Sempre con me

di Kourin
(/viewuser.php?uid=87801)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pioggia ***
Capitolo 2: *** Foglie ***
Capitolo 3: *** Neve ***
Capitolo 4: *** Petali ***
Capitolo 5: *** Cielo ***



Capitolo 1
*** Pioggia ***


Premessa

Quando al contest “Yaoi Captain Tsubasa” mi era toccata la coppia HikaruxTaro, avevo pensato di ambientare la storia in Golden 23, dato che è il momento in cui i due tornano ad interagire un pochetto dopo volumetti e volumetti di silenzio. Tuttavia ho lasciato perdere: sapevo che mi sarei complicata la vita e che, di conseguenza, mai sarei riuscita a consegnare la storia in tempo.

Però complicarsi la vita è bello, se lo si fa con calma!

Con i dovuti tempi di gestazione, riecco Matsu e Misaki in una storia che è complementare a “La stagione della lavanda” solo, appunto, nelle stagioni. Per il resto segue una cronologia differente ed è un po' più cupa.

 

Sempre con me

di Kourin

 

1. Pioggia

 

Misaki era riverso a terra. Quando Hikaru era corso verso di lui, le gambe si erano mosse senza bisogno del pensiero. Il braccio destro si era proteso in avanti per afferrarlo, come se all'interno del campo si fosse aperta una voragine che avrebbe potuto inghiottire per sempre la persona che aveva conosciuto come Taro Misaki.

Ma Misaki si era rialzato da solo. La sua tempia aveva subito una lacerazione, forse non profonda ma tale da suscitare impressione. Il sangue grondava sulla metà sinistra del viso, trasformando i lineamenti delicati in una spaventosa maschera rossa. Come se il guerriero in lui risvegliatosi fosse stato divorato dal demone che gli aveva concesso di sferrare il colpo decisivo all'avversario.

Il boato di entusiasmo della folla assiepata sugli spalti avrebbe dovuto fare da eco alla gioia per il gol segnato, invece non fece che intensificare in Hikaru la sensazione che la vita di un ragazzo, o un qualcos'altro che non era vita ma che egli considerava altrettanto essenziale stesse davvero per precipitare in un baratro.

Tutto questo stava accadendo nel cuore dello Stadio Nazionale Olimpico, il luogo dove ciascuno di loro aveva fantasticato almeno una volta nella vita di poter giocare. Si trovavano ad un passo dal cielo dopo aver scalato la cima di un'impervia montagna. Ma se il cielo avesse precluso il suo accesso, la vetta raggiunta dopo tanti sforzi non sarebbe diventata altro che l'orlo del precipizio.

Hikaru pose istintivamente la mano sulla spalla di Misaki. Sotto ai muscoli tesi poteva sentire il suo respiro. Era ancora lui, era il respiro del Taro Misaki che conosceva. Arrivò Misugi e poi il resto della squadra accorse tutt'intorno, la preoccupazione e l'esultanza sospesi in un limbo. Avevano pareggiato contro la Nigeria, ottenendo la conferma che loro ventitré e loro soli  erano i legittimi titolari della squadra che avrebbe inseguito il sogno dell'oro olimpico.

Fu Wakabayashi a rompere il silenzio, con la sicurezza che lo aveva sempre contraddistinto. Strinse il pugno ricoperto dal guanto. “I preliminari asiatici che ci porteranno alle Olimpiadi... li vinceremo con questi giocatori!” esclamò.

“Misaki, afferreremo la vittoria con le nostre mani,” confermò Hikaru. La fascia di capitano che gli cingeva il braccio era più stretta del solito, a conferma che stavolta non si sarebbe trattato di un passaggio transitorio.

“Vinceremo grazie alle nostre forze” affermò Jun Misugi.

“Sì, senza l'aiuto di Tsubasa e degli altri che sono all'estero, con le nostre mani e con le nostre forze...” continuò Taro Misaki.

“Vinceremo la qualificazione alle Olimpiadi!” acclamò all'unisono il resto della squadra, suggellando il patto.

Da un momento all'altro avevano guadagnato la fiducia dei tifosi. L'energia del pubblico, volubile ma dirompente, converse in uno scroscio di applausi che spazzò via all'istante l'atmosfera irreale creatasi dopo l'ultimo gol. Il dolore degli adduttori contratti si fece sentire nelle gambe di Hikaru, ora nuovamente consapevole di poggiare gli scarpini sul concreto suolo giapponese.

Lo staff medico iniziò subito ad occuparsi della ferita di Misaki. Gli controllarono le pupille, i riflessi, gli posero domande per capire se fosse vigile o meno. Inizialmente proposero di caricarlo su una barella, ma lui rifiutò fermamente. Era comprensibile che l'eroe del match volesse lasciare il terreno della battaglia reggendosi con le proprie forze. Anche quando Ishizaki si offrì di sorreggerlo, lui rifiutò.

Il medico spiegò ai ragazzi di Shizuoka che avrebbero medicato velocemente il loro amico in infermeria e che poi lo avrebbero trasferito all'ospedale per una serie di accertamenti: benché la ferita fosse superficiale, la botta che aveva preso non era certo uno scherzo e si rendevano necessari degli esami approfonditi.

“Io verrò con voi,” affermò Hikaru intromettendosi nel gruppetto.

Misaki lo guardò fugacemente mentre un assistente tentava di rimuovere un po' del sangue che si stava incrostando intorno al suo occhio. Era uno sguardo determinato e stranito allo stesso tempo, come se aspettasse da un momento a l'altro il fischio d'inizio di un immaginario tempo supplementare. Anche gli altri guardarono il capitano con una certa sorpresa, ma nessuno mise in discussione la sua decisione. Misugi invece gli diede una leggera pacca sulla spalla e annuì. Hikaru ricambiò con un sorriso e insieme andarono a salutare i tifosi.

Dopo una doccia veloce si sistemò alla meno peggio e corse subito in cerca del signor Nakamura, il massaggiatore, che lo informò che Misaki sarebbe stato trasportato con un'ambulanza e che sarebbe stato quindi accompagnato soltanto dal medico. Hikaru ringraziò ancor prima che potesse terminare il discorso, si diresse di corsa verso l'uscita, scansò cameraman e giornalisti ma quando finalmente il piazzale antistante lo stadio si aprì davanti ai suoi occhi poté solo scorgere in lontananza le luci dell'ambulanza che si immetteva sulla strada principale. Hikaru sospirò, lasciò cadere in terra il borsone che portava in spalla e alzò gli occhi al cielo. Stava per piovere. La luce violenta dei fari che avevano illuminato a giorno l'arena avevano permesso ad imponenti nubi scure di addensarsi di soppiatto l'una sull'altra fino a formare una cappa compatta: non avrebbero lasciato scampo a chi  si fosse lasciato sorprendere sprovvisto di ombrello. Gli spettatori della partita, dimentichi dell'atmosfera festosa che li aveva contagiati, si stavano affrettando a rientrare per non venire sorpresi dal temporale incombente.

A Hikaru però non importava molto della pioggia, forse perché i suoi capelli, spessi e folti, erano ancora fradici. Si sorprese quando un'improvvisa folata di vento caldo riuscì a scompigliarli, donando alle guance una sensazione simile a quella di una carezza e porgendo alle orecchie un fruscio di chiome di alberi. Nonostante il vociare della gente e il viavai di mezzi, lo poteva percepire come un suono nitido.

“Matsuyama, quanto tempo.” Una voce che sembrava un eco dei suoi pensieri lo raggiunse. Hikaru si voltò. Il padre di Misaki gli stava venendo incontro dal vicino viale. Il tempo non aveva cambiato per niente quell'uomo robusto e tranquillo, con mani da contadino e il talento d'artista: la sola cosa insolita era di poterlo guardare negli occhi senza dover alzare il naso all'insù.

“Signor Misaki!” Esclamò Hikaru.“Sarà passata una decina d'anni! Se ben ricordo l'ultima volta ci  siamo visti al campionato delle elementari...”

“E' così,” confermò l'uomo. “Ne avete fatta di strada tu e Taro!”

“Ho fatto del mio meglio...” si schermì Hikaru.

“Quando vi guardavo giocare da piccoli mai avrei pensato che vi avrei rivisto l'uno al fianco dell'altro qui a Kasumigaoka.”

L'uno al fianco dell'altro? Non era questa la sensazione che aveva provato. Hikaru aveva sempre inseguito Misaki, ma non era mai riuscito a stare davvero al suo fianco. Non era un concetto semplice da spiegare, così mandò subito avanti la conversazione: “Sta andando all'ospedale?”

“Sì, naturalmente.”

“Ecco... in realtà ci sto andando anche io,” disse un po' imbarazzato.

“Lo immaginavo” disse Ichiro Misaki, mentre i fari di un taxi che stava sopraggiungendo gli illuminavano il sorriso calmo. “Possiamo andarci insieme, se vuoi. Forza, sali.”

Hikaru ringraziò, sistemò il borsone nel bagagliaio e salì sul taxi. L'interno della vettura era  piacevolmente fresco, forse fin troppo per Hikaru che era abituato a vivere senza l'aria condizionata. Come porte automatiche si chiusero, un ticchettio crescente di pesanti gocce iniziò a riecheggiare nell'abitacolo.

“Siete saliti giusto in tempo!” esclamò il tassista.

Poi un violento acquazzone si abbatté sullo stadio.

 

Giocavo a calcio con Matsuyama, ma per rincorrerci siamo andati molto lontano. Lui voleva convincermi ad entrare in squadra. Io dicevo di no perché non so quando mi trasferisco di nuovo. Il cielo era nero e si sentivano anche i tuoni: stava per scoppiare un brutto temporale. Allora siamo tornati indietro di corsa. Io che difendevo ancora il pallone sono scivolato e mi sono sbucciato un ginocchio. Poi però mi sono rialzato.

Matsuyama ha detto: “Sanguina, fermati.”

Io ho risposto: “Non è niente.”

Matsuyama ha ripetuto: “Sanguina,” e proprio in quel momento ha iniziato a piovere. Erano gocce molto grosse e fredde e ci siamo inzuppati subito.

Ho detto: “Hai visto? Dovevamo correre!”

Matsuyama però non mi ha risposto. Si è inginocchiato davanti a me e ha detto:“Ti porto in braccio.” Il pallone invece lo ha tenuto a terra perché nel calcio solo il portiere può toccarlo con le mani.

