The Predictions

di NaiStella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 Una Bicicletta Rosso Fuoco ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 Ricordi d'Estate ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 Una Bicicletta Rosso Fuoco ***


Noi siamo uomini. Viviamo nel mondo di mezzo, al centro di tutto. Tra noi si nascondono altre creature. Tempo fa alcuni angeli, che ci osservavano dall’alto, decisero di venire tra noi e aiutarci a vivere. Da allora sono qui, sul pianeta Terra e condividono con noi gioie, paure, amore ma soprattutto persone. Si sono trovati così bene che hanno sposato donne mortali e dormito nelle nostre case per anni, amando e morendo. Non solo loro, però, erano abbastanza curiosi da lasciare il proprio mondo per vivere con gli uomini; anche alcuni demoni degli inferi decisero di cambiare dimora. Come gli angeli s’introdussero nelle città come umani qualsiasi, ci mentirono rinnegando una parte del loro essere e celarono la loro vera natura per vivere vite mortali. Secoli trascorsero mentre altri angeli e demoni si trasferivano come i loro simili nel nostro mondo. Sempre più ultraterreni s’innamoravano e, a volte, capitava nascessero esseri metà angeli e metà umani, o mezzi demoni e mezzi umani. Questi mezzosangue, si scoprì, avevano poteri soprannaturali e pericolosi. Per questo si decise di convocare il convegno degli Assoluti, ovvero un concilio che racchiudeva in se i supremi del mondo di sopra. Essi decisero di continuare a concedere sia agli angeli sia ai demoni di visitare la terra di mezzo, a patto di non generare questi ibridi umani. I due popoli accettarono subito, ma pur di evitare in ogni modo il concepimento degli eredi impuri gli Assoluti posero un divieto assoluto su questo. La punizione per la violazione era l’esilio. L’unico particolare che rendeva fragile la legge dei supremi era che non avevano a disposizione molti Guerrieri, angeli che controllavano chi la eseguiva e chi non punendo i trasgressori, quindi continuavano a nascere figli degli ultraterreni, anche se ben nascosti. Nel tempo, i supremi allentarono la presa sugli ultraterreni “umani” e la sacra regola, e per alcuni secoli tutto continuò senza intralci. Ma un giorno un'altra terra nacque, creando sgomento e timore nella terra di sopra e nella terra di sotto. Questa nuova terra era governata da creature magiche sconosciute ed inesistenti fino ad allora, che amavano vestire i panni di déi divinati nell’antica Grecia. Il loro Re, di conseguenza, portava il nome di Zeus. Questo nuovo regnante era inorridito dallo scompiglio che credeva di vedere sulla Terra, causato dalla fusione di umani, angeli e demoni nello stesso luogo, così istituì una vera e propria caccia agli ultraterreni mortali. I supremi non poterono fare nulla, e si sottomisero alla persecuzione, ponendo però un limite: angeli e demoni sarebbero solo stati esiliati e sarebbero rimasti in vita, mentre i loro figli non avevano alcuna protezione e potevano essere uccisi senza conseguenze. Zeus accettò, e la caccia cominciò. Non diedero troppo nell’occhio, sapendo di non potersi fare notare dagli umani, ignari di tutto ciò che accadeva, ma sterminarono moltissime centinaia di mezzosangue. Tutto ciò procedette ancora per molto tempo. Gea, una dea molto saggia che nonostante abitasse sul pianeta Olimpo non credeva realmente alle colpe attribuite al popolo ibrido dal suo re, scrisse una profezia in seguito ad un sogno ammaliatore che la colpì con la verità più sincera;
 
Un giorno di mezza estate, un angelo puro metterà al mondo la Prescelta.
Lei abbatterà il male e riporterà la pace nelle quattro terre.
Una notte di mezzo inverno, un demone sincero assisterà alla nascita di suo figlio, il Difensore.
Lui accetterà il bene e distruggerà la guerra nelle quattro terre.
Un Demone ed un Angelo consacrati dall’unione dell’amore 
Porranno fine alla tristezza e alla sofferenza.
 
Poco dopo aver scritto questo, vennero i soldati di Zeus e la uccisero per “presunto tradimento all’Olimpo e al suo Re”. Nonostante ciò, la profezia rimase nel cuore dei popoli magici, insidiando nei loro cuori la speranza della fine della guerra. Sì, guerra, perché l’Olimpo aveva ormai esagerato, e ,con la lucidità offuscata dal potere, aveva dichiarato battaglia agli inferi e al paradiso. Ma un giorno tutto cambiò.
