron e Chase?”

“Hai la camicia perfettamente stirata…”

Prima che potessero aggiungere altro, Chase e Cameron varcarono la soglia dell’ufficio.

“Ti sei fatto la barba!” Cameron era piacevolmente stupita.

“Troppo tardi, la gara delle ovvietà l’ha vinta Foreman qualche secondo fa.”

“Stai bene così.” disse Chase, ignorando il sarcasmo del suo capo.

House, di risposta, gli rivolse uno sguardo truce. “Anche tu stai bene. Le occhiaie ti donano. Dovresti ubriacarti fino a vomitare l’anima un po’ più spesso.”

Chase incassò la battuta in silenzio: stava riflettendo.

Aveva ricordi confusi della sera precedente: Cuddy ubriaca quanto lui, quel bagno.

House che li scopriva e li ricopriva di battute sarcastiche.

Il fratello della Cuddy, e poi la sua fuga.

Un’idea incominciò a farsi largo nella sua testa…

Sorrise al suo capo. “Alla fine è stata una bella serata, no?”

Cameron e Foreman, all’oscuro del loro incontro della sera precedente, li guardavano disorientati.

House si limitò a fissare per qualche istante il suo assistente, e poi strappò malamente la cartella di mano al neurologo. “Che abbiamo qui?”

“Maschio, 22 anni. Cancro ai polmoni, metastasi a fegato e pancreas.”

“Merce per Wilson.” tagliò corto House, richiudendo subito la cartella e gettandola sul tavolo più vicino.

“Non più.” lo corresse Foreman, attirando l’attenzione degli altri tre medici.

House riprese la cartella e incominciò a sfogliarla con cura.

“Due settimane fa il ragazzo viene in ospedale per farsi dare le sue medicine. Dice a Wilson di sentirsi molto meglio, e lui gli fa fare un controllo.”

Ormai gli occhi di tutti erano fissi sul neurologo.

“Non c’era più niente.” concluse questi. “Polmoni puliti, idem per fegato e pancreas.”

“Non è possibile.” Cameron si avvicinò alle spalle di House cercando di leggere la cartella.

Il diagnosta se la attaccò gelosamente al petto, voltandosi e guardandola torvo.

“Tu stai lontana da questo ragazzo.”

“Perché?”

“Perché scopriremo che ha ancora il cancro, e tu te lo vorrai sposare!”

Cameron alzò gli occhi al soffitto, e si scostò dal suo capo, appoggiandosi alla scrivania e incrociando le braccia, offesa.

“Ok, aveva un cancro ed è sparito… Sta bene. Perché abbiamo noi la sua cartella?” chiese Chase.

“Perché stava bene. Fino a due giorni fa, quando l’hanno ricoverato d’urgenza. E’ venuto al pronto soccorso per dispnea; gli hanno fatto un controllo aspettandosi di ritrovare il tumore, ma niente. Stavano per rimandarlo a casa, quando ha avuto un infarto. Dagli esami risulta che il cuore è sano.” spiegò Foreman.

“E’ cancro!” ripeté House. “Dev’esserci stato un errore negli esami. Trovatelo.”

“Ma se sei convinto che sia cancro, perché non rimandi la cartella a Wilson?” chiese Cameron.

“Perché tu e Chase siete arrivati in ritardo, e Foreman …ha una cravatta che non mi piace!”

I suoi assistenti lo guardavano con aria interrogativa.

“Vi voglio fuori di qui, fate tutti gli esami che potete al paziente di Wilson, rivoltatelo come un calzino e trovate quel tumore. Se finite presto…ho qualche ora arretrata di ambulatorio che potete fare al posto mio. Non voglio vedervi per tutto il giorno.”

I tre assistenti rimasero qualche istante immobili, stupiti dal cambiamento d’umore improvviso del loro capo.

“Meno male che era allegro…” pensò Foreman, mentre recuperava la cartella e precedeva i colleghi fuori dalla sala.

“Ma che gli è successo?” chiese Cameron ai colleghi, una volta arrivati agli ascensori.

“E’ colpa vostra.” affermò Foreman sicuro. “E’ entrato che sembrava quasi…felice. Poi Chase ha aperto bocca ed House è tornato il bastardo di sempre. A proposito…di che serata stavi parlando prima?” chiese poi rivolto all’intensivista.

“Niente, ci siamo incontrati per caso.” i due colleghi lo guardavano sulle spine. “Tutto qui!” concluse.

Non aveva nessuna intenzione di parlare con Foreman degli incontri della notte precedente.

A Cameron magari l’avrebbe detto, ma non adesso.

Ora voleva trovare quel tumore il prima possibile, e tornare a casa a dormire; la testa aveva ricominciato a pulsare in modo insopportabile.

 

House si sedette dietro la sua scrivania.

Rimase per qualche minuto con lo sguardo perso nel vuoto, cercando di riflettere.

Stava bene, fino a qualche minuto prima.

Gli era bastato quel riferimento di Chase alla serata precedente per fargli precipitare l’umore.

“Guastafeste di un australiano!”

Non ci aveva ancora pensato quella mattina.

Non aveva pensato al fatto che Chase aveva lasciato Cuddy, ubriaca, con lui; che poteva sospettare qualcosa. Anche il fatto che quella mattina Cuddy era andata a prendere Wilson, confermando i suoi sospetti sollevati dalla telefonata di quella notte, era una cosa a cui non aveva pensato.

Tutto questo lo innervosiva.

Quello che era accaduto quella notte era suo e basta.

Magari anche un po’ di Cuddy.

Ma di nessun altro.

Era dei momenti suoi, privati, di cui era geloso.

Nessuno ne doveva parlare, nessuno ci doveva nemmeno pensare.

Lo squillo del telefono lo fese sobbalzare.

Sollevò la cornetta e l’avvicinò all’orecchio, senza dire niente.

“House?”

La voce famigliare del suo migliore amico gli arrivò confusa al mormorio della sala d’aspetto dell’ambulatorio.

“Mhm…”

“Stai bene?”

“Stavo meglio prima di sentire la tua voce.”

Wilson sospirò, capendo all’istante il tono dell’umore dell’amico. “Foreman ti ha detto che ti devo parlare?”

“No.”

“Come immaginavo…Puoi raggiungermi in ambulatorio?”

“No.”

“Ok... Salgo io. Dammi 10 minuti.”

“No.”

“House…Mi è venuta a prendere Cuddy stamattina, con la mia macchina.”

La forte sensazione che stessero intaccando qualcosa di SUO lo colpì ancora più forte. Senza replicare nulla, riattaccò.

 

19 ottobre 2006, h 11.15 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Sala conferenze

 

Quella dannata riunione era finita.

Finalmente.

Cuddy aspettò che fossero usciti tutti prima di lasciare anche lei la sala, chiudendola a chiave.

Camminò svelta verso il suo ufficio, ignorando il richiamo di un’infermiera. Qualunque cosa doveva firmare, avrebbe aspettato.

Si chiuse la porta alle spalle, chiuse le tendine e, toltasi le scarpe, si lasciò cadere sul suo divano.

Quella riunione era stata terribile. Non per quello che avevano analizzato, valutato, approvato o respinto. Quello neanche se lo ricordava.

Era stata terribile perché l’aveva costretta a ragionare, a pensare razionalmente, a concentrarsi su tutte quelle parole senza senso.

Lei aveva solo una cosa in testa, ed erano delle immagini: il divano di House, la maglia di House, il letto di House.

In quel momento quello era tutto ciò che aveva senso per lei.

Erano immagini violente, invadenti, che le risvegliavano le sensazioni di quella notte.

Aveva provato a cacciarle, ci provava dall’istante in cui si era chiusa alle spalle la porta di casa di House.

Niente; tornavano e tornavano, stordendola.

Non poteva essere così sconvolta per una notte di sesso, non lei.

Non ci sarebbero stati problemi…i rapporti tra lei e House sarebbero presti tornati come prima, magari ci avrebbero anche riso sopra, assieme.

Erano due adulti.

No, non era quello il problema.

Il problema erano le immagini, le sensazioni.

Ancora quel divano, ancora quel letto, nella sua testa.

Ancora, ancora e ancora.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** 3- Il mio cuore, il mio respiro ***


3- IL MIO CUORE, IL MIO RESPIRO

 

19 ottobre 2006, h 1.30 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Ufficio di Cuddy

 

Lisa si svegliò di soprassalto, e ci mise un po’ a capire che il rumore sordo che stava sentendo,  proveniva dalla porta del suo ufficio: stavano bussando insistentemente.

Si alzò dal divano, cercando di capire quanto tempo poteva essere passato da quando si era sdraiata un po’ per riflettere. Non molto, a giudicare dalla posizione del sole.

“Arrivo.” mugugnò tra sé e sé, mentre i colpi alla porta sembravano sempre più dure martellate sulla sua testa.

Aveva bisogno di un’altra aspirina…

Aprì la porta seccata, e quando si ritrovò davanti Robert Chase, che sfoggiava delle occhiaie che facevano a gara con le sue, le ritornò in mente, con una velocità destabilizzante, tutto ciò che aveva preceduto la notte con House.

“Merda…” pensò la donna, mentre bloccava l’impulso di sbattere la porta in faccia all’intensivista e tornare a dormire sul divano.

Anche Chase doveva essere parecchio imbarazzato nel vederla, ma fu il primo a reagire in modo consono alla situazione.

“Cuddy, scusa se ti disturbiamo, ma abbiamo un problema.”

“Abbiamo?” Lisa si accorse così che, dietro a Chase, c’erano anche i suoi due colleghi, che la guardavano parecchio perplessi.

Sperò che lui avesse mantenuto la promessa fatta: “Noi qui non ci siamo mai incontrati…”.

Se no lo avrebbe ucciso.

O licenziato.

Meglio licenziato, decisamente più coerente con la sua posizione lavorativa.

“Che succede?” tentò di scandire bene le parole per coprire il sonno di pochi minuti prima, ma come risultato la sua voce risultò squillante e allarmata.

“Niente di grave…” rispose Foreman, confuso dall’eccessiva reazione della donna. “E’ che non troviamo House, e abbiamo una comunicazione importante da fargli.”

“Pensavamo fosse qui da te.” concluse Chase, con un’espressione che a Lisa non piacque affatto.

Qualcosa tipo: insinuazione…

“No, non c’è!” rispose lei prontamente, allargando le braccia in segno d’impotenza. “Avete provato a chiamare Wilson?”

“Si, è a pranzo con il dr. Willmore, ha detto che l’ha cercato anche lui diverse volte, senza successo. E’ stato lui a consigliarci di provare qui da te.”

“Bastardo…” pensò Lisa, sfoggiando un sorriso di circostanza.

“Mi dispiace.” concluse poi. “Ora ho da fare, ciao.”

Senza tante cerimonie, chiuse la porta in faccia ai tre medici.

 

Anche per Chase, vedere Cuddy, era stato un po’ destabilizzante. Gli erano tornati in mente i particolari del precedente incontro, ed aveva fatto fatica a non scoppiare a ridere. Quando poi aveva visto il suo rossore appena avevano nominato House…le idee che gli erano passate per la mente qualche ora prima, su come i suoi due capi avessero concluso la serata di ieri, diventavano sempre più plausibili.

Cercò di cancellarsi il sorriso dalla faccia, prima di voltarsi verso i suoi colleghi.

“E ora che facciamo?” chiese, rivolta agli altri due medici.

“Torniamo in ufficio, e incominciamo a lavorare. Non possiamo perdere tempo in giro a cercare House!” rispose acido Foreman.

Chase si voltò verso Cameron, per sentire anche il suo parere: l’immunologa lo guardava con la fronte aggrottata, senza dire nulla.

“Cameron, tu che dici?” la sollecitò l’intensivista.

“Torniamo in ufficio.” le parole le uscirono dalla bocca, mentre i suoi pensieri erano chiaramente altrove. Chase se ne accorse, e non gli piacque affatto.

Mentre tornavano verso l’ufficio, fece andare avanti Foreman, trattenendo la collega qualche passo indietro.

“Tutto bene, Allison?” le chiese.

“Cuddy non ci ha neanche chiesto qual era la comunicazione importante per House. E’ strano, non trovi?”

“No. Magari era solo molto impegnata.” tagliò corto lui.

L’immunologa gli rivolse ancora quello sguardo sospettoso di qualche secondo prima.

“Ma cosa c’è?!” sbottò Chase, sulla difensiva.

“Niente.” rispose, accennando un sorriso. “Magari era solo un po’ stanca. I postumi di una sbornia sono difficili da far passare…”

Le ultime parole Chase le sentì a malapena, mentre la donna allungava il passo raggiungendo Foreman e incominciando a parlare fittamente con lui del paziente.

Non capiva perché, ma aveva sentito un tono risentito in quelle ultime parole.

Le donne.

Che palle.

 

19 ottobre 2006, h 1.40 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Tetto dell’edificio

 

Ormai erano due ore che era lassù.

Forse tre.

Le macchine, parcheggiate qualche decina di metri sotto di lui, emanavano dei riflessi metallici colorati, che gli ferivano gli occhi.

Il suo cercapersone era suonato più volte, così come il suo cellulare.

Non aveva risposto, e neanche aveva guardato chi fosse.

Ufficialmente, si era rifugiato sul tetto dell’ospedale per sfuggire a Wilson.

In realtà, sapeva che l’unica persona che avrebbe potuto cercarlo lassù era proprio il suo amico.

Ma non l’avrebbe fatto.

La sua fottuta sensibilità ai bisogni altrui, gli avrebbe fatto capire che voleva restare solo per un po’.

“Grazie fottuta sensibilità” disse, senza rendersi conto di parlare ad alta voce.

“Cosa?”

House sobbalzò, girandosi di scatto.

Non aveva sentito arrivare nessuno, e l’ultima voce che si aspettava di sentire in quel momento, era quella di Lisa Cuddy.

Quell’apparizione lo disorientò.

“Ti ho spaventato?” chiese lei, scrutando la sua espressione meravigliata.

“No.” si limitò a rispondere il diagnosta.

La squadrò rapidamente, facendo scendere lo sguardo lungo le sue gambe. Si stupì di non riuscire poi a riportarlo sui suoi occhi.

Allora si voltò, fingendosi interessato a un qualcosa nel parcheggio sotto di loro.

Quei bagliori di luce ad esempio.

“Che ci fai qui?” disse, dandole le spalle.

“Ti stavo cercando.”

Cuddy fece qualche passo verso di lui.

Un brivido lo percorse, sentendola avvicinarsi.

Anche la dottoressa si appoggiò alla balaustra, accanto a lui, forse un po’ troppo distante da quello che ci si aspetterebbe tra due amici o colleghi di lavoro.

House notò questo particolare.

Lui notava sempre i particolari.

“I tuoi assistenti ti cercano da ore, e anche Wilson.” Lisa decise di svelare subito il motivo ufficiale della sua presenza lassù.

“Wilson sa dove trovarmi.”

“Dovresti tornare giù.”

“Tu non dovresti essere qui.”

Un lungo silenzio imbarazzato seguì quelle banali parole.

Era vero. Lei non doveva essere lì.

Non c’era nessun motivo concreto per cui lei avrebbe dovuto salire fin sul tetto a recuperare House.

Lisa lo sapeva.

Ma non le importava., aveva bisogno di un contatto.

Aveva bisogno che la sua giornata andasse avanti, non poteva restare tutto il giorno su quel divano, soprafatta dai ricordi di quella notte.

Per andare avanti però doveva vederlo, solo qualche secondo.

Doveva ristabilire un contatto con House, il misantropo primario del reparto di Diagnostica del suo ospedale, per mettere da parte quell’altro House, quello che l’aveva tenuta stretta tutta la notte…

Messa da parte.

Quella notte doveva essere messa da parte per permetterle di continuare a fare il suo lavoro con serenità.

Forse stava esagerando, forse tutta quella confusione era solo colpa della sbornia di ieri sera.

“Comunque sia…le cose devono tornare come prima.” questa voce, nella testa della donna, riuscì a prevalere sul caos di pensieri e immagini che non la abbandonava da ore, permettendole di interrompere il silenzio tra loro, quando ormai stava diventando insopportabile.

“Questo è il mio ospedale, e io posso stare dove voglio!” lo disse con tono autoritario, voltandosi verso House e guardandolo fisso negli occhi. Come aveva già fatto in passato, come faceva sempre con lui. “E ora torna nel tuo ufficio e fai il tuo lavoro. Le ore che hai passato qui a guardare le nuvole le recupererai in ambulatorio.”

“Grazie Cuddy…” House si stupì di come, un’altra volta, avesse fatto esattamente ciò di cui lui aveva bisogno.

“E io che pensavo bastasse una notte di sesso per addolcirti un po’!” le si avvicinò di un passo, inclinando la testa come se la stesse studiando. “Sono un illuso!” concluse, scuotendo la testa.

Poi le diede le spalle e, con passo claudicante, rientrò nell’edificio.

 

Lisa sorrise, mentre lo seguiva con lo sguardo allontanarsi.

Quando non ci fu più traccia di lui, si appoggiò ancora alla balaustra, e alzò la testa verso il cielo.

Non c’era neanche una nuvola, il cielo era limpido.

La colse un a risata improvvisa.

“Grazie House…”

Non avrebbe dovuto cancellare quella notte, non avrebbero dovuto far finta di niente.

Quei momenti potevano continuare ad esistere.

E tutto poteva continuare come prima.

Era ovvio, erano due adulti.

Avevano fatto sesso una volta, tutto qui.

 

Semplice.

 

Ora tutto era a posto.

 

Tutto era come prima.

 

 

19 ottobre 2006, h 3.00 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Ambulatorio, stanza 1

 

“Buongiorno” salutò Wilson, sentendo aprirsi la porta dietro di sé.

L’ultimo paziente e poi avrebbe finito il suo turno in ambulatorio.

“Ciao.” la voce familiare di Allison Cameron lo colse alla sprovvista.

“Che ci fate tutti qui?”

La squadra di House al completo entrò nella stanza.

Tranne House, ovviamente.

“Consulto!” esclamò Chase, sventolando una cartella clinica.

“E’ ancora il mio paziente?”

“Già.”

“Novità?”

“Si.” Foreman si fece avanti. “Gli abbiamo fatto una tac total body, controllato il midollo, colon, retto, stomaco e cuore. Niente di niente. Pulito.”

“Ma?” Wilson sapeva che se erano venuti tutti e tre insieme c’era sicuramente un “ma”.

Nei casi che passavano per le mani di House c’era sempre un “ma”.

“Ha avuto un altro infarto alle 11 circa, e dopo neanche un’ora un ictus.”

Wilson prese la cartella, guardandola perplesso, senza aprirla.

“Come sta?” chiese poi.

“E’ cosciente, ma per ora non parla.”

Wilson fece scorrere lo sguardo su di loro. “Di che genere di consulto avete bisogno? Se non avete trovato nessun cancro…”

“Qualunque idea è ben accetta.” intervenii Chase “Niente cancro, ma anche niente House!”

“Stiamo brancolando nel buio.”

 

Data ignota, ora ignota.

Luogo ignoto.

 

La bocca premeva sulla sua con insistenza.

Oppose resistenza per qualche secondo, per dispetto. Per farla un po’ arrabbiare.

Lei si alzò di più sulle punte, facendo aderire perfettamente il corpo a quello dell’uomo, e stringendo di più la presa dietro al suo collo.

Lui non poté più resistere: dischiuse le labbra, e lasciò che la lingua della donna si incontrasse finalmente con la sua.

Le sue mani erano ferme sui fianchi, innocenti.

Passarono diverse manciate di secondi prima che le facesse scivolare intorno alla vita, rispondendo alla stretta della donna.

Lei si abbandonò contro di lui, e questo quasi gli fece perdere l’equilibrio: la sua gamba malata reggeva a malapena il suo peso, figurarsi quello di due corpi agitati.

Si ritrovò con le spalle al muro, e le mani a contatto con la pelle nuda della donna…la sua schiena nuda.

Le aveva tolto la camicetta, o se l’era tolta lei.

Doveva essere accaduto pochi istanti prima, ma non ricordava.

Sapeva solo che quel bacio era infinito, che lo stava lasciando senza fiato.

Sentì un rumore, qualcuno che saliva le scale.

Forse avrebbe dovuto staccarsi da lei, forse avrebbero dovuto aspettare col fiato sospeso che quel rumore cessasse.

No, era impensabile.

Se si fossero fermati sarebbe stata la fine.

I passi erano comunque lontani, forse primo o secondo piano.

Il rumore era così forte solo perché il rimbombo della tromba delle scale lo enfatizzava.

Erano lontani, non erano un pericolo.

Trasalì quando sentì le mani di lei suo petto.

Pelle contro pelle.

Erano scivolate sotto la sua maglietta, senza che quasi se ne accorgesse.

La stretta dietro al collo non c’era più.

Gli mancò solo per qualche istante, poi le carezze di quelle piccole mani si spostarono più in basso, sulla sua pancia, e il nuovo piacere spazzò via il ricordo di quello vecchio.

Il sapore di lei gli stava entrando dentro, passando dalla sua bocca gli stava invadendo il corpo.

Per un istante sperò che non lo lasciasse mai, ma poi scacciò questo pensiero assurdo.

Le sfiorò le spalle, incontrando le spalline del reggiseno.

Con tocco leggero le fece scorrere giù, e le sue mani corsero poi ancora sulla schiena, a completare l’opera sganciando abilmente il gancetto.

Lei si scostò quel che bastava per far cadere l’indumento a terra, ai loro piedi, stando attenta a non sciogliere il caldo contatto tra le loro bocche.     

Tornò poi a schiacciarsi contro di lui, più forte, agganciandosi ai suoi pantaloni per attirarlo a sé.

Forse potevano fare l’amore lì, adesso.

Fermarsi ora sarebbe stato difficile, probabilmente impossibile.

Ancora passi.

Più vicini questa volta.

Anche la donna li sentì, perché esitò per qualche secondo.

Si fermarono, la paura li costrinse a farlo.

Le loro labbra si separarono lentamente, attenuando la pressione, ma non del tutto.

Tentarono di respirare piano, per non farsi sentire, ma il loro corpo aveva bisogno di ossigeno, e si ritrovarono ad ansimare all’unisono, uno sulla bocca dell’altra.

I passi si erano fermati, ma quella persona era ancora lì: nessuna porta era stata aperta o chiusa.

“C’è qualcuno lassù?” disse una dura voce maschile.

Lisa si staccò di qualche centimetro da House, voltandosi verso la direzione da cui proveniva la voce. “Sono Cuddy, tutto bene.” disse con voce ferma, che non ammetteva replica.

I passi ripresero, allontanandosi questa volta.

Il cigolare della porta del terzo piano, l’uomo che usciva.

Le scale ancora deserte, per loro.

Sentiva il battito del suo cuore accelerato.

Il loro battito.

Cuore e respiro, nient’altro.

Riprendeva fiato, senza guardarlo.

Con un sospiro appoggiò le mani sul suo petto, la fronte sulle mani.

Sentiva il suo respiro che gli solleticava lo stomaco.

Il leggero chiarore che proveniva dal vetro smerigliato della porta che dava sul tetto, illuminava i capelli e la schiena della donna.

House appoggiò la testa al muro che lo sorreggeva, facendo scorrere lo sguardo sul soffitto.

Era un ottimo momento per una battuta delle sue, ma non gli veniva in mente niente.

Era bloccato.

Chiuse gli occhi nello stesso momento in cui lo faceva anche lei.

 

Ricominciare era impossibile.

 

Staccarsi anche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** 4 - Il mio saggio amico ***


Grazie di cuore a tutti quelli che hanno recensito finora! Siete preziosissimi!

 

Questo è un capitolo in cui alcune cose rimarranno in sospeso...ma non vi preoccupate, saranno spiegate!

Solo un consiglio: leggete attentamente ora e luogo, per non rischiare di perdervi!

Al prossimo capitolo,

Vally

 

 

 

 

 

4 – IL MIO SAGGIO AMICO

 

19 ottobre 2006, h 4.00 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Ambulatorio, stanza 1

 

Ormai era un’ora abbondante che costruivano ipotesi e poi, immancabilmente, le distruggevano alla luce di qualche particolare individuato da qualcuno di loro.

L’ipotesi del cancro era la migliore, ma questo cancro non c’era.

Sapevano benissimo che House gli avrebbe fatti combattere anche contro un tumore invisibile, se i sintomi l’avessero convinto che fosse stato quello ma…adesso House non c’era.

Erano con un oncologo, poco propenso a credere nei tumori invisibili.

“Infezione?” chiese Wilson alla dottoressa Cameron, con un sospiro.

“Bhè…non ci sono dei sintomi che indichino chiaramente un’infezione, ma se proprio non ci viene in mente nient’altro possiamo fare qualche esame…” rispose lei titubante.

Foreman guardò Chase che, imperterrito, componeva a ripetizione il numero di House, aspettando che gli rispondesse.

“Ci vorranno ore per avere i risultati delle infezioni più diffuse, e giorni se ci dobbiamo spostare su quelle più rare.” osservò l’intensivista, con il cellulare all’orecchio.

“Però è l’unica ipotesi che ci da’ un’alternativa al restar qui a far niente.” ribatté Cameron, frustrata dall’ultima ora di discussione inconcludente.

Wilson osservò per qualche secondo i tre dottori: Cameron era seduta sul lettino, e si guardava le mani n grembo, pensierosa. Chase camminava avanti e indietro per la piccola stanza, continuando a tentare quella telefonata. Foreman…aveva lo sguardo fisso nel suo adesso, ed un espressione seria, troppo seria. Come se lo rimproverasse di qualcosa.

Forse dell’assenza di House?

La cosa non lo avrebbe stupito, non era la prima volta che le conseguenze dei problemi creati da House ricadessero su di lui.

“Foreman, non ho idea di dove sia né di come rintracciarlo.” gli disse, reggendo il suo sguardo.

 

In quel momento la porta si aprì e Lisa Cuddy si bloccò di colpo, stupita di trovarli tutti là dentro.

Si chiuse poi la porta alle spalle, e fece qualche passo verso l’oncologo.

“Ma che ci fai qui? Il tuo turno in ambulatorio è finito da un’ora!”

“Lo so, è che i ragazzi avevano bisogno di una mano.”

Cuddy fece scorrere lo sguardo sugli assistenti di House; quando arrivò a Chase entrambi, senza forse rendersene conto, distolsero lo sguardo e incominciarono nervosamente a parlare, uno sopra l’altra.

“Non ce l’avete un uffic…?” disse provocatoria la dottoressa.

“Avevamo bisogno di una mano.” tentò di giustificarsi per tutti Chase, guardando verso Allison, l’unica da cui si aspettasse di esser spalleggiato.

