La Valse

di Silvar tales
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le Monde ***
Capitolo 2: *** Le Ciel ***



Capitolo 1
*** Le Monde ***


La Valse







Capitolo 1. Le Monde




All'inizio era rimasto un po' interdetto, titubante e restio a muovere un altro passo.
Ma poi non aveva più saputo resistere ai gingilli appesi dietro la vetrina.
Due minuti dopo quei pochi spiccioli che gli rimanevano erano buttati al vento, e un collare in pelle nera con borchie di ferro si era aggiunto al suo vestiario.
Se Lucy avesse saputo che sprecava denaro in quel modo l'avrebbe come minimo cacciato di casa, o peggio avrebbe meditato su come porre fine alla sua esistenza parassitaria.
Ricordava ancora nitidamente la sua reazione quando, un'ora dopo aver ricevuto la magra paghetta settimanale, era tornato dal parrucchiere e al posto dei suoi bei capelli biondi le aveva fatto trovare una cresta alta dieci centimetri, di un verde elettrico, inutilmente nascosta sotto il cappuccio della felpa.
Lucy Lùtair, di origini britanniche, isterica premurosa e soprattutto umile impiegata al ricovero di scartoffie delle poste centrali, era sua madre, ovvero l'unico parente che aveva al mondo.
Non che gli altri fossero morti o scomparsi in qualche modo, semplicemente ignorava chi fossero. Un bel giorno, lei si era vista la pancia gonfiarsi gradualmente, i seni ingrossarsi e i capelli farsi più belli e forti. E infine, aveva messo alla luce un bambino, un maschietto biondo e sano di nome Deidara. Così gli aveva raccontato, finché la storia poteva reggersi in piedi, sostenuta dall'ingenuità di un bambino di cinque anni. Ma crescendo, Deidara si era messo a fare domande sempre più dirette, perplesso del fatto che la mamma avesse fatto tutto in solitaria, quella mamma con una crespa capigliatura rossiccia e due piccoli occhi grigi.
“Come mai, Lucy?” Chiedeva pieno di curiosità, con le mani legate dietro la schiena. “Perché ti ha fatto un angelo”, rispondeva lei colma di un affetto prorompente. “Gli angeli non hanno forse quell'aspetto?”
Deidara scuoteva la testa, per nulla convinto.
“No, non è vero”, scappava via e non si faceva più acchiappare per il resto della giornata.
Ma i bambini crescono fin troppo velocemente, nel giro di pochi attimi passa una vita e si ritrovano con diciott'anni alle spalle, belli formati, sbadati, con gli ormoni alle stelle e uno spiccato desiderio di distruzione.
Così questo ragazzo, che ha sempre nome Deidara, si sedette sul bordo scrostato di una panchina e si accese una sigaretta, riparando la fiamma dell'accendino con una mano.
Con una smorfia, gettò una nuvola grigia fuori dal naso e dalla bocca, per poi aspirare altra nicotina. Strizzò gli occhi per il sole forte, l'accecante luce bianca di mezzogiorno gli aveva rovesciato una pesante stanchezza addosso.
Nessuno l'avrebbe rimproverato se si fosse coricato un momento, e anche nel caso qualcuno l'avesse fatto, l'avrebbe molto semplicemente mandato a quel paese.
Il Bois de Boulogne era come sempre zeppo di visitatori e macchine fotografiche, e di bambini urlanti ed eccitati. Qualche volta avrebbe preferito la quiete di una qualche casupola immersa nella campagna francese, piuttosto che la frenesia di Parigi.
Ma a Parigi si trova la droga a poco prezzo, ma Parigi è zeppa di muri bianchi da imbrattare, ma a Parigi trovi sempre un angolo buio dove pisciare dopo esserti sbronzato, gli fece nell'orecchio la classica voce coscienziosa. Qualche volta le passava il mal di gola.
Sì è vero, le rispose Deidara non riuscendo a contenere uno sbadiglio, nessuno mi porterà via da qua.
Aprì le labbra screpolate di una fessura per soffiare nuovamente via il fumo.
Era un'altra di quelle cose che faceva fatica a sostenere economicamente, il fumo, così come altri attentati alla sua pelle quali piercing e tatuaggi, il classico binomio del classico sfattone barra drogato di strada - secondo gli impettiti che mangiavano pregiudizi e respiravano solo per storcere il naso.
Di quel passo avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, il tempo libero certamente non gli mancava.
Non era interessato allo studio, ma non avrebbe potuto abbandonare del tutto l'istruzione.
Per avere qualche speranza lavorativa più dignitosa di quella della madre, avrebbe dovuto raggiungere almeno il traguardo del diploma. Tuttavia, si sentiva autorizzato a svagarsi liberamente nei pomeriggi e nei fine settimana, ed a saltare ore di lezione quando e quanto più gli aggradava. Essere maggiorenni prima del tempo era una gran comodità.
Scacciando questi e altri pensieri che gli assediavano la mente, raggiunse con una mano il lettore scassato riposto nella tasca dei jeans, azionò la modalità random e tentò di rilassarsi, stendendo meglio la spina dorsale sul pianale rugoso della panchina. I tasti di quell'aggeggio si inceppavano e lo schermo era graffiato, ma non aveva certo i soldi per comprarne un altro. Quello l'aveva trovato per terra, proprio nei dintorni. Probabilmente aveva visto almeno un acquazzone e una grandinata.
Ascoltando il ronzio di quegli accordi strozzati Deidara finiva per giungere a tante conclusioni, una più o meno azzardata dell'altra.
La vita era una turbina. Una turbina che faceva rumore e basta.
Girava a vuoto per far funzionare qualcosa di più grande, ma alla fine non arrivava da nessuna parte. Era solo un ciclo, perpetuamente fermo al principio e alla fine.
L'unica soluzione possibile era coprire il rumore con qualcos'altro di più rumoroso, e che fosse anche un minimo melodico.
Soddisfatto delle proprie ridicole pillole, Deidara spinse il dito sul tasto del volume per portarlo al massimo.
L'artista - o meglio, il ciarlatano che crede di esserlo - deve almeno avere la coerenza di vivere orientato sulla linea delle proprie coordinate.