Mi ha accompagnato verso il bosco perché lì c'è una scorciatoia. C'erano molti fulmini, uno è caduto in un prato vicino. Poi è arrivato il tuono fortissimo. Matsuyama ha detto:“E' Raiju che arriva, dobbiamo sbrigarci.”

Raiju è la bestia del fulmine. Dicono che va in giro quando ci sono i fulmini e che il tuono è il suo verso. Ho chiesto: “Lo hai mai visto?”

“No, ma sono sicuro che esiste. Ho visto i segni dei suoi artigli.”

“Hai paura di lui?”

“No, ma bisogna starci attenti. Come tutte le bestie. A te fa paura?”

“No.”

“Lo dicevo io che hai coraggio! Sei proprio uno dei nostri!”

Un altro tuono fortissimo ci fa quasi diventare sordi. Forse era Raiju che ci aveva sentito, non gli piace che non si abbia paura di lui!  Ci siamo riparati sotto una casetta di Jizo. Sono sceso dalla schiena di Matsuyama. In terra c'era molto fango.

Jizo è di pietra e sorride sempre a tutti. In una mano tiene il bastone, nell'altra una gemma. Ieri era vestito con un mantello rosso e non era tutto zuppo come noi. Gli abbiamo chiesto il permesso di ripararci sotto la sua casa. Jizo non ha detto niente allora lo abbiamo ringraziato e siamo rimasti ad aspettare. Faceva freddo e ci è venuta la pelle d'oca. Matsuyama mi ha legato un fazzoletto intorno al ginocchio perché con la pioggia il sangue non si asciugava.

Ad un certo punto ho sentito la voce del papà che mi chiamava. E' venuto a cercarmi e mi ha portato l'ombrello. Ha subito guardato il mio ginocchio.

Matsuyama ha detto: “Non lo sgridi, è colpa mia se siamo andati così lontano.”

Il papà gli ha risposto: “Non volevo mica sgridarlo!”

Matsuyama allora ha fatto una faccia buffa e io e il papà siamo scoppiati a ridere.

Il papà ha detto: “E' solo un graffio, ma andiamo subito a casa a medicarlo prima che faccia infezione.” Poi ci ha dato il suo impermeabile e ha detto: “Copritevi tutti e due.”

Abbiamo guardato se intorno c'era Raiju (non c'era proprio) e poi abbiamo camminato per la strada che passa per il bosco. Un po' per volta ha smesso di piovere. C'erano solo le gocce grosse che cadevano dagli alberi e qualche volta ci siamo passati sotto apposta. Matsuyama rideva con me. Vicino a lui ho smesso di avere freddo. Gli ho detto: “Entrerò in squadra.”

Non gli ho detto però che voglio diventare più forte di lui. Prima Matsuyama è riuscito a portarmi via il pallone. Nessun bambino della mia età lo aveva mai fatto.

Lui mi ha stretto forte la mano. Io ho stretto forte la sua.

 

Hikaru telefonò a Yoshiko dicendole che non sarebbe rientrato a Sapporo né in serata né l'indomani.

“E' difficile da spiegare, ma voglio seguire la situazione di Misaki, sono preoccupato per lui.”

“Sempre il solito. Finirà per odiarti.”

“Dici davvero? Sto esagerando?”

“No, sei fatto così. Sinceramente non ho voglia di cambiarti, sarebbe un'impresa disperata.”

 

 


*** *** ***


Note varie

Furano esiste, si trova proprio nell'esatto centro dell'isola di Hokkaido e nome, in kanji ovvero ideogrammi, si scrive così: 富良野. In Captain Tsubasa però il nome “Furano” è scritto in hiragana ovvero nell'alfabeto sillabico semplificato ovvero così: ふらの. Questo, per un lettore giapponese, significa che “Furano” della finzione non è necessariamente “Furano” reale. Forte di questo particolare, mi permetto di descrivere la cittadina usando la fantasia.

Jizo è una “divinità buddista” (più propriamente un “bodhisattva”) protettrice dei defunti, dei bambini e dei viaggiatori. Le sue statue si trovano spesso per le strade del Giappone. Ignoro se si trovino anche in giro per Hokkaido ma io ce le ho messe lo stesso (e la scena in cui compare è una citazione di “Il mio vicino Totoro” con Raiju al posto di Totoro perché sono una fangirl e amo Hyuga!) XD

Segnalo anche che sia per le vicende di Matsu e Misaki sia per le descrizioni non faccio riferimento agli anime ma al manga, rigorosamente ambientato all'inizio degli anni ottanta.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Foglie ***


2. Foglie

 

Si era fatto tardi. O forse non era poi così tardi, ma ormai la cognizione del tempo era andata perduta. Le pareti dell'ospedale erano così ben insonorizzate da riuscire a nascondere il finimondo che continuava a venire giù dal cielo e nei corridoi regnava indisturbato un assonnato silenzio. Ogni tanto la macchinetta delle bevande calde si risvegliava emettendo un lungo ronzio, troppo debole per scuotere i taciturni occupanti della sala d'attesa: un giovane addormentatosi ascoltando musica, una donna anziana che sonnecchiava ricurva sul bastone e una signora più giovane che continuava a fissare imbambolata la stessa pagina di una rivista femminile. La accompagnava un bambino, probabilmente il figlio, che dormiva rannicchiato sulla poltroncina.

Dopo che, mezz'ora o forse addirittura un'ora prima, un infermiere era venuto a chiamare il signor Misaki, Hikaru era rimasto in attesa. A forza di attendere i novanta minuti trascorsi a recuperare palloni al centrocampo si erano fatti sentire tutti sia nelle fibre muscolari che in quelle nervose. Si lasciò tentare dalla macchinetta: forse un caffè lo avrebbe risollevato dallo stato di torpore che tanto lo appesantiva. Frugò nelle tasche dei pantaloni per assicurarsi di avere a disposizione qualche moneta da cento yen, ne inserì una e selezionò un caffè americano. Il liquido scuro aveva quasi terminato di scendere nel bicchiere, quando alle sue spalle una vocetta esclamò: “E' Matsuyama!”

Il bambino, svegliatosi e saltato giù dalla sedia, lo stava indicando con il dito. La donna seduta accanto aveva riposto la rivista e stava tentando di identificare l'origine dello straripante entusiasmo. “Calmati, non è bello indicare le persone in questo modo! Conosci quel ragazzo?” chiese.

“Sì, gioca nella Nazionale Olimpica!”

Il giovane che ascoltava musica aveva iniziato a scrutare Hikaru con curiosità, mentre la vecchietta stava sbattendo le palpebre per metterlo a fuoco. Hikaru si passò le mani dietro la nuca. “Non credevo di essere così famoso!” mormorò davanti al suo piccolo pubblico.

“Com'è andata la partita? Avete vinto? Chi ha segnato?” Incalzò il bimbo.

“Non essere così brusco!” Lo rimproverò la madre. “Mi scusi!”

“Ma no, si figuri. Tutti i giocatori di calcio sognano di essere popolari tra i bambini, oltre che tra le ragazze,”scherzò Hikaru. “Come ti chiami?”

“Hiroshi Suzumura.”

“Piacere, Hiroshi. Non abbiamo vinto, abbiamo pareggiato. Per la Nigeria hanno segnato Bobang e Ochado, per noi invece Wakashimazu e Misaki.”

“Oh.”

Evidentemente il pareggio non era di suo gradimento, però Hiroshi si riprese subito dalla parziale delusione ed esclamò: “Misaki è il migliore!”

“Lo penso anche io. Oggi è stato molto coraggioso, oltre che bravo.” Hikaru omise il fatto che un paio di volte aveva dovuto riprenderlo dai suoi pensieri e che nel finale era stato incosciente oltre ogni misura.

“Perché allora sei tu il capitano?”

“Hiroshi! Non è bello dire così! Scusi ancora!” si affrettò a dire la madre.

Hikaru scosse il capo come per dire che non aveva importanza, appoggiò il caffè sul tavolino e si sedette accanto il suo interlocutore. La domanda era interessante per tutti e due. E non era così facile da spiegare.

Hikaru faceva parte di una squadra eccezionale, con tante individualità che trovavano una collocazione precisa nello schema complessivo. Il baricentro della squadra cambiava ogni qualvolta si riunivano e finiva inevitabilmente per ricadere su di lui che, sempre più incredulo per il ripetersi della coincidenza, non poteva altro che mettersi al braccio la fascia e combattere al massimo delle sue possibilità per onorarla. Sapeva che tra i tifosi c'era chi pensava che sarebbe dovuta spettare a giocatori più talentuosi, ma non poteva farci nulla perché essere capitano non era un suo capriccio. Trasse un respiro. “Non dipende da me o da Misaki, ma dalla squadra. Hai mai giocato in una squadra di undici giocatori?”

“Sì, certo! A scuola gioco da ala destra!” Disse Hiroshi con orgoglio.

“Allora saprai che non si sceglie di essere il capitano da soli. Lo sceglie la squadra oppure il mister che la rappresenta.”

Hiroshi lo guardò storto, era evidente che la spiegazione non lo aveva convinto del tutto. Allora Hikaru cercò di essere il più serio possibile quando disse a voce bassa: “Guarda che non si può dire di no a mister Kira. Anche se lo vedi in giacca e cravatta, una volta insegnava il calcio con la spada di bambù...”

Questa seconda risposta parve essere più convincente perché il bimbo, dopo averci  riflettuto un attimo, chiese: “Mi fai un autografo?”

“Certo!” Hikaru si fece dire gli ideogrammi che componevano il nome “Hiroshi”, poi afferrò il pennarello nero e il quaderno che la signora gli porse. Scrisse prima il nome del bimbo e poi il suo, che in confronto era di una semplicità sconcertante. Sei tratti che significavano “luce” accompagnati da un cognome comune.

“Lei ha una bella scrittura,” affermò la madre che lo aveva osservato. “Non è una cosa che ci si aspetta da un calciatore,” aggiunse.

“Grazie,”disse Hikaru in tono pacato.

“Posso vedere anche io la firma?” Si intromise la vecchietta che, finalmente, pareva aver individuato qualcosa in cui si sentiva competente. Quando le presentarono il foglio della dedica estrasse gli occhiali dalla borsetta, li inforcò in un movimento sicuro e, dopo aver contemplato i segni scritti  a pennarello affermò: “Proprio una bella scrittura, ragazzo. Hai studiato calligrafia?”

“Veramente mai. E' una cosa che mi viene spontanea, anche a scuola me la sono sempre cavata con gli ideogrammi.”