Ci fu qualche secondo di imbarazzante silenzio; la domanda più naturale che Cuddy avrebbe dovuto fare e che tutti si aspettavano era: “Dov’è House?”.

Ma questa domanda non arrivò.

“Ok, ok. Ora però andate in ufficio, questa stanza dovrebbe essere vuota.”

I medici si guardarono perplessi, poi Cameron si alzò. “Va bene.” disse, osservando attentamente Lisa Cuddy, mentre le girava attorno per avviarsi verso la porta. Era rossa in viso, e anche gli occhi erano strani.

C’era qualcosa che non andava.

Fu la prima a prendere la porta, seguita dai colleghi.

 

Wilson si trattenne, aspettando che tutti fossero usciti, per poi chiudere la porta e rimanere solo con la donna.

“Tu non vai? Hanno bisogno di una mano e quel paziente è il tuo caso.” disse lei per prendere tempo, sapendo benissimo cosa la aspettava.

“Cosa succede?” chiese infatti l’oncologo, ignorando la sua domanda.

Lei non gli rispose, limitandosi a guardarlo in un modo che voleva significare “sono fatti miei”, ma che probabilmente non riuscì nel suo effetto.

Oppure era riuscito e Wilson l’aveva bellamente ignorato.

“Perché sei venuta a nasconderti qui dentro?” incominciò lui, incrociando le braccia.

Cuddy si immaginò House nella sua stessa situazione, e capì perché i due uomini erano tanto amici. Ci volevano la fermezza e la cocciutaggine di Wilson per scuotere un po’ il cuore di House.

Ed era una cosa che faceva bene…ogni tanto ci voleva.

“Non sono venuta a nascondermi.”

Si rese conto che si stava comportando come una bambina che non voleva confessare qualcosa di palese, e si difendeva negandolo all’infinito.

“Sei venuta qui perché ti aspettavi di non trovare nessuno, ed è una delle poche stanze con la chiave…”

“Potevo chiudermi nel mio ufficio se volevo stare da sola.”

Ma quanto sono infantile?

“Si ma avresti insospettito tutto l’ospedale, qui invece non se ne sarebbe accorto nessuno.” Wilson non sembrava aver intenzione di concederle un attimo di tregua. “Quindi sei venuta qui a nasconderti, perché?”

Anche Lisa incrociò le braccia e lo guardò con sfida, cercando di darsi un contegno.

“In più non hai fatto quella domanda.” continuò l’oncologo, per niente colpito dai suoi gesti.

“Che domanda?” Lisa assunse un tono infastidito, come se Wilson stesse dicendo delle assurdità.

In realtà aveva capito perfettamente a cosa si riferiva, e incominciò a vacillare.

Lei riusciva a combattere anche quando si sentiva fragile, quando era in difficoltà. Ma adesso Wilson la stava mettendo a nudo, ed era sicura che avrebbe continuato imperterrito a distruggere tutti i castelli che lei avesse costruito come scusa.

Non si sarebbe fermato, l’avrebbe costretta ad affrontare la cosa.

Ne ebbe paura.

“Sai benissimo a cosa mi riferisco.” disse lui, non perdendo mai il contatto visivo con lei.

Ad un tratto, Lisa capì cosa vedeva nei suoi occhi: dispiacere. Wilson era dispiaciuto per lei, e per quello che le stava facendo.

Questo però, evidentemente, non condizionava le sue azioni.

“Dovevi chiedere dov’è House.”

Si è vero, se avesse fatto quella domanda probabilmente si sarebbe risparmiata quel quadretto.

“Io non so dov’è House.” rispose lei, intuendo dove voleva arrivare l’amico.

“Allora perché non l’hai chiesto?”

“Perché è ovvio che nessuno di voi sa dov’è, visto che non state discutendo il caso con lui, ma state sparando ipotesi a casaccio!” alzò la voce, sperando di spaventare Wilson, sperando di scoraggiarlo almeno un po’.

Tentativo fallito.

Lui non batté ciglio e continuò a parlare con voce pacata ma sicura: “L’avresti chiesto comunque. Lo chiedi sempre. E’ il tuo lavoro.”

Lisa rimase in silenzio, le braccia ancora incrociate e l’espressione di sfida sul volto.

Non le veniva in mente nulla da ribattere, e anche se avesse trovato qualcosa di sensato da dire sapeva che sarebbe stato inutile. Wilson non si sarebbe fermato.

Distolse lo sguardo da quello dell’oncologo, incominciando a farlo vagare per la stanza, finché non lo posò, sconfitta, sul pavimento.

Lui aspettò in silenzio, rispettando quel suo momento di smarrimento.

Cuddy si immaginò House nella sua stessa situazione e si visualizzò perfettamente le sue azioni: lo avrebbe guardato fisso negli occhi per qualche secondo, poi si sarebbe voltato e, senza dire una parola, avrebbe lasciato la stanza.

Per qualche istante pensò di utilizzare la stessa tecnica: la fuga.

Ma non era da lei.

“Ok, ci sono stata a letto.” disse in un fiato, continuando a fissare il pavimento.

Solo qualche istante, poi rialzò lo sguardo e lo puntò ancora negli occhi di Wilson. “Contento?”

Wilson scosse la testa, mentre un ampio sorriso si dipingeva sul suo viso.

“Cos’hai da ridere, Wilson? Non era questo che volevi? Che ammettessi di aver scopato con House, così che tu potessi partire con la tua predica su quanto sia rischioso, su tutte le cose terribile che accadrebbero se mi legassi a lui o cose simili?!” la risata distratta dell’oncologo l’aveva fatta terribilmente arrabbiare, e ora gli stava urlando contro la sua indignazione. Non riuscì ad individuare un motivo razionale per essere così arrabbiata con Wilson, ma lo era. Eccome.

Che diritto ha di farmi sentire così?!

Wilson alzò verso di lei i palmi della mani e indietreggiò di un passo, senza però mostrare di essere realmente colpito dalla reazione del suo capo.

“Lisa…” disse il suo nome con dolcezza mista a rassegnazione.

Come se quella scenata fosse normale, come se fosse tutto perfettamente normale e gestibile senza difficoltà.

Come se se lo aspettasse.

Lei continuò a fissarlo con sguardo infuocato, senza però violare quella distanza che lui aveva preso facendo quel passo indietro, e senza dire nient’altro.

Wilson si assicurò che la donna si fosse calmata almeno un po’, prima di incominciare a parlare. “Lisa…Cuddy. Non sono fatti miei con chi vai a letto. Però…tu sei il capo di questo ospedale. Devi contenere la stravaganza di House e devi preoccuparti di dove sia. Quel ragazzo sta morendo. Il mio paziente sta morendo. E questi sono fatti miei.”

Poi si avviò verso la porta, mentre la dottoressa lo seguiva con lo sguardo, senza trovare il coraggio di dire nulla.

Aveva ragione, aveva dannatamente ragione.

Prima di aprire la porta l’oncologo si voltò ancora verso di lei.

“Tu non sei House. Puoi gestire questa cosa senza mettere in mezzo la tua professionalità, ne sono sicuro. Continua a fare il tuo lavoro.” le rivolse un sorriso incoraggiante, e lasciò la stanza.

Lisa fece un respiro profondo, cercando di calmarsi.

Si vergognava terribilmente.

Aveva aggredito Wilson, senza motivo.

Lui voleva solo assicurarsi che non tralasciasse il suo ruolo in ospedale.

Lui era sempre così…giusto.

Faceva sempre la cosa giusta.

Tu non sei House. Puoi gestire questa cosa senza mettere in mezzo la tua professionalità, ne sono sicuro.

Se lo diceva il saggio James Wilson…

Si accorse che le tremavano le mani.

“Stupida…” mormorò, senza accorgersi che stava parlando ad alta voce.

Sbuffò sonoramente e si diresse verso la porta. Si bloccò a metà strada, tornando indietro.

Scosse la testa e, questa volta, aprì decisa la porta e tornò nel suo ufficio.

Si sedette alla sua scrivania, prese il telefono e incominciò a fare il suo lavoro.

Incominciò a cercare il dottor Gregory House.

 

19 ottobre 2006, h 4.00 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Camera di Mark Shone

 

Il petto del giovane ragazzo sdraiato nell’unico letto della stanza si alzava ed abbassava regolarmente. Gli occhi chiusi e la bocca semiaperta gli davano un’espressione rilassata.

Sembrava dormisse.

In realtà era sveglio, il suo cervello era attivo, per quanto l’ictus che l’aveva da poco colpito lo permettesse. Lo sforzo che stava facendo era enorme, e forse solo l’immagine delle sue mani, che stringevano le lenzuola così forte che le nocche erano diventate bianche, poteva dare l’idea del tormento che stava passando.

Stava cercando di parlare.

Stava cercando di formulare una parola, una qualsiasi parola.

Quella prigione di silenzio in cui era rinchiuso lo stava facendo impazzire.

Ed erano solo passate poche ore; i medici gli avevano parlato di giorni.

Ci sarebbero voluti giorni perché tornasse a parlare.

Sempre che ciò accadesse. Era sempre più convinto che non sarebbe mai accaduto, che sarebbe rimasto muto per sempre.

Una forte rabbia prese il posto dello sconforto che lo invadeva, facendogli stringere i pugni con ancora più forza.

Ad un certo punto sentì un rumore di passi al suo fianco.

Spalancò gli occhi e…avrebbe urlato, se il suo cervello gli avesse obbedito.

Rimase invece immobile, gli occhi spalancati e le braccia improvvisamente senza forza.

Un ragazzo lo fissava dall’alto in basso, con un sorriso stampato in faccia.

“Sono stati loro.” la voce arrivò chiara nella sua testa.

Quel ragazzo però non aveva parlato, non aveva aperto bocca.

“Ti stanno usando come cavia, ti vogliono far diventare pazzo.”

Terrore.

Il terrore si impossessò di lui, percorrendogli il corpo, come fosse un viscido animale che lo avvolgeva lentamente, fino a soffocarlo.

Era il terrore della consapevolezza.

Aveva capito tutto.

Era tutto un esperimento, lo stavano usando.

Quei medici lo stavano studiando come una cavia da laboratorio.

Gli avevano tolto la parola, e chissà cos’altro gli avrebbero fatto.

Aveva ragione lui.

Suo fratello non gli avrebbe mai mentito.

 

19 ottobre 2006, h 4.20 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-River’s Park

 

Il cellulare riprese a vibrare insistentemente.

House alzò gli occhi al cielo, mentre combatteva con la voglia di gettarlo nel cestino più vicino.

Chase non aveva smesso un attimo di chiamarlo, probabilmente le onde magnetiche del cellulare gli avevano ormai fuso il cervello.

Buttò un’occhiata distratta sul display, convinto di dover leggere per l’ennesima volta il numero del suo giovane assistente.

Ma questa volta non era Chase.

Era Cuddy.

La scritta “Non rispondere” lampeggiava sul piccolo schermo; aveva salvato così il numero dell’ufficio del suo capo.

Non se lo aspettava.

Era convinto che lo avrebbe evitato per un po’.

Era la seconda volta che i fatti andavano contro le sue previsioni, in pochi secondi, e questo non gli piacque.

“Palla!!!” un gruppo di ragazzini aveva lanciato il pallone troppo forte, facendolo finire tra i suoi piedi, seduto sulla panchina più isolata del parco.

“Vienitela a prendere!” rispose House, scocciato.

Non demordeva.

Continuava a chiamarlo, a ripetizione.

Per il caso.

Era l’unico motivo per cui l’avrebbe chiamato.

Forse quel ragazzo aveva davvero bisogno di una sua diagnosi.

Avrebbe dovuto sentire la sua curiosità incominciare a smuoversi, fino ad invaderlo completamente.

Ma non accadde nulla.

Non aveva voglia di pensare a quel ragazzo, di giocare con l’enigma del giorno.

Voleva solo restare lì seduto, col sole che di tanto in tanto spuntava fra le nuvole e riscaldava un po’ il gelo che aveva dentro.

Quel gelo che lo paralizzava.

Non avrebbe mai risposto, non ci pensava neanche.

 

19 ottobre 2006, h 1.45 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Tetto dell’edificio

 

…..

“E ora torna nel tuo ufficio e fai il tuo lavoro. Le ore che hai passato qui a guardare le nuvole le recupererai in ambulatorio.”

Il famigliare tono autoritario di Lisa Cuddy non gli era mai sembrato così piacevole.

Non avrebbe mai pensato che l’ordine di restare in ambulatorio per ore extra gli avrebbe provocato un piacere sottile, prima o poi.

Ma alla fine quello era un ritorno alla normalità, una testimonianza che l’incidente di quella notte non aveva portato a grandi cambiamenti.

Lui odiava i cambiamenti.

Le ore extra le avrebbe affibbiate a Chase; dopo che lo aveva beccato in quello stato la sera precedente, avrebbe potuto massacrarlo per mesi.

Si sentì improvvisamente più forte.

Se le cose dovevano tornare come prima, anche lui doveva fare la sua parte:

“E io che pensavo bastasse una notte di sesso per addolcirti un po’! Sono un illuso!”

Percepì il suo sorriso mentre le voltava le spalle e se ne andava a fare il suo lavoro.

Tentò di ignorare quella strana sensazione che gli inquinò l’animo per qualche secondo: delusione forse?

 

Aprì la porta per tornare nell’edificio, preparandosi a fare quei pochi gradini che separavano il tetto dal primo pianerottolo, dove c’era l’ascensore.

Non arrivò neanche a metà che dovette fermarsi.

La porta dietro di lui si era aperta, lei lo stava raggiungendo.

Si voltò quando la sentì vicina, troppo vicina.

La trovò lì davanti, a pochi centimetri da lui.

Senza esitare, lo abbraccio e posò la bocca sulla sua.

 

La bocca premeva sulla sua con insistenza.

….

 

Quell’interruzione non ci voleva.

Quando mai aveva ordinato alla sicurezza di controllare le scale, ogni ora.

Si odiò per quello.

Io e la mia stupida paranoia.

Cosa aveva fatto?

Perché aveva rovinato tutto?

Il suo tanto desiderato ritorno alla normalità giaceva sconfitto sul pavimento, insieme alla sua camicetta e al suo reggiseno.

Non aveva il coraggio di alzare lo sguardo, né di fare nessun’altro movimento.

La fronte appoggiata sul petto di House, lo sentiva respirare veloce.

In quel momento sperò che ricominciasse a baciarla, o che si arrabbiasse con lei per come gli era saltata addosso.

Qualunque cosa, pur che fosse lui a farla.

Quei secondi di immobilità le sembrarono interminabili.

Poi sentì la pressione delle sue mani sulle spalle, mentre la scostava dal suo petto.

Lei lo lasciò fare, portandosi d’istinto una braccio sul seno, come per proteggersi.

Si costrinse a guardarlo negli occhi.

Lui però, aveva già voltato il viso verso le scale.

Se ne andò, scendendo faticosamente gli ultimi scalini che lo separavano dal pianerottolo.

Non disse nulla, non la guardò neanche.

Questa era la cosa peggiore che poteva fare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** 5 – Il mio secondo tentativo ***


5 – IL MIO SECONDO TENTATIVO

 

20 ottobre 2006, h 8.00 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Camera di Mark Shone

 

Mark  la spinse con forza lontana da lui.

Cameron fu presa alla sprovvista, e quasi perse l’equilibrio.

Finì in mezzo ai macchinari, e il rumore che provocò fece accorrere un’infermiera.

“Tutto bene, dottoressa?” chiese questa, vedendo l’immunologa disorientata.

“Si…no.” posò lo sguardo sul paziente, che la guardava con aria di sfida. “Sembra che Mark non voglia che gli attacchi la flebo.”

“Devo chiamare qualcuno?”

“No, non si preoccupi.” Cameron aspettò che l’infermiera uscisse, poi parlò al giovane ragazzo che continuava a fissarla con astio. “Mark, devo metterti questa, sono antibiotici. Pensiamo tu abbia un’infezione che ti provoca i coaguli, e questi combattono le infezioni più comuni.”

Aspettò un cenno d’assenso dal ragazzo, ma questi la fissava immobile.

Riprovò ad avvicinarsi, ma appena fu a portata del paziente, questi l’afferrò per un braccio, e con l’altra calò qualcosa che poteva essere un coltellino da cucina, o un bisturi, su di lei.

Cameron sentì un dolore acuto al braccio, che riuscì a strappare dalle mani del ragazzo con un strattone. Indietreggiò spingendo sulla ferita per evitare che sanguinasse troppo e guardando con gli occhi terrorizzati Mark, che ora aveva un’espressione strana sul viso.

Sorrideva forse?

 

20 ottobre 2006, h 8.15 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital - ambulatorio, stanza 2

 

“Sembra che rifiuti le cure.”

Chase alzò lo sguardo dal braccio ferito, e la guardò negli occhi perplesso. “Sembra che rifiuti le cure?! Cameron, ti ha aggredita!”

“Era spaventato.”

“Aveva un coltello. Era un’aggressione premeditata.”

Cameron distolse lo sguardo da lui, pensierosa.

Il taglio le faceva un male cane, era profondo anche se non troppo grosso: uno squarcio di pochi centimetri sul bianco avambraccio.

Faceva fatica a trattenere le lacrime di dolore, e di rabbia.

Se fosse stato qualcun altro probabilmente avrebbe fatto sedare il paziente al primo rifiuto, senza procurarsi una ferita come quella.

Aveva troppa fiducia nelle persone, ancora troppa fiducia.

Quando House avrebbe saputo dell’incidente, avrebbe deriso lei invece di arrabbiarsi con il paziente.

Come stava facendo Chase.

“Quell’idiota, lo lascerei morire in preda ai suoi ictus!” l’intensivista stava cercando di concentrarsi sulla medicazione, e aveva intenzione di tranquillizzare Cameron, ma la rabbia che gli era montata dentro gli rendeva impossibile mantenere la calma.

“Devi denunciarlo!”

“Chase no…E’ un casino…Cercherò solo dei stare più attenta ad avvicinarmi a lui.”

Il medico scosse la testa, mentre disinfettava il taglio.

“Brucerà un po’, scusa.”

Non la sentì replicare nulla, e continuò il suo minuzioso lavoro.

“Quindi facciamo finta di niente?”

Non sentendola rispondere, alzò lo sguardo su di lei.

Una lacrima le percorreva il viso, mentre distoglieva gli occhi lucidi dai suoi.

“Fa così male?” le chiese confuso.

“No, è che…” non voleva scoppiare a piangere davanti al collega, quindi rimase in silenzio, che era l’unico modo per trattenere i singhiozzi.

Abbassò lo sguardo sulla sua ferita, e indugiò sulla mano di Chase, ferma accanto al taglio, mentre reggeva il bastoncino di cotone imbevuto di disinfettante.

La vide posare il cotone e la mano sparì dal suo campo visivo.

La sentì poi appoggiarsi sulla sua spalla, e stringerla affettuosamente.

“Tu ti sei comportata da bravo dottore. Io avrei fatto esattamente lo stesso.”

Alzò lo sguardo sul viso del collega, e quando vide gli occhi lucidi di rabbia, e il sorriso rassicurante che le rivolgeva, le venne ancora quella forte voglia di buttargli le braccia al collo, com’era accaduto la mattina precedente a casa sua.

“Ti viene da piangere perché sei scossa, spaventata. E’ normale.”

Poi la stretta sulla sua spalla si trasformò in una debole pacca amichevole e la mano tornò ad afferrare il bastoncino e a fare il suo lavoro.

Nonostante il caso apparentemente irrisolvibile, la sparizione di House e l’aggressione, entrambi erano davvero felici di essere lì, insieme.

 

20 ottobre 2006, h 9.00 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di Wilson

 

Il bussare energico alla porta lo fece trasalire.

“Avanti!”

Quando vide entrare Cuddy, con un’espressione che voleva apparire sicura e decisa, ma che lui sapeva benissimo tradire preoccupazione, si tolse gli occhiali e spostò da parte i documenti che stava compilando.

“Tutto bene?” le chiese, facendole cenno di sedersi.

“Si” rimase in piedi “Ma non ho ancora notizie di House.”

La donna aspettò che Wilson replicasse qualcosa, ma questi continuava a guardarla in attesa.

“L’ho chiamato tutto ieri, sia sul cellulare che a casa. Anche ieri sera. Non mi ha mai risposto.”

“Io sono passato a casa sua e non c’era.”

“Magari non ti ha aperto…”

“No, non c’era. Ho le chiavi.”

Rimasero entrambi in silenzio, pensierosi.

Cuddy teneva le braccia incrociate, nervosamente.

Mosse qualche passo verso la porta. “Non può sparire così senza avvisare. Devo prendere dei provvedimenti.”

Wilson annuì distrattamente.

Lisa era quasi sulla porta quando lui parlò: “E’successo qualcosa?”

Lei si voltò e lo guardò con aria interrogativa.

“Intendo tra voi due, oltre all’altra notte. E’ successo qualcosa?

“No.” mentì lei.

“Ok, fai quello che devi fare.”

 

20 ottobre 2006, h 9.10 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di House

 

“Allora, l’avete trovato quel tumore?”

I tre assistenti di House si voltarono verso il loro capo, che entrava in quel momento, mangiando una ciambella.

Restarono qualche istanti in silenzio, confusi da quell’apparizione improvvisa.

“Ma dov’eri finito?!” chiese Foreman indignato.

“Sono andato a comprare questa ciambella.” rispose House, mostrando l’ultimo boccone per poi infilarselo prontamente in bocca. “Le vendono a Vancouver, mi è venuta una voglia insaziabile e…ehi! Ho preso il primo aereo per tornare il più presto possibile qui da voi, e mi ricompensate con quell’espressione vacua!” si diresse verso la lavagna. “E neanche uno straccio di diagnosi…siete un disastro!”

“Non c’è nessun tumore, potrebbe essere infezione.” disse Chase, il più rapido ad adeguarsi all’altalenante House.

“Il condizionale non mi piace.”

“Sembra non esserci nient’altro.”

“Scommetto neanche un’infezione.”

“Non l’abbiamo ancora trovata, ma pensavamo di somministrare al paziente degli antibiotici ad ampio spettro, per vedere se migliora.”

House sembrò riflettere qualche istante. “Va bene, per festeggiare il fatto che in un giorno senza di me non avete ucciso nessuno, potete giocare con i vostri antibiotici.”

“Ci abbiamo già provato, ma il paziente ha aggredito Cameron appena ha tentato di avvicinarsi.” Chase indicò il braccio fasciato della collega, seduta accanto a lui.

“Dobbiamo noleggiarti una guardia del corpo. Prima quasi ti contagi con un paziente affetto da HIV, ora ti fai mordere da un ragazzino…”

“Mi ha tagliata con un coltello.” lo interruppe l’immunologa, impassibile.

Il sarcasmo del suo capo, di certo, non la sorprendeva.

“Ah.” House sembrò esitare un attimo “E dove lo ha preso un coltello?”

“Dalle posate della cena di ieri.” Chase parlò per la collega.

“Hai anche un zelante avvocato accusatore! Dirò a Cuddy di risparmiarsi i soldi del legale questa volta…” il tono sprezzante del suo capo non ferì minimamente Chase, che continuò a parlare, apparentemente indifferente. “Ha deciso di non sporgere denuncia.”

House guardò Cameron per qualche secondo. “Come vuoi!” esclamò poi, “Io però vado a parlare con l’imputato. La parola “follia omicida” starebbe proprio bene lì, tra arresto cardiaco e ictus!”

“Il paziente non parla ancora.” lo fermò Foreman.

“Però potrà scrivere!”

“E’ pericoloso, non è ancora sedato.”

House, di risposta, sollevò il suo bastone, e poi lasciò la stanza, speditamente com’era entrato.

 

20 ottobre 2006, h 9.15 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Corridoio del primo piano

 

Cuddy si stava dirigendo all’ufficio di House, sperando di riuscire ad avere qualche notizia sul diagnosta da qualche membro del suo staff.

Quando lo vide venirle incontro in corridoio, con la cartella del paziente in una mano e il bastone stretto nell’altra, tante emozioni si condensarono in lei, dal sollievo, alla frustrazione, alla rabbia. Oltre a quella morsa allo stomaco, a cui preferì non dare un nome.

“Buongiorno Cuddy!” si limitò a dirle lui, passandole accanto e proseguendo senza esitare neanche un secondo.

Lisa esitò qualche istante, indecisa sul da farsi, poi si voltò e lo seguì, raggiungendolo dopo pochi passi.

“Si può sapere dove diavole sei finito?!”

“Che importa del passato!? Ora sono qui e faccio il mio lavoro!”

“Importa eccome! E’ tutto ieri che…” si bloccò di colpo, realizzando a cosa si riferissero le sue parole.

Anche House si era fermato, e la guardava negli occhi, tentando di seguire il corso dei suoi pensieri.

“Che importa del passato!?”

House non si stava riferendo solo alla sua sparizione di ieri.

Si stava riferendo a quello che era accaduto tra loro.

Ci stava riprovando.

Provava di nuovo a cancellare tutto e a continuare come se niente fosse.

Il primo tentativo era fallito clamorosamente, ed era stata colpa sua.

Ma anche lui aveva contribuito.

Non l’aveva respinta, non subito almeno.

Aveva risposto al suo bacio con la stessa passione, aveva incominciato a spogliarla…

Il suo silenzio stava diventando troppo lungo, e House fece per andarsene.

Voleva che le cose tornassero come prima?

Questo significava niente indulgenza per lui.

“House!” il diagnosta si voltò ancora, con l’aria scocciata. “Nel mio ufficio, entro ora di pranzo! Stabilizza la situazione con il paziente e poi raggiungimi.” Cuddy parlò con voce ferma.

House fece un cenno col capo, che probabilmente rappresentava un “si”.

Si diedero entrambi le spalle nello stesso momento, andando per le loro strade.

Tentativo numero due in corso.

 

20 ottobre 2006, h 9.45 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Camera di Mark Shone

 

Erano diversi minuti che House sedeva nella camera del suo paziente.

Il ragazzo dormiva, l’espressione rilassata.

Sembrava più giovane della sua età, era magro e ossuto.

Gli sembrava difficile che avesse potuto aggredire qualcuno, anche una donna gracile come Cameron.

Ma l’aveva fatto, e con un coltello.

Un coltello che si era procurato durante la cena, probabilmente con lo scopo di fare del male a qualcuno.

Di ucciderlo magari.

O di difendersi?

Poteva sembrare una distinzione superficiale, ma anche se la conseguenza a cui aveva portato era comunque l’aggressione a una dei suoi assistenti, il fatto che stesse attaccando o difendendosi per lui era fondamentale.

Significava follia omicida o paranoia.

Due sintomi diversi, due indizi diversi per la sua diagnosi.