L'orologio segnava le sei, e la playlist era ricominciata da capo per la terza volta.
Deidara si esibì in un vistoso sbadiglio, stropicciando gli occhi e drizzandosi a sedere. Mosse gli anfibi nella ghiaia mettendo in fuga due passerotti che zampettavano lì vicino, e inaspettatamente un ciao ovattato gli raggiunse le orecchie.
“C-ciao”, disse d'istinto voltando la testa, e trovandosi faccia a faccia nientemeno che con Sasori. Era seduto sulla sua stessa panchina, probabilmente in attesa che uscisse di letargo.
Deidara si affrettò a togliersi le cuffie dalle orecchie e a rispondere più dignitosamente.
“Ciao”. Non era entusiasta di vederlo.
Sasori era un suo compagno di classe, e tutto ciò che aveva a che fare con l'ambiente scolastico suscitava in Deidara una discreta antipatia.
Il guaio di Deidara era che lui non frequentava una scuola di poveracci, dove invece sarebbe dovuto stare; gli studenti dell'istituto Molière erano per la maggior parte riccastri e figli di papà, che avevano in testa solo carriera e studio, studio e carriera.
Due parole che Deidara avrebbe ben volentieri eliminato dal vocabolario.
“Che ascoltavi?”
God save the... sì, quella”, rispose lui soprappensiero, come fosse la cosa più ovvia del mondo.
E in effetti, anche se comunemente si dice che non bisogna giudicare dalle apparenze, bastava dargli un'occhiata per capire che gusti avesse.
I piercing visibili gli bucavano il viso sul sopracciglio destro e sul labbro, e assediavano entrambe le parti superiori delle orecchie; con quest'approccio lasciava vivamente intendere che ne avesse altri, da qualche altra parte.
Infatti, i primi che Deidara aveva portato a casa erano stati quelli che avrebbe potuto nascondere facilmente.
Fin quando si dimenticò di tenere la bocca chiusa, e si lasciò andare ad uno dei suoi sbadigli preferiti proprio davanti agli occhi di Lucy.
Quella pallina argentata, che spiccava sul rosa spugnoso della lingua, saltava fin troppo facilmente alla vista. Anzi, diciamo pure che persino una talpa senza occhiali l'avrebbe notata.
E così, fuori uno.
Non ricordava per quanto mamma avesse sbraitato e saltellato in preda a carenze d'ossigeno alternate ad urla isteriche, ma ricordava nitidamente che, una volta calmatasi, lui aveva sperato in un armistizio duraturo. Nulla di più sbagliato.
La sera stessa era entrata con fare minaccioso in quello sgabuzzino che lei chiamava la camera del suo bimbo, e con ansia evidente e malcelata gli aveva ringhiato un “Tirati. Giù. Le mutande”.
E così, fuori due.
Dopo aver perso parzialmente l'udito, essersi beccato un piatto in testa, ed essere stato messo a digiuno per tre giorni, Deidara si convinse di aver toccato il fondo, e che peggio di così non poteva andare. Perciò, finito il periodo di reclusione, tornò dalla sua bottega di fiducia, una di quelle low-cost che si permetteva di risparmiare sulle norme igieniche.
Quando si ripresentò sulla soglia di casa, con quegli anelli che gli spuntavano sul viso, Lucy semplicemente sospirò scoraggiata, prima di lasciarsi andare in un pianto isterico chiedendosi cosa mai avesse sbagliato nella vita per aver cresciuto un figlio così duro di comprendonio.
Ma ormai il danno era fatto.
A cosa sarebbe potuta servire un'altra punizione?
Dopo essersi guadagnato due miseri schiaffi in faccia, Deidara semplicemente continuò a combinare i suoi guai preferiti, e a spendere soldi dove li aveva spesi prima.
Continuò a modificare, intagliare, bucare e colorare il suo corpo, come fosse una tela bianca da dipingere.
Sai perché fai tutto questo? lo aveva provocato una volta Erik, un suo compagno di classe con poco sale in zucca, perché non hai uno straccio di personalità, frocio!
Deidara aveva reagito con diplomazia e compostezza, esattamente com'era abituato a fare.
Vuoi una mia prova di personalità? aveva urlato al povero Erik, più piccolo e più mingherlino di lui, che in un battibaleno si era ritrovato appeso al muro per la collottola, e per poco non aveva incassato un pugno sul naso.
Cadde un silenzio pressante.
Naturale, pensò infastidito Deidara. Anche sforzandosi, non riusciva a trovare un solo argomento di conversazione che non risultasse ridicolo o fuori luogo.
Sasori era un anonimo compagno di scuola, non capiva il motivo per cui dovesse stargli appresso, cercarlo o tentare di parlargli. Ed era ormai un mese che si comportava in quel modo.
“Va bene, allora ciao”, disse infine lui tirando su col naso, e fece un gesto inaspettato.
Si piegò verso Deidara e gli appoggiò le labbra sulla guancia, toccando la pelle ruvida di quel poco di barba che gli stava crescendo. Il suo odore di deodorante misto a fumo non era cambiato, fece appena in tempo a percepirlo prima di venire respinto.
“Che fai?” lo aggredì Deidara, lasciandosi sfuggire una smorfia di disgusto.
“Scusa, non l'ho fatto apposta”.
Sul suo viso comparve un sorrisetto antipatico ma profondamente malinconico. Era sincero.
Deidara lo guardò allontanarsi, sentendo una strana sensazione invaderlo. Era come se in testa gli ronzassero delle voci che non riusciva a distinguere tra loro.
Eppure il suo lettore musicale era spento.

La sera tornò a casa tardi, distratto dai suoi stessi pensieri. Trafficò con le chiavi per due minuti prima di riuscire ad aprire la porta, le mani gli tremavano. Lucy doveva essere in pensiero, non si era nemmeno curato di avvisarla con una telefonata.
“Mamma?”
Non ricevette risposta. Stava per chiamarla una seconda volta, quando si fermò. Udì dei singhiozzi, un lamento sommesso colmo di angoscia e di ricordi, e intravide una lama di luce sbucare da sotto la porta della cucina. Incuriosito e con il cuore in gola, si avvicinò e vide attraverso il vetro opaco la figura della madre, china sul tavolo.
Non seppe ben definire la sensazione che provò, era qualcosa di inaspettato. Non era abituato a vedere Lucy in una condizione di debolezza, lei era sempre stata una sagoma forte, decisa ai suoi occhi. Se le lacrime erano arrivate a bagnare persino il suo viso, allora il loro mondo doveva essere sul punto del crollo. Era un gemito, ma sufficiente ad abbattere le colonne d'Ercole dell'universo fittizio nel quale Deidara viveva.
Incapace di affrontare il dolore - qualunque esso fosse - della madre, e sentendosi in colpa per questo, Deidara si rifugiò nella propria camera, ritrovandosi a tu per tu con i suoi libri e la sua penombra. Uno scaffale intero di volumi che non aveva mai letto, ma che eppure erano consumati ed avevano le orecchie alle pagine. Questo era un altro dei particolari a cui non dava importanza, oppure era un'altra di quelle voci che si rifiutava di ascoltare.
Prese un libro a caso dalla mensola, e gli capitò tra le mani la Coscienza di Zeno, uno di quei romanzi noiosi con doppie e triple interpretazioni che gli erano stati commissionati dal professore di francese.
Lo scartò senza farsi troppi problemi, appoggiandolo sul comodino.
In quel momento Lucy fece irruzione nella sua camera, e per la foga con la quale entrò Deidara si aspettò subito un rimprovero. Invece no.
“Quando sei tornato?” chiese con voce leggermente stridula.
“Cinque minuti fa”, rispose il figlio alzando le spalle. Studiò circospetto il viso della donna, cercando occhi rossi, righe secche, tracce di quell'insensato pianto che era certo di aver udito.
“Hai mangiato? Ti preparo qualcosa?”
“No sono a posto, grazie”, concluse Deidara afferrando il libro che aveva appena scartato ed iniziando a leggerlo al contrario.
Lucy non aggiunse altro ed uscì dalla stanza, accompagnandosi la porta dietro di sé.
“Sai, mamma, oggi un ragazzo mi ha baciato... è stato stranamente normale, come se lo avessi già fatto un milione di volte, come se lo conoscessi a pelle, eppure io di lui so a malapena il nome”, disse fra sé Deidara non appena fu solo, aprendo le labbra di una fessura.
Era diventato incapace di comunicare con il mondo esterno.