“Peccato, un artista mancato” sospirò l'anziana. “Questi giovani, tutti dietro al calcio, che cosa resterà del Giappone tra una decina d'anni? E pensare che porti il nome del principe Genji!”

Hikaru si passò nervosamente le mani nei capelli. Avrebbe voluto controbattere che anche lo spirito dei giocatori di calcio poteva rappresentare una nazione e il suo modo di essere, però non era certo che il discorso sarebbe stato compreso. Per fortuna l'ultimo ospite della sala d'attesa accorse in suo aiuto. Si era tolto le cuffie, si era alzato in piedi e gli stava presentando sorridente la pagina vuota di un quaderno. “Non è che firmeresti un autografo anche a me?”

 

A Hokkaido l'autunno arriva presto. A Furano che è proprio al centro arriva ancora prima. Sono i primi di ottobre e ci sono già le foglie gialle (e anche le foglie rosse).

Papà ha iniziato a dipingere un nuovo quadro. Io sono contento perché vuol dire che resteremo qui ancora per un po'.

Ieri pomeriggio volevo tenergli compagnia, però lui mi ha detto di andare a giocare a calcio con gli amici. I miei amici sono la squadra di calcio della scuola elementare. Io sono il numero dodici perché sono arrivato per ultimo e loro erano già in undici, però mi fanno giocare sempre (segno molti gol e so anche fare gli assist). Sulla strada per la scuola ho incontrato Oda. Anche lui è un attaccante. Volevamo fare a gara a chi riusciva a fare più palleggi di testa ma c'era un vento freddo che ogni tanto si prendeva il pallone e così nessuno ha vinto. Però era una bella giornata e c'era anche il sole.

Purtroppo quando siamo arrivati sul campetto della scuola non si poteva iniziare l'allenamento perché i ragazzi della sesta lo avevano occupato (loro giocano a baseball). Matsuyama ha detto loro che era il nostro turno e che alle cinque ci siamo sempre stati noi, però il loro capitano che si chiama Machida ha risposto che del calcio non gliene importa un fico secco a nessuno. Poi gli altri hanno detto che noi non valiamo niente perché non abbiamo mai vinto un torneo e invece loro sono arrivati quarti al torneo regionale.

Mi sono fatto avanti e ho detto: “Non è vero! Sono stato in molti posti in Giappone e posso dire che loro sono davvero bravi.”

Mi hanno chiesto: “Tu chi sei?”

Ho risposto:“Sono Taro Misaki.”

Machida mi ha dato una spinta ma io sono rimasto in piedi e ho detto: “Lasciaci giocare.” Allora lui mi ha preso per un braccio ma Matsuyama si è messo in mezzo. Ha detto: “E' con me che te la devi vedere!” E poi: “Che nessuno di voi si intrometta!”

Machida gli ha tirato un pugno. Matsuyama gliel'ha restituito. Poi gli altri ragazzi lo hanno circondato, ma lui è passato sotto le loro gambe e non si è fatto prendere.

Ho gridato:“Fermati!” Ma non mi ha ascoltato. Anzi, ha detto: “Siete in nove contro uno, chi è che non vale niente?”

Io ero pronto a tirare una pallonata per fermarli. Non mi piace colpire gli altri, ma potevano farsi male sul serio. Oda mi ha bisbigliato all'orecchio: “Stai fermo. Matsuda è andato a chiamare il maestro. Arrivano subito, fai come ha detto il capitano.”

Matsuyama è riuscito a schivare i ragazzi più grandi e anche a colpirli, ma ad un certo punto lo hanno buttato a terra e sono riusciti a bloccarlo. Stavo per andare ad aiutarlo insieme al pallone, quando il maestro è arrivato. Ha sgridato tutti i ragazzi della squadra di baseball e ha sequestrato i guantoni e le mazze. Poi ha sgridato anche Matsuyama, che per punizione ha passato tutta la giornata di oggi in piedi, con due secchi pieni d'acqua in mano.

Appena finita la lezione sono andato da lui. Aveva una faccia molto seria.

Ho detto: “Non dovevi dargli addosso in quel modo.”

Matsuyama ha risposto: “Non l'ho fatto perché mi piace fare a pugni. Io voglio solo giocare a calcio.” Poi è rimasto zitto.

Io allora gli ho cambiato qualche cerotto perché quelli che aveva si erano staccati (avevo preso apposta una scatola in infermeria). Aveva graffi sulle gambe e sul viso perché era finito per terra tre volte. Ho detto: “Questa settimana il campo è tutto nostro. Però il maestro non sa se ti lascerà andare alla partita di sabato.”

Matsuyama ha stretto di più il manici dei secchi e ha risposto: “Immaginavo. Fai tu il capitano allora. Provate i passaggi. E' importante, tra un po' non potremo più allenarci.”

“E' per via della neve?”

“Sì. Arriva quando iniziano a cadere le foglie.”

Allora ho controllato fuori dalla finestra. Nel cortile qualche foglia era già caduta. Poi ho guardato Matsuyama e ho detto: “Va bene.”

Mi ha chiesto di tornare vicino a lui. Poi senza lasciare i secchi ha appoggiato la fronte sulla mia. Ha chiuso gli occhi e ha detto: “Grazie Misaki.”

Il suo respiro mi ha toccato le guance e anche i suoi capelli mi facevano il solletico. Allora ho riso e quando ho staccato la fronte ho visto che rideva anche lui. Nessuno mi ha mai detto grazie così.


Misaki uscì dall'ambulatorio accompagnato dal medico della squadra e dal padre. Gli avevano applicato alcuni punti di sutura e la ferita era coperta da un vistoso cerotto protetto da una garza che gli cingeva la testa. Il trauma che aveva subito non aveva avuto conseguenze gravi, tuttavia necessitava di un periodo di osservazione di almeno quarantott’ore.

Il problema che si presentava era dove trascorrerle. Misaki non poteva rientrare ad Iwata: per lui che doveva mantenere il riposo assoluto un viaggio di duecentocinquanta chilometri era fuori discussione. Si sarebbe potuto sfruttare un appartamento che il padre aveva in affitto a Nakano, però il signor Misaki non  avrebbe potuto seguire il figlio perché era in partenza per Naoshima, sul Mare Interno, dove avrebbe presenziato all'inaugurazione di una mostra d'arte. L'unica alternativa che restava era il ricovero in ospedale. Misaki non replicò, ma per Hikaru era chiaro come il sole che in quel momento sarebbe stata la soluzione sbagliata. Disse: “Se vuoi andare a casa di tuo padre, io resterò con te! Se ti va bene ovviamente...”

Dapprima Misaki lo guardò con la solita aria stranita, poi un po' per volta la sua espressione si addolcì. Le sopracciglia sottili si rilassarono, gli occhi castani si liberarono del velo opaco che li avvolgeva come nebbia e tutto culminò in un sereno, familiare sorriso. “Grazie, Matsuyama. Scusa per il disturbo.”

Arrivarono a Nakano che era notte fonda. Aveva appena smesso di piovere e il silenzio notturno era intervallato solo da gocce che riecheggiavano all'interno delle grondaie. Il rumore della chiave che girava nella serratura suonò quasi inopportuno. La porta dell'appartamento si aprì su una sala piuttosto spaziosa che fungeva anche da studio: al centro si vedevano un cavalletto e gli attrezzi del mestiere di pittore, mentre su una parete poggiava una libreria ben fornita di volumi d'arte. Nonostante l'affollamento di oggetti tutto era estremamente pulito e ordinato e una serie di quadri appesi, tutti ritraenti montagne, contribuivano a rendere l'idea di uno spazio ampio e limpido. La stanza da letto, in stile giapponese, era stata ricavata in un vano separato dal resto dell'appartamento da una porta scorrevole.

Hikaru chiese: “Come va con la testa?”

“Me lo hai già chiesto tre volte in un'ora. Sto bene, fidati di quello che dico,” rispose Misaki.

“Non è che non mi fido di quello che dici. E' solo che questo stare bene potrebbe essere una tua sensazione e non la realtà. Non offenderti, ma anche il medico ha detto che la fase di osservazione è importante,” replicò Hikaru. Aveva preso molto sul serio il suo incarico e durante il tragitto in taxi aveva riletto attentamente il protocollo che avrebbe dovuto seguire per controllare l'amico.

Misaki gli sorrise ed esclamò:“Non cambi mai!”

“Neanche tu, se è per questo.”

“Dicono che non cambiare mai non sia una buona cosa.”

“Ho fatto il centravanti, il difensore centrale, il mediano difensivo e pure l'esterno sinistro. Direi che è abbastanza,” scherzò Hikaru.

“Io ho fatto solo l'ombra di Tsubasa. Non è abbastanza,” sentenziò Misaki serio.

Hikaru, preso alla sprovvista, impiegò qualche momento per ribattere. Misaki era sempre stato riservato sull'argomento 'Tsubasa': gettarlo nella conversazione in maniera così diretta pareva terribilmente stridente. Hikaru appoggiò la borsa vicino al piccolo divano che aveva individuato come suo giaciglio e disse: “Pensa che io da piccolo avevo la sensazione di essere l'ombra tua.”

“Non esiste l'ombra di un'ombra, mettiti il cuore in pace.”

“Allora, se non ero un'ombra, che cos'ero?”

La calma dello sguardo di Misaki parve incrinarsi per un attimo, forse per semplice curiosità. “Luce,”disse. Poi voltò le spalle e aprì la porta della la stanza da letto.

Hikaru lo seguì. “Mi prendi in giro?”

“Forse,” rispose Misaki mentre iniziava a srotolare il futon.

“Aspetta, ti aiuto!”

“Non è necessario.” Il tono era fermo e Hikaru decise di lasciar perdere: aveva la sensazione che Misaki più che preparare un futon stesse erigendo una barriera. Intromettersi non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione.

Hikaru puntò la sveglia sul suo orologio da polso, sistemò una coperta sul divano e vi si accasciò. “Guarda che tra due ore ti sveglio per controllarti, ma se ti senti male avvisami subito!”Avvertì. “Buonanotte”.

“Lo so che non ti posso sfuggire, sei Matsuyama!” Rispose la bella voce di Misaki. “Buonanotte.”

La porta scorrevole fece per chiudersi, ma dopo un attimo di esitazione venne lasciata aperta. Hikaru si sentì come liberato da un peso e, stanco per l'intensa giornata, si addormentò profondamente pur trovandosi in un luogo estraneo. Forse erano i paesaggi di montagna a farlo sentire a casa.