Mark aprì gli occhi, e appena si rese conto di avere qualcuno così vicino, sembrò molto spaventato.

Provò a parlare, senza riuscirci.

Il vederlo così disperato e spaventato, mentre boccheggiava alla ricerca della parola giusta, che non gli sarebbe venuta per ancora diverso tempo, House non provò nulla che assomigliasse al dispiacere o alla pietà.

Solo curiosità, una curiosità che invadeva tutto, che non gli permetteva di pensare ad altro.

Sorrise, fiero di sé.

Ieri era passato.

Quella notte in un anonimo hotel, lontano dalla sua casa, gli aveva permesso di ritrovare sé stesso.

Aveva allontanato le immagini che lo avevano provocato tutto il pomeriggio, le sensazioni della pelle sulla pelle, e del respiro dentro al respiro.

Le aveva chiuse dentro una bella scatola, che aveva nascosto in qualche angolo buio della sua mente.

Dovevano restare lì, non poteva permettersi che avessero la meglio su di lui.

Sulla ragione, sui suoi freddi calcoli.

Sulla diagnosi.

Quella doveva venire prima di tutto.

I pensieri, i ricordi, le sensazioni, potevano essere sepolte.

Rimaneva solo quella fastidiosa morsa allo stomaco quando la incontrava…su quella doveva ancora lavorarci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** 6 - Le mie idee masochiste ***


6 – LE MIE IDEE MASOCHISTE

 

20 ottobre 2006, h 11.15 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di House

 

Foreman rientrò in ufficio dopo un giro d’ispezione nella camera del paziente. “E’ ancora lì, il ragazzo sembra dormire. Sta lì e lo guarda.” disse sconsolato ai colleghi, riferendosi a quello che stava facendo il suo capo nella stanza del paziente, ormai da un paio d’ore.

“L’ha sedato?” chiese Cameron, passandosi distrattamente una mano sulla fasciatura al braccio.

“Non lo so, non ho chiesto niente. Ho fatto in modo che non mi vedesse.” rispose il neurologo, versandosi l’ennesima tazza di caffè sotto lo sguardo contrariato degli altri due medici.

Ci fu qualche minuto di silenzio, quel silenzio che mette agitazione in situazioni innaturali, ma che ha un benefico effetto rilassante su persone che sono abituate a passare tanto tempo insieme.

Foreman sorseggiava il suo caffè, facendo scorrere lo sguardo pensieroso sulla breve lista di sintomi scritti in modo frettoloso sulla lavagna; Chase teneva in mano il suo solito giornale d’enigmistica, senza però prestarci realmente attenzione; Cameron si massaggiava il braccio, e spostava alternativamente lo sguardo sugli altri due medici seguendo il corso dei suoi pensieri.

L’ingresso di House ebbe il solito effetto a ciclone su di loro: la calma e l’armonia vennero spazzati via in pochi istanti, e l’agitazione prese il sopravvento.

“Paranoia!” esclamò, raggiungendo rapido la lavagnetta e aggiungendo il nuovo sintomo.

“Cosa…?” chiese confuso Chase.

“Ehi, sveglia bambini!” House alzò ulteriormente il tono della voce, sollevando pericolosamente il bastone da terra. “Il paziente con l’hobby dell’intaglio! Il signor ictus e attacco cardiaco!”

Gli altri tre annuirono.

“Non voleva ucciderti, voleva difendersi.” continuò House rivolto a Cameron.

“Te l’ha detto lui?”

“No, l’ho dedotto io, hai un aspetto così minaccioso che è praticamente impossibile non aver paura di te!” rivolse alla dottoressa un’espressione sarcastica. “Mi sono addentrato nel folle discorso che ha farfugliato. Straparla di esperimenti su di lui e cose simili. E’ paranoia.” concluse, puntando soddisfatto il dito sul sintomo appena aggiunto.  

Cameron, Forman e Chase annuirono ancora.

House rimase a guardarli qualche secondo, in attesa.

“Allora?!”

I tre medici si guardarono a vicenda, sperando che qualcuno tirasse fuori un’idea.

“L’infezione è nel cervello…” tentò Foreman.

“O il tumore.” lo seguì Chase.

“Potrebbe essere un sintomo psichiatrico, legato ai traumi degli ultimi giorni. Potrebbe non essere legato al resto.” intervenne Cameron. “Magari…è una persona che non si fida dei medici e, visto la diagnosi di cancro terminale, le terapie dolorose e la sua miracolosa guarigione, questa sfiducia si è trasformata in paura. Magari la sua paranoia è…normale…”

Ci fu qualche istante di silenzio.

“Per essere una donna che si è fatta aggredire da un uomo praticamente morto, non sembri tanto stupida.” disse poi House, guardandola pensierosa.

“Grazie…” mugugnò le, rassegnata alla pungente ironia del suo capo.

“Credi che la paranoia non sia un sintomo?! Credi sia una sorta di disturbo post traumatico da stress? E allora che hai scritto a fare “paranoia” lì?” chiese Chase, confuso.

House incominciò a passeggiare avanti e indietro per l’ufficio, mentre i suoi tre assistenti lo seguivano con lo sguardo. “Quello che ha detto Cameron non è così impossibile. Quel paziente ha subito diversi shock negli ultimi mesi, e può essere che sono stati quelli a farlo andare fuori di testa. Mettiamo però che, oltre a quello che sembra essere paranoia, io trovo un altro sintomo neurologico: allucinazioni ad esempio. Che direste?”

“Se la sua fosse realmente paranoia, e avesse delle vere allucinazioni, il campo si restringerebbe parecchio.” rispose prontamente Foreman.

“Esatto. Ma il paziente non ha le allucinazioni. O almeno non abbiamo garanzie che ce le abbia.”

“Ma allora questa ipotesi è pura fantasia?” chiese Cameron ,cercando di capire cosa stava passando nella testa del suo capo.

“No, ha una base di realtà. Il ragazzo mi ha detto che suo fratello è venuto qui e gli ha parlato, ma dall’anamnesi non risultano fratelli. Quindi il fratello non esiste, se l’è inventato. Oppure esiste, da qualche parte, e lui ha immaginato di vederlo qui, quindi ha avuto un’allucinazione. Ultima ipotesi: esiste ed è stato qui, quindi l’anamnesi di Wilson fa schifo!”

“Tre possibilità, ed ognuna ci da’ un’informazione diversa.” Foreman era riuscito a raggiungere il ragionamento del suo capo, capendo finalmente dove voleva arrivare.

“Inventarsi un fratello indica un procedimento mentale complesso, potrebbero essere falsi ricordi. Se invece avesse avuto un’allucinazione, sarebbe un altro tipo di sintomo da aggiungere alla lista. Dobbiamo trovare questo fratello, sia che si trovi solo nella testa del paziente, sia che esista veramente.”

House aveva un’espressione quasi felice, gli occhi lucidi e un tremolio leggero alle mani: i sintomi dell’eccitazione, quella che lo prendeva quando si buttava dentro un caso con tutto se stesso. Tutti e tre i suoi assistenti riconobbero quell’espressione, e, come sempre, senza che lo volessero quell’eccitazione contagiò un po’ anche loro.

“Che facciamo allora?” domandò Chase, impaziente.

House scosse la testa, e fece quei pochi passi che lo separavano dall’intensivista. Gli strappò via dalle mani l’enigmistica e la buttò brutalmente nel cestino, sbuffando.

Poi sparì nel dietro la sua scrivania, incominciando a frugare nei cassetti.

“Cameron, rintraccia i genitori del ragazzo, la sua fidanzata e i suoi amici. Devi scoprire se ha un fratello.” ordinò alla dottoressa, continuando a rovistare tra vecchie cartelle e riviste scientifiche. “Foreman, dai un’occhiata al cervello del paziente. Una po’ più approfondita se l’hai già fatto.”

Il neurologo annuì, dirigendosi verso la porta.

“Chase…” House si allontanò dalla scrivania, reggendo una rivista tra le mani e sfoggiando un’espressione vittoriosa. Mise il giornaletto tra le mani dell’intensivista. “Un regalo da parte mia, da utilizzare al posto di quella robaccia.” indicò con un gesto frettoloso la spazzatura, dove giaceva l’enigmistica tanto cara al ragazzo. “Non finirai mai di imparare da me.”

Soddisfatto, si avviò anche lui verso la porta dell’ufficio.

Chase posò lo sguardo sulla copertina della rivista, dove una donna completamente nuda lo guardava con espressione provocante. D’istinto, spostò lo sguardo su Cameron, che gli rivolse un’espressione disgustata, prendendo le distanze da lui.

“Io sto qui a sfogliare i tuoi giornaletti porno?!” chiese allibito Chase al suo capo.

“Il tuo giornaletto! Te l’ho appena regalato, piccolo ingrato!” House lasciò la stanza, per poi affacciarsi alla porta pochi istanti dopo “Va con lei.” ordinò infine, indicando Cameron con un gesto del capo.

Senza dare ai medici la possibilità di ribattere, si allontanò velocemente.

Lisa Cuddy lo stava aspettando.

 

20 ottobre 2006, h 11.30 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di Cuddy

 

“Cosa dovrei fare esattamente?” chiese Wilson perplesso, in piedi davanti alla scrivania della donna.

“Siediti. Lì, sul divano.” rispose lei distrattamente, continuando a battere rapidamente sulla tastiera.

Wilson sembrava confuso, ma decise comunque di fare come lei gli diceva.

Si sedette sul divano, e aspettò.

Passarono alcuni minuti, ma Lisa non sembrava avere intenzione di dargli una spiegazione.

“Hai bisogno di qualcos…”

“Fai silenzio per favore. Questi documenti sono importanti.” non distolse lo sguardo dallo schermo del computer neanche per un istante.

“Quindi…sto qui seduto?” chiese l’oncologo titubante.

“Si.”

“Zitto?”

“Si.”
”Senza sapere perché.” osservò infine Wilson. Era una constatazione più che una domanda, e infatti non ci fu nessuna risposta da parte della donna.

L’aveva chiamato qualche minuto prima, chiedendogli se era disponibile per un’oretta.

Lui le aveva risposto che era libero, e l’aveva raggiunta nel suo ufficio.

Poi gli era stato ordinato di stare seduto in silenzio.

“Se io volessi una spiegazione?”

“Sei mio amico, vero?”

“Certo.”

“Quindi puoi farmi un favore senza fare domande?”

“Devo ubbidirti perché sono tuo amico?”

“Si. O se preferisci perché sono il tuo capo.” concluse la dottoressa, finalmente posando gli occhi su di lui.

Wilson si lasciò andare sui cuscini dietro di lui, sentendosi impotente.

Vedendo che non aveva nient’altro da ribattere se non un grosso sospiro, Lisa riprese a lavorare ai suoi documenti.

Passarono altri minuti, riempiti solo dal nervoso battere sulla tastiera di Cuddy. Wilson aveva lo sguardo perso nel vuoto, e la fronte corrugata: stava riflettendo.

“Stiamo aspettando qualcuno?” chiese improvvisamente, come colto da un’illuminazione.

Sentendo la voce dell’oncologo, Lisa quasi si spaventò.

Si era dimenticata della sua presenza.

“No.” rispose in un soffio, scocciata per l’interruzione.

“Stiamo aspettando House.” concluse Wilson, soddisfatto per esser finalmente riuscito a capire qualcosa di quell’assurda situazione.

Cuddy non fece in tempo a ribattere nulla, che House entrò nel suo ufficio, come sempre senza bussare.

“Eccomi, puntuale come sempre!” esclamò al suo ingresso.

Entrambi gli uomini si accorsero del leggero sussulto di Lisa, al suono della voce di House.

Le dita esitarono per un istante sulla tastiera, e poi ripresero a battere in maniera ancora più frenetica.

“Siediti.” ordinò decisa al diagnosta.

House obbedì, stranamente senza replicare nulla.

Nel momento in cui si fece avanti, notò una presenza con la coda dell’occhio; si voltò verso Wilson, guardandolo con aria confusa. “E tu che ci fai qui?”

“Me lo sto chiedendo anch’io…”

Entrambi si voltarono verso Lisa per avere una spiegazione, ma questa continuò a scrivere a computer, senza prestar attenzione a ciò che le accadeva attorno.

O almeno così sembrava.

“Lo hai chiamato perché non vuoi restare sola con me?” insinuò House, mentre un sorriso appena percettibile gli saliva alle labbra.

“Ma non dire stronzate.” rispose lei in modo brusco.

Forse troppo brusco, tanto da bloccare ogni replica da parte di House e Wilson.

Aspettarono in silenzio i secondi che servirono alla donna per finire di compilare i suoi documenti.

Il rumore della stampante che completava il lavoro suonò per tutti come il “gong” d’inizio di una battaglia.

 

Ci aveva ragionato.

Dopo il rapido scambio di battute con House, in corridoio, si era costretta a pensare bene cosa fare.

Tornare come prima era ciò che sarebbe stato meglio per entrambi.

Non era, però, ciò che lei voleva.

Aveva dovuto ammetterlo con se stessa: si era presa una cotta per House.

Certo, gli era sempre piaciuto, ma dopo che era stata a letto con lui, il pensiero di non farlo più le risultava terribilmente angosciante.

Quindi fare finta di niente, e comportarsi come se non fosse accaduto nulla, sarebbe stato…innaturale.

Non ce l’avrebbe mai fatta, finché il suo cuore avesse battuto a quella velocità solo sentendo parlare di lui, e finché l’avessero colta i brividi pensando a quei loro pochi momenti insieme, il pensiero di continuare a fare il capo, con la solita autorità, e quello di accettare con ironia le sue battutine com’era sempre stato, le sembrava impossibile.

Finché era in quello stato, doveva accettare i suoi limiti e comportarsi di conseguenza.

A questo punto, le soluzioni erano due: o riuscivano a stare insieme, oppure doveva toglierselo dalla testa in fretta.

House era fuggito per quasi un’intera giornata, ed era tornato a comportarsi come prima, con naturalezza.

Lui ce l’aveva fatta, e questo era per lei l’ostacolo principale alla soluzione numero uno: non potevano stare insieme se lui riusciva a lasciarla mezza nuda nella tromba delle scale senza neanche guardarla, e la mattina dopo comportarsi come se i due giorni precedenti non fossero mai esistiti.

Lui non voleva nient’altro da lei, oltre quello che si era già preso.

Non voleva finire a sperare che, sotto la sua aria cinica, ci fosse qualcuno in grado di amare: non voleva comportarsi come una ragazzina ingenua, aveva visto abbastanza da sapere che era un’illusione.

Abbastanza matura per capire che voleva stare con lui, così come per capire che questo non poteva accadere.

Quindi doveva farsi passare quella cotta: la soluzione numero due.

Non vederlo per un po’ sarebbe stato l’ideale, ma impossibile dal punto di vista logistico. Non poteva allontanarlo dall’ospedale, né poteva farlo lei.

Aveva pensato allora a una soluzione alternativa: overdose di House. Gli sarebbe stata accanto il più possibile, fino ad avere nausea di lui, fino a non sopportarlo più.

Sapeva che sarebbe successo.

 

I suoi occhi si incrociarono per un istante con quelli di Wilson, ammonitori ma comprensivi.

Ok, aveva deciso di essere onesta con se stessa fino in fondo.

Stare accanto ad House era la sua tecnica per farsi passare quella cotta inopportuna, ma era l’unica via che lasciava anche una speranza all’ipotesi numero uno: se c’era un modo per stare con lui senza che nessuno dei due finisse per suicidarsi, stare accanto a lui…era l’unico modo per scoprirlo.

 

La stampante finì il suo lavoro, e il silenzio li costrinse a parlare.

“Il caso non è più tuo.” disse la donna, guardando House negli occhi.

Le mani le tremavano, ma erano in grembo e non potevano vederle.

“Lo vuoi assegnare ancora a Wilson?!” chiese il diagnosta, scocciato.

“Non so se è il caso...Non sembra trattarsi di cancr…” l’oncologo provò a dare il suo parere, anche se gli sembrava che non fosse lì che Cuddy volesse andare a finire.

Lo interruppe infatti, ancora una volta in maniera troppo brusca rispetto ai suoi soliti modi di fare.

“Il caso lo prendo io.”

“Cosa?!” esclamarono insieme i due uomini.

“Vuoi far morire quel povero ragazzo?!” chiese sprezzante House “Tu sei una burocrate, non puoi occuparti di un caso del genere!”

Nessuno doveva toccare i suoi pazienti nel momento in cui li stava guarendo lui, studiando, scoprendo i loro segreti. Nel momento in cui erano il suo giocattolo.

“Non ho detto che non te ne occuperai più. Ho detto che il caso lo prendo io: le diagnosi differenziali verranno fatte in mia presenza, voglio un aggiornamento costante sullo stato del ragazzo e l’ultima parola su tutte le decisioni, dopo che le avremo discusse. Lavoreremo insieme: io, te e la tua equipe.”

House sembrò esitare, disorientato da quella strana proposta.

Ordine, più che proposta.

Avrebbe controllato ogni sua mossa, e questo era terribilmente irritante.

Allora perché l’idea di averla sempre tra i piedi lo…eccitava?

“Non puoi starmi addosso mentre lavoro Cuddy!” tentò di essere convincente, ma sentì la sua voce molto meno indignata di quanto avrebbe voluto.

“Sei scomparso mentre quel ragazzo peggiorava, e sono il tuo capo. Non solo posso, devo!”

Ottima scusa Lisa…  

Lei stava recitando.

Lui stava recitando.

Entrambi lo sapevano.

Ma tutte queste sensazioni si riducevano ad un confuso stato di turbamento interiore, di natura indefinita, ma...piacevole forse?

House sospirò, abbassando lo sguardo, solo per un istante.

Poi lo riportò su di lei, con aria di sfida.

“Va bene, ma io continuo a lavorare a modo mio. Preparati a giorni movimentati, non sarà facile.”

“Neanche per te.” ribatté Cuddy prontamente.

House scosse la testa, voltandosi e camminando verso la porta.

Si bloccò improvvisamente, come se lo avesse colto un pensiero, o come se qualcosa di indefinito fosse arrivato alla coscienza…

Probabilmente preferì però lasciar perdere, perché dopo aver buttato un’occhiata divertita a Wilson, lasciò l’ufficio senza dire una parola.

 

Appena la porta si chiuse alle spalle di House, Lisa tirò un sospiro di sollievo, dimenticandosi quasi della presenza di Wilson.

Lui aspetto in silenzio che lei lo notasse.

Appena i loro occhi si incontrarono spalancò le braccia. “Ora mi spieghi cosa ci faccio qui?”

Lei gli fece un debole sorriso.

Sembrava imbarazzata.

“Puoi andare Wilson, grazie.”

L’oncologo lasciò cadere le braccia, sconsolato.

“Aveva ragione House? Sono qui perché non volevi stare sola con lui?”

“Sei qui perché avevo bisogno di qualcuno che mi tranquillizzasse. Ora puoi andare, grazie.”

Wilson si alzò titubante, e fece qualche passo verso di lei.

“Lisa, sei sicura di i quello che stai facendo? Dove vuoi arrivare?”

“So dove si potrebbe arrivare, ma no, non sono sicura di niente Wilson. Scusa se ti ho coinvolto.”

“Hai coinvolto House, quindi indirettamente ci sarei finito dentro comunque. Non capisco però…cosa hai in mente?”

“Non importa. Vai per favore.”

Wilson aprì la bocca per ribattere qualcosa, ma vedendo l’espressione della donna decise di lasciar perdere.

L’aveva tenuto lì senza un motivo per quasi un ora, e ora lo stava cacciando ancora senza spiegazione.

Avrebbe dovuto essere almeno un po’ irritato, ma non lo era.

Vedeva il tormento di Lisa nei suoi occhi, quanto le costava tutto questo.

Probabilmente aveva avuto realmente bisogno della sua presenza, e si sentiva debole e stupida per questo bisogno irrazionale.

Le sorrise.

“Quando vuoi un’altra presenza silenziosa al tuo fianco, chiama pure.”

Lei non disse nulla, ma da come le sue mani si sciolsero leggermente, e le sue spalle si rilassarono, capì che era sollevata.

“Grazie.” gli rispose in un sussurro.

Forse cercare l’aiuto di un amico ogni tanto, non era poi così patetico.

 

20 ottobre 2006, h 13.15 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di House

 

“Si, a dirle la verità Mark aveva un fratello.” la voce della donna si incrinò un po’ pronunciando le ultime parole.

Cameron toccò il braccio di Chase, per attirare la sua attenzione.

Lui posò la cornetta dell’altro telefono, e si concentrò sulla conversazione della collega.

“Aveva? E’ deceduto signora?” chiese Cameron, con la dolcezza che usava sempre in queste occasioni.

“Non lo so, dottoressa, e non ho modo di saperlo.”

“Si spieghi meglio.”

“L’ho dato in adozione alla nascita, non potevo occuparmi di due bambini, ero giovane e sola.” il senso di colpa della donna arrivò chiaro a Cameron: solo il rimorso di una madre che abbandona il figlio poteva essere tanto intenso.

“E’ comprensibile signora, lei aveva già Mark a cui badare… Ho bisogno ancora di qualche informazione però: quanti anni aveva Mark quando lei ha dato in adozione il fratello? C’è modo che lui se ne ricordi?”

“No dottoressa. Il bambino che ho dato via era suo fratello gemello.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** 7 - I miei occhi, le mie mani ***


7 – I MIEI OCCHI, LE MIE MANI

 

20 ottobre 2006, h 13.30 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di House

 

“Un fratello gemello?” Foreman sembrava perplesso. Aveva fatto un’altra tac a Mark, ma non era risultato niente di nuovo, quindi quell’informazione era tutto ciò che avevano.

“Si. La mamma di Mark ha partorito due gemelli, e ne ha dato uno in adozione subito.” spiegò Cameron a Foreman e House, che avevano raggiunto lei e il collega in ufficio appena i loro cercapersone avevano suonato.

“Allora il fratello non è inventato…” disse il neurologo, pensieroso.

“No, lo è ugualmente.” lo interruppe Chase “Mark non sa niente di suo fratello, la madre non gliene ha mai parlato.”

“Quindi il fratello esiste ma…se l’è comunque inventato?”

“Così sembra.” confermò Chase.

I tre medici si voltarono verso House, che aveva seguito la loro conversazione senza intervenire.

“Non se lo è inventato. Bisogna solo capire se il fratello è stato qui davvero o se ha avuto un’allucinazione.”

“Ma…se la madre dice che non ne sa nulla…” ribadì Cameron, titubante.

“Il ragazzo parla di un fratello e, guarda caso, salta fuori il fratello gemello segreto. Non può essere una coincidenza.” insistette House, avvicinandosi alla lavagna e prendendo il pennarello.

“Certo che può essere una coincidenza!” otto occhi stupiti si posarono su Lisa Cuddy, che aveva appena varcato la soglia dell’ufficio e stava in piedi, a braccia incrociate, osservando la lavagna con i sintomi.

“Ah! Dimenticavo…Abbiamo un nuovo membro dell’equipe!” informò House, indicando con un gesto Cuddy, che posò lo sguardo su di lui, aspettandosi da un momento all’altro qualche acida battuta da cui difendersi.

La battuta non arrivò, ma il silenzio imbarazzato che seguì la dichiarazione di House fu forse peggio per la donna.

I tre assistenti si guardarono tra loro, confusi.

“Ma…perché?” chiese Foreman, dando voce ai dubbi di tutti.

Lisa esitò; quella domanda, così diretta, non se l’aspettava proprio

Quei secondi diedero la possibilità ad House di intervenire al suo solito modo: “Perché non c’è cosa più eccitante, per lei, che gironzolarmi attorno tutto il giorno.”

A Chase sfuggì un sorriso, mentre si voltava verso Cuddy per vedere la sua reazione. Il sorriso gli scemò non appena incontrò lo sguardo infuocato della donna.

“Non c’è niente da ridere Chase, e tu, House, non dire fesserie. Vista la sua condotta di ieri, preferisco essere presente a tutti i passaggi della diagnosi, così posso controllare da vicino come lavora…” ripeté meccanicamente la scusa che si era preparata quella mattina, e si avvicinò decisa ai colleghi. “Quindi? Cosa sappiamo di questo fratello?”

Si voltò verso Cameron, cercando di concentrarsi sul paziente e non pensare ad House, che si stava lentamente avvicinando, dietro di lei.

“Sappiamo solo che è stato dato in adozione il secondo giorno di vita, la madre di Mark non sa chi sono i genitori adottivi né dove vivono. Non c’è modo di rintracciarli, e non credo neanche che ce ne sia la ragione.” le ultime parole le disse a bassa voce, quasi rivolgendosi solo a Cuddy.

Lei annuì e si voltò dando le spalle a Cameron, per parlare con il resto dell’equipe.

Il suo cuore saltò un battito quando si trovò il petto di House a pochi centimetri dal suo viso.

Il suo profumo arrivò chiaro ai suoi sensi, e un flashback della loro notte insieme annullò prepotentemente i suoi pensieri, cancellando ogni traccia di ciò che stava per dire.

Alzò d’istinto il viso verso quello del diagnosta e, dal suo sorriso arrogante, capì che lui aveva capito.

House aveva capito l’effetto che le aveva fatto, e si stava godendo lo spettacolo di vederla arrossire e boccheggiare le prime sillabe delle sue considerazioni sul paziente, senza riuscire ad andare avanti, né a spostarsi da lì, né a fare nient’altro.

Due veloci colpi sul vetro della porta fecero trasalire entrambi.

“Posso?”

Lo spettacolo che Wilson si trovò davanti lo lasciò parecchio spaesato: House e Cuddy erano a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro, lei visivamente sconvolta e lui decisamente soddisfatto, mentre gli altri tre medici osservavano immobili la scena.

House alzò gli occhi al cielo, mentre Lisa, come se un incantesimo si fosse rotto, prendeva un passo di distanza da lui, incrociando le braccia sul seno.

“Che succede?” chiese seria all’oncologo, resistendo all’impulso di saltargli al collo per ringraziarlo di averla salvata in extremis da una figura penosa.

“Mark rifiuta gli antibiotici che gli avete dato.”

“Ha parlato?” chiese prontamente House.

“No. Ma…”

“Lo ha scritto allora?”

“No House. Però non ha fatto avvicinare l’infermiera che doveva cambiargli la flebo, e quando gli ho parlato mi ha fatto capire chiaramente che non voleva più nessun farmaco.”

“Quindi non ha detto né scritto di non volere i nostri antibiotici.”

“No, non l’ha fatto.” rispose Wilson con un sospiro, sapendo dove voleva arrivare House.