Continua...

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Capitolo 2
*** Le Ciel ***


Capitolo 2. Le Ciel




“Senti, ti volevo chiedere di uscire”.
“Uscire?”
Deidara strabuzzò gli occhi, guardando Sasori come se gli avesse appena annunciato un'invasione aliena.
“Sì, uscire, ti va uhm... di andare in discoteca?”
“Ti sembro un tipo da discoteca?”
“No, perché se non ricordo male il tuo locale preferito è il pub di Nighting Hale, sul limitare del Bois de Boloigne”, si corresse Sasori con naturalezza.
Effettivamente così era, pensò confuso Deidara. In quel pub c'era un buon giro di droga. Ma come faceva Sasori a saperlo? Forse gli era capitato di vederlo lì, tutti i venerdì sera, attaccato alla bocca di qualche sedicenne o al collo di una bottiglia di birra. Sì, doveva essere senz'altro così.
“Affare fatto, anche se mi stai praticamente confessando di essere innamorato di me”.
Sasori sorrise arrogante a quell'affermazione sarcastica. La finezza non era mai stata una delle caratteristiche peculiari di Deidara.
“Io? Innamorato di uno come te? Starai scherzando spero”.
La serata passò in fretta, e non fu nemmeno troppo piacevole. Non che Deidara avesse ecceduto come suo solito, anzi stavolta si era limitato a una birra piccola e a una misera sigaretta fuori dal locale. Era piuttosto l'atmosfera ad essere pesante. Non erano amici, eppure Deidara avvertiva una strana tensione fra loro. Come se dovesse raccontargli un miliardo di cose, ma non trovasse le parole adatte, o comunque un buon pretesto per tediarlo con argomenti che sicuramente non gli interessavano.
“Hai intenzione di stare lì tutta la serata a fissare il marciapiede?”
Le luci verdi e rosse del pub si riflettevano sulla strada bagnata, e i lampioni illuminavano di arancione i numerosi vicoli defilati che si snodavano dall'angusta Dolmen Place. Era una serata tranquilla, il cielo doveva abbondare di stelle.
“Se... se ci togliamo un po' dalla strada riusciamo a vedere le stelle”, disse Deidara con voce roca, roteando con gesti vaghi la mano destra per aria, disegnando ghirigori di fumo.
Non era esattamente l'idea più saggia imboscarsi al Bois de Boulogne a quell'ora di notte, ma Deidara assicurò a Sasori che quel parco era come la sua seconda casa.
Conosceva a menadito ogni suo singolo abitante: Max, il vagabondo sempre pronto ad estrarre le carte da gioco (come pegno per il vincitore, il perdente doveva sottostare alla fine - ma fruttuosa - penitenza di rubare un pacchetto di sigarette per entrambi), François, omosessuale e drogato irrecuperabile (per continuare a pagare il suo spacciatore si era ridotto a vendere preziosi di famiglia, rubando soldi e preziosi dai cassetti, ma i suoi genitori l'avevano colto in fragrante e ora non avrebbe più potuto rimettere piede in casa). Poi c'erano Jean e Pierre, conosciuti come gli skater il giorno e gli imbrattamuri la notte, Falin, la ragazza sulle sedie a rotelle e povera in canna che, nonostante tutto, si ostinava a tirare a canestro nel campetto di cemento vicino al parco giochi, e poteva farlo solo di notte per evitare gli insulti e per non venire scacciata com un cane, come accadeva nella maggior parte dei casi. Claude aveva trovato un modo per accenderle i fari lungo il perimetro del campo, trafficando un po' con la scatola elettrica. Claude era un pittore e uno scrittore, e si ritrovava a frequentare quei posti brulicanti di vita e di feccia per trovare ispirazione, e per venire meglio a contatto con la realtà. La realtà gli piaceva, asseriva spesso mentre era perso nei suoi pensieri, e gli piaceva ricrearla nei suoi racconti e nei suoi dipinti, catturarne l'essenza. Per Claude la notte era il momento ideale della giornata per iniziare a scrivere una storia, perché la notte è soffusa, è buia, è sfocata, perciò si ragiona meno con gli occhi e più con gli altri sensi.
Ecco da dove Deidara aveva preso il vizio di dispensare perle filosofiche.
In ultimo, vicino ai casotti di cemento dei bar (aperti solamente di giorno), c'erano Anne e Margaret, perché in un quadro simile le prostitute non potevano mancare.
Sasori si guardava intorno scettico, probabilmente non capendo come Deidara trovasse di casa un posto simile.
Come intuisse i suoi pensieri, Deidara lo afferrò per un braccio e lo invitò a guardare le stelle.
“È la cosa più preziosa che noi tutti qua abbiamo. Se passeggi la sera lungo lo Champs Elysées e passi davanti ai negozi di lusso, tutti ti fanno credere di poterti vendere un tesoro, e invece no. Ti stanno ingannando, perché qualcosa di veramente prezioso ce l'abbiamo noi, quaggiù, ce l'abbiamo noi poveretti”.
Sasori fece una smorfia, sbuffando scettico, tuttavia piegò il collo verso il cielo macchiato di punti gialli e bianchi, intermittenti come le luci degli alberi di Natale.
“Questo posto è ben lontano dalle stelle”.
“Ti sbagli”, gli sussurrò Deidara all'orecchio prima di baciarlo sulla bocca, afferrandogli un fianco e portandolo contro di sé. Un bacio, due baci, ad intermittenza, come la luce delle astri.
Sasori lo guardò sorpreso, per poi baciarlo a sua volta.
Noi due, ancora insieme, pensò, nonostante perdesse lucidità ogni secondo che passava. Evidentemente erano legati dal destino.
“Dove andiamo?” Gli domandò Sasori all'orecchio, concitato, con il respiro in pezzi.
Era come se il cuore gli dovesse esplodere da un momento all'altro.
Mi sei mancato.
Entrando dalla finestra scardinata di una delle tante baracchine diurne, si ritrovarono in mezzo alle casse e alle bottiglie di un magazzino. Non era un posto eccessivamente spazioso, ma se lo fecero bastare.
“Temevo fosse già occupato, siamo stati fortunati”.
Deidara si tolse la giacca di pelle e la maglietta sgualcita, facendola passare faticosamente attraverso la cresta. Sasori gli si attaccò alle labbra mentre armeggiava con la sua cintura irta di punte, la sfilò e gli abbassò i jeans assieme all'intimo. Ma, una volta averlo spogliato completamente, Deidara lo fermò.
“Aiutami”.
Si girò di spalle dandogli la schiena, quella schiena lunga, pallida e piena di nei che Sasori ben conosceva. Torcendo un braccio all'indietro, indicò distrattamente una zona vicino alle lombari e alla linea rugosa della spina dorsale.
“Cosa vedi?”
Sasori strizzò gli occhi, cercando di mettere a fuoco nella penombra. Nulla da fare, era troppo buio e la sua leggera miopia non aiutava. Allora cercò di aiutarsi con la debole luce del cellulare, e vide un tatuaggio nella zona indicatagli da Deidara. Un tatuaggio che, da quel che si ricordava, aveva sempre avuto. Non era bello, era solo costituito da una fila di numeri scarni impilati in senso verticale. 21 - 09 – 1998.
“Ventun settembre millenovecentonovantotto”.
Deidara sussultò, portandosi una mano alla testa come se qualcosa gli stesse inesorabilmente sfuggendo. Come se tentasse inutilmente di mettere a fuoco un particolare sbiadito.
“Sì, devo essermelo fatto io, è assurdo pensare il contrario. Ma non ricordo, non ricordo di averlo fatto. Non so cosa significa”.
Sasori, approfittando del fatto che Deidara non potesse vederlo, si lasciò andare in un'espressione affranta.
“Non lo so nemmeno io. È una data, forse una data così importante che hai pensato di inciderla sulla tua stessa pelle, pur di non dimenticarla”.
“Ma non significa nulla per me!”
“Allora non pensarci”, tagliò corto Sasori, slacciandosi la cerniera dei jeans e piegandosi sulla schiena dell'altro per penetrarlo con maggior facilità.
Stupido, stupido Deidara. Ti sforzi di ricordare l'unica cosa che avresti dovuto dimenticare per davvero.
“Senza protezioni?”
“Scusa?” Gli chiese ansante Sasori.
“Voglio dire, mi conosci appena, hai visto che posti frequento, e ti fidi a scoparmi senza preservativo?”
Sasori lo lasciò adagiare sul pavimento freddo, sistemandosi sopra di lui e aprendogli maggiormente quelle gambe da cicogna. Lo baciò sulle labbra, incontrando con disgusto il freddo dei piercing, e gli accarezzò le punte aguzze della cresta che gli tagliava a metà la testa. Una scarica di adrenalina lo sorprese, incitandolo a spingersi ulteriormente dentro quel corpo per metà caldo e gelido.
“Certo che mi fido”.

Era stato difficile per Sasori non lasciarsi sfuggire un ti amo, nemmeno una volta. Sapeva che per Deidara una persona che sperperava parole simili dopo solo dieci minuti di rapporto intimo era da scartare in partenza.
Ma loro due si conoscevano da ben oltre dieci minuti.
“Piove”.
“Piove?” Ripeté scettico Sasori, gettando un'occhiata al cielo stellato sopra di loro.
“Mi sembra strano Deidara, non c'è una nuvola in cielo. Le stelle si vedono ancora tutte”.
Erano usciti da quell'angusto locale con un mezzo sorriso in volto, e ora si trovavano nuovamente all'aperto, tra la fauna di periferia.
Deidara rivolse il palmo della mano verso l'alto, come se volesse catturare delle invisibili gocce d'acqua.
“Non prendermi in giro, ho i vestiti zuppi, l'erba è diventata fanghiglia e... del resto ti basta vedere l'acqua nel lago, è piena di cerchi!”

20 settembre 1998.
Era la quarta volta che scarabocchiava quella data sui quaderni, prima su quello di francese poi su quello di storia, geografia e matematica, cercando di stare perfettamente dentro i quadretti da un centimetro.
L'ora di matematica era l'ultima, e finalmente la campanella trillò nell'atrio.
Si issò sulle spalle il suo invicta e si incamminò verso l'uscita, in fila con gli altri bambini.
“Chi c'è Deidara?” Le maestre chiedevano agli alunni di aver visto il proprio genitore, o chi per lui, per essere sicure di non affidarli ad estranei o lasciarli da soli.
Il bimbo vagò un po' con lo sguardo tra la folla di adulti che aspettavano i loro figli, prima di adocchiare un uomo sulla trentina, dai lisci e pettinati capelli biondi e con un paio di penetranti occhi azzurri nascosti dietro le lenti degli occhiali.
“Papà”, rispose Deidara. Sul viso gli sfuggì un sorrisone largo da orecchio a orecchio.
“Deidara!” lo accolse lui, sollevandolo in braccio e mettendogli subito tra le braccia un involucro piccolo e informe, che aveva tutta l'aria di essere un regalo.
“Che cos'è?” chiese curioso, iniziando a scartarlo.
Erano rari i momenti che Dominique Verleè riusciva a dedicare al figlio. Deidara non aveva ancora capito che lavoro facesse, d'altronde non ne parlava mai, ma sapeva che lo costringeva a girare il mondo ed assentarsi da casa per mesi. E lui aveva sempre sofferto la sua mancanza.
“Ecco, ho portato la bicicletta. Sali”. Dominique sistemò Deidara sul seggiolino posteriore, salendo a sua volta in sella.
“Perché? Non andiamo a casa dalla mamma?”
“No, voglio farti vedere una cosa. Faremmo un giro in campagna, io e te, sul lungofiume. Ricordi che ti piaceva tanto?”
“Sì!” approvò entusiasta Deidara, lasciandosi trasportare dal rilassante ondeggiare della bicicletta. Era riuscito a scartare l'oggetto dall'involucro.
“Ma è... sabbia?”
“Polvere di stelle”.
“Sul serio?” Deidara guardò sospettoso l'ampolla. Pareva proprio contenere sabbia, forse più brillante di quella sulle spiagge della Normandia, ma comunque sempre sabbia era.
“Le stelle sono preziose, sono il più grande tesoro dell'umanità, e sono a portata di tutti. Non ti sembra bellissimo?”
Il bimbo annuì fra sé e sé, ancora confuso, ma poi decise di non pensarci oltre, era troppo distratto dal paesaggio della selvaggia campagna francese in cui erano immersi.