                                                                                      
                                                                                             

Gahjera, Domenica 4 settembre
 
 
 
 
<< Moira! La colazione è pronta! >> Gridò mia madre dalla cucina. Il profumo di torta appena sfornata invase la mia camera. Aprii lentamente gli occhi e mi sedetti. Sentii i jeans sfregare contro le mie ginocchia, sulle quali era ancora appoggiato un libro; “Le leggende di Gahjera”. Probabilmente mi ero addormentata mentre lo stavo leggendo. Mi stiracchiai e mi guardai attorno. Le pareti color panna mi avvolgevano come coperte piacevolmente fredde, colorate a tratti da disegni e schizzi, e interrotte bruscamente da una libreria rosso sangue, piena di libri sparsi a casaccio. Lo ammetto, ero una lettrice affannata. Adoravo i romanzi d’avventura, i saggi sulla natura, tomi pesanti sulla storia e soprattutto, non avrei mai potuto vivere senza i racconti di fantascienza. Il libro che avevo letto la sera prima appartiene a quest’ultima categoria. O almeno credo. Scesi definitivamente dal caldo e morbidissimo letto, anche se letto non è la parola giusta per definire un materasso, quattro cuscini e un copertone un po’ vecchiotto. Mi avviai placidamente verso il bagno. Accesi la luce e mi guardai allo specchio. Oh. I miei capelli sembravano fieno ammassato sulla mia testa. Diedi qualche colpo di spazzola, presi un nastro e me li legai distrattamente. Scesi le scale a chiocciola appena fuori dalla camera, trascinando il mio corpo in trance fino alla cucina. 
<< Buongiorno, zombie! >> Scherzò mia madre, allegra e fresca come una rosa, la schiena verso di me e il viso tutto concentrato nel preparare qualcosa. La salutai con un mugugno e osservai la tavola. A-C-C-I-D-E-R-B-O-L-I-N-A. Ogni centimetro del tavolo in mogano era ricoperto di prelibatezze. Muffin, Waffles, Crêpes, frittelle al miele, biscotti al cioccolato, crostate di frutta, torta al cioccolato,  burro, pane alle noci, marmellate, e tanto,tanto,tanto ancora. L’acquolina mi colava ormai dalla bocca solo a guardarli. Di colpo mi sentii più sveglia e attenta ad ogni minuzioso dettaglio di quella colazione paradisiaca. Mi precipitai sul cibo, ma proprio mentre stavo per azzannare il primo toast alla nutella, mia madre mi fermò.
<< A-a. Stiamo ancora aspettando una persona. >> Sbuffai. Poggiai la mia preda zuccherosa sul piatto, e aspettai, battendo impaziente il piede sul tappeto azzurro. Dopo alcuni minuti mio padre comparì sulla soglia della cucina.
<< Buongiorno, angeli miei. Dormito bene? >> Papà semplicemente adorava chiamarci con quel nomignolo. Era assurdo, lo sapevo bene, ma per lui io e mamma eravamo davvero un dono del cielo. Lo diceva con tanta convinzione, che a volte non riuscivo proprio a capirlo. Si avvicinò alla mamma e la baciò dolcemente. Romantico!
<< Caro, siediti, o mi farai bruciare la frittata. >> Frittata! Quello che una volta era un semplice borbottio di fame ora era diventato un lamentoso urlo disperata ricerca di nutrimento. Papà si mise a capotavola, come sempre. Sembrava il comandante di una nave, con la schiena dritta e gli occhi imperscrutabili, che si perdevano in quel mare di cibo. Anche lui era della mia stessa opinione, decisamente.
<< Piccola Moira, come stai stamattina? >> Mi chiese, sorridendo.
<< Benissimo, papi! >> Poi mi voltai verso mamma e dissi, alzando un po’ il volume.<< Ma avrei molta fame! >> Finalmente i guantoni pieni di maialini ed ochette che le avevo regalato a natale lasciarono cadere l’ultima deliziosa pietanza sul tavolo.                   
<< Aspettate! >> Ci bloccò mamma, nel preciso istante in cui sia io che papà stavamo cominciando a trangugiare famelici le frittelle. Immobili, aspettammo che tornasse tentando di ignorare i provocanti profumi della colazione migliore di tutti i miei quindici anni di vita. Dopo alcuni minuti, la cuoca rientrò portando un pacchetto d’argento e appoggiandolo sulle mie cosce. Guardai prima lei, poi mio padre.
<< Perché? Non è il mio compleanno…>> Sorrisero.
<< Ma domani è il tuo primo giorno di scuola. >> Subito dopo quell’affermazione abbracciai la dolcezza di mia mamma e stampai un bacio sulla guancia di suo marito. Esitai per un istante, ancora serena dall’insolito comportamento dei miei genitori. 