“Ottimo, allora se gli somministriamo un po’ di sedativo perché è parecchio agitato, e poi gli cambiamo quella flebo, non facciamo niente di illegale giusto?” l’ultima domanda era rivolta a Lisa, che aveva assistito sconcertata a quello breve scambio di battute.

“Veramente…” tentò di ribattere, ma si bloccò subito. “No, puoi farlo.” disse, scuotendo la testa.

Tutti i medici la guardarono sbalorditi, House compreso.

“Non ti opponi?” domandò disorientata Cameron.

“No.” rispose Cuddy decisa “Ora devo andare, fatemi sapere come reagisce il paziente alla prossima dose di antibiotici.”

“Ma come? Ci lasci di già?!” chiese House, con voce piagnucolosa.

Lei gli rivolse un breve sguardo, per poi lasciare la stanza senza dire nient’altro.

 

“Sei sempre gentile tu.” il tono accusatorio di Wilson fece sorridere Foreman.

Non si può dire che tu non abbia il tuo grillo parlante, House!

“Che ho detto di strano?!” chiese prontamente il diagnosta, fingendosi offeso.

“Lascia perdere.” rispose rassegnato l’oncologo. “Io devo scendere in ambulatorio adesso. Vedete di scoprire qualcosa su questo ragazzo, ora sembra stabile ma ho la sensazione che sia solo la tranquillità che precede la tempesta.”

“Ti adoro quando parli per frasi fatte!” esclamò House, canzonatorio.

Wilson scosse la testa, ed uscì dall’ufficio dopo aver fatto un rapido cenno di saluto agli altri medici.

Il diagnosta si voltò verso i suoi assistenti. “Cameron, Chase, andate in laboratorio e restateci finché non scoprite che infezione ha colpito il ragazzo.”

“E se non fosse un’infezione?” chiese Cameron.

“Significa che gli stiamo somministrando antibiotici contro la sua volontà inutilmente. Se scopriamo che c’è un motivo valido per farlo non sarebbe male, non credi?”

“Già…” confermò arrendevole la dottoressa.

“Foreman, tu occupati del paziente e tienilo in vita finché non scopriamo qualcosa in più su di lui. Ho la sensazione che ci stia sfuggendo qualcosa…” le ultime parole di House le disse così a bassa voce che i colleghi percepirono solo un anonimo sussurro.

“Tu cosa farai?” si informò Foreman, recuperando la cartella del paziente dal tavolo ingombrato.

“Io e Cuddy cerchiamo il fratellino misterioso!”

Detto questo, lasciò in fretta la stanza, sotto lo sguardo perplesso dei suoi assistenti.

Senza aggiungere altro, anche gli altri tre medici uscirono dall’ufficio preparandosi ad un pomeriggio d’intenso lavoro.

 

20 ottobre 2006, h 13.50 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Toilette

 

Lisa stava guardando il riflesso del suo viso nello specchio.

Aveva ancora le guance rosse, non sapeva più se per l’imbarazzo o per la rabbia che provava verso se stessa.

Gli occhi erano lucidi, ma non aveva pianto. I suoi occhi diventavano così ogni volta che provava un’emozione intensa, indipendentemente da quale fosse.

Era una cosa di lei che aveva imparato ad apprezzare, ma ora, insieme al rossore, quegli occhi lucidi contribuivano a farla sembrare sconvolta, e questo la faceva arrabbiare da pazzi.

Non poteva ridursi così solo perché lo aveva avuto così vicino, solo perché aveva sentito quel profumo e aveva ricordato qualche sensazione confusa di una notte di sesso.

“Non posso.” disse a se stessa, passandosi una mano sulla fronte.

Difficilmente si vergognava di se stessa, e ora ci era pericolosamente vicina.

Aveva deciso di lavorare con lui, ed era bastata una subdola provocazione per farla scappare col volto in fiamme.

Non era da lei.

Non è assolutamente da me.

Non capiva cosa le stava succedendo, la sua capacità di controllare tutti e tutto, comprese le sue reazioni emotive, la stava pericolosamente abbandonando.

Questo la spaventava.

Era vulnerabile, e non era solo House a saperlo.

Wilson.

E adesso anche Chase, Cameron e Foreman.

“Non posso mollare.” quella semplice ammonizione, detta a mezza voce, le dette un po’ di coraggio.

Aprì il rubinetto e lasciò che i polsi le si rinfrescassero un po’ sotto il gelido getto dell’acqua.

Fu quel piacevole scroscio a coprire il rumore della porta che si apriva e si richiudeva.

“Il mio modo di lavorare ti ha già stancata?”

Trasalì sentendo la sua voce.

“House…” spense il rubinetto e si voltò verso di lui, allungando una mano verso il distributore della carta.

Lui la precedette, prendendo due fogli e porgendoglieli.

Lisa si asciugò le mani, mormorando un “grazie.”

“Ti ho spaventata?”

“Abbastanza. Lo sai che questo è il bagno delle donne?”

“Si, lo conosco bene. Vengo qui di tanto in tanto, per riscoprire il mio lato femminile che a volte si perde tra le volgarità della gente attorno a me.” guardò dietro di lei, nello specchio, passandosi una mano nei capelli con enfasi e rimanendo imbambolato qualche istante a fissarsi con ammirazione.

Lisa non poté fare a meno di sorridere per quella divertente scenetta.

“Vieni in bagno a piangere ogni volta che finisci per darmi ragione?” le chiese, tornando a posare gli occhi su di lei.

“Non stavo piangendo. Sono solo venuta qui a rinfrescarmi un po’.”

“Bene, e ora che ti sei rinfrescata possiamo metterci al lavoro.” House alzò un braccio verso la porta. “Prego.”

“Dove andiamo?” Lisa era sorpresa da quella strana scena: House che la raggiungeva in bagno, House che si preoccupava di averla spaventata…House che faceva in modo che lei non mollasse.

Non aveva molto senso quel comportamento, la confondeva.

“Dobbiamo cercare il fratello del paziente.”

“House, non c’è nessun fratello!”

“Se io dico che c’è un fratello bisogna cercare il fratello. Ti sei infiltrata nella mia squadra ma io sono ancora il capo del mio reparto. Nel momento in cui lavori al mio caso perdi tutti i tuoi privilegi di amministratrice del regno, Cuddy. Se lavori con me, lavori per me.”

L’ennesimo sorriso si dipinse sul volto della donna, illuminandolo così tanto che quella morsa allo stomaco colse House ancora una volta.

“Se lavori con me, lavori per me?! Cos’è un nuovo slogan? Mai pensato di farlo scrivere su una maglietta?” chiese divertita Lisa.

“Se il capo dell’ospedale me le finanzia, ne faccio fare una per tutti i miei assistenti. E se fai la brava faccio preparare un modello scollato apposta per te.”

Lisa scosse la testa, ridendo.

“Non penserai davvero di potermi dare ordini?”

House si fece improvvisamente serio, e la guardò negli occhi, così in profondità come solo lui sapeva fare. Tanto da paralizzarti.

“Cuddy quel fratello esiste. Devo sapere se è un’allucinazione o è stato qui davvero. Sai che ho un intuito infallibile…”

Lei sospirò.

“Va bene, proviamo a trovarlo. Ti do tempo fino a domani mattina, poi lasciamo perdere quest’idea folle e ci concentriamo sul paziente, va bene?”

Il compromesso era sempre stato il loro miglior modo di comunicare.

House sembrò riflettere qualche secondo, poi continuò la sua trattativa: “Va bene. Ho tempo fino domani a mezzogiorno, ma tu mi affianchi nelle ricerche. Cameron e Chase sono in laboratorio, Foreman è col paziente. Visto che ho un nuovo membro dell’equipe, devo utilizzarlo in qualche modo, no?”

Lisa incrociò le braccia, il che di solito indicava che stava arrivando l’offerta finale. “Fino alle 10 di domani mattina e io ti aiuto. Però lavoriamo alla pari. Nessuno mi da ordini da anni e ti assicuro che non è un buon momento per ricominciare.”

House le porse la mano, che lei afferrò e strinse con forza.

Se qualcuno li avesse osservati, si sarebbe accorto che quella stretta di mano era durata un po’ di più del normale, che i loro sguardi erano un po’ troppo intensi e il loro respiro più veloce della media.

Avrebbe notato anche che entrambi sorridevano, e che ogni traccia di sofferenza era scomparsa dai loro visi.

 

20 ottobre 2006, h 15.30 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Laboratorio

 

“Non troveremo mai questa infezione, non c’è nessuna infezione.” disse rassegnata Cameron, mentre osservava al microscopio l’ennesimo vetrino.

“Ci mancano ancora alcune delle infezioni più comune e tutte quelle più rare, non darti per vinta.” replicò Chase, accennando un sorriso.

“Ti diverti a stare chiuso qui dentro come un topo da laboratorio con tutti i tuoi adorati virus?” chiese ironica l’immunologa.

“Veramente questo dovrebbe essere il tuo passatempo preferito, non il mio.”

“Col tempo i gusti cambiano…” disse Cameron, quasi tra sé e sé.

Chase le si avvicinò, appoggiando i gomiti allo stesso tavolo dove stava lavorando lei.

“Cosa c’è?” chiese la donna, continuando a guardare nel microscopio.

Chase esitò qualche secondo, prima risponderle: “Può essere che House e Cuddy siano stati a letto insieme.”

Lei si separò dal macchinario, e guardò il collega perplessa. “Lavoriamo qui da anni, perché tiri fuori adesso questa storia?”

“Non parlo di una storia di anni fa, ma di qualcosa di recente.”

Allison si tolse lentamente gli occhiali, appoggiandoli con cura sul duro ripiano. “Stai per spiegarmi lo strano comportamento tuo, di Cuddy e House degli ultimi due giorni?”

Chase le sorrise apertamente, scostandosi i capelli dal viso con un gesto ormai famigliare alla collega. “Già! Ricordi ieri mattina, quando mi sei venuta a svegliare a casa?”

“Si, non credo che me lo dimenticherò in fretta.”

“Avevo i postumi di una sbronza…”

“Si, fin lì ci ero arrivata. E non eri stato l’unico a prenderti una sbronza…anche Cuddy non aveva un bell’aspetto. Quello che mi lascia perplessa è che collegamento può esserci tra questi due fatti…”

“Solo un collegamento casuale…” Chase raccontò alla collega quello che era accaduto due sere precedenti: il suo incontro nel bagno dell’Alexander con Cuddy, l’arrivo di House, e la sua fuga.

Lei ascoltava in silenzio, con gli occhi spalancati dallo stupore, lasciandosi sfuggire ogni tanto un “Oddio…” sussurrato.

“Quindi…tu hai lasciato Cuddy ubriaca in bagno con House.”

“Esatto, e visto il comportamento strano di entrambi la mattina dopo…” Chase lasciò cadere la frase; era ovvio dove voleva arrivare.

“Certo che ci è stato a letto, Chase! House aspettava solo l’occasione e se l’è trovata servita su un piatto d’argento.”

La voce sprezzante della collega colpì l’intensivista.

“Sei…infastidita?” chiese scettico.

“No, sono solo stupita dalla tua ingenuità. Come fai a credere che forse sono stati a letto insieme l’altra notte? E’ ovvio Chase, è palese! Non li hai visti prima?!”

Il medico era meravigliato dalla reazione della collega. “Cameron, non sono un ingenuo. Credo anch’io che abbiano fatto sesso, volevo solo dar loro il beneficio del dubbio.”

“No, tu sei proprio un ingenuo.” disse lei, rivolgendogli un sorriso rassegnato.

Chase corrugò la fronte, mentre piegava leggermente la testa di lato, studiando la collega.

“Cameron…sei gelosa?”

Lei incrociò le braccia, e lo guardò con espressione di sfida. “Può essere…tu sei geloso del fatto che io sia gelosa?”

Chase spalancò la bocca, fingendosi indignato; incrociò a sua volta le braccia, piantandosi davanti a lei.

“Può essere…” rivelò, tenendo gli occhi incollati a quelli della collega.

Quelle insinuazioni aleggiarono nell’aria per qualche istante, poi entrambi incominciarono a vacillare, indecisi su come terminare quello strano gioco di potere.

Fu Cameron la prima a parlare.

“Perché mi hai voluto raccontare tutto questo Chase?” l’imbarazzo nella sua voce era in netto contrasto con l’insolenza di pochi secondi prima.

Lui sembrò spiazzato da quella domanda. “Così…perché sei mia amica.”

“Volevi vedere la mia reazione?” chiese lei, fattasi improvvisamente seria.

Chase la osservò attentamente: quello che vide fu solo paura di essere presa in giro, paura che qualcuno giocasse coi suoi sentimenti, come forse troppa gente aveva fatto.

Le sue intenzioni erano decisamente meno complesse.

Le rivolse un ampio sorriso, e le cinse le spalle con un braccio.

“No Allison. Gossip! Adoro il gossip!” la spinse verso la porta, tenendola stretta. “Andiamo a bere un caffè, stare troppo al chiuso ti fa venire idee strane!”

Lei sorrise a sua volta, mentre si godeva quell’abbraccio sincero.

 

20 ottobre 2006, h 15.30 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di Cuddy

 

“E se si fossero incontrati per caso?”

Lisa era semisdraiata sul divano, dopo quasi due ore che ascoltava le idee assurde dell’uomo per cui aveva un’ingestibile cotta.

House era seduto sulla poltrona di fronte a lei, e le storielle su come Mark poteva conoscere suo fratello gemello, sembravano non esaurirsi ancora.

Avevano parlato a lungo con la madre, con la fidanzata e con amici del paziente, ma quelle telefonate non avevano portato a nulla.

Lisa stava seguendo le pazze idee del diagnosta perché così erano i loro patti, ma era molto scoraggiata e quasi certa che l’esistenza di un fratello gemello separato alla nascita fosse solo una coincidenza.

La testa appoggiata al gomito, guardava House parlare con entusiasmo, mentre la sua mente creava scenari tra loro molto diversi da quello in cui si trovavano.

Nelle fantasie in cui si stava perdendo, erano entrambi poco vestiti e si divertivano sicuramente di più.

“Se si fossero incontrati per caso in qualche colonia, o campeggio, da ragazzini, e si fossero accorti di essere identici?”

Lisa si tirò a sedere più composta, e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, tendendosi verso di lui. “House, questa è la trama di Genitori in trappola(*)." gli disse, come se parlasse a un bambino.

All’uomo scappò una breve risata, mentre distoglieva lo sguardo. “Hai ragione, guardo troppa tv.”

Cuddy si rese conto che nelle ultime ore House aveva sorriso molto di più di quello che lo aveva visto fare in intere settimane. E le aveva appena dato ragione.

Non lo riconosceva quasi.

Fece ammenda di sforzarsi di parlare con Wilson appena avesse potuto, quei continui cambiamenti di House la stavano stordendo, aveva bisogno che qualcuno le dicesse che poteva capitare, e soprattutto che era reale.

Aveva bisogno di essere certa di non stare sognando.

L’aveva provocata e umiliata davanti ai suoi assistenti, e ora la trattava…bene.

La cosa stupefacente era che le era passata tutta la vergogna e il rancore per quello che era accaduto poche ore prima, e ora era tutta presa da questo lato di House, che osservava da lontano, come se quell’armonia fosse una bambolina di cristallo che poteva rompersi al primo movimento brusco.

Lui era tornato ad osservarla, ma i suoi pensieri erano decisamente altrove.

Nessuno riusciva a capire fino a che punto un caso potesse ossessionare House.

“Se i genitori del fratello gli avessero parlato dell’adozione, e questo avesse rintracciato in qualche modo la madre naturale, scoprendo che aveva un figlio della sua età?”

Cuddy sospirò. “Abbiamo tartassato già quella povera donna House, ce l’avrebbe detto se il fratello di Mark l’avesse contattata.”

Lui accolse quella verità in silenzio, soppesandola.

Lisa decise di agire.

Aveva pensato a qualcosa che lei poteva fare, di concreto, per sapere qualcosa di più di questa faccenda, ma avrebbe sollevato un polverone eccessivo…decise che non importava.

House non avrebbe mollato finché non avesse avuto qualcosa in mano, quindi era inutile rimandare quella telefonata, prima o poi avrebbe dovuto farla.

Preferì pensare che era questo il motivo per cui lo aiutava, e non perché voleva farlo contento.

Non era perché voleva vederlo soddisfatto, e voleva che le fosse grato…

Si alzò dal divano, andando decisa verso la sua scrivania.

Lui la seguì con lo sguardo, mentre un’espressione interrogativa gli si disegnava sul volto.

Come Lisa incominciò a parlare con il centralino, chiedendo il collegamento con l’ospedale in cui era nato il loro paziente, quell’espressione interrogativa lasciò spazio all’ennesimo sorriso.

 

Era passata più di un’ora da quando Cuddy si era messa al lavoro, e ora reggeva trionfante un bigliettino.

Lo porse ad House. “Puoi smettere di ossessionarti per oggi.” gli disse. “L’indirizzo dei genitori che hanno adottato il fratello di Mark.”

Il diagnosta prese il foglietto dalle mani della donna, con insolita delicatezza.

“Sei un mostro della diplomazia Cuddy.” le disse, leggendo la grafia tondeggiante del suo capo.

“Grazie.”

House tornò a guardarla, e più quello sguardo diventava profondo, più l’espressione tranquilla e rilassata spariva dal volto di Lisa, per lasciare ancora posto alle guance arrossate e agli occhi troppo lucidi.

Il diagnosta le prese la mano che fino a pochi istanti fa reggeva il foglietto, e tirò Lisa verso di sé con delicatezza.

Si piegò su di lei, e la baciò.

Lei lo lasciò fare, attonita da quel gesto così improvviso, e dal suo ennesimo cambiamento.

Le loro labbra si incontrarono, e pochi istanti dopo le loro lingue.

Fu un bacio dolce, casto rispetto ai loro precedenti incontri.

Mentre la baciava, House le strinse un po’ di più la mano, e lei si limitò a ricambiare la stretta, senza osare muovere nessun altro muscolo.

Si baciarono a lungo, tenendosi per mano.

Poi però la paura di essere scoperti, o forse solo il timore di continuare qualcosa che non si sapeva come controllare, li fece separare, insieme.

“Era un bacio di gratitudine?” chiese Lisa seria, prima che House distogliesse lo sguardo dal suo.

“Non lo so.” House sembrava a disagio, forse più di lei.

Sembrava sincero, non c’era traccia di sarcasmo o cinismo nelle sue parole.

Lei decise di credergli.

House fece un passo indietro, e si preparò al suo solito modus operandi per le situazioni che non sapeva gestire: la fuga.

Sollevò il bigliettino nella sua direzione, solo un istante, come per ringraziarla.

Poi si voltò e sparì.

Il suo profumo si sentiva ancora, e Lisa ne fu felice.

 

 

 (*) è praticamente impossibile che non abbiate mai visto questo film...è quello che ha come protagonista Lindsay Lohan che interpreta due gemelle che, ancora bambine, si incontrano per caso in campeggio e scoprono di essere gemelle divise alla nascita...Visto almeno 500 volte!!!!

 

 

 

Ringrazio di cuore chi dedica il suo tempo a leggere storie, e a dare un feedback!

Un abbraccio,

Vally

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** 8 - La mia lunga notte ***


La mia media di un aggiornamento a settimana è stato stravolto da questo mese e passa di assenza...lo so, perdonatemi.

Sono andata a lavorare in Irlanda, e la chiamata mi è arrivata pochi giorni prima della partenza, non ho avuto tempo di fare nulla!

Scusatemi per l'interruzione :(

Ora sono tornata e tenterò di essere regolare con gli aggiornamenti!

Quiondi ecco l'ottavo capitolo...

Come al solito, aspetto con ansia le vostre recensioni!

Baci,

Vally

 

 

 

8 – LA MIA LUNGA NOTTE

 

21 ottobre 2006, h 01.10 am

Casa di Lisa Cuddy

 

Il sonno non arrivava.

Troppi pensieri si accavallavano uno sull’altro, spintonandosi brutalmente per avere il posto d’onore, occupandole la testa e i sensi.

Quello strano caso medico che sembrava non aver soluzione, House che la provocava, House che la baciava senza un perché, House che la trattava male e poi cercava di farsi perdonare, a suo modo. Ma soprattutto lei.

Lei, Lisa Cuddy, che perdeva il controllo e restava in balia di tutto quello, senza trovare una soluzione.

 

Guardò la sveglia sul comodino: l’una passata.

Si sentiva stanchissima, nelle ultime due notti non aveva dormito che poche ore, ed erano state ore travagliate, in cui sogni tutt’altro che innocenti si alternavano a bruschi risvegli in cui elaborava imbarazzata quelle immagini, senza riuscire ad ammettere a se stessa che non erano nient’altro che i suoi desideri che le invadevano la testa appena il sonno dava loro il via libera.

Quei desideri su House, decisamente incompatibili con il suo lavoro, con la sua vita.

 

Si alzò pigramente e, al buio, si diresse verso il bagno, decisa a mandar giù qualche pillola che l’aiutasse a dormire un po’.

Incominciava a temere che la mancanza di sonno avesse potuto dare il colpo di grazia al suo equilibrio mentale.

Prese due pillole cacciate in fondo a una scatola non troppo piccola, che considerava il suo kit d’emergenza: ansiolitici, sonniferi e, cosa che non avrebbe mai detto a nessuno, qualche pillola di Vicodin. Le era capitato di sfruttare i loro “effetti collaterali” buttandone giù qualcuna con un po’ di whisky, in momenti troppo tristi da sopportare o in altri da festeggiare in modo speciale.

Ovviamente, aveva sempre saputo moderarsi nei suoi vizi.

Anche il vizio “House” era sempre stato sotto controllo: un gioco malizioso fatto di battute e mezze frasi, alternate a scontri verbali in cui sfogavano la tensione che c’era tra loro. Era sempre andato bene così.

Poi c’era stata quella notte, e quella sorta di armonia era stata distrutta.

 

Con le pillole in una mano, e l’altra che l’aiutava ad orientarsi sfiorando le pareti, camminò lentamente verso la cucina.

Si trovava circa a metà corridoio quando sentì bussare debolmente alla porta.

Si bloccò, sentendosi improvvisamente oppressa dal buio fitto intorno a lei.

Trattenne il respiro per qualche secondo, e il silenzio totale in cui precipitò la casa fece accelerare i battiti del suo cuore.

Fece mente locale di dove fosse l’interruttore della luce più vicino, e dopo i primi momenti di smarrimento, riprese a camminare, aggiungendo mentalmente “allucinazioni uditive” alla lista delle conseguenze che tutta quella faccenda stava provocando in lei.

Quando però fu il campanello a suonare, squarciando violentemente il silenzio della casa, trasalì facendo cadere le pillole.

Chiuse gli occhi un istante, cercando di calmarsi.

 

Il cuore continuava a batterle forte nel petto, ma non più per lo spavento.

Le batteva al pensiero di chi poteva essere a suonare a quell’ora a casa sua, al pensiero martellante che fosse lui.

Come per confermare i suoi sospetti, arrivo un altro trillo, questa volta più insistente.

Solo House poteva venire a suonare al campanello di casa tua in piena notte e pretendere anche che gli aprissi in fretta.

Meccanicamente, camminò in fretta verso la porta d’ingresso e la aprì.

La luce dei lampioni ferì aggressiva i suoi occhi, costringendola a portarsi una mano al viso per proteggersi.

“Che ci fai qui?” chiese al diagnosta, cercando di sembrare dura.

La sua voce però tremava, e non solo quella.

“Abbiamo un accordo.” rispose impassibile House.

Sentì la sua mano che le avvolgeva il braccio e la spingeva indietro, dentro casa sua.

Si fece guidare da quel tocco deciso, perfettamente conscia che avrebbe dovuto chiedere spiegazioni, o invitarlo ad entrare, o ordinargli di stare fuori. Insomma, qualunque cosa che non fosse stare imbambolata con una mano sugli occhi, il cuore in gola e il respiro eccessivamente affannato.

Lui si chiuse la porta alle spalle e Lisa sprofondò ancora nel buio più completo.

Questa volta però non era da sola.

La mano di House le lasciò il braccio, ma lo sentiva ancora di fronte a lei.

Rimase in silenzio, combattendo contro la voglia di buttargli ancora le braccia al collo e baciarlo, assecondando i suoi sogni, o desideri, o quel che erano.

 

“Rimarrei molto volentieri qui al buio con te, credimi.” la voce di House era stranamente gentile. Non vi era traccia di sarcasmo.

Lo sentì muoversi, e il click dell’interruttore arrivò insieme alla luce accecante.

Lisa si riportò la mano davanti agli occhi.

“Io quando vado in giro per casa accendo la luce, soprattutto se sto andando ad aprire a un misterioso molestatore notturno.”

“Io no.” rispose Lisa dopo un istante di esitazione, facendo cadere pesantemente il braccio lungo il fianco e guardandolo dagli occhi semichiusi.

“Donna coraggiosa.”

“Già…”

Lo sguardo di House cadde sulle pillole che lei aveva fatto cadere poco prima.

Le passò accanto, e andò a raccoglierle.

“Dottoressa, prendere due di queste insieme è pericoloso, non avevi studiato medicina anche tu?”

“Parla il drogato di Vicodin.” rispose aspra lei, togliendoli in bottino dalle mani.

“Non puoi prenderle quelle.”

“Sono due notti che non dormo.”

“Non dormirai neanche stanotte.”

Lisa lo guardò sinceramente perplessa. “House, che ci fai all’una di notte a casa mia?”

“Non quello che speri tu!” con una mossa rapida le strappò le pillole di mano e se le mise in tasca.

“Ehi!” protestò lei, tentando di ignorare la chiara allusione fatta dal diagnosta.

“Queste te le ridò dopo, ora vai a vestirti.”

Lisa sospirò. “Dove andiamo?”

“A cercare il fratello del moribondo.”

“Di notte?!”

“Non è colpa mia se tu mi hai dato le dieci di domani mattina come limite di tempo! Il ragazzo abita a cinque ore d’auto da qui, se aspettiamo domani mattina ci giochiamo ore preziose.”

“E io cosa…” tentò di protestare Lisa, ma non fece in tempo a finire di parlare.

“L’accordo era chiaro: entro le 10, e tu mi aiuti.” House non ammetteva replica.

Dato lo stato in cui era, Lisa si rese conto che tenergli testa sarebbe stato impossibile, quindi si diresse verso la camera da letto, a vestirsi.

 

Si accorse perfettamente di House che la seguiva, e sentì i suoi occhi addosso mentre, con meticolosa e studiata lentezza, si toglieva vestaglia e pigiama, camminava nuda verso l’armadio e, indossato uno dei suoi sofisticati tailleurs, tornava magicamente ad essere la dottoressa Lisa Cuddy, solo un po’ meno razionale del solito.