“Deidara, ti accompagno a casa?”
“No, non è necessario, sto ancora qui con Falin, non è vero?” Urlò rivolto alla ragazzina disabile che stava ancora volteggiando per il campetto con la palla da basket in mano.
Sasori scosse la testa, rassegnato. Avere a che fare con la testardaggine di Deidara non era cosa da poco.
“Cerca di ritrovare la strada di casa”, gli disse all'orecchio mentre gli dava un bacio sulla tempia.
“Questo è il mio numero”, aggiunse poi, mettendogli fra le dita un foglietto. “Non esitare a chiamarmi quando hai bisogno. Fosse anche nel cuore della notte”.
Deidara sorrise strafottente.
“Non sei il mio angelo custode, hei!”
Ma Sasori gli aveva già voltato le spalle. Decise di ignorarlo e si rivolse nuovamente a Falin.
“Dì un po', ti sei ammattita a giocare ancora con quello stupido pallone sotto la pioggia?” le disse antipatico, appoggiandosi alla rete sbeccata del campetto.
Lei lo guardò storto e scoppiò a ridere.
“Heeeei Deidara, ti sei fatto di allucinogeni stavolta? Hei Malcolm, cosa gli hai venduto?”
Malcolm, con la schiena appoggiata a un palo della luce, soffiò divertito, e Falin filò via per il campo sghignazzando come una pazza.
Deidara si guardò confuso gli anfibi sporchi di fango e si toccò i capelli, guardando poi la mano sporca di righe e aloni verdi, il colore della cresta si stava sciogliendo sotto l'acquazzone.
Disorientato, si ritrovò a vagare per gli infiniti vialetti del parco, intrufolandosi qualche volta tra i cespugli nel tentativo di scrollarsi di dosso quella pioggia insidiosa. Le lumache saltavano fuori dall'erba, i tombini puzzavano e le frasche degli alberi si piegavano al soffio di un vento leggero, ma freddo e insidioso.
Pioveva, eppure il cielo sopra di lui era sereno.
E le sue gambe tremavano come nelle sue peggiori crisi d'astinenza, incapaci di reggere oltre quella secchiata di dolore.
Un dolore incomprensibile.

“Hei, papà, piove con il sole?” domandò sorpreso Deidara, sentendo cadere tra i capelli e lungo la schiena appiccicosi goccioloni d'acqua. Poi guardò in alto e vide che erano passati sotto gli innaffiatoi, correndo a più non posso con la bici nel tentativo di evitarli.
“Mi spiace Deidara, ci hanno presi in pieno, ti sei tutto bagnato! Ora come lo raccontiamo a Lucy?”
Deidara rise e alzò le spalle.
“Le diremo che avevamo voglia di fare un bagno nel fiume! E in fondo, perché no? Oggi fa caldo”.
Dominique rise di fronte all'arguzia del figlio. Ahimè, l'intelligenza non gli mancava, neppure il bell'aspetto. Se solo la sua mente non fosse stata così... fragile.
“Cosa devi farmi vedere?”
L'aria fresca di fine settembre sferzava i loro visi e li ristorava un poco dalla violenza del sole pomeridiano. I campi erano arati e umidi, gravidi delle ultime semine autunnali, e i corvi erano già impegnati a far razzia. Oltre il nero dei campi c'era una rigogliosa boscaglia di rovi e sterpi che cresceva sugli argini, delimitata all'esterno da filari di vite.
“Vedrai, ti piacerà”.
Stavano passando accanto a un casolare abbandonato, utilizzato come deposito per le macchine agricole. Deidara si incantò a guardare di come la natura, l'erba, l'edera si riappropriassero delle costruzioni umane, aggredendole e distruggendole poco alla volta, con pazienza.
Da una delle arcate del portico uscì un cane di media taglia. Li stava rincorrendo, forse era solo e voleva reclamare del cibo.
“Papà...”
“Guarda Deidara, guarda! Una lepre!”
Dominique rallentò per permettere al figlio di catturare con gli occhi quella bestiola marrone che guizzava tra le messi. Ma Deidara aveva ben altro a cui pensare.
Uno, due, quattro cani sbucarono dal casolare e corsero loro incontro. Il più grosso, non appena li raggiunse, fece un balzo.
Deidara sentì il proprio sedile scaravoltarsi e, prima che se ne rendesse conto, era con il viso a terra e in bocca sentiva un disgustoso sapore di polvere mista a sangue.
Un grido familiare gli raggelò le vene.
Colto all'improvviso dal panico e sentendo i latrati, i respiri cavernosi e le raschiate dei cani vicino a sé, si alzò goffamente in piedi. Giusto in tempo per vedere quelle bestie che azzannavano suo padre, alle gambe, alle braccia, al torace, al collo.
“Oh mio Dio che sta accadendo!”
Un contadino giunse trafelato sul posto con le mani tra i capelli, cercando inutilmente di calmare i propri cani.
Ma era troppo tardi.
Deidara trattenne il respiro, la vista gli si annebbiava, le voci si riducevano a echi distanti.
Nessuno si prese cura di lui, svenne lì, in mezzo a quel viottolo che tagliava i campi, e quando si risvegliò il crepuscolo era ormai avanzato, e non c'era più traccia né di suo padre, né dei cani, né del contadino.
Soltanto la bici era ancora abbandonata sul selciato, macchiata di sangue scuro.
Non capendo cosa stesse facendo, alzò il veicolo da terra e iniziò a spingerlo a mano, incurante di bagnarsi sotto il getto degli annaffiatoi. Nella fretta di darsela a gambe il contadino aveva dimenticato di spegnerli.
Non sapeva in quale direzione dirigersi, non ricordava in quale paese abitava, non ricordava dov'era la sua casa. Aveva dimenticato ogni cosa.
Ore e ore dopo, mentre vagava nella periferia di qualche paesello di campagna, i fari di un'auto della polizia tranciarono il buio della notte.
Un omaccio vestito in divisa lo fece accomodare sul sedile e lo portò a casa della signorina Lùtair.

Tramortito, Deidara tentennò due passi in avanti e trovò sostegno nel tronco di una quercia.
Aveva gli occhi sbarrati e il respiro corto, come se stesse fuggendo dalla carica di una belva aizzata.
Era bagnato dalla testa ai piedi, i vestiti gli si appiccicavano addosso, l'acqua gli gocciolava dalla testa al naso e lungo il mento.
Incapace di sostenere oltre la forza con cui quel torrente di ricordi l'aveva investito, si accasciò a terra, incurante di sporcare i jeans nel fango.
“Deidara, ti senti bene?” la voce di Claude.
“Sì, sì Claude tutto bene, che cazzo ci fai ancora qui, non vedi che diluvia? Devo tornare a casa”.
“Ancora con quella storia?” Sbuffò Falin in lontananza. “È fatto”.
Deidara si liberò dalla presa di Claude e seguì i propri passi verso casa. La gente passeggiava pacificamente lungo i viali, senza ripararsi con ombrelli e impermeabili, fermandosi ad osservare i negozi, mangiando crêpe con gelato sulle panchine...
Inorridito, Deidara piegò il collo verso l'alto, strizzando gli occhi per il fastidio delle gocce che gli cadevano sul viso. Un acquazzone autunnale in piena regola, se non fosse che il cielo notturno sopra di lui era sereno, e le stelle brillavano come nelle più terse notti invernali.
Stava forse diventando pazzo?
Frastornato, riuscì a raggiungere la porta di casa. Lucy lo attendeva a braccia conserte, e se non l'avesse visto così sconvolto gli avrebbe sicuramente riservato due schiaffi ben posati in faccia.
“Deidara, cosa ti è successo? Sai che ore sono? Sai a che ora avevi detto di tornare?”
Senza neanche risponderle, Deidara evitò il suo sguardo e si chiuse in camera, coprendosi le orecchie per non sentire i suoi strepiti arrabbiati e preoccupati.
Si sdraiò sul letto e affondò la testa nel cuscino, cercando di svuotare la mente e dare un senso a tutta la confusione che aveva in testa. Nel tentativo di distrarsi, accese il cellulare e digitò il numero di Sasori per salvarlo in rubrica.
Con sua immensa sorpresa vide che era già presente sotto diminutivo, Saso. Un dubbio mostruoso lo colse, fu come se una cascata gelida lo investisse all'improvviso.
Si ricordò improvvisamente dove aveva nascosto la chiave del cassetto del comodino, per mesi non era riuscito ad aprirlo.
Come un febbricitante scardinò la plastica di copertura della presa di corrente, e trovò nell'anfratto interno due piccole chiavi grigie ricoperte di polvere.
Sbloccò la serratura e trattenne il respiro. Si sentiva come se stesse aprendo un cassetto della sua mente, chissà per quale motivo rimasto sigillato e ignoto per tanto tempo.
All'interno, tra alcuni preservativi, qualche canna e due o tre fogli scarabocchiati c'era un album di fotografie. Estate 2007.
Lo sfogliò con mani tremanti di eccitazione e appetito, mentre un'orrenda ombra gli strangolava la mente.
Lui e Sasori abbracciati, lui e Sasori nudi pieni di schiuma, lui e Sasori tra l'erba sulle sponde della Senna, lui e Sasori che si baciavano... lui e Sasori.
Papà era esistito eccome, era vissuto com'era morto, solo che lui l'aveva dimenticato.
E nel tentativo di ricordarsi di quel pomeriggio, in un giorno come quello in cui per un caso fortuito aveva ritrovato i suoi ricordi, aveva tatuato la data sulla propria pelle, per non dimenticare la morte del proprio padre quando li avrebbe persi nuovamente.
Per non dimenticare la sua esistenza.
Ora i muti singhiozzi di Lucy, la sera prima, acquistavano senso. Doveva essere difficile, per lei, fingere che Dominique non fosse mai esistito, assecondare la malattia del figlio, raccontargli estenuanti e ridicole bugie.
Deidara si portò due mani alla testa, soffocando un gemito nel cuscino e lasciando cadere l'album sul pavimento.
Sentiva il torace dilaniato da feroci convulsioni, lo stomaco preso da vuoti improvvisi e contrazioni, il viso e le guance imperlati di sudore freddo e appiccicoso.
Poco alla volta ricordava, ricordava ogni cosa.
Le gare di monopattino con Pierre nel cortile sotto casa, le facce dei suoi compagni di scuola elementare, le pareti della sua camera un tempo bianche, la collezione di figurine dei calciatori sul punto di essere ultimata che Lucy aveva accidentalmente destinato alla spazzatura assieme alle riviste, il suo bastardino Clash morto spiaccicato sull'asfalto la settimana dopo che l'avevano adottato, il pediatra che con fare sconsolato scuoteva la testa sulla sua cartella clinica e Lucy che piangeva, Gillè, la cocorita della zia che aveva visto magicamente aprirsi lo sportellino della voliera, la zia Georgette.
Riacquistando questi insignificanti seppur preziosissimi ricordi riacquistava se stesso, diventava chi era.
Ma con la stessa foga con cui il tempo perduto riemergeva, esso pareva sfuggirgli come fosse stato acqua viscida di olio.
Sasori era o era stato il suo ragazzo.
Come aveva potuto dimenticarlo.


*




Lucy entrò in punta di piedi nella camera del figlio e le si sciolse il cuore vedendolo immerso in un sonno profondo con ancora i vestiti addosso, con gli anfibi e la giacca di pelle.
Lo baciò sulla guancia nell'intento di svegliarlo con dolcezza. Gli aveva preparato la colazione.
Guardò con malinconia l'album di foto, abbandonato per terra, che lo ritraeva felice con Sasori. In fretta e furia rimise ogni cosa a posto, richiuse il cassetto e nascose le chiavi dietro la plastica che copriva la presa di corrente.
Deidara scese pochi minuti dopo, con uno spontaneo sorriso in faccia.
“Buongiorno”.
“Come mai così allegro?” gli chiese con fare circospetto, mentre toglieva il caffè dal fornello e serviva le brioches in tavola.
Deidara arrossì lievemente.
“Ieri ho conosciuto un ragazzo, cioè, lo conoscevo già prima... ma poi abbiamo fatto l'amore e mi piace davvero. Il suo nome è Sasori e... mi spiace non avertelo detto prima mamma”, rispose distrattamente, ingozzandosi di biscotti al cioccolato nel tentativo di attenuare l'imbarazzo.
“Detto prima cosa?”
Deidara le rivolse uno sguardo più che eloquente, e Lucy comprese all'istante.
“Lo sapevo già, sono tua madre, non un'estranea”.
È la quinta volta che mi confessi di essere gay.
“Quando ti farai crescere di nuovo i tuoi bei capelli biondi?” aggiunse poi in tono quasi supplicante mentre il figlio infilava la porta di casa con la cartella in spalle.
Non le rispose.

Per Deidara Lùtair iniziava un'altra giornata ventosa e radiosa di un sole malato.
Quell'oggi forse avrebbe fatto un salto da Josh, il suo bottegaio di fiducia. La cresta bisognava di una ripassata di colore, poi aveva adocchiato un particolare tipo di piercing da fare dietro al collo, un'accoppiata di due palline argentate unite sottopelle da un fermo, il Nape. Molto probabilmente avrebbe bruciato in quel modo i suoi ultimi risparmi.
Il picco di ricordi che l'aveva investito la sera precedente era di nuovo sprofondato nel nulla. Dominique non era mai esistito, Sasori era quasi uno sconosciuto, la zia Georgette rimaneva un'ignota, e il nascondiglio delle chiavi era nuovamente perduto.
Ma l'ombra del suo passato incombeva sempre su di lui come una volta pericolante, pronta a rovesciarglisi addosso.
Nonostante ciò la sua vita intermittente continuava ad andare avanti.
Come un valzer singhiozzante suonato con archi rotti.











Note dell’autrice(1):

questa storia è una sinfonia. Non nel senso positivo del termine, anzi direi che l'esito finale è piuttosto gutturale e disomogeneo. È una sinfonia nel senso che è un insieme di tante cose, in primo luogo è un insieme di tante canzoni, di tante melodie.
È ispirata a “Wake me up when september ends” dei Green Day, in particolare per quanto riguarda questo pezzo:


Here comes the rain again,
Falling from the stars,
Drenched in my pain again,
Becoming who we are.
As my memory rests,
But never forgets what I lost,
Wake me up when September ends.

Green day © 2004




Banalmente, era la consegna del contest, ma devo ammettere che dal punto di vista melodico non riesco a far coincidere la storia con questa canzone, non mi pare adatta. Ripeto, dal punto di vista della melodia e non del testo.
Ci sono altre due canzoni che dal punto di vista melodico hanno fatto da contorno a questa storia, una addirittura le dà il titolo: La Valse D`Amelie di Yann Tiersen, colonna sonora del film Le fabuleux destin d'Amélie Poulain. E ultimamente se n'è aggiunta un'altra, che trovavo perfetta per l'accostamento musicale e, per curiosità, andando a vedere il testo, vuole il caso che sia assolutamente perfetta anche per quanto riguarda le parole: My Ashes dei Porcupine Tree. Rispecchia benissimo lo spirito con cui ho scritto le ultime parti.
E parlando un poco della storia in sé, odio lo stile con cui l'ho scritta. Questa è una vecchia fanfiction, andando ora a vedere la data di creazione il file risale al 10 settembre 2011, allora avevo scritto fino a Continuò a modificare, intagliare, bucare e colorare il suo corpo, e solo in questi ultimi giorni l'ho ultimata, ma cercando istintivamente di conservare il vecchio stile con cui l'avevo iniziata. In sostanza n'è uscito un pasticcio. Anche per quanto riguarda la trama, visto che quando l'avevo iniziata non avevo alcuna idea né alcun finale in mente, ma non avevo nemmeno intenzione di puntare sul tragico. Infatti la storia inizia in un tono semicomico o comunque ironico.
Spero solo che non si noti troppo“il cambio di intenti”.
Finisco sprecando due parole su Deidara.
Deidara è afflitto fin dalla nascita da una strana malattia, dimentica sistematicamente alcune cose, soprattutto cose non troppo recenti, e a volte, secondo criteri del tutto casuali, recupera ogni ricordo, per poi dimenticarlo nuovamente dopo poco. È per questo che, in un momento di “rinsavimento”, si è tatuato il giorno della morte del padre, nella speranza di ricordarlo una volta che avesse perso nuovamente i ricordi. La pioggia immaginaria è dovuta all'interazione tra il passato che riemerge e il presente privo di memorie, ed è collegata al momento in cui Deidara passa sotto gli annaffiatoi. È il nesso che gli permette di ricordare, è la punta dell'iceberg del passato che sta riemergendo (per poi affondare di nuovo). E ovviamente è un riferimento alla canzone dei Green Day.












Seconda classificata al contest Naruto... All Stars! indetto da Shark Attack

20 su 20pt di Originalità: Vedendo nomi francesi, all'inizio avevo temuto una vendetta dell'ultima AU che mi avevi invitato, ma sono felice di vedere che stavolta la storia era molto più seria, incentrata e... sì, originale. Un buon lavoro sotto molti aspetti. Non ho una voce di valutazione su “Plausibilità” o “Coerenza”, per cui lo scrivo qui: Deidara, Lucy, Parigi, lezioni di italiano... credo che tu ci abbia dato fin troppo dentro con la globalità. 
15 su 15pt di Grammatica: Nulla da ridire, ma è anche vero che non mi sarei mai aspettata di toglierti un solo punto qui. 
7 su 10pt di Stile Narrativo: Sinceramente avrei preferito che avessi ripreso fin dall'inizio lo stile “attuale”, anche se capisco il sentimentalismo legato ad un lavoro vecchio. Purtroppo la prima parte risulta pesante, senza senso, mi ha fatta annoiare parecchio mentre mi chiedevo “perché non taglia?” e poi BOM!, finalmente si riparte sul serio, si comincia con la vera storia. Credo che ho fatto bene a leggere le tue NdA prima della fic (eheh), così ho avuto modo di accorgermi subito di una differenza tra due metà che comunque avrei notato, ne sono certa. Secondo me sarebbe bastata un po' meno introduzione e poi subito la parte “nuova”. 
Ah, la penalizzazione è anche per lo stile vecchio. No, proprio bruttino. 
10 su 15pt di IC Pg/pair: Ormai sono abituata alla tua versione di Sasori e Deidara, sempre distanti e distaccati dal contesto del manga, spogliati dei loro personaggi, messi semplicemente a nudo (e pure letteralmente) con le loro personalità e i caratteri di fondo. Deidara stavolta mi è piaciuto molto di più del solito, sai? Però Sasori è rimasto un po' sullo sfondo, c'era molta più Lucy. Mi piace il fidanzato dimenticato ma paziente, sebbene non sia molto IC, e come lui diventi il simbolo di una memoria perduta. Però, nonostante Deidara lo scordi spesso, lui rimane ed è molto dolce. Sasori ha molto in comune con la madre e mi sono piaciuti. 
10 su 20pt di Doti Musicali: Non mi piace che ti sei lasciata influenzare da più canzoni, così diverse tra loro e decisamente inappropriate. Capisco lo stile della storia, l'ambiente, la trama... ma il contest chiedeva una sola cosa e non è stata rispettata. Il collegamento tra storia e canzone è difficile da vedere, doveva essere più lampante per essere davvero una songfic. 
5 su 5pt di Gradimento del giudice: È la fic più bella che tu mi abbia mai consegnato, credo. Sì, c'era anche Sassongher (che ho sbagliato sicuramente a scrivere), ma questa ha una trama di fondo, una pianificazione, uno spessore del protagonista e anche della madre OC che non lasciano indifferenti, proprio per nulla. Mi è piaciuta l'idea del Deidara senza memoria e il modo in cui la sua vita di finzioni si regge instabilmente su lacrime e botte, capricci e scoperte per poi ripiombare qualche volta e per poco in una spiacevole realtà. 
Totale di 67 su 85 pt!


Note dell’autrice(2):

Volevo poi precisare che eravamo in tre partecipanti, sì insomma, per dire che non sono arrivata seconda su trenta! Comunque per me la cosa più importante rimane sempre il giudizio. 
Sono sincera, non mi impegno mai a scrivere una storia con l'obiettivo di arrivare prima, ma mi iscrivo a un contest perché ho voglia (prima di tutto) di leggere un giudizio imparziale. Poi se si sale sul podio... ben venga! Ma credo che questa non dovrebbe essere l'unica meta di chi partecipa a un contest.
Sì, ecco, assolutamente non per scatenare flames, ma non capisco chi magari liquida un giudizio bellissimo, accurato e magari anche soddisfacente con un "mi aspettavo di arrivare più in alto".
Comunque, come sempre, ringrazio e saluto la giudice (ciao Shark!) che stavolta si è superata in fatto di velocità. E poi... sono sempre curiosa, curiosa, curiosa, troppo curiosa di leggere i suoi giudizi. 
In parole povere, Shark, il tuo parere sulle mie storie mi sta molto a cuore, anche se non ne potrai più di Sasori/Deidara (ma d'altronde l'alternativa è Itachi e i suoi fagioli...)
...però, magari, agli amanti di questa coppia e ai miei lettori farà piacere vedere che sono tornata con un'altra loro storia, e che anzi anche grazie a Silver Wings (che saluto e ringrazio per la recensione, assieme alla mia fedelissima Killu ♥) mi è tornata voglia di scribacchiare sui miei due artisti preferiti.
Il mio ultimo augurio è che vi sia piaciuta!

Silvar, 8 dicembre 2012
Gli abeti, la campagna, lo stagno, il campo e le sterpaglie fuori dalla mia finestra sono bianchi e lanosi di neve.
Bentornato, Inverno.













15° classificata al contest Shock Me Now! indetto da RedLolly



-Stile e lessico: 10/15
-Grammatica e sintassi: 6/10
-Originalità: 16/20
-Personaggi: 10/20
-Gradimento personale: 9/15
- Shock: 12/20
Per un totale di: 63/100

-Stile e lessico: Purtroppo ho trovato questa storia molto confusionaria. Forse hai agito in questo modo per non anticipare il finale che presenta un colpo di scena non indifferente, ma in questo modo hai mischiato delle digressioni sul passato di Deidara con il presente, come quella sui piercing in mezzo ad un dialogo, oppure quella sull’istituto Molière: non si capisce se è una scuola privata per ricchi e in ogni caso perché vada in istituto del genere (Non ha poi nessuna utilità questo dettaglio ai fini della trama), o ancora il dialogo passato con Erik che pare buttato un po’ a caso in mezzo al discorso. Questi sono proprio errori di logicità nella costruzione della trama e dei paragrafi.
Un’altra cosa che ho notato e che vedrai nel dettaglio nella parte riservata alla grammatica sono due errori nella scrittura in francese. Conoscendo molto bene questa lingua penso che avresti potuto cercare un po’ meglio almeno la formazione dei plurali, no?^^

-Grammatica e sintassi:
Sono presenti diversi errori, alcuni anche piuttosto gravi, che provvedo a segnalarti: “anche nel caso (in cui) qualcuno l'avesse fatto”; “si era ridotto a vendere preziosi di famiglia, rubando soldi e preziosi (ripetizione)”; “per non venire scacciata com (come) un cane”; “Come intuisse (se avesse intuito)”; “Si issò sulle spalle il suo invicta (maiuscolo, è una marca, oltretutto non so se sia presente in Francia, ma pazienza, è un dettaglio)”; “Chi c'è (la virgola!) Deidara?”; Dominique Verleè (La scrittura in francese è sbagliata, al massimo si potrebbe scrivere “Verlée” o ancora meglio “Verlé”); “scaravoltarsi (???)”; “Un grido familiare gli raggelò (il sangue nelle) le vene.”; “Deidara, ti senti bene?” la voce di Claude. (il verbo dov’è?); “mangiando crêpe(crêpes al plurale in francese)”; “La cresta bisognava (aveva bisogno)”.

-Originalità:
La storia non era male, mi è piaciuto il piccolo escamotage della perdita di memoria, tuttavia, dato che sono una persona precisa e non voglio giudicare senza cognizione di causa, sono andata a cercare su internet informazioni su una malattia del genere e in effetti ho trovato strano fatto che sia così selettiva. Ti spiego meglio, Deidara sembra avere dei problemi di memorizzazione solo con i ricordi relativi a determinate persone, quando in realtà dovrebbero essere una serie di eventi casuali a essere dimenticati. Lui invece non ricorda più nulla di suo padre, nulla di Sasori e non dei singoli eventi saltuari… Quindi quella della perdita della memoria avrebbe potuto rivelarsi una cosa molto interessante ed originale se solo tu l’avessi utilizzata con un po’ più di criterio, mi dispiace…

-Personaggi:
Quello che davvero io non riesco a capire è il perché tu abbia utilizzato Deidara e Sasori in una storia AU in cui non c’è traccia del loro carattere originale. Sono dei personaggi completamente estranei rispetto a quelli che siamo abituati a vedere nel manga/anime. A questo punto io mi chiedo se non sarebbe stato meglio per te scrivere una storia originale, almeno non saresti andata a scontrarti con l’OOC che per quanto mi riguarda è inaccettabile e ti ha penalizzata moltissimo! Non ho nulla da rimproverarti su personaggi come Lucy, Dominique, Claude o Falin, poiché sono ben caratterizzati e addirittura realistici, ma sono Deidara e Sasori che non funzionano. Innanzitutto avresti dovuto spiegare cosa ci trovino uno nell’altro, perché io proprio non sono riuscita a capirlo! Perché si piacciono? Sasori ha una personalità troppo piatta che potevi descrivere meglio dato che hai usato un narratore esterno, mentre Deidara… Non è Deidara! Non c’è traccia della personalità del biondo artista bombarolo…

-Gradimento personale:
Ammetto che questa storia mi è parsa un po’ “strana”. Non mi ha convinto del tutto, soprattutto per il fatto che hai deciso di scrivere una storia su Naruto, ma i personaggi principali non hanno granché di IC con i veri Sasori e Deidara… Già i loro nomi sono inverosimili per in contesto AU in cui hai deciso di collocarli, ovvero a Parigi e in un presente più o meno vicino… Ho trovato la trama lievemente confusionaria (ad esempio con la digressione sui piercing posizionata in mezzo ad un discorso tra i protagonisti che stonava vistosamente), oppure dei dialoghi che mi sono sembrati un po’ innaturali e un finale a mio avviso un po’ tirato per i capelli. Poi ci sono troppi errori sia di grammatica che dal punto di vista logico/sintattico…
Tuttavia, non vorrei assolutamente che tu prendessi male la mia critica, ma che la usassi in modo costruttivo, per migliorare!^^

-Shock:
Purtroppo anche per quanto riguarda questa parte del punteggio non hai raggiunto un buon numero di punti. Sì, ammetto che alla fine c’è stato un colpo di scena che risolveva molti dei punti interrogativi che mi avevano colta leggendo i capitoli, come ad esempio gli strani dialoghi tra Deidara e Sasori, la data tatuata sul corpo del primo dei due, però… Non bastava. Non ho avvertito il batticuore, mi dispiace, perché non basta l’ambientazione lievemente degradata in cui Deidara si muove a scioccarmi. Non mi si è accapponata la pelle, ho solo diciamo “risolto” il mistero.
Forse se il racconto fosse stato sistemato in modo diverso avrebbe potuto funzionare, l’idea non era male, ma era troppo confusionario…

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