Ma l’esitazione durò pochissimo. Strappai la carta in fretta e furia, e strappo dopo strappo la mia curiosità cresceva in maniera impressionante. Dopo aver tolto moltissimi strati argentei, raggiunsi una scatolina. Era blu, grande quanto il piedino di un neonato. Prima di aprirla, mi soffermai a guardare i miei genitori con gratitudine, mentre loro attendevano forse più impazienti di me l’apertura della morbida cassettina.  Non resistetti alla voglia di scoprire il mistero. Quando la aprii, davanti ai miei occhi brillava una catenina di metallo. Infilata in quel filo argenteo, c’era una gemma meravigliosa, celeste come gli occhini miei e di mamma, intagliata a formare un paio d’ali, incorniciata dallo stesso materiale al quale era appesa. La sollevai, portandola a scaturire di mille colori quando un raggio di sole lo colpì di sfuggita. Rimasi ad ammirare quel gioiello meraviglioso per dei minuti.
<< Ti piace? >> Chiusi la bocca, riprendendomi dallo stupore e guardando papà.
<< Se mi piace? >> Ero stranita da quella domanda. Come poteva non piacermi?
<< È assolutamente bellissima! Oh grazie, grazie! >> Li abbracciai entrambi fortissimo.
<< Era di tua nonna…>> Disse mamma, abbassando lo sguardo. L’uomo di casa le cinse la vita e la fece sedere sulle sue ginocchia. Io presi la collana, la allacciai intorno al mio collo e chiusi gli occhi. Diversamente da come mi aspettavo, non era affatto fredda, anzi, mi dava una sensazione di calore molto strana. Inspirai profondamente, riaprendo le palpebre. Battei le mani.
<< Adesso si mangia?>>
 
 
Il resto della giornata trascorse velocemente e in maniera molto tranquilla. Verso le due mamma andò dalle sue amiche per la loro settimanale bevuta di tè. Invece mio papà restò a casa con me l’intero pomeriggio, ma poi lo chiamarono dall’ospedale in cui lavorava per un’emergenza, e dopo avermi salutato con un bacio sulla fronte ed un “ti voglio bene” corse a salvare qualche vita come solo un primario di neurochirurgia può fare. Così, arrivate le cinque e mezza di sera rimasi sola, e decisi che trovare qualcosa di cui occuparmi era decisamente meglio rispetto a morire di noia. Mi guardai in giro, cercando ispirazione. Esclusi i compiti, perché la scuola non era ancora cominciata. Una torta? Non ero esattamente un’ottima cuoca. Fu quando mi cadde l’occhio su un cd che scattò qualcosa nella mia testa. Due mesi fa avevo preso in prestito dalla videoteca del paese un album e non lo avevo ancora riportato, così salii le scale che portavano fino a camera mia e la misi a soqquadro, ma non lo trovai da nessuna parte. Rimasi per un po’ ferma immobile, grattandomi la testa sperando di trovare una risposta all’improbabile quesito. E la risposta arrivò; circa una settimana prima mia madre era in cerca di una playlist per la festa di natale che ogni anno si preoccupava di organizzare nelle palestre della scuola elementare di Gahjera, quindi ovviamente aveva frugato nella mia stanza e si era tranquillamente appropriata di qualunque fonte di musica si mostrasse ai suoi occhi.
Andai nella camera dei miei genitori. Come al solito, quella meravigliosa casalinga era riuscita a far diventare la loro stanza più simile ad una perfetta foto da catalogo che al nido d’amore di una coppia di innamorati sposati da vent’anni. Perfetta, era tutto ciò che potevo dire per definirla; le lenzuola bianche erano ripiegate ordinatamente sul bordo del letto enorme, e dalla porta-finestra filtrava quel po’ di luce che basta a rendere un luogo accogliente e caldo. Andai a controllare tra i mille compact disc che tenevano accanto alla piccola radio, e lo trovai subito. Sulla copertina c’era il primo piano di una ragazza dall’aspetto un po’ cadaveresco. Però la musica non era male.
Soddisfatta del mio ritrovamento, raggiunsi quasi saltellando la mia stanzetta. Non mi preoccupai troppo della bellezza nell’abbinare i vestiti, non acconciai i capelli con molta accuratezza, in fondo, stavo andando solo in una videoteca per restituire un semplice album, giusto? Infilai la causa del mio viaggio in una piccola tracolla marrone e scesi in cucina. Scrissi un biglietto per mamma e papà, solo per avvisarli della mia piccola commissione nel caso uno dei due tornasse prima di me, anche se ne dubitavo. 