I loro occhi si incontrarono nello specchio, solo per un istante.

Lisa fu sicura di ciò che vide: l’immodificabile idea di House di gettarsi in quella notte fredda a cercare il gemello fantasma di un paziente stava vacillando sotto il peso di un’idea decisamente migliore.

Quando gli passò accanto per uscire dalla stanza, sentì i brividi che lo percorsero, ma si sforzò di apparire indifferente.

Lui fece lo stesso.

 

Così due persone che morivano dalla voglia di fare l’amore subito, per avere finalmente ciò che tormentava i loro ricordi e i loro sogni, si limitarono a passarsi accanto, sfiorandosi con lo sguardo e spiandosi nei pensieri.

 

Lisa andò in bagno, si lavò la faccia e si truccò.

Il sonno era passato, si stupì di sentirsi improvvisamente così bene.

 

Mentre aspettava la collega, House prese le pillole di sonnifero e le buttò nel cestino.

Non era quello il modo in cui l’insonnia di Cuddy, e la sua, andavano combattute.

C’era solo un modo per tranquillizzare i loro sogni, e la consapevolezza di quanto questo fosse chiaro ad entrambi lo fece stare bene.

Per un istante si sentì davvero bene.

 

“Andiamo?”

Lisa lo aspettava sulla porta, perfettamente vestita, truccata e pettinata.

Perfettamente Cuddy.

Perfetta con i vestiti e senza.

Sorrise, al pensiero del gioco malizioso che Lisa aveva fatto con lui poco prima.

“Cos’hai da sorridere?” gli chiese lei, fingendosi sospettosa.

“Niente.” le lanciò le chiavi della sua macchina. “E’ che devo raccontare una cosa a Wilson.”

Lisa gli tirò uno schiaffo sul braccio, mentre tratteneva a stento un sorriso.

 

House si mise al posto del passeggero, lanciando alla donna l’esplicito messaggio che toccava a lei guidare.

In pochi minuti si addormentò.

 

21 ottobre 2006, h 03.15 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Spogliatoio

 

Foreman si bloccò di colpo appena varcata la soglia dello spogliatoio.

Era piena notte, era stanco, il ragazzo dalla malattia misteriosa l’aveva tormentato fino a pochi minuti prima e non aveva neppure cenato.

Ci mancava solo la scenetta che si trovò davanti a complicare le cose: Chase, a petto nudo, dormiva su uno dei lettini, come un sasso. Cameron, abbracciata stretta a lui, faceva la stessa cosa, con un’espressione beata che non le vedeva molto spesso in volto.

“Fantastico, io sto dietro al delirio di quel ragazzino fino a notte fonda, e voi amoreggiate nei sotterranei dell’ospedale!”

Vedendo che i due colleghi non accennavano a svegliarsi, andò sconsolato verso le docce: si lavò e si preparò per tornare a casa.

Quando tornò nell’altra stanza, Cameron si era svegliata ed era seduta accanto all’intensivista.

“Ciao Foreman.” gli disse assonnata, appena lo vide.

“Buongiorno, dormito bene voi due piccioncini?”

Cameron guardò Chase, come se si fosse accorta in quel momento che fosse lì accanto a lei.

“No…Noi…E’ solo che eravamo stanchissimi e io non me la sentivo di guidare fino a casa allora…”

“Novità sul paziente?” la interruppe lui, notando che era in imbarazzo e confusa.

Cameron fu disorientata dal brusco cambiamento di discorso, poi sembrò riprendersi e tornare il medico professionale di sempre.

“No, abbiamo fatto test su tutte le infezioni più comuni e sulle più rare. Non è infezione. Siamo in un vicolo cieco.”

“Hai avvisato House?”

“Si, mi ha detto di andare a dormire e non fare nulla finché non ci saremmo incontrati domani mattina. Non so cos’ha in mente, ma sicuramente ha a che fare con il fratello misterioso del paziente.”

“Probabile…bè, finché agisce di notte non dovremo giustificare la sua assenza alla Cuddy.”

Cameron sorrise al collega. “Tu, novità?”

“No, continua a rifiutare le cure, non parla, ma per ora è stranamente stabile.”

“Bene.”

Un silenzio imbarazzante calò su di loro.

Ad interromperlo fu Chase, che mugugnò qualcosa nel sonno, voltandosi dall’altra parte.

Entrambi posarono lo sguardo su di lui, e rimasero immobili finché non si tranquillizzò del tutto.

“Io vado, mi restano poche ore di sonno.” disse il neurologo, prendendo la giacca.

“Torno a casa anch’io, credo di poter guidare ora.”

“Ok.”

“Ok.”

Radunarono in silenzio le loro cose, buttando ogni tanto uno sguardo a Chase, che dormiva ignaro dell’imbarazzo che si era creato attorno a lui.

“Foreman.” Cameron fermò il collega, sulla porta. “Eravamo stanchi e ci siamo addormentati. Tutto qui. E l’abbraccio…c’è solo quello.”

“Non devi darmi spiegazioni.” rispose il neurologo, sorpreso dall’agitazione della collega.

“Lo so, ma tu lavori tutto il giorno con noi e…se ci fosse qualcosa saresti il primo con cui ne parlerei.”

Lui sembrò sorpreso da quella dichiarazione, e non poté trattenere un sorriso.

“Ok Allison, sono onorato. Lo lasciamo qui?”

“Meglio. A casa c’è ancora il suo amico, credo che stia più tranquillo qui.”

“Notte allora.”

“Buonanotte.”

Entrambi lasciarono l’ospedale, mentre Chase continuava a dormire.

 

21 ottobre 2006, h 04.35 am

On the road

 

La strada si stendeva davanti a loro, piatta, dritta e deserta. I fari dell’auto creavano un cono di luce che scompariva non appena ci passavano attraverso.

House aprì gli occhi e ci mise qualche secondo a capire dov’era e cosa stava succedendo.

Si voltò verso Cuddy, che guidava spedita, con lo sguardo concentrato sulla strada.

“Quanto manca?” chiese con voce assonnata.

“Buongiorno.” rispose lei dopo un attimo di sorpresa, come se si fosse dimenticata della sua presenza, come se fosse sprofondata nei suoi pensieri. “Credo che tra un’oretta arriveremo.”

“Bene.”

“Posso sapere qual è il tuo piano?”

“Piano?”

“Si, come intendi procedere una volta arrivati all’abitazione del ragazzo? Sempre che viva ancora lì, sempre che non sia morto o emigrato chissà dove.”

“Pessimista.”

A Lisa scappò una debole risata. “House, è una follia. E io ti sto seguendo in tutto questo…”

Le ultime parole le sussurrò, come se stesse parlando a se stessa.

“Non puoi fare a meno di seguirmi.” disse lui, senza staccare gli occhi dal suo profilo.

“Oh si che posso. E’ solo per questo stupido accordo, lo sai che sono fedele alla parola data.” tentò di difendersi lei.

“No, tu mi avresti seguito comunque. Passare una notte con me è un invito troppo allettante per te, non ci avresti rinunciato mai. Anche se si tratta di guidare tutta la notte…”

Lisa rimase qualche istante in silenzio, distruggendo l’aspettativa di House di sentire una pronta risposta tagliente, a cui ribattere con allusioni ancora più pesanti, per arrivare a uno delle loro solite discussioni cariche di doppi sensi e stupide rivendicazioni.

“Forse dovremmo smetterla con questo gioco di potere e parlare da adulti di quello che sta succedendo.” guardò House, che però non accennò ad abbassare lo sguardo, né a risponderle.

Sospirando, tornò a guardare la strada. “Con te è impossibile comportarsi da adulti, House, ed è impossibile aspettarsi un comportamento coerente o maturo. Doveva essere solo una notte, una notte in cui abbiamo perso il controllo e siamo finiti a letto insieme. Tutto qui, semplicissimo. Capita tra colleghi, mi è già capitato con colleghi. Non se ne parla più, o magari ci si ride un po’ sopra, ma finisce lì. Cosa stiamo facendo noi, invece? Non capisco cos’è, non capisco dove vogliamo arrivare, non…”

“Basta.” House la zittì brutalmente, come infastidito dalle sue parole. “Sei l’unica donna che verrebbe con me a cercare il  gemello fantasma di un paziente, in piena notte e a 500 km di distanza. Quindi non provare a paragonare quello che sta accadendo tra noi a una delle scopate che ti sei fatta per noia con qualche tuo amico o collega. Non voglio più sentire queste cazzate.”

Dopo quel breve scambio, il silenzio scese ancora tra di loro.

House era pietrificato, glielo aveva detto: le aveva detto che quello che c’era tra loro per lui non era un po’ di sesso capitato per caso, ma qualcosa di più. Lo aveva detto a suoi modo, certo, ma sapeva che lei aveva capito.

Lisa, infatti, aveva capito.

Non che fosse meno confusa, dopo quelle parole, ma aveva almeno ottenuto una delle risposte che cercava: andavano da qualche parte. Entrambi non sapevano dove, e magari non erano nemmeno diretti nella stessa direzione, ma House aveva la sua stessa sensazione: le cose non sarebbero mai tornate come prima, l’equilibrio si era rotto e loro erano caduti uno addosso all’altra.

 

Circa un’ora dopo arrivarono davanti all’abitazione dei signori King, genitori adottivi del gemello di Mark. Non erano neanche le sei di mattina, e tutto il quartiere era immerso nel silenzio.

Stava albeggiando, e i colori delle villette attorno a loro incominciavano a risplendere nella luce del primo sole. Ero un quartiere ricco, con case grandi e giardini curati.

“Al paziente è andata male, sarebbe stato più fortunato se il caso avesse scelto lui per crescere in questo bel quartiere.” osservò House, guardandosi in giro mentre si stiracchiava.

“Non penserai di piombare a casa di queste persone alle sei del mattino?!” lo ammonì Lisa.

“Secondo te?” la provocò lui, incominciando ad incamminarsi, senza esitazione, lungo il vialetto che portava all’ingresso.

Cuddy alzò gli occhi al cielo, seguendolo rassegnata. Ancora circa quattro ore, e non avrebbe avuto più nessun obbligo nei suoi confronti.

Si stupirono entrambi quando, suonato il campanello, una donna dall’aria distrutta aprì loro la porta dopo pochissimi istanti, come se si trovasse sveglia dietro la porta, ad aspettarli.

“Buongiorno signora, sono la dottoressa Lisa Cuddy del Princenton Plaisboro Teaching Hospital, mi scusi per l’ora e per lo scopo insolito della visita ma…”

“Dobbiamo vedere suo figlio.” tagliò corto House, parlando sopra la collega.

La donna li guardava inespressiva. “Volete parlare con Simon?”

“Non sappiamo come si chiama, ma solo che è stato adottato alla nascita da lei e suo marito.”

Un uomo arrivò alle spalle della signora. “Non potete parlare con mio figlio. Simon è entrato in coma due giorni fa.”

 

21 ottobre 2006, h 05.15 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Spogliatoio

 

Lo squillo insistente del cercapersone si mischiò prima ai suoi sogni, fino a riportarlo alla triste realtà: non stava assistendo ad una partita di football insieme a una dolce bionda che teneva per mano, ma era in ospedale, sdraiato sullo scomodo lettino nello spogliatoio.

Lesse il messaggio sul display, e si chiese perché era condannato ad avere sempre risvegli così brutti.

Si guardò in giro, Cameron non c’era più.

Probabilmente si era svegliata durante la notte ed era tornata a casa.

Peccato, era stato piacevole dormire accanto a lei, come avevano fatto solo una volta in passato.

Era stato…tenero.

Il cercapersone suonò ancora, e Chase si chiese il perché di quell’insistenza.

Mark Shone era entrato in coma.

Non c’era nulla che lui potesse fare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** 9 - I miei gemelli ***


9 – I MIEI GEMELLI

 

21 ottobre 2006, h 8.50 am

Atlantic City Hospital – Ufficio del Dott. Montgomery

 

“Il coma è sopraggiunto dopo due infarti, a distanza di circa 12 ore uno dall’altro.” disse serio il dottor Montgomery, alla strana coppia di medici che si era presentata quella mattina, decisamente troppo presto, nel suo studio.

L’elemento più strano era lui: un uomo di mezz’età, alto e vestito in modo sportivo, con un bastone che lo aiutava a camminare, e un modo di porgere le domande che lo stava parecchio innervosendo. La donna aveva un aspetto decisamente più normale, se normale si poteva considerare la sua bellezza così…nobile. Osservava preoccupata il suo collega mentre interrogava tutti i medici che erano stati accanto a Blacket durante gli ultimi giorni. Talvolta gli posava una mano sul braccio, come per contenerlo, oppure lo precedeva nei suoi movimenti, per fare in modo che le cose fossero fatte a modo suo. Erano due persone abituate a comandare, che riuscivano però, in un modo insolito e difficile da spiegare, a muoversi in armonia.

“Abbiamo bisogno di una copia della cartella clinica.” affermò decisa Cuddy.

“Abbiamo bisogno del paziente.” disse House, a voce un po’ più bassa, come se la sua fosse solo una correzione di poco conto all’ordine del suo capo.

Una correzione che però non ammetteva replica.

“Cosa?” chiese Cuddy confusa. “House…”

“Il paziente è stabile, ma non è comunque in condizione di viaggiare.” rispose prontamente Montgomery. “Non credo poi che i genitori…”

“Dobbiamo portarlo a Princeton.” ripeté House, quasi tra sé e sé, come se non avesse udito le parole dei colleghi.

“Ci scusi…” mormorò Lisa a mezza voce, mentre afferrava House per un braccio, e lo portava fuori dall’ufficio. “Sei impazzito?!”

Cuddy sapeva benissimo come si sarebbe conclusa quella conversazione, lo sapeva sempre come sarebbero finite quel genere di conversazioni.

Non poteva però fare a meno di provare a farlo ragionare, non tanto per obbligarlo a fare come diceva lei, ma almeno per capirci qualcosa: cosa passava per la testa in quei momenti a quel geniaccio di House?

“Lo voglio nel mio ospedale, nella stessa camera del mio paziente. Li voglio vicini. E voglio che la mia equipe li veda uno accanto all’altro.”

Lisa scosse la testa, anche se aveva già un piano preciso su come trasportare entro il pomeriggio quel ragazzo nel suo ospedale, su come convincere il dottor Montgomery e i genitori di Simon. Ormai non solo assecondava House, ma addirittura anticipava i suoi desideri.

Si odiò un po’ per questo.

“Vedo cosa posso fare.” disse alla fine sconsolata.

Si stupì quando vide le spalle di House rilassarsi, e la sua bocca prendere aria, come se avesse trattenuto il respiro aspettando il suo responso.

“Tu però vai a farti un giro, stai innervosendo tutto il personale dell’ospedale.”

House annuì docilmente, si voltò senza aggiungere nient’altro, e sparì lungo il corridoio.

“Strano…” pensò Lisa, ma poi dovette concentrarsi sulla discussione che stava per affrontare.

Si passò una mano tra i capelli e, rientrando decisa nello studio di Montgomery, si preparò a tirar fuori il suo lato diplomatico.

 

21 ottobre 2006, h 09.00 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di House

                             

“Scusate il ritardo.”

Era difficile che Cameron arrivasse in ritardo, ma quella mattina non aveva sentito la sveglia.

“Non ti preoccupare, tanto non c’è molto da fare.” le rispose Chase, alzando lo sguardo dal suo cruciverba per seguire i movimenti della dottoressa, mentre si toglieva la giacca e indossava il camice.

“Dov’è Foreman?”

“In ambulatorio.”

“Mark?” chiese Cameron titubante, avendo intuito che qualcosa era cambiato.

Chase chiuse il cruciverba e si alzò per preparare un caffè. “E’ entrato in coma stanotte. Terzo stadio. Il cuore sembra reggere, respira da solo.” fece una pausa, per fare cenno all’immunologa di sedersi. Lei obbedì.

“Di House nessuna traccia.” continuò l’intensivista “E’ da stanotte che provo a chiamarlo sul cercapersone e a casa, ma nulla.”

Mise il caffè fumante tra le mani di Cameron, accennandole un sorriso.

“Quindi che facciamo?” chiese lei confusa.

Chase prese in mano il suo cruciverba. “Sei orizzontale: il contrario di tutto.” Poi guardò la collega che gli sorrise con gli occhi sopra il suo caffè.

Passarono pochi istanti, e sentirono dei passi arrivare in fretta.

 

Era Wilson.

 

“Ciao ragazzi.” li salutò distrattamente. “House si è visto?”

“E’ presto.” disse Chase, indicando l’orologio.

Tanto sapeva che se Wilson cercava lì House, era perchè non l’aveva trovato in nessun altro posto.

“Lo so ma a casa non c’è.” rispose infatti l’oncologo.

“E’ dalle cinque di stamattina che provo a contattarlo. Il paziente è entrato in coma.” spiegò l’intensivista.

Wilson rimase soprappensiero qualche istante.

Poi si rivolse ancora ai colleghi, con uno strano imbarazzo. “Avete visto Cuddy…per caso?”

“No.” rispose Cameron, con espressione perplessa. “Sono passata davanti al suo ufficio e non c’era.”

Un silenzio imbarazzante avvolse i tre medici.

“Credete…che le due sparizioni siano collegate?” domandò l’immunologa, cercando di misurare le reazioni di entrambi i colleghi.

Wilson e Chase, d’istinto, si voltarono uno verso l’altro, per poi abbassare lo sguardo.

“Può essere.” disse infine l’oncologo, rassegnato. “Se si fa sentire avvisatemi subito per favore.”

“Va bene.”

 

Quando Wilson lasciò l’ufficio, Cameron si voltò verso Chase, che si era piegato ancora sul cruciverba, sperando di non venir interpellato sulla questione.

“Allora è vera questa storia di House e Cuddy?” chiese l’immunologa.

Chase si limitò a fare spallucce, senza muovere nessun’altro muscolo.

La sentì bere il suo caffè, poi alzarsi.

Gli passò accanto e, senza dire una parola, lasciò la stanza.

 

21 ottobre 2006, h 9.45 am

Atlantic City Hospital – Stanza di Simon Blacket

 

Cuddy si fermò sulla porta, pronta a dirgli qualcosa per il tempo che le aveva fatto perdere a cercarlo in giro per l’ospedale.

Poi vide l’espressione sul suo volto, e si dimenticò che l’aveva fatta arrabbiare già più volte quella mattina.

Riconobbe quello sguardo, e le fece un po’ paura il pensiero di dover dividere il viaggio di ritorno con lui, il resto della giornata con lui, forse anche qualcosa di più intimo.

Aveva nello sguardo quel misto di terrore e adorazione, che gli aveva visto poche volte. Era immerso nel suo enigma, in qualcosa di estremamente affascinante, ma anche di troppo insolito per non spaventare.

Stava in piedi davanti al letto del paziente, stringendo in una mano la cartella clinica, così tanto da avere le nocche bianche.

Si avvicinò e capì l’origine di quella tensione: Simon era Mark.

Era identico, indistinguibile.

Non un chilo di più, stessa pettinatura…stesso pigiama.

Non era possibile che fossero cresciuti così lontani e fossero diventati così simili.

“Non parla.”

La voce di House le arrivò lontana.

Sentì la sua mano che le attraversava la schiena, sfiorandola appena, e si voltò a guardarlo, riuscendo finalmente a staccare gli occhi da quella che avrebbe preferito fosse un’allucinazione.

“Simon non parla, da quindici anni.” ripeté alla collega.

“Cos’è successo?” chiese Lisa, tornando a posare gli occhi su quel ragazzo, non potendone farne a meno.

“Un cancro. Una guarigione miracolosa.” guardava il profilo della donna, tenendo gli occhi lontani da quello che gli sembrava una specie di fantasma “Poi ha smesso di parlare, da un giorno all’altro. Aveva 7 anni.”

Finalmente i loro occhi si incontrarono.

“Un ictus?” chiese lei, sapendo benissimo che un ictus in un bambino di quell’età era qualcosa di eccessivamente raro.

“Non risulta.”

Rimasero in silenzio, gli occhi di lui immersi in quelli di lei, mentre tentava di trascinarla nella sua ossessione.

“Ce lo portiamo a Princeton.” disse lei, come per rassicurarlo.

Sembrò funzionare.

House annuì, posando finalmente la cartella.

“Arriverà un elicottero a prenderlo, sarà a Princeton nel pomeriggio.” precisò la dottoressa.

Senza dire nient’altro camminarono fianco a fianco fuori dalla stanza, fuori dall’ospedale.

 

Erano ormai a metà strada, e Lisa guardava fuori dal finestrino del passeggero a metà tra il sonno e la veglia, quando il tocco della mano di House sul ginocchio la fece trasalire.

“Stavi dormendo?” le chiese lui, stupito dalla sua reazione, così esagerata.

“No, è che…”

“…quando mi tocchi non capisco più niente”?

“…non vedevo l’ora di sentire le tue mani ancora addosso”?

“…stavo sognando a occhi aperti  di te”?

Decise di far cadere la frase, ogni continuazione che le veniva in mente sarebbe stata decisamente inappropriata.

“Sai…stavo pensando a stanotte.”

Lisa ringraziò Dio che stesse guidando, perché almeno doveva tenere gli occhi sulla strada. Se in quel momento l’avesse guardata, l’avrebbe vista arrossire come una ragazzina.

“Lo fai spesso? Intendo spogliarti davanti ai tuoi colleghi.”  House sembrava aver intenzione di tormentarla, ora che non poteva scappare.

Un modo come un altro per non ossessionarsi col caso di quel ragazzo, almeno finché non aveva la possibilità di tradurre ogni ragionamento in lista ordinata, con lavagna e pennarello.

“No!” rispose lei indignata. “E lo sai benissimo.”

Ancora imbarazzante silenzio.

“E’ stato simile: guardare te che ti spogliavi, e quel ragazzo, quel Simon, mezzo morto in ospedale.”

Lisa gli rivolse uno sguardo allibito, indecisa se insultarlo subito o aspettare che si spiegasse meglio.

“Ero in entrambi i casi bloccato, rapito da qualcosa di affascinante tanto da far paura, sapendo benissimo che il mio compito, in quel momento, era quello di fare qualcosa. Ma nulla, non ho fatto niente.”

Lei rimase immobile e silenziosa, a riflettere su quelle parole.

House non poté sopportarlo, i silenzi così pieni lo confondevano. “Tranne le reazioni fisiologiche!” esclamò a voce un po’ più alta. “Quelle sono state decisamente diverse.”

Lisa sorrise, anche se ancora imbarazzata dalla sua sfacciataggine di quella notte.                 

Non era pentita ma…era come se avesse liberato un lato di lei che sapeva essere troppo personale. Ed era contenta d’averlo fatto.

Quello che House disse qualche istante dopo però, le fece passare quella sensazione di serenità che la stava avvolgendo.

“Non so se saprò affrontarlo, Cuddy.” Questa volta si voltò a guardarla, solo per un momento, solo per assicurarsi che lo stesse ascoltando. “Non so se riuscirò a fare quello che dovrei.”

La sua mano scivolò lentamente dal ginocchio della collega e nessuno dei due parlò più per tutto il viaggio.

 

21 ottobre 2006, h 2.45 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di House

 

“Arriverà tra circa un’ora.” House entrò a passo spedito nel suo ufficio, bloccandosi di colpo quando si accorse che ad aspettarlo non c’era nessuno dei suoi assistenti.

Solo Wilson, seduto alla scrivania, con il suo Game Boy in mano.

Avrebbe fatto dietro front e fatto perdere le sue tracce fino all’arrivo del paziente, se Wilson non avesse fatto in tempo a rivolgergli uno dei suoi sguardi ammonitori, che riuscivano a farlo sentire in colpa anche nei momenti in cui, miracolosamente, non aveva combinato nulla.

Alzò gli occhi al cielo, per mostrare il suo disappunto.

“Dov’eravate finiti?” chiese l’oncologo, incrociando le braccia.

“Motel a ore!” esclamò candidamente House. “Per sbaglio ho pagato fino all’ora di pranzo, e non avevo intenzione di buttare via i soldi, quindi siamo rimasti fino ad ora.”

Rapidamente, raggiunse la sua lavagna, sperando che Wilson demordesse.

Ovviamente, questa opzione poteva considerarsi quasi paranormale.

L’oncologo, con calma, si alzò e seguì l’amico nell’altra stanza.

“Cosa succede?” chiese al diagnosta, che gli dava le spalle, rivolto alla lavagna, con il pennarello sospeso a mezz’aria.

“Il mio paziente è stato clonato.” House si voltò verso l’amico, posando il pennarello. “Sono sconvolto!”

Wilson lo guardò con espressione perplessa.

“Non riesco a pensare, non so come risolvere questo caso, Wilson! Ho bisogno di pensare, ho bisogno di stare solo!” alzò eccessivamente la voce, ma l’oncologo non fece una piega.

“Che tu la chiami “caso”, o Lisa Cuddy, il senso non cambia.” le parole di Wilson lo irritarono e lo spaventarono nello stesso momento. “Lo vedo che sei sconvolto.”

Rimasero a guardarsi qualche istante, in silenzio, poi Wilson lasciò solo l’amico, come lui desiderava.

 

 21 ottobre 2006, h 2.45 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Stanza di Mark Shone

 

La camera di Mark Shone, fu il primo posto dove Lisa andò appena arrivò in ospedale. Doveva vedere quel ragazzo, ora che aveva ancora stampata chiara nella mente l’immagine del fratello gemello.

Entrò, si avvicinò al letto e sfiorò il braccio del ragazzo: era in coma, proprio come il fratello.

Si accorse di avere la pelle d’oca.

Forse fu per quella strana inquietudine in cui era immersa che si spaventò così tanto quando sentì un rumore dietro di sé.

“Scusa Cuddy, non volevo spaventarti.”

Cameron era seduta su una sedia, in un angolo della stanza, con in mano una rivista scientifica.

“Non mi hai spaventata.” rispose Lisa, ricomponendosi “Solo che non ti ho vista entrando.”

Cameron si alzò, avvicinandosi a lei e al paziente.

“E’ entrato in coma stanotte, ma resta stabile.” spiegò.

“Lo so, Chase ha chiamato House un paio d’ore fa, mentre tornavamo da Atlantic City.” lo sguardo perplesso della ragazza la spinse a continuare “Abbiamo trovato il fratello gemello. E’ nello stesso stato…ed è identico.”

Entrambe guardarono il ragazzo, immobile nel suo letto.

“E pensare che tutti davamo ad House del pazzo…invece questo fratello fantasma esisteva veramente.” disse Cameron, soprappensiero. “Lui è sempre un passo avanti a noi.”

Lisa la guardò, indecisa se farle o no quella domanda che aveva pensato più volte di rivolgerle, anche se non avevano un rapporto abbastanza confidenziale da renderlo opportuno.

Cameron la precedette.

“Sono tutti convinti che io sia innamorata di House.” alzò gli occhi su Cuddy, sorridendole. “E ora mi tengono segreto ciò che c’è tra di voi, per paura che ne possa soffrire.”

Lisa inarcò le sopracciglia, perplessa.

Rifletté qualche istante, poi prese per un braccio la collega, allontanandola da quel letto e da quello strano paziente.

“Se dovessi scoprire cos’è che ti tengono segreto, per favore vienimelo a dire. Perché io non riesco proprio a capire cosa ci sia tra me e House.”

Entrambe sorrisero, forse per la prima volta una all’altra.

“Agli ordini.” mormorò l’immunologa, prima di prendere la porta.

“Cameron!” Lisa la chiamò quando ormai stava girando l’angolo, e lei si voltò. “Io non credo che tu sia innamorata di House, né che lo sia mai stata.”

La dottoressa alzò le braccia, in un gesto di indifferenza “Neanch’io!”

Cameron lasciò la stanza, dirigendosi all’ufficio di House.

Dopo tre anni che lavorava lì, quella era la prima volta che sentiva Lisa Cuddy, in qualche modo, vicina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** 10 - Il mio cuore, la mia mente, la mia anima ***


10 – IL MIO CUORE, LA MIA MENTE, LA MIA ANIMA

 

21 ottobre 2006, h 4.15 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Stanza di Mark Shone

 

“Mettetelo lì.” ordinò House ai due infermieri che spingevano il letto di Simon Blaket.

I due uomini ebbero qualche esitazione quando videro il ragazzo che giaceva immobile nell’altro letto presente nella stanza.

“Che c’è? E’ il vostro primo gap spazio-temporale?!” House si avvicinò al letto, facendo cenno agli infermieri di muoversi, con i suoi soliti modi non molto cortesi. “Questi due ragazzi stanno morendo, sbrigatevi così poi potrete correre a dire alle vostre mamme che avete visto il primo clone umano della storia.”

I due uomini posizionarono il letto di Simon accanto all’altro, e lasciarono la stanza, non prima di aver buttato un’ultima occhiata a quei due corpi precisamente identici.

Cameron, Foreman e Chase aspettarono che gli infermieri si fossero allontanati, prima di entrare nella camera.

House fissava i due pazienti come in trance; si posizionarono alle sue spalle, cercando di non far nessun rumore, come se ci fosse qualcosa di sacro nell’esistenza di due individui così simili.

“Non ho mai visto gemelli identici fino a questo punto.” Foreman parlò a bassa voce, ma bastò a destare House dai suoi pensieri.

Si voltò verso di loro, e li guardò negli occhi uno per uno.

Nessuno di loro abbassò lo sguardo, e lui si chiese per un istante qual era stato il momento in cui quei tre ragazzi che aveva assunto perché doveva farlo, erano diventati tre medici di cui si fidava.

“Spero abbiate portato il pigiama e lo spazzolino, perché nessuno tornerà a casa stanotte.”

 

21 ottobre 2006, h 4.15 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di Cuddy

 

Lisa alzò lo sguardo dalle carte che stava firmando, sentendo bussare al vetro della porta.

Era Wilson.

“Ciao, ti disturbo?” chiese, avvicinandosi alla scrivania.

“No, vieni pure.” Lisa si tolse gli occhiali, posandoli accanto ai documenti.

“E’ arrivato il fratello fantasma.”

“Si, insieme a mille fogli da firmare. Odio tutta questa burocrazia…”

“E’ il tuo lavoro.” osservò l’oncologo, sorridendole apertamente.

“Hai ragione…”

Wilson non disse nient’altro, limitandosi a guardarla mentre faceva vagare lo sguardo per il suo ufficio, imbarazzata da quel silenzio, ma forse più da quello che temeva sarebbe venuto dopo.

Quella scena ricordava ad entrambi, in modo troppo nitido, la loro conversazione di un paio di giorni prima, in ambulatorio.

“Siediti Wilson, tanto non cercherò di scappare.” disse Cuddy alla fine, incominciando, senza rendersene conto, a giocare nervosamente con la sua collana.

Wilson obbedì, continuando a guardarla senza parlare.

“Sto facendo il mio lavoro: ho trovato quel ragazzo insieme ad House, e ora compilo le scartoffie.”

“Lo sai che la probabilità di trovare quel ragazzo erano minime, così come le possibilità che fosse in qualche modo utile al nostro paziente.?” chiese con tranquillità Wilson.

“Si, ma il ragazzo esiste ed è probabilmente la chiave del caso.” si sporse verso il collega “E io sto bene, nel pieno delle mie facoltà mentali.”

“Già, è perfettamente da te seguire un collega a 500 chilometri di distanza, dopo che ti è venuto a svegliare in piena notte direttamente a casa, quando potevi semplicemente cercare il numero di telefono sulle guide e risolvere in cinque minuti questa mattina. Dimmi che non ci avevi pensato.”

Lisa alzò gli occhi al soffitto, sconcertata dall’ostinazione del collega.

“Wilson, non mi tatuerò il suo nome intorno all’ombelico, né preparerò lenzuola ricamate per il corredo! Non mi trasformerò in una quindicenne con una cotta per il suo professore! Sono IO! Forse ho esagerato andando fino ad Atlantic City con lui, ma è andato tutto bene. Cosa vuoi fare?” incrociò le braccia, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia “Licenziarmi?”

L’oncologo non riuscì a trattenere una risata.

Lisa non gli staccò gli occhi di dosso, aspettando che la smettesse spontaneamente e cercando di allontanare l’idea di fermarlo prendendolo a calci.

“Finito di ridere di me?” chiese la dottoressa, appena Wilson si ricompose.

“Scusami, scusa davvero.” L’oncologo fece il possibile per ritornare serio. “E’ che a volte reagite in maniera molto simile, e mi fa un po’ paura. Ridevo per sdrammatizzare.”

“Io non reagisco come House!” si oppose Lisa, realmente sorpresa da quall’accusa.

“Cuddy non ti arrabbiare con me, per favore…”

“Si lo so, tu sei solo qui per accertarti che la mia serietà professionale non affoghi in un mare di cuoricini rosa.”

“No.” Wilson tornò completamente serio. “Questa volta volevo parlarti di House. Di quello che sta succedendo tra voi due.”

Senza farlo apposta, la mano di Lisa tornò lentamente a tormentare la catenina che portava al collo.

“Non credo potrei dirti molto…”

“Dimmi solo una cosa: è solo sesso per te?”

Wilson le fece questa domanda senza un attimo di esitazione, guardandola negli occhi, serio.

“Ma…cosa?” Lisa divenne rossa in viso. Fece un respiro profondo prima di continuare. “Perché dovrei parlartene? Perché dobbiamo parlarne?”

“Perchè House è mio amico. Tu lo conosci bene, ma non quanto me. Sto cercando di proteggerlo perché credo che il fondo l’abbia già toccato, e non lo voglio vedere scavare.”

A Lisa scappò una risata nervosa. Scosse la testa, passandosi una mano in fronte. “Credo che tutte le tue preoccupazioni con House siano sprecate. Non è certo un uomo che rischia di venire usato e di veder feriti i suoi sentimenti. Se c’è qualcuno di cui ti devi preoccupare non è certo lui.”

“Sei tu?”

“No! Non devi preoccuparti per nessuno Wilson, siamo due adulti! Sei patetico…” si pentì subito di quello che aveva appena detto.

“Sarò patetico, ma tu ti stai comportando come una ragazzina testarda!” le puntò un dito accusatore, mentre per la prima volta in vita sua, Lisa lo sentiva alzare la voce.

Lo guardò con gli occhi spalancati, senza sapere cosa dire. Nessuno, che non fosse sua madre, si era mai rivolto così a lei.

“Se House avesse voluto solo portarti a letto, l’avrebbe fatto già da tempo! Non avrebbe avuto nessun problema a passare una notte di sesso con te, Cuddy! Se non l’ha mai fatto fino ad ora è perché ti stima come medico e come persona, ti considera un’amica, si fida di te! Per questo deve mantenere le distanze, lui ha paura di avvicinarsi troppo alle persone che gli piacciono! Ora è successo quello che è successo, e lui è sconvolto.”

Lisa continuava a fissarlo trattenendo quasi il respiro, con la bocca semiaperta, come se le parole che stava per dire le si fossero bloccate a metà strada.

“Io…” si schiarì la voce “Io non credo sia solo sesso.”

Lo disse con un filo di voce, senza perdere il contatto visivo con Wilson.

L’oncologo annuì, rilassandosi un po’. “Scusa se ti ho parlato così, ma io e House siamo amici da tanto e sento di avere delle responsab…”

“Ok.” lo interruppe lei in modo forse troppo deciso. “Va bene, Wilson. Ora è meglio che vai.”

Lui annuì, alzandosi dalla sedia.

“Solo una cosa.” disse ancora lei.

“Si?”

“Sei anche mio amico. Se questa volta a raschiare sul fondo ci finisco io, ti dovrai occupare di me.”

“Va bene…” rispose a mezza voce l’uomo.

Poi si voltò e, senza aggiungere nient’altro, lasciò l’ufficio del suo capo.

 

21 ottobre 2006, h 4.50 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di House

 

Un riga verticale divideva la lavagna in due per tutta la sua lunghezza.

Com’era capitato solo raramente, in cima alle due colonne si trovavano i nomi dei pazienti.

“Mark” e “Simon”, e a seguire tutti i sintomi, elencati con ordine.

La scrittura non era quella di House; aveva consegnato il pennarello a Cameron, si era appoggiato alla parete con lo sguardo fisso sulla lavagna, e aveva incominciato a dettare quel macabro elenco.

Lei aveva scritto tutto senza dire una parola, buttando ogni tanto uno sguardo preoccupato al suo capo.

“Allora!” esclamò il diagnosta, allontanandosi dalla parete e camminando verso la lavagna. “Il nostro paziente aveva il cancro. E’ guarito per un motivo che ancora non conosciamo. Lo mandiamo a casa finalmente sano e lui torna pochi giorni dopo lamentando dispnea. E’ un sintomo terribilmente noioso e lui, per non deluderci, si fa venire un infarto. E poco dopo anche un ictus! Che tesoro…” House fece un bel respiro per riprendere fiato. “Quando si risveglia scopriamo che non riesce a parlare. Una bella donna si avvicina al suo letto e lui prova a tagliuzzarla con un coltello…” d’istinto tutti buttarono uno sguardo sulla fasciatura al braccio di Cameron. “Follia omicida provocata dalla paranoia, provocata a sua volta da un’allucinazione! Il suo fratellino esiste, e non può esser stato qui: quindi, allucinazione.”

House si voltò un attimo verso l’entrata dell’ufficio: Lisa Cuddy lo fissava appoggiata alla parete.

Tornò a guardare la lavagna. “E ora veniamo al gemello separato nella culla…A circa 5 anni gli diagnosticarono un cancro al fegato, che guarì, sempre per un motivo che ancora non conosciamo, un anno dopo. Circa sei mesi dopo il bambino miracolato smette di parlare, senza motivazione apparente. Cresce, diventa un uomo, ma continua a non spiaccicare parola. Due giorni fa arriva al pronto soccorso di Atlantic City con un arresto cardiaco. Lo stabilizzano e dopo 12 ore ha un altro infarto. Si riprende ma non completamente: resta in coma.”

Quando House si zittì, nessuno ebbe niente da dire.

Gli occhi di tutti i medici erano incollati a quella lavagna, e i loro cervelli cercavano di collegare fatti, analizzare possibili cause, pensare possibili soluzioni. Ma era un rompicapo.

“Ci troviamo con due fratelli gemelli di 22 anni in coma, che hanno perso l’uso della parola e che sono guariti improvvisamente dal cancro.” osservò Lisa.

Gli occhi di tutti erano posati su di lei.

“Il risultato è lo stesso, ma le tempistiche sono state diverse. Non c’è niente in comune nel loro…tempo.” concluse Cuddy.

“E neanche nello spazio.” aggiunse Foreman. “I ragazzi sono cresciuti separati.”

Seguirono altri minuti di silenzio carico di dubbi.

“Qualcuno ha qualche idea?” chiese Chase infine.

Tutti, d’istinto, si voltarono verso House, che fissava ancora la lavagna, impassibile.

“Io credo…” disse, a voce così bassa che per un attimo i suoi assistenti pensarono stesse parlando da solo “Io credo che dev’esserci un punto di contatto. Un punto in cui si sono incontrati nel tempo e nello spazio. Quello è il nostro momento chiave.”

Cameron incrociò le braccia, perplessa. “Quindi?”

House sembrò destarsi in quel momento dallo stato di trance in cui era caduto.

Si voltò verso i suoi assistenti: “Cameron, rifai tutti gli esami di routine al gemello e uno screening genetico ad entrambi, voglio sapere che suggerimento ci danno i loro cromosomi. Chase, contatta i genitori e gli amici di entrambi i ragazzi e chiedi tutti gli spostamenti che hanno fatto da quando sono nati: gite scolastiche, fughe da casa, campeggio con gli amici. Trovami il momento in cui si sono incontrati.” Chase annuì, prendendo per un braccio Cameron e trascinandola fuori dalla stanza.

“Foreman” il diagnosta si voltò verso il neurologo “Voglio sapere come mai un bambino smette di parlare a 7 anni, di punto in bianco. Fai delle ricerche, cerca dei precedenti: voglio una lista delle possibili cause entro stasera.”

“Ok.”

Anche Foreman uscì dall’ufficio.

House tornò a fissare la lavagna, stringendo nervosamente il suo bastone.

“Posso esserti d’aiuto anch’io?”

La voce di Lisa lo colse di sorpresa, si era quasi dimenticato che c’era una persona in più nella stanza.

“Oh, dimenticavo che fai parte dell’equipe per questo caso.”

“Già…”

“Bhe, sfrutterò la tua potenza istituzionale…”

Lo guardò con espressione perplessa.

“Chiama l’FBI. Chiedi degli agenti Mulder e Scully, temo che ci sarà bisogno della loro esperienza.”

Cuddy gli rivolse un ampio sorriso. “House, quello è un telefilm.”

“Peccato.” rispose il diagnosta, abbassando per un istante lo sguardo. “Si sarebbero divertiti un mondo qui, quei due.”

Tornò a guardarla, e il cuore di lei perse qualche battito quando vide che sorrideva.

Un sorriso appena accennato, ma bellissimo.

Fece quei pochi passi che lo separavano da lei, e le si fermò davanti, un po’ più vicino di quanto avrebbe fatto con un collega qualunque. Non tanto vicino da insospettire le persone che passavano davanti all’ufficio e potevano vederli attraverso le pareti di vetro, ma abbastanza da far venire i brividi ad entrambi.

“Ci stiamo bruciando con tutto questo fuoco, lo sai Cuddy?”

“A me piace il fuoco.”

“Anche a me piace, ma non so se ne usciremo vivi.”

“E chi ha detto che dobbiamo uscirne?”

Quel breve scambio di parole senza senso apparente, aleggiò su di loro per qualche istante. Le sentirono poggiarsi sulla loro pelle, come gocce di lava.

House sentì che la sua solita paura lo assaliva, ma questa volta non fu un peso sul cuore, ma solo una piuma che gli solleticava l’anima.

Per la prima volta sentì che forse poteva conviverci per un po’.

Sentì che per lei ne valeva la pena.

“Ti conviene andare nel tuo ufficio Cuddy, il dottor Montgomery potrebbe chiamare per avere informazioni sul ragazzo.” era una semplice comunicazione di lavoro, ma il tono con cui House lo disse le fece venire la pelle d’oca. “Io devo portare queste cartelle a Wilson.”

Detto questo le passò accanto, senza aspettare nessuna risposta, e lasciò la stanza.

Lisa riprese a respirare quando i passi di House non si sentivano ormai più.

Alzò gli occhi al soffitto, prendendo una boccata d’aria.

“Aiuto…”

Questa parola assurda le sfuggì in un sussurro, e si sentì terribilmente stupida.

Era solo un uomo, un uomo che conosceva bene.

Sorrise tra sé e sé.

Lo sguardo le cadde sull’armadietto di metallo, dove vide il suo viso riflesso.

Era rossa in viso , aveva gli occhi lucidi e un sorriso ebete stampato in faccia.

Sono completamente pazza di lui…

Finalmente, riuscì ad ammetterlo a se stessa.

 

21 ottobre 2006, h 5.10 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di Cuddy

 

Lisa era in piedi di fronte alla finestra.

I suoi occhi vagavano distrattamente sul monotono paesaggio, mentre la sua mente correva dietro a pensieri veloci e confusi, ma soprattutto forti.

Così forti da soffocare i suoi sensi, impedendole di sentire, dietro di lei, la porta che si apriva e si richiudeva, il frusciare delle tendine che venivano chiuse con un rapido gesto, e i passi lenti di un uomo che la raggiungevano.

Non un uomo qualunque, ma quello che le aveva occupato l’anima in modo violento e arrogante, e che ora la percorreva in lungo e in largo, cercando forse un’uscita, forse un nascondiglio dove rimanere per sempre: lei non lo sapeva.

Si accorse di lui solo quando sentì il tonfo del bastone che cadeva, dietro di lei.

Non si spaventò, ne si voltò; non se la sentiva di guardarlo negli occhi, non in quel momento.

La vampata di calore al ventre la colse prima che potesse capire cosa l’aveva provocata.

Bastò un rapido viaggio lungo la sua pelle per trovare i punti di contatto, quelli da cui il fuoco era entrato.

Il braccio di House era scivolato agile intorno alla sua vita, sotto la camicetta, e ora i polpastrelli della sua mano le sfioravano la pancia, così delicatamente da farla impazzire.

Con l’altra mano aveva percorso tutta la lunghezza del suo braccio, abbandonato lungo il fianco, e dopo aver giocherellato un po’ con le dita di lei, le aveva intrecciate alle sue.

Per un tempo che sembrò lunghissimo rimasero in religioso silenzio, e tutto quello che Lisa riuscì a percepire fu il leggero contatto delle sue carezze sulla pancia, che perdendo senza fretta la loro innocenza, si spostavano sempre più in basso, fino a che arrivarono a sfiorarle l’orlo delle mutandine. Chiuse gli occhi, cercando di tuffarsi con tutti i tuoi sensi in quel momento, e di scacciare il suo raziocinio che da un angolo della sua mente le ricordava che erano nel suo ufficio, in ospedale, con un caso importante tra le mani…non era il momento di perdere tempo in fantasie erotiche, o realtà che fossero.

House era perso nella visione del riflesso del viso della donna nel vetro della finestra: osservò il suo respiro che accelerava, e le labbra che si dischiudevano leggermente per catturare più ossigeno, gli occhi che si chiudevano e le guance che prendevano colorito.

Non aveva il coraggio di riflettere in quel momento su cosa provasse per lei, ma un pensiero non riusciva proprio a scacciarlo: non ricordava di aver mai visto o sentito cosa più bella.

Lasciò la mano della donna e con il braccio le cinse le spalle, attirandola a se e affondando il viso nei suoi capelli.

Lei non oppose resistenza, e si lasciò sfuggire un gemito che gli fece girare la testa.

Le afferrò anche la vita e la strinse forte contro il proprio corpo.

Finalmente i loro sguardi si incontrarono, nel riflesso della finestra.

Lisa sentiva quanto lui la desiderasse, e quello che provò quando se ne rese pienamente conto, fu qualcosa di pericolosamente simile alla felicità.

House le tolse le parole di bocca quando, sussurrando tra i suoi capelli, disse quelle parole che avrebbero aleggiato su di loro per molto tempo.

“Ho bisogno di te.”

Questo, le disse.

 

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Capitolo 11
*** 11 - La mia porta chiusa ***


11 – LA MIA PORTA CHIUSA

 

21 ottobre 2006, h 5.10 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di Cuddy

 

[…]

“Ho bisogno di te.”

Questo, le disse.

 

Era la prima volta che si metteva così a nudo, in un terreno così pericoloso come poteva essere quello del suo rapporto con Lisa.

Non aveva mai ammesso di aver bisogno di qualcuno, nemmeno con se stesso.

Tanto meno con la diretta interessata.

Ma i loro corpi si urlavano addosso questo bisogno da tempo, e ora che anche la sua mente era così intrisa di lei, le sue labbra non erano più riuscite a trattenere la verità.

Quella verità che si era impossessato di lui, togliendoli ogni controllo.

Non smise di guardarla nel debole riflesso sul vetro, come se staccare gli occhi da lei avrebbe significato perderla.

Con le braccia la stringeva forte contro di sé, con gli occhi la incatenava in una comunicazione silenziosa, con un significato troppo spaventoso per esprimerlo ad alta voce.

Erano due persone indipendenti, dedite al lavoro, sole da tempo; da troppo tempo.

Non potevano stare insieme.

Lui non era capace a stare con nessuno.

Le avrebbe fatto del male, e lei non era tipo da farsi annientare da un uomo.

Per questo l’amava, e per questo quell’angoscia snervante gli attanagliava l’anima.

Un terribile paradosso: voler vicino qualcuno che però standoti accanto soffrirebbe e basta…distruggendo così anche una parte di te.

Ora però lasciarla andare era impossibile.

Le sue braccia si opposero al suo raziocinio, stringendo Cuddy ancora più forte.

La sentì trasalire, come se non si aspettasse che un contatto fisico potesse diventare più intimo di quello che già era.

House chiuse gli occhi, appoggiando il viso ai suoi capelli, cercando di dimenticare che Cuddy era un’altra persona, cercando di dimenticare che poteva allontanarsi da lui.

Voleva fosse solo qualcosa di suo.

“House…” la voce di Lisa gli arrivò lontana, come se fosse caduto in uno stato di trance.

“House, mi fai male.”

Sciolse l’abbraccio.

Scostando il braccio dalle sue spalle, con la mano le sfiorò per sbaglio il seno, provocando una scossa elettrica ad entrambi.

“Scusa.” disse, un po’ in imbarazzo.

“Niente.” rispose lei, trattenendo il sorriso che le salì spontaneo alle labbra, pensando a tutte le volte che l’aveva toccata di proposito, sostenendo con insolenza di averlo fatto per sbaglio.

Allora era un gioco e adesso si faceva sul serio.

La fragilità di House, ben nascosta sotto la sua sfrontatezza, le apparve d’un tratto come qualcosa di palpabile.

Fu solo per un istante, poi si voltò e il contatto con i suoi occhi di ghiaccio le impedì un’altra volta di pensare coerentemente.

Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non trovava le parole.

Allora lo baciò, e sembrò il gesto più naturale del mondo.

Come il giorno veniva con il sole, e spariva con lui, così le loro labbra dovevano essere unite in quel momento.

Era l’ordine delle cose.

Gli passò le braccia intorno al collo, mentre le mani di House tornarono a posarsi sui suoi fianchi.

Si persero in quel bacio; occhi chiusi e orecchie solo per la musica che avevano dentro.

 

Wilson e Chase si diressero con passo spedito verso l’ufficio della Cuddy, sperando di poter riferire almeno a lei le importanti novità sul caso, e magari di avere notizie di House, sparito per l’ennesima volta.

Non fecero caso alle persiane chiuse; in qualunque altra situazione Wilson avrebbe bussato, ma in quel momento aveva notizie troppo importanti da comunicare, più importanti della sua buona educazione.

Non ci fu niente, quindi, ad impedirgli di trovare House e Cuddy in piedi accanto alla finestra, impegnati in un bacio da oscar, tanto da non sentirli neanche arrivare.

Wilson si bloccò di colpo sulla soglia, con la maniglia della porta ancora in mano.

Chase, che aveva fatto fatica a stare dietro al suo passo e quasi correva dietro di lui, gli finì pesantemente addosso.

“Oddio…” l’oncologo si portò una mano agli occhi, dando le spalle ai due colleghi.

Voltatosi, si trovò Chase a pochi centimetri, che guardava lo spettacolo con occhi e bocca spalancata, neanche fosse un ragazzino davanti al suo primo film porno.

“Via, via!” lo incalzò a bassa voce.

L’intensivista sembrò destarsi e fece quei due passi indietro che permisero a Wilson di chiudersi la porta alle spalle.

Si trovarono uno di fronte all’altro, decisamente confusi sul da farsi.

“Ma hai visto?!” chiese Chase sconcertato.

“Si ma…lasciamo stare, sono fatti loro.” Wilson si ricordò che, da bravo amico, era il caso tentasse di difendere la privacy di House e Cuddy.

“Si certo, immaginavo ci fosse qualcosa tra loro dopo quella notte in bagno…tutti ubriachi.” Le parole confuse di Chase furono accolte dall’espressione perplessa di Wilson. “Ma…vedere House con una donna! Insomma, non pensavo potesse baciare una donna senza…senza divorarla!”

Wilson era sempre più perplesso.

Scosse la testa, preoccupato da quella situazione.

“Adesso facciamo finta di non aver visto niente, bussiamo, e quando Cuddy ci apre esponiamo le novità sul caso e poi ce ne andiamo senza il minimo accenno a ciò che abbiamo visto. Credi di potercela fare?” rimase in ansiosa attesa di una risposta da parte del giovane collega, che sembrava perso nei suoi pensieri. “Chase!”

“Ah, si si. Nessun problema.”

Wilson non era affatto convinto, ma non aveva scelta.

Si voltò di nuovo verso l’ufficio di Cuddy, e quasi si spaventò nel vederla sulla porta, mentre li fissava, forse un po’ turbata.

“Tutto bene?” chiese ai due uomini, cercando di sembrare il più rilassata possibile.

In realtà, aveva aperto gli occhi appena in tempo per vedere Wilson che si chiudeva la porta alle spalle, ed era terribilmente in imbarazzo.

“Si, abbiamo delle novità sul caso.” disse Wilson avvicinandosi.

“Per caso House è con te? Lo stavamo cercando…” Chase pensò che era un ottimo modo per togliere a Cuddy ogni dubbio di esser stata vista.

Mise però troppa enfasi nella sua domanda, col risultato che suonò quasi ridicola.

Lisa sospirò, fissando Wilson negli occhi, in un misto di rimprovero e ricerca d’aiuto. “Entrate.” disse rassegnata.

Wilson buttò un’occhiata infastidita a Chese.

“Ma che ho fatto?” sussurrò questi all’oncologo mentre lo seguiva, ma l’unica risposta che ricevette fu un gesto stizzito.

 

Trovarono House stravaccato sul divano di Cuddy, con la sua solita aria arrogante.

“Allora? Che porti a papà?” si alzò e raggiunse Chase, strappandogli di mano i fogli che portava con sé.

“I due fratelli si conoscevano.”

“Lo immaginavo. Qualcosa di più interessante?”

“Si sono conosciuti quindici anni fa, durante una colonia estiva. L’estate in cui Simon ha smesso di parlare.”

House sembrò soprappensiero.

Si voltò un istante verso Cuddy “Hai visto che faccio bene a guardare tanta tv? E’ come nei film.”

Poi rivolse ancora l’attenzione al suo assistente. “Altro?”

“Si. Il migliore amico di Mark mi ha riferito che i due fratelli si vedevano regolarmente, almeno un paio di volte l’anno nell’ultimo periodo. Mark gli aveva chiesto di non farne parola con nessuno, e così non ne sapeva nulla neanche la sua ragazza.” Chase prese fiato. “E il ragazzo parlava con lui, House! Intendo Simon…l’amico di Mark sostiene che i due fratelli si parlavano spesso al telefono. Questo significa che Simon non è realmente muto.”

“Intendi che finge di essere muto da quindici anni?!” chiese incredula Cuddy.

“No, non esattamente.” passò un foglio a Lisa, scritto con calligrafia quasi illeggibile. “Questo risale a circa un anno fa.”

“Caro fratello, devo confessarti una cosa.” incominciò a leggere la donna, mentre gli altri tre ascoltavano in completo silenzio “Se non parlo con nessuno oltre che con te, non è per i motivi che tu pensi. E’ che non ne sono capace. L’ho capito ora. Io non posso parlare, perché la mia voce è quello che Dio si è preso in cambio della mia vita, della mia guarigione dal cancro. Ho capito ora la verità: tu sei me. Noi non siamo fratelli separati alla nascita, ma un anima brutalmente divisa in due corpi. Tu non esisti senza di me, ed io esisto solo con te. Per questo mi senti. Ed è per questo che tu soffrirai, come ho sofferto io. Per questo impazzirai, come sono impazzito io. Non puoi scappare fratello. Quando il tuo destino ti avrà preso ci sarò solo io accanto a te. Solo la mia voce sentirai, e solo io potrò sentire la tua.”

Ci fu qualche istante di silenzio.

“E’ completamente pazzo.” dichiarò poi House, sprezzante.

“Già…” confermò Chase, a mezza voce. “Grazie a questa corrispondenza ho però tutta la lista di posti in cui si sono incontrati. Ho fatto una ricerca e uno dei nomi che ho trovato è un paesino sperduto nell’africa centrale. Potremmo partire da lì…Foreman sta cercando possibili virus e parassiti che si possono incontrare in quella zona, e sono riuscito a rintracciare un paio di persone che li hanno accompagnati in una parte del viaggio, così ci diranno cos’hanno visitato.”

“Bravo.” disse House.

Chase guardò scettico il suo capo, aspettandosi da un momento all’altro l’accompagnamento sarcastico a quel complimento.

Ma non arrivò nulla.

“C’è ancora una cosa.” disse Wilson, interrompendo quel momento idilliaco per il giovane assistente.

Tutti gli occhi furono su di lui.

“Il tumore si è riformato. In entrambi.”

Nessuno osò dire niente, mentre la speranza di aver finalmente incastrato due pezzi del puzzle, veniva immediatamente distrutta.

 

 

 

Scusate la brevità del capitolo, ed eventuali errori.

Sono in partenza per Kiev, e ci tenevo a pubblicare un capitolo prima di iniziare questa settimana, che sarà emotivamente impegnativa.

Se trovate errori, per favore segnalatemeli, e provvederò a correggere al mio ritorno.

Vi ringrazio tantissimo per le recensioni, che sono preziosissime.

Spero di trovare presto il tempo di rispondervi personalmente.

A presto!

Vally

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** 12 - La mia fine che non c'è ***


12 – LA MIA FINE CHE NON C’E’

 

21 ottobre 2006, h 5.50 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di House

 

Cameron trasalì quando House, Cuddy, Wilson e Chase entrarono con passo spedito nell’ufficio, come un piccolo esercito pronto ad attaccare.

House sbatté le cartelle che teneva in mano a pochi centimetri dal suo braccio ferito, che lei ritrasse rapidamente, portandoselo al petto e guardando il suo capo con aria interrogativa.

“Voglio il mio neurologo, dov’è?” le chiese.

“Sta facendo delle ricerche…” rispose lei esitante.

“Chiamalo.” le ordinò House.

Cameron raggiunse la scrivania del suo capo, e alzò la cornetta per contattare il collega; il suo sguardo si incrociò con quello di Chase, e capì che c’erano novità importanti.

 

Nell’arco di pochi minuti, furono tutti riuniti davanti alla solita lavagna, a cui era stata aggiunta doppiamente la dicitura “cancro”, con la scrittura inclinata di Wilson.

“Ho trovato qualcosa” disse Foreman, aprendo al centro del tavolo un libro che dalle dimensioni poteva racchiudere l’intera storia dell’umanità. “Chrystopea carnya.”

L’intero gruppo di medici si raccolse intorno a quel libro, osservando perplessi la foto, ingrandita centinaia di volte, di quello che sembrava un innocuo verme.

Alzarono lo sguardo insieme, e si ritrovarono a fissarsi l’un l’altro.

House incrociò gli occhi di Cuddy, e riabbassò subito lo sguardo, come se guardarla in pubblico avesse potuto rivelare a tutti quello che provava per lei.

“Vuol dire che c’è un parassita che può provocare tutti questi sintomi in un così largo lasso di tempo?” chiese Wilson al neurologo, dubbioso.

“No.” si intromise House. “Questo parassita spiega gli infarti, l’ictus, il cancro. Se poi colpisce due psicotici, possono aggiungersi sintomi che non c’entrano nulla…che non sono neanche sintomi.”

“Il fatto che i due fratelli non parlino non è un sintomo?” Cameron sembrava confusa.

“Se non potessero parlare, si potrebbe considerarlo un sintomo. Ma loro possono, semplicemente non parlano.” chiuse il libro, provocando un sordo tonfo che ruppe il silenzio che si era creato. “Simon è pazzo; da quando è bambino. Un bambino psicotico che è cresciuto coltivando la sua malattia nel silenzio più completo, cosa che l’ha fatto classificare come bambino strano, problematico, ma che non ha permesso di capire la sua reale condizione mentale. Alcune patologie psichiatriche hanno una componente genetica, e si possono scatenare in seguito ad un trauma…un cancro ad esempio, con ospedalizzazioni, terapie, distacco dai genitori.”

House camminava ora avanti e indietro, appoggiandosi al suo bastone con una mano e gesticolando con l’altra. Di tanto in tanto si fermava, guardava qualcuno di loro.

Chase, Cameron e Foreman, ma anche Wilson e Cuddy, seguivano ogni suo movimento con lo sguardo, cercando di non perdersi nessuna parola, nessuna pausa. Quello era il suo momento, quella era la parte del gioco in cui dava il meglio di sé.

“A Mark è andata meglio…fino ad un certo punto almeno. Conosce il fratello, decide di dividere un segreto enorme con lui. Una persona normale avrebbe fatto fatica a reggere. Per uno che, come lui, ha iscritte nei geni le tracce della pazzia, è la partita che ti porta alla perdita dell’intero campionato. Regge finché non si ammala di cancro…o meglio, finché non guarisce dal cancro. A quel punto le teorie del suo fratellino segreto, quelle che abbiamo trovato nella lettere, lo assalgono, e perde la ragione. Smette di parlare, perché -tu impazzirai come sono impazzito io-!” accompagnò la citazione con un ampio gesto, e con un sorriso sinistro. “E con questo vi ho spiegato la parte della loro malattia dovuta all’idiozia della psiche umana; ora Foreman vi spiega quella medica…io ho bisogno di un sorso di whisky.”

Camminò fino alla libreria e, spostati un paio di libri, tirò fuori una bottiglia quasi vuota. Bevve a canna, assaporando il familiare sapore, e nel frattempo la sensazione di poter fare qualcosa di proibito davanti al suo capo…senza che lei prendesse provvedimenti. Perché era sicuro che dopo gli ultimi giorni, un po’ di potere su di lei l’avesse ottenuto. Probabilmente a discapito di ogni sua difesa emotiva, ma era comunque una consolazione.

Foreman si schiarì la voce, attirando l’attenzione dei medici. “Il Chrystopea carnya è un parassita che vive in molte regioni dell’Africa, ma che difficilmente attacca l’uomo. Quando lo fa, si riproduce in fretta e colpisce il sistema cardiocircolatorio: da qui ictus e infarti. Per quanto riguarda i tumori, questo parassita provoca, dopo qualche mese, mutazioni cellulari, a livello del tessuto molle, causando la formazione di piccoli tumori maligni, di solito asportabili senza conseguenze, se presi in tempo.”

“Come i tumori che ho trovato poco fa nei due fratelli…” chiarì Wilson. “Ma cosa mi dici a proposito del cancro che ha colpito Simon da bambino e Mark un anno fa…e delle loro guarigioni?”

Foreman scosse la testa.

“Io avevo detto che spiegava infarti, ictus e cancro, senza specificare quale cancro!” disse House in sua discolpa.

“A questo punto però la causa delle guarigioni non devono interessarci più di tanto. Abbiamo una diagnosi che spiega tutto quello che non va adesso nei pazienti, e possiamo curarli.” affermò pragmatica Cuddy.

“Si, i tumori vanno rimossi, e bisognerà fare un intervento esplorativo per eliminare le uova del parassita, che di solito si accumulano nel fegato. Infine, con una plasmaferesi ripuliamo il sangue ed eliminiamo il rischio di altri infarti o ictus.”

La donna annuì e, vedendo che House aveva lo sguardo perso nel vuoto e sembrava non voler dare nessuna indicazione ai suoi assistenti, ordinò loro di procedere con le operazioni e la terapia.

Cameron, Chase e Foreman lasciarono la stanza, dopo essersi divisi rapidamente i compiti.

 

“Due psicosi che provocano il mutismo, e due tumori guariti miracolosamente? Ti accontenti di una diagnosi che lasci fuori questi elementi?” lo provocò Wilson, appena furono rimasti solo loro due e Cuddy.

House lo guardò appena. “Perché, credi che stiamo sbagliando?”

“No! Io credo che la diagnosi sia corretta. Quello che mi stupisce è che sia tu a crederlo…insomma, quei due tumori possono essere una coincidenza, ma non per te!”

Lisa seguiva la discussione a qualche passo di distanza, sorpresa anche lei dalla facilità con cui House aveva accettato una diagnosi che sicuramente non lo convinceva.

Lo conosceva bene, e vedeva che c’era qualcosa che non andava.

I loro sguardi si incontrarono.

“Lisa…” si rivolse a lei chiamandola per nome, con una spontaneità che spiazzò entrambi.

Anche Wilson ne fu molto sorpreso, anche se sapeva della quasi-relazione tra i due, non si aspettava certo un cambiamento così brusco in House.

“Vi lascio soli.” disse “Vado a dare una mano a Chase per organizzare quelle operazioni.”

House annuì distrattamente, senza distogliere lo sguardo da quello di Cuddy.

Le si avvicinò di qualche passo. “Ceni da me stasera? Poi possiamo vederci un film…”

Lei non dovette dire una parola, perché il sorriso che le salì alle labbra, illuminandole il volto, era meglio di qualunque “si”.

 

 

21 ottobre 2006, h 7.20 pm

Abitazione di Gregory House

 

House ci aveva provato, ci aveva provato davvero.

Aveva boicottato il vecchio minimarket sotto casa per il supermarket in periferia di Princeton, quello di cui facevano anche la pubblicità in tv.

Solo per il fatto di essere entrato in un supermarket, Wilson sarebbe stato orgoglioso di lui.

Aveva preso un carrello e aveva incominciato a spingerlo per le corsie di…di quell’inferno.

Risultato?

Dopo quasi un’ora era riuscito finalmente a trovare l’uscita senza acquisti; la speranza di comprare qualcosa si era dissolta nel momento in cui si era trovato bloccato in un ingorgo di carrelli carichi di cose inutili e bambini, nella corsia di bagnoschiumi.

Un’intera corsia di bagnoschiumi…

Aveva preso il suo primo Vicodin della giornata, mollato il carrello, e facendosi largo col bastone era riuscito a liberarsi da quel covo di serpi.

La probabilità di trovare quello che cercava là dentro era praticamente nulla.

Aveva ripreso la moto ed era tornato verso casa, e verso l’amato minimarket, con il vecchio commesso italiano che lo conosceva bene, e glielo dimostrava ogni giorno non rivolgendogli mai la parola: proprio il genere di accortezza che lui amava.

Quando si era trovato davanti alla serranda chiusa, gli era improvvisamente tornato in mente che il suo minimarket di fiducia chiudeva alle sei e mezza…e per questo a casa sua non c’era mai niente da mangiare.

Colpì diverse volte la saracinesca col bastone, sperando che il suo amico italiano vivesse là dentro, e che potesse dargli qualcosa, qualunque cosa di commestibile da cucinare.

Non accadde nulla.

Per qualche secondo pensò addirittura di chiamare Wilson implorandolo di cucinare qualcosa per loro; ma non avrebbe mai ammesso con l’amico di non riuscire a gestirsi da solo neanche un appuntamento.

Non era un appuntamento, era una cena col suo capo.

Non importava cosa quella cena rappresentasse, era comunque una cena e quindi bisognava mangiare.

Tornò a casa dieci minuti prima delle 7 e mezza, dieci minuti prima dell’ora dell’appuntamento.

Non aveva avuto tempo di cambiarsi, né di lavarsi, né di mettere in ordine la casa.

Aprì il frigo: un hamburger, una cassa di birra e uno yogurt.

Nel freezer trovò una pizza surgelata.

Da quanto tempo non invitava qualcuno a cena?

 

21 ottobre 2006, h 7.37 pm

Abitazione di Gregory House

 

Il campanello suonò, con sette minuti di ritardo.

Aveva almeno una decina di battute con cui tormentarla solo per quel piccolo dettaglio, ma quando aprì la porta e se la trovò davanti, le parole che voleva dirle si confusero tutte nella testa, e gli uscì solo un automatico “ciao”.

“Ciao House.”

Sembrò non notare che aveva ancora addosso la camicia di quando la era andata a svegliare nel pieno della notte, la barba di due giorni prima, e che sul suo divano c’era ancora la coperta di quella notte…la notte in cui lei era stata lì.

Si tolse il soprabito, e lui pensò che forse doveva fare qualcosa come prenderlo e andarlo a posare da qualche parte, ma lei fece da sola, lasciandolo cadere su una sedia.

Le aspettative di Cuddy nei suoi confronti in quanto ad appuntamenti galanti erano scarse, e questo lo fece sentire più tranquillo.

Il modo in cui vestiva era semplicemente perfetto: ancora in rosso, come in quella splendida notte. Il vestito era però più sobrio, senza peccare di professionalità: quella era ancora Cuddy, il suo capo, e non Lisa, la donna con cui era stato a letto qualche giorno prima.

Probabilmente la paura di lasciarsi andare non era solo una prerogativa del diagnosta.

“Hai fame?” le chiese, con un tono di voce un po’ troppo alto, che tradì il suo imbarazzo.

“Si, un po’” rispose lei, guardandosi attorno.

“Avrei preferito tu mi dicessi di no.” mugugnò House tra sé e sé, mentre si dirigeva verso la cucina. “Guarda pure un po’ di tv, io vado a cucinare, e a fare un po’ di cose…ho passato due ore al supermercato, non ho avuto neanche tempo di cambiarmi!” le disse, quando ormai le aveva voltato le spalle.

Lisa si sedette sul divano, e prese il telecomando, accendendo meccanicamente la tv, mentre i suoi pensieri erano decisamente altrove.

Era rimasta davvero sorpresa da quell’invito a cena: era strano da parte di House…non era da House! Solo pensarlo in un supermercato le era praticamente impossibile, e l’idea che cucinasse per lei…

Era tutto troppo normale, e lei era terribilmente spaventata.

 

Passò circa mezz’ora, prima che House si facesse rivedere, comparendo improvvisamente alle spalle di Lisa, ancora persa nei suoi pensieri.

“E’ pronto” le disse, posandole una mano sulla spalla.

Lei si voltò, e non poté fare a meno di sorridere quando vide che si era fatto la barba e che indossava una camicia azzurra, quella che lei preferiva per come faceva risaltare i suoi occhi.

Sfiorò con le dita la mano di House sulla sua spalla, prima di alzarsi e seguirlo in cucina.

Lo scenario che si trovò davanti non fu quello che ci si poteva spettare da una cena per il primo appuntamento: i due piatti, uno davanti all’altro, contenevano mezza pizza e mezzo hamburger a testa, e oltre ai due bicchieri e alle posate, c’erano solo cinque lattine di birra ghiacciata.

Lisa avrebbe dovuto forse essere un po’ offesa per quella strana accoglienza, ma in realtà si sentiva rincuorata: quello era l’House che conosceva lei, era ancora se stesso.

“Fuori dal supermercato hai incontrato dei bambini affamati e il tuo buon cuore ti ha costretto a donar loro tutto il cibo comprato?” gli chiese, prendendo posto, e iniziando quel gioco ironico tra loro che li rassicurava entrambi.

“Ho detto di essere andato al supermercato ma non ho mai detto di aver comprato qualcosa.” rispose House, cercando confusamente qualcosa in un cassetto.

Sembrò poi aver trovato ciò che cercava, e lo portò trionfante al tavolo.

Era un vecchio mozzicone di candela, che mise in fondo ad un bicchiere, e accese.

“Così è tutta un’altra cosa vero?”

Cuddy, di risposta, gli fece uno di quei sorrisi che gli facevano girare la testa.

“Buon appetito.” House aspettò che lei sollevasse le posate e incominciò a mangiare.

Mangiarono in silenzio, incrociando spesso gli sguardi e scambiandosi fugaci sorrisi. Non che non avessero nulla da dirsi, ma l’esperienza di mangiare insieme, in un contesto così intimo, era qualcosa di così nuovo e speciale che meritava un religioso silenzio.

Lisa finì la sua mezza pizza, riconoscendo che con il forno a microonde House doveva essere un maestro.

“L’hamburger non lo mangi?! L’ho fatto con il braccino di un bimbo di quattro anni…gliel’hanno amputato, non gliel’ho tagliato io! Giuro!”

House vide una finta espressione disgustata affacciarsi sul suo viso, e si rese conto che provocarla era una delle cose più divertenti che avesse mai fatto. Con lei si divertiva sempre, forse anche quando litigavano e lo faceva arrabbiare negandogli qualche permesso.

“Quasi quasi mi hai convinta.” rispose lei, prendendo la forchetta e avvicinandola alla carne. Poi la posò ancora al suo posto, e lo guardò. “House, non mangio carne e…” gli versò un po’ di birra nel bicchiere. “…io non bevo birra.”

House alzò gli occhi al soffitto “Ma non puoi consegnare un libretto di istruzioni quando ti chiedono di uscire?! Io come faccio a farti ubriacare se non bevi birra?”

Lisa non poté fare a meno di ridere davanti alla sua finta esasperazione. “Non ti preoccupare, avevo avuto uno strano presentimento e avevo mangiato un’insalata prima di venire qui, quindi la pizza mi è bastata. In quanto al bere…grazie alla mossa della candela verrò probabilmente a letto con te anche da sobria!”

“Guarda che scherzavo.” rispose House, fattosi improvvisamente serio.

“Anch’io.” ribatté la donna, con la sua stessa espressione.

Dopo qualche istante in cui si fissarono indecisi sul da farsi, scoppiarono entrambi a ridere.

House mandò giù l’ultimo boccone di carne e una lunga sorsata di birra, poi si alzò e portò in tavola una bottiglia d’acqua.

La osservò mentre si versava un po’ del limpido liquido nel bicchiere, e beveva lentamente, come per prendere tempo.

Quando posò il bicchiere, e si trovarono a fissarsi dai due lati del piccolo tavolo, quel fastidioso imbarazzo li colse ancora.

Probabilmente sarebbe bastato che uno dei due si alzasse e si avvicinasse all’altro per rompere quel leggero velo d’ansia, ma non lo fecero.

Quello era il loro primo appuntamento, e doveva procedere come un vero appuntamento.

Era una sorta di test per capire se potevano funzionare al di là di come colleghi o compagni di letto.

“Allora, a che film hai pensato?” chiese Lisa, inclinando leggermente la testa, come per studiarlo.

Merda, il film!

House si era organizzato per prendere un film al noleggio vicino al supermarket, ma con il fallimento della “missione spesa”, quel dettaglio gli era passato di mente.

“Ehm…o qualcosa in casa, decidi pure tu.”

“Va bene!” rispose lei, alzandosi rapidamente dalla sedia, e precedendolo in salotto.

House buttò un occhio al mezzo hamburger rimasto illeso, lo prese con la mano e fece un grosso morso; poi lo abbandonò dove l’ave trovato e seguì la donna nell’altra stanza.

La trovò seduta per terra, davanti alla sua piccola bacheca dei VHS, con un’espressione parecchio perplessa in volto, e una videocassetta familiare tra le mani.

“No, aspetta!” si diresse rapidamente verso di lei, e gliela strappò di mano “In questo film ci sono un sacco di donne che fanno strane cose con altre donne…non vorrei che ti venissero strane idee e mi andasse in bianco la serata.”

Lisa lo guardò con gli occhi spalancati. “House, ma sono tutti film porno!”

“No.” precisò lui, porgendole la mano.

Lei, dopo un attimo di esitazione, la afferrò e lui l’aiutò ad alzarsi.

Non mise di stringere la sua mano quando furono in piedi uno di fronte all’altra, né quando incominciò a camminare verso la camera da letto.

“Non dovevamo vedere un film?” chiese Lisa titubante, mentre lo seguiva con un misto di timore e curiosità.

“Si, ma visto che sembri non apprezzare la mia selezione, ti faccio decidere tra quelli di seconda scelta.”

Lasciò la sua mano solo quando fu davanti al suo armadio, lo aprì, tirò fuori una vecchia scatola di scarpe e gliela aprì davanti.

“Rambo…Rambo 2, Rambo 3…” lesse ad alta voce Lisa, “Vada per Rambo.” disse infine sconsolata, accorgendosi che la seconda scelta si esauriva con quei tre film.

“Fantastico, adoro Rambo! Abbiamo gli stessi gusti in fatto di film, incoraggiante vero?” senza aspettare una sua risposta, il diagnosta tornò nell’altra stanza.

Cuddy lo seguì, lanciando sguardi attenti a tutto ciò che c’era intorno a lei: disordine ed eccentricità, che invece di irritarla le davano una piacevole sensazione di familiarità .

House fece partire il film e si sedette sul divano accanto a lei, passandole un braccio intorno alle spalle ed attirandola a sé in modo teatrale.

Lisa si lasciò cadere contro il suo corpo, e qui rimase, godendosi la sensazione di piacere che provava nello stare a stretto contatto con lui, e dimenticandosi totalmente del film.

Lo stesso probabilmente aveva fatto House, perché il volume era bassissimo, e i dialoghi praticamente incomprensibili.

Nessuno dei due sembrava preoccuparsene.

“Cuddy?” chiese lui dopo diversi minuti, quando ad entrambi stava venendo il dubbio che l’altro si fosse addormentato.

“Si?”

“Credi che la diagnosi dei gemelli sia corretta?”

Il tono che House aveva usato non piacque a Lisa, che si liberò del suo abbraccio e si voltò per guardarlo in viso. “Perché mi fai questa domanda?”

Lui scosse la testa, soprappensiero.”Ho la sensazione che mi stia sfuggendo qualcosa…” disse a mezza voce.

In quel momento Lisa sentì una grossa confusione: aveva anche lei la percezione che ci fosse qualcosa di mancante…dopo tutto il movimento che c’era stato intorno a quei ragazzi, quello che avevano ottenuto le sembrava troppo poco. Ma sapeva anche che era tutto quello a cui sarebbero arrivati, e se avrebbe fatto stare bene i gemelli, tutto si sarebbe risolto per il meglio.

House non era abituato a lasciare scoperti alcuni sintomi, e la sua tensione derivava probabilmente da questo.

Si rese conto che qualunque risposta da lei data in quel momento avrebbe fatto iniziare un discorso a sfondo medico che non aveva nessuna voglia di affrontare.

Così si sporse verso di lui e lo baciò.

Un bacio leggero, sfiorandogli appena le labbra.

Poi si scostò quel poco che bastava a guardarlo negli occhi e vide che la fissava incerto sul da farsi.

Si ricordò la prima volta che si erano trovati su quel divano insieme, e le tornò in mente l’indecisione che a turno aveva colto entrambi e la confusione che aveva impacciato inizialmente i loro gesti.

Lo baciò ancora, questa volta in modo più deciso, e sentì che lui rispondeva al suo bacio e si avvicinava lentamente a lei.

Sentì le sue mani che incominciavano a percorrerle il corpo, soffermandosi proprio dove lei preferiva, come se la conoscesse da sempre.

Dopo pochi minuti, si trovò sotto di lui; indossavano ancora tutti gli abiti, ed House stava incominciando a farle scorrere le dita sotto il vestito quando si bloccò di colpo.

Cuddy ne rimase sorpresa, e aspetto col fiato sospeso che accadesse qualcosa.

Allora il diagnosta allontanò le labbra dalle sue, solo quei pochi millimetri che gli permettevano di poter parlare. “Lisa devo andare.” disse, come se fosse per lui qualcosa di inevitabile e doloroso.

“Che succede?” chiese lei preoccupata, mentre si sistemava il vestito e scostava distrattamente una ciocca di capelli dal viso.

“La diagnosi…manca qualcosa. Devo tornare in ospedale.”

Lei si limitò a guardarlo con un’espressione stupita mentre indossava la giacca e recuperava il bastone.

Poi si piegò su di lei. “Tu resta qui, ti prego.” la baciò sulle labbra. “Faccio il prima possibile.”

Non aggiunse altro e non si voltò prima di chiudersi la porta alle spalle.

Lisa fece un respiro profondo, mentre lo sconcerto per il modo improvviso in cui se n’era andato si mischiava alla piacevole sensazione di stordimento che le sue ultime parole le avevano dato.

Guardò il televisore che continuava a trasmettere Rambo.

Lo avrebbe aspettato.

Avrebbe sopportato la sua ossessione per il lavoro perché era anche per quello che lo amava.

Ma stare seduta su un divano davanti alla tv mentre House si girava indisturbato per il suo ospedale non era da lei.

Indossò il soprabito, si sistemo i capelli e, recuperata la sua macchina, prese la strada per il Princeton Plaisboro Teaching Hospital.

 

 

 

 

Questo è il penultimo capitolo!

L'ultimo è in produzione, e non credo di pubblicarlo tra molto!

Scusate il ritardo, ma riprendere la vita universitaria/lavorativa è stato un po' traumatico...

A presto con l'ultimo capitolo e grazie ancora alle genitilissime anime che recensiscono!

Baci

Vally

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Capitolo 13
*** 13 - La mia fine ***


13 – LA MIA FINE

 

21 ottobre 2006, h 11.35 pm

Abitazione di Robert Chase

 

Non era da Foreman andare a prendere a casa, di persona, i suoi colleghi, ma House gli aveva telefonato mezz’ora prima, chiedendogli di andare immediatamente in ospedale, e di contattare gli altri.

In realtà la telefonata era consistita in poche parole.

“Chiama Quo e Qua e raggiungetemi in ospedale. Adesso.”

Click.

Nel linguaggio di House quella indicava un’emergenza, o comunque qualcosa che lui considerava un’emergenza.

Le emergenze di House venivano certamente prima delle sue rimpatriate con vecchi amici, quindi aveva dovuto abbandonare il tavolo carico di vino che stava dividendo con gente che non vedeva da anni, inventandosi una scusa poco credibile.

Questo era il primo motivo per cui era nervoso.

Il secondo era che aveva provato a contattare Chase e Cameron diverse volte, sia sul cellulare che a casa, ma tutti i telefoni suonavano a vuoto.

Il terzo era che a questo punto avrebbe preferito andare a cercare Cameron, che Chase, ma il ristorante si trovava accanto a casa del collega, quindi era costretto a passare a casa sua, per dire ad House di averci almeno provato.

 

Era la terza volta che suonava il campanello, e questa volta insistette un po’ di più, tenendo premuto il bottone e accompagnandosi con qualche imprecazione detta a mezza voce.

Aveva visto la luce accesa, Chase era in casa.

“Foreman…” sentì la voce dell’intensivista dall’altra parte della porta “Che succede?”

“Credi che sia venuto qui per una visita di piacere?! E’ mezz’ora che ti chiamo, dobbiamo andare in ospedale.”

Dall’altra parte non ci fu nessuna risposta.

“Chase?! Vuoi aprire la porta? Non riesco a trovare neanche Cameron, se non siamo in ospedale entro pochi minuti House ci licenzia.”

Ancora silenzio dall’altra parte.

Stava per prendere in considerazione l’ipotesi di buttare giù la porta con una spallata quando sentì le chiavi girare nella toppa.

Chase aprì la porta, quel tanto che bastava per tirare fuori la testa.

“Dobbiamo andare adesso? Non siamo di turno…”

Foreman alzò gli occhi al soffitto. “Ma ti ricordi per chi lavoriamo noi?!”

Poi aggrottò le sopracciglia, notando qualcosa di strano nel collega: le guance più colorite del solito, i capelli spettinati, un velo di sudore sulla fronte…e il rifiuto categorico di aprire la porta.

“Sei con una donna?!” gli chiese, abbassando il tono di voce.

“Si…” rispose Chase. “Non puoi incominciare ad andare? Ti raggiungo il prima possibile…”

Foreman sembrava un po’ titubante. “Come vuoi. Se poi House ti rende la vita impossibile non ne voglio sapere niente.”

Mentre parlava prese in mano il telefono, e dopo aver fatto partire una chiamata, se lo portò all’orecchio.

“Chi chiami?” chiese Chase, mentre uno strano presentimento lo coglieva.

“Cam…” Foreman fu interrotto dallo squillo famigliare di un telefono, proveniente dall’appartamento di Chase.

I due medici si guardarono qualche secondo negli occhi, entrambi con la bocca semiaperta, senza sapere cosa dire.

“Ehm…” iniziò Chase.

“Sei con Cameron?!” chiese il neurologo allibito. “Stavi facendo sesso con Cameron?!”

“No…” tentò di difendersi l’intensivista in modo poco convincente, ma fu interrotto dall’immunologa stessa che, arrivando alle sue spalle, afferrò la maniglia della porta e la spalancò.

“Si, è con Cameron.” rispose lei a Foreman, che la guardava ammutolito.

Poi lo sguardo gli cade su Chase, e un’espressione disgustata gli si dipinse sul volto. “Vai a vestirti per favore.”

L’intensivista si rese conto che Cameron aveva approfittato di quei due minuti per vestirsi, sciacquarsi la faccia,e legarsi i capelli: solo il colore della pelle lievemente rossastro tradiva ciò che stava facendo fino a pochi minuti prima.

Lui era praticamente nudo, con solo un asciugamano un po’ troppo piccolo intorno alla vita, che si teneva allacciato con una mano.

Si sentì improvvisamente molto a disagio.

“Due minuti e sono pronto.” disse quasi tra sé e sé, sparendo nella camera da letto.

Gli sguardi degli altri due medici si incontrarono, non appena furono da soli.

“Io credo…che siamo andati oltre l’abbraccio innocente.” disse lei titubante, ricordando quando Foreman gli aveva visti dormire insieme, appena un paio di giorni prima.

Il neurologo annuì, accennando quello che voleva essere un sorriso comprensivo.

Non aveva nient’altro da aggiungere.

 

22 ottobre 2006, h 0.15 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di House

 

“Quindi questo sarebbe solo un modo, terribilmente molesto nei miei confronti, per fuggire dall’appuntamento con Cuddy?” Wilson, capelli arruffati, jeans e vecchia felpa, lo guardava con espressione assonnata dalla poltrona dell’ufficio, sulla quale era quasi sdraiato.

“No! L’appuntamento stava andando benissimo…” rispose House, con lo sguardo perso sulla lavagna dove c’erano ancora, scarabocchiati, i sintomi dei due gemelli.

“Allora ti è solo venuta un’indomabile voglia di abbandonare la donna per la quale sei completamente cotto a casa tua, da sola, davanti a Rambo, per venire a buttare giù dal letto il tuo migliore amico e trascinarlo in ospedale blaterando qualcosa su una diagnosi a metà?”

“Questa frase contiene due imprecisioni: uno, tu non sei il mio migliore amico; due, …” House esitò quel tanto che bastava per permettere all’oncologo di contrattaccare.

“Ah! House non può mentire! Quindi non può dire che non è innamorato di Cuddy!” Wilson sembrava essersi improvvisamente animato, e dimenava con foga un dito nella sua direzione “Il burbero dottore tutto d’un pezzo ha perso la testa per il suo capo, per la donna contro cui combatte da anni! Le sue difese sono crollate davanti al suo dolce sguard…”

“Wilson scopa con le malate terminali.” affermò crudele House, zittendo brutalmente l’amico.

“Sei un bastardo.” dichiarò Wilson, incrociando le braccia al petto e lasciandosi ancora andare contro lo schienale della poltrona. “Le hai dato da mangiare, almeno?” chiese, cercando si ritornare sulla conversazione originale.

“Certo, conosco il significato della parola cena.” rispose controvoglia il diagnosta, continuando a rivolgere lo sguardo alla lavagna.

“Cosa?”

“Pizza, bistecca e birra.”

“Ma Cuddy non mangia carne…e non beve birra!” esclamò l’oncologo, sorpreso.

House per la prima volta si voltò verso di lui. “E tu come fai a saperlo?”

“E’ mia amica! Mi è capitato di mangiare con lei…” rispose tranquillo Wilson.

House lo fissò per qualche istante serio, come se cercasse di leggergli qualcosa nella testa.

“Sei geloso…” proferì l’oncologo, con un sorrisino che innervosì House ancora di più.

La situazione sarebbe potuta precipitare, ma fu salvata dall’ingresso di Foreman, Chase e Cameron.

House aveva intenzione di tormentarli un po’ per il ritardo, ma visto il loro arrivo nel momento perfetto, decise di risparmiarli.

“Vedi Wilson? Tu sembri uno zombie, mentre loro sono freschi e attivi! Stai invecchiando…” House si rivolse verso i suoi colleghi “Ho interrotto una serata speciale? Non che me ne importi qualcosa ma…”

“Ero a cena con amici che non vedevo da dieci anni.” disse serio Foreman.

Non che gli interessasse informare il suo capo della sua vita privata, ma sapeva che, dopo la sua risposta, House si sarebbe aspettato qualcosa anche dagli altri due…e non vedeva l’ora di godersi la scena.

“Io…Io stavo…” balbettò Chase, preso alla sprovvista. Non era bravo ad improvvisare, e d’istinto si voltò verso Cameron, che rimase a fissarlo con le labbra serrate.

“Idiota!” lo apostrofò House “Bastava che mi rifilassi una balla qualunque…”

Il diagnosta si zittì improvvisamente, vedendo entrare a passo spedito Lisa Cuddy.

L’attenzione di tutti fu in pochi istanti su di lei…il suo vestito “sobrio” sul posto di lavoro era decisamente fuori luogo. Il problema non era tanto quello, visto che il capo era lei, ma il fatto che tutti i presenti sembravano gradire un po’ troppo.

Cameron la squadrò da capo a piedi, con lo sguardo analitico che solo una donna può avere nei confronti di un vestito.

Si sentì un po’ a disagio.

House non migliorò certo le cose.

“Ti avevo chiesto di aspettarmi a casa…”

Gli occhi dei colleghi si spostarono rapidamente su House, e poi ancora su di lei, mentre l’espressione sorpresa sui loro visi si trasformava in sconcerto, misto al timore della sua possibile reazione.

Dal viso di House trapelava la medesima espressione: appena era entrata gli era mancato il fiato, come se la vedesse così bella per la prima volta, poi si era accorto di come i colleghi la stavano guardando, e la cosa lo aveva infastidito parecchio. Aveva reagito d’istinto marcando il suo territorio con quell’inopportuna affermazione…ed era adesso meravigliato quanto tutti gli altri di essersi spinto così oltre, di aver messo così a nudo sia se stesso che Lisa.

“Non ti lascio scorrazzare in giro per l’ospedale in piena notte senza il mio controllo.” disse lei poco convinta, sperando inutilmente che le parole di House fossero sfuggite ai colleghi.

“Ultimamente succedono cose strane alla gente che lavora in questo ospedale…” asserì Foreman, pensando ad alta voce.

“Già!” esclamò House a voce alta, facendo trasalire tutti quanti. “Ma cose ancora più strane succedono ai nostri fratellini moribondi! Foreman, ci sono miglioramenti nella loro condizione?”

“Quando me ne sono andato qualche ora fa erano stabili, ma ci vuole tempo prima che la plasmaferesi abbia effetto, e devono riprendersi dall’anestesia delle operazioni.”

“E’ normale che non si siano ancora ripresi dal coma.” intervenne Cameron.

“Già” confermò Chase.

House fece scorrere lo sguardo sui suoi tre assistenti. “Tralasciando il parere di Chase che ha dato ragione a Cameron solo per garantirsi l’opportunità di poter finire ciò che a causa mia è stato interrotto, siamo due contro due: io e Wilson crediamo che questa diagnosi sia incompleta” affermò con decisione, ignorando la fronte aggrottata dell’oncologo, decisamente di parere contrario “Foreman e Cameron che ci voglia solo un po’ di tempo per vedere migliorare i gemelli.” spostò lo sguardo su Cuddy.

Tutti si voltarono verso di lei, aspettando il suo parere decisivo per avere una maggioranza.

Lisa stava per rispondere, quando House la interruppe “…ma visto che il diagnosta qui sono io, me ne frego della democrazia e vi faccio rimanere qui lo stesso.”

Cuddy richiuse la bocca, offesa dall’arroganza di House.

I loro sguardi si incontrarono e lui si accorse che la stava facendo arrabbiare; non voleva si arrabbiasse, voleva tornare a casa con lei il prima possibile.

Ma il suo istinto di autodistruzione, caratteristica assente nella maggior parte degli esseri viventi tranne che in lui, ebbe la meglio, impedendogli di rivolgerle un qualunque gesto di scusa, d’intesa, di pace…Gli occhi del diagnosta rimasero fissi in quelli di Lisa finché lei non fu costretta ad abbassarli.

“Bene! Visto che siamo tutti d’accordo, mettiamoci al lavoro!”

“Io vado a dare un’occhiata ai pazienti.” disse Foreman.

“Ti seguo.” Chase seguì il collega fuori dall’ufficio.

“Io ricontrollo i risultati dello screening genetico.” Cameron prese delle cartelle e si posizionò alla scrivania.

House si voltò verso di lei pronto a farle notare quanto inutile fosse quello che stava facendo, ma si rese conto che neanche a lui veniva in mente un’idea alternativa su cosa riprendere in esame.

“Io vado in ufficio, visto che devo stare qui in piena notte tanto vale che mi porti avanti con alcune pratiche.” disse Cuddy, che incominciava ad essere irritata da come House aveva rovinato la serata a tutti, lei compresa, per qualcosa che probabilmente non era altro che la sua solita ossessione “House, se alla fine si scopre che questi ragazzi ormai stanno bene, scalo queste ore da quelle che i tuoi assistenti dovranno fare in ambulatorio la prossima settimana, e sarai tu a sostituirli.”

Si voltò e lasciò la stanza, senza che il diagnosta avesse tempo di pensare ad una replica sarcastica delle sue.

 

Wilson si alzò, avvicinandosi all’amico che era tornato imperterrito a studiare i sintomi sulla lavagna.

“L’hai fatta arrabbiare. Ha ragione.” disse l’oncologo, abbassando la voce per non farsi udire da Cameron.

“E’ solo frustrata perché ho rovinato il nostro appuntamento. Questa assurdità delle ore in ambulatorio è solo un modo di vendicarsi per essermene andato sul più bello.”

Wilson scosse la testa.

“House, sarà sicuramente offesa, ma ti conosce, sicuramente si aspettava qualcosa di simile da te. Le ore in laboratorio sono solo un modo per cercare di farti capire che le tue azioni hanno delle conseguenze. Non c’è niente di diverso dagli altri provvedimenti che prende nei tuoi confronti.”

House si voltò verso l’amico, guardandolo con la fronte corrugata.

Wilson continuò: “Anche se esci con lei, anche se fai sesso con lei, anche se prova qualcosa per te…è comunque il tuo capo. Resta la stessa Lisa Cuddy di sempre; stesso ruolo, stessa persona. Anche se mostra di adorarti non significa che smetterà di fare il capo con te. E’ la sua natura…”

House lo fissava ormai trattenendo quasi il respiro, e con un’espressione che faceva trapelare uno sforzo di concentrazione notevole.

Chiuse gli occhi, si voltò verso la lavagna, e appoggiò rumorosamente la fronte contro di essa. “Idiota…” mormorò.

Cameron si voltò verso i due medici. “Tutto bene?” chiese, perplessa.

“Sono un idiota!” esclamò ancora il diagnosta, prendendo la distanza dalla lavagna. “Anzi, siamo tutti degli idioti!”

Cameron e Wilson lo guardavano sempre più confusi.

“Anzi, voi siete degli idioti perché prendete tutto quello che esce dalla mia bocca come oro colato!”

“Perdonami, non ti seguo.” disse Wilson, diplomatico.

House scosse la testa, sbuffando.

Si voltò poi verso Cameron. “Chiama gli altri.” le ordinò.

 

Dopo pochi minuti Chase e Foreman raggiunsero gli altri medici nell’ufficio di House.

“Quei ragazzi sono malati mentali!” esclamò House, appena ebbe l’attenzione di tutti su di sé.

“Questo lo sappiamo…” rispose titubante Chase.

“Si, l’abbiamo scoperto, ne abbiamo preso atto, e l’abbiamo messo da parte senza dedicargli neanche un po’ d’attenzione.” continuò il diagnosta.

“Abbiamo ipotizzato che il mutismo fosse dovuto alla psicosi, e poi abbiamo cercato una spiegazione per gli altri sintomi.” osservò Foreman.

“E perché non abbiamo cercato una spiegazione per la psicosi?” chiese House. “Perché abbiamo tralasciato il sintomo più grosso, quello che colpisce ogni aspetto della loro vita. Perché abbiamo tralasciato la loro natura, la loro natura psicotica?!” House aveva quell’energia che lo invadeva solo quando vedeva la luce accecante in fondo al tunnel, ed era sicuro che quella era l’uscita giusta.

Andò alla lavagna e aggiunse psicosi alla lista dei sintomi.

“Cosa provoca psicosi e cancro?” chiese poi ai suoi assistenti.

“La sindrome di Kinter!” rispose Cameron “Una mutazione genetica che causa modificazioni nella produzione di neurotrasmettitori a livello del sistema limbico, con conseguenti problemi di personalità che possono sfociare in psicosi. Inoltre, provoca dei gap nella riproduzione cellulare, causando frequentemente tumori. E’ rara, ma l’incidenza sembra essere concentrata nei gemelli monozigoti.”

“Una caramella per Cameron!” esclamò House.

“E questa diagnosi sarebbe più potente della precedente?” chiese scettico Wilson.

“Bhè…cosa fanno gli psicotici per contenere i loro disturbi? Prendono psicofarmaci. E cosa provoca una forte dose di neurolettici? Magari neurolettici comprati sottobanco e assunti in dosi spropositate, magari insieme a qualche droga per combattere gli effetti collaterali…insomma, se ti senti un po’ strano e ti dai al mix di farmaci, cosa succede?”

“Problemi di coagulazione, quindi ictus e infarti. Anche coma. Ma non avremmo dovuto trovare qualche traccia di queste sostanze?” chiese Foreman, ancora poco convinto della nuova idea del suo capo.

“Cameron?” House interrogò ancora la dottoressa.

“Le mutazioni derivate dalla sindrome di Kinter provocano anche il metabolismo anomalo di molti principi attivi…è possibile che quando abbiamo fatto le analisi i farmaci presi avessero assunto una forma non individuabile con i nostri test.”

“Quindi la sindrome di Kinter spiega i tumori e la psicosi, che a sua volta spiega il mutismo e l’abuso di farmaci che avrebbe portato a infarti, ictus e coma. Le allucinazioni e la paranoia sono sintomi dello spettro psicotico e…le guarigioni miracolose… Simon era sotto chemioterapia, e può esser semplicemente guarito grazie a quella. Magari in un modo più rapido del normale ma…non sottovalutiamo il potere degli agenti chimici sul corpo di un bambino. Per quanto riguarda Mark…Wilson, qual è la percentuale di tumori maligni guariti spontaneamente senza apparente spiegazione?”

“Circa il 2%.”

“E visto che al Plaisboro non capitano miracoli da parecchio tempo, direi che il ragazzo può benissimo essere inserito in questa percentuale.”

Seguirono lunghi istanti di silenzio, in cui ognuno tastava mentalmente la nuova ipotesi.

“Per me può andare. Sembra più convincente del Chrystopea carnea. Anche più probabile visto lo stretto vincolo di parentela tra i due.” affermò Cameron.

“Non che me ne freghi qualcosa della vostra approvazione comunque…apprezzo l’appoggio.” replicò arrogante House. “Non ho intenzione di aspettare che le rotelline dei vostri cervelli raggiungano le mie. Iniziate il trattamento per la sindrome di Kinter, sperando che non sia troppo tardi.”

“I farmaci per la Kinter sono ancora in fase sperimentale…non esiste una cura sicura per questo disturbo.” precisò Cameron.

“Lo so! Vado ad estorcere alla Cuddy l’autorizzazione per l’uso della terapia sperimentale. Voi intanto procuratevi i farmaci e incominciate a somministrarli ai pazienti. Se quando convinco la Cuddy i ragazzi saranno morti, sarà stata una fatica inutile.”

Detto questo, lasciò trionfante il suo ufficio.

 

22 ottobre 2006, h 0.55 pm

Princenton Plaisboro Teaching Hospital – Ufficio di Cuddy

 

Lisa aveva fatto il possibile per concentrarsi su qualcosa di utile da fare, ma la guerra che si stava combattendo dentro di lei catturava tutte le sue energie: dura battaglia tra i suoi sentimenti e la ragione.

Il suo orgoglio le inviava forti segnali di disagio per essere stata abbandonata in un modo parecchio brusco sul più bello di un appuntamento ufficiale, dopo esser stata messa al secondo posto dopo un paziente dalla diagnosi poco convincente; al terzo posto se si considerava che i pazienti erano due.

D’altra parte, il suo cuore e il suo stomaco le inviavano segnali di gioia ed eccitazione profonda, per quello che era successo quella sera, prima della brusca interruzione.

La sua ragione cercava faticosamente di fare da mediatrice, cercando di sedare il suo orgoglio con la spiegazione che…”House è House, ed è per questo che l’ho assunto”, e di dare qualche motivo al suo cuore per trattenersi un po’, razionalizzando il fatto che l’insicurezza che provava in quel momento nei confronti del rapporto con House non sarebbe mai svanita.

Quindi era in preda ad alternate ondate di rabbia e felicità, quando lui varcò la soglia del suo ufficio, ovviamente senza bussare, ovviamente senza chiedere permesso.

“Mi serve un’autorizzazione per utilizzare i farmaci sperimentali per la sindrome di Kinter sui gemelli psicopatici.”

Ovviamente senza un briciolo di diplomazia.

“Sarebbe meglio prima che diventassero i due gemelli psicopatici morti.” insistette House, vedendo che Cuddy lo guardava senza dire una parola.

A questo punto lei avrebbe potuto mostrarsi contraria, lui si sarebbe innervosito e avrebbe incominciato a riempirla di commenti sarcastici mischiati a valide motivazioni mediche, e lei avrebbe ceduto.

Il loro familiare e rassicurante gioco.

Stava pensando che non aveva proprio voglia quella notte di fare ancora il solito gioco, quando fu lui a interromperlo.

Si avvicinò ancora di più alla scrivania, le posò il documento davanti, prese una penna e gliela mise tra le dita della mano sinistra. “Lisa ti prego, firma questo modulo e torniamocene a casa.”

Lo disse con un tono che non aveva mai sentito uscire dalla sua bocca: una sincerità disarmante.

Davvero voleva chiudere questa storia, liberarsi di quell’episodio della sua ossessione e andare a godersi insieme a lei la relativa tranquillità mentale che avrebbe preceduto il prossimo paziente, il prossimo puzzle a cui dedicare tutto se stesso.

Cuddy pensò che poteva anche essere una recita molto ben fatta per convincerla a firmare, ma firmò lo stesso, subito.

Se la prendeva in giro per una volta ci sarebbe cascata senza combattere, per una volta avrebbe corso il terribile rischio di abbassare la guardia nel momento sbagliato.

Ci avrebbe sbattuto la testa, e forse avrebbe imparato.

 

Non avvenne niente di tutto questo.

Lisa firmò il foglio e rimise la penna a posto.

Alzò la cornetta e chiamò Cameron, informandola che avevano l’autorizzazione per procedere con la terapia.

Posò la cornetta e alzò lo sguardo su House.

“Sindrome di Kinter?” come medico, la curiosità era troppo grossa, e non riuscì a rimandare quella domanda ad un altro momento.

“E’ la loro natura…la Kinter determina la loro natura. Non abbiamo pensato alla natura dei due ragazzi.”

Lisa non capì esattamente cosa intendeva, ma la sicurezza con cui parlava la convinse in pochi istanti che era la cosa più ovvia del mondo. Bisogna sempre tener conto della natura di una persona.

“Tu sei il mio capo, e resterai il mio capo, nonostante tutto.” House con le sue parole seguì il corso dei pensieri della donna “E io sono misantropo e ossessionato dal mio lavoro, e rimarrò tale.”

“Se cambiassi ti licenzierei.” osservò lei, con un sorriso appena accennato.

“Già…”

Rimasero a fissarsi ancora qualche secondo in silenzio.

“Io penso di poter sopportare per un po’ la tua natura, se evitiamo di indagare su cosa significhi sopportare la tua natura nel mio linguaggio.” disse House, facendo scivolare la mano sulla scrivania, fino a raggiungere le sue dita, alle quali si appoggiò appena.

“Io penso…” Lisa si interruppe, non riuscendo a trovare qualcosa di coerente da dire. “…io non penso niente.”

Anche House sorrise ora, pienamente soddisfatto di una risposta che, a chiunque altro, non avrebbe detto assolutamente nulla di buono.

Ma a loro, che si amavano ma ogni tanto si odiavano, che conoscevano cento pregi e cento difetti l’uno dell’altro, e che, soprattutto, potevano dare l’uno all’altro felicità o dolore, piacere o frustrazione, senza un minimo di prevedibilità, quelle parole racchiudevano il fulcro del loro rapporto: era inutile pensare, tra di loro aveva la meglio sempre il cuore, o l’istinto, o l’anima…tutto tranne la loro venerata razionalità.

“Ora possiamo tornare da te?”

House non rispose, ma andò a prenderle il cappotto, aspettò che la raggiungesse e glielo posò dolcemente sulle spalle, stringendola un po’ prima di lasciarla andare.

Non era un “ti amo”, ma quello era House.

 

Ripensandoci, poteva anche essere un “ti amo”.

 

 

EPILOGO

 

Nessuno definiva la loro una storia.

I primi a non farlo erano loro.

In realtà, la loro non fu mai una storia.

Ma un amore, quello si.

 

Lisa non portò mai lo spazzolino da House…ma lui ne aveva comprato uno in più, anche se continuava ad arrabbiarsi con lei quando usava “il suo spazzolino di scorta”.

 

House non si stupì quando, in giro per l’appartamento di Cuddy, incominciò a trovare riviste di nefrologia e saggi medici, e neanche quando trovò il piano che giaceva in un angolo del suo salotto perfettamente accordato.

 

Non parlarono mai di quanto tempo era passato dalla loro prima cena insieme, ma il 21 ottobre del 2008, House si presentò a casa di Lisa, senza preavviso, e lei gli fece trovare nel piatto mezza pizza e mezzo hamburger, e una bottiglia di birra.

 

Per completare il loro “anniversario” in bellezza, fuggì in ospedale con una scusa nel momento in cui i loro baci si stavano facendo più voraci, e le loro carezze più spinte.

 

House la raggiunse in ospedale e, dopo una discussione su cosa fosse più importante tra la diagnosi dell’anno prima e le scartoffie notturne di Cuddy, crollarono stremati sul divano nell’ufficio di Lisa, finendo lì quello che avevano iniziato poche ore prima, e restandoci fino alla mattina dopo.

 

A volte si chiedevano, ognuno a se stesso, se sarebbero andati avanti così a lungo.

 

La cosa strana è che la riposta positiva che si davano, li rendeva pazzamente felici.

 

 

FINE

 

 

Ecco il finale.

Spero non vi abbia deluso.

Ringrazio di cuore Earine, Miky91, Siyah, Zoe MonBlanck, madda, sara, the bride, Jo_Ch_90, Rabb-it, marghe999, gioalle1, remsaverem, logan, gengy, apple per i commenti, e per aver seguito questa storia!

A presto!!!!

 

Vally

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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