Io avrò cura di te, perchè tu sei un essere speciale

di Blusshi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Due gemelli, che fatica! ***
Capitolo 2: *** Father, father, father help us ***
Capitolo 3: *** Till the world ends ***
Capitolo 4: *** Boys boys boys, we like boys in cars ***
Capitolo 5: *** I want your body, I want your body... ***
Capitolo 6: *** One more night ***
Capitolo 7: *** Animal I have become ***
Capitolo 8: *** Goodbye lullaby ***
Capitolo 9: *** I'm a machine ***
Capitolo 10: *** Falling in the black ***
Capitolo 11: *** Awake and alive ***
Capitolo 12: *** In vodka veritas ***
Capitolo 13: *** Wide awake ***
Capitolo 14: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Due gemelli, che fatica! ***


Il primo bambino si agitò e il sacco amniotico esplose.
“Stia buona, va tutto bene! Brava, continui così!”
 Kate- la fronte inondata di sudore- spingeva e gridava; percepiva  i movimenti del bambino che si faceva strada nel canale del parto. Si augurò che andasse tutto bene e che finisse in fretta; si sentiva come una bambina spaventata anche se ormai, a venticinque anni e con due gemelli in arrivo più che imminente, una bambina non era più.
 Sapeva che quella nascita stava presentando complicazioni: i dottori le stavano dicendo che il primo dei due bambini non riusciva a uscire e che di conseguenza l’altro stava soffrendo.
La giovane donna si sforzò più che poté, la massa di capelli scurissimi che le aderiva alla schiena sembrava pesare una tonnellata; il dolore divenne immenso, si protrasse per ore che le sembrarono giorni. La situazione non cambiava: il primo doveva avere qualcosa che non andava; il secondo era intrappolato.
Nel torpore dell’anestesia, sentiva i medici che parlavano fra loro.
“Per favore, fa che vada tutto bene…” pregò Kate stringendo gli occhi.
All’improvviso si sentì più leggera.
Un velo di lacrime di gioia le ricoprì gli incantevoli occhi azzurri appena sentì il pianto del suo primo bambino. Ce l’aveva fatta!
“E’ una bimba! E’ una bimba!” dissero i medici.
 “Oh…tesoro…” le lacrime le scorsero lungo le guance, mentre tendeva le braccia per accogliere quella cosina preziosa.
Ma non poteva ancora cantar vittoria: il gemello più piccolo era ancora chiuso lì, bloccato. Chissà se stava ancora bene? Passarono minuti, ore, giorni…Kate sentiva l’ansia che la dilaniava. Non poteva perdere il secondo bambino, non l’avrebbe mai sopportato. Sopraffatta dal dolore, non sapeva pensare ad altro.
Finalmente il dottore recuperò il suo sorriso e Kate si commosse nel sentire uno strillo forte e acuto: grazie al cielo, grazie al cielo…
“Tutto a posto, stanno bene tutti e due: congratulazioni!” ammiccò il medico “sono un bambino e una bambina, vivaci e bellissimi”.
“Tesori miei…siete vivi, siete vivi!” pianse Kate, stringendosi i bimbi al petto.
 
 
 
 
 
 
Non era facile essere single con due bambini esuberanti a cui badare.
Eric e Alice erano perfettamente sincronizzati: quando piangeva uno piangeva anche l’altra, se uno aveva voglia di giocare o di dormire dopo la pappa l’altra lo seguiva a ruota. Protestavano se Kate cercava di separarli, avevano persino iniziato a parlare insieme, nello stesso momento.
Quella volta Alice aveva sventolato la sua manina paffuta mentre Kate le stava facendo il bagnetto: “Ciao, mamma!” aveva detto.
Ed Eric, concentrato sulle sue macchinine, seduto lì vicino, aveva sua volta alzato il braccio per salutare: “Ciao, mamma!”
“Ma ciao tesori miei!” aveva replicato divertita Kate.
Finalmente! Non si erano decisi a spiccicare una sola parola prima d’ora e mancava poco al loro primo compleanno.
“Acqua! Acqua! Bella…” Alice ne aveva accarezzato la superficie tiepida e rideva entusiasta.
“Acqua! Bella!” aveva detto anche Eric, contagiato dal buonumore.
Kate restava meravigliata e intenerita dai suoi bellissimi bambini: le assomigliavano molto, avevano ereditato il suo bel viso dai lineamenti delicati, i suoi stupendi occhi di ghiaccio.
Erano molto simili fra loro, lei biondissima e lui nerissimo.
“Come me” pensava Kate, accarezzando i capelli sottilissimi di suo figlio.
Erano piuttosto monelli però e si coalizzavano sempre: mai una volta che Eric si fosse tirato indietro dal difendere la gemella; e dal canto suo, Alice tirava fuori le unghie e i denti per lui.
In quei tre anni avevano stabilito un legame speciale di cui Kate gioiva. Si aiutavano almeno, si facevano compagnia.
Combinavano disastri insieme.
Quella maledetta volta in cui Eric si era quasi strangolato con un acino d’uva, Alice non lo aveva mollato un attimo quando Kate era andata a cercare soccorsi; ci erano voluti due giorni perché smettesse di piangere e abbracciare il fratellino.
“Katie, è importante che aiuti i tuoi gemellini a sviluppare separatamente la loro personalità. Altrimenti più andranno avanti, più sarà difficile che facciano uno a meno dell’altra” le dicevano le sue amiche.
Lei lo sapeva ed era convinta che sia Alice che Eric avessero la propria personalità. Di certo lei era già una signorina amante delle cose da donna: Kate ne aveva avuto la prova più volte, trovandosi i cassetti a soqquadro e la bimba con la faccia imbrattata di trucco. Eric la guardava e scuoteva la testa.
Kate era contenta di vederli quando si addormentavano abbracciati, un po’ meno quando si passavano le malattie.
Naturalmente, a tre anni, i gemellini avevano già iniziato l’asilo e ci era voluto veramente poco perché Alice si ammalasse di varicella.
“Ti conviene non stare troppo vicino a tua sorella, tesoro, altrimenti ti ammalerai anche tu” disse una volta Kate ad Eric.
Lui le saltò in braccio e puntò gli occhioni chiarissimi –gli stessi- nei suoi: “Mamma, io senza Alice sono triste”.
Le si accoccolò sul petto, iniziando a piangere: “Non devi preoccuparti. Ali sta bene, non è nulla di grave. Tu devi stare solo attento a non bere dal suo bicchiere o a scambiarvi le posate come fate di solito” lo tranquillizzò Kate, sospirando.
Per tutta risposta una volta Eric trasgredì le regole e si trovò felicemente ammalato, fianco a fianco alla sorella nel loro lettino.
“Però mi dispiace…la mamma mi aveva detto di non farlo…ma io volevo stare con te…” le disse Eric con gli occhi bassi.
Alice gli sorrise con gli occhi lucidi per la febbre e iniziò a ricoprirlo di baci umidi: “Hai fatto bene, mi mancavi!” poi gli strusciò il naso contro la guancia “ma se non mi fossi ammalata io a quest’ora anche tu staresti bene! Se c’è qualcosa che non va io sarò la tua infermiera”.
“Anche io!” disse lui “stasera i peluches dormono con noi vero?”
 
Gli anni passavano sereni. Kate era sempre più contenta dei suoi figlioletti che si facevano sempre più belli.
“Non è vero, io sono la più bella!” diceva lei “tu Eric sei bello perché mi somigli, capito?”
Ovviamente ne combinavano sempre di nuove: “Voi guardate troppi cartoni!” disse una volta esasperata Kate, quando entrando nella loro stanza si ritrovò infradiciata da un secchio d’acqua posto in cima alla porta.
I bambini si davano il cinque soddisfatti e ridevano a crepapelle.
“Sono proprio i gemelli per antonomasia…” pensava Kate, ora rammendando vestitini distrutti, ora cercando di far rispettare loro le regole di casa, che puntualmente si divertivano a infrangere.
E guai! Non era mai nessuno! Guai a chi toccava loro rispettivamente la sorellina o il fratellino.
Nei primi anni di scuola i due fratelli avevano avuto ottime occasioni di fare squadra. E con il tempo diventavano sempre più uniti, a volte anche in maniera esagerata. C’erano cose fra di loro che Kate non poteva assolutamente sapere…e poi se a qualcuno faceva male qualcosa o era triste, all’altro succedeva la stessa cosa.
“Noi giuriamo, è vero, è vero!” dicevano sempre.
Kate era amorevolmente convinta che fossero un caso perso, da quando lei aveva dovuto far accorciare i capelli ad Eric e Alice si era impuntata per farsi tagliare quella sua chioma biondissima ed evanescente di cui Kate le aveva sempre insegnato a prendersi cura.
“NO, li taglio anche io! Altrimenti Eric diventa triste perché gli viene nostalgia” spiegava, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Fu quando i gemelli iniziarono a diventare piuttosto grandicelli che Kate iniziò a preoccuparsi.
Saltavano la scuola, imbrogliavano gli insegnanti, sempre insieme. Lei era preoccupata del fatto che si sarebbero presto trasformati in due adolescenti difficili.
Alice era la più manigolda: era sempre lei a mandare a casa gli altri bambini con le braccia piene di graffi se la facevano arrabbiare o se davano fastidio ad Eric.
Lui era meno agguerrito, ma molto protettivo nei confronti di sua sorella.
“Sai cosa dobbiamo fare?” le disse una volta.
“No…ti ascolto” rispose Alice “ se è una buona idea ti dico già di sì”.
“Certo che lo è!” il fratello le strizzò l’occhiolino “è una cosa per mantenere saldi i legami: noi ci facciamo un taglio –piccolo- io lo faccio a te e tu lo fai a me. E dopo dobbiamo bere il sangue che esce”.
“No!” strillò lei “robe da maschi! E poi a cosa serve? Abbiamo già il legame di sangue, eravamo insieme persino nella pancia: più di così!”
“Fa niente! Una volta si faceva così nelle tribù”.
“E io non sono una bambina delle tribù!”
Nessuno voleva cedere. Restarono per un po’ a fissarsi negli occhi identici. Poi lei si arrese.
“Va bene, va bene…anche se sono io la maggiore e dovrei decidere io”.
Eric arricciò il naso: “Non fare la comandina, abbiamo solo pochi minuti di differenza. La mamma dice così”.
“Fa niente” fece lei altezzosa “ ma solo perché sei tu”.
I gemelli suggellarono l’ulteriore patto di sangue.
“Sai una cosa, Eric?” disse lei carezzandogli i capelli “tu sei il mio essere speciale: avrò cura di te, te lo prometto”.
Lui l’abbracciò: “Tu lo sei: conta su di me”.

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Capitolo 2
*** Father, father, father help us ***


Alice, 12 anni compiuti da un pezzo, si preparò ad entrare nel centro commerciale insieme ai suoi amici.
La mamma non era tanto contenta che lei ed Eric avessero iniziato a frequentare quella compagnia: erano tutti ragazzi più grandi di loro, alcuni già noti ai poliziotti.
“Insomma, sembrano avanzi di galera! Non voglio che vi facciano diventare teppisti…” diceva Kate preoccupata.
“Oh mamma, che noiosa! Vorrei vedere tu cosa avresti fatto se io fossi stata al tuo posto e ti avessi detto che tutto quello che facevi era sbagliato” rispondeva Alice annoiata.
Sembrava più grande: il seno acerbo sporgeva dalla canotta scollatissima che le lasciava scoperti pancia e fianchi. Si sentiva bene con gli anfibi e la minigonna di jeans chiaro, si sentiva più bella e più sicura di sé.
Uno dei ragazzi della brigata cominciò a parlare: “Ok gente, ora ci sparpaglieremo. Io e Jack cominceremo con l’intasare tutti gli scarichi dei bagni!”
Jack, un diciottenne assente e perennemente appisolato, fece un blando cenno di assenso.
“Io faccio gli allarmi!” rise Alice, saltellando e battendo le mani.
Poco dopo lei e una robusta ragazzona di colore entrarono nel  reparto di elettronica del centro commerciale.
Alice ancheggiava, rivolgendo sorrisini maliziosi a quelli che la osservavano.
“Posso esserti di aiuto?” le chiese un commesso.
“Certo” disse lei gentile “c’è un mio amico che ha bisogno d’aiuto. È laggiù! Mi aveva detto di mandargli assistenza” indicò al commesso un punto lontano del reparto.
Questi si fidò e seguì l’indicazione. Alice fece un segnale e in breve tempo la ragazzona l’aiutò a seminare scompiglio. Buttarono giù dagli scaffali i prodotti ancora confezionati, fecero scattare tutti gli allarmi. Nel reparto c’era un baccano infernale.
Alice se la filò con passo aggraziato da gazzella. Se la rideva piegandosi in due, seguita dalla complice.
Si allontanarono più che poterono.
“Hahahaha Alice, hai visto che tonto? Ci è cascato!” le disse ridendo la ragazzona.
Lei la guardò altezzosa e sorrise: “Sì. Adesso andiamo Sarah, abbiamo da fare”.
Prese Sarah per un braccio e se la trascinò via, verso i negozi di abbigliamento. Fecero un bel giro, provando e guardando tutto quello che poteva piacere loro.
“Andiamo in bagno” disse perentoria Alice.
Come aveva promesso il ragazzo del suo gruppo, tutti i bagni erano stati intasati, ma non se ne curò. Appoggiò il borsone vicino ai lavandini e si ravviò i lunghissimi capelli biondi, lisci e docili.
“Guarda che cosa ti ho preso!” disse entusiasta, frugando nella sua borsa e porgendo a Sarah un mascara nuovo di zecca.
“Oh! Ma come hai fatto?! Non ti ho manco vista!”
Alice ammiccò maliziosa e le mostrò il contenuto della sacca: vestiti di ogni genere, scarpe, accessori, trucchi, un reggiseno imbottito (il primo!), cose da mangiare…
“Ma…sei un genio del male! Io non me ne ero nemmeno accorta!” sussurrò Sarah con gli occhi resi enormi dalla sorpresa.
“Beh, sono una professionista io!” sbuffò Alice, iniziando a truccarsi pesantemente.
“La mamma storie anche perché mi trucco…che noia…non si fa una vita”.
Sarah la guardava.
“E mettiti quel mascara! L’ho rubato per te!” la sgridò la bionda.
“Va bene, scusa!”
Sarah restò a guardare il mascara, poi fissò l’amica che faceva smorfie nello specchio: “Alice, a me non piace tanto quello che stiamo facendo…quando eravamo piccole era un gioco, adesso stiamo diventando dei delinquenti…”
Alice la raggelò con lo sguardo: “Fa’ come ti pare, sei libera. Non ti tratterrò certo dal momento che stai diventando noiosa come mia mamma…non vuole nemmeno che io e Eric dormiamo insieme! Dice che ormai non siamo più bambini!”
Sarah rise.
“Io dormo con chi voglio! E poi Eric è il mio essere speciale, solo stando con lui mi sento bene…”
“Che bello” commentò Sarah “tu hai un bel rapporto con tuo fratello…io con i miei litigo dal due al tre”.
Alice sorrise divertita: “Eric è ancora un bambino e certe cose non le capisce, ma solo lui sa perfettamente cosa provo io nel mio cuore…allo stesso modo in  cui io so cosa prova lui dentro di sé”.
Sarah annuì: “A proposito, dov’è?”
Alice fece spallucce: “Che ne so? Sarà a staccare qualche pezzo di ricambio…scemo…”
 
 
 
 
Quando tornò a casa, Alice si fiondò fra le braccia di Kate, che la strinse e le diede un bacio sui capelli.
“Dove sei stata? Mi hai fatta preoccupare…”
Alice guardò innocentemente verso l’alto: “Ero…a fare un giro nei negozi”.
Kate annuì: “Non hai comprato niente?”
“No no!”
“E come mai la tua borsa è piena? Aprila un po’”
Alice sospirò, mostrando alla madre il contenuto della borsa.
Kate non parlò, gli occhi glaciali erano eloquenti.
“Io…le ho trovate, le cose”.
Kate scosse la testa: “Bambina mia, così non va: cosa pensi, che io sia così povera o così cattiva da non comprarti i vestiti?”
“Certo che no mamma”.
“E allora? Perché rubi? E perché stai con quei ragazzi di periferia? Io in quell’ambiente non ti ci voglio, stai diventando una malvivente!”
Alice rise nervosa: “Addirittura?”
In quel momento entrò Eric, la giubba da moto già slacciata, del casco nemmeno l’ombra.
“Tesoro, dov’è il casco?” chiese Kate con garbo.
Eric rimase interdetto.
“Gliel’hanno rubato! Vedi mamma, i veri malviventi rubano cose di vitale importanza come i caschi delle moto! Povero Eric, vero che ti è dispiaciuto tanto?” Alice ammiccò al gemello e subito saltò al suo fianco.
“Sì”.
Kate sospirò, due contro uno: quando si coalizzavano non c’era nulla da fare, niente e nessuno li smuoveva.
La sera, Eric si strinse alla sorella sotto le coperte: “Ali, ma c’è stata mai una volta in cui non abbiamo fatto squadra?”
Lei ci pensò: “Sì, una volta! La mamma ha detto che quando siamo nati io non uscivo mai e di conseguenza nemmeno tu”.
Lui spalancò gli occhi: “Davvero?”
“Sì. Potevamo essere morti se fossimo stati in un paese povero senza ospedali” asserì lei.
“Io dico una cosa: avrei preferito morire con te che stare da solo senza  conoscerti” sorrise Eric.
 
Solo una volta non erano stati d’accordo.
Quando Alice aveva voluto a tutti i costi tingersi di rosso le punte dei capelli.
“Io dico che non ti sta bene…” diceva scocciato lui.
“E chi lo dice? Sta’ un po’ a vedere, che sai tutto tu…”
“IO lo dico, perché LO SO!” Eric l’aveva lasciata da sola e se era andato.
Poi Alice non aveva avuto il coraggio di andare a piangere da lui quando si era dovuta tagliare più della metà della sua lunghissima chioma perché Eric, maledizione, aveva ragione.
“Tu allora perché li fai sparati in su? Mi sembrano già un po’ troppo lunghi per questo, sai?” gli aveva detto, osservando la cresta di capelli neri e lucidi di suo fratello. E poi, secondo lei, stava molto meglio quando li lasciava giù.
 
 
 
 
 
Bruno era un ragazzo ventenne di colore. Alice, quattordicenne dalla pelle diafana, la sua ragazza.
“Guarda un po’” le disse lui.
Alice si accostò a lui, che le porse una confezione di profilattici.
“Bravissimo!” esclamò, con gli occhi che brillavano come cristalli di ghiaccio al sole “così stasera ci divertiamo”.
Alice non aveva detto niente a sua mamma, né della sua relazione con Bruno, né delle loro intenzioni.
Anche Eric, dopotutto, andava in giro usando la macchina di Kate (senza chiederglielo) e la polizia lo conosceva fin troppo bene grazie alle varie multe per eccesso di velocità che alla fine Kate doveva pagare.
Lei si rendeva conto che qualcosa non andava: niente era cambiato nel rapporto fra lei e i suoi figli e nemmeno fra di loro. Anzi, più crescevano, più diventavano inseparabili.
Era cambiato il loro rapporto con il mondo: furti e vandalismo insieme al resto della gang erano diventati pane quotidiano, un pane che per Kate era un boccone amarissimo.
Lei pregava e si torturava nel dubbio: “Cosa ho sbagliato? Perché sono due ragazzi così difficili? Signore, se ci sei, dà loro un occhio, te ne prego”.
Una volta Alice aveva rubato un motorino che aveva visto li in strada e che il proprietario di era dimenticato di chiudere, per andare con Sarah a fare un “giro” nei negozi; poi l’aveva tranquillamente messo al suo posto, come se niente fosse.
“Noi non l’abbiamo rubato, l’abbiamo preso in prestito” disse Alice a Sarah.
“No, tu…” provò a difendersi la ragazzona.
Alice la guardò algida: “No. NOI. Noi l’abbiamo preso in prestito”.
 

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Capitolo 3
*** Till the world ends ***


“Cosa c’è?”
“…niente”
Alice rivolse gli occhi al fratello, che a sua volta la guardava come per dire che non era affatto convinto.
Lo sguardo di lui per un attimo si indurì: “Mi stai mentendo: c’è qualcosa che non va e lo si capisce ad un chilometro di distanza. Almeno, io lo capisco anche a dieci”.
Alice scosse la testa e sospirò, i capelli liscissimi che seguivano con grazia i movimenti del capo: “Non lo so…sono preoccupata”.
Eric spalancò gli occhi dallo stupore: era la prima volta in sedici anni che la sua gemella gli diceva qualcosa di simile.
“Sono molto preoccupata: non l’ho detto a nessuno”.
“Brava! Non l’avrai detto a nostra mamma, ma ricordati che puoi imbrogliare tutti ma non me”.
Lei si scocciò: “E ci arrivo! Ti ho tenuto tutto nascosto perché all’inizio mi pareva una cosa da niente e non volevo che ti preoccupassi…”
Eric sospirò, alla fine l’amore fraterno vinceva sempre: “Sì, ma dimmi cos’hai”.
“Ho paura che mi facciano dello stalking. Mi spiego: da circa un mese, tutte le volte che torno a casa da sola c’è sempre un vecchietto che mi chiede di aiutarlo ad attraversare la strada. All’inizio non c’era nulla di strano, ma poi ho notato che era sempre lì, sempre fermo ad aspettare che io arrivassi. Lo vedevo da lontano man mano che mi avvicinavo all’incrocio”.
“Un vecchietto?” chiese Eric aggrottando le sopracciglia “che ti aspetta tutti i giorni per attraversare la strada con te?”
Alice annuì: “Ma solo quando sono sola. Se ci sei tu o qualcun altro no”.
Eric non disse niente; si limitava a camminare avanti e indietro con lo sguardo basso e le braccia incrociate sul petto.
“Sai cosa mi sta chiedendo ultimamente?” proruppe lei “mi chiede di farmi dei giretti con lui, di accompagnarlo a casa!”
Eric alzò la testa di scatto e i capelli scuri, lunghi sulle orecchie e lisci, gli fluttuarono per un attimo intorno al viso incorniciandogli gli occhi azzurri.
 Eh sì, era bello. Anche Alice lo sapeva, ma senza malizia perché Eric era il suo gemello “minore” e il suo essere speciale.
Eric alzò la testa e la inchiodò con uno sguardo che sembrava ghiaccio ardente: “Chi è?! Dimmelo! Dimmelo che lo prendo e lo massacro…”  
“Ma ti pare!” protestò Alice “non so nemmeno come si chiama! So solo che o sto diventando pazza, o lo vedo dappertutto, compreso il pezzo di strada sotto casa nostra!”
Eric deglutì e sospirò. Poi si avvicinò alla gemella e le batté la mano sulla spalla: “Non avere paura, conta su di me, chiaro? E poi un consiglio, non andare mai in giro indifesa”.
Alice annuì e abbassò gli occhi: “Forse sarebbe meglio dirlo alla mamma…anche se non me la sento”.
Eric fece spallucce: “Fa’ come vuoi, io non ti tradirò”.
 
Da quella volta Alice seguì il consiglio di suo fratello e si comprò uno spray al peperoncino da cui non si separava mai.
Cercava sempre di andare in giro accompagnata e di mantenere un atteggiamento distaccato, anche se dentro di lei l’inquietudine si faceva strada.
Eric stava ancora imparando a guidare, ma Alice non esitava a farsi portare in giro appena fosse possibile.
“Appena faccio diciotto anni mi iscrivo alle corse di rally. Non vedo l’ora!” diceva lui tutto sorridente.
“Ma se sai appena guidare la macchina della mamma, in città oltretutto!” lo rimbeccava lei.
“Parli a vanvera: ho tempo per imparare”.
Lei sbuffava scocciata: “Bah, buttare via i soldi e rischiare di farsi male solo per correre con delle stupidissime macchine…”
C’erano tuttavia delle volte in cui Alice non poteva fare a meno di tornare a casa da sola.
Una volta entrò in casa con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime; appena la vide Kate si alzò e corse ad abbracciarla.
Stretta alla mamma Alice proruppe in un triste pianto: “Non ce la faccio più…”
Kate le accarezzò i capelli e la lasciò sfogare.
Quando si calmò e le diede un bacio sulla guancia: “Quando hai voglia ne parliamo, va bene?”
Alice assentì e si asciugò le ultime tracce del pianto. Se Eric l’avesse vista si sarebbe preoccupato.
“Grazie…sei tanto cara, ti voglio bene” disse abbracciando forte Kate, mentre la voce le si rompeva di nuovo.
Si sentiva cattiva: la mamma, la sua mamma, si volevano così bene…allora perché si ostinava a tenerla all’oscuro di tutto? Le avrebbe spezzato il cuore a saperlo.
Come al solito non sfuggiva niente a Eric: “Insomma, dimmi almeno com’è? È alto, è basso? È tanto vecchio?”
“Che ne so, normale! Piuttosto piccolo e un po’ curvo, pelato e con la barba bianca stile Babbo Natale: ma da un Babbo Natale così non vorrei manco una caramellina…”
“E poi? Come si veste?”
Alice si batté i pugni sulle cosce: “Questo è troppo! Mamma mia se sei noioso…”
Eric sorrise furbescamente: “No, sei tu che sei rozza: devi ricordarti il maggior numero di dettagli possibili, non posso mica ammazzare la persona sbagliata!” poi divenne serio.
“Eh sì…comunque si veste da vecchio naturalmente…barba e baffi molto bianchi, naso storto- mi sembra- pelato…penso che superi abbondantemente i sessanta…”
Eric stette zitto.
Rimase incantato, mordendosi nervosamente il labbro, finchè si alzò di scatto e schioccò le dita: “Ho capito! Adesso sì, ho capito chi è!”
Alice lo guardò incuriosita.
“Sì!” proseguì lui “ce l’ho presente: la prima volta che l’ho visto ero a lavare la macchina con Carly. Lei mi aveva detto che quello lì aveva lo sguardo da pazzo e che aveva paura che ci desse fastidio…ha lo sguardo da pazzo?”
Alice arricciò il naso e spalancò gli occhi: “…si…”
“Allora è lui! Vecchio schifoso, io lo ammazzo” ridacchiò Eric “era lì vicino agli idranti; io ero andato lì a prenderne uno per sciacquare la macchina e questo continuava a dirmi –vuoi che ti aiuti? Sembra pesante…-“.
“Fammi capire, prima mi supplica di aiutarlo all’incrocio perché poverino non ce la fa, poi va da te che sei sano e giovane e ti chiede se può aiutarti a portare l’idrante?!” chiese Alice a fior di labbra.
Eric sospirò con le mani sui fianchi: “Eh sì, a quanto pare…io pensavo che fosse interessato a Carly; sinceramente se si fosse avvicinato alla mia ragazza l’avrei scaraventato giù dalla macchina di peso, ma ora che ci penso c’era anche altre volte, anche la settimana scorsa! E all’autolavaggio ci sono andato da solo!”
La faccenda si stava facendo preoccupante.
“Ok, abbiamo a che fare con un pedofilo bisex, wow…” disse Alice laconica “ la cosa ridicola è che la gente normalmente si rivolge agli sbirri per queste cose…”
Non ebbe bisogno di finire la frase, il gemello l’aveva intesa perfettamente: loro erano i primi ad avere guai con la polizia. Poco tempo prima era stato Eric a ferire un agente con un colpo di pistola.
Naturalmente nella sfera familiare avevano tentato entrambi di insabbiare la faccenda, anche se si rendevano benissimo conto che probabilmente Kate sapeva tutto.
Povera Kate!
I gemelli l’amavano con tutto il loro cuore, ma proprio non riuscivano a stare quieti e tranquilli.
“Comunque io lo ammazzo. Appena si azzarda a toccarti è morto” disse Eric con tranquillità.
“No! Non voglio che ti mettano in prigione!” disse lei, accarezzandolo e mettendogli una ciocca di capelli dietro un orecchio.
Lui la rimise dov’era e prese le mani della gemella fra le sue: “Ali, noi siamo delinquenti: prima o poi in prigione ci andremo lo stesso, quindi tanto vale”.
Lei lo abbracciò d’impulso: “No, no! Lo ammazzeremo insieme, così ci metteranno dentro tutti e due. Non sopporto l’idea che ci separino”.
Eric era ancora un bambino immaturo, ma Alice si rendeva benissimo conto di quanto le avrebbe fatto male la lontananza del fratello.
Lei si vedeva come un sole e lui era la sua luna: tanti ragazzi che erano stati con lei l’avevano lasciata perché erano gelosi delle attenzioni che dava a lui, togliendole a loro.
Ma a lei non importava: di ragazzi è pieno il mondo, di gemello ne ho uno solo, si diceva.
Era legata a lui sin dal primo momento in cui aveva iniziato a esistere; avevano passato insieme i nove mesi nel ventre materno; avevano bevuto insieme al seno di Kate; si erano presi le stesse malattie; avevano condiviso anche i segreti più nascosti.
Le sembrava una presa in giro che Eric venisse sbattuto in un istituto e lei no.
Dovevano sostenersi nel bene e nel male: fino alla fine del mondo.