Poi andai in garage. Appena entrata dalla vecchia porta, tastai il muro alla mia destra e accessi la luce. Cominciai a cercare la mia bicicletta rossa, sperando fosse ancora in questa specie di ripostiglio incasinato. L’ultimo nome che si poteva utilizzare per definire quell’ammasso di inutilizzate cianfrusaglie era proprio “garage”, questo anche perché non c’era neppure la nostra macchina, lì dentro. Solo una moltitudine di quadri mai finiti da mamma, alcuni orologi a cucù, una “antica” collezione di macchinine che papà teneva da quando era piccolo e per completare l’opera centinaia di scatole ammassate l’una sopra l’altra, senza che nessuno di noi avesse la più pallida idea di cosa ciascuna contenesse.
In fondo a sinistra, tra un fascio di assi di legno e un’altalena rotta, c’era il mio amato mezzo di spostamento. Oramai, non si poteva neppure definire un unico veicolo; il rosso, una volta fiammante, che ricopriva la bicicletta era presente solo a macchie qua e là, le ruote finissime erano piene di scotch per tappare i buchi procurati da sassi poco appariscenti, il faretto anteriore pendeva distrutto con una meravigliosa crepa al centro e le catene erano più consumate della dentiera di mio nonno. Sospirai, pregando il cielo che quell’ammasso di ferraglia resistesse almeno per un piccolo viaggio. 
Montai sul sellino in pelle, e uscii dal garage, tra cigolii e strani rumori. Cominciai a pedalare lungo le strade di Gahjera. Ovunque guardassi c’era vita; una mamma che sgridava i propri bambini per aver fatto cadere il gelato alla sorella, alcune vecchiette sedute su una panchina tutte intente a spettegolare, un ragazzo che portava a spasso il suo cane. La città sembrava un piccolo formicaio frenetico anche di domenica. Ci misi solo qualche minuto di scomodo e irregolare tragitto per arrivare in videoteca. “MovieAndMusic”, si chiamava. L’insegna fluorescente aveva smesso di illuminare la maggior parte delle lettere, ed un fioco verde intenso galleggiava abbandonato appena sopra il portone di vetro. Poggiai il rottame al muro di mattoni.
Entrai, e dall’alto giunse uno scampanellio allegro. Davanti a me c’erano scaffali pieni di film, vecchi e non, di ogni genere. Decisi di curiosare un po’. Trovai una pellicola in cui Maryilin Monroe si innamorava di un uomo truffaldino, che per sfuggire con il compare ad una banda di mafiosi si travestiva da donna, ed entrava nella banda musicale della quale faceva parte la celebre attrice. Sembrava un film molto simpatico. Sorrisi, poi mi spostai a sinistra. Stavolta la copertina, anonima, intrappolava due vecchietti che si scambiavano un bacio sulle sponde di un laghetto di montagna. Continuai a soddisfare la mia irrefrenabile curiosità, fino a quando sentii qualcuno che si schiariva la voce dietro di me. Mi girai.
Rimasi immobile di fronte a ciò che vidi; un ragazzo alto, con i capelli corti ed una piccola cresta, mi fissava con i grandi occhi scuri, ed inarcava il sopracciglio, sul quale notai un gran bel piercing. L’abbigliamento era quello tipico di un amante della musica rock, indossava un gilet scuro in jeans, una maglietta con il volto di qualche cantante a me sconosciuto, e ai piedi delle scarpe completamente nere. 
<< Ha bisogno di una mano, signorina? >> Serrai la mascella di colpo, accorgendomi di essere rimasta per circa trenta secondi con un’espressione da pesciolina lessa.
<< Ehm…sì…sarei venuta a riportare un cd. >> Risposi, frugando nella tracolla ed estraendo l’album per poi porgerlo verso il ragazzo. Lui lo prese e lo guardò.
<< Fallen degli Evanescence. Bel disco. >> Io annuii e lui andò verso la cassa. Lo seguii. Da dietro il balcone, lo vidi digitare alcune parole sulla tastiera di un vecchio computer, di quelli a forma di scatolone bianco sporco. Io ammirai le strane smorfie che ogni tanto spuntavano sul viso abbronzato, come si mordeva le labbra sulle quali evidentemente c’era un altro piercing, o i movimenti involontari del suo sopracciglio se si concentrava o si stupiva di qualcosa. Ad un tratto smise di cercare qualunque cosa stesse cercando e tornò diritto.
<< Bene, la ringraziamo di aver riportato il suo disco dopo soli due mesi. >> Si fermò a guardarmi. Poi guardò il cd e ancora dopo tornò a me.