 

 

*** *** ***

 

Note varie

Ignoro quale sia il protocollo di gestione di un trauma cranico in un pronto soccorso giapponese, ma il solo pensiero di documentarmi faceva venire il mal di testa A ME. Perciò accontentatevi finché non mi verrà in mente di scaricare uno di quei dorama televisivi in stile E.R. ;)

Il “principe Genji” citato dalla vecchietta altri non è che “Genji il principe splendente” aka “Hikaru Genji”, classico della letteratura giapponese.

Che Matsu sia appunto bravo in giapponese non credo di essermelo inventato. Devo averlo letto in una delle vecchie “enciclopedie” della serie dove venivano indicate le materie scolastiche preferite dei personaggi, ma è passato tanto di quel tempo che effettivamente potrei essermelo sognato. Che nella fattispecie sia bravo a disegnare ideogrammi, è certamente frutto della mia fantasia. L'ho fatto per rimarcare che Matsu e Misaki non sono poi tanto diversi. Sono entrambi due ragazzi gentili e a pensarci un attimo anche il loro calcio, basato sulla visione complessiva della squadra, si assomiglia. Ciò che li ha resi differenti sono le esperienze della vita. Forza Matsuyama, forza Misaki, sono sicura che il destino vi vuole di nuovo insieme!

Kourin

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Neve ***


3. Neve

 


Io e il papà abitiamo nella pensione Yukimura. Il nostro appartamento è al terzo piano. A Furano ci sono pochi lampioni e intorno di sera è sempre tutto buio, però in inverno c'è la neve e allora intorno è tutto bianco. Mi piace guardare fuori dalla finestra, la valle è come nei libri di illustrazioni che avevo quando ero piccolo. Ieri sera nevicava proprio forte: c'era una bufera.

Purtroppo mi sono ammalato e ho una brutta bronchite. Il dottore ha detto che non devo uscire. Allora leggo dei manga e faccio dei disegni, però mi annoio presto. In realtà c'è un amico che è sempre con me: è il pallone. Anche lui vorrebbe giocare nella neve ma sa che non possiamo. E' faticoso, ma ci divertiamo lo stesso.

A Furano ho davvero tanti amici. Venerdì scorso dopo l'allenamento siamo andati tutti quanti a mangiare i ramen dai genitori di Wakamatsu. Erano bollenti ma abbiamo divorato due porzioni a testa. Ieri invece il papà mi ha preparato il riso bianco e la zuppa di miso. Io ero nel futon perché faceva freddo. Di sera la stufa accesa al massimo non basta (ci sono gli spifferi) e bisogna coprirsi bene.

Ad un certo punto ho sentito il vetro della finestra che sbatteva. Una palla di neve è rimasta attaccata per un attimo e poi è scivolata via. Mi sono alzato anche se mi girava un po' la testa e ho appoggiato le mani sulla finestra (che era gelida) e ho guardato giù. C'era la mia squadra. Hanno giubbotti di colori diversi e li ho riconosciuti tutti. Davanti c'era Matsuyama che muoveva le braccia più che poteva per salutarmi.

Hanno urlato fortissimo tutti in coro perché la bufera voleva portarsi via anche le voci: “Forza Misaki! Forza Misaki!” Io li ho salutati, poi è arrivato il papà. Mi ha chiesto: “Che c'è, Taro?”

Gli ho risposto: “Sono venuti i miei amici,” però quando il papà ha guardato fuori loro erano già andati via. C'erano ancora le impronte ma la neve le stava coprendo.

Ho detto: “La neve cancella tutto subito!”

Dev'essere proprio la neve che li fa diventare così. Quei bambini non si danno mai per vinti.”

Io come diventerò?”

Un po' così anche tu. Mi sembra di capire che tu abbia fatto amicizia con la neve, oltre che con loro.”

Il papà mi ha appoggiato la mano sulla fronte e ha detto: “Scotti ancora, rimettiti a letto. Tra un po' ti porto la cena.”

Ho ubbidito e ho spento la luce per vedere meglio la neve. I fiocchi erano grossi ma leggeri, ogni tanto si fermavano davanti a me. Forse anche loro volevano invitarmi a giocare.

 

“Ehi, sveglia.”

Una mano gli aveva afferrato saldamente il braccio e lo stava scuotendo con gentilezza. Taro impiegò un po' per realizzare che si trovava a Nakano e che la persona che gli era accanto era proprio Hikaru Matsuyama. Doveva essere ancora notte perché, oltre all'alone di una piccola lampada accesa, non vi era alcuna traccia di luce.

“Rispondimi,” ordinò il suo amico d'infanzia. “Come ti chiami?”

La sola operazione di mettere in funzione le corde vocali risvegliò il dolore alla testa. “Sono Taro Misaki,” rispose a fatica, la bocca ancora impastata. Si era proprio addormentato pesantemente.

“E io chi sono?”

“Sei Hikaru Matsuyama. Sei più giovane di me di un mese, sei di Furano e ti piace lo shio-ramen.”

“Direi che sei pienamente cosciente,” sentenziò Matsuyama con un tono di voce che si faceva più gentile. “Scusami se ti ho svegliato così bruscamente. Ti lascio in pace, buonanotte.”

“Buonanotte” rispose Taro, ma nonostante la profonda stanchezza non riuscì più a riaddormentarsi. Si rigirò di continuo nel futon senza individuare una posizione in cui non gli facesse male il capo e, ad un certo punto, decise di alzarsi.

Passò davanti a Matsuyama, che invece dormiva profondamente rannicchiato sul divano. Taro si scostò in modo che la luce che filtrava attraverso la porta scorrevole potesse illuminare meglio la sua figura, poi si accucciò per osservare da vicino la sua espressione serena: era diventata talmente insolita che Taro sentiva il bisogno di soffermarvisi.

Matsuyama aveva lineamenti regolari che nell'insieme disegnavano un bel viso. Gli occhi, di taglio allungato, avevano iridi scurissime che ormai poco lasciavano trapelare dei sentimenti: non aveva sbagliato del tutto chi l'aveva paragonato ad un'aquila. Ma ora che quegli occhi erano chiusi, coperti da palpebre che terminavano con lunghe ciglia, Taro poteva ancora trovare in quel volto frammenti d'infanzia in cui specchiarsi.

Erano passati dodici anni da quando lui e suo padre, alla fine di un viaggio interminabile, erano giunti nel cuore incontaminato di Hokkaido. Era lì che Taro aveva stretto amicizia con quella creatura forte e libera che sembrava quasi Son Goku nato dalla roccia. Non era arrogante come il Goku della leggenda, ma quando guardava le stelle non rinunciava mai a trattarle come sue pari. Taro ne era subito stato attratto: aveva amato stare in sua compagnia finché il sole non tramontava, gli era venuto il batticuore quando aveva potuto condividere con lui attimi di notte.

Lasciarlo gli era stato particolarmente penoso, come se avesse dovuto abbandonare a Furano non tanto il cuore, ma la stessa libertà. Taro aveva viaggiato ancora, si era fatto altri amici, ma sempre con la sensazione che gli mancasse qualcosa, finché aveva incontrato Tsubasa. Tsubasa, che gli aveva fatto provare i brividi di volare sul tetto del mondo. Tsubasa, dal punto di vista umano il suo migliore amico. Tsubasa, dal punto di vista calcistico la sua rovina.

Dopo l'infortunio alla gamba Taro stava vivendo una realtà dura, intessuta di insinuazioni che avevano come argomento la sua dipendenza da lui.

In televisione si diceva: Taro Misaki nella J-League sarà anche bravo, ma a livello internazionale non vale così tanto. Non può sostituire Tsubasa Oozora alla guida della nazionale. O ancora: Taro Misaki non ha il carattere per condurre da solo una squadra alla vittoria.

Aveva imparato che nella vita le insinuazioni andavano smentite con i fatti, ma come poteva smentirle se dopo l'infortunio la strada del calcio internazionale gli era stata preclusa?

Matsuyama si mosse impercettibilmente. Forse Taro stava disturbando i suoi sogni. Sapeva che anche il suo amico d'infanzia desiderava fortemente fare esperienza in Europa, ma l'occasione non si era ancora presentata: chissà se ne stava soffrendo. In quel momento Taro aveva una gran voglia di prenderlo per mano per affrontare insieme il salto verso il cielo. Peccato che la prova generale della sera prima gli avesse procurato solo una tremenda botta in testa e che Matsuyama, anziché essere aiutato, era divenuto il suo soccorritore. A pensarci bene era una fissazione che aveva avuto fin da piccolo, quella di volerlo proteggere. Era dura ammettere che, a distanza di tanti anni, le vicende stessero dando ragione a quell'atteggiamento cocciuto. Ma poteva forse criticare un amico per il fatto di volergli ancora bene?

“Ce la faremo, vedrai,” sussurrò appena prima di tornare a coricarsi. Appoggiò con cautela la testa sul cuscino e spense la luce.

Niente da fare, nella sua mente continuavano ad agitarsi mille pensieri. Si rendeva conto che quel giorno aveva alternato momenti di lucidità a momenti di smarrimento che non erano certo indice di maturità, specie considerato il ruolo che ricopriva in squadra.

Ochado lo aveva provocato e, nonostante la freddezza con cui aveva cercato di reagire, tutta la sua prestazione ne era stata influenzata. Da quando in qua provava tanta invidia? Invidia per Ochado, invidia per Tsubasa, invidia per Kojiro. Ma poi era davvero invidia o era solo frustrazione mascherata? A causa dell'incidente alla gamba era rimasto indietro rispetto a loro e non sapeva darsi pace. Aprì gli occhi come se anche i pensieri fossero un incubo da cui risvegliarsi, ma non servì a niente.

Cercò un appiglio per rasserenarsi, e così finì per concentrarsi di nuovo su Matsuyama. Il suo capitano quando aveva nove anni. Il suo capitano ora che di anni ne aveva venti. Chissà come sarebbero andate le cose se fosse rimasto a vivere nel remoto centro di Hokkaido. Certamente sarebbe arrivato al torneo di Yomiuri Land insieme con i ragazzi di Furano, ma poi? Ce l'avrebbero fatta a sconfiggere Tsubasa e Kojiro? A pensarci, comunque fossero andate le cose, Taro ci avrebbe guadagnato: Tsubasa sarebbe divenuto da subito il suo rivale e conseguentemente Taro non sarebbe mai divenuto la sua ombra.