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Capitolo 4
*** Boys boys boys, we like boys in cars ***


Kate si struggeva nella ricerca di qualcosa di mancante o di sbagliato nel suo lavoro di madre.
C’erano delle falle, era evidente.
Eppure le era sempre sembrato di dare tutta sé stessa per loro. Aveva sempre preso in considerazione i loro problemi, aveva fatto di tutto per stabilizzarsi sulla loro lunghezza d’onda e per ascoltarli.
Erano restii però, loro, anche se Kate percepiva l’amore incondizionato che nutrivano per lei.
Si era promessa di proteggere i suoi Eric e Alice fin da quando erano ancora dentro di lei; si era promessa di essere una buona madre.
Bambini turbolenti e felici una volta, giovani adulti ormai: Eric e Alice avevano ormai diciotto anni e la gravità delle loro azioni poteva pesare molto di più da quel momento in poi.
Erano sempre bellissimi: Alice, biondissima e scatenata come una guerriera barbara, gli stessi riflessi bianchi che aveva quando era piccola, i medesimi occhi di ghiaccio e  lineamenti fini di Kate; una Kate bionda, come dicevano i conoscenti.
Alta e slanciata, era ormai una donna sicura della propria bellezza.
Eric! Uguale in tutto e per tutto alla madre e alla sorella, con quei capelli scurissimi e lucidi che ormai gli arrivavano alle spalle, aveva perso ogni tratto fanciullesco. Quasi quasi era più bello di Alice, pensava Kate.
Da parte sua Alice, che si era sempre sentita più matura e più grande, ormai non aveva più fretta di crescere e aveva dovuto riconoscere ad Eric di essere –quasi- al suo livello.
Se qualche volta era capitato loro di litigare, ora meno che mai. Si trovavano d’accordo praticamente su tutto ed erano molto accomodanti l’uno nei confronti dell’altra.
Quindi che problema c’era?
Niente.
A parte che ultimamente Eric era ospite abituale in più caserme e anche Alice dava il suo bel daffare.
Nonostante tutto però, Kate li vedeva sereni: c’era stato un periodo, due anni prima, in cui lei sembrava spaventata e preoccupata e molte volte piangeva, mentre lui era nervoso e violento.
Come al solito non avevano voluto dirle granché.
Kate sospirò: “Alice, sei pronta?”
“Solo un minuto, mamma.”
Kate ne aspettò dieci.
“Vuoi perderti la partenza?” chiamò.
La testa di Alice fece capolino dalla porta della sua camera, sfoderando un gran sorriso a Kate: “No, certo che no!”
La ragazza si mise davanti allo specchio e si spazzolò frettolosamente i capelli, che scendevano dritti come spaghetti proprio alla base del collo. Non c’era bisogno che Kate le mettesse così fretta! Quello era un giorno non-so-cosa-mettere e le ci era voluto del tempo per scegliersi gli abiti che riteneva più adatti.
Anche se doveva solo andare a vedere Eric che gareggiava con la sua auto da rally, ci teneva a essere sempre in ordine.
“Ti ricordi mamma quanto rompeva con il rally? Adesso sarà contento!” disse Alice alla madre, raggiungendola in macchina.
“Non vuoi guidare tu?” le chiese Kate.
Alice fece una smorfia: “Mhh, non so, se proprio devo…”
Kate scoppiò a ridere: “Oh, uguali! Se tu fossi tuo fratello mi avresti già obbligata a lasciarti guidare!”
Alice sospirò: “Non ho voglia…le auto sono stupide, imparerò prima o poi”.
Kate alzò le spalle: “Oh beh, contenta tu di dipendere sempre dagli altri…”
 
 
Quella gara doveva essere davvero importante: era pieno di gente, pieno di automobili e di automobilisti, di ragazze con gli ombrellini e di musica.
“Sei emozionato?”
“Io? Ma va’!”
Eric ostentò un sorriso spavaldo alla sua fidanzata Carly, che a sua volta gli sorrideva mettendogli le braccia intorno alla vita e la testa sul petto. Era così il suo Eric: faceva tanto lo spaccone, ma lei sentiva benissimo quanto gli battesse forte il cuore per la trepidazione.
Lui la strinse forte sollevandola, poi aprì la portiera ed entrò nella sua auto: “Questa la dedico a te”.
“Ah sì? Grazie! Sicuro di non volerla dedicare ad Alice?”
“Mah…quasi quasi…”
Carly abbassò l’ombrellino, corrugando la fronte.
Eric stette per un attimo a guardarla, poi rise buttando all’indietro i capelli lucidi e fluenti: “Scherzo! Prendi tutto sul serio tu!”
Poi scese di nuovo per abbracciarla ancora, mordicchiandole dolcemente la guancia.
“Scemo!” rise lei, dandogli uno scappellotto affettuoso.
Lui corse al volante e le ammiccò.
Carly provava sempre un misto di ammirazione e di tenerezza. Era stata proprio fortunata: Eric era così bello, così gentile, così attento!
Eric chiuse la portiera e mise in moto la macchina per scaldarla: non riusciva ad abituarsi al brivido del rally, delle derapate sulle strade tortuose e dei salti su quelle sconnesse. Certo, qualche volta tornava a casa con qualche livido e anche se non vinceva tutte le volte non gli importava: per lui contava solo divertirsi.
Per quanto tempo aveva aspettato! Non fino ai diciotto anni che aveva compiuto da poco, ma il tempo gli era parso comunque infinito e spasimava per le auto, sapeva tutto, anche sul rally.
Due anni prima Kate gli aveva concesso solo la macchina, ed era stato così che aveva conosciuto Carly.
Le voleva davvero un gran bene, si riteneva assai fortunato: così dolce, così tenera, così amorevole!
Bella, Carly?
Neanche da paragonare a lui. Si rispondeva da solo; ma non gli dispiaceva, con quella chioma rossa, quelle lentiggini sbarazzine sul nasino a patata, sulle guance tonde e rosee, persino sulle palpebre. Stavano così bene con i suoi occhi verdi!
“Eric, puoi fare di meglio, di molto meglio! Quella è bruttina!” lo rimproverava Alice, a cui proprio Carly non piaceva. Era simpatica, sì, questo glielo concedeva.
“Non sarai per caso gelosa?” chiedeva Eric e rideva.
Alice negava e si riteneva offesa, ma in fondo Eric sapeva non era così: a Carly voleva tanto bene, si sentiva in pace con sé stesso insieme a lei, era felice di sperimentare sentimenti diversi da quello che provava per la sorella e per la madre. E poi lei gli dava quella stabilità che derivava dal non essere in un rapporto inspiegabilmente empatico come con la gemella, in cui ogni gioia, ogni paura, ogni delusione, ogni inquietudine di uno diventavano anche dell’altro.
 Però Alice era sempre Alice, solo e soltanto lei era il suo essere speciale.
 
“Non è venuto il tuo moroso?”
Kate e Alice, sedute sulle tribunette, aspettavano l’inizio della gara. Alice guardava con aria annoiata le macchine che aspettavano di sistemarsi e le ragazze con gli ombrellini che andavano di qua e di là: “Quale moroso? Ci siamo mollati…”
Ecco, questo lo invidiava ad Eric: lui aveva trovato quella Carly con cui ormai stava insieme da un paio di anni, mentre lei era sempre costretta a respingere pretendenti indesiderati o di tanto intanto ad accontentarsi, anche se alla fine non ci riusciva comunque e lasciava perdere.
“Ah…” commentò Kate “cos’aveva questo che non andava?”
Alice non sapeva cosa dire: non andava e basta!
“Le orecchie. Aveva le orecchie troppo grosse”.
A volte si arrabbiava per questo. Non col gemello, piuttosto con la sua “fortuna”.
Lo riteneva ingiusto, lei si era mossa molto prima e riteneva di stargli avanti anni luce: a tredici anni era già sveglia e a quattordici l’aveva fatto per prima volta.
Eric lo capiva e cercava di non ferirla.
“Guarda Eric” le disse Kate, distraendola dai suoi pensieri. Alice l’aveva già visto da un bel po’, aveva portato la macchina sulla linea della partenza, aspettava appoggiato sul cofano chiacchierando col pilota al suo fianco, i capelli neri si vedevano fin da lì.
“Dai fratellino, fai del tuo meglio. Sono qua che ti guardo” pensò Alice sorridendo, convinta che quell’energia positiva si sarebbe sicuramente trasmessa a Eric, sostenendolo.
“Mamma, quanto abbiamo di differenza?” chiese poi di getto a Kate.
“Voi due? Bah, un’oretta circa.”
Alice era la gemella più grande e anche se avevano compiuto diciotto anni lei vedeva sempre Eric come un fratello minore più bambino di lei. Tuttavia aveva notato come fosse cambiato, soprattutto negli ultimi tempi; era diventato ancora più bello, la voce gli si era ulteriormente abbassata, le spalle si erano fatte più grosse e i fianchi più stretti. E poi era meno impulsivo di prima.
Sicuramente anche lui doveva aver notato la sua bellezza ammaliante, il seno pieno, la figura sottile e leggiadra, il ventre e i fianchi piacevolmente modellati.
Kate sapeva che i gemelli si erano accorti dei reciproci cambiamenti fisici perché gliene avevano parlato in separata sede.
“Eh sì, ho proprio dei bei figlioli!” si ritrovava sempre a pensare “e mi sembra ieri, quando li tenevo in braccio…”
Kate sorrise e gettò uno sguardò alla sua giovane donna, seduta accanto a lei, e al suo giovane uomo, che nel frattempo era salito in macchina e aspettava la partenza.
Al colpo di pistola, le macchine partirono mordendo ferocemente la strada. Eric stava andando bene: “Non devo andare subito troppo veloce, altrimenti rischio di ritrovarmi indietro dopo”.
Pensava e si concentrava sul volante e sulla strada, urtando aggressivamente le altre auto.
L’adrenalina gli scorreva forte in corpo, amava troppo imporsi sugli altri e mettersi in mostra. Oggi era diverso, oggi voleva vincere: lui era forte, lui era il più forte e gli altri dovevano adeguarsi.
Sapeva fin troppo bene che non doveva farsi prendere dalla smania di vittoria, altrimenti sarebbe ritornato come alla sua prima gara, quando aveva tagliato per primo il traguardo a spese di qualche altro pilota ed era stato squalificato.
Bell’inizio!
Quella volta si era talmente arrabbiato che, se non fosse stato per il pubblico, avrebbe sicuramente trascinato il giudice in un angolo e gli avrebbe sparato.
 “Povera me!” gli diceva sempre Kate” non bastavi solo tu a combinarmi disastri! Ora ci sei tu con la tua macchina: non dovrei manco lasciarti guidare…”
“Mamma, ma che significa?” interveniva Alice “anche tu cucini malissimo, ma io e Eric non ci lamentiamo neanche, vero Eric? E nemmeno ti diciamo che non devi farlo più!”
La solita Alice, che si scambiava uno sguardo vittorioso col fratello e sbatteva le ciglia a lei.
“Quanto ero stupido…le cose bisogna farle discretamente” pensò, sterzando bruscamente e tamponando un avversario con il retro della sua auto.
“Scusa!” urlò, ridacchiando.
“Dai amore, fallo per me…” Alice fissava con sguardo assente Carly, che era venuta a sedersi lì con loro e si tormentava le mani guardando le auto che correvano lasciandosi dietro una traccia polverosa.
“Che ti ha detto mio fratello prima di partire?” le chiese con eloquenza.
Alice era una bella ragazza, ma faceva molta paura a Carly, nonostante fosse più vecchia dei gemelli di un anno: “Niente. Mi ha detto che questa volta vuole vincere per me”.
Alice si sforzò di sorridere e riportò altrove le proprie attenzioni.
Era passato del tempo, ma non si sentiva mai pienamente serena. Cercava di non pensarci, ma del resto come dimenticare lo strano vecchio che fino a due anni prima li pedinava entrambi?
“Sono proprio diventata deficiente…” pensava tutte le sere, quando ancora prima di chiudere le imposte della sua camera cercava con gli occhi, giù in strada, il brillio di una barba canuta, la sagoma di una figura nascosta fra anfratti della via.
E si trovava proprio stupida, perché ogni volta si buttava sul letto e tirava un sospiro di sollievo.
“Secondo me quando avrò dei figli mi toccherà guardare sia le loro spalle che le mie” diceva fra sé. Ormai non poteva più fare a meno di aguzzare la vista e i sensi ogni volta che usciva di casa, di sentire uno morsa allo stomaco nello scorgere qualche anziano signore che alla fine era sempre innocuo.
Ostentava un’aria da dura, ma in realtà le sue gambe tremavano.
Eric, beato lui, sembrava averla superata. E grazie! Lui non era una ragazza! Anche nel caso avesse rischiato, il pericolo per lei era comunque maggiore.
Lui non aveva però dimenticato la promessa che le aveva fatto. Arma da fuoco sempre alla mano.
Mentre l’auto rossa di Eric tagliava il traguardo, lei era ancora immersa nei propri pensieri e quando il grido di esultanza di Kate, Carly e altri spettatori la riportò con i piedi per terra era già troppo tardi.
Corse da Carly: “Ha vinto? Ce l’ha fatta?”
La rossa continuava a saltare: “Non si capisce!! Erano in due, lui e un altro, affiancati a cento metri dal traguardo. Continuavano a darsi delle botte ma nessuno ha ceduto e hanno tagliato insieme il traguardo! Adesso devono guardare i fotogrammi per decidere!”
Alice sorrise e si avvicinò alla madre: “Andiamo da Eric?”
Le tre donne scesero dalla tribuna e raggiunsero i piloti fra la polvere della linea di arrivo.
Eric era già sceso e quando le vide corse loro incontro. Respirava freneticamente e le sopracciglia erano corrugate. La sua maglietta blu aderiva ai muscoli nervosi del petto e uno strato lieve di polvere gli ricopriva i capelli neri rendendoglieli spenti: a vederli le tre scoppiarono a ridere.
“Beh?” chiese lui irrequieto.
“COME SEI CONCIATO!” rise Kate.
“Sembri uno straccio per la polvere!” trillò Alice scompigliandogli i capelli “ciao straccio! Ciao uomo delle pulizie! Ciao Cenerentola!”
Eric la inchiodò con uno sguardo glaciale.
“Volevo solo sdrammatizzare un po’!” si giustificò lei, che capiva benissimo quanto potesse essere teso.
“Silenzio! Abbiamo i risultati!” annunciò il giudice “ Michael di ventiquattro anni, auto 99 ed Eric, diciotto anni, auto 32, sono i nostri contendenti: secondo i fotogrammi, quindi effettivamente, anche se di un qualche millesimo di secondo…”
“Finiscila di tirarla lunga. Dillo. Muoviti” pensava Eric dentro di sé.
“…il primo posto spetta all’auto numero 99. Michael!” gli amici gli si accostarono, il giudice gli strinse la mano e gli porse il primo premio, poi fece lo stesso con il giovane Eric, battendogli forte una mano sulla spalla: “Bravi ragazzi, è stata una bella sfida. Siete stati grandi, sembravate un film d’azione! Continuate a correre” parlò piano in modo che lo sentissero solo loro due, poi li lasciò e tornò alle premiazioni.
Eric salutò l’avversario e andò dalle sue donne. Si era lasciato andare e sorrideva.
La madre, la sorella e la fidanzata lo strinsero in un abbraccio collettivo: “Sei stato bravissimo!” gli disse Carly.
“Te l’avevo detto!” ammiccò lui e l’abbracciò.
“Bravo il mio bimbo!” sorrise Kate, dandogli un rumoroso bacio che lo fece diventare tutto rosso.
“Sei soddisfatto?” domandò Alice con dolcezza.
“Sì.”
Disse solo così, ma lei sapeva che, da come l’aveva pronunciato, quel sì voleva dire molte cose.
Che si era divertito.
Che la gara era stata alla sua altezza.
Che aveva saputo farsi notare. Che aveva trovato un degno avversario.
Che tutte e tre, lei, Kate e Carly erano lì ad incitarlo con il loro striscione, i loro capelli al vento, i loro sorrisi bianchi e lui ci aveva contato.
“Che questo è un momento di felicità perfetta senza intrusi o particolari spiacevoli” aggiunse lei personalmente, non pensando per un momento a ciò che avrebbe potuto infrangere la magia di quell’istante. 

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Capitolo 5
*** I want your body, I want your body... ***


La musica della festa era alta.
Non era divertente dentro, c’era troppa gente. Troppa gente fuori di testa.
Alice chiacchierava con un gruppo di amici appena fuori dal capannone. Faceva freddo nella notte autunnale, ma era sempre meglio che starsene dentro.
Il ragazzo che quella sera le piaceva le chiedeva se aveva freddo, se voleva rientrare, ma lei voleva starsene lontana dal frastuono e in tutta tranquillità si fumava la sua sigaretta.
Delinquente sì, ma drogata mai.
Il ragazzo era più basso di lei ed era tutta la sera che non smetteva di cingerle i fianchi, appoggiando comodamente la testa sulla sua spalla. Alice era infastidita e cercava di farglielo capire.
“Io mi sto annoiando, me ne vado a casa” asserì, buttando per terra il mozzicone e schiacciandolo con la punta delle tennis.
“Di già?” le chiese una dei suoi amici.
“Aspetto solo che mio fratello torni indietro visto che guida lui”.
Sempre colpa di Carly. Eric l’aveva accompagnata a casa e adesso chissà dov’era…
Il cellulare le squillò e Alice trovò un messaggio: “Vengo tra un minuto”.
La ragazza lo lesse ad alta voce e si mise a ridere.
Accennò un passo e il ragazzo si mosse con lei, guidando i suoi movimenti sempre con quelle stramaledette mani.
“Ma allora! Non sono un manichino! So camminare anche da sola!” sbottò.
“Scusami” sussurrò piano lui, intimidito “quindi adesso te ne vai? Così?”
Alice soffocò una risata. Cosa sperava di fare con lei?
Mentre aspettava si mise a pensare a suo fratello e a Carly: chissà se Eric si era limitato ad accompagnarla a casa, dato il tempo che ci stava mettendo per ritornare lì alla casa di campagna in cui stavano facendo festa.
Eric arrivò di lì a poco, con la musica a palla e il finestrino abbassato.
“Andiamo via!” Alice gli fu subito accanto e lo supplicò, aggrappandosi al suo braccio.
“Aspetta! Io non sono stato qui nemmeno un’ora fra una cosa e l’altra! Lasciami bere qualcosa.”
Eric era sempre gentile quando le parlava, ciononostante Alice mise il broncio e tornò dal ragazzo: “Ricordati che tu devi guidare!”
 
Alice seguì Eric con lo sguardo e poi tornò ai suoi amici. Il ragazzo le stava alle costole e lei diventava sempre più nervosa: “Ok, va bene, ma le condizioni le metto io”.
Lo prese e lo trascinò per un braccio, passando davanti a Eric che in compagnia dei suoi amici del rally ingurgitava bicchieri di roba.
“Mi auguro solo che siano analcolici” pensò Alice, mettendosi in un angolo col ragazzo e iniziando a farsi baciare.
Il tipo era in gamba, dovette ammetterlo.
 Le sue mani scorrevano sapientemente sulle forme di Alice, sfiorandola teneramente come fosse una viola d’amore.
Lei si lasciava toccare e lo baciava con furia, conficcandogli le unghie nella nuca: si aggrappò incrociandogli le gambe attorno alla vita e lui la trasportò nello stanzino adibito a guardaroba.
Le mani delicate di lui l’adagiarono lentamente fra i cappotti caduti sul pavimento e Alice si sentì prendere da un furore estatico: sì, quella sera voleva uscire di sé, dimenticarsi di tutto per un momento.
In un bacio infuriato gli morse le labbra, ma lui non parve accorgersene e quando lei –come per scusarsi- gli posò le sue sulle palpebre chiuse, le posò gratamente le mani sul seno palpitante.
Lei gli posò il dito sulla linea scura che correva sotto l’ombelico e scese sempre più giù, finchè lui non l’afferrò e le loro labbra tornarono ad unirsi.
 
Eric inghiottì l’ultimo sorso di birra e si mise a cercare con gli occhi la sorella.
Nella stanza la cercò in pista fra la gente che ballava, ritornò al bancone dei drink, poi uscì dal capannone e guardò anche nel parcheggio.
“Avete visto Ali?” domandò ai suoi amici.
“Sì, ho visto che entrava là dentro con uno” gli rispose svelta la barista, indicando il guardaroba.
Eric trasalì: “Nel guardaroba…ok…grazie…” si diresse con lo sguardo fisso verso il fondo dell’enorme stanza.
“Ciao bello” ammiccò la barista, ma lui non se ne accorse nemmeno.
In quello stesso momento, le mani da violinista del ragazzo avevano afferrato con tenace garbo i seni morbidi di Alice per estrarli dallo scollo della maglia. Le mani della ragazza erano ancora impegnate ad accarezzarlo, ma quando lui protese il viso verso il suo petto, qualcosa la bloccò; ritrasse immediatamente le mani dal corpo del ragazzo e protesse il proprio.
Non sapeva spiegarsi, ma in quel momento stava succedendo qualcosa che a lei non piaceva, qualcosa di strano e sottile che non voleva le succedesse e restasse nella sua memoria.
“Basta!” urlò, spingendo via il ragazzo e ricomponendosi la scollatura.
Lui rimase attonito a guardarla mentre si alzava in fretta, correva verso la porta del guardaroba e usciva: “Ti saluto”.
Lasciatasi il guardaroba alle spalle, Alice fece un paio di metri a ritroso come un gambero e quando si volse di scatto sbatté sul petto di Eric.
“Eccoti!” dissero all’unisono, poi lui le sorrise: “Eccoti, dov’eri finita?”
“Ero con uno: possiamo andare a casa? Sei contento ora?”
Eric sospirò allargando le spalle: “Ah, sì! Adesso andiamo, volevo venirtelo a dire io”.
Alice guardò l’orologio: “Due e mezza, direi di sì, altrimenti la Kathryn ci fa il sermone”.
Eric soffiò via una lunga ciocca di capelli che gli cadeva su un occhio, ricordandosi con disappunto che Kate si sarebbe scocciata a vederli tornare la mattina dopo: “Sicura di voler andare?”
“Sicurissima”.
“Scusami, aspettiamo un attimo” disse lui. Sentiva che non era il momento migliore per guidare, all’improvviso gli era calata la stanchezza, era affamato e aveva anche il singhiozzo.
Se Alice se ne fosse accorta, avrebbe cominciato a dirgli che aveva bevuto quando invece non era vero.
 Che noia Alice, a volte: voleva troppo fare la maestrina, come se ne sapesse più di lui.
“Cosa c’è? Non stai bene?” gli chiese, parlando con dolcezza e preoccupazione.
“Non tanto…”
Eric le rispose con sincerità, visto che non era nelle sue intenzioni rimproverarlo e che non riusciva a trattenere il singhiozzo: “Vorrei aspettare un attimo”.
“Scommetto che sei brillo” sorrise maliziosa “vuoi mangiare?”
Eric annuì e lei rise: “Va bene, ci faremo la pizza delle 3. Però anche tu eh…”
Poco dopo erano pronti per partire.
“Certo che siamo proprio dei maiali!” rise Alice, chiudendo la portiera.
“Quando ci vuole ci vuole!” ribattè lui.
Non erano tanto in ritardo, a tornare a casa avrebbero impiegato una ventina di minuti.
Eric alzò la musica al massimo e tutti e due iniziarono a cantare. Alice distese i piedi sul cruscotto e chiuse gli occhi: suo fratello guidava proprio bene, anche se non andava per niente piano. La strada era deserta, la nebbia pesante nei campi ai lati della carreggiata.
“Cosa fai domani?” gli chiese.
“Starò da Carly, penso. Tu?”
“Boh…andrò con la mamma a comprare i vestiti. Sai, non ho una vita sentimentale intensa come la tua” rispose lei, con una punta di risentimento.
Eric trasse un sospiro: “Ancora…” si volse e le gettò un’occhiata “guarda che non dipende da te: sei bella e intrigante, giuro! Deve solo arrivare il tuo momento”.
Alice stava per rispondergli, quando in un lampo vide qualcosa di bianco attraversare velocissimamente la strada: “GATTO!” strillò.
Eric non fece in tempo a chiederle niente, che per lo spavento improvviso perse il controllo del volante: la macchina zigzagò nella corsia opposta e finì col muso in un campo.
Alice scese immediatamente e non appena realizzò che non era accaduto nulla di grave corse dall’altro lato della macchina e aprì la: “Stai bene? Eric!”
Anche lui scese e constatò che poteva ancora camminare con le sue gambe: “Sì, io sì! Tu?”
“Anche io! Meno male…” la ragazza sentiva le lacrime che le inondavano gli occhi: l’ansia iniziò ad abbandonarla e lei si sedette sulla terra trattenendo il pianto.
“No, su, non piangere! Va tutto bene, non è successo nulla” Eric l’abbracciò e l’aiutò ad alzarsi “stiamo bene, stai tranquilla”.
“Ma tu sanguini!”
Il ragazzo si guardò e scorse un filo di sangue che gli macchiava un ginocchio. Alzò le spalle, aveva solo picchiato la gamba contro qualcosa.
Alice si asciugò le lacrime: “Sei proprio una merda Eric…sei uscito di strada”.
Lui mise le mani sui fianchi e la fissò: “Ah sì, io? Non mi pare che sia stato io a strillare come un’aquila, all’improvviso! Scusa eh, ma mi hai fatto venire un infarto!”
“C’era un gatto!” si difese lei “ha attraversato la strada e noi gli stavamo passando sopra!”
Eric scavalcò il basso argine del campo e scrutò la strada; non c’erano segni di un incidente con un gatto: “Lo so, l’avevo appena visto anche io e tra quello e il tuo urlo ho sbandato. Comunque non l’ho investito, se ne sarà andato”. Si volse verso la macchina e guardò la sorella.
“Beh? E adesso?”
Alice rispose allo sguardo, constatando le condizioni in cui versavano: la strada era deserta, non avevano modo di avvisare nessuno, la macchina era mezza dentro e mezza fuori da un campo -la macchina oltretutto  era la jeep di Kate- ,erano quasi le 4 della mattina, loro due avevano sforato abbondantemente la tabella di marcia e casa distava un buon quarto d’ora di macchina.
“Andiamo a piedi: oppure tiriamola fuori di qui” buttò lì Alice.
“Stai scherzando spero” rise lui.
Era quasi inverno e c’era la nebbia, andare a piedi su una strada come quella sarebbe stato estremamente pericoloso. Avrebbero fatto la fine di un gatto.
Ormai erano lì e non potevano fare niente, tanto valeva provare a tirarla fuori: i gemelli afferrarono il paraurti della jeep e tirarono con tutte le loro forze, finchè non venne loro caldo per la fatica. E, com’era nelle loro previsioni, la macchina non si mosse di un centimetro.
“Inutile, è troppo pesante!” ansimò Eric “porca miseria!”
Diede un calcio al paraurti e ritornò nell’abitacolo. Fece ripartire la musica e ritornò al fianco di Alice: “Almeno aiuterà a rendere meno inquietante questo posto”.
La ragazza osservò i contorni indistinti della campagna, nascosti nella bruma: “Eric, andiamo sulla strada. Qui è davvero inquietante con tutta la nebbia e poi nessuno ci vedrebbe”.
Con la musica alta, i due ragazzi si misero sul bordo della strada e aspettarono, ma non passò nessuno.
Tornarono vicino alla jeep: “Ma secondo te è sempre così deserto?” Alice guardò il fratello con apprensione.
“Non ne ho idea…”
“Ti immagini? Se proprio adesso saltasse fuori…il nostro amico…”
Eric scosse la testa: “No, Ali, no: per stasera è già abbastanza”.
Il tempo passava. Per eludere la piattezza di quella sinistra notte nebbiosa i gemelli ascoltavano la musica, salivano in macchina cercando di dormire ma erano troppo inquieti.
Eric si mise a controllare la macchina per vedere se avesse subito dei danni: “Chissà nostra mamma…se non è andata a letto sclererà”.
Alice annuì, scrutando il mare di nebbia; sentì uno scricchiolio, come se la paglia che ricopriva il suolo venisse calpestata.
“No Eric non ti allontanare! È pericoloso!”
“No infatti!”
Alice non riuscì a trattenere un gemito di sgomento, quando Eric si sporse dalla macchina.
Non si era allontanato di un passo! Eppure quel rumore proveniva dalla parte di campo innanzi a lei, e lei l’aveva ben sentito!
“Eric…andiamocene…” gemette “ho sentito dei passi”.
“Sicura?” le rispose, senza staccarsi dall’auto “Spero non siano gli sbirri. Ci prenderebbero subito “.
Alice trasalì: non sapeva se pensare al vecchio, che ormai non era che un lontano ricordo, oppure alla polizia, che invece era concreta e li braccava da tempo.
“Oddio…se ci prendono adesso siamo finiti, ci sbatteranno in cella” sussurrò lei.
Qual’era l’ultima che aveva combinato? Ah sì, lei e Eric avevano dato fuoco ad un treno.
La polizia non li aveva colti sul fatto, ma ormai erano due noti delinquenti e sicuramente qualcuno li stava cercando.
Alice sentì chiaramente un nuovo scricchiolio e trasse dalla borsa lo spray al peperoncino.
Eric si mise in ascolto al suo fianco; il rumore di fece più insistente e la ragazza ritirò lo spray, frugò veloce nella borsa e puntò la pistola dritto davanti a sé.
“Ehi! Quella è mia!” Eric gliela tolse di mano e le si parò davanti  “dai, spostati”.
“No, stai indietro!” Alice si spostò a proteggere Eric.
Entrambi erano spaventati, il rumore di passi era ormai inequivocabile.
Eric reggeva la pistola: “Adesso sparo”.
Lo scricchiolio proseguì e il ragazzo premette il grilletto.
Il proiettile fendette la nebbia e si perse lontano, senza colpire niente.
“Ho paura, gli sbirri…” Alice nascose il viso fra i capelli di Eric, le unghie piantate nel suo braccio.
Quando i vaghissimi contorni di una figura si intravidero lontano nella nebbia, Alice chiuse gli occhi e si strinse a Eric, che continuò a sparare senza un bersaglio. La figura di dissolse.
Eric, col fiato corto, vide un piccolo oggetto rotolare da chissà dove vicino ai suoi piedi.
 Sembrava una prugna, era di metallo. Il ragazzo la guardò e all’improvviso si spaccò in due: dall’apertura iniziò a uscire un vapore senso.
“Cosa succede?” Alice si sporse appena dalle spalle del gemello per guardare.
Questi iniziò a vacillare, indietreggiò di qualche passo e si accasciò riverso fra le braccia di Alice.
Lei urlò di spavento, senza riuscire a reggere Eric che crollandole addosso a peso morto la fece cadere a terra: “ERIC! Oh Dio! Oh Dio! Alzati! Che hai?”
La ragazza si mise in ginocchio, urlando e iniziando a piangere. La situazione le stava sfuggendo di mano, si sentiva stanca e debole, stava  perdendo lucidità: “Eric…lasciatelo stare…ti prego!….la polizia! Eric svegliati! La mamma…”
Col respiro sempre più corto e affannoso scuoteva forte il gemello e lottava lei stessa contro un incomprensibile intontimento che la stava facendo addormentare. Ciondolò in avanti con la testa, sforzandosi di tenere gli occhi aperti.
“No,no! Ci hanno presi…la polizia…no” cadde su un fianco sopra a Eric, mentre tutto intorno a lei sfumava.

eeccoci arrivati al punto di svolta: penso che ormai sia chiaro cosa succederà e chi è il vecchio. spero di non avervi annoiati tirando così il lungo...vi aspetto con le vostre recensioni  e vi ringrazio in anticipo ;) :)

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Capitolo 6
*** One more night ***


Li aveva aspettati per tutta la notte.
Una notte intera passata a tendere l’orecchio ad ogni minimo rumore, passata a sperare che da un momento all’altro sarebbero entrati da quella porta e le avrebbero detto qualcosa.
Una notte passata sveglia, fra le lacrime, sul divano, mentre l’alba si avvicinava e la casa rimaneva vuota.
Kate non voleva nemmeno immaginarsi perché.
L’angoscia le impediva di fare qualsiasi cosa.
Erano le 7 e di Eric e Alice nemmeno l’ombra.
“Torniamo massimo alle 3” le avevano detto la sera prima. Avevano fatto un incidente con la macchina? Si erano fermati a casa di qualcuno senza avvertirla?
“Si, dev’essere andata così” si era detta Kate “hanno tutti i loro giri”.
Così per altri quattro giorni.
Alla quinta notte insonne, Kate prese in mano il telefono e compose il numero.
“Si, pronto?”
“Parlo con la polizia?”
“Sì, mi dica signora”.
“Devo denunciare una scomparsa. I miei figli”
 
 
 
Carly continuava a chiamare Eric sul suo cellulare, ma da quattro giorni non trovava che la segreteria.
Era avvilita e preoccupata: perché Eric non l’aveva più chiamata?
Non solo non l’aveva più visto da quando l’aveva accompagnata a casa la sera della festa, ma no le aveva nemmeno scritto un paio di righe.
“Mi sta scaricando?” pensava, sempre più frequentemente e sempre più afflitta “eppure non è da lui! Non lo farebbe mai…”
I suoi sospetti erano crollati quando aveva ricevuto a casa la telefonata di Kate. Erano crollati per fare spazio ad una paura indefinibile: nemmeno Kate lo vedeva più da quattro giorni, né lui né Alice.
Carly si struggeva, doveva essere successo qualcosa di grave: il suo Eric non si sarebbe mai nascosto da Kate, lei lo sapeva, lo conosceva.
Perché sentiva che il suo Eric era in pericolo? Perché sentiva che c’era in ballo qualcosa di importante che gliel’avrebbe portato via?
“Ah! I nostri terribili gemelli!” il poliziotto distese il faccione rubizzo in un sorriso “i nostri giovani gangster! Certo che li ho presenti”.
Kate non avrebbe saputo a chi altro rivolgersi, visto come stavano le cose.
Sapeva benissimo che i rapporti fra i gemelli e le forze dell’ordine non erano dei migliori, ma che fare? Non poteva certo mettersi a cercarli da sola.
“Da quanto sono spariti?”
“Oggi è il quinto giorno”.
Kate raccontò che la sera della presunta scomparsa erano usciti prendendo la sua auto ed erano andati ad una festa. Lei era rimasta alzata ad aspettarli ma non erano ritornati.
“Sicura che non le stiano giocando qualche scherzo? Quei due sono tremendi, sa?”
Eccome.
Un’altra poliziotta era entrata in quel momento: “Cosa succede?” chiese al collega, guardando preoccupata Kate.
“Ci sono spariti il capellone e la barbie! I teppisti gemelli”.
“Quelli del treno?” la donna spalancò gli occhi.
“Sicuramente loro” le rispose il poliziotto “non lo sa, signora?”
Kate lo guardò perplessa: “Il treno?”
“I suoi gentili fanciulli hanno dato fuoco a un treno poco tempo fa” tagliò corto la poliziotta.
“Un treno” mormorò Kate, prendendosi il viso fra le mani.
I poliziotti avevano iniziato le ricerche e avevano trovato l’auto di Kate in un campo, lungo la strada che portava a una cascina dove, effettivamente, gli adolescenti della zona organizzavano spesso le loro serate.
L’auto era lì, sbilanciata dentro il campo, la radio accesa, le portiere aperte.
Ma dei gemelli nemmeno l’ombra. Non avevano lasciato nemmeno un indizio, una traccia.
“L’incidente non era grave, l’auto è in ottime condizioni e non sono presenti tracce di sangue” sentenziò il detective “mi viene da pensare che si siano allontanati dall’auto e che siano stati rapiti”.
Con sollievo di Kate, le ricerche effettuate nell’area circostante non avevano scoperto cadaveri  né tracce di un omicidio.
Rapimento: era l’unica alternativa possibile.
“Guardate qui!”
Un agente si avvicinò a Kate e al gruppo di poliziotti, radunati vicino alla jeep. In mano teneva una specie di piccola bomba a mano. Era aperta esattamente a metà, la forma era quella di un pallone da rugby; era fatta di metallo ed era vuota all’interno: “Cos’è?”
“Non capisco, sembra l’involucro di qualcosa…detective, venga a  vedere un attimo”.
L’uomo mise l’oggetto sospetto sotto gli occhi del detective: “Sì, una specie di capsula”.
“Un bossolo?” Kate si accostò ai due e sbirciò fra le mani dell’agente.
“No, è troppo grande. E poi come si spiegherebbe l’apertura?” il detective lo prese e lo scrutò, lo soppesò con la mano, lo annusò.
“Sembra davvero un ordigno esplosivo: ma all’interno è completamente vuoto e l’apertura è troppo regolare per essere stata causata da un’esplosione”.
Nessuno si era accorto della minuscola telecamera che, posta appena sotto un lembo metallico della spaccatura, osservava dettagliatamente ogni loro movimento.
 
 
Una luce fortissima dritta negli occhi appena appena aperti. Freddo, odore di ospedale, una sagoma china e sfocata che osserva.
“Sono morta…abbiamo fatto un incidente…sto morendo…la polizia…mi ha maltrattata…”
Alice provò a muoversi, ma sentì il corpo pesante come pietra che non rispondeva ai suoi comandi, come se le avessero staccato la testa. Sentiva rumori acuti e stridii, voleva parlare ma dalla sua bocca uscivano solo suoni inarticolati. Spalancò un attimo gli occhi in un tentativo disperato, prima che la testa le girasse così forte da costringerla a rimettersi supina; e allora si addormentò di nuovo.
 
La prima cosa che Eric vide, non appena si svegliò, fu un tubo pieno di sangue che si immetteva nel suo collo e un altro, in cui scorreva vorticosamente un liquido trasparente, che gli bucava il torace finendogli dritto nello stomaco.
Quella visuale spazzò via i relitti di stordimento che ancora gli annebbiavano la vista e, sgomento,  puntò i gomiti e si alzò: sembrava una sala operatoria. Lui era completamente nudo, dolorante, disteso su un lettino. La stanza era piena di macchinari che sembravano grossi computer.
“Ma che diavolo…”
Guardò alla sua destra e alla sua sinistra e scorse recipienti di vetro e di ghisa, ognuno contrassegnato da una scritta stampata: H2O, O2, N3, H, Fe, HCl…
Uno era quello a cui era collegata l’altra estremità di uno dei due tubi, ma non seppe distinguere quale.
“Ma dove sono?” Eric fece per guardarsi alle spalle ma urlò e si premette forte il petto: quel tubo trasparente faceva terribilmente male.
“Alice?!” chiamò, lasciandosi cadere all’indietro. Sentì un rumore, come di gradini scesi, e si volse da quella parte.
 “Dormi, dormi che ti fa bene…”
Vide una specie di maschera calare dall’alto e cadergli sul viso: farfugliò qualcosa, poi si lasciò trasportare nell’oceano profondissimo di un sonno senza sogni.
 
 
 
 
 
 
 
Mi manchi. Torna da me.
Non so cosa ti sia successo, ma sappi che io sarò sempre l’appiglio a cui tu potrai aggrapparti.
Buonanotte amore mio.
Ti penso.
Ti amo.
Carly piangeva mentre scriveva il messaggio, sapeva che nessuno l’avrebbe mai letto.
 Premette invio e si appoggiò alla finestra della sua stanza. La neve era già caduta da un giorno, ormai era quasi Natale.
Seduta sul davanzale interno, raggomitolata sotto una copertina, beveva una tazza di cioccolata. La notte di metà dicembre le pareva insopportabile nella sua calma ovattata: era quasi un mese che Eric e Alice si erano dissolti nel nulla, quasi un mese che Kate accompagnava senza requie i detective nella loro ricerca, vivendo costantemente nell’ansia che un giorno li trovassero morti.
Anche lei stava iniziando a pensarci. E ogni notte piangeva.
Aveva sempre pensato che un ragazzo come Eric fosse stato un dono eccezionale, una grazia inaudita per una come lei.
Lei, Carly, la più timida fra il suo gruppo di amiche, la più inesperta, la meno popolare: era ancora così a diciassette anni, quando aveva incontrato Eric.
Si ricordava che quel giorno era molto triste e non aveva molta voglia di scendere in concessionaria ad aiutare suo padre: “Siamo a corto di personale perché alcuni si sono ammalati, quindi dovrai aiutarmi coi clienti fino a nuovo ordine” le aveva detto.
Si ricordava benissimo che stava ammazzando il tempo osservando qualche modello esposto nello showroom, quando suo padre le aveva lasciato in tutta fretta un cliente da servire: “Pensaci tu al ragazzo, fagli vedere un po’ di modelli da giovani, nuovi e usati. Trattalo bene, mi raccomando!”
Il ragazzo in questione era piombato sfacciatamente nella sua vita con uno sguardo acuto e convinto.
Uno sguardo che aveva bruciato il suo cuore in un colpo solo; una ghiacciata improvvisa.
Gli aveva mostrato con fatica immane tutti i modelli che avrebbero potuto interessargli, poi lui se ne era andato senza nemmeno ringraziarla.
I giorni erano trascorsi e, contrariamente alle sue aspettative, con la scusa della macchina il ragazzo era tornato sempre più spesso in negozio e avevano iniziato a parlare.
Si chiamava Eric e aveva sedici anni.
Carly non aveva mai visto due occhi così.
 
Così, ogni volta che in quei due anni aveva ripensato ai loro primi incontri, le erano riaffiorati alla mente tutti i sospiri, tutti i dubbi, tutti i pensieri: “E’ troppo bello per me…non mi vorrà mai.”
Eric era uno dei pochi ragazzi che parlavano e anche tanto; a volte era un po’ pieno di sé.
Parlava volentieri e le diceva spesso quanto fosse stato grato alla sorte per aver messo Carly sulla sua strada e lei pensava la stessa cosa. Con lui era cambiata, era cresciuta: sentendolo ripetere quanto trovasse belli i suoi capelli rossi, i suoi occhi verde giada e le lentiggini che le ricoprivano persino le palpebre aveva finito per convincersene anche lei e ormai non era più la ragazzina insicura di prima.
“Ma perché mi deve tornare tutto in mente?” si disse, guardando i lampioni che fendevano l’oscurità fuori dalla finestra.
Era stanca e voleva dormire, ma non riusciva.
Fece per entrare nel letto ma rimase lì bloccata, le braccia incrociate e gli occhi colmi di lacrime; soffriva di nostalgia, pensando a quante volte ci aveva fatto l’amore in quel letto.
Perché la vita era stata così crudele?
Le aveva fatto intravedere l’orlo del paradiso, per poi gettarla con forza nell’inferno.


Ohlalà! Ero un po' indecisa sul titolo da mettere a questo capitolo...vorrei precisare che 1) voglio ringraziarvi per essere arrivati fin qui / 2) questo capitolo lo dedico a Lady_Charme, che mi segue con tanta pazienza <3        fatemi sapere cosa ne pensate! Vi aspetto, saluti & baci *Blusshi*


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Capitolo 7
*** Animal I have become ***


Il vecchio dottore li teneva d’occhio da un paio d’anni.
Era successo così, per caso: aveva incontrato quei due giovani fuorilegge proprio mentre era in giro a cercare carne fresca per i suoi esperimenti.
Il dottore costruiva macchine. Macchine molto sofisticate, con un’intelligenza artificiale ad altissimi livelli.
Erano talmente sofisticate che il dottore era un criminale.
Il dottore era un folle e folli erano i suoi obiettivi; con le sue macchine mirava ad annientare i suoi nemici personali, le studiava in ogni minimo dettaglio e il risultato era sublime.
Non erano macchine qualsiasi; il dottore costruiva androidi.
 
Li aveva sempre creati da zero, e anche se avevano aspetto umano erano pur sempre dei robot, i cui poteri –per quanto ampli che fossero- restavano comunque  inferiori a quelli che un sistema organico poteva generare: le sue creazioni erano potenti e distruttive, ma non abbastanza. Ci voleva quel di più che li avrebbe resi invincibili.
Nelle sue ricerche, nel corso di anni e anni, era arrivato a comprendere come costruire androidi organici.
Era stato allora che si era imbattuto nei gemelli: giovani, belli, un maschio e una femmina, erano perfetti.
Il dottore aveva cominciato in modo molto discreto, tanto valeva la pena di aspettare che crescessero ancora di qualche anno: sarebbe stato ancora più vantaggioso, i guerrieri che avrebbe creato sarebbero stati ancora più forti.
La ragazza era stata facile da abbordare: gli era bastato fingersi un vecchiettino acciaccato che aveva bisogno di aiuto per attraversare la strada. Lei era molto carina e non gli negava mai il suo sostegno.
Col ragazzo invece non era stato così semplice: malfidente e dispotico, non si lasciava intenerire da un povero vecchio gentile.
Da quando aveva iniziato a tenere d’occhio anche lui, nemmeno la ragazza era più stata una preda facile: andavano sempre in giro insieme, è vero, ma ormai il più delle volte c’era qualche sgradevole intruso che li accompagnava. Sapeva, grazie al fatto che non li perdeva mai di vista, che si erano accorti di lui.
La madre? Non occorreva eliminarla, non era un ostacolo fondamentale: i gemelli manco le avevano detto di lui!
Che fare, nonostante questo? Non gli toccava che aspettare quieto nell’ombra, tessendo la sua tela al meglio delle sue possibilità e aspettando che prima o poi le sue giovani vittime ci cadessero.
Aveva aspettato nell’ombra per due anni, osservandoli in ogni minimo istante, compiacendosi sempre più per la scelta felice che aveva fatto e per la fortuna che gli era capitata. In quei due anni li aveva visti crescere proprio come lui sperava e diventare più sereni; lo stavano pian piano dimenticando.
L’occasione più propizia doveva solo arrivare e lui non aveva fretta: a chi sa attendere le cose migliori.
E l’occasione era capitata una sera brumosa di novembre. Era una notte deserta, le due prede erano sole, nessuno l’avrebbe intralciato.
Era bastato far sbandare il gemello maschio e farlo impiantare con l’auto in un campo, dopodiché li aveva addormentati con dell’anestetico e se li era portati via; più semplice di così!
Il difficile era arrivato man mano che aveva iniziato a convertirli: voleva dare loro una forza immensa, talmente grande che sarebbe stata infinita. I suoi stupendi, terribili androidi gemelli non sarebbero mai stati stanchi: niente avrebbe potuto arrestarli.
Avrebbero annientato tutti i suoi nemici.
Ma costruire cyborg era un’altra cosa rispetto alle relativamente semplici macchine a cui aveva dato origine fino a quel momento: se voleva che mantenessero la loro parte umana, non poteva privarli delle loro funzioni vitali.
Mentre operava su di loro doveva assicurarsi di nutrirli e di controllare che tutto andasse bene; e poi non gli era mai capitato di doversi mettere a manipolare secondo le sue volontà due menti già formate, due vite che già da diciotto anni facevano il loro corso.
Doveva fare in modo che per nessuna ragione si ricordassero chi erano, da dove venivano e perché si trovavano lì, sarebbe stato fatale per il suo progetto.
Ogni tanto si svegliavano mentre lui, armato di tutta la sua pazienza e del suo genio, li convertiva lentamente in organismi cibernetici; bastava addormentarli di nuovo, ma i lavori procedevano molto a rilento.
Quando il dottore finì il lavoro, poco più di un anno dopo il rapimento, provò ad attivarli: doveva ancora perfezionarli, perciò voleva testare le loro abilità.
“Ho fatto in modo che sappiano che devono uccidere il mio nemico numero uno…e tutti gli altri…spero di aver fatto un buon lavoro”.
Il dottore ripulì i gemelli dalle tracce dell’ultimo intervento, li dotò di nuovi abiti, scollegò i tubi e attese; passò quasi un’ora, ma non si ridestarono.
“Ecco…ho fallito: mi aspettavo di creare due cyborg e mi ritrovo due cadaveri…” il dottore strinse i pugni e rimase a guardare il maschio, il primo che aveva completato.
Alzò un attimo lo sguardo e vide che la femmina si stava muovendo, seguita quasi immediatamente dal fratello. Un lampo di vittoria gli accese lo sguardo stralunato: era fatta! Era fatta! Era riuscito a dare vita per la prima volta a due cyborg!
I due gemelli si svegliarono e rimasero seduti, a guardarsi.
“Buongiorno, miei cari” li salutò il dottore “come vi sentite? È tutto a posto?”.
I due ragazzi non risposero; si limitarono a studiarlo in maniera laconica.
“Mi presento: io sono il dottor Gelo e sono il vostro creatore. Penso che voi due già sappiate il vostro nome e il lavoro che vi ho affidato” spiegò, poi si avvicinò al ragazzo “come ti chiami?”
Il ragazzo alzò lo sguardo su di lui: “17”
“Molto bene. E il tuo compito è?...”
“Uccidere il suo nemico e seminare terrore fra gli umani”.
“Proprio così! E tu, qual è il tuo nome?”
“18. E insieme a 17 devo seminare morte e distruzione. Per questo sono stata creata” la ragazza rispose con un sorriso.
“Sembra proprio che stiate bene” disse il dottor Gelo, con soddisfazione “questo è il mio laboratorio, nonché la vostra casa: potete andare dove volete, ma attenzione a non guastarmi i macchinari”.
“Stia tranquillo dottore” annuì 17.
“Può fidarsi di noi” sorrise 18.
Il dottore tornò al computer a cui stava lavorando e lasciò 17 e 18 a esplorare il suo istituto di ricerca.
I due gemelli si sentivano un po’ intontiti, come se fossero stati sotto l’effetto di una droga che li faceva parlare totalmente a caso. Fisicamente si sentivano in forma, anzi, talmente pieni di energia che sembrava loro assurdo sedersi per riposarsi o addirittura mettersi a dormire. Non avevano nemmeno fame; insomma, quasi mai, e quando avevano bisogno ci pensava il dottore.
Il dottore era severo, ma si occupava di loro.
“Guarda, 17!” una volta 18 aveva  spalancato una porta e se l’era ritrovata in mano, il pomello della maniglia accartocciato come un foglio di carta “ho un casino di forza! Guarda!”
17 aveva scosso la testa ridendo: “Sciocchezze! Io so fare di meglio!”
Si era messo a volare per la stanza e all’improvviso aveva puntato una mano verso una parete: un raggio fotonico era scaturito dal suo palmo e aveva incenerito all’istante gli sfortunati computer che si trovavano lì.
“Wow, siamo fortissimi!”
“Per forza! Vi ho installato un reattore di forza infinita” li rimbeccava lo scorbutico dottore.
Il vecchio si arrabbiava quando 17 e 18 continuavano a devastare tutto in quel modo: “Se non la smettete vi disattiverò! Ricordatevi che siete ancora in prova…la vostra vita dipende da come vi comportate!”
Ma loro non l’ascoltavano e andavano avanti a giocare: del resto, cosa doveva aspettarsi? Teenager androidi o teenager umani, restavano sempre due teenager, per di più con un passato tutt’altro che tranquillo.
Ogni tanto si stancavano e il dottore li disattivava e li metteva a dormire in capsule speciali: funzionavano bene, anche se erano un po’ vivaci. Dopotutto, l’energia eterna dovevano pure consumarla!
Gli sembravano anche fin troppo svegli. L’importante, però, era che non si ricordassero nulla relativo alla loro vita da umani: la grande paura di Gelo era che i ricordi affettivi riaffiorassero alla loro mente. Gli altri erano di poco conto.
“Possibile che in questo posto non ci siano manco dei vestiti?!” diceva scocciata 18: di certo doveva essere un retaggio, esattamente come per 17 che si lamentava, dicendo che voleva guidare la sua auto;
Correggere nella mente: reminiscenze umane troppo vive si appuntava.
Un giorno capitò che il dottore non fosse al laboratorio. I gemelli restarono da soli, in compagnia di altre creazioni addormentate e del continuo brusio dei computer e dei macchinari.
Come d’abitudine, presero a ficcare il naso dappertutto. 17 trovò un pezzo di lamiera, lo appallottolò e iniziò a giocarci come se fosse stato un pallone: “Incredibile 18, prima non l’avrei mai potuto fare!”
Giocava come un bambino, calciando la palla di lamiera in alto e stoppandola col petto.
18 lo guardava distrattamente, ma ascoltandolo ebbe un piccolo sussulto: “Prima? Quando? In che senso?”
“Prima” il ragazzo alzò le spalle con noncuranza “non so: prima e basta”.
18 saltò in cima ad un gigantesco computer e lì si sedette, pensosa.
“Cosa c’è? Ho detto qualcosa?” 17 la raggiunse con un balzo e le si sedette accanto “sento che il cuore ti batte più forte di prima, fa un rumore infernale, tra un po’  mi si spacca il timpano”.
“Ah sì? Anche io sento il tuo!” disse lei, poi scosse la testa visibilmente turbata: “…è che c’è qualcosa che non quadra: me ne sono resa conto in questi giorni”.
“Ti senti male? Il dottore ti dà noia?” si allarmò lui.
“Ma va’!” rise 18 “non c’entra il dottore! È come se sia io che te fossimo in una specie di limbo. Mi spiego?”
“No” le rispose 17 “sii più chiara: cosa c’è che non va?”
“E’ come se ci fosse qualcosa che devo ricordarmi perché è vitale, però non so cos’è: è come un sogno” per la prima volta dacché si ricordasse, gli occhi di 18 erano tristi. Sembrava che avesse perso qualcosa di molto importante e lui intuiva che non riusciva a spiegarsi.
“Io so una cosa: siamo gemelli!” ridacchiò 17, abbracciandola.
“Beh, ma questo lo so anche io! Ma c’è dell’altro…mi sento così stordita” sconsolata, la ragazza si prese le ginocchia fra le braccia e vi appoggiò la fronte.
“Se mi viene in mente qualcosa te lo dirò” le assicurò lui, incoraggiante.
 
Col passare dei giorni, il dottor Gelo osservava attentamente i due cyborg, prendendo appunti su qualsiasi cosa nel caso in cui gli fosse toccata un’importante modifica. Preferiva evitarla, prendere di nuovo i ragazzi e aprirli sarebbe stato scomodo e rischioso: aveva sempre a che fare con due organismi viventi, non poteva modificarli a suo piacere come gli altri androidi totalmente meccanici.
Aveva potuto modificare loro la pelle, rendendola liscia e inscalfibile; aveva potuto modificare loro i denti e le ossa, ora milioni volte più resistenti del materiale che i semplici umani usavano per rivestire esternamente gli shuttle; aveva potuto cancellare loro la memoria e dotarli dei dati a lui necessari.
Ma non era onnipotente: non aveva potuto strappare loro gli organi, né tantomeno i ricordi che la parte più nascosta della loro mente celava…non poteva annientare la loro parte umana: ed era questo il rischio che si era preso.
E poi non erano calmi e obbedienti, tutt’altro. Lo interrompevano sempre, facendo irruzione mentre lui stava lavorando e mettendo il laboratorio a soqquadro.
“Voglio ascoltare la musica! Mi sto annoiando”
“Non è meglio che tu vada a dormire, 17?” gli rispose una volta, seccato.
“Non ho sonno! Io e 18 vogliamo la musica!”
“Va bene, va bene! Avrete la musica!” il dottore si spostò in un’altra sezione del laboratorio e accese un computer.
“Sei contento adesso?”
Il ragazzo sogghignò: “Sì. Ma posso dirle una cosa, dottor Gelo? Lei è una rottura di scatole”.
 “E tu sei un ragazzino disobbediente, 17” grugnì il vecchio “tu e tua sorella dovreste portarmi più rispetto”.
17 rivolse lo sguardo al cielo e sospirò, battendo nervosamente un piede a terra: “Allora, la nostra musica?”
 
 
“Ancora un po’ e si metteva a urlare!”
Appena il dottore ritornò ai suoi esperimenti, 18 non riuscì più a trattenere una risata.
“Ti ho fatto mettere la musica” sottolineò lui.
“Si si, grazie fratellino, grazie” fra le risa, 18 gli schioccò un bacio sulla guancia: era proprio uno spasso! Tirare fuori dai gangheri il dottore…prima o poi dovevano riuscirci.
“Io rimango sempre della mia idea: se ci dà fastidio, lo sopprimo”.
17 lo disse come se fosse la cosa più normale del mondo. 18 stava ballando, ma si arresto e corse da lui: “17!! Cos’hai detto?! Ripetilo, ti prego!”
17 sgranò gli occhi e ripeté: “Lo sopprimo, lo ammazzo, lo elimino. Gli farò qualcosa!”
Lei tremò, prendendogli i polsi: “Mi ricordo, mi ricordo!”
I suoi occhi luccicavano di ansia e di frenesia: “Mi ricordo! Lo dicevi anche prima! Non mi ricordo perché, ma le tue parole eccome!”
“Davvero?”
“Eh sì! Mi avevi detto –se ti tocca, è morto- ma non mi ricordo di chi parlassi. E mi avevi anche fatto comprare uno spray al peperoncino! E tu avevi una pistola! Dio! Mi sembra un secolo fa…”
Lo sguardo di 17 si accese: “La mia pistola! È vero!” si girò sul fianco destro e non la trovò nella tasca dei pantaloni, bensì in una fondina “eccola qui! Dici questa?”
La mostrò a 18, che la scrutò con attenzione: “Non mi ricordo esattamente…ma so il perché la possiedi”.
“E io me ne ero completamente dimenticato!” 17 allargò le braccia e si mise una mano sulla fronte “grazie Alice, per avermelo ricordato”.
Questa volta la ragazza tremò visibilmente: “Alice?”
17 si morse il labbro: “Oh scusa. 18, volevo dire”
18 sentiva una tempesta infuriarle dentro. Qualcosa stava per esplodere, qualcosa che era stato nascosto e che non avrebbe dovuto esserlo: “Mi hai chiamata Alice…”
Si volse verso il fratello, lentamente, senza la forza di parlare: “Eric…”
Si sentiva le labbra secche e una stretta al cuore: “Eric…sei proprio tu! Mi sto ricordando…”
Affinità inaccessibili agli altri li univano da sempre.
Affinità che li rendevano partecipi ognuno del mondo interiore dell’altro.
Dovettero ringraziare questo, quando all’improvviso si videro passare davanti agli occhi una sequenza di scene già viste, solo dimenticate.
La musica suonava e suonava e in quel momento una canzone da discoteca fece esplodere la polveriera.
“Questa canzone, Eric! Questa canzone era alla festa dell’altra sera! Mentre io ero fuori a fumare e aspettavo te che eri andata via…”
“Sshh!! Parla piano!” l’avvertì lui “è vero…mi sta tornando tutto in mente! Ti ricordi Alice di quando abbiamo fatto il patto di sangue? Il rito tribale! A te non piaceva…”
“Sì, sì!” 18 si sforzò di mantenere un tono di voce basso “mi ricordo! E ti ricordi di quando non mettevi mai il casco perché dicevi che ti schiacciava la cresta? Eravamo piccoli!”
17 annuì e la guardò serio: “Qualche anno fa c’era uno che ci pedinava…te lo ricordi? Per quello ho comprato la pistola!”
18 aggrottò la fronte e si mise a pensare: si…un vecchio che la seguiva…che seguiva anche lui…un vecchio con lo sguardo da pazzo: “…un vecchio con la barba e i baffi?”
Poi trattenne il fiato, quando finalmente i pezzi del puzzle si ricomposero: “E’ LUI! E’ IL DOTTOR GELO!” afferrò violentemente 17 e lo scosse stringendo la sua maglia “senza la barba adesso, è lui che ci seguiva! È lui che ci ha portati qui…e ci ha chiamati 17 e 18!”
17 aveva la testa bassa e i pugni stretti.
Respirava ansimando e quando alzò la testa mostrò i denti, battendo il pugno così forte su una scrivania che questa si distrusse in mille pezzi: “Cane! Si si si…”
Calpestò i resti della scrivania, ridendo nervosamente: “Cane maledetto! E’ stato lui a cambiarci! Ecco perché non ci ricordiamo più niente! Ecco perché adesso siamo…così forti: ce l’ha detto lui! Siamo due cyborg!”
18 annuì: “Lo so! E dobbiamo eliminare il suo nemico. È per questo che ci ha creati”.
“LUI non ci ha CREATI!” sibilò lui alterato, sforzandosi con tutto se stesso di non alzare la voce, nonostante stesse per eruttare come un vulcano “noi esistevamo già! Lui ci ha cambiati…diamine…se solo penso a cosa ci ha fatto mi viene il vomito”.
18 assentì; adesso era lei a sentire chiaramente il battito accelerato di lui: “ E adesso dobbiamo fare quello che vuole lui! Ho ben capito…”
Dunque era così: li aveva strappati alla loro vita, si era impossessato di loro per farli a pezzi e poi ricostruirli e non solo! Aveva persino cercato di fare loro il lavaggio del cervello, in modo che lo riconoscessero come padre e gli obbedissero.
Un po’ ci era anche riuscito; 18 sentiva la sua energia eterna che ribolliva, improvvisamente era diventata ansiosa di uccidere: “Io non posso perdonarlo: dobbiamo fare qualcosa,17, assolutamente”.
Il ragazzo accennò un sì: “Lo so, sorellina; ogni cosa a suo tempo”.
“Già. Dobbiamo essere cauti, lui ci può disattivare come gli pare e piace”.
Gli occhi di 17 si oscurarono: “Ci ha portato via le nostre memorie…io mi ricordo tutto su di lui e quasi niente del resto, ma se non ci ha creati lui vuol dire che siamo nati”.
18 sospirò costernata: “Non è a lui che dobbiamo la vita, è certo, ma nemmeno io riesco a ricordarmi a chi dovremmo essere grati per davvero”.
“Una donna” sparò lui “nostra madre. E nostro padre”.
18 si sentì montare la rabbia di nuovo: “Ma noi ce li abbiamo? È tutto confuso”.
“Eric e Alice…sono questi i nostri nomi, non è vero?” 17 diventò ansioso all’improvviso.
“Sì…ma come hai fatto a ricordartene?”
17 la sguardò e scosse la testa: non avrebbe saputo risponderle, gli era venuto così naturale.
Almeno una cosa non gliel’aveva portata via, quel vecchio folle.
Dovevano difendere almeno i pochi ricordi che restavano loro: difenderli a qualsiasi costo.
Dovevano aspettare il loro momento, i n cui si sarebbero fatti giustizia: “Con questa forza che abbiamo adesso sarà una cosa da niente”.
17 diede una pacca amorevole alla sorella e le sorrise per sollevarle il morale: “Quella notte…siamo finiti in un campo con la macchina…e volevamo tirarla fuori ma non ce l’abbiamo fatta: adesso la potremmo sollevare con una sola mano”.
“Ma quindi noi non siamo morti, no? E siamo sempre umani: non siamo diventati dei robot”  chiese lei.
“No che non siamo morti! E siamo umani ma con poteri grandissimi!”
“Sai una cosa che mi ricordo?” disse lei con tenerezza “che noi due ci chiamavamo sempre “il mio essere speciale””.
Lui assentì: “E’ così, tu sei il mio essere speciale”.
Lei lo abbracciò, stringendolo forte: “E tu il mio: avrò cura di te per sempre”.
 
 
 
Al dottor Gelo stava venendo il dubbio che 17 e 18 serbassero qualche ricordo: lui aveva detto una volta che gli sarebbe piaciuto poter rivedere la sua auto –la sua auto! Si ricordava!
Il dottore li osservava con molta più attenzione da quando si era accorto che chiacchieravano a bassa voce; in più, negli ultimi tempi, si divertivano a fargli sempre più dispetti.
“Ma secondo te se mangio del cibo normale mi succede qualcosa?” chiese una volta 17 alla sorella.
“Secondo me no. Se non ci stiamo sbagliando, siamo cyborg e non robot”.
Lui aggrottò le sopracciglia: “Allora perché quella vecchia capra ci dà sempre da bere quelle cose nauseanti? Non ci ha mai dato da mangiare!”
“Non ho idea, 17. Magari perché se mangiamo ci roviniamo la parte cibernetica”.
“Proviamo a vedere cosa succede!”
Così venne loro in mente uno dei tanti scherzi che presero a giocare al dottor Gelo.
Lui era solito dar loro da bere solo una miscela di sali, oligoelementi e tutte le altre sostanze essenziali per l’organismo, visto che secondo i suoi calcoli i due ragazzi non avrebbero avuto bisogno di nutrirsi.
Ad un certo punto i gemelli si rifiutarono categoricamente di berla: “Mi fa venire il mal di testa” diceva lui; “Mi fa sentire stanca” piagnucolava lei.
Allora il dottore inventava soluzioni diverse, ma ognuna aveva qualcosa che non andava; si azzardavano pure a chiedere cibo umano!
Il dottore doveva scendere nella città più vicina e comprarlo, cosa molto rischiosa per lui.
Tornava al laboratorio e pensava di accontentare 17 e 18, che puntualmente rigettavano tutto e davano la colpa a lui, accusandolo di volerli rovinare; naturalmente non era vero, anzi erano contenti; stavano fingendo con l’unico scopo di far ammattire il dottore.
Correggere sistema digestivo: non tollerano più le miscele apposite che preparo per loro, devo aver sbagliato qualcosa  scriveva il dottore.
Oltre a questo, si divertivano a spegnere e accendere tutti i macchinari a loro piacere e a rompergli le attrezzature.
A volte lui li faceva combattere per capire fin dove sarebbero potuti arrivare i poteri di cui li aveva dotati; e loro distruggevano spesso oggetti innocenti e molto importanti per lui.
Spesso protestavano dicendo che non avevano voglia e che avrebbero preferito dormire, ma quando era il momento si riprendevano e stavano talmente bene che ricominciavano a tormentarlo con la musica, i giochi o altre stupidaggini.
Correggere nella mente: troppo poco coinvolti nella missione, dispettosi, ribelli.
Ormai era fermamente convinto di disattivarli per apportare le modifiche necessarie: aveva raccolto abbastanza dati nella sessione di prova, ora era meglio metterli in ibernazione nelle loro capsule: il momento di uccidere il suo nemico non era ancora arrivato.
“Non stiamo dando un po’ troppo dell’occhio? Se continuiamo così, si arrabbierà e ci farà rimanere inerti!” disse una volta 18 preoccupata.
“Ma è così divertente!” rideva 17 “lo stiamo tirando scemo!”
La cosa importante era però che non si dimenticassero di quanto erano appena riusciti a ricordare: erano convinti che se l’avesse saputo, il dottore avrebbe fatto di tutto pur di spazzare via quell’ultimo frammento di memoria autentica.
Successe un giorno, mentre erano seduti a chiacchierare, a sfogliare di nascosto gli appunti del dottore e a parlare mangiando caramelle.
“I nostri nomi, ricordi sparsi di quando eravamo più piccoli…non dobbiamo dimenticarceli per nulla al mondo, Alice”
“Per nulla al mondo”.
“Fosse l’ultima cosa che faccio, dovesse anche farmi dormire per un secolo…lo uccideremo, gliela faremo pagare, ricordatelo” disse tagliente lui.
Giusto il tempo di sentire i passi del dottore e di scorgerlo sulla porta.
Lo videro protendere il braccio -il controller in mano- prima che le tenebre si richiudessero di nuovo su di loro.





Salve a tutti! J
Forse si incomincia un po’ a intuire che i protagonisti sono 17&18…vi ho fatti aspettare, eh? :P
Come il precedente, il capitolo è per la mia carissima Lady_Charme <3
Vi aspetto con le vostre recensioni
Blusshi*

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Capitolo 8
*** Goodbye lullaby ***


E i bicchieri erano vuoti
e la bottiglia in pezzi
e il letto spalancato
e la porta sprangata
e tutte le stelle di vetro
della bellezza e della gioia
risplendevano nella polvere
della camera spazzata male
Ed io ubriaco morto
Ero un fuoco di gioia
E tu ubriaca viva nuda nelle mie braccia…
 
 
 
Era passato tanto tempo.
In teoria circa un anno e mezzo, in pratica cento.
Ormai temeva che persino le sensazioni avrebbero smesso di essere un ricordo ancora vivido.
Tutto quello che riusciva a fare era crogiolarsi nell’enorme vuoto che si sentiva dentro; era come un abisso che la risucchiava in basso, più forte di lei.
Sapeva che non c’era niente di più sbagliato e di più deprimente che piangere sul latte versato.
Se solo avesse dato retta ai pretendenti che si erano fatti avanti in tutti quei mesi, avrebbe almeno avuto qualcuno al suo fianco: ma ne valeva davvero la pena?
Il solo pensiero la ripugnava; nella sua mente c’era sempre lui, un chiodo fisso che non le dava mai pace.
Come avrebbe potuto trovare attraente, interessante qualsiasi altro uomo dopo aver avuto lui?
Era stato amore a prima vista. Aveva dovuto aspettare diciassette anni, ma da quando l’aveva incontrato lui era sempre stato il suo primo pensiero.
Le mancava da morire; le mancava la stretta delle sue braccia attorno ai suoi fianchi, le mancavano i baci sul collo e i morsettini affettuosi. Le mancava tutto, aveva bisogno di lui.
Si ricordava degli sguardi maligni e pieni di invidia delle sue amichette il giorno in cui gliel’aveva presentato: le venne da sorridere.
Ormai stava per compiere ventun anni.
 Le era capitata casualmente fra le mani una vecchia fotografia: ironia della sorte, mostrava quello che lei non voleva vedere.
Era una foto subacquea.
Si ricordò di quando lei ed Eric avevano deciso di passare un paio di settimane al mare per festeggiare il loro primo anno insieme. Si ricordava tutto, anche il viaggio in macchina con il sole in faccia e i bagagli che volavano a destra e a manca sul sedile posteriore. Erano stati dei giorni stupendi in cui finalmente aveva capito che aspettare tutto quel tempo ne era valsa la pena: quante volte aveva sospirato, considerando le sue amiche fortunate anche se i loro fidanzati erano brutti, stupidi o ignoranti.
Si ricordò della ragazza con la macchina subacquea: “Facci una foto!”
Lei ed Eric si erano tuffati nel mare, il loro bacio era stato lungo e tenero.
Carezzò la fotografia, osservandola in ogni minimo dettaglio: la sabbia bianca del fondale, l’acqua verde attorno ai loro corpi abbracciati, i capelli fluttuanti che si mischiavano nella luce rifratta dalla superficie dell’acqua; il costume a fiori hawaiani di lui, il proprio bikini rosa, le bollicine d’aria fra le labbra.
Carly se la strinse al cuore e pianse.
 “Amore mio…”
Ormai aveva perso le speranze: era più di un anno che lei, Kate e i detective cercavano Eric e Alice.
Lei si diceva in continuazione che doveva essere forte e non lasciarsi vincere dallo sconforto: doveva farlo almeno per Kate, che non perdeva mai la speranza che un giorno li avrebbe ritrovati.
Come facesse a possedere tutta quella forza, Carly non lo sapeva: vedeva che era provata, tutti l’avrebbero capito, ma non si arrendeva mai.
Aveva persino lanciato un appello in televisione, ricavandone solo dei complimenti  per la sua bellezza e per la sua tenacia.
Kate non sopportava i complimenti; continuava a dire di aver fallito, che una cagna sarebbe stata miglior madre di lei, che era tutta colpa sua.
Come non capirla? Anche se per Carly Kate era una donna straordinaria.
Solo vederla però la faceva morire di nostalgia: era troppo uguale a suo figlio, lo stesso viso e la stessa espressione,  gli occhi che l’avevano così colpita e i morbidi capelli neri in cui le piaceva tanto deporre baci erano la sua eredità.
Ma in fondo che colpa ne aveva?
“Mi sarei aspettata proprio di tutto, che mi scaricasse, che si stancasse: ma che morisse no, non avrei mai voluto neanche pensarlo” si diceva Carly fra le lacrime. Non voleva credere che lui fosse morto, ma era un pensiero sempre più distruttivo nel suo cuore afflitto.
Non poteva scappare dal ricordo di lui: era la prima cosa a cui pensava alla mattina appena sveglia, l’ultima che la visitava prima di dormire e anche nei sogni.
Si ricordava di quante volte si era fatta dei film mentali, correndo nel futuro: ogni volta che lui la teneva per mano o la baciava lei vedeva già la loro casa, si vedeva madre dei suoi bambini.
Le era venuto in mente, questo, quando una volta Eric le aveva mandato un messaggio che non avrebbe mai dimenticato:
Principessa
Ti amo ogni giorno di più, a differenza delle altre coppie che dopo un po’ si stufano.
Voglio sposarti, voglio dei figli con te!
Ti amo.
Lui diceva sempre che lei era la tenerezza fatta a persona.
Cosa avrebbe dato Carly per sentire ancora una volta la bocca di Eric sulla sua, per poterlo di nuovo  accogliere nel suo tenero corpo, permettergli ancora di accarezzarla prima di affondare dentro di lei con brusca delicatezza…e poi vederlo esausto che si addormentava con la testa sul suo grembo, svegliarsi e fare merenda; non chiedeva mica la Luna, loro due apprezzavano le piccole cose.
Le piaceva tantissimo anche quando andavano a fare dei giri in macchina che erano peggio di una giostra e al ritorno rimanevano insieme a guardare il tramonto; Carly aveva perso il conto di tutti i panini, i dolci e le porcherie che avevano mangiato seduti sul tetto della macchina.
“Meno male che tu mangi” le diceva lui, sempre con la bocca piena.
“Perché? Chi è che non mangia?”
“Mia sorella” diventava triste quando ne parlava.
Carly sgranava gli occhi: cos’aveva Alice che non andava? Era perfetta, anche se non era un fuscello fragile e patito; lei, semmai, che era di media statura e tendente al formoso, avrebbe avuto più da preoccuparsi, invece che dare retta ad Eric che la rimpinzava come un’oca all’ingrasso, non calcolando minimamente che Carly si era allargata a furia di mangiare come lui. Ma la verità era che non le importava niente: aveva il ragazzo dei suoi sogni, che l’amava così com’era: cos’avrebbe potuto importarle di un corpo un po’ più morbido? Al limite Eric sarebbe stato ancora più contento.
“Non mangia quasi niente…persino quando mia mamma ci porta a casa le cose che ci piacciono”.
“Ma non devi preoccuparti amore, magari non ne ha voglia e basta”.
Lui alzava la testa e sorrideva: “Non mi preoccupo mica: ce n’è di più per me!”
Carly aveva sempre apprezzato il fatto che lui non la facesse mai sentire inferiore alla sua gemella, anche se doveva esserle legato da dentro molto più di quanto lo fosse a lei. Però non gliel’aveva mai fatto pesare.
Cosa avrebbe dato pur di toccarlo, di parlargli, di dirgli quanto lo amasse?
Si ricordava di quanto le piacesse passargli le dita lungo la linea della mascella, sulle spalle larghe, la sporgenza sulla gola…le trovava così virili, così affascinanti!
E che bello era quando restavano distesi fianco a fianco, in silenzio, così vicini da riflettersi l’una negli occhi dell’altro; adesso Eric non c’era più.
“Perché il destino ci ha fatti incontrare?” si diceva Carly nelle giornate buie in cui si interrogava su cose profonde. Ma poi scuoteva la testa e respingeva quel pensiero, così futile e banale, una frase ad effetto per romanzi rosa adolescenziali.
Non doveva cadere in quel circolo vizioso, non si doveva permettere di dimenticarsi il valore di quei momenti trascorsi con lui.
Chissà cosa gli era successo, chissà se l’aveva pensata…prima di morire? Ormai non si chiedeva più se la stesse pensando nel presente.
Parlare di lui al passato e pensarlo come un ricordo erano per Carly una stilettata al cuore; lei non era Kate, aveva il diritto di non essere forte.
Quanti propositi si erano fatti! E ora era tutto finito.
Nei suoi sogni migliori lo immaginava fra le braccia di un bell’angelo che non era lei, poi si svegliava e piangeva.

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Capitolo 9
*** I'm a machine ***


Il dottor Gelo non avrebbe voluto farlo: era rischioso, per lui in primis.
Ma guardando preoccupato ora la porta del suo laboratorio, ora il braccio da cui una mano gli era stata divelta lasciando spenzolare i cavi gocciolanti, si decise che quella era proprio la sua ultima possibilità.
I suoi nemici erano diventati più forti di quello che aveva previsto –anche se non così forti da poter contrastare le sue due carte vincenti.
Non voleva che gli avversari prendessero il sopravvento e tuttavia era combattuto perché nonostante avesse apportato tutte le modifiche necessarie, attivare di nuovo i numeri  17 e 18 era un pericolo non indifferente.
Dal rapimento erano passati due anni, le sue micro telecamere GPS avevano costantemente tenuto d’occhio i movimenti delle forze dell’ordine e della madre dei gemelli; era una testa durissima quella donna, non si era ancora arresa? Poco importava, le sue volontà stavano per compiersi, nessuno avrebbe potuto trovarli e presto anche lei sarebbe finita all’altro mondo, come tutto il resto dell’umanità.
“Non sarei mai voluto arrivare a questo punto, ma ormai sono con le spalle al muro…” il vecchio aveva in mano il controller d’emergenza e stava fermo tra le due capsule sigillate “spero solo di averli sistemati a dovere”.
Era finalmente convinto; no, era riluttante.
Il dottore scacciò via il timore e si accinse a spingere il primo bottone.
Per lui era un déjà-vu quando il primo dei due cyborg mise piedi fuori dalla capsula, squadrandolo con sguardo indolente.
“Ben svegliato, numero 17”.
Il ragazzo non fece una piega, poi si voltò e gli rivolse l’abbozzo di un sorriso: “Buongiorno, dottor Gelo”.
“Che meraviglia, mi hai salutato!”
 “Beh, è ovvio: ho rispetto per mio padre”.
Il dottore stringeva il controller di emergenza e notava con sollievo che lo sguardo di 17 era sveglio, ma non troppo.
 “…sembra che ce l’abbia fatta…allora adesso il numero 18” il dottore premette il pulsante della seconda capsula e anche la ragazza fece un passo avanti.
“Buongiorno dottore!” la sua voce era limpida e squillante “vedo che è diventato un cyborg anche lei”.
Il vecchio gettò uno sguardo ai cavi elettrici che pendevano giù da uno dei polsi: “Ah sì sì, volevo anche io la vita eterna” ormai non c’era più niente da temere, i gemelli sembravano star bene “in verità, quando vi ho attivati la prima volta per mettervi in prova, mi sono accorto che avevo investito troppo sui reattori di energia infinita e sulla potenza, quindi era molto difficile tenervi a bada: non obbedivate mai…ma ora come ora potete iniziare subito a lavorare: i nostri nemici ci stanno cercando e tra poco arriveranno qui, mi raccomando, dovete ucciderli tutti, dal primo all’ultimo. Chiaro?”
“Agli ordini!” trillò 18.
“Ricevuto” le fece eco 17.
All’improvviso si udirono dei rimbombi sordi, mentre polvere e frammenti di intonaco cominciavano a cadere da muri e soffitto.
“Eccoli, sono loro! Fateli fuori!”
Il dottore era estatico: finalmente poteva realizzare il suo sogno, finalmente la sorte giocava al suo fianco, finalmente 17 e 18 erano pronti, perfetti, feroci, a sua completa disposizione.
“E’ il momento! Dovete uccidere!”
Nel trionfo della sua gloria, il dottore non si era accorto dell’ombra che, silenziosa e micidiale come un predatore, si era spostata dietro di lui in un battito di ciglia; e continuò a non accorgersene, quasi stentò a realizzare che quel cacciatore furtivo gli aveva sfilato il controller di mano: “Numero 17! Che stai facendo?!”
“Cos’è questo?” il ragazzo se lo rigirò fra le mani, scambiandosi cenni d’intesa con la sorella “il telecomando per fermarci nelle situazioni critiche…cos’è, hai paura di noi?”
Il suo tono di voce si era fatto tagliente e sprezzante, anche i suoi occhi erano cambiati, erano acuti, freddi, colmi di desiderio di uccidere: gli occhi di una fiera.
Il dottore indietreggiò, forse rendendosi conto di quello che aveva fatto; e non fece in tempo a reagire, che il ragazzo strinse leggermente la presa sbriciolando il controller. I colpi alla porta aumentavano d’intensità.
“Ehi ehi ehi! Che stai facendo? Ti sono saltati i circuiti?” gli urlò “ devi fare quello che ti dico, i nemici sono là fuori!” 
“Ne abbiamo piene le scatole di dormire, vecchio del cavolo!”
All’esterno del laboratorio, il gruppo di “nemici” attendeva, prendendo a botte la porta che non si spostava minimamente.
“Io sono l’unico che può sistemare la faccenda! Voi andatevene via!” uno di loro, il più orgoglioso, voleva prendersi il merito di sconfiggere i giovani aiutanti del vecchio dottore.
Sotto il suo attacco la pesante porta di metallo si piegò, scardinata, cadendo al suolo con fragore d’inferno.
I nemici rimasero stupiti nel trovarsi di fronte, oltre al dottore, un paio di ragazzi che stentavano a superare i vent’anni.
Erano giovani.
Erano belli.
“Cosa?! Sono loro?”
“Non lasciatevi ingannare solo perché sembrano innocui: sono delle bestie” disse a denti stretti un altro, un ragazzo dai capelli chiari che portava uno spadone.
“Non dovete assolutamente sottovalutare i nostri nemici” il dottore si sforzò di controllarsi e di mantenere un tono di voce calmo “sono loro che mi hanno dato parecchio filo da torcere e che hanno sconfitto il numero 19”.
17 si volse, sgranando gli splendidi occhi: “ Ah, c’era un 19? E com’era? Tipo noi?”
“No…”
18 si fece avanti, sorridendo malignamente: “E come mai non l’hai fatto come noi se tanto ormai sei in grado? Avevi paura di non poterlo controllare? Va bene, peccato però che se vuoi vincere ti serviamo noi con la nostra potenza”.
“…allora, la finite? Ve l’ho già detto, obbedite immediatamente!” il dottore strinse il pugno, sbraitando.
“Che ne dici di stare zitto?” sbuffò 17, sfacciato “noi combattiamo quando abbiamo voglia”.
“Che cosa hai detto!” grugnì il dottore “se solo avessi ancora il mio controller…te la farei vedere io, stupido moccioso”.
18 ridacchiò e calpestò i resti contorti del telecomando, dirigendosi verso un’altra capsula ancora sigillata: “Non l’aprire, 18!” Gelo si lanciò verso di lei e le afferrò con prepotenza un braccio “sta’ indietro, non ti azzardare.”
Lei lo guardò con disprezzo e lo fece volare a terra con una gomitata: “Come osi mettere le tue manacce addosso ad una ragazza?!”
Il dottore strinse i pugni: “Provateci solamente a disobbedirmi, che questa volta vi giuro che vi disattiverò per sempre!”
17 osservava la scena divertito: “ Ho rotto il tuo giocattolino, te ne sei già dimenticato?”
“Bene, ne rifarò un altro!”
17 non fece una piega: “Dai sorellina, aprila.”
La ragazza gli sorrise e premette il pulsante d’apertura.
“18, che stai facendo? Sei sorda?”
Gelo sbraitò e fece per dirigersi verso di lei, ma non finì di parlare che un rantolò gli tagliò il respiro, i capillari oculari gli scoppiarono all’unisono e il dolore gli contorse la faccia in una smorfia animalesca.
Guardò la parte sinistra del suo torace e vide una mano che gli sbucava sul davanti attraversando corpo e abiti; non avrebbe avuto bisogno di voltarsi, ma lo fece e si ritrovò faccia a faccia con 17 e i suoi occhi, incendiati  da uno scherno assassino.
I nemici del dottore guardavano, senza riuscire a proferir parola.
“Tu…maledetto poppante…”
Fin dal principio, dal primo istante in cui li aveva convertiti aveva temuto questo momento. Lui stesso li aveva dotati di una forza sovrumana e terribile che li avrebbe resi belve mangiatrici di uomini. E adesso? Lui si era tirato addosso la loro ira, adesso stavano giocando con lui per poi divorarlo.
Erano furiosi e lui sapeva il perché, era convinto di essere riuscito a cancellare anche le parti più recondite della loro memoria…perché sapeva che prima che li disattivasse stavano parlando di lui, si stavano ricordando, stavano prendendo coscienza della mostruosità che avevano subito. Ora aveva quello che voleva, due guerrieri androidi spietati e assetati di sangue.
Del sangue sbagliato; il dottore si vide già morto.
 17 estrasse il braccio con calma piatta e rimase dietro il dottore, mettendosi le mani in tasca.
“Tu sei mio…tu sei la mia creazione…obbediscimi!”
Quella fu l’ultima cosa che riuscì a dire, prima che 17 sferrasse un accenno di calcio e la testa gli venisse troncata di netto, finendo scaraventata sul pavimento con clangore metallico.
Il gruppo di nemici non riuscì a trattenere gemiti d’indignazione: “Ma…è come se avesse ucciso suo padre!”
E siccome la testa ancora parlottava, 17 spiccò un balzo e ci saltò sopra con tutto il suo peso, mentre un lago di liquido scuro si allargava sul pavimento di acciaio.
 
 
 
Cos’avrebbe mai potuto sperare, il vecchio Gelo, che sul serio sarebbe riuscito a cancellare completamente la memoria dei due giovani androidi?
Si era altamente sbagliato: 17 e 18 si ricordavano benissimo che la prima cosa che dovevano fare, non appena il dottore si fosse degnato di svegliarli, era toglierlo di mezzo.
17 non era stupido, quando era uscito dalla capsula aveva dato un’occhiata fugace prima al telecomando, poi alla gemella ed era bastato, si erano già messi d’accordo.
Si erano ricordati tutto quello che si erano promessi, appena in tempo prima di venire disattivati e il loro cervello ulteriormente modificato; ma di una cosa non avrebbero mai potuto dimenticarsi: lui era l’uomo che li aveva catturati e trasformati in macchine, lui li aveva derubati di ricordi che ormai avevano perduto , lui doveva pagare e morire.
Era stato sufficiente fingersi buoni ed obbedienti quanto bastava per conquistarselo; a 17 e 18 aveva dato un po’ fastidio, all’inizio, interpretare il ruolo degli storditi con il cervello annacquato, ma era per una buona causa.
“E così è fatta…schifoso animale” 17 sputò per terra disgustato.
“Che finezza!” commentò acida 18 “ma…perché l’abbiamo ucciso? Va bene che ci dava noia…”
17 trasse un sospiro: “L’abbiamo ucciso, anzi io l’ho ucciso perché ci dava noia e perché ci ha trasformati in due cyborg: prima eravamo umani, ricordi?”
La ragazza annuì e ad un tratto i suoi occhi s’incupirono: “…non c’è altro, no?”
Il gemello scosse il capo: cos’altro poteva esserci? Era una ragione sufficientemente motivante.
“Sicuro, 17? Niente niente?”
“Niente niente, 18”.
Teoreticamente, a quel punto, sarebbe toccato loro iniziare l’opera di distruzione per cui erano stati attivati dal dottore, ma in realtà non ne avevano nessuna voglia: non era divertente e soprattutto avrebbe significato eseguire gli ordini.
“Manco morto!” sogghignò 17 “piuttosto faremo qualcos’altro. Anche noi cyborg abbiamo bisogno di un obiettivo nella vita. Possiamo usare i nemici del dottore per giocare!”
“Cominciamo con aprire questa scatola: c’è scritto 16, vediamo chi è” suggerì 18, che immediatamente schiacciò ancora il pulsante di apertura e scoperchiò la capsula con una pedata.
Il numero 16 si alzò, scrutando l’ambiente intorno a lui e quando 17 lo salutò non rispose, limitandosi ad un timido sorriso.
Il ragazzo si lamentò con la sorella del fatto che il loro nuovo amico non spiccicasse parola: l’unica cosa di cui si degnò di informarli era che anche lui era stato creato con l’unico scopo di eliminare il nemico numero uno del dottore.
“E va bene, allora ci metteremo a cercarlo…però andiamo in macchina, così è più divertente!”
“E dove la prendiamo una macchina?”
“La rubiamo.”
18 sbuffò, quanto era infantile suo fratello? Volando l’avrebbero subito trovato e invece no, dovevano andare in macchina…lei le aveva sempre odiate, erano così stupide e inutili: “Vedo che non sei cambiato, 17, anche da umano eri fissato…”
Il ragazzo si lasciò sfuggire un gemito: “Parla lei! Adesso sto ancora aspettando che tu mi chieda di andare a comprare dei vestiti, perché tanto lo so che me lo chiederai, è solo questione di tempo”.
18 ingoiò il rospo stizzita; era vero, voleva proprio chiedergli di fare una sosta nella città più vicina: come poteva andare in giro con quegli stracci ignobili che le aveva messo il dottore? Non aveva il minimo gusto nel scegliere i colori ed era doppiamente colpevole perché aveva avuto la presunzione di prendere decisioni al posto suo.
 
 
I due androidi gemelli, seguiti dal numero 16, trovarono presto un’auto con cui girare e fare shopping.
18 era entrata in una boutique e si era costretta a comprare dei vestiti che non le piacevano; tanto, a detta sua, non si poteva sperare di trovare di meglio lì dentro.
Presto erano arrivati gli sbirri, prontamente chiamati dai proprietari del fugone e dei vestiti che i due ragazzi avevano rubato.
“Volete smetterla di fare resistenza?” urlò lo sceriffo quando 16 si era liberato dalle manette che gli avevano messo.
“Fare resistenza?” ridacchiò 18 canzonatoria, sfilando con grazia davanti agli agenti e dirigendosi verso una delle loro macchine “vi faccio vedere io cosa vuol dire fare resistenza”.
Con i polsi ammanettati, aveva sollevato l’auto per lanciarla in alto, mandandola a schiantarsi su una delle rupi innevate che circondavano la strada. L’auto esplose lasciando i poliziotti attoniti, mentre sia lei che 17 facevano a pezzi le manette e, risaliti sul furgone, riprendevano il viaggio come se niente fosse.
“Dimmi, 16, anche tu eri un ragazzo umano prima, non è vero?” chiese 17 al nuovo compagno d’avventure, non appena si lasciarono alle spalle gli agenti scioccati.
“No. Io sono stato costruito dal nulla” gli rispose, sempre con quel sorriso gentile.
A 16 stavano simpatici i due ragazzi; erano esaltati, un po’, e anche strafottenti, pensavano di saper fare tutto loro. Ma erano molto giovani, pensava, tanta esuberanza era passabile a quell’età.
 
 
Da quanto tempo non vedevano più una notte!
E per di più era la prima notte  dopo la liberazione dal dottore: ormai era morto, non c’era più niente che potesse turbare la felicità dei due gemelli, erano liberi come due aquile selvagge.
Il posto dove si fermarono con il furgoncino era di una bellezza onirica, evidente persino ai loro occhi indifferenti. La strada era scoscesa ai lati e una ripida distesa d’erba argentea scendeva velocemente fino a un nastro di acqua scintillante che scorreva in fondo al dolce pendio.
L’aria di montagna era secca e pungente e corroborante, entrava nei polmoni inebriandoli, lasciandosi dietro una sottile nota di natura vergine: “Sa di pino…e poi di ghiaccio, di animali e di torta ai lamponi”.
“Torta ai lamponi? Dove la senti?” 18 si era sporta anche lei dal finestrino, annusando l’aria notturna. Lei sentiva una scia piacevole di legni, fuoco e calore di esseri viventi.
“Di là” 17 puntò il dito davanti a sé, verso l’infinità argentata e scura che si estendeva sotto i loro occhi “là! Ci saranno delle case, anzi ci sono se guardi bene. Arriva da lì” inspirò profondamente “mamma che buono!”
18 guardò un po’ meglio e scorse in lontananza un gruppo di poche case arroccate, probabilmente distavano almeno dieci km in linea d’aria: “Le case le ho viste, ma la torta ai lamponi la senti solo tu. Non dirmi che hai fame!”
17, che si stava annoiatamente tormentando una lunga ciocca di capelli scuri, alzò lo sguardo di scatto, inchiodando i grandi occhi chiari in quelli della sorella: “Andiamo? Andiamo a prenderla?!”
Sorrideva furbo e divertito.
“Sei sempre il solito…pensi solo a due cose: a mangiare e alle macchine. Tutto qui! Sei inutile come androide” gli disse 18 esasperata, ma 17 non la stette a sentire e la prese per mano, costringendola a librarsi in aria insieme a lui: “E dai non ti costa niente, voliamo! Poi ritorniamo qui”.
“Numero 16 fa’ la guardia alla macchina!” fece in tempo a gridargli la ragazza.
16 sorrise e si distese comodamente sul tetto del furgoncino, assaporando felice la notte e il silenzio.
 
La finestra era leggermente aperta dietro la grata in ferro battuto. La casa era calma e addormentata, le tende sventolavano nel buio. Chiunque fosse sceso in cucina e si fosse avvicinato alla finestra avrebbe scorto due graziosi musetti che facevano capolino con occhi color del ghiaccio.
Ma nessuno era alzato a quell’ora, il rubinetto non gocciolava nemmeno, il tavolo era apparecchiato per la mattina dopo e in mezzo troneggiava un’alzatina con una splendida e profumatissima torta alla frutta.
“Eccola lì! Visto, te l’avevo detto!” rise sottovoce 17, mentre il suo stomaco brontolava “buon cibo…che nostalgia”.
“Io non entro, ti aspetto qui” rispose 18 senza muovere un muscolo.
“Fa’ quello che ti pare” replicò lui senza guardarla “dai, spostati”.
Appena 18 si fu allontanata, 17 appoggiò le mani sulla grata metallica e la tirò, sradicandola dal muro e gettandola a terra.
Con l’agilità di un gatto entrò dalla finestra, prese il bottino e uscì.
“Che bambino sei! Siamo venuti fin qui per prendere un dolce, ma ti rendi conto? Noi dovremmo distruggere tutto sghignazzando come due indemoniati…” 18 lo rimproverò, sorridendo divertita.
“Lo so 18, ma chi se ne importa! Quel pezzo di metallo schifoso è morto: noi due possiamo fare tutto quello che vogliamo, quando lo capisci dimmelo che ti do un dolcetto” le rispose lui di malavoglia.
Quando tornarono, 16 era ancora disteso a contemplare la bellezza della notte argentea: appena li vide sorrise stanco e si preparò a scendere, tanto ormai lo spasso era finito e la quiete anche.
I due ragazzi lo salutarono e si sedettero sul ciglio della strada, 17 a mangiare la sua torta, 18 a riflettere osservando il ruscello.
“Sai, mi ricordo una notte come questa” sospirò ad un certo punto, ravviandosi il caschetto.
“Sì?” biascicò lui.
“Tempo fa, quando eravamo ancora umani.”
18 sospirò ancora, portando lo sguardo al cielo e sentendo un’improvvisa tristezza gelarle il cuore.
“Prendine un po’, non farla mangiare tutta a me” le sorrise 17, offrendole quel che rimaneva del dolce ai lamponi “mi sembri moscia: caccia giù, ti senti meglio poi, fidati”.
La bionda scosse la testa, poi guardò la distesa scoscesa di erba argentata che ondeggiava al vento e d’impulso afferrò 17 per la maglietta, trascinandolo di sotto.
Risero come due bambini mentre rotolavano a briglia sciolta verso il ruscello, incuranti dell’erba umida che li sporcava tutti e dei sassi che non sentivano sotto la schiena.
Ridevano ancora a crepapelle quando la corsa si arrestò, lasciandoli vicini a pancia in su, coi capelli intrisi di rugiada e qualche traccia di terra sulle guance, sul naso o sulla fronte.
“Da quando hai i buchi alle orecchie tu?” chiese 18 osservando il gemello.
Questi trasalì, tastandosi i lobi; ne aveva avuto uno, ma non si ricordava anche dell’altro: “Sarà stato il caprone.”
Si tolse d’impiccio i capelli e si trascinò bocconi fino al torrente, poi ci immerse un dito e iniziò a tracciare cerchi immaginari; chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro, lasciandosi fluire dentro il fresco che si alzava dall’acqua: “Hai ragione, 18, me la ricordo anche io una notte tipo questa: avevamo dieci anni –più o meno- ed è stata la volta in cui abbiamo fatto il patto di sangue”.
“Il patto di sangue?” 18 si appoggiò ai palmi delle mani e avanzò con il sedere fino a raggiungere 17 “la roba tribale?”
Il ragazzo le rivolse un sorriso a trentadue denti: “Sì!”
“Lo rifacciamo? So che la prima volta ero stata io a oppormi, ma ne sento il bisogno: è come se adesso vivessimo una nuova vita”.
17 continuava imperterrito a giocare con l’acqua: “Stiamo vivendo una nuova vita. Una vita sconclusionata e oziosa dove non siamo legati a nessuno, perché non abbiamo nessuno”.
“Non è vero, c’è 16” pensò 18 senza dire nulla, perché si rendeva benissimo conto che il loro nuovo amico era appunto nuovo.
“Va bene, lo rifacciamo. Però non so cosa possiamo usare per tagliarci” disse lui.
“La tua pistola! Tanto va bene anche se ci facciamo un buco…” sorrise 18.
“Ok.”
17 si ricordava ancora di possedere un pistola e se la puntò alla mano premendo il grilletto, ma non successe nulla perché il proiettile andò in pezzi contro la sua pelle.
I gemelli rimasero un istante a guardarsi e poi scoppiarono di nuovo a ridere, continuando a spararsi a vicenda solo per il gusto di vedere i proiettili che si appiattivano sui loro corpi; quando la riserva di colpi finì avevano le lacrime e il mal di pancia.
“Perché abbiamo riso così tanto? In fondo non è così divertente…” disse lei, strusciandosi nell’erba.
17 si limitò a guardarla cercando di riprendere fiato; non lo sapeva neanche lui, probabilmente erano contenti per tutto quello che era successo prima ma anche tanto stanchi per il resto. Era stata una risata liberatoria, come per dire dottor Gelo, va’ a quel paese, noi facciamo quello che vogliamo, siamo felici e usiamo i nostri poteri per rubare auto, vestiti e torte.
“Come facciamo a rifare il rito tribale se non c’è niente in grado di tagliarci?” riprese il discorso 18, sconsolata.
Il fratello si guardò intorno alla ricerca di qualcosa, poi scosse la testa facendo ondeggiare i capelli come un sipario: “Non lo so…spiaccicati contro qualcosa”.
Anche 18 diede uno sguardo ai dintorni.
Rocce? No.
Pezzi di legno? Men che meno.
Se una pistola non aveva fatto loro niente, cos’avrebbero potuto tentare?
“Ho un’idea!” trillò lei, saltando a cavalcioni addosso a 17 e piantandogli le ginocchia nella pancia “chiediamolo a 16! Lui è capace di farci male, ne sono sicura!”
“E levati!” disse lui fra i denti, rovesciando a terra la sorella “comunque no, quel buono a nulla non c’entra, queste sono cose nostre, capito?”
18 detestava suo fratello quando era così ottuso: a lei non fregava niente, bastava solo che qualcuno riuscisse a farle una piccola ferita.
“Allora ha lei un’idea migliore, signore?” gli disse sarcastica.
“Sì, i denti: i nostri denti!”
Era una buona idea, quelli erano i loro esattamente come la pelle. I gemelli ne ebbero per un bel po’,  ma alla fine riuscirono a procurarsi una minuscola ferita sulla mano.
“E così rifacciamo il patto di sangue: tu sei il mio essere speciale, 18, ti difenderò fino alla morte” disse solennemente 17, premendo la bocca sulla mano della sorella.
“Anche tu sei il mio essere speciale, 17; avrò sempre cura di te”.
 
“Secondo me noi abbiamo il diritto di divertirci” asserì 18 lapidaria “siamo due macchine”.
“E allora? Che te ne frega?”
18 continuò a guardare la volta celeste: era un oggetto o una persona? Cosa le rimaneva?
“Io a volte mi sento come se fossi una cosa che non ha diritto a fare le cose che fanno le persone” sospirò “non riesco a capire cosa siamo”.
“Macchine! Cioè…cyborg,  che alla lettera vuol dire persone con dei circuiti, numero 16 è un androide dalla testa ai piedi” disse lui “se anche noi fossimo come lui, io non avrei potuto mangiare e a te non sarebbero più piaciuti i vestiti. Ne avevamo già parlato, ti ricordi?”
“Sì. E mi ricordo che ad un certo punto ci era venuta in mente una cosa importantissima che non dovevamo assolutamente dimenticare. Qualcosa che ci riguardava in maniera molto intima…17” chiuse gli occhi e si girò verso di lui: “17…noi siamo gemelli”.
“Beh, è naturale. Perché mai me lo chiedi?”
18 aggrottò le sopracciglia e lo fissò intensamente: “Secondo te…cosa significa essere gemelli?”
Il ragazzo proruppe in una risata fragorosa: “Non lo so! Non sono mica un dizionario!”
Le spiegò che voleva dire che erano sempre stati insieme, fin dall’inizio.
“E qual è l’inizio?”
“Penso da quando lo schifoso ci ha creati…siamo gemelli perché ci ha creati insieme”.
18 credeva che lo fossero anche da umani, altrimenti come avrebbe fatto a ricordarsi che suo fratello era sempre stato patito di motori?
“Secondo me lo eravamo anche prima. Me lo sento, è così”.
17 le sorrise: “Già. Penso tu abbia ragione”.

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Capitolo 10
*** Falling in the black ***


Eccomi tornata con questo capitolo!!
Mi scuso per il ritardo S P A V E T O S O con cui ho deciso di aggiornare la mia fanfic...
Già che ci sono vorrei dire due parole a:

Kjria91- grazie mille per tutto il supporto che mi stai dando, per il tempo che mi dedichi e per le recensioni
Lady_Charme- tu come sempre mi sostieni e mi incoraggi

**questo capitolo è per voi**
Un grosso bacio a tutti quelli che mi seguono, leggono e recensiscono.
Le vostre opinioni, anche critiche costruttive, mi sono sempre gradite, quindi bando alla timidezza e non abbiate il braccino corto, vi prego! hahah <3
Blusshi*








17 e 18 passavano il loro tempo girando in macchina e cercando di tirarla più lunga possibile: dovevano cercare l’antico avversario del dottore, ma a loro non importava pressoché nulla. Lo facevano per far trascorrere le giornate, per cercarsi un obiettivo in quella nuova vita che appariva così vuota e insignificante. Avevano avuto uno scontro con il gruppo di nemici che li aveva accolti al loro risveglio, ma niente di rilevante, li avevano massacrati senza troppo sforzo.
Uccisi, no; non ci provavano gusto, quelle sottospecie di mosche non ne erano all’altezza .
Si erano congedati, un po’ delusi; c’era uno, il più basso, che stava letteralmente tremando. 18 aveva voluto fare un po’ la cattiva e l’aveva baciato sulla guancia; era così anche prima, le piaceva giocare coi ragazzi.
 
16 li accompagnava, restando quasi sempre in silenzio; parlava solo se interpellato e quando lo faceva  17 lo disdegnava sempre.
“C’è stato qualche cambiamento nella pressione dell’aria…” fermando il furgone, il ragazzo scese a scrutare l’aria attorno a sé, subito raggiunto da 18 “magari l’eruzione di un vulcano…beh, molto lontano da qui, comunque”.
“E’ alla periferia della città che sta a ovest…due grandi potenze si stanno scontrando.” 16 si unì ai ragazzi sul ciglio della strada.
“Ah! Hai un power radar e non ce l’hai manco detto?” fece 17 prepotente, guardandolo con aria seccata.
“Beh, non me l’avete chiesto”.
16 era troppo maturo per arrabbiarsi con i ragazzi. E poi non ne valeva la pena, era questione di carattere: come lui era calmo e gentile, loro erano gasati ma alla fine erano bravi: erano stati loro a toglierlo dal suo sonno artificiale.
17 gli aveva domandato chi fossero i contendenti, ma 16 non aveva saputo rispondere perché non erano inclusi nel suo database: “Posso solo dirvi che uno dei due ha una forza che eguaglia la vostra”.
18 sbarrò gli occhi, in quelli del suo gemello comparve un’espressione innervosita e nello stesso tempo svagata: “Mi sa che lo schifoso ti ha messo un radar difettoso: non so cosa tu abbia capito, ma non me ne frega, perché non c’è nessuno più forte di me a questo mondo”.
Lo schifoso doveva essere per forza il dottor Gelo, concluse 16; non era la prima volta che 17 lo chiamava così, dovevano aver litigato prima che lui venisse riacceso.
E per l’ennesima volta concluse che stare in silenzio era sempre la cosa migliore.
“Stanno combattendo vicino alla città” chiese 18 “ma allora dov’è la gente?”
 
 
 
 
Kate non guardava quasi mai il telegiornale. Non le interessava più.
Aveva ben altri problemi, irrisolti.
Non le fregava niente di quelli altrui, soprattutto quando mancava pochissimo al terzo anniversario della scomparsa di Eric e Alice.
Ormai non riusciva più nemmeno a stare male, non aveva più lacrime. Era questo che la preoccupava, il niente.
Temeva che in un certo senso sarebbe morta, una volta che avesse smesso di provare emozioni, per quanto sgradevoli.
I detective stavano ancora cercando, ma ormai era inutile tentare e pretendere  l’impossibile.
Erano morti, basta; non c’era mica tanto da questionare.
Magari prima li avevano anche portati all’estero.
Quante volte l’aveva sentito dire, di bambini e ragazzi che vengono rapiti e poi venduti in altri paesi?
Venduti o ammazzati.
I detective sospettavano che, per Alice, c’entrasse qualcosa con la tratta delle bianche; per Eric invece…
Ma secondo loro era comunque possibile che una sorte analoga fosse toccata anche a lui.
Kate dunque non aveva il minimo interesse per i problemi altrui, ma quando per caso aveva sentito la notizia di sfuggita, alla radio in macchina, era rimasta amareggiata e, in un certo senso, inquieta.
Aspettò il telegiornale fin quando la notizia le apparve chiara e dettagliata sullo schermo.
Era successo che in una città all’estremo nordovest -dall’altra parte del paese- tutti gli abitanti erano spariti; così, dall’oggi al domani, senza lasciare traccia. Sembrava che l’intera area fosse stata completamente evacuata.
Insomma, le tracce c’erano eccome: in quel momento il cameraman riprendeva in tempo reale le strade deserte della città, su cui erano stesi o ammucchiati tantissimi vestiti.
Esattamente come quando Kate, o al tempo Alice, li metteva sul letto; pantaloni, maglietta, maglione, per abbinarli o semplicemente per riporli.
Erano lì, vuoti e leggermente mossi dal vento, che popolavano le strade silenziose della città come un corteo di lapidi. I giornalisti trovarono alcune finestre aperte e ripresero stanze vuote, abbandonate, ferme per sempre nell’ultimo momento in cui erano state vissute.
A Kate venne un groppo in gola, i vestiti erano mollemente poggiati sulle sedie conservando ancora l’impronta del corpo, attorno a tavoli apparecchiati, adagiati su poltrone, letti, divani. Sembrava che gli ex abitanti avessero abbandonato tutto così com’era lanciandosi in una fuga disperata.
Non dovevano aver avuto successo; Kate ebbe un brivido, c’era qualcosa che non andava. Qualcosa di funesto e di terribile nella calma morta di quel posto. Non avrebbe saputo spiegarlo a parole, ma quelle immagini non le piacevano. Sembrava che fosse successo qualcosa di veramente brutto, non un suono, non un segno di vita, a parte la voce dei coraggiosi giornalisti: “Qui non si vede niente…ci stiamo solo chiedendo come mai sia pieno di vestiti…”
Un maniaco sessuale? Sì come no, un maniaco sessuale che spoglia e sequestra un’intera città!
Kate scacciò quell’ipotesi, mentre raggomitolata sul divano si sorprese nervosa a mangiarsi le unghie.
E si sentì il gelo invaderle il cuore quando il giornalista cacciò un grido e la telecamera cadde per terra interrompendo le riprese.
 
“Se fosse lo stesso motivo? Se anche Eric e Alice fossero scomparsi così?” si chiese Kate quella sera, cercando di prendere sonno. Anche quello, ormai, era pretendere l’impossibile.
Ormai non dormiva quasi più: “E pensare che l’unica occasione in cui ero ridotta a questo stato di insonnia era stato l’ultimo periodo di gravidanza. I bambini si muovevano e io senza tregua mi scocciavo fino a piangere di stizza…e adesso quanto li rivorrei qui con me…”
Anche alla redazione del telegiornale erano preoccupati perché i reporter non erano più tornati e in breve tempo erano stati scoperti anche i loro vestiti, esattamente sul luogo del delitto. Ormai era un caso unico.
Man mano che passavano i giorni, anche altre città delle zone limitrofe avevano subito la stessa sorte.
La velocità era impressionante, le città colpite adesso si trovavano al centro…
La gente della sua città iniziava a preoccuparsi: chissà quando tocca a noi? Chissà se verrà qui?
E poi chi, si chiedeva Kate; ma tanto a lei cosa cambiava? Poteva anche morire, non aveva più nulla da perdere. Le sarebbe solo piaciuto dire addio ai suoi bambini prima che questo fantasmagorico serial killer venisse a prenderla nella sua città.
 
 
17 e 18 erano comodamente arrivati, in macchina, alla casa di colui che in teoria avrebbero dovuto trucidare. Ma era vuota, non c’era nessuno.
“Ci hanno prevenuti…dove possono essere andati?”
16 e 17 aspettavano fuori dalla porta. Il loro uomo doveva avere una moglie, 18 era ancora in casa che ribaltava i suoi armadi e i suoi cassetti, alla ricerca di qualche capo di suo gusto.
“Possibile che si vestano tutte così male? Queste umane…non sanno vestirsi! Sarebbero da ammazzare in massa solo per questo!”
Alla fine si dovette accontentare di un look basic ma tutto sommato non malvagio: jeans blu e maglietta bianca non guastavano mai.
“Era ora!” le sorrise 17, prima di rivolgersi al numero 16 “dove possiamo cercarlo?”
16 disse che dovevano spostarsi più a sud, sulla costa, dove si trovava la casa di un caro amico del loro uomo: poteva essere lì, anzi, doveva essere lì.
“Uffa…ci tocca fare 2700 km in volo verso sud. Poco male, la fine del gioco” sorrise tra sé 17.
Lui e 18 ci erano rimasti un po’ male per aver centrato così presto il loro teorico obiettivo.
Quello che non sapevano è che a volte la vita è davvero imprevedibile.
Non si immaginavano nemmeno che presto la loro avrebbe perso la piattezza che l’aveva caratterizzata a partire dal risveglio. Non avrebbero potuto mai immaginarsi che i loro guai non erano terminati con la morte del dottor Gelo, anzi.
Non sospettavano minimamente di essere braccati dalla Creatura.
 
 
 
“Secondo te…ti ricordi quel coso che ho baciato per finta?”
“Mmhh…bleah. Sì che me lo ricordo”.
I gemelli volavano alla velocità della luce, diretti assieme a 16 verso la costa.
A 18 era venuto in mente il ragazzo piccolo e impaurito che aveva incontrato pochi giorni prima.
“Perché?” le chiese 17 con aria nauseata “perché me lo ricordi…”
18 si lasciò scappare un risolino beato: “Boh, così! Era tenero!”
“Ma che schifo…”
Se ne stette zitto per tutto il tempo; la ragazza era infastidita che lui non interagisse con lei.
“C’è una cosa di cui volevo parlarti…17 mi ascolti?”
Il ragazzo mugugnò senza guardarla.
“Non ho idea se per noi androidi è lecito sognare…non so nemmeno se effettivamente il mio è stato un sogno…”
“Certo che noi possiamo. 16 no
“Beh, che fosse un sogno o una trance, ho avuto un ricordo” volò più veloce in modo da essere vicinissima a lui “una donna. Sentivo la sua voce e la vedevo abbastanza dettagliatamente…la sua voce mi piaceva molto; e lei era bella, aveva i capelli lunghi e scuri, gli occhi tipo i nostri. Assomigliava molto a te, 17”
“A me?” rise lui “ma che cavolo sogni, tu? Sei sicura?”
“Certo! Non sono ritardata” disse lei adirata “non mi ricordo cosa dicesse, non faceva niente a parte parlare. Non so a cosa collegarla”.
17 sospirò: “E io nemmeno, se è questo che volevi sapere”.
 
 
 
“Siamo…siamo stati attaccati…” l’uomo, disteso in un letto d’ospedale, parlava a fatica ai microfoni; gli occhi erano sbarrati, febbricitanti.
Kate era incollata al televisore e guardava. Non avrebbe davvero voluto, ma era come un film dell’orrore dove non si riesce a coprirsi gli occhi per non vedere le scene più brutte.
“Lei dove si trovava al momento?” chiedeva con garbo il giornalista.
“Io-io…in ufficio. Ero lì…mi ha preso e mi…stava…per uccidere.”
Il servizio era in fase di ripresa nell’ospedale di una città del centrosud.
“A poco più di duecento km da qui…” pensò Kate, stringendo la coperta sulle sue gambe.
La città era stata attaccata dal serial killer responsabile delle stragi del nord.
“Una grande… creatura” l’uomo spalancò ancora di più gli occhi enormi “tutti quelli dei piani inferiori… li ha fatti sparire…”
I giornalisti aspettavano che l’uomo riuscisse a raccontare quello a cui aveva assistito; anche Kate attendeva, sudata, con le sopracciglia aggrottate: “Mio Dio, si è salvato…chissà che shock”.
La città era sotto attacco e polizia e giornalisti l’avevano immediatamente raggiunta, constatando che quasi tutti gli abitanti erano stati risparmiati. Solo in un palazzo pieno di uffici erano state mietute delle vittime.
Fino al sesto piano gli agenti avevano trovato i soliti, spettrali vestiti abbandonati; al settimo un gruppo di uomini ancora vivi. Erano stati tutti ricoverati in stato di shock e in quel momento i giornalisti ne stavano intervistando uno.
“Mi aveva a-a-afferrato…e stava per…pugnalarmi…”
“Mio Dio…” Kate stava per piangere; era diventata particolarmente sensibile negli ultimi tre anni.
L’uomo ansimava mentre la sua voce cominciava a cedere.
“E poi cos’è successo?” lo aiutò il reporter “dov’è andata la creatura?”
“L-la Creatura…si è f-fermata di sopras-soprassalto” ansimò l’uomo “mi ha lasciato andare…ha detto qualcosa…che non ho inteso”.
“Ha detto?” chiese il giornalista “quindi la Creatura sa parlare…”
Kate trasalì. Una Creatura…chissà che creatura poteva essere.
“P-parlava, sì, molto b-bene. Come noi. Ha detto qualcosa t-tipo –finalment-te li ho tr-trovati-“.
L’uomo si fermò e prese fiato. Il giornalista gli passò dell’acqua.
“E poi…mi ha lasciato andare ed è v-volata fuori dalla finestra”.
 
Ormai tutti i telegiornali ne parlavano.
Una Creatura assassina che entrava negli edifici volando e faceva misteriosamente scomparire la gente.
Come? Li spoglia e se li porta via?
Li spoglia, se li cuoce e se li mangia?
Li spoglia, getta loro dell’acido addosso così spariscono e se ne lava le mani?
Kate si faceva queste domande, come tutti del resto.
Alla tele dicevano di stare tranquilli perché erano passate alcune ore dal mezzo attacco al centrosud e nessun’altra città era stata coinvolta.
Che senso aveva tutto questo? Cosa diavolo era la Creatura?
Anche alla tele la chiamavano così…Kate credeva che fossero uno o più serial killer, ma a quanto pare no.
Il solo che poteva testimoniare non aveva descritto il suo aspetto, si era limitato a dire che sapeva volare e che probabilmente non era umana.
Gli alieni? Si, certo.
Kate non ci aveva mai creduto, specialmente ora. Non credeva nemmeno alla storia della Creatura, tra un po’.
Adesso i poliziotti osavano anche dirle che magari Eric e Alice si erano volatilizzati per colpa di quella cosa.
Cervelli di gallina…tre anni prima questo essere, questa cosa, non esisteva nemmeno.
“Siete tutti pazzi, giocate tutti a guardia e ladri, a fare gli agnelli predati dal lupo” diceva Kate con amarezza, ogni volta che, addolorata, spegneva la tele.
 
 
Nella casa sulla costa non c’era nessuno.
O meglio, c’era il gruppo di incapaci che i gemelli avevano già steso una volta; 18 notò divertita che il piccoletto non mancava all’appello.
Il gruppetto si rifiutava categoricamente di dire dove fosse fuggito il loro compagno, quello che gli androidi inseguivano.
“Guardate che se non vi decidete smetteremo di essere amichevoli” li avvertì 17.
“Fate pure come volete”  si era fatto avanti il più alto e muscoloso del gruppetto. Il suo sguardo era fiero e accigliato, la sua pelle smeraldina brillava al sole. Il ragazzo se lo ricordava, l’aveva steso con una manata la volta precedente “laggiù c’è un’isola su cui possiamo regolare i conti”.
Cosa c’era da regolare? Voleva prenderne ancora? Come al solito, i gemelli non ebbero bisogno di parlare per capirsi.
Alla fine accettarono e loro tre più il nemico si trasferirono su un isolotto in mezzo all’oceano, al largo dalla costa del paese.
17 era calmo: “Se non parlerai questa volta ti uccideremo per davvero, sei d’accordo?”
Il nemico ridacchiò e si spogliò dell’ampio mantello e del turbante che portava.
“Non lo capisco…il perché voglia combattere pur sapendo che non ce la farà mai; vuole farmi perdere tempo? No, è solo uno stupido” disse 17 tra sé.
Il nemico osservò gli androidi gemelli e il loro compagno e vide con sorpresa che il bestione si era messo in disparte giocando con degli uccellini, mentre la biondissima si era maliziosamente seduta come se fosse stata al cinema. Davanti a lui stava solo il ragazzo, con le maniche rimboccate.
“Combatti da solo, numero 17?”
“Naturalmente! Tanto morirai lo stesso”.
“Benissimo!” il guerriero si sentì profondamente sollevato. Avrebbe potuto farcela contro un solo nemico, forse, ma soprattutto…la Creatura…
 
 
Il nemico e 17 erano praticamente pari…il nemico era migliorato moltissimo in pochissimi giorni e ora riusciva a tenergli testa. Ma la vittoria era un’altra cosa, pensava orgoglioso 17.
Se le suonavano forte ma nessuno dei due riusciva ad avere la meglio, perché quando sembrava che stesse per succedere il rispettivo avversario tirava sempre fuori un asso dalla manica.
“Smettila di giocare, 17! Ancora un po’ e devo venire io a finirla!”
18 si era stancata di guardare suo fratello che giocava con il nemico come il gatto fa col topo.
“Non ci penso nemmeno! Non mi sono mai divertito tanto da quando mi sono svegliato, quindi non rompere e lasciami stare!” le aveva urlato lui di rimando.
Poi sia lui che l’altro ci avevano dato talmente dentro che il nemico, tentando inutilmente di sconfiggerlo, aveva finito per distruggere l’isolotto.
“Gli uccellini…” mormorò 16 sottovoce “se ne sono andati, per colpa di tutto il caos che hanno fatto…”
Il nemico era un grande antipatico. Non aveva ancora intenzione di parlare.
“Come osi darti tante arie davanti a me, il cyborg 17, il più forte della storia?”
Continuarono a menarsi a non finire: 17 era estremamente innervosito dal fatto che quel brutto ceffo riuscisse a tenergli testa anche se sapeva che, mentre la sua energia era infinita, quella del nemico sarebbe presto o tardi scemata.
Il nemico infatti era già stanco e respirava a grandi sorsi, ma smise di colpo e rimase con la bocca semiaperta e gli occhi sbarrati, fissi a guardare qualcosa alla sua destra.
Incuriosito, 17 guardò in quella direzione e quello che vide gli causò un piccolo sussulto.
In cima a una rupe era apparsa una sagoma: un’alta figura sottile e longilinea che si stagliava scura sul sole pomeridiano.
Il cuore del guerriero alto e muscoloso si raggelò.
Era lui. La Creatura.
 
Era da giorni che stavano succedendo delle stragi nelle città: a partire dal nord, le persone scomparivano senza lasciare traccia. E succedeva tutti i giorni, più città al giorno.
La popolazione dello Stato aveva subito un tragico salasso e il guerriero e altri suoi compagni avevano indagato.
Avevano scoperto la Creatura: un demone malvagio, un flagello, che si nutriva della forza vitale –e con essa del loro intero essere-  delle persone per riuscire ad aumentare la sua.
Aveva rivelato che in verità saziarsi della gente non gli interessava granché. Aveva due grandi obiettivi, aveva fatto il loro nome.
Voleva 17 e 18.
 
Ora eccolo, li aveva trovati. Il nemico sapeva tutto, ma di certo i due gemelli non lo conoscevano.
“Chi…ma che roba è quello lì?!” 17 lo osservava, sicuro di non averlo mai visto in vita sua “Diamine, una cosa così brutta me la sarei ricordata.”
Anche 18 lo guardò e si sentì spaventata: fin da bambina le erano sempre piaciute le storie dell’orrore, di mostri, di fantasmi…ma guardando quell’essere si sentiva la pelle d’oca, perché nessuno dei mostri o delle storie di cui avesse mai sentito parlare erano così spaventosi. La realtà in quel caso, era proprio vero, superava la fantasia. Avesse qualcuno inventato la storia più paurosa del mondo, bene, mai e poi mai avrebbe potuto anche solo eguagliare la sensazione di angoscioso panico che effondeva dalla creatura che le stava davanti in quel momento.
Dal canto suo anche la Creatura osservava, pregustando il suo banchetto.
“Non so cosa diavolo tu sia, ma fammi il favore, sei arrivato sul più bello: vattene, ho un nemico da ammazzare, io” gli intimò 17 con tono canzonatorio.
Aveva provato una specie di nodo alla gola alla vista di quel coso, ma non l’avrebbe mai dato a vedere.
Il nemico che doveva ammazzare si risentiva per quello che stava per fare, ma non ebbe scelta: “17! Sta’ attento! La Creatura ti succhierà l’energia vitale e tu morirai. Scappa!”
17 riuscì appena a voltarsi verso la sua vittima, che con la coda dell’occhio vide giusto in tempo una specie di dardo aguzzo che serpeggiava verso di lui: era la coda del mostro, la coda più terribile che avesse mai visto. Una specie di lungo siluro acuminato.
Guizzava di qua e di là sempre tentando di trafiggerlo, ma lui era più veloce, riusciva sempre a scansarla.
No! Aveva sbagliato qualcosa…perché adesso era a terra, col mostro che lo inchiodava al suolo puntandogli la coda addosso?
Un soccorso inaspettato –e non richiesto- gli venne proprio dal guerriero, quello che fino a poco prima era intenzionato a fare fuori.
Il guerriero calciò via il mostro e restò al fianco di 17.
Com’era arrabbiato! Doppia umiliazione: non solo si era fatto colpire da quel coso, ma aveva anche dovuto sopportare che il suo nemico personale lo salvasse, come fosse una damigella in pericolo!
Che schifo, pensò dentro di sé. Che schifo assurdo.
La Creatura era così forte che in breve ruppe la strenua difesa che il guerriero aveva tentato di opporgli: il valoroso guerriero che 17 voleva tanto sconfiggere era finito buttato in mare, con una grave ferita al petto.
Ora non c’era più niente tra la Creatura e 17: erano uno davanti all’altra.
Il ragazzo non riusciva a imporsi di stare calmo e calcolare la situazione e d’altra parte la Creatura non gliene diede il tempo: iniziò a martellarlo di pugni a una velocità assurda, voleva fiaccarlo per poi impadronirsene, gliel’aveva detto non appena 17 aveva iniziato a difendersi.
Sia lui che 18 erano rimasti senza parole: ce l’avevano tutti con loro?
Prima il dottor Gelo, che li aveva rapiti e trasformati.
Adesso questa…Creatura, che intendeva aggredirli per nutrirsi di loro, in modo da diventare la numero uno: anche lei era un progetto del dottore, a cui aveva lavorato per tutta la vita.
I due gemelli non volevano crederci.
“Non deve finire così…io voglio vivere a lungo!” si disse 17 mentre si fiondava contro la Creatura.
Quando finì di nuovo a terra il dolore era sconvolgente. Il ragazzo non riusciva manco a ragionare, sentiva solamente il sapore acido della sconfitta che, rovente come un fuoco, gli riempiva la bocca.
E’ questo che si prova?
E’ così che si sono sentiti quelli, quando siamo stati noi a infliggergli la disfatta?
Fa così male?
Per la prima volta 17 si mise in empatia con i suoi nemici; se avesse potuto si sarebbe messo a ridere di nervosismo: un androide che prova empatia…era molto più umano di quanto avesse potuto e voluto credere.
Proprio lui, che li umani li aveva trovati così inutili.
Si sentiva impotente e umiliato, lui, davanti ai suoi nemici e anche ai suoi alleati.
16 e 18…perché non gli venivano in soccorso…eppure avevano visto tutto.
Anzi, no, 16 che non aveva fatto altro che dirgli di ritirarsi! Ma perché ascoltarlo, dopotutto il suo power radar era rotto…
Beati voi, vi invidio per essere così distaccati. Siete dei veri androidi. Lo schifoso sarebbe fiero di voi.
La Creatura interruppe bruscamente il flusso dei suoi pensieri, afferrandolo per la collottola e tenendolo sollevato da terra, mentre lui scalciava e si scrollava; non voleva guardare quella fisionomia mostruosa, il solo pensiero di finire divorato da quella cosa orribile gli rivoltava lo stomaco.
La Creatura non sopportava che si dimenasse e lo punì con un colpo alla schiena che gli tolse il fiato.
Quello che accadde in seguito fu come un film per lui.
Un buco sopra la sua testa, un buco nero e appena dopo un orrido budello palpitante; lui stesso che lottava con tutte le sue forze; 16 che veniva a proteggerlo; 16 che combatteva contro la Creatura, la Creatura che sembrava sparita e ancora lui stesso, arrabbiato e nuovamente pronto a combattere, che la chiamava: doveva pagarla per l’umiliazione che gli aveva inflitto.
E poi una voce, lontana, una voce che chiamava il suo nome, la voce di uno dei nemici: “17,DIETRO DI TE!”
E poi il nero; il nero, il caldo, il senso di soffocamento.
E poi l’oblio.
 
 
 
Nessuno avrebbe mai potuto capire come si sentiva.
Sapeva solo che tutto quello che avrebbe voluto era lasciarsi sprofondare, ma invece no, doveva lottare per salvare almeno la sua vita.
La morte si sarebbe meritata, si diceva, solo la morte.
Chissà cos’avevano pensato 16, persino i nemici, quando suo fratello era stato preso.
E 17…
Chissà cos’aveva pensato lui.
Sicuramente il perché lei, la sua gemella -il suo essere speciale- fosse rimasta a guardare l’intera trafila della sua sventura senza nemmeno muovere un muscolo per soccorrerlo.
16 ci aveva provato. E anche quando la Creatura aveva tentato immediatamente di prendere anche lei, ancora una volta era sceso sul campo per difenderla ed era rimasto gravemente ferito.
Se non fosse stato per i nemici, loro due non sarebbero mai riusciti a scappare via dall’isola e a nascondersi su un altro arcipelago.
Ma lei? Che razza di mostro ignobile era, lei che aveva sentito i gemiti di suo fratello, che l’aveva visto scomparire nel corpo della Creatura…ed era rimasta lì, al suo posto, pensando solo di voler fuggire.
Probabilmente tutti stavano pensando la stessa cosa, che lei fosse appunto un ingrato e sgradevole personaggio.
Ma lei se ne strafregava, il dolore che aveva realizzato di provare era già abbastanza.
Gli androidi hanno un cuore? Non era un problema in quel momento, ma 18 seppe con certezza che alla fine non era così poco umana come aveva pensato.
Il suo era spremuto, spappolato, a pezzi; non riusciva nemmeno a parlare.
Le urla di 17 le rimbombavano forte nelle orecchie, con violenza inaudita: era suo fratello…e adesso non c’era più.
Sparito. Dissolto. Chissà come.
Chissà se aveva provato dolore? Chissà qual era stato il suo ultimo pensiero?
“Non ti vedrò mai più, in questa vita…” pensava, col respiro strozzato dall’angoscia, dalla tristezza, dalla paura che le faceva tremare le ginocchia “ma presto verrà a prendermi…è quello che mi spetta per non averti aiutato…oh no 17, perché ti ho lasciato morire…faccio schifo come gemella, non sono stata capace di proteggerti”.
18 si disse che si sarebbe meritata una sua maledizione, anche se era già destinata a morire, esattamente com’era successo a lui.
Lei non si era salvata, lei doveva solo morire più tardi. Ecco, c’era anche l’ansia della morte a completare il suo grazioso quadro interiore.
Sapeva solo che, dopo la morte di 17, avrebbe desiderato non essere mai nata.
Adesso la Creatura era sopra l’arcipelago, cercava lei.
“Non devi muoverti assolutamente: sta attaccando tutto quello che si muove sulle isole. Se stai ferma forse ti salverai”.
18 sentiva 16 senza ascoltarlo, tutto quello che voleva era sciogliersi e disperdersi come neve a primavera.
Sentì un rumore secco poco lontano da lei e quando si girò sorprese il piccoletto, quello che le stava tanto simpatico.
“Fantastico. Che cosa ci fa anche lui qui?!”
“Vattene di qui, subito. Se resti, verrai divorata dalla Creatura e allora sarà la fine per tutti”.
Poi rimase zitto, con un’espressione alterata: “E non mi guardare così!”
18 non si sentiva più padrona dei suoi nervi, che senza controllo la facevano muovere a scatti e sussultare. Era totalmente isterica, l’unica cosa che pensava era che non voleva credere di essere arrivata a quel punto: aveva sconfitto il dottor Gelo, aveva riavuto la sua libertà. Non voleva morire, mangiata da un mostro poi! Il massimo del minimo; e lei aveva ancora così tanto shopping da fare!
Ma non riuscì più a pensare quando con un sibilo acuto vide la Creatura dirigersi rapidissimamente verso di lei. Non ci furono parole per descrivere il piccoletto e 16 che vennero immediatamente atterrati, né per l’angoscia che le esplose dal petto, per la luce accecante che a un certo punto le tolse ogni visuale.
In un impeto di rabbia 18 si lanciò contro la Creatura: “Sei un mostro!”
Calci e pugni non servirono a niente.
Non ci furono parole per  la tenebra stretta e umida che ad un certo punto l’avvolse come le spire di un serpente. L’ultima cosa che gli occhi di 18, ancora accecati dalla luce, videro in un’agonia disperata era lei. La donna bella dai lunghi capelli scuri. Il suo sorriso era bello, i suoi occhi ridenti come il resto del viso erano bellissimi. Le tendeva una mano; stringeva due bambini, maschio e femmina. Due gemelli.

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Capitolo 11
*** Awake and alive ***


Miei cari lettori <3
Scusate per questi sette giorni di attesa, ma la scuola non vuole che io scriva :'(

Ringrazio sempre immensamente, felicemente, gioiosamente la mia piccola carissima Lady_Charme, che l'ultima volta mi ha fatto una recensione della madonna ** grazie <3
e naturalmente un bacio speciale a Kjria_91 <3


Spero appreziate questo capitolo, fatemi sapere cosa ne pensate! :D






Un cielo azzurrissimo. Tanta luce.
Sembrava di essere più vicini al cielo da lì.
Quando 18 aprì gli occhi rimase sorpresa da tutto quell’azzurro; era il Paradiso?
Poteva anche darsi, ma allora lei che ci faceva lì?
Qualunque posto fosse stato, non si ricordava minimamente come ci fosse finita.
Uno sterminato pavimento bianco, delle persone inginocchiate intorno a lei.
Le persone…il guerriero dalla pelle smeraldina, il gruppo di nemici, il piccoletto!
18 scattò in piedi, guardandosi intorno con aria affannata: adesso ricordava! L’ultima volta che aveva visto il piccoletto era stato quando lui aveva tentato di cacciarla via, prima che la Creatura le saltasse addosso e la inviluppasse nell’oscurità asfissiante da cui non si rendeva ancora conto di essere uscita.
Ebbe un ricordo improvviso di quel momento terribile e le viscere le si contrassero dolorosamente, mentre brividi di paura la scuotevano. Quando riuscì a tornare calma si rese conto che era viva, il suo corpo tutto intero: non avrebbe mai pensato che sarebbe stato ancora possibile.
E 17? Perché lui non c’era?
La ragazza si muoveva a scatti guardandosi intorno e stava sulle difensive. Tanto per cambiare, la sua mente era annebbiata.
“Stai tranquilla, siamo in un posto sicuro. La Creatura è stata sconfitta, non devi più avere paura”.
A parlare era stato lui, il piccoletto. Le spiegò come uno di loro avesse sconfitto la Creatura, ma 18 l’ascoltava distratta e confusa e non tenne a mente il nome dell’eroe che li aveva salvati tutti.
“Già! Il nostro compagno è il migliore di tutti adesso! Non ti conviene farci del male, né a te né all’altro!” le urlò contro uno del gruppo, un uomo coi capelli a spazzola.
“L’altro?...allora c’è anche 17!” 18 si sentì invadere da una gioia atavica.
Il piccoletto lanciò uno sguardo adirato all’uomo e le raccontò tutto quello che si era persa, rivelandole anche di come lui l’avesse soccorsa.
“Dovresti solo essergli grata: è merito suo se non sei morta durante la battaglia” mormorò indignato il guerriero.
18 non disse niente; non gliene importava.
 “Dov’è 17? Cosa gli avete fatto?”
il piccoletto fece un cenno con la testa, 18 si scostò un poco e vide un ragazzino molto simile al guerriero muscoloso -la stessa pelle verde brillante- che teneva le mani sospese sul corpo privo di sensi di suo fratello.
18 corse al fianco del ragazzino e si inginocchiò precipitosamente: “Dimmi che è vivo!”
Parlava in fretta, col respiro corto.
Il ragazzino annuì, sempre continuando a tenere le mani sospese in avanti. Le tolse all’improvviso, quando gli occhi azzurri di 17 si spalancarono verso il cielo e lui si girò su un fianco, guardandosi attorno.
Quando il suo sguardò incontrò quello della sorella, entrambi si fissarono senza parlare.
Si guardavano mentre il loro discorso interiore cominciava a scorrere fluido e ricco, comprensibile a loro due soli.
Il ragazzino si dileguò silenziosamente, rivolgendo alla coppia di gemelli un tenero sorriso che nessuno dei due colse.
Il discorso interiore continuò ininterrotto, fin quando le lacrime riempirono gli occhi di lei e la bocca di lui scoprì uno strepitoso sorriso, un attimo prima che si lanciassero uno contro l’altra; si stringevano rotolando sul pavimento e ridevano e piangevano contemporaneamente.
“17…stai bene” iniziò lei, cancellandosi dal bel viso le tracce del pianto; ma si interruppe subito quando il cielo, da terso che era, si fece minaccioso e buio.
“E adesso cosa succede?” fece lui stupito.
“Non lo so, vado a vedere, stammi vicino” 18 afferrò il gemello per una manica e se lo trascinò dietro; arrivarono ad una colonna e si nascosero lì dietro, cercando di vedere cosa stesse succedendo.
Il gruppo di nemici era raccolto intorno al ragazzino dalla pelle verde, che tendeva le mani verso qualcosa di luminoso che stava ai suoi piedi.
“Che cos’è? Sembrano sassi” sussurrò 17;
Lei guardò attentamente: “Sì, sono sette pietre luminose”.
Ciò che lasciò i due ragazzi con la bocca aperta e il naso in su fu un enorme figura che si sprigionò dai sassi, innalzandosi verso il cielo e occupandolo in buona parte.
“Guarda! E’ un drago, tipo quelli delle stampe cinesi!” 17 indicò il cielo con un sorriso raggiante “è bellissimo…”
La ragazza fissò ammaliata il luminoso animale mitologico, senza capire come mai si trovasse lì.
Qualcuno del gruppetto si era messo a parlare ma loro due erano troppo occupati a fissare il titanico drago per prestare attenzione alle loro parole. Parlavano con il drago!
I gemelli tesero l’orecchio.
“Vorremmo riportare in vita tutte le vittime della Creatura”.
Buona, un drago che esaudiva i desideri; c’è sempre tempo per stupirsi.
18 pensò che se da umana le fosse capitato di incontrare una specie di genio della lampada versione animalesca, avrebbe voluto vestiti a volontà e un ragazzo degno di lei.
Pensando alla parola ragazzo si sentì frizzare il sangue. Ragazzo, compagno, qualcuno con cui condividere la propria vita. Un altro pensiero l’assalì.
Ad un certo punto 17 le diede un colpetto alla gamba: “Ascolta! Parlano di noi!”
“Vorrei che tu potessi  far tornare 17 e 18 com’erano prima…due esseri umani”.
Nonostante la distanza, la supervista degli androidi permise loro di scorgere i luccichii che erano comparsi negli occhi scuri del piccoletto, quando aveva espresso quella richiesta.
18 trasalì, che razza di richiesta era? Entrambi volsero di nuovo lo sguardo al cielo, nel sentire una voce profondissima, più tonante di una tempesta.
Era il drago che parlava.
“Questa poi! Non ho parole…”
18 non rispose al fratello, di parole non ne aveva nemmeno lei, il drago che parlava era l’ultimo della lista.
I due ragazzi tornarono a fissare il piccoletto, che aveva chinato la testa con un’espressione sconfitta.
“Il drago ha detto di no, vero?” 17 guardò negli occhi sua sorella. La guardava con uno sguardo trepidante, che nutriva una speranza e un tormento.
Lei rimase stupita e si limitò ad annuire lievemente.
“Facciamo così allora!” il piccoletto aveva di nuovo alzato la testa “almeno questo fallo, per piacere. Potresti liberarli dall’esplosivo che hanno in corpo?”
18 trattenne il fiato, 17 la sguardo smarrito: “Che cosa?! Ma che sta dicendo?”
“La bomba, 17…” la ragazza quasi lo ignorò. Sentiva il cuore in tumulto, era commossa.
Se solo il piccoletto avesse capito fino in fondo quello che stava chiedendo per loro!
“Mi dispiace ma non ti seguo. Quale bomba, come…”
“SMETTILA!”
I gemelli rimasero a fissarsi, lui zittito, lei arrabbiata: “Una volta avevo letto sugli appunti del dottore che nel nostro corpo c’è una bomba” gli spiegò “che può servire sia per attacco che per difesa…”
“Ah” fece lui “scusami tanto se non me l’avevi detto!”
La voce cavernosa parlò di nuovo: “Questo posso farlo. Addio”.
Il drago finì di parlare e si dissolse in un’esplosione di luce, sparendo così com’era arrivato; istantaneamente il cielo ritornò azzurro.
“Non abbiamo più la bomba…” mormorò lei.
“Io mi sento come prima” le rispose lui “ho ignorato la sua presenza fino adesso”.
La mente di 18 era totalmente occupata da sentimenti che la mettevano tutta in subbuglio.
“Grazie infinite…ti ringrazio tanto…”
Pensò queste parole e le tenne per sé, tornando ad ascoltare di nascosto i discorsi del gruppetto.
“Perché hai espresso il desiderio anche per 17?” chiese l’uomo dai capelli a spazzola, guardando interrogativo il piccoletto.
Il piccoletto cambiò colore, 18 sentì chiaramente che la sua temperatura e la sua pressione erano cambiate: “Beh, a me piace 18, ma per lei è più adatto 17, no? Sarà più felice visto che stanno insieme”.
La ragazza sentì un verso strano e si girò verso 17 che si spanciava dal ridere; lo guardò male e contorse la bocca.
“Ma l’hai sentito?! Oh mamma…18, amore mio!”
Lei gli fece una smorfia.
Non resistette più e uscì dal suo nascondiglio: “Cretino!” il gruppetto si sorprese nel vederla balzare fuori all’improvviso “Io e 17 siamo fratelli gemelli!”
La ragazza restò per un po’ a guardare le facce lunghe dei presenti.
“Sono proprio degli esseri limitati…” 17 aveva finito di ridere e, da dietro la colonna, era rimasto a guardare la scena.
“Beh comunque non ci sperare” proseguì lei, lanciata al galoppo “non me ne fregava niente dell’esplosivo che avevo in corpo, hai capito, fungo?”
18 cercò di calmarsi. Che scena della malavita stava facendo…però non poteva starsene zitta.
Continuava a rimuginare…perché per lei era così importante fargli sapere che non era impegnata?
Una persona con un minimo d’intelligenza si sarebbe accorta che lei e 17 avevano la stessa faccia, pensò, ma come mai ci aveva tanto tenuto a spiegarglielo?
Troppa confusione.
Si voltò verso il “fungo” e lo guardò.
Gli disse solo ci vediamo, prima di spiccare il volo lontano da lì.
 
 
 
“Potevi almeno aspettarmi 18, te ne sei andata via senza dire niente!”
I due gemelli volavano senza una meta.  Lei continuava a rimuginare, continuò fino a quando scesero a terra, sedendosi in un prato fiorito.
“Non vorrei interromperti…ma dov’è 16? Non c’era…”
18 si riscosse dai suoi pensieri e i suoi occhi s’incupirono: “16…è caduto durante la battaglia”.
Guardò mestamente suo fratello, che a sua volta la fissava senza avere i giusti riferimenti per capire: “C’è qualcosa che io non so, 18?”
“Sì, tante cose”.
“Allora andiamo con ordine” sorrise lui “più importante, siamo vivi: io credevo che la Creatura ci avesse…” non riusciva a trovare le parole. Non sapeva cosa dire e la paura stava cominciando a salirgli.
 “Mi hanno raccontato tutto quelli là” disse 18 “la Creatura ci ha presi tutti e due: noi non ce lo ricordiamo perché eravamo come svenuti, ma eravamo vivi all’interno del suo corpo. Vivi e vegeti, tutti interi e perfettamente vitali, solo incoscienti. La Creatura usava la nostra forza insieme alla sua. I nemici l’hanno affrontata e sono riusciti a liberarci dal suo corpo.”
Abbassò un attimo gli occhi e quando riprese a parlare la voce le tremava: “17…voglio chiederti scusa…”
Il ragazzo si ravviò i lunghi capelli: “Di cosa?”
18 riuscì a inghiottire le lacrime: “Per non averti aiutato…quando la Creatura…”
Si rifugiò nel petto di lui e lasciò che la voce tremasse senza controllo, mentre i singhiozzi la scuotevano tutta: “…perdonami 17, ti prego…io non ho più capito niente…ed è stato orribile…e io che non sapevo cosa fare…cos’hai provato?”
17 fissò un punto indistinto all’orizzonte: “…non lo so. È stato come morire”.
“…io prima mi sono sentita soffocare, poi…non lo so”.
Sorvolò su come il piccoletto l’avesse tenuta tra le sue braccia mentre davanti a loro infuriava la battaglia titanica che si era conclusa con l’annientamento della Creatura. Quando tutto si era calmato l’intero gruppo -più loro due- si era trasferito nel posto in cui, poco dopo, i gemelli avevano ripreso conoscenza.
17 le disse che credeva che si fossero sciolti o qualcosa di simile. Com’era possibile quello che sua sorella gli aveva appena raccontato? Non glielo chiese, ormai aveva perso il conto di tutte le cose impossibili che gli erano capitate.
Le disse anche qualcos’altro, che gli venne in mente quando ripensò a quello che aveva detto lei: “Eravamo incoscienti…quindi dormivamo…allora è vero!”
La ragazza non capiva.
“Non mi ricordo niente dacché la Creatura mi ha preso…tranne che sognavo sempre una ragazza. Non è quella che dici tu” 17 vinse sul tempo la sorella “una ragazza più o meno della nostra età: aveva dei bellissimi capelli rossi, era dolcissima. Si stringeva a me e mi abbracciava…e io la prendevo in braccio e la baciavo…”
18 vide suo fratello abbassare lo sguardo, imbarazzato; sorrise e capì, senza proseguire nel discorso: “Quindi?”
“Quindi vorrei che tu mi aiutassi: era così vero come sogno, io sentivo di volere tantissimo bene a questa ragazza. Era un sogno a 360 gradi, il suo corpo non mi era estraneo; come se davvero l'avessi conosciuta e davvero…”
“Hai detto che era rossa”.
“Sì. Rossa, ramata…”
18 rise maliziosa: “Sicuro che non fosse 16?”
17 si alterò: “No ti prego! Per carità!”
 “Magari era una che conoscevi da umano”.
“…io la amo. Se l’avessi qui, in questo momento, glielo direi in faccia e subito dopo la prenderei fra le mie braccia” 17 scrutò il cielo con aria sognante “se da umano la conoscevo…chiunque fosse, è stata qualcosa che mi ha salvato in un posto dove la salvezza non c’era”.
Poi fu lei ad abbassare lo sguardo: “Comunque non me lo scorderò mai, 16: ci ha difesi fino all’ultimo…il fungo mi ha raccontato che ha lottato fino all’ultimo respiro. Prima di cadere in battaglia”.
“Ma scusa! Se è stato vittima della Creatura, non è stato resuscitato?”
“No,17, non penso. Lui era artificiale”.
17 annuì mestamente. Era ingiusto, ma alla fine era così.
 
 
 
Erano passati due giorni da quando aveva lasciato il piccoletto e gli altri.
17 e 18 continuavano a vagare in campagna. Lui era chiuso in  sé stesso e quasi non parlava.
Si sentiva afflitto; i ricordi dei sogni che l’avevano accompagnato durante l’orribile oblio della Creatura continuavano a riaffiorargli davanti agli occhi. Man mano che il tempo passava, l’immagine della ragazza dai capelli rossi diventava sempre più indimenticabile.
Chissà chi era… un antico ricordo umano? O il frutto della sua immaginazione?
Si ritrovò a desiderarla appassionatamente, mentre nello stesso tempo si chiedeva se potesse essere possibile amare qualcosa di inesistente.
Continuava domandarsi se davvero avesse conosciuto la tenerezza di quel corpo, la radiosità di quel viso. Non ricordava più il suo nome, il contesto che li aveva uniti.
Dannazione, era tutto così indefinito!
Reale o meno, l’aveva persa. Tutto quello che gli rimaneva di lei era solo un sogno. Vivido, sì, ma pur sempre un sogno.
Che brutto castigo gli aveva inflitto lo schifoso…quanto avrebbe voluto ricordarsi! O avere drago parlante a cui chiedere di farlo per lui.
Anche 18 pensava sempre.
Ignorava chi fosse la ragazza di cui 17 le aveva parlato e si sentiva quasi gelosa. In quei momenti il gemello non aveva pensato a lei.
Si era ritrovata spesso a sentire in lontananza quella voce estremamente piacevole, evocatrice di chissà quali memorie. Il sogno iniziava sempre così: si vedeva seduta, al suo fianco c’era un bambino piccolo, di massimo quattro anni.
Il bambino era così bello, gli occhi erano grandi e di uno stranissimo azzurro ghiaccio che mai aveva visto abbinato a capelli neri e lisci come quelli degli asiatici.
Il bambino la guardava e sorrideva. Poi la voce che tanto le piaceva iniziava a cantare una ninna nanna e lei alzava la testa seguendo il suono… E allora la vedeva: la bella donna, che cantava e intanto con un braccio la stringeva a sé. Non ricordava il canto e nemmeno la melodia.
La bella donna dai connotati totalmente identici a quelli del bambino di fronte a lei; a 18 pareva di ricordare la sua voce da sempre, anche se non riusciva ad associarla alla persona: l’aspetto della donna non le diceva nulla, a parte la spaventosa somiglianza con 17.
Poi la scena cambiava di colpo e lei diveniva spettatrice: la bella donna che cullava due bambini, il maschio dai capelli neri e una femmina dai capelli quasi bianchi.
Sembravano tanto lei e 17.
Quando i bambini si addormentavano la donna smetteva di cantare e protendeva un braccio verso di lei, come per afferrarle una mano.
Il sogno si interrompeva sempre lì, sul sorriso soave di quella fata meravigliosa, ogni volta riempiva 18 di malinconia.
Era una scena estrapolata dal nulla, di primo acchito non c’entrava niente con lei; tuttavia la sentiva come sua, la voce della donna aveva un potere quasi ipnotico sui suoi sensi. 18 avrebbe affermato volentieri che fosse stato il primo suono che aveva sentito da quando il suo cervello aveva iniziato a funzionare.
Chi fosse quella bellissima maga 18 non lo sapeva ma le sembrava quasi di provare una profondissima nostalgia per lei.
Ogni volta che guardava 17 pensava che fosse l’unico ad avere degli occhi e dei capelli così strani e inevitabilmente le tornavano in mente la donna e soprattutto il bambino sulle sue ginocchia.
Tutto questo la frastornava. Era come un ricordo lontanissimo, talmente distante che non riusciva a collegarlo a qualcosa di concreto.
Se poi aggiungeva il pensiero del piccoletto, avrebbe preferito spararsi se avesse potuto.
17 aveva detto che amava la ragazza dai capelli rossi.
Era possibile che lei amasse quel ragazzo?
Ogni volta che pensava a lui si sentiva tremare, come se avesse appena visto lo spettacolo più bello e toccante che la Natura avesse mai offerto.
Così i gemelli passavano la maggior parte dei loro momenti e per la prima volta lo fecero ognuno per sé.
“Senti, 17, volevo dirti una cosa. Una cosa grossa” 18 prese il suo tempo “penso di provare qualcosa per il ragazzo che mi ha protetta”.
“Il nano da giardino dici? Ma guarda che sono io il tuo fidanzato.”
“Non credo 17, guardati, sei bruttissimo”.
“Ah, davvero? Scusa ma non sono io un coso atrofico e pelato” il ragazzo si passò vanitosamente una mano fra i capelli fluenti.
“Non lo prendere in giro!” 18 gli afferrò una ciocca e la tirò con forza, ignorando le sue proteste “ecco a cosa servono i capelli lunghi”.
18 stessa si stupì di quello che le era appena uscito di bocca. Spiegò al fratello che credeva di provare per quello strano ragazzo la stessa cosa che lui provava per la rossa.
“Capisco” disse lui “quindi…ci separeremo”.
“No, non ci separeremo mai! Vivremo in case diverse, ma ricordati che siamo gemelli ed esseri speciali!” il respiro di 18 si fece trepidante.
Come al solito bastò quello per dirsi che era arrivato il momento che ognuno prendesse la propria strada. Dopotutto, come già lei aveva precisato, si trattava solo di vivere in due case diverse.
“Sai, penso di avere un obiettivo: io non so cosa sarà adesso della nostra vita, ma so che sono andata troppo vicina alla morte…non voglio più averci a che fare, sia come vittima che come assassina”.
18 piangeva quasi nel ricordare quei momenti: “Io amo il ragazzo, lui mi ha dato un futuro. Non avrei più potuto fare niente di quello che ho fatto prima, non dopo aver quasi passato il limite. Mi capisci?”
17 la intendeva alla perfezione. Anche se non l’aveva ancora espresso, nemmeno concettualmente, era chiaro che anche lui non avrebbe mai più perseguito l’obiettivo per cui il dottore l’aveva convertito in una macchina.
Anche lui aveva un suo obiettivo. Lei. L’avrebbe trovata.
“Sono stanca di stare in ‘sto bosco” disse lei con un sorriso “andiamo a fare un giro in città?”
“D’accordo” rispose 17 “adesso che ci penso è un’eternità che non mangio, ho un certo languorino”.
18 rise librandosi in volo: “Strano! Comunque non toccare i palazzi, cappottiamo solo le auto che troviamo per strada!”

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Capitolo 12
*** In vodka veritas ***


La notizia della fine della minaccia-Creatura si era sparsa tanto velocemente quanto quella delle morti misteriose al nord, poco più di un mese prima.
La popolazione dell’intero Paese era di nuovo tranquilla e nessuno riusciva a spiegarsi come mai le vittime della Creatura fossero tornate miracolosamente in vita.
Come al solito, niente di tutto questo riusciva a toccare Kate.
Se Alice e Eric erano morti, lei non era stata lì con loro. Cosa poteva contare tutto il resto?
Kate si sentiva ormai vicina al fondo, al niente che tanto temeva. Non riusciva più a sorridere alle persone care, non riusciva più a versare una lacrima o a sorridere per i fatti che le accadevano intorno.
Entro poco tempo sarebbe stato febbraio; se ci fossero ancora stati, Alice e Eric avrebbero compiuto ventun anni.
Natale era appena passato ed era riuscito miracolosamente a strapparle un mezzo sorriso triste. Gli amici, sua sorella e i suoi genitori –che pure sentivano fortissima la mancanza dei due gemelli- avevano fatto di tutto per lei.
Ogni tanto aveva dei momenti in cui si sentiva meno peggio, in cui aveva voglia di vederli, di uscire, di farsi più bella di quanto non fosse già, nonostante la depressione le avesse spento gli occhi.
Quel giorno era uno di quei momenti e a Kate venne voglia di fare un giro al centro commerciale.
Le era ben noto, Alice ci andava sempre. Tutte le volte tornava con vagonate di roba più o meno comprata.
“Sei ancora capace di essere guardabile…anche se hai già 46 anni mia cara…” Kate contemplò la sua immagine nello specchio, diede un ultimo colpo di mascara, una spazzolata ai capelli corti e biondi.
Le era dispiaciuto tagliarli e tingerseli, ma non le piacevano quelli bianchi che specialmente negli ultimi anni le erano spuntati in sovrannumero.
“Ormai non ho più l’età per i capelli neri e lunghi” aveva detto al parrucchiere.
 
 
 
Dovevano trovarsi a sud. Non più il paesaggio montano che circondava il laboratorio del dottor Gelo, piuttosto prati e campi.
“Siamo molto lontani dalla costa…dove siamo finiti?”
17 e 18 avevano abbandonato il loro prato fiorito e avevano volato per una ventina di minuti verso una città di medie dimensioni.
“Non lo so, 17, ma quella città non ti sembra familiare?”
18 guardava dall’alto le strade, le case e i palazzi e le sembrava che li avessi già visti molte altre volte.
“17…dimmi che questa è la città in cui abitavamo prima…” mormorò, mentre si sentiva ancora commossa.
“Tu dici? Beh, sembra piena di macchine! Scendiamo”.
I gemelli atterrarono silenziosamente sul tetto piano di un enorme edificio rettangolare. Gli occhi di 17 brillavano: davanti a lui si estendeva uno sterminato esercito di automobili, di ogni genere e tipo. Un parcheggio.
18 continuava a guardarsi intorno pensosa. La nebbia che le avviluppava il cervello era persistente, ma fu come se le venne inflitto un duro colpo quando la ragazza volò un attimo giù dal tetto per leggere una mastodontica insegna a neon: “Lo riconosco! È il centro commerciale che mi piaceva di più! Quello dove avevo preso gli anfibi, te li ricordi?”
17 ci pensò su un attimo e rispose di sì, gettando occhiate fugaci alle auto davanti a lui.
“Dai entriamo?”
Poco dopo i gemelli erano immersi nel vociare chiassoso del centro commerciale.
“Questi sì che sono vestiti!”
Nessuno riusciva ad accorgersi di 18 che, veloce come un lampo, afferrava dagli scaffali quello che più le piaceva infilandolo in una borsa. Si era persino accollata il compito di prendere dei vestiti nuovi anche per lui.
“Certe abitudini sono dure a morire, vero?” 17 guardò la sorella e si mise a ridere “anche prima avevi sempre una borsa stile Mary Poppins”.
“Hai ragione, me lo ricordo anch’io” sorrise lei “solo una cosa: chi è Mary Poppins?”
17 strabuzzò gli occhi e la fissò, scandalizzato: “Come chi è Mary Poppins?! Quella che aveva il potere di riordinare le stanze con uno schiocco di dita e che metteva tutto –anche le lampade da pavimento- in una borsa! Nostra mamma ci cantava sempre la canzone quando eravamo piccoli”.
“Tu ti ricordi di nostra mamma?” questa volta fu lei a guardarlo con gli occhi fuori dalle orbite.
“Certo che no. Però mi ricordo questo particolare; mi accompagni a prendere da mangiare?”
18 iniziò a scartabellare una pila di top paillettati: “Non mi ricordo di Mary Poppins. E comunque una che ha  solo quel tipo di potere è sfigata”.
 
 17 non sopportava sua sorella: l’aveva accontentata, l’aveva accompagnata a fare man bassa in buona parte dei negozi di trucchi, vestiti e roba da donna che c’erano lì dentro; l’aveva costretto a cambiarsi, consegnandoli i vestiti che gli aveva preso poco prima.  Adesso era già 10 minuti che lui aspettava su una panchina, perchélei doveva andare a fare la pipì.
“Che palle…”
Il ragazzo guardava alternamente le proprie scarpe e la gente che usciva da una porta di vetro che si apriva e si chiudeva alla sua destra. Al di là si vedevano delle donne sedute mentre altre le pettinavano.
Ogni tanto 17 guardava dentro , osservando divertito tutte quelle signore coi capelli bagnati, gonfi a riccioli o nascosti da caschi che sembravano aggeggi da astronauti.
Si girò e si accorse del suo riflesso in uno degli specchi e rimase a guardarlo. Fu così che vide che anche la donna di fronte a quello specchio lo stava guardando.
“Wow, sembra 18” pensò, guardandole di sfuggita il viso splendido, i capelli biondo platino. Poi si tolse la cuffia che sua sorella gli aveva calcato in testa.
La donna continuava a guardarlo…No, lo stava fissando!  Prima aveva alzato lo sguardo sul riflesso nello specchio, poi si era voltata e gli aveva inchiodato addosso i suoi occhi.
17 non si prese il tempo di notare che aveva degli occhi di ghiaccio che erano uno spettacolo, come i suoi.
Si sentì prendere da un’agitazione strana, infondata, come se si fosse trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Qualcosa gli diceva che doveva andarsene di lì.
Si alzò di scatto e corse via, proprio mentre la donna abbandonava di corsa la poltrona per gettarsi sulla porta.
 
“Adesso tornerò da 17, poverino, mi starà aspettando…” 
18 era appena uscita dal bagno: girò l’angolo e vide suo fratello che le veniva incontro, camminando con passo nervosamente spedito.
Senza proferir parola 17 l’afferrò violentemente per un braccio e la condusse velocemente verso l’uscita sul tetto.
“17? Cosa ti è preso? Non volevi da mangiare?”
Lui non le rispose, impegnato com’era a cercare istericamente con lo sguardo un’auto nel mucchio indistinto del parcheggio.
18 lo seguì , visibilmente irritata.
Il ragazzo indugiò vicino ad un SUV nero opaco. Ne studiò ammirato la cromatura e poi senza preavviso affondò il pugno nel vetro del finestrino e tolse il blocco portiere.
18 trasalì; si avvicinò all’auto e rimase a guardare suo fratello che armeggiava con i cavetti elettrici: : “Oh! 17! Ma che diavolo ti prende?”
“Sali” mugugnò lui senza guardarla in faccia.
18 obbedì, interdetta, prendendo posto accanto al gemello, che mise in moto il SUV e uscì dal parcheggio facendo un chiasso assurdo e investendo in pieno una sventurata auto parcheggiata sulla sua strada.
 
 
 
Quel pomeriggio Kate aveva deciso di andare al centro commerciale a farsi una messa in piega.
Andare dal parrucchiere la rilassava, non aveva bisogno di ritoccare il colore e un’oretta di relax era quello di cui aveva bisogno.
Il centro commerciale era pieno di gente e mentre la parrucchiera la pettinava, dallo specchio la vedeva passare come una fiumana.
Dallo specchio vedeva benissimo anche la gente seduta sulla panchina a riposarsi.
 C’era un nonno che mangiava il gelato in compagnia della sua nipotina, c’era una ragazza che scriveva al cellulare e una coppia di islamici; ma quello che aveva immediatamente attirato la sua attenzione era stato un ragazzo.
Fuori faceva freddo, anche se lì dentro si stava bene non era certo stagione per andare in giro come lui: aveva le braccia nude e una cuffia in testa, portava  jeans neri e scarpe da tennis, la maglia quasi smanicata era bianca.
Sembrava annoiato, continuava a battere i piedi sul pavimento e teneva le braccia vigorose incrociate sul petto; era bellissimo.
Kate non aveva una bella visuale da lì, ma se n’era ben accorta; aveva un bel profilo, dei lineamenti raffinati.
Quasi le sembrava Eric.
Alzò le spalle, tanto ormai credeva di vedere Eric e Alice dappertutto.
Continuava a guardarlo, fantasticando su quanto le sarebbe piaciuto che quel bel ragazzo fosse stato suo figlio.
Siccome continuava a fissarlo attraverso lo specchio, vide anche che si era tolto la cuffia.
Ci rimase di sasso, le nocche delle sue mani sbiancarono quando Kate afferrò i braccioli della poltrona, col sudore freddo. Anche lui la stava fissando.
“Eric…” mormorò, alzandosi dalla poltrona e correndo più veloce che poteva verso l’uscita del salone “Eric!”
Ma nello stesso istante in cui Kate aveva raggiunto la porta il ragazzo si era già dileguato.
 
“Era mio figlio, lo posso giurare!” Kate battè le mani sulla scrivania del colonnello “ne sono sicura, credetemi, quello era Eric: l’ho visto con i miei occhi!”
Kate si era ripresa a fatica da quell’apparizione al centro commerciale, ma appena le era stato possibile era subito andata alla centrale di polizia. Il colonnello aveva fatto chiamare la squadra di polizia e i detective che si stavano ancora occupando del caso gemelli.
Il colonnello cliccò col mouse e sul desktop del suo computer apparve una foto, che mostrò a Kate: “Ecco, questa è una foto di suo figlio, risale all’epoca della scomparsa. Sicura che fosse veramente lui, signora?”
Kate rimase davanti allo schermo come imbambolata, guardando ossessivamente ogni particolare dell’immagine: “Non è cambiato di una virgola…”
“Come scusi?”
“Non è cambiato…l’Eric che ho visto io è totalmente identico a quello della foto…”
Il detective si sedette di fronte a lei: “Signora…quando Eric è scomparso aveva diciotto anni se non mi sbaglio, giusto?”
“Sì. È esatto”.
“E adesso, stando a quello che ci ha detto lei, è vivo e ne avrebbe ventuno”.
Kate annuì. Che razza di domanda era? Non era capace di fare diciotto più tre?
Il detective sospirò costernato: “Mi dispiace, signora, ma non penso davvero che il ragazzo che lei ha visto fosse lui. Sa com’è, anche se ormai a quell’età non si cambia più tanto, è impossibile non cambiare di una virgola dai diciotto ai ventun anni. Mi corregga”.
“Ma era lui! Ne sono sicura!” si difese Kate, anche se effettivamente il ragionamento del detective filava.
Era vero, non era di certo come passare dai quindici ai diciotto…ma effettivamente non era possibile.
Eric era perfettamente uguale a come se lo ricordava, tranne ovviamente per i vestiti.
A Kate scoppiava la testa: come avrebbe potuto sbagliarsi?
Avrebbe potuto farlo su qualsiasi cosa, ma non su suo figlio. E Alice? In teoria, avrebbe dovuto esserci anche lei: e di sicuro c’era.
Però, col passare delle ore, Kate si rendeva sempre più conto della sua componente emotiva, che di sicuro giocava in prima fila in tutta quella faccenda: possibile che quel bellissimo ragazzo dai lunghi capelli neri –così uguali ai suoi di prima- fosse stato solamente un’allucinazione?
 
 
I gemelli avevano trovato riparo in un edificio in rovina in piena campagna. Dove andare? Non avevano nessun posto a cui far ritorno.
In quella specie di rustico avevano trovato pentole, sacchi di coperte, quattro brande, il tutto in una stanza in buono stato, col tetto ancora integro.
18 stava diventando isterica. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo a suo fratello. Da quando l’aveva prepotentemente portata via dal centro commerciale non le aveva più rivolto la parola. Lei gli parlava ma lui non reagiva.
Appena avevano trovato il casolare si era installato su una delle brande e lì era rimasto, rannicchiato e con la faccia rivolta al muro.
Ormai era già da tre giorni che era così.
18 aveva fatto di tutto, aveva persino provato a dargli del cibo; aveva concluso che se non reagiva nemmeno a quella sollecitazione, doveva essere proprio grave.
“Su, 17, che hai?” gli diceva, sedendosi al suo fianco e accarezzandogli i capelli “qualcuno ti ha fatto qualcosa che non va? Stai male?”
Tutto quello che ne ricavava era qualche mugolio e un raggomitolarsi ancora più stretto.
18 si stava preoccupando che c’entrasse qualcosa con la sua parte cibernetica: magari qualche processore che gli era andato in tilt l’aveva fatto diventare catalettico, o magari era scarico…
 “Ma perché mi viene da pensare una cosa del genere? Non siamo mica computer! Siamo cyborg sofisticatissimi, cioè esseri umani imbottiti di circuiti e reattori” pensava costernata fra sé. Poi si convinse che lui stesse continuamente pensando alla sua rossa e perciò fosse depresso.
Si annoiava, per cui parlava con 17 anche se sapeva che non le avrebbe risposto: “Strano…perché in un posto così abbandonato c’è una stanza ristrutturata e abitabile come questa? Secondo te?”
Un pomeriggio la noia fu così forte che 18 non ce la fece più; salutò 17 che continuava a dormire sulla branda.
“Finalmente mi faccio un po’ di shopping, con calma. E ci vado in volo”.
Le ore passavano e ad un certo punto 17 udì dei passi lontani rimbombare su per le scale che conducevano alla stanzetta ammobiliata. Anche se era praticamente in catalessi, il suo udito sopraffino gli consentì di accorgersene; tuttavia continuò beatamente a ignorare tutto, anche quando un quartetto di uomini comparve rumorosamente nella stanza e senza complimenti lo accerchiò.
“Ehi, tu” esordì uno, cominciando a pitoccarlo con forza “come ci sei entrato qui? Vattene subito!”
17, acciambellato sulla branda, non si mosse né li degnò di un’occhiata.
“Ma chi è?” disse un altro.
Il primo continuava a toccacciarlo insistentemente: “Ma roba da matti! Ehi topo di fogna, alzati di qui!”
Alzò la voce e gli assestò un pugno fra le scapole. 17 non reagì.
“O ti alzi subito o ti ammazziamo” ringhiò un terzo, facendo cioccare sul pavimento qualcosa di metallico.
“Balle! Lo ammazziamo subito!” il primo che era entrato diede una spallata a quello con la mazza di metallo, gliela strappò di mano e la fece sibilare in direzione della testa di 17.
Con sorprendente rapidità  il ragazzo si alzò in piedi e la bloccò con una mano, lasciando di stucco l’uomo.
“Ma è un ragazzo!” si stupì il quarto.
17 gettò uno sguardo piatto e veloce al gruppetto: erano in quattro, come pensava.
Sembravano banditi, erano di mezz’età e portavano abiti di pelle borchiati, anfibi e varie armi come catene, coltelli, sbarre e mazze metalliche; uno teneva un fucile e tutti avevano il volto crivellato di piercing, una barba caprina e il cranio rasato.
“Fate schifo” pensava 17.
Quello con la mazza era rimasto interdetto, ma si riscosse presto e cercò di togliergliela dalla presa.
Lui sorrise cattivo e tirando leggermente gliela strappò di mano.
“Ma tu guarda ‘sto stronzo!” sogghignò confuso un altro bandito, caricando il fucile e sparando.
Aveva mirato dritto all’occhio destro, ma si sentì le ginocchia tremare quando il proiettile si spiaccicò come burro sulla cornea dell’androide.
17 sbatté innocentemente le palpebre; con elegante ferocia si fiondò sul primo che gli capitò a tiro, con una mano sola lo afferrò per la giacca e lo lanciò giù dal balcone della stanza; l’ululo cupo del bandito si prolungò fino a venire rimpiazzato da un tonfo e da un crash udibile solo dall’orecchio finissimo del giovane.
“Tu sei pazzo!” urlò quello col fucile, scaricando a più non posso tutti i colpi, mentre gli altri tentavano di corrergli addosso. 17 alzò un braccio e colpì uno dei due con un raggio fotonico.
Il bandito sparava e 17 si avvicinava, traendo dalla fondina la sua pistola: “Ti prego…non spararmi!” supplicò l’uomo, gettando a terra il fucile svuotato e alzando le mani.
“Ehi” 17 schiuse le labbra in un sorriso spietato “scusa caprone, tu hai sparato per primo” mise la canna della pistola in cima alla sua testa “ora è il mio turno”.
Quello che era stato colpito dal fascio di energia rantolava e si contorceva per terra.
“Tanto è comunque morto” 17 ebbe la compassione di finirlo con un colpo di pistola.
L’ultimo rimasto tremava, in mano stringeva ancora la catena.
“Va’ via” gli intimò, monocorde.
 
17 si sentiva bene.
Ci volevano proprio quei quattro bifolchi! Gli avevano dato una sferzata di adrenalina, si sentiva di nuovo in sé.
“Così questo era un covo di banditi…ecco perché…” diede un rapido sguardo alla stanza: c’erano ovunque frammenti metallici di proiettile, c’erano due cadaveri; aveva avuto la tentazione di colpire anche l’ultimo, ma aveva già giocato abbastanza.
“Non voglio che mia sorella lo sappia e si preoccupi…” alzò le spalle e in un lampo incenerì i resti dei due banditi.
Poi saltò giù dal balcone, dove giaceva il primo che aveva ammazzato.
“Bleah…”  la caduta era stata notevole e il cranio dell’uomo si era aperto come un uovo sull’acciottolato della stradina, schizzando roba qua e là con un effetto aerografo che dava il voltastomaco a 17, per cui si affrettò a distruggere anche l’ultima traccia di quel macello.
“Non avendo più niente da fare si distese di nuovo sulla branda e aspettò pazientemente il ritorno di 18.
 
Quant’era bello avere dei poteri? Non era mai stata di mano così lesta in vita sua.
Questa sì che si poteva chiamare razzia, si disse 18 soddisfatta, quando ritornò al casolare carica come una bestia da soma. Il bello era che nessuno se ne era accorto.
“Ma quanto sono stupidi, quanto sono stupidi…” 18 rideva da sola, pensando a quanto i sensi degli umani fossero primitivi.
“Sono qui!” trillò, buttando giù la porta della stanzina e lanciandoci dentro tutto.
“Ciao, 18”
Si sorprese a trovare suo fratello seduto sulla branda e ancora in possesso della parola: “Ciao 17, come stai? Ti ho portato da mangiare, contento?”
La più contenta era lei, però: riusciva sempre a ottenere quello che voleva, nel bene e nel male.
Aveva vinto lei contro l’apatia di suo fratello, ora sembrava quello di sempre: aveva accettato felicemente le cose che gli aveva portato, rispondeva a tono, lo sentì anche fare un rutto e ringraziarla di essere stata così gentile.
“Figurati, sto diventando una guardiana di maiale…adesso però dimmi perché facevi così” disse lei seria “volevi battere il guru indiano che è rimasto per chissà quanto immobile sotto un albero?”
Lui non le rispose e lei gli porse la bottiglia da cui stava bevendo: “In vodka veritas”.
“Non c’è bisogno della vodka” 17 le si avvicinò, il bel viso angosciato “dobbiamo tornare in città…penso che dovrei rivedere una persona”.

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Capitolo 13
*** Wide awake ***


“In che senso era uguale a me?”
“Nel  senso che essenzialmente tu saresti così se potessi invecchiare, 18, non farmi ripetere cose ovvie”.
I gemelli vagavano liberamente per le strade della città.
“Quindi è per questo che sei diventato catatonico?” 18 studiò suo fratello con aria inquisitoria “perché hai visto una che mi somiglia un po’?”
“Tu non hai capito” ringhiò 17 “non ti assomigliava un po’; siete uguali”.
Pochi giorni prima, quella donna al centro commerciale gli aveva fatto un effetto talmente strano che per un sacco di tempo non era riuscito a pensare ad altro.
Era molto bella e aveva due occhi chiarissimi, molto profondi; tuttavia non era stato quello ad averlo colpito in quella maniera indefinibile.
Quando si erano guardati dritti in faccia lui si era sentito rimescolare tutto, come se un uragano gli fosse scoppiato dentro, sia nel cuore che nella testa.
Quegli occhi sembravano raccontargli storie dimenticate, le storie che qualcuno aveva voluto che dimenticasse.
Si era sentito mancare il respiro, era stato più forte di lui; non aveva voluto affrontare quella donna e il carico di emozioni che si portava dietro; per questo era scappato via, nonostante vederla gli avesse procurato una sensazione di calorosa familiarità che l’aveva riportato indietro ai tempi antecedenti al rapimento.
18 gli disse che era stato immobile e muto su quella branda per tre giorni; più ci pensava, 17, più gli sembrava di averla già vista prima.
Nella sua catalessi aveva continuato a meditare, su quando e su come l’avesse incontrata.
E poi, a raffica, gli erano venuti in mente frammenti di ricordi sparsi; e chissà come mai si era sentito la mente improvvisamente più libera dalla foschia che vi aveva permeato da quando si era risvegliato nel laboratorio del dottore.
“Non so come, ma mi ricordo di lei che mi leggeva delle storie…anche se non credo che avessi i capelli chiari. Mi ricordo di lei con i capelli neri”.
Fino a quel momento 18 aveva ascoltato suo fratello senza interesse; erano sempre fermi allo stesso punto, qualcosa cercava di farsi strada nei loro cervelli sempre meno impolverati, ma senza riuscire ad accendere nessuna lampadina.
“Con i capelli neri? Come hai detto che è?” 18 lo pregò ansiosa: quel particolare le aveva dato un flash.
Il gemello descrisse dettagliatamente la donna, i capelli biondissimi e corti, il volto fine, il naso piccolo, gli occhi grandi e azzurrissimi.
“Con i capelli neri? Ti assomigliava un po’?” il respiro di 18 si faceva sempre più flebile “per caso ti ricordi che cantava?”
“Sì scema, se assomiglia a te allora assomiglia anche a me!” rise lui “certo che cantava: mi ricordo che cantava prima di mettermi a dormire…”
Appena finì la frase e vide sua sorella con lo sguardo fisso e la bocca aperta, 17 si rese conto di tutte le cose che aveva appena detto;  uno strano lampo squarciò la barriera che gli nascondeva la verità.
Fece per parlare ma l’urlo di 18 lo assordò: “Dio santo! E’ la mamma!”
Il ragazzo la fissava, incapace di rispondere.
“E’ lei, è quella che sognavo sempre io, quella che dicevo che era uguale a te!”
La mamma…la mamma! Quella che cantava la ninna nanna, quella che raccontava della borsa magica di Mary Poppins…la mamma, Kate!
“Dobbiamo trovarla assolutamente…” sussurrò 17 non appena si riprese dallo shock, dopo che si rese conto che avevano fatto quella sensazionale scoperta in mezzo a una strada piena di gente.
“Lei si ricorderà di noi? Io non voglio che si sia dimenticata!” 18 si strinse a lui con gli occhi lucidi di agitazione. Ecco perché la città le era sembrata così familiare! Era la sua città, dov’era nata e cresciuta, dove aveva abitato con la mamma.
Anche 17 era tutto un tremito, ma si scosse e consolò la sorella: “Ehi, guarda bene, ci sono dei poliziotti che ci hanno visti. Se la mamma ci sta cercando ancora, loro glielo diranno subito. Continuiamo a girare qui ancora per un po’, poi torniamo in campagna…”
18, ripresa, si accorse delle sagome che li fissavano e seguì l’acuto ragionamento di suo fratello: con un po’ di fortuna li avrebbero pedinati e con molta fortuna li avrebbero trovati, accompagnati dalla mamma.
Era così facile con una mente capace di fare calcoli velocissimi! E soprattutto quasi libera dall’ombra in cui il pazzo l’aveva fatta sprofondare.
 
 
Kate aveva ragione. Incredibilmente ragione.
I suoi figli erano vivi e vegeti, sul serio non erano cambiati di una virgola, esattamente come aveva detto lei. Quando il detective e i poliziotti li avevano visti insieme per le vie cittadine avevano trasalito. Ai loro occhi non era passato un giorno dall’ultima volta che avevano avuto occasione di vederli.
Evidentemente Kate ci credeva davvero, per cui non si stupì più di tanto quando il detective la informò di quella folgorante novità.
“Vi siete messi sulle loro tracce?”
“Certo, li abbiamo seguiti: sono stanziati in un casolare di campagna a pochi km da qui”.
“Bene, portatemi da loro”
Appena riattaccò il telefono, Kate lasciò che il soprammobile di cristallo che teneva in mano andasse in mille pezzi sul pavimento.
 
17 aveva visto giusto: i poliziotti avevano mangiato la foglia e ora sapevano dove stavano.
Ormai i gemelli erano tormentati dall’attesa, presto o tardi lì sarebbe arrivata anche Kate.
“Cosa le diremo? Come farà a crederci? È un’umana!”
“Io penso che ci saranno talmente tante cose da dirle che…non ne ho idea” 18 si sfregò gli occhi e si distese addosso a 17.
Ognuno si stava costruendo la sua conversazione personale. Chissà che effetto avrebbe fatto parlare con la mamma dopo tutto quel tempo…
Quando sentirono un respiro affannato per la corsa, accompagnato da passi frettolosi al piano inferiore del casolare, i loro castelli crollarono di botto; il loro cuore prese a battere furiosamente, come un uccello prigioniero in una gabbia di ferro.
Lei era lì, ormai era questione di minuti…stava salendo le scale, chiamava ad alta voce…era al piano superiore, non ancora sul terrazzo, in una delle stanze.
Kate correva e non sentiva la stanchezza: lei ci aveva sempre creduto, in fondo al suo cuore la speranza non era mai morta. Un misto incerto di gioia e dolore le faceva dolere il cuore, correva mentre le lacrime le si imprigionavano fra i capelli come perle.
Avrebbe voluto gridarlo al mondo intero, scriverlo in cielo con un aereo, tutta quella speranza non era stata vana…i suoi bambini erano vivi, erano lì in quell’edificio e lei stava andando da loro. Avrebbe voluto inventare un nome per il sentimento che la stava sconvolgendo fin nel profondo del suo essere.
I gemelli non riuscivano a muoversi, ma sentivano che ogni passo che stava portando la mamma verso loro toglieva un altro pezzetto della loro barriera mentale.
Pezzo per pezzo si stava sgretolando.
Per sempre.
Avevano sempre creduto di essere svegli e coscienti da quando il dottore li aveva attivati con l’ordine di uccidere il suo nemico.
Ma la realtà era che erano stati come dei morti viventi, senza più alcuna possibilità di ricordare quella che era stata la vita vera; non si erano mai sentiti vivi, affittuari di un’esistenza posticcia  e senza legami che presto o tardi sarebbe svanita. Un’esistenza che non era la loro.
Fu in quel momento che, dopo tre anni, aprirono gli occhi.
Un respiro lieve, trepidante d’amore.
Tre paia di occhi di ghiaccio, identici fra loro, che erano uno spettacolo.
Tre cuori che battevano forte, all’unisono, che erano musica.
Kate era di fronte a loro, la barriera esplose. Finalmente erano svegli.
 
        
                                                                                     ∞
                                                                                                           
                                                                                    
                                                                                                          
                                                                                                          
 
                                                                                                            Amor che nulla hai dato al mondo
                                                                                                  Quando il tuo sguardo arriverà
                                                                                                 Sarà il dolore di un crescendo
                                                                                                 Sarà come riaverti dentro.
 
Nessuno dei tre voleva crederci a quel momento.
In un modo o nell’altro i due gemelli l’avevano sempre aspettato, così come Kate che nelle sue notti insonni non si era arresa all’oblio e al dolore.
Quando in quel crepuscolo di fine gennaio i loro occhi si incontrarono, il sole andava a morire dietro un mare di nuvole che promettevano pioggia, i pianeti si incrociavano e si allineavano seguendo le regole di quei mini iceberg, che nel loro ritrovo ardevano di puro sentimento.
Quella era la loro ricompensa, quello era il loro momento; per tutto l’amore che quella sera venne trasmesso di cuore in cuore e di occhi in occhi, beh, ci sono persone che aspettano una vita per un momento così.
Fu Kate ad avvicinarsi per prima; il sorriso che tanto piaceva a 18, di cui non si era mai dimenticata, splendeva sul suo viso e le faceva splendere gli occhi di una luce e di un amore che nessuno aveva mai visto.
Camminava lenta, sbatteva le palpebre e ogni tanto tirava su col naso, mentre tendeva la mano ai due gemelli e le labbra volevano scoprire il sorriso.
Quando la distanza fra lei e 17 e 18 fu praticamente nulla, Kate li guardò ancora e con affetto struggente accarezzò i loro visi.
“Mamma…” 17 aprì la bocca per parlare ma non ci riuscì; allora Kate lo incoraggiò annuendo e continuò a carezzargli la guancia.
“Mamma” il ragazzo mormorò quelle cinque lettere con la voce rotta, afferrando la mano di Kate e premendosela forte sul viso, mentre l’emozione gli faceva stringere gli occhi, aggrottare le sopracciglia e lo faceva respirare male.
18 aveva davanti la bellissima donna che la cullava quand’era piccola, quella a cui non aveva mai smesso di pensare.
Ormai la barriera era stata distrutta, non c’era più niente a raggelarle il cuore…lei era sua madre, quella che l’aveva davvero creata; non poteva essere vero, non riusciva a crederci.
Mentre 17 si abbandonava nell’abbraccio della mamma, la ragazza sentì che quello era il momento che aveva sognato e quando Kate l’abbracciò, tutto ciò che di brutto era successo svanì, distrutto dalla magia di quella stretta.
Erano intrecciati tutti e tre in un tenero abbraccio, seduti insieme sul pavimento.
Così stretti contro il suo petto, tutti e due così vicini e così attaccati a lei…a Kate sembrò per un istante di ritornare ad essere lei più loro, come ventun anni prima, insieme nel legame più intenso, più totale e più completo del mondo; come quando li aveva ancora dentro.
Credeva che non avrebbe mai più sentito qualcuno che la chiamava mamma; il cuore le esplodeva, piangeva e li stringeva, stringeva forte, nessuna cosa brutta glieli avrebbe ancora strappati.
17 non riusciva a esprimere le sue emozioni, sapeva solo che quello era il punto di arrivo di tutto, che Kate era la persona a cui doveva essere grato per avergli donato la vita; lei e nessun altro.
Riusciva solo a pensare di aver ancora una volta vinto contro il dottor Gelo, contro quel demonio schifoso e ignobile che aveva preteso di mettersi al posto di Kate e di fargliela dimenticare.
18 non voleva lasciare quella stretta che sembrava infuocarle l’anima di amore e di pienezza, anche se ad un certo punto l’emozione la sommerse. Un sentimento così forte da squassarla da capo a piedi, lei, 18, così forte.
Dovette abbandonare la stretta di sua madre quando l’emozione la rovesciò anche fisicamente e si sentì male.
 
 
Tre anni di vuoto, in cui ogni 13 febbraio aveva scritto delle lettere riassuntive e dei pensieri per i loro diciannove, venti…e stava preparando di già quella per i ventun anni. Tre anni non compiuti ma pur sempre tanto tempo passato a soffrire.
Adesso Kate non era più sola, in casa con lei c’erano di nuovo i suoi Eric e Alice, che sorpresi si guardavano intorno, come se facessero fatica a ricordarsi che quella era la loro casa.
“Io mi ricordo tutto adesso…quella foto là, è stata la mia prima gara con le macchine!” disse 17 entusiasta, indicando una foto incorniciata sul muro del salotto, dove c’era lui con i capelli ancora corti e la sua macchina rossa “mamma, ce l’hai ancora la mia macchina?”.
“Certo, tesoro. È nel garage”.
Kate l’aveva seguito ed era rimasta a guardarlo mentre toglieva il lenzuolo che copriva con cura la sua bella auto da rally.
“Ti porto a fare un giro!”
Kate aveva cercato di dire di no, ma con una velocità che l’aveva sconcertata suo figlio le aveva preso la mano e l’aveva praticamente infilata dentro l’auto.
Intanto 18 era corsa nella sua ex camera ed era rimasta sulla soglia, guardando il suo letto, le pareti, gli armadi. Adesso ricordava tutto!
Si era diretta verso l’armadio con un sorriso: “I miei vestiti…”
Loro due e Kate erano andati avanti ad abbracciarsi a non finire, Kate aveva raccontato tutto, di come fossero spariti, di quanto lei avesse penato.
“Adesso ricordiamo…il rapimento…” 17 era rimasto a fissare la tazza di tè che teneva in mano.
Erano già passati alcuni giorni e Kate era perplessa: le sembrava che i suoi figli fossero stati leggermente lobotomizzati. Faticavano a ricordare, quando era toccato a lei sapere tutto di loro erano diventati tristi e le avevano risposto “E’ una storia lunghissima e molto brutta. Lasciaci tempo, siamo appena tornati e stiamo iniziando adesso a ricordarci tutto, poco per volta”.
La cosa che più l’aveva lasciata di stucco era che sembravano aver dimenticato chi fossero. Quando lei li chiamava Alice e Eric loro non rispondevano, come se quei nomi non fossero stati i loro.
“Bambini miei, ho bisogno che voi mi raccontiate cosa è successo…capisco che vogliate godervi la serenità di questo momento, ma io sono stata tutti questi anni in pena…”
“Ha ragione, 17, dobbiamo dirglielo” aveva detto 18, abbracciando forte Kate.
Lei non sapeva niente. Non sapeva cos’erano diventati, di quello che aveva loro fatto il dottor Gelo, della Creatura…non avrebbe mai capito. Era rischioso ma dovevano farlo, se davvero l’amavano.
 
 
“Io ti racconterò tutto ma tu non devi dare fuori, me lo prometti?” 17 e Kate erano nella camera di lei; c’era quiete e silenzio.
“Tranquillo, ti ascolto”.
I racconti che le avevano fornito fino a quel momento avevano spiegato solamente il perché fossero spariti: ma c’era molto di più, Kate lo capiva, perché mancavano molti punti che avrebbero potuto saldare fra loro le troppe cose che non riusciva a spiegarsi: “Una cosa soltanto” scattò, prima che lui iniziasse a parlare “tu chi sei? 17? Il mio Eric? Perché fate così fatica a ricordare tutto…”
Lui scosse la testa, facendo ondeggiare i capelli che gli coprivano il collo fino alle clavicole: “Mamma, sono sempre io, 17; ci sono alcune cose che sono cambiate, ma altre sono rimaste le stesse. Non devi avere paura, va tutto bene”.
Kate si alzò di colpo e si mise a percorrere la stanza in lungo e in largo: “No, non lo accetto!” sbottò “non ti ricordi nemmeno il tuo nome! Cosa ti hanno fatto…”
17 sospirò, prendendole le mani e stringendogliele con amore: “Ti giuro che sono sempre io e ti giuro che ti voglio un bene dell’anima”; Kate avverti sulle dita il calore umido del suo respiro, sentì il fremito in fondo alla sua voce.
“Tesoro mio…io non so cosa dire: lo so che sei tu, l’ho saputo subito quando ti ho visto al centro commerciale, ma nel frattempo mi sembri così distante…tutti e due, siete sempre voi ma con qualcosa di diverso”.
Il ghiaccio si specchiava nel ghiaccio: Kate lo guardava dritto in quegli occhi così belli, i suoi occhi.
“Qualcosa…” mormorò 17 come ipnotizzato, mentre si avvicinava con passo incerto al letto di Kate “io sono sempre io, ma con questo”.
Il ragazzo rivolse alla madre uno sguardo penetrante, dopodiché con una mano afferrò il letto e lo divelse dalla parete, sollevandolo sopra la testa.
Kate si sentì trasportare da uno strano timore: “Smettila! Mettilo giù, ti fai male!” urlò stravolta.
17 sogghignò e, afferrando il letto anche con l’altra mano, scrollò via infastidito le coperte e il sottile materasso.
“Eric” il ragazzo la ignorò e appoggiò il letto a terra.
“17…” lui alzò la testa in risposta e rimase a guardarla interrogativo.
“Mi risponde…quindi non lo fa apposta” pensò Kate frastornata.
17 stette ad aspettare una reazione da parte della madre e non vedendola arrivare sorrise di nuovo: fulmineo riprese il letto fra le mani e allargò le potenti spalle.
Kate non fece in tempo a gridare quando sentì il rumore stridente dell’acciaio che iniziava a piegarsi; un’espressione di angoscioso sgomento le dilatò gli occhi la massimo quando 17 inarcò lievemente le sopracciglia e serrò la morsa.
Lo scheletro martoriato del letto cigolò, mentre cadeva a terra in pezzi; l’urlo del metallo agonizzante che si deformava sotto quella pressione terribile riempiva la testa di Kate, stordendola.
Senza parole e con l’angoscia che le saliva al petto, vide una debole luce irradiare dalle mani di suo figlio e riflettersi sui resti del letto che lui ancora stringeva; la luce crebbe velocemente d’intensità, la pesante massa lucida dell’acciaio si restrinse e iniziò a gocciolare sul pavimento, mezza liquefatta; 17 la gettò a terra con uno schianto e fece un respiro profondo.
“Oh…” Kate si ritrasse contro la parete, le gambe non la reggevano.
In quel momento entrò anche 18; guardò prima la carcassa ritorta sul pavimento e poi Kate, tutta tremante rasente al muro, terrorizzata da quello che doveva appena aver visto. 18 le tese le braccia e Kate ci si rifugiò; la ragazza chiuse gli occhi e iniziò ad accarezzarle i capelli: “Mamma mamma mamma mamma….”
Quante volte Kate l’aveva fatto con lei!
“Potevi farne a meno…ma proprio davanti a lei dovevi fare il toro? L’hai spaventata a morte” disse atona a 17.
“Sicuramente avrà capito”.
18 scosse la testa: “Sei un deficiente”.
Poi si rivolse a Kate, appoggiata al suo seno con gli occhi sbarrati: “Ti porto di sotto mamma, poi ti distendo sul divano e ti copro, tu riposa e stai calma”.
18 se la caricò in spalla con un movimento fluido, poi saltò giù dalla tromba delle scale e depose dolcemente la madre sul divano. La coprì e sorrise, poi si dileguò.
 
 “Dovevi proprio spaventarla così? Sei contento adesso che ti sei fatto vedere?” urlò 18 “adesso addio, chi può dirle qualcosa…cazzo!” colpì con un calcio un pezzo di letto, 17 la fissava immobile.
Adesso come gliel’avrebbero spiegato? Sempre che la mamma si fosse ancora avvicinata a loro.
Kate aveva solo visto 17 –suo figlio- che sollevava un letto d’acciaio e lo schiacciava come una lattina di coca cola: normalissimo!
Tutte le madri che ritrovavano figli scomparsi scoprivano poi che glieli avevano trasformati in macchine inarrestabili: normalissimo, di cosa dovevano preoccuparsi?
Adesso come le avrebbero spiegato che, nonostante l’enorme potere che ormai possedevano, non erano cambiati? Ci avrebbe creduto ancora che 17 e 18 erano sempre in grado di provare e sentire esattamente quello che provavano e sentivano Eric e Alice?
Anche se per loro quei nomi restavano ancora una pagina bruciata di un libro perduto.
“E comunque…”
“Sshhh!” 17 zittì la gemella “la mamma si sta calmando, respira regolarmente”.
18 si mise in ascolto e cessò di parlare ad alta voce.
Kate intanto, dal suo divano, sentiva i gemelli discutere animatamente, anche se le parole le arrivavano attutite dal soffitto e dalla tappezzeria e lei non riusciva a distinguerle bene.
Era rimasta letteralmente impietrita: “No…quello che ho visto non l’ha fatto Eric…quello che ha fatto 17 è assurdo, non era vero!” questo unico pensiero martellava le sue tempie sfatte, mentre ancora scossa dalla paura e dalla tensione cercava di riprendersi e calmarsi.
Si snervava cercando il nocciolo di una questione totalmente folle: cos’era diventato suo figlio? E soprattutto, 17 era davvero suo figlio? Una persona normale –nemmeno un teppista, tale che era stato prima- non avrebbe mai potuto sollevare e distruggere un letto d’acciaio senza fare una piega; una persona normale non avrebbe mai potuto spostarsi con dei movimenti così veloci e silenziosi, nessuna persona normale non avrebbe cambiato aspetto in tre anni!
Era tutto così strano. A Kate sembrava di essere finita in un film di fantascienza dove i suoi figli erano due Terminator.
In tal caso cosa doveva aspettarsi? Quello che 17 le aveva mostrato era niente allora!
Eppure Kate si ricordava benissimo di quando, poco prima, le aveva preso le mani; era certa della sua stretta febbricitante e lievemente sudata, del tremito dei suoi polsi…un Terminator non si emoziona. Come dimenticare poi il loro abbraccio pochi giorni prima, lo scambio di emozioni che era avvenuto in quella casa abbandonata? Un Terminator non si emoziona davanti a sua madre –una madre non ce l’ha nemmeno!
E poi la pelle così tenera e liscia, con quel suo profumo che gli aveva sempre sentito addosso, il calore del suo alito. Impossibile, una macchina non è calda e viva.
Kate aveva percepito il tepore della vita irradiare dal corpo di 17, tutto in lui era vivo, pieno di vita come lei si aspettava che fosse.
Eppure quella carne morbida e calda era una morsa letale capace di stritolare l’acciaio senza lasciarsi sfuggire neanche la minima goccia di sangue.
Kate era ancora scioccata, ma non voleva starsene lì mentre i suoi figli erano lì con lei, dopo tanto tempo: “Tanto dormire proprio no…”
Si alzò a fatica e si diresse verso le scale; subito la porta al piano di sopra scattò e 17 e 18 fecero capolino dal pianerottolo.
“Stai lì mamma, scendiamo noi” disse lei ed entrambi saltarono giù.
“No no no vi fate male!” pensò Kate istintivamente, ma in un nanosecondo fece due più due e si trattenne “allora, non dovevano parlare?”.
“Vado io?” chiese 17; sua sorella scosse il capo: “Ecco mamma, forse è meglio che te lo diciamo in due”.
“Cosa devo aspettarmi?” chiese Kate, ancora tremante.
17 le rivolse un sorriso mesto e amorevole: “Di tutto e di più”.
 
“Perché non me ne avete parlato prima, quando ha iniziato a farvi stalking?”
Kate non ci sarebbe mai arrivata: un vecchio che per due anni li aveva pedinati per poi rapirli e portarli via. Mentre raccontavano, a 18 era ritornata in mente la sera della festa: quel ragazzo che l’aveva spogliata, l’incidente, la paura,  la loro lotta inutile contro l’intontimento, il guizzo bianco che li aveva portati fuori strada in tutti i sensi.  E si sentiva ancora più consapevole, riusciva a immaginarsi come Kate si fosse sentita non vedendoli più tornare.
“E adesso quel vecchio dov’è?”
“Morto” 17 aveva alzato le spalle “l’ho ammazzato io”.
“Che cosa?!” Kate quasi saltò sulla sedia “hai ucciso un uomo…”
“Sì. L’ho ucciso, se vuoi ti racconto anche come…”
“17 piantala!” intervenne 18.
“Posso sapere cosa vi ha fatto? Come mai vi ha tenuti prigionieri per tutto questo tempo? A cosa gli è servito?”
18 sospirò: “Sei sicura di volerlo sapere? Era quello di cui volevamo parlarti. Peccato che qualcuno abbia voluto mettersi in mostra…” la biondissima guardò storto 17.
“Sono sicurissima. C’entra qualcosa col mio letto, vero?”
17 sospirò e le rivolse uno sguardo furbescamente contrito: “Mi dispiace mamma, non volevo”.
Kate rise nervosa: “Il problema pratico è che adesso non so dove dormire”.
17 la ignorò e i suoi occhi si fecero freddissimi:  “Io ho ucciso lo schifoso perché era uno scienziato pazzo. È lui che ci ha rubato tutti i ricordi, in modo che non ci saltasse mai in mente di liberarci di lui, ma il nostro obiettivo fosse solo quello di uccidere tutti”.
Kate guardò sua figlia come per avere una conferma e la vide annuire; sentì un brivido: “…come ha fatto? Cosa vuol dire che vi ha rubato i ricordi? Vi ha drogati? E in che senso voleva che uccideste tutti?”.
Per un minuto lunghissimo nessuno parlò.
Fu 18 a prendere coraggio e a dire la verità: “Non sclerare, ti prego, non avere paura. Alice e Eric erano umani, come te. Adesso io e 17 siamo cyborg”.
 
 
Kate era confusa, molto confusa.
E anche esterrefatta.
Si ricordava che, nei momenti più difficili, si era appellata ai forum per madri disastro, era andata a sentire le conferenze e i seminari degli specialisti, si era informata su internet.
Di materiale ne aveva accumulato; li chiamava tutorial.
Tutorial per figli adolescenti; per figli adolescenti scatenati: per figli adolescenti delinquenti.
Cosa fare in questo e in tal caso, cosa significa questo e cosa significa l’altro.
Ma Kate ci avrebbe messo la mano sul fuoco, avrebbe potuto scartabellare e analizzare l’intero World Wide Web, scalare tutta l’Himalaya alla ricerca del più sapiente fra i sapienti, ma era sicura che mai e poi mai avrebbe trovato qualcuno che le dicesse cosa fare con due figli androidi.
Non era possibile, non era reale: delle cose del genere non si potevano fare nella realtà -e nemmeno in tutti i film di fantascienza.
Eppure lei aveva due Terminator per figli. Le sue intuizioni non erano campate per aria. Due Terminator di nome 17 e 18. Un numero che aveva cancellato un nome.
17 e 18 erano stati estremamente chiari, per giunta; la lucidità che avevano messo nel raccontarle tutto era incredibile e paurosa. Kate non poteva pensare che si fossero bevuti il cervello, erano appena saltati giù da almeno tre metri di scale e di certo lei non avrebbe dimenticato presto la fine del suo povero letto.
Questo e altro le era ormai chiaro, adesso capiva il perché fossero rimasti uguali: la conversione doveva essere avvenuta massimo un anno dopo il rapimento.
Chissà come aveva fatto quel pazzo che li aveva trasformati.  Kate se lo chiedeva senza sosta, per lei era una cosa inconcepibile, nel suo immaginario i robot erano così enormi tutti di ferro, non ragazzi in carne e ossa. Per lei era impossibile pensare che i suoi Alice e Eric, così normali dall’esterno, al loro interno avessero delle unità e dei processori fortissimi, dei cavi, dei circuiti… non erano più due persone.
Le sembrava stranissimo vivere a contatto con dei marchingegni di tale calibro; sembravano proprio veri, proprio vivi.
18/Alice le aveva precisato che non erano robot bensì cyborg: “Siamo sempre persone perfettamente vive, solo con delle parti meccaniche e un po’ di forza”. Un po’.
Avevano ossa, nervi e il sangue che era sempre lo stesso, polmoni per respirare, un cuore che batteva e sentiva e un cervello che ragionava; le erano subito saltati addosso quando l’avevano vista, la chiamavano sempre mamma, le avevano raccontato che il pazzo non era mai riuscito a cancellarla del tutto da loro e che perciò non le avevano mai tolto un pensiero; questo bastava a renderli persone in tutto e per tutto.
 “Cosa faccio, cosa faccio?” Kate era sola ad arrovellarsi sul suo problema: perché a lei? Come ci si rapportava con due androidi, anzi con due cyborg?
E non due cyborg qualsiasi, i suoi figli; ciò che aveva amato di più e che amava tuttora.
Si sentiva immensamente stupida: prima che le raccontassero cos’era successo li aveva trattati normalmente, come due persone.
Ma perché sono persone! Però…cyborg. Organismo cibernetico.
Con loro si sentiva ingessata, impedita. Non aveva paura che le facessero del male, ma le bastava vederli e pensava wow, ho davanti a me due androidi veri e si bloccava.
Si augurava che non ci stessero male; l’ultima cosa che voleva era proprio che pensassero che lei a loro non voleva più bene, quando invece li amava, come e più di prima.
Da lì aveva cominciato a fare pasticci, si era resa ridicola.
Cosa mangiano i cyborg?
Sempre per colpa dei film, la mattina si era ritrovata a bussare alla loro porta con in mano un vassoio.
Tra l’altro le avevano detto che il loro potere aveva una riserva di energia infinita e che quindi molto spesso non dormivano; a loro non serviva, lo facevano quando ne avevano voglia.
Una mattina Kate era andata da loro con la colazione, i gemelli l’avevano esaminata prima di rivolgerle uno sguardo piuttosto deluso: “Mangiali tu”.
“Ma se non vi ho ancora detto cosa vi ho preparato!”
“Si invece” 18 aveva additato il vassoio “ questo nei bicchieri è detersivo per me e benzina per 17, l’odore lo sente anche lo schifoso giù all’inferno”.
“Beh, credo che…”
“Vuoi farci venire il mal di pancia?”
Kate si era sentita molto stupida; come un’altra volta quando lei si era seduta a tavola a mangiare e i gemelli erano rimasti a guardarla tristi e pensosi.
“Oh scusate piccolini! Avete fame…”
Kate aveva spiegato che se avevano bisogno di ricaricarsi con la corrente c’erano le prese, anche se non avrebbe saputo dire se fossero le prese giuste.
“Giusto, dobbiamo ricaricarci come il cellulare o il rasoio” le aveva fatto notare 18 piuttosto spazientita “se proprio ci consideri degli elettrodomestici, beh non siamo così primitivi!”
Evidentemente per fame intendevano la fame seria e intendevano mettere qualcosa nello stomaco; Kate aveva proposto loro un piatto di bulloni, dadi, pezzi di plastica e persino una vecchia forchetta.
“Questo va meglio?” era convinta
“Ma fammi il favore!” 18 si era coperta la faccia con le mani, indecisa se ridere o piangere.
“Si ok, mamma, molto invitante…e croccante” aveva preso la forchetta e l’aveva triturata sotto i denti “per quanto mi riguarda, questa roba posso masticarla e anche digerirla –penso” l’aveva sputata “ma fa schifo!”
18 si rigirava un bullone fra le dita: “…mamma, è come se voi umani mangiaste l’immondizia. Tu la vorresti mai?”
Kate aveva già una collezione.
Come quando li aveva beccati che stavano andando a lavarsi: “No! L’acqua no! Volete andare in corto?”
“Ovviamente. Come il phon e il tostapane!”
“Non ti rendi conto che siamo persone?”
Ci era rimasta di sasso anche per un’altra cosa che aveva chiesto a 18: “Alice…ma il ciclo mestruale?”
Con sua enorme sorpresa la ragazza le aveva confessato che anche da cyborg aveva avuto un ciclo al mese: “Purtroppo nemmeno un genio della biomeccanica come lo schifoso può niente contro la potenza dell’ormone femminile!” le aveva detto divertita “da quello niente e nessuno può liberarci”.
Kate era allibita: “Quindi…volendo…potresti restare incinta…”
“Volendo credo di sì. Ma per ora non voglio quindi sta’ tranquilla”.
Era una persona. Una donna in grado di generare figli era una persona, punto.
“E…tuo fratello?”
18 era scoppiata a ridere: “No, lui non penso che abbia il ciclo! E nemmeno che possa restare incinto!”
 
I giorni passavano e con l’aiuto di Kate 17 e 18 recuperavano i loro ricordi; un lavoro faticoso e complesso, fatto di amore, pazienza, risate e occhi che si spalancavano o si incupivano. Erano stati loro a chiederglielo.
“Guarda, 17, eri ancora carino qui!” stavano sfogliando un album di vecchie foto, che ritraeva i gemelli durante i loro primi anni. In una che piaceva a 18 c’erano loro due ancora pelati, con due occhi enormi, in braccio a Kate che porgeva loro i seni turgidi e nudi.
“Tu invece non lo sei mai stata!”
Kate si sentiva in dovere di colmare i terribili buchi neri che quel dottore aveva aperto nella sfera intima dei suoi figli; ora riuscivano a contestualizzare i loro nomi, anche se la forza dell’abitudine faceva sì che si chiamassero ancora 17 e 18: “Voi due chiamatevi come vi pare, ma io userò i nomi che ho scelto per voi quando eravate ancora nella mia pancia” diceva Kate “e l’importante è essere riuscita a farveli ricordare e accettare”.
Non mancavano certo i brutti ricordi della Creatura che ogni tanto li visitavano, specialmente quando decidevano di dormire, ma di questo non avevano fatto parola alla mamma.
Kate a sua volta si interrogava sul destino dei suoi figli. Cosa ne sarebbe stato di loro adesso? Sapeva che non avrebbe potuto tenerli con sé per il resto della loro vita.
La risposta le venne un giorno da 18.
“Mamma, io sono stata felice di averti ritrovata e starei qui con te per sempre” mentre parlava la stringeva e sorrideva  “però c’è un ragazzo che mi aspetta. Se devo ringraziare che mi sia capitato tutto questo casino, lo farò per lui”.
Kate si chiedeva chi fosse questa persona così importante che lei aveva conosciuto durante la sua avventura. Si immaginava un uomo capace di amarla e allo stesso tempo di incuriosirla, di difenderla, di tenerle testa. Kate era convinta che 18 e Alice fossero ancora la stessa ragazza che non si accontentava mai.
“Sei convinta di questa persona?” non aveva potuto fare a meno di chiederglielo, almeno questo, ma dedusse che se davvero era pronta a partire di nuovo verso orizzonti che a lei erano sconosciuti, doveva valerne la pena. E alla fine Kate lo sapeva, doveva lasciarla andare.
“So che la mia decisione varrà per una vita” 18 aveva annuito, con un cenno deciso.
Mai Kate l’aveva vista così sicura di sé.
17 naturalmente sapeva già tutto; la notte prima della sua partenza per sicurezza avevano rifatto il rito.
“Ormai siamo più tribali delle stesse tribù!” aveva riso lei, lanciando in aria il cuscino appoggiato sul suo letto.
“No, ormai siamo dei vampiri: io avrò bevuto tre ettolitri del tuo sangue!”
Si erano guardati a lungo, poi 17 aveva rotto il silenzio mordendosi il labbro: “Sei davvero sicura? Pensi che quello ti renderà felice?”
“Io non lo penso, né lo so: lo accetto e basta”
“Cosa significa?”
“Che ho trovato il mio posto. E anche il senso che voglio dare alla mia vita”.
Si erano salutati solo con uno sguardo, prima che lei volasse via verso il futuro. Kate riuscì in minima parte a comprendere l’arrivederci lunghissimo che si erano detti in quei due secondi di sguardo. A presto, ci rivedremo, ricordati di me.
Kate non se ne era manco accorta che sua figlia sapeva volare.
Quando 18 se ne andò, 17 divenne come spento.
A nulla servivano gli abbracci di Kate; era come se una parte di lui si fosse staccata e, anche se sapeva di non averla persa, gli faceva comunque male.
Restava molto tempo a riflettere, sulle foto.
Le sue personali non aveva ancora avuto il coraggio di guardarle: troppe emozioni nelle ultime due settimane, non aveva ancora finito di assimilarle.
Fu l’ultima cosa che gli aveva detto 18 ad accendergli una sinapsi particolare: diceva di aver trovato un senso alla propria vita.
E lui? Cos’avrebbe fatto, adesso che lei se n’era andata? Avrebbe continuato a divertirsi con le macchine, avrebbe diviso la propria esistenza fra la casa della sorella e quella di Kate, avrebbe vissuto con lei fino a che non fosse morta e lui, ancora giovane e bellissimo, avrebbe ricominciato da capo e si sarebbe cercato qualcos’altro da fare.
Tuttavia le cose non erano destinate ad andare così; in tutto quel trambusto non aveva dimenticato una persona di estrema importanza, che aveva continuato a visitarlo nei suoi sogni d’amore ad occhi sia aperti che chiusi.
La ragazza dai capelli rossi.
17 si sorprese di trovare un album di foto di loro due insieme: che si scambiavano tenerezze, seduti sulla sua macchina, che ridevano e giocavano, che facevano cose buffe…ma la più bella era un’altra: una foto scattata sott’acqua, lo sfondo era una massa d’azzurro, il cielo scompariva sotto la luce riflessa e modulata dalla superficie dell’acqua.
Si stavano baciando: lui indossava un costume a fiori, lei aveva un bikini color confetto che copriva a stento un seno morbido e candido, schiacciato contro il petto abbronzato di lui.
“Ma questo sono io!” 17 sentì il cuore balzargli in gola, mentre dovette tenersi a qualcosa per non cadere: la scena gli sfilò davanti agli occhi, fresca e nuova come la prima volta.
C’erano lui e Kate. Si ricordava quel giorno, era stato un giorno fantastico, quello in cui lei gli aveva detto finalmente sì alla macchina. Erano andati insieme a sceglierla.
C’era un uomo grasso e simpatico, con i capelli fulvi e la faccia piena di lentiggini, che gli aveva mostrato le macchine e poi era andato via.
E c’era lei.
Lei, con quel sorriso timido e pudico, quegli occhi color della giada, quelle innumerevoli piccole macchiette sul viso candido, quei lunghi capelli rossi.
Il déjà- vu lo abbandonò, sudato e tremante, mentre un sorriso e un nome gli tornavano alla mente.
Adesso anche lui sapeva dove andare, sapeva dov’era il suo posto: l’ultimo tassello era stato trovato. La foto era stretta fra le sue mani, sul suo cuore che batteva finalmente libero.
“Carly. Ti troverò…”



Caari cari cari lettori e recensori!
Se siete arrivati fin qui devo farvi i miei complimenti più sinceri :)
Sono davvero contenta se l'avete fatto hahah c:
A voi, Kjria91 e Lady_Charme, i miei abbracci più sinceri per tutto <3

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Capitolo 14
*** Epilogo ***


ssiao bellissimi! <3
allora, innanzitutto GRAZIE :*
per essere arrivati fin qui,per aver letto e recensito.
come al solito un bacio specialissimo alle mie donne
Lady_Charme e Kjria91.
temo che con questo capitolo conclusivo dovremmo salutarci, miei cari. Grazie di essere stati con me :)
Hasta luego 
Blusshi*






Fuori la luce lunare era chiara e limpida, la notte splendeva fra le vette innevate.
La bella stufa di ceramica smaltata diffondeva il tepore nel salotto di legno di quella specie di chalet nella foresta.
17 era disteso sul grande divano di stoffa, Carly gli si era messa addosso a cavalcioni e lui la accarezzava con dolcezza; indossavano solo la biancheria e i lunghissimi capelli rossi fungevano da copertina per entrambi.
Per l’ennesima volta lei era pronta a farsi raccontare quell’incredibile avventura vissuta solo tre anni prima.
Le sembrava che fosse trascorso così tanto tempo.
Ne erano passati sei, invece, da quando era iniziato tutto: se suo padre non l’avesse chiamata ad aiutarlo, in quel pomeriggio uggioso, probabilmente Carly non avrebbe mai incontrato l’uomo della sua vita.
E se Kate non l’avesse accompagnato a comprare la macchina, chissà se 17 avrebbe mai potuto conoscere quella ragazza dagli occhi color della giada?
In mezzo c’era stato quel periodo in cui Carly era diventata l’ombra di se stessa, ma nel frattempo aveva dovuto tirare avanti e dopo la scuola aveva voluto lavorare nella concessionaria. Aiutava i clienti nelle pratiche, sempre sorridente, sempre aggraziata, con quel grande chignon rosso e il tailleur che sembrava esplodere sul seno.
Sorrideva sì, mentre dentro gridava, straziata dal dolore per il suo amore perduto.  Ormai Carly non riusciva nemmeno più a starci male; le sue giornate trascorrevano così noiose.
Carly guardava i suoi capelli crescere, il suo viso farsi scavato, la sua gioventù come appassire.
La sua vita si lasciava vivere senza un fine, a lei non importava più niente.
Il suo fine era Eric; senza di lui che senso aveva cercarne un altro? Avevano fatto così tanti progetti: un pensiero che l’aveva sfiorata erano stati i nomi dei loro figli.
Quali figli? Eric se n’era andato, era corso via troppo veloce e lei non ce l’aveva fatta a tenere il suo passo; troppo improvvisamente, era stato come svegliarsi in una stanza buia e ritrovarsi ciechi; il loro sogno insieme era stato sommerso da qualcosa di più grande.
 Avrebbe dovuto accompagnarli giorno dopo giorno nella loro vita… Tuttavia proprio la vita aveva voluto dar prova della sua imprevedibilità e in un certo senso –entrambi ce ne avevano messo di tempo per trarre questa conclusione- li aveva fatti crescere mettendo alla prova il loro amore.
“Molto bene, si ricordi di fare la revisione” il cliente era uscito e Carly era di nuovo sola nel suo ufficio, in compagnia di un freddissimo computer e di una scrivania scialba.
Non voleva portare sul luogo di lavoro le foto di lei e Eric insieme, avrebbe rischiato di piangere davanti a tutti quegli estranei.
Continuava a bere caffè anche se sapeva che era sensibile alle sostanze eccitanti: solo quel liquido scuro dal sapore così intenso le regalava un momento di piacere, facendole tacere dentro il peso del suo fardello, la paura e la tristezza.
Era stato come un sogno uscire dall’ufficio per bersi l’ennesimo caffè e ritrovarselo di fronte.
Così tanto bello come se lo era sempre ricordato, come l’ultima sera quando l’aveva accompagnata a casa dalla festa.
Così maledettamente bello con quel suo sorriso tra l’allegro e lo strafottente, quell’aria da spaccone con le mani in tasca, quei bei capelli lunghi da asiatico, quegli occhi al limite del chiaro che del ghiaccio avevano solo il colore, quei tratti splendidi: era l’immagine di lui che si era sempre portata nel cuore.
Un miraggio, il frutto della sua immaginazione addolorata. Aveva proseguito la sua strada verso la macchinetta, passando accanto a quell’idea di angelo maledetto senza guardarlo troppo, finchè una mano, una mano quasi reale l’aveva afferrata delicatamente per il polso.
Quanto avrebbe voluto che fosse vero! Ma nel preciso istante in cui lui l’aveva chiamata e poi presa tra le braccia, Carly ci aveva creduto e basta; alcune cose non hanno bisogno delle parole per essere descritte, perché le parole le imprigionerebbero in concetti in cui non possono essere incatenate.
Carly non ci aveva mai creduto, ma ritrovarsi di fronte il suo Eric era stato proprio così.
 
“Vieni via con me”.
Le aveva detto questo, prendendola per mano e stringendola così forte che Carly temeva di morire.
Tante volte si era sentita come se stesse per accadere, ma morire fra le braccia del suo amore sarebbe stata la cosa più triste e romantica che avrebbe potuto succederle.
L’aveva portata al nord.
Nella pace assoluta delle foreste le aveva raccontato tutto; Carly era rimasta incredula, tra le lacrime e lo sgomento, prima di accorgersi che non era rimasta sconvolta. Era strano. Quello che le aveva detto non l’aveva spaventata, non l’aveva cambiata.
“Non sei rimasta sconvolta?” la punzecchiava 17, ma in realtà era lui ad essere frastornato per la sua non-reazione.
Lei l’aveva stretto, lasciando che lacrime di gioia scorressero libere giù per il viso: “Sappi che nulla cambierà quello che provo per te”.
Di certo 17 non si aspettava che Carly lo mollasse, ma che forse avesse paura di lui.
Non era stato così: “Sono felice di aver scelto te”.
Avevano ricominciato insieme, costruendo su tutto l’amore che c’era stato prima.
“Una storia come questa potrei sentirla mille altre volte, ne sono certa”.
Parlavano sempre a lungo, non finivano mai di scoprire risvolti nuovi in quell’avventura.
Carly gli chiedeva spesso se gli mancasse Alice: si erano separati quel giorno, sulla soglia della casa di Kate, ma 17 non aveva smesso di tenersi in contatto con lei e nemmeno con la madre.
18 ora si era sposata con il ragazzo che amava, vivevano insieme in una casa sulla costa, proprio vicino al mare. Ironia della sorte era la stessa casa in cui, tre anni prima, loro due e 16 erano atterrati per uccidere il nemico del dottore.
Stava bene, gli incubi non la visitavano più, aveva il suo uomo accanto ed era anche diventata mamma di una bambina.
17 non poteva credere che ancora potesse, 18 non gliene aveva mai parlato!
“Guarda com’è cresciuta Marron! È uguale a mia sorella” 17 aveva preso il computer, dove 18 gli aveva inviato le ultime foto della sua piccolina.
Carly si trascinò faticosamente fino alla scrivania e si sedette sulle ginocchia di 17: “E’ davvero bellissima. Una piccola Alice”.
Marron aveva quasi un anno, era bionda e bella proprio come la sua mamma.
E anche dolcissima: 17 e Carly andavano spesso a trovarla e lei non si tirava mai indietro da sfoderare un adorabile sorriso sdentato e di assalirli di abbracci e baci.
Carly amava i boschi che si stendevano per ettari, amava quando lei e 17 facevano lunghe passeggiate mano nella mano.
Quando non faceva troppo freddo era bello anche fare l’amore; sotto quel cielo stellato e nelle alcove segrete della foresta sembrava di essere più vicini all’infinito, ai ragazzi pareva di sentirsi parte di quel mistero arcano e meraviglioso che era la natura incontaminata del nord.
Lì c’era spazio solo per loro e per il loro grande amore.
Verso la fine della primavera Carly aveva iniziato a non sentirsi bene; 17 aveva deciso che quell’aria pulita l’avrebbe rinforzata, per questo se la portava in spalla e facevano incredibili gite a volo d’aquila. La sua parte preferita era quando rasentavano la superficie di un lago e lui la teneva facendole fare una specie di sci d’acqua.
Arrivava l’estate con i suoi prati verdi, i laghi diventavano tiepidi; a volte Carly si sentiva ancora male, ma aveva guadagnato un appetito da leone.
L’alta montagna? In segreto, la ragazza cominciava a nutrire qualche lieto dubbio.
In una delle loro gite avevano trovato una striscia di terra in cui crescevano i quadrifogli; a Carly piacevano tanto anche se non riusciva mai a trovarne.
Un giorno di quell’estate ne trovò ben due, una vera sorpresa! Ma quel giorno le sorprese non finirono con i quadrifogli.
Adesso era inverno, 17 sfogliava le foto di sua nipote: “Meno male che somiglia a mia sorella, altrimenti poverina, che brutta sarebbe stata…Ti immagini?”
“Che cattivo sei! I bambini sono tutti belli!”
17 increspò il labbro: “Non tutti. Io sì, ero bellissimo” poi diede un bacio a Carly e tornò a strofinarle teneramente i fianchi e il pancione “e anche il nostro lo sarà”.
Ogni volta che Carly si toccava la pancia e sentiva quel guizzo di pesciolino che ormai le era tanto familiare, non riusciva a non pensare a quel messaggio di tanto tempo prima, in cui quella meraviglia del suo moroso le aveva scritto voglio dei figli con te.
Eccoli lì; e ormai mancava così poco…
“Non sai dirmi cos’è? Sono così curiosa!”
“Carly, non ho la vista a raggi X e tantomeno sono un apparecchio a ultrasuoni; i miei sensori mi dicono solo che è vivo e sta bene, nulla di più”.
Carly aveva scoperto di aspettare un bambino proprio il giorno dei quadrifogli; in teoria avrebbe dovuto essere lei quella sorpresa, ma 17 era rimasto sbalordito.
Ed estremamente felice: mille a zero per lui, lo schifoso non aveva distrutto la sua umanità, non era riuscito a impedirgli di essere una persona. Gli incubi avevano smesso di perseguitare anche lui e si era accorto che la sua Carly, con il suo amore e la sua solarità, aveva dissipato tutti i suoi brutti ricordi.
 Gli aveva restituito la gioia, presto sarebbe diventato papà,  quel dono inaspettato avrebbe coronato il loro amore; 17 sperava che fosse una bambina, bella come lui e radiosa come Carly.
“Io tra poco darò alla luce il nostro bambino. Seguiranno tanti anni e poi anche io passerò; mi vedrai sfiorire e invecchiare e impazzire, mentre tu resterai per sempre così come ti vedo adesso, con la tua bellezza e i tuoi modi da ragazzino irrequieto e disobbediente”.
Carly ci pensava spesso e si preoccupava. Anche in quel momento, si accorse di avere gli occhi cupi.
“Cosa c’è?” le chiese 17 “sei turbata?” la strinse forte a sé.
Lei gli diede un bacio e affondò le dita fra i suoi capelli neri : “Se sarà un maschio voglio chiamarlo Eric”.
“Ti do il permesso di farlo?” ammiccò lui, con quel sorriso da furbastro.
Carly non gli badò e non diede adito a quei pensieri; il presente doveva viverlo adesso, un presente che mai si sarebbe aspettata, ma che era stato il suo sogno tante volte. Il presente fiorito di cui il loro primo incontro era stato il germe.
In mezzo c’era stato un inverno in anticipo, ma poi era arrivata la primavera con la sua luce e adesso un’altra primavera fioriva dentro di lei.
Carly si tirò su la canotta aderente: vedere il suo pancione che rimbalzava di qua e di là? Non aveva prezzo.
 “Sì, se sarai un bambino ti chiamerai Eric e sarai tanto bello e tanto fuori come tuo padre”.
Ma a lei piaceva pensare che sarebbe stata una bambina, la sua piccola pesciolina.
17 diede un ultimo buffetto a quella bella pancia rotonda: “Io mi chiedo sempre come fa a diventare così grossa…anche a mia sorella; voi donne non vi capisco”.
Carly si mise a ridere rischiando di cadere all’indietro: perché i maschi erano sempre così tonti?
“No, la mia pesciolina sarà una bambina sveglia”.
“Sono così felice di aver scelto te” sussurrò Carly, abbracciandosi a lui.
Fuori era abbastanza tardi, ma loro non avevano sonno. La notte era tutta loro.
Ancora per un po’.
 
 
 
                                                         *FINE*

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