<< Lo ha preso in prestito per lei? >> Ero perplessa.
<< Certo. >> Lui sembrava stupito. << Come mai questa domanda? >>
<< Lei non mi sembra esattamente il tipo di ragazza che ascolta questo genere di musica. >>
<< Evidentemente signor…>>
<< Gabriel. >> Mi informò.
<< Gabriel, lei non mi conosce affatto. Mi piace scoprire cose nuove, anche se non sono ciò a cui sono abituata. >> Lui poggiò un gomito sul balcone e si avvicinò un po’ a me. 
<< Evidentemente signorina…>> Cominciò, con un voce ammiccante.
<< M-Moira. >> Balbettai, disarmata di fronte alla sua sicurezza e dal suo fascino.
<< M-Moira, dovrei conoscerla meglio. >> Si avvicinò al mio orecchio, e mentre io arrossivo come mai prima di allora, lui sussurrò; << E mi diverte molto metterla a disagio.>> Si allontanò, con una specie di ghigno stampato in volto, e io feci per andarmene.
<< Allora ci si vede, bionda! >> Urlò, mentre io stavo già attraversando l’uscio del negozio. Mi girai, squadrandolo con fare disprezzante, infastidita dal nomignolo affibiatomi per il colore dei miei capelli. E lui, per tutta risposta al mio ribrezzo, scosse la mano per salutare, esattamente come fanno i bambini

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 Ricordi d'Estate ***


Quando tornai a casa, la luce della cucina era già accesa, segno che almeno uno dei miei genitori era arrivato prima di me. Riportai la bicicletta cigolante nel garage ed entrai in salotto. Mamma stava cucinando qualcosa di molto profumato, e la tavola era già apparecchiata per la cena. Il biglietto era esattamente dove l’avevo lasciato prima di partire. Mi accasciai sulla sedia, stanca forse più psicologicamente che fisicamente.
<< Ciao tesoro! >> Mi disse. << Com’è andata in videoteca? >> Ci pensai su.
<< Diciamo bene. Ho solo incontrato un tipo un po’ strano. >> E infantile. Molto.
<< Sono contenta. > Smise di rimestare una specie di zuppa nella pentola e si asciugò le mani nel grembiule prima di girarsi verso di me con un occhiata complice. << Moira, c’è una cosa che non mi hai detto. >> Aspettai che mi dicesse cosa avessi dimenticato di dirle. Sperando che non fosse nulla di difficile da spiegare. << Cosa vorresti per il tuo compleanno? >> Il mio compleanno! Avevo completamente dimenticato che da lì ad una settimana avrei festeggiato sedici anni! Riflettei. 
<< Vorrei…una bicicletta nuova. >> Sinceramente, ero così distratta dall’incontro con Gabriel che dalla mia mente era sparito qualsiasi desiderio, così avevo puntato sull’unica cosa che sicuramente mi mancava. Almeno, mi mancava un esponente decente di quella categoria di mezzi di trasporto.
<< Sarà la bicicletta più bella che tua abbia mai avuto. >> Non che ci fosse una gran concorrenza, pensai. Lei mi baciò la fronte e tornò a cucinare. Quella sera, non successe proprio nulla. La cena trascorse quasi in silenzio. Tutti e tre eravamo molto stanchi, e appena finito di mangiare diedi la buonanotte ai miei genitori. Arrivata in camera mi buttai sul letto, sfiancata da quella strana giornata. Pensai a Gabriel, e provai subito un senso di grande confusione. No. Quel ragazzo doveva sparire dalla mia vita. Ancora prima di apparirci per bene. Era troppo infantile, arrogante, pigro e soprattutto…beh…era lui. Chiusi gli occhi, sperando in un buon sonno quando sentii un improvviso “tic”. Sollevai le palpebre. Mi guardai intorno, ma non vedendo niente tornai a dormire, pensando che fosse stato uno scherzo della mia mente stanca. “Tic”. Stavolta mi sollevai sedendomi, un po’ spaventata. “Tic”. Cercai l’origine del rumore, e al quarto “tic” vidi un sassolino colpire il vetro della mia finestra. Scesi dal letto e la alzai.
<< Ahi! >> Un altro sassolino mi prese in pieno la fronte.
<< Scusa, Momo! >> Strofinandomi il piccolo bernoccolo, mi sporsi dal cornicione. La mia migliore amica, Ginevra, se ne stava a qualche passo da casa mia, con le mani sulla bocca e gli occhi spalancati. Era davvero una pasticciona.