E poi al diavolo l'esperienza in Francia. A che cosa era servita? Il colpo tremendo dell'incidente l'aveva vanificata. Continuando a giocare in coppia con Matsuyama, la sua vita si sarebbe trovata nello stesso identico punto, ma con un pizzico di soddisfazione in più. Il fatto di averlo di nuovo a fianco a centrocampo nella nazionale olimpica poteva essere un evento scritto nel destino da sempre. Taro per arrivare fin lì aveva seguito una strada tortuosa, Matsuyama aveva percorso una linea retta. Taro era insoddisfatto e pieno di dubbi, lui era realizzato e determinato a proseguire. In definitiva Taro era fragile, lui era forte.

Ecco, aveva cambiato l'oggetto dei suoi pensieri ma aveva finito comunque per provare invidia nei confronti degli altri. Sospirò. Stava diventando davvero una persona meschina.

Quando tornò per controllarlo, Matsuyama lo trovò seduto a fissare il vuoto.

“Non dormi più?” chiese.

“Non ci riesco.”

“Allora possiamo alzarci entrambi, sono quasi le sette. Come ti senti?”

“Non so che dire,” rispose Taro in tutta onestà. “Se non appoggio la testa sul cuscino, il male è sopportabile. Però mi sento ancora nervoso.”

Matsuyama allora gli accarezzò con gentilezza la tempia che non era ricoperta dalla fasciatura. Taro lo lasciò fare. Le sue mani erano calde, i suoi occhi fermi e concentrati, come se il fatto di accarezzargli i capelli fosse un gesto importante. Una volta che le ciocche furono ricadute al loro posto fece per alzarsi. “Vado a prendere qualcosa per la colazione,”disse. Taro gli toccò il braccio. “Resta qui ancora un po', se vuoi.” Le sopracciglia di Matsuyama si inarcarono con aria interrogativa, ma poi si sedette a gambe incrociate sul tatami e rimase in silenzio a tenergli compagnia.

Un raggio di luce iniziò ad illuminare il quadro che stava di fronte a loro. Era uno dei tanti paesaggi che suo padre aveva amato dipingere. Si distingueva dagli altri per i colori chiari e ritraeva una valle innevata rischiarata dalla luce dell'alba.

“Sono le Alpi Giapponesi,” spiegò Taro.

“E' molto bello, ti assomiglia.”

“Davvero?” chiese Taro, stupito dall'affermazione.

“Il colore di quel cielo è così particolare...” Matsuyama si bloccò. “Scusami, sto dicendo delle stupidaggini!”

“No, affatto,” lo rassicurò Taro ma l'altro si era avvicinato come per accertarsi di non essere preso in giro.

Stavolta fu Taro a toccare i suoi capelli, sfiorandogli lo zigomo con il pollice come in un tentativo di carezza. Poteva davvero permettersi tanto? Matsuyama arrossì, Taro lo baciò sulle labbra. Era un bacio timido, al quale Matsuyama rispose con intensità maggiore. Che si trovassero a Hokkaido o a Parigi, nel passato o nel futuro, finché i loro occhi erano chiusi sarebbe stato sempre e ovunque come in un sogno. Ma gli occhi neri di Matsuyama si spalancarono, all'improvviso.

Spinse via Taro, quasi con violenza ed esclamò: “Non dovresti! Hai la fasciatura, e poi sei in osservazione!”

“Sto bene,” replicò Taro un po' risentito: per la sua incolumità quella spinta era stata molto più pericolosa di un'effusione.

“Sei sotto la mia responsabilità”, affermò Matsuyama afferrandogli saldamente le spalle. Taro spinse via le braccia che lo stavano stringendo. Sapeva che Matsuyama non sarebbe arretrato di un solo millimetro. Non c'era alcuna sfumatura nelle sue iridi scurissime. Come in partita, non restava che attaccare. Oppure soccombere.

“Sono consapevole delle mie scelte. Avanti, fammi qualche domanda per sapere se sono capace di intendere e di volere,” disse con freddezza. “Oppure pensi che la botta in testa mi abbia fatto impazzire?”

“Non intendevo questo.”

“Chiudi gli occhi.” Matsuyama lo guardò allibito. “Chiudi quegli occhi e non fare nulla,” ordinò per la seconda volta Taro. “Per favore,” aggiunse.

Matsuyama non fu in grado di dirgli di no. Permise che Taro lo spingesse sulle lenzuola, gli baciasse il collo, gli toccasse l'addome e il torace sollevandogli la maglietta. Quando erano bambini Matsuyama era più alto di lui; crescendo Taro lo aveva quasi raggiunto ma il fisico dell'amico era rimasto più robusto, plasmato da anni di allenamenti in mezzo ad una natura splendida ma inclemente. Era giusto arrogarsi di pensare che il destino lo avesse riservato a lui? Se solo non ci fosse stato Tsubasa! La mano di Matsuyama gli toccò la spalla, lui la afferrò e la bloccò sul futon intrecciando le dita alle sue.

Tsubasa, Tsubasa... Quel nome iniziò a ripetersi con insistenza nella mente. Fu allora che Taro cercò di nuovo le labbra del suo primo capitano, forse ricominciando daccapo...

“Ora basta, smettila!” L'urlo di Matsuyama squarciò ogni pensiero, strappando via indistintamente brandelli di affetto e di desiderio. Quando Taro si riprese, poté vederlo in piedi, furente, i pugni stretti fino a tremare.

“E' per il tuo bene. E per il mio,” aggiunse in un tono più calmo. Negli occhi visibilmente appannati dal piacere si combattevano rabbia e sofferenza.

Taro rimase in terra annichilito, incapace di proferire parola. Possibile che avesse inflitto una ferita a Matsuyama, il ragazzo che tanto si stava prodigando per lui?

Taro restò imbambolato anche quando lui si diresse verso il bagno, quasi barcollante. Poi trovò la forza di raccogliere la testa tra le mani. Quanto gli faceva male! Ma quel dolore era decisamente meritato, non aveva il diritto di lamentarsi.

Iniziò a sentire freddo. Si infilò nuovamente nel futon, ignorando i rumori del quartiere che si stava risvegliando. Si rese conto che sua mente si era svuotata all'improvviso da pensieri e ricordi e che il presente era costituito solo da uno spoglio soffitto attraversato da flebili ombre. Sarebbe bastato scostare la tenda per infliggere loro il colpo di grazia.

 


Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Petali ***


4. Petali

 

 

Misaki, perché te ne sei andato via così? Sapevo che dovevi partire, ma potevamo almeno salutarci. Ho corso dietro all'autobus più veloce che potevo ma non ti ho raggiunto. Urlando il tuo nome ho anche inghiottito qualche petalo che volava in aria. In questi giorni è tutto pieno di fiori, so che ti piacciono. Perché il tuo papà non torna indietro a dipingerli?

Di te non ho niente. Non so dove trovarti, non posso neanche scriverti una lettera. Anche gli altri bambini sono tristi. Abbiamo fatto il picnic sotto i ciliegi ma eravamo tutti mogi. Per fortuna tutti qui si ricordano bene di te. Sennò potevo pensare che eri un tanuki o una volpe che mi ha giocato un brutto scherzo, perché i tanuki e le volpi fanno sempre vedere cose belle per imbrogliare la gente e giocare con te è stata una cosa bellissima. Il maestro mi ha spiegato che certe volte le persone vanno via senza salutare perché dire 'addio' fa male. Gli ho risposto che secondo me non è giusto, fa molto male anche non salutarsi! A proposito, sai che ho pianto? Per fortuna Machida e gli altri non mi hanno visto. Non riuscivo proprio a smettere, è per questo che dopo la scuola sono corso via fino nel parco vicino al tempio. Non c'era nessuno perché stava per piovere e c'era un vento freddo e forte. Ha strappato via tutti i petali dei ciliegi, non è rimasto quasi niente. Però è sicuro che l'anno prossimo fioriranno di nuovo.

Misaki, io ti ho promesso delle cose davanti a quegli alberi. Sono stato in piedi con la schiena ben dritta perché era una cosa importante. Non sapevo dove guardare per parlarti, allora ho guardato il cielo e ho detto: “Diventerò forte come te e arriverò al campionato nazionale!”

Poi sono rimasto fermo anche se faceva freddo e non avevo la giacca. Ho stretto i pugni e i denti finché non ho smesso di piangere. Ho messo nei polmoni tutta l'aria che potevo e ho urlato: “A presto, Taro Misaki!”

 

Hikaru stava tentando disperatamente di ragionare. Una doccia fredda gli stava calmando il fisico, ma non era sufficiente a frenare il furioso accavallarsi di pensieri nella mente.

Misaki, Misaki... Che cosa provava per Misaki? Davvero era attratto da lui... fisicamente? Poco prima il suo corpo non si era opposto al contatto, anzi. Quant'era stato gradevole sentire il tocco di quelle le labbra sottili sul viso, la carezza di quei capelli fini sulle guance e il peso di quel corpo aggraziato sul suo. Inebriato dal connubio di forza e dolcezza, si era sentito di poter concedere a Misaki qualunque cosa lui avesse desiderato. Eppure, qualcosa gli era parso terribilmente sbagliato.

Hikaru chiuse il rubinetto, si sfregò gli occhi come per togliersi quelle allucinazioni dalla vista e afferrò l'asciugamano. Si sorprese a fissarlo (era bianco, che cosa si aspettava?), poi se lo premette contro il viso e restò in apnea per alcuni secondi.

Era un dato di fatto che aveva adorato quel ragazzo all'inverosimile. A pensarci, se era diventato quel che era, era stato perché aveva voluto eguagliare la bravura di Taro Misaki. Ma era trascorso un decennio, ognuno aveva imboccato la propria strada... Perché allora quell'attrazione era tornata all'improvviso così forte, in quella forma così assurda?

Si tolse l'asciugamano dal viso, lasciando che l'aria umida entrasse nei polmoni. Hikaru amava Yoshiko, erano insieme da cinque anni e non c'era giorno in cui lui non la pensasse. Si sentiva un infame al pensiero di aver appena baciato un'altra persona... Forse era questa la ragione che lo aveva fatto sentire così male.

Ma quale era la vita sentimentale di Misaki? Non ne sapeva nulla, aveva sentito Ishizaki accennare di una ragazza conosciuta in Francia, ma Hikaru non l'aveva mai vista e ignorava che tipo di relazione intercorresse tra loro. Si asciugò vigorosamente i capelli, domandandosi se fosse possibile chiedere consiglio a qualcuno. La risposta era negativa: se avesse raccontato in giro il problema l'avrebbero di certo scambiato per matto. Doveva risolvere la faccenda da solo. Guardò lo specchio, cercando nei suoi stessi occhi smarriti la determinazione necessaria. L'aveva sempre trovata, bastava cercare con cura. Appoggiò una mano alla parete, avvicinandosi ulteriormente alla sua immagine. Quando era ragazzino, sua nonna gli aveva insegnato un trucco per ragionare bene: bisognava affrontare una questione per volta, assegnando a ciascuna la giusta priorità.

Hikaru ripensò al giorno precedente. In partita Misaki gli era sembrato strano. Poi aveva battuto la testa segnando il gol. Il mattino successivo c'era stato il bacio.

La priorità numero uno era certamente il trauma cranico: Hikaru aveva la responsabilità di accertarsi che l'amico stesse bene. La priorità numero due era chiarire il comportamento strano in partita, l'inizio di tutta quella situazione. Al fatto che Misaki lo avesse baciato e che ci fosse mancato poco che finissero a letto insieme, Hikaru assegnò la priorità numero tre, l'ultima in ordine di importanza. Che stupido, in quell'accozzaglia di pensieri aveva finito per trascurare il motivo che lo aveva spinto a rimanere nella capitale: il bene di Taro Misaki.

“Avanti, Hikaru Matsuyama,” disse sottovoce, ma la lieve nuvoletta di vapore uscita dalle sue labbra appannò ulteriormente lo specchio, impedendogli di vedere quella che voleva essere un'espressione molto risoluta.


“Ho preso un po' di sandwich per colazione. Non sapevo che cosa mangi di solito e non volevo disturbarti. Spero che vadano bene, sono con insalata e prosciutto. Vedi di mangiare, per favore.” Disse queste parole tutte in un fiato mentre Misaki si stava sedendo davanti alla tavola che Hikaru aveva apparecchiato. L'amico si limitò a guardarlo da dietro una coltre di tristezza: forse non l'aveva nemmeno ascoltato. “Scusa per prima,” si limitò a mormorare.

Hikaru scosse il capo, facendo cenno che non aveva importanza. Quando il bollitore ebbe annunciato che l'acqua era pronta, Hikaru preparò due tazze di caffè e porse i sandwitch a Misaki che, abbastanza svogliatamente, iniziò a mangiare.

Anche Hikaru ne addentò uno. Non erano male ma non c'era decisamente l'atmosfera giusta per apprezzare il gusto del cibo. Per fortuna la qualità dell'atmosfera non rientrava nell'ordine di priorità che si era prefissato.

“Dovresti prendere anche l'antibiotico,” disse. “Sono due volte al giorno, mattina e sera.”

Misaki ubbidì, ingoiando la capsula con un bicchiere di succo di mela. Sembrava che quel succo di mela piacesse a Misaki. Bene, Hikaru l'avrebbe comprato anche il giorno seguente. Dopo questa constatazione, passò al punto numero due e annunciò senza eccessivi preamboli: “Ho bisogno di capire una cosa.”

Misaki annuì di nuovo, sempre con aria assente. Hikaru si ricordò che anche la mancanza di reattività agli stimoli era un aspetto da tenere sotto controllo. Non doveva prenderlo alla leggera.

Fece un bel respiro, poi disse: “Ieri mi sei sembrato un'altra persona. Quello che si è rialzato ieri dopo il gol del pareggio era Taro Misaki?”

Misaki sbatté le palpebre un paio di volte, risvegliandosi parzialmente dallo stato di apparente apatia in cui versava . Iniziò a giocherellare con il cucchiaino del caffè, poi annunciò: “Proverò a risponderti.” Le labbra erano piegate in un sorriso nervoso.

“Credo che tutto sia iniziato dall'incidente alla gamba. Giocando in nazionale con Tsubasa vivevo nella convinzione di essere invincibile. Pensavo che tutto mi sarebbe stato possibile: avevo diciotto anni e ragionavo ancora come un bambino,”sospirò Misaki. “Invece sono fatto di carne ed ossa, che si possono rompere,” proseguì accarezzandosi la gamba, fissandola con gentilezza. Poi alzò lo sguardo verso il soffitto. “Lo sai che il Paris Saint Germain mi aveva preparato un'offerta?”

“Non lo sapevo.”

“Ho avuto l'incidente e Ochado è stato ingaggiato al posto mio. Capisci? Perdere la sfida con lui sarebbe stata la conferma di quanto io sia rimasto indietro.”

“Ma hai ancora tempo per farti notare, non sei soddisfatto dei risultati in J-League?”

Misaki abbassò gli occhi e scosse lentamente il capo.“C'è un'altra cosa che devi sapere.”

“A causa di questa gamba, non so per quanto tempo potrò continuare a giocare a calcio. Qualsiasi club straniero ci penserà molto bene prima di ingaggiare uno come me, darei un sacco di problemi. In definitiva, sono potenzialmente inaffidabile.”

Le mani di Misaki erano strette sulle ginocchia. Le nocche sporgenti tradivano una violenta tensione che il volto mascherava con una quieta amarezza. Era sempre stato un ragazzo sincero, ma doveva essergli costato pronunciare quelle parole. “Io vorrei solo avere un orizzonte per il mio calcio, provare che è giusto. Ribattere con i fatti a chi mi critica.”

“Ma tutti continuano a chiederti di diventare Tsubasa,” aggiunse Hikaru. “Ho sentito quello che ti ha detto Ochado, ero lì.”

“Ho quasi perso il controllo,”confermò Misaki.

Hikaru si mise le mani nei capelli, come per tentare di spremersi le meningi, ma poi ci rinunciò, li scosse, si guardò intorno cercando una soluzione tra i quadri illuminati dal mattino. Ma era un mattino nuvoloso e i colori facevano fatica ad emergere dal grigiore. Disse allora semplicemente: “Senti, io nel tuo gioco ci credo.”

“E' naturale, c'è anche un po' di te nel mio gioco.”

“Non prendermi in giro.”

“Ci ho riflettuto molto. Da sempre ho basato tutto sulla visione d'insieme del campo, sui passaggi. Un tempo quando riuscivo a piazzare un bell'assist ero felice come quando segnavo un gol in rovesciata. Forse era il mio modo di farmi accettare, di farmi benvolere dai compagni, avevo fatto così anche a Furano. Dicono però che i grandi campioni sono egoisti.” Misaki fece una pausa. “Tu che ne pensi?”

“Sai bene che ho iniziato a giocare come attaccante. Poi ho deciso di spostarmi a centrocampo per controllare ogni cosa. Non so se si tratti veramente di altruismo.”

Hikaru si bloccò, rendendosi conto che stava perdendo il seminato di quella conversazione. Dove voleva andare a parare Misaki? Pressato dagli occhi castani dell'amico fissi nei suoi, si sentì quasi costretto a proseguire. “Non definirei Tsubasa un egoista.”

Lo sguardo di Misaki ebbe un leggero sussulto. Hikaru aveva toccato un punto debole, ma era come se Misaki stesso gli avesse chiesto di metterci mano.

“E' vero, lui è semplicemente andato avanti per la sua strada. Non è un delitto, eppure sto male quando ci penso. Sono proprio stupido, mi comporto come se fossi innamorato di lui.”

Hikaru si alzò di scatto, la sedia cadde all'indietro con un tonfo pesante. Misaki lo guardò tranquillo, come se non fosse successo nulla. “Sei così sorpreso?”

Certo che era sorpreso. Non riusciva a mettere a fuoco nulla, non riusciva nemmeno a deglutire. Se ne stava lì impalato, i pugni stretti sui fianchi, le gambe tese nel tentativo di sorreggere il peso spropositato che si era sentito piombare addosso.

Impiegò un po' per rendersi conto che Misaki stava piangendo. Singhiozzava piano, e ogni singhiozzo demoliva la determinazione di Hikaru. Scendendo nel suo orgoglio, rendendolo molle e inutile.

Andò verso Misaki. Si posizionò dietro la sedia. Gli appoggiò le mani sulle spalle. Non erano poi così robuste come ci si sarebbe potuto aspettare. Anche se era un atleta, il suo amico d'infanzia aveva un fisico sottile. Hikaru restò così per qualche minuto. Si sentiva come se stesse reggendo una matassa di fili sottili che le sue mani, troppo grandi, non sarebbero mai state in grado di dipanare.

Infine parlò. “Io non so che cosa dirti. Forse sono proprio la persona sbagliata. Io riguardo a te non sono mai stato obiettivo.”

“Sei sempre stato un amico meraviglioso. Sono io che sono sbagliato per te, ti ferisco sempre,”sussurrò appena Misaki.

“Se siamo convinti in due di essere sbagliati, allora siamo pari. Su questo ce la dovremo vedere, ma non credo sia il momento. Prima di ogni cosa devi riprenderti.”

Hikaru attese una reazione da parte di Misaki, che non arrivò. Allora proseguì.

“Continua a giocare così, come hai sempre fatto. Ci qualificheremo e nessuno potrà dirti più nulla. Io...Io gioco vicino a te. E anche Misugi. Hanno detto che siamo le 3M, no? Non è il tuo gioco, è il nostro gioco. Vada come vada, qualsiasi cosa accada, non sarà mai responsabilità tua, ma nostra. ”

Misaki reclinò la testa all'indietro, appoggiandola sullo sterno di Hikaru, in modo da poterlo guardare negli occhi anche se i suoi erano gonfi di lacrime. Sorrise e disse: “Perché siamo una squadra.”

“Perché siamo una squadra,” confermò Hikaru stringendo la presa sulle spalle dell'amico. Poi le rilasciò. “Tra un po' passerà il medico a visitarti.”

“Devo essere proprio impresentabile.”

“Ti do una mano a risistemare la fasciatura.”

“Grazie, Matsuyama.”

 

In tarda mattinata venne il medico a sincerarsi delle condizioni di Misaki. Poi vennero le telefonate dei suoi compagni. Trascorsero il pomeriggio discorrendo delle vicende delle proprie squadre e raccontandosi aneddoti che riguardavano la J-League.

Quando fu ora di coricarsi, Misaki insistette per dormire sul divano, ma Hikaru rifiutò categoricamente. Si addormentarono subito, entrambi spossati. Come la notte precedente Hikaru svegliò Misaki nel sonno. Ogni volta l'amico faceva fatica a riconoscerlo: assottigliava gli occhi grandi, poi gli sorrideva. Continuava a tirare fuori dettagli che lui stesso aveva dimenticato. Come se nel cuore di Misaki ci fosse uno scrigno che conservava intatta una parte di Hikaru, che si apriva solo tra le profondità dei sogni. Era ogni volta una scoperta magnifica, che gli faceva capire quanto fosse prezioso il legame con quel ragazzo gentile e pieno di talento. Quanto fosse stato giusto continuare ad inseguirlo per arrivare fin lì.

Il mattino un sole timido aveva iniziato ad affacciarsi tra i primi spiragli lasciati dalle nubi. Fu Misaki stesso a voler preparare la colazione, nonostante le proteste di Hikaru, che fu spedito a fare la spesa. Misaki, che se la cavava meglio di lui ai fornelli, preparò delle verdure al curry che si rivelarono decisamente più saporite dei sandwich del giorno precedente.

Nel tardo pomeriggio, dopo l'OK del medico, Misaki salì sul treno per Iwata.

Hikaru, che lo aveva accompagnato alla stazione, attese che le vetture sparissero all'orizzonte e disse piano: “A presto, Taro Misaki.”

 

 

 

*** *** ***

 

 

Note varie

 

Due righe sulla figura della nonna di Matsu. Non l'ho citata a caso, fa parte di una serie di mostri generatisi nella mia pluridecennale vita di fangirl. Conosciamo in maniera più o meno approfondita le famiglie dei personaggi principali, ma di Matsuyama non si sa un bel niente. Anni fa avevo fatto questo ragionamento: non si vedono i genitori → forse lui non ha i genitori! Fin qui tutto bene. Poi però sono tornati a tormentarmi gli orribili colori della divisa della Furano. Qualcuno ha mai notato che nel primo anime sono gli stessi identici colori del vestitino di Heidi (= bordeaux+rosa+giallo)? Da quello nacque la (sciagurata) conclusione che Matsu vivesse con la nonna in una baita tra i monti XD

Il prossimo capitolo è l'ultimo, coraggio che tutto si risolve o quasi!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Cielo ***


5. Cielo

 

 

 

Ciao, Tsubasa.”

Ciao, Misaki. Volevo solo sapere come stai.”

Io sto bene, grazie. Questa settimana ho fatto tutti gli allenamenti e domani parto da titolare.”

“Ho visto il calendario, giocate con il Consadole!”

“Già, ci danno per super-favoriti, ma non credo che sarà una partita facile.”

“Ah ah, scommetto che ti faranno marcare da Matsuyama.”

Appunto.” Taro lasciò trascorrere qualche secondo prima di continuare. “Pensa, lo conosco da una vita, ma non ho mai giocato contro di lui.”

“Io alle medie, in semifinale. E' un ragazzo che dà sempre una strana sensazione. Un attimo sembra che si preoccupi per te, quello dopo che ti voglia uccidere.”

Taro rise. “Quanto hai ragione.”

“Però ho imparato delle cose da lui. Vedi, lui crede incrollabilmente negli altri. Un po' ti assomiglia.”

Nel senso che hai la sensazione che io ti voglia uccidere?”

Stavolta fu Tsubasa a ridere. “Ti tormentano ancora con la storia che dovresti diventare il mio clone?”

“Abbastanza. Prima o poi toglierò il tuo poster dalla mia stanza.”

“Lo hai appeso sul serio?”

“Certo, con l'autografo. Vuoi il mio? Guarda che voglio ancora giocare in Francia, potrebbe avere un certo valore quando sarò in Champions League.”

“Ti aspetto, Misaki. Stammi bene.”

“Anche tu Tsubasa. Senti...”

“Dimmi.”

“No, no, niente, scusami. Salutami Sanae.”

 

Sono tornato a Hokkaido dopo tanti anni. Mi trovo all'interno del Sapporo Dome. E' un bellissimo stadio coperto, che permette di giocare a calcio nonostante il clima rigido di questa terra. Eppure in me c'è un certo disappunto: che senso ha tornare a giocare sotto il cielo della mia infanzia se non ho la possibilità di vederlo?

Il campo è perfetto e ben curato, gli spalti sono gremiti di tifosi, per lo più rossoneri ma anche molti in azzurro. Gli striscioni e le bandiere del Jubilo sventolano. Lo speaker inizia ad annunciare le formazioni.

Noi di Iwata siamo partiti piuttosto sicuri di portare a casa il risultato. Siamo primi in classifica mentre il Consadole è quasi in zona retrocessione. Tutti concordano sul fatto che questa squadra non dovrebbe darci noie ma, a dire il vero, io non sono poi così convinto che sarà una partita facile. La mia titubanza nasce da motivi personali: in questi luoghi ci sono delle cose che ho lasciato in sospeso e non sono del tutto certo che riuscirò a sistemarle.

Mi preparo a stringere la mano agli avversari. Ecco Hikaru Matsuyama. Quella maglia nera e rossa non gli si addice per niente, è scura come gli occhi che non vogliono riflettermi. Lui mi tende la mano e mi sorride, io gli tendo la mia e l'abbandono alla sua stretta. Non abbiamo nulla da dirci: stiamo per giocare una partita e tutto ciò che desideriamo è vincere.

L'arbitrò dà il fischio d'inizio, il pubblico grida. Nakayama passa all'indietro il pallone. Come immaginavo, Matsuyama corre verso di me. I suoi tifosi lo incitano, ma i miei non sono da meno.

Non è facile costruire un'azione, ma con un passaggio per volta riusciamo ad avanzare. Sono quasi in area, mi fermo a controllare la linea del fuorigioco. E' l'inizio della partita, il Consadole è compatto e la difesa è ben piazzata, ma noi riusciamo a guadagnare un angolo. Mi fanno cenno di andarlo a battere, sistemo il pallone vicino alla bandierina, rifletto sul da farsi. Sono quasi tentato dall'idea di un tiro in porta, ma se fallissi tutti ne resterebbero delusi. Ho ben dieci compagni su cui fare affidamento! Vedo che le punte sono ben piazzate. L'arbitro fischia, colpisco d'interno, riesco ad impartire una buona rotazione. Nakayama salta, il portiere respinge ma non riesce a trattenere, si crea una mischia in cui è meglio non lanciarsi, Matsuyama è alle mie spalle e mi tiene d'occhio. Avevo ragione e sentire il pericolo, perché il centrale del Consadole riesce a spazzare via il pallone dall'area. Noi siamo leggermente sbilanciati, parte il contropiede. Matsuyama è già scattato, io lo inseguo. Il mister mi ha autorizzato a lasciare la posizione per marcarlo. “Lo conosci bene, penso tu sia la persona più adatta,” ha detto. Naturalmente si riferiva alla nazionale, lui non sa che di Matsuyama conosco anche altro. Che perde la pazienza quando fa gli origami, che è impossibile dividere il futon con lui perché nel sonno si agita di continuo, che è talmente cocciuto da essermi ancora affezionato come un fratello.

Per fortuna Urabe e Ishizaki recuperano subito la posizione. La punta del Consadole tenta un colpo di tacco all'indietro sulla fascia sinistra che è rimasta sguarnita. Matsuyama potrebbe tirare al volo, ma il tempo che serve a lui per coordinarsi è sufficiente a me per bloccarlo in scivolata. L'impatto è violento: il pallone schizza in fallo laterale e rimbalza sui cartelloni pubblicitari, Matsuyama cade in avanti, la mia gamba sinistra trema. I nostri occhi si incrociano ancora per un istante, duramente, sotto il tetto grigio del Dome che ci priva delle sfumature del cielo. Mi rialzo in mezzo a fischi ed applausi e mi riporto al centro del campo.

Si va avanti così per tutto il primo tempo. Il Consadole continua a lasciarci fare il gioco aspettando l'occasione per coglierci di sorpresa. Proviamo più volte a costruire una manovra con passaggi brevi, ma tutto si perde nel nulla. Era prevedibile per una partita non destinata a finire negli annali del calcio giapponese. Il cronometro si trascina pigramente fino al quarantacinquesimo, finché l'arbitro fischia senza concedere recuperi. Anche i tifosi fischiano, sono annoiati e hanno ragione. Non è giusto che le cose vadano così. Né per loro, né per me, e neppure per Matsuyama. Mi volto per cercarlo, mi accorgo che mi viene incontro di sua spontanea volontà. La sua espressione non è tesa e io inizio a intravedere qualcosa oltre la barriera dei suoi occhi adulti. E' un sentimento insolito, pare tristezza, come se stesse cercando nel mio volto una risposta che non riesco a dargli. Apre le labbra per dire qualcosa ma io faccio lo stesso e le nostre voci finiscono per sovrapporsi sulle stesse parole: “Non può andare avanti così.”

Arretriamo, sorpresi. Per un istante non riesco nemmeno a capire dove mi trovo. Non so che cosa sia successo, so solo che quando riprendo il contatto con lo sguardo di Matsuyama vi scorgo il cielo di Hokkaido che non riuscivo più a trovare. Allora senza distogliere lo sguardo da quelle iridi scure alzo in alto il braccio, la mano tesa verso l'azzurro che in esse intravedo. Matsuyama la colpisce, come sigillo alla nostra preghiera: “Cielo di Hokkaido, torna a giocare con noi.”

Mi avvio verso gli spogliatoi senza dire null'altro. Sono sereno, certo che presto accadrà un miracolo e che non avrò bisogno di Tsubasa per realizzarlo.

 

Il secondo tempo è iniziato da pochi minuti, il pallone entra nella mia zona a causa di un passaggio troppo basso. Decido di provare ad intercettarlo. Stacco, mi coordino, ce l'ho quasi fatta ma c'è il contatto con Matsuyama, che mi precede di testa e passa. Cado a terra, i miei compagni reclamano il fallo ma il fallo non c'è. Mi rialzo, la prossima volta devo scordarmi di essere gentile nei contrasti. Mi accorgo che Matsuyama, a distanza, sta controllando che io sia a posto.

Si riparte con un calcio di punizione, noi del Jubilo iniziamo con i soliti passaggi brevi. Ogni tanto Matsuyama si avvicina, poi arretra per difendere. Penso che abbia più voglia di combattere di quanto non dia a vedere, ma che debba seguire le istruzioni del suo mister che chiaramente mira al pareggio. In realtà anche il mio mister mi ha fatto capire che dovrei continuare a giocare come nel primo tempo. Tutti sono rassegnati a quest'atmosfera monotona ma io ho davanti Matsuyama e posso ricordare Hokkaido d'estate, quando ci divertivamo un mondo anche se scendeva la pioggia.

Finalmente trovo un varco nella difesa del Consadole, luminoso come uno squarcio tra le nubi. Riesco ad impartire al pallone una traiettoria ad effetto. E' un arco nel cielo, che termina proprio davanti all'area di rigore. Nakayama tira di prima, ed è gol.

Fantastico,” mormora la voce di Matsuyama prima che lo scroscio di applausi dei tifosi del Jubilo si riversi nello stadio e i miei compagni di squadra mi travolgano nei loro abbracci.

 

Il portiere rimette in gioco, si ricomincia. Ora che il risultato è sbloccato, il Consadole inizia a sbilanciarsi. Si costruisce qualche azione, finalmente inizio a correre da un capo all'altro del campo come quando avevo come amico il vento.

Provo una finta ma Matsuyama non si lascia ingannare. Alzo il pallone, scatto in avanti, lo riprendo. Lui entra in scivolata, il suo tempismo è perfetto ma io riesco a saltare. I miei piedi toccano di nuovo il terreno, Matsuyama entra in secondo tempo. Non posso evitare il contrasto, il pallone si blocca sulla sua gamba mentre io sono costretto a tuffarmi in avanti. Però con le braccia riesco a darmi una spinta e togliere la palla dai piedi a colui che s'illudeva d'aver vinto. I miei compagni recuperano il pallone, il pubblico applaude, Matsuyama mi tende la mano quando sta per rientrare in copertura e mi trascina in avanti per qualche metro lanciandomi nella sua corsa. Non posso fare a meno di ridere mentre lo inseguo. Mi pare di trovarmi nelle limpide giornate di metà autunno dove era d'obbligo divertirsi a più non posso prima che sopraggiungesse la neve. Con mente rasserenata studio la disposizione dei compagni e degli avversari. Non intervengo nei capovolgimenti di fronte che si susseguono uno dopo l'altro, ma approfitto di un momento in cui Matsuyama deve rientrare per smarcarmi, proseguire sulla fascia destra, girarmi, passare. I miei compagni sono spiazzati, ma lo è ancora di più la difesa del Consadole. Nakayama tira direttamente in porta, centra la traversa, il pallone esce dall'area, c'è un intervento falloso. Guadagniamo un calcio di punizione da posizione centrale. Come sempre, tocca a me batterlo. La barriera del Consadole attende un mio tiro ad effetto, così come credo stiano facendo il pubblico e il mister e i miei compagni. Allora decido di passare a destra, dove c'è un varco, dove può arrivare Urabe che è salito senza che nessuno si sia preso la briga di marcarlo. Lui capisce al volo, riesce ad anticipare i difensori di quel poco che basta. E' un tiro secco e centrale che il portiere, che aveva la visuale coperta dalla barriera, non fa in tempo a bloccare.

Urabe mi salta al collo e mi scompiglia i capelli. Insieme andiamo a ringraziare i tifosi che ci hanno incoraggiato e che ora sono pazzi di gioia.

 

Al settantaquattresimo, mentre attendo il rinvio da fondo campo, incrocio ancora gli occhi di Matsuyama. Sta ragionando, sono freddi come il cielo invernale che finisce per confondersi con il bianco della neve.

Il Consadole si spinge in attacco. Nessuno di loro osa passare a Matsuyama, perché dove c'è lui ci sono anch’io che lo seguo come un'ombra. Un rimpallo conduce il pallone vicino alla metà campo. Riesco a spuntarla per un soffio, effettuare un passaggio, avanzare per riprenderne il possesso. Matsuyama però nel frattempo mi ha chiuso. Finto come se volessi passare indietro, invece giro su me stesso, faccio passare il pallone tra le sue gambe, lo riaggancio. Il portiere mi chiude lo specchio, l'azione potrebbe essere conclusa ma non mi arrendo e tiro di sinistro. Il pallone sfiora i capelli ribelli del mio avversario e si insacca proprio all'incrocio dei pali. L'arbitro convalida il gol. Matsuyama si tocca la guancia e mi guarda, dapprima incredulo, poi adirato. Quando i compagni mi trascinano a festeggiare la rete segnata, la mia mente resta ferma sul suo volto.

Non mi sto facendo beffe di lui. Sto cercando di dare il meglio di me perché voglio che Matsuyama rientri a far parte della mia vita prima che tutto finisca. Voglio tornare a sentirmi libero come quando lo avevo accanto. Mi ero perso nell'inseguire colui che avevo scambiato per astro gemello e invece era il mio rivale eterno, ma Matsuyama ha saputo ritrovarmi e tendermi la mano liberandomi dalla condanna che io stesso mi ero inflitto.

Dopo il rinvio e una serie di passaggi riprendo finalmente possesso del pallone, supero l'istinto che mi dice di passare e resto immobile in mezzo al campo. I giocatori mi guardano perplessi, il pubblico ammutolisce ed io approfitto di questo vuoto per urlare: “Avanti, Hikaru Matsuyama! Ti sto aspettando!”

 

Ho solo tre minuti. Questa partita è persa. Contro di te perdo sempre, Misaki. In parte è perché tu hai una classe unica e io non potrò mai eguagliarti. In parte è perché riesci a stregarmi e io ti lascio fare anche quello che non dovrei. E' l'ultima occasione che ho per arrivare ad essere davvero al tuo fianco, non so in qualità di chi o di cosa ma al momento non m'importa: un tempo avevo giurato che ti avrei ripreso. Se non lo facessi, tradirei sia te che me stesso. Avevo urlato quella promessa al medesimo cielo che attraversa i tuoi occhi ora, mentre giochi come se fossi tornato bambino. Oggi urlo ancora il tuo nome, scagliandomi contro di te nell'attraversare il varco che ci ha separati per anni. Il pubblico applaude, ma il suono scompare subito e nelle mie orecchie resta solo l'eco persistente della tua voce che mi invita a riafferrarti. Finti verso sinistra, poi ti muovi nella direzione opposta ma non m'inganni, ti sono davanti a sbarrarti la strada. Riesci nuovamente ad avanzare appoggiandoti ai compagni, che sai usare come se fossero parte di te. Ricevi palla, la alzi e ti sollevi in una splendida rovesciata, ma io fermo il pallone di testa. Tu ricadi per terra, io ricado all'indietro. Sei rapido nel darti una spinta con braccia per toccare il pallone con la punta del piede, ma io ho fatto lo stesso e riesco a bloccarlo. Sento un bruciore intenso alle gambe, graffiate nel movimento e mi accorgo che anche le tue sono ferite. Mi rialzo, tu fai lo stesso e i nostri sguardi si scontrano prima che i nostri corpi inizino una nuova serie di finte. L'arbitro ci fissa pronto a fischiare il fallo, ma si sbaglia di grosso se pensa di poter essere lui ad interrompere la lotta. Provi a fermarmi in scivolata, io riesco a saltare e passare avanti. Poi mi lancio in attacco, consapevole che tu sei già sulla mia scia. “Avanti!” grido alla squadra chiamando palla. Il tifo del Consadole esplode, risollevando l'animo dei miei compagni. Riusciamo finalmente ad avanzare sulla fascia sinistra, mi coordino per un Eagle Shot che passa tra le gambe dei difensori ma che tu respingi sulla linea di porta. Non c'è più tempo per costruire un'azione né per pensare agli schemi. Dopo la rimessa laterale riprendo il pallone, evito l'intervento di Ishizaki, riesco a scartare Urabe, mi trovo faccia a faccia con il portiere che supero con un pallonetto. Corro verso la linea, dove tu sei pronto ancora una volta a respingere. Mi tuffo per colpire di testa, il pallone si blocca tra la mia fronte e la tua caviglia, poi schizza sulla traversa e rimbalza. Lo vedo cadere insieme a me finché l'impatto con il terreno mi costringe a chiudere gli occhi. Sento il grido del pubblico, il fischio dell'arbitro che convalida il gol, poi il tocco di una mano gentile che si appoggia sulla mia spalla. Ancora stordito, mi alzo sui gomiti e incrocio i tuoi occhi castani, limpidi e calmi come il sorriso che illumina il tuo bel volto. Vuol dire che ti ho raggiunto, Misaki? Tu annuisci anche se le mie labbra non ti hanno posto alcuna domanda. Quando il triplice fischio sancisce la fine della partita, la tensione del mio corpo si scioglie liberandomi da una tristezza antica. Sento gli occhi traboccare di lacrime che nessuna considerazione logica potrà trattenere. Scorrono libere, ancora una volta per te.

 

Tendo la mano a Matsuyama, lo aiuto a rialzarsi. Il maxischermo segna il tre a uno del Jubilo, il pubblico mi acclama. Quando rivedo gli occhi del mio avversario spuntare dai capelli arruffati mi accorgo che sta piangendo. Abbassa lo sguardo imbarazzato, ma subito lo rialza e mi sorride mentre, incredulo, si accorge che il pubblico sta acclamando anche lui.

Le tifoserie si sfidano e i nostri nomi risuonano l'uno sull'altro. I rispettivi compagni di squadra si tengono lontani: in questo momento lo stadio è solo per noi due. Matsuyama si toglie la maglia e me la porge. Poi, io vestito in rossonero e lui vestito d'azzurro ci fermiamo spalla contro spalla a lasciarci inondare dallo scroscio di applausi.

Matsuyama mi fa girare verso di lui, mi afferra per i fianchi e mi solleva ridendo come un bambino. Lo aiuto a sostenere il mio peso incrociando le gambe sulla sua schiena, poi gli prendo il viso tra i palmi delle mani intingendoli nelle sue lacrime di gioia. Inizio a ridere, o forse sto piangendo anche io, non lo so più. Non ricordo più come si faccia a distinguere la tristezza dalla gioia in mezzo a questo pubblico che mi ama, stretto nell'abbraccio della luce innocente che è sempre stata con me.

 

 

 

 

*** *** ***

 

 

 

Note varie

 

Yatta! Ce l'ho fatta a rimettere insieme 'sti due!

Come insegna Tsubasa, se nella vita ci sono problemi basta mettersi a giocare a calcio con convinzione e, prima o poi, si risolve tutto. Se qualcuno ha qualcosa da ridire sulla modalità con cui ho accoppiato Matsuyama e Misaki, vada quindi a lamentarsi da lui ;)

Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno seguito questa storia, tenendomi compagnia nel mondo nostalgico di Taro&Hikaru. Argh, riuscirò mai a liberarmi dalla carineria intrinseca di questo pairing?

Un grazie speciale a Sippu per il betaggio!

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1263549