<< Tranquilla Gee…ao….>> Lei si tranquillizzò e soffocò una risata. << Sei un’idiota. >> Le dissi. Ginevra annuì, sorridente. Adoravo quella ragazza.
<< Beh? Non mi fai salire? >> Mi girai e andai a frugare nei cassetti del mio comodino. Tre anni prima, per il mio compleanno quel diavolo di diciassettenne mi aveva regalato una di quelle scale che, pur di essere chiamate in questo modo, vengono costruite con un bel po’ di pioli tenuti insieme da due corde di pessima fattura. Il suo obiettivo? Entrare in camera mia quando voleva, la sera. Il piano iniziale era quello di tenerla sempre appesa vicino al cornicione della mia finestra, ma dopo che mio padre era sbottato ordinandomi di non far entrare nessun ragazzo in camera mia di notte e dopo che Gee si era praticamente rotta una gamba in estate cadendo perché non l’avevo fissata bene, avevamo convenuto che la scelta migliore era quella di tirare fuori la “scala” solo nel momento in cui lei arrivava. Ah, e di fissarla sempre molto bene. Sua condizione. La mia migliore amica si arrampicò in fretta e con un po’ di difficoltà rotolò fino in camera. << Una curiosità, Gee…perché non usi la porta la prossima volta? Lo sai che i miei ti adorano. >> Le chiesi, seduta a gambe incrociate sul letto.
<< Sì, lo so, ma così è un po’ più…sai…avventuroso! >> Mi disse lei, mentre si stirava la felpa stropicciata dall’arrampicata sul muro di casa mia. Però era vero, i miei genitori la adoravano come se fosse una divinità. Dicevano che era la migliore compagnia che avessi mai avuto, e che mi faceva bene. Sinceramente, non ho mai avuto problemi a farmi degli amici, ma erano sempre leggermente, come dire, noiosi. Poi, circa quattro anni prima, avevo conosciuto Ginevra Bagle. Ed era cambiato tutto. Era una ricreazione come tante altre, mi ero seduta su una panchina con Georgia e Paulina, le mie “migliori amiche”, ovvero due sottospecie di oche bionde. Certo, volevo bene ad entrambe, ma erano davvero stupide. Insomma, credevano che Galileo fosse stato uno sfigato a non creare un profilo Facebook quando era diventato famoso. E poi, erano fissate con la storia della popolarità. E quando dico fissate, è perché minimizzo la cosa. Non facevano niente che potesse togliere loro anche solo un amico, per quanto quelli che loro chiamavano così lo fossero veramente, e così non capivano che tutti le odiavano. A volte, persino io. La cosa che mi dava davvero fastidio era il loro snobbare persone simpaticissime che però non avevano mille e cinquecento contatti in rubrica, come Melanie, una nostra compagna di classe silenziosa ma gentilissima. Io passavo tutte le lezioni di francese accanto a lei, ed era fantastica, davvero. Solo che un giorno Kyle, l’allora ragazzo di Georgia, si era preso una cotta per lei, e l’aveva baciata ad una festa. Da allora, le due oche le avevano reso la vita impossibile, con continue umiliazioni pubbliche, come quella volta che le bruciarono tutti i libri di storia mentre altre due “scagnozze” le sporcavano di fango i vestiti di ginnastica. Insomma, oltre che oche erano anche vipere. Solo che con me erano gentili, e dolci. E purtroppo, tendiamo ad accettare solo ciò che pensiamo ci faccia bene. Comunque, quel giorno stavano parlando dell’ennesimo scherzo fatto a Melanie, qualcosa che centrava con una tenda bruciata o con del succo d’ananas, e io decisi di andare in biblioteca per distrarmi un po’. Forse anche perché la vecchia signora che di solito stava la bancone dei prestiti era malata da circa due mesi e a sostituirlo era arrivato un ragazzo davvero molto carino. Entrai con calma, e mi stavo avvicindando proprio a Peter per chiedergli dove potevo trovare qualche libro di psicologia, materia per la quale provavo una passione pazzesca, quando sentii un urlo ed un tonfo. Mi girai di scatto, e vidi questa ragazza, la testa coperta da lunghi riccioli castani, distesa a terra che rideva, con un libro di Freud vicino a lei. Mi avvicinai. “Ti serve aiuto?” Le chiesi, mentre lei continuava a ridere.
“Haha! Sono una patata!” Esclamò, mentre si fermava per riprendere fiato. Scoppiai a ridere con lei e la aiutai ad alzarsi. Mentre quasi si strozzava con le risate. Quando finalmente ci calmammo, si presentò, porgendomi la mano.
“Io sono una patata. Il mio nome è Ginevra, comunque.” Sorrisi. Le strinsi la mano.
“Beh, io sono…” “ Un cetriolo?” Propose Peter. “…veramente mi chiamo Moira, piacere.” Fu allora che scoprimmo…insomma…noi. Nacque un’amicizia fortissima. Cominciammo a salutarci nei corridoi, poi a pranzare insieme, ci scambiammo i numeri, uscimmo insieme la sera e finì che diventammo migliori amiche. E mentre questo succedeva, dicevo lentamente addio a Georgia e Paulina. Non che avessimo proprio litigato, ma ci eravamo allontanate così tanto che ormai non ci dicevamo neanche “ciao”. Fatto sta che io e Gee eravamo davvero inseparabili. Lei aveva un carattere a dir poco meraviglioso, coinvolgente. Riusciva sempre a farmi ridere. Ogni singolo minuto che passavo con lei era pieno di felicità. Una volta, Ginevra venne lasciata da Frederic, il suo ragazzo, ed avevamo passato la serata tra gelato e vecchi film. Ma comunque, sorridevamo. Tornando a noi, Ginevra si era seduta accanto a me sul letto e si era tolta lo zainetto dalle spalle.
<< Allora, che si fa stasera? >> Mi chiese. Io la guardai stranita.
<< Perché, facciamo qualcosa? >> Lei saltò in aria, sconvolta dalla mia domanda.
<< Come sarebbe a dire “facciamo qualcosa”? Perché pensi che sia qui? >>
<< Per stare un po’ con me? >> Ribattei, alzando il sopracciglio.
<< Meglio. >> Moira tirò fuori dallo zainetto un top rosso con le paillettes e me lo lanciò. << Stasera si esce. >>


Sistemai le spalline della canottiera azzurra che mi aveva prestato Ginevra.
<< Continuo a pensare che non sia una buona idea. >> Dissi alla mia amica, mentre lei si faceva strada nel locale. Indossava dei pantaloncini e il top che aveva portato in camera mia.
<< È una pessima idea infatti. >> Si girò a guardarmi. << Ma è una mia idea. >> Quindi si fa, pensai. Tirai un po’ giù gli short bianchi, che non ne volevano sapere di stare al loro posto. Gee aveva avuto la folle idea di passare l’ultima serata in un locale in centro che si chiamava “la Grondaia”. Almeno era fantasioso come nome. Il lungo corridoio che si nascondeva dietro il portone d’entrata sembrava non finire mai.
<< Allora, Momo, sei pronta a ballare? >> Appena finì di dirlo, mi ritrovai di fronte un’enorme locale gremito di gente che ballava e beveva. In cima al soffitto era appesa una grande palla da discoteca che splendeva di mille colori. Una leggera nebbia aleggiava nell’aria, e l’effetto dei raggi colorati che galleggiavano era meraviglioso. Chiusi la bocca quando Ginevra mi prese per mano e cominciò a trascinarmi nel mezzo della folla. Era terribilmente difficile anche solo alzare un dito lì in mezzo. Qualsiasi movimento facessi, colpivo qualcuno, e avrei giurato di aver contato circa trecento volte in cui avevo dovuto dire “scusa” a ballerini infastiditi dalla mia goffaggine. Arrivammo finalmente in uno spazio leggermente più libero, dove c’era un grande bancone a fungere da bar. Ginevra si sedette su uno sgabello, e mi fece segno di seguirla. La accontentai.
<< Ma…non dovremmo ballare? >> Le chiesi. Lei mi guardò sconsolata, come se non avessi capito assolutamente nulla della vita e lei dovesse spiegarmi tutto da capo a fondo.
<< Un martini per favore. >> Chiese al barista, che andò subito a prepararlo, senza nemmeno preoccuparsi di chiedere se magari, ed era quello il caso, la mia migliore amica fosse minorenne e quindi non potesse bere alcool. Sicuramente un ottimo locale, davvero.
<< Vedi, Momo… >> Prese il cocktail e ringraziò il barista, passandogli una banconota da dieci dollari. << Non so se te ne sei resa conto, ma oltre ad essere un ottimo posto per ballare, questa è anche una vera e propria rete per pesci. >> Bevve un sorso. << Alcool, musica e ragazzi. Moira, dimmi che non vuoi passare una serata divertente ed avere un bel ricordo dell’estate! >> Io ci pensai su un po’. A volte mi stupiva quanto in fretta potesse passare da essere un’educata e rispettosa studentessa per bene a somigliare ad un’adolescente in calore piena di voglia di combinare casini. E riusciva sempre a trascinarmi con lei.
<< Però ne abbiamo già tanti…>> Dissi, ripensando ai mille pomeriggi passati al lago ed alle serate con gli amici. Lei posò il martini. Sospirò.
<< Senti, io ti voglio un bene dell’anima, e voglio che tu ti goda la vita. Questo posto è perfetto, e io voglio dimenticarmi una volta per tutte di Frederic. Per favore, fallo per me. Ho…hai bisogno di un “ragazzo estivo”! >> Sorrisi, pensando che in fondo aveva ragione. Non mi costava niente una serata in allegria. Il barista arrivò con due bicchiere di una bevanda verde che non avevo mai visto, né ordinato, e ce li piazzò davanti. Io e Gee ci guardammo, confuse.
<< Ve li offrono quei due ragazzi la in fondo. >> Il barista ci indicò un tavolino attaccato al muro, dal quale un biondino alzò il calice, invitandoci ad imitarlo. Ginevra non ci pensò due volte e lo imitò. Poi mi diede una gomitata.
<< Dai, Momo, divertiamoci. >> Timorosa, alzai il mio cocktail. Dopo aver bevuto un sorso, andammo dai due ragazzi, e appena ci avvicinammo, riconobbi il biondino.
<< Peter! >> Esclamai, sorpresa. Lui mi sorrise, e fu più affascinante che mai.
<< Moira. >> Si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia, cingendomi in vita. Come se ci conoscessimo da anni e questo gesto fosse la cosa più naturale del mondo.
<< Non mi sarei mai aspettato di trovarti in un posto come questo. >> Già.
<< Beh, se è per questo nemmeno io. È stata tutta un’idea della mia amica. >> Feci un cenno verso Ginevra, che era già occupata a parlare con l’amico di Peter, un ragazzo alto e moro con dei magnetici occhi verdi. Le diedi un colpetto sulla spalla.
<< Patata! >> Disse lui appena vide i suoi grandi occhi marroni, ricordandosi dell’episodio accaduto anni prima. Lei rise, e io mi sorpresi che si ricordasse di qualcosa che era accaduta tanto tempo prima e che con lui centrava davvero poco o niente.
<< Tu sei il bibliotecario della nostra scuola, giusto? >> Chiese Gee, bevendo un altro sorso di…qualunque cosa ci avessero offerto, e io la imitai pensando che, hei, cosa c’era di male nel volersi divertire un po’ e nell’accettare la gentile offerta di due amici?
<< Ero. La vecchia è tornata. >> Sorrise di nuovo. << Vedo che hai già potuto conoscere Lucas. >> Indicò l’amico con un movimento del bicchiere che aveva in mano. 
<< Piacere. >> Mi disse lui, chinandosi e baciandomi la mano. Poi alzò solo la testa e mi guardò dritto negli occhi. Se devo essere sincera, il suo sguardo mi faceva paura. Sembrava quasi...assatanato.
<< Sì, beh, Lucas è un po’ uno all’antica. >> Quest’ultimo tornò a parlare con Gee. << Allora, Moira, come stai? >> Io bevvi un sorso del cocktail, un po’ a disagio. Se c’era una cosa che odiavo terribilmente erano i silenzi in mezzo ai discorsi. Li odiavo, davvero.
<< Non male, diciamo. Tu? >> Lui alzò lo sguardo, tendendo le orecchie verso la canzone che era appena partita. Appoggiò il bicchiere, mentre mi prendeva per mano. << Adoro questa canzone, vieni! >> Urlò mentre mi trascinava via. Feci appena in tempo ad appoggiare la mia bevanda prima che entrassimo nella folla. Cominciammo a ballare. Beh, in realtà era più qualcosa di simile a me che muovevo i fianchi con le braccia in aria e lui che me li teneva. La musica era davvero forte, e mi sentivo un po’ assente mentre continuavo a muovermi, e Peter si avvicinava al mio orecchio.
<< Sei bellissima. >> Mi urlò, rischiando seriamente di compromettere il mio udito. Poi scese e cominciò a baciarmi il collo. Io continuavo a ballare, come se niente fosse, mentre cominciava a diventare più caldo. Lanciai un’occhiata verso Ginevra, e la vidi con la schiena contro il muro a baciare Lucas. Sorrisi. Avrebbe dimenticato presto Frederic. Continuai a ballare, mentre Peter mi lasciava segni sul collo. Stava diventando tutto man mano più sfocato, ovattato. Sentivo la musica come se fosse al di fuori di una bolla, e il caldo aumentava, ed aumentava. Il ragazzo che ormai aveva smesso di ballare da un po’ insinuò una mano sotto la canottiera, poco più in su dell’ombelico. Non mi importava molto, volevo solo ballare e…non ricordo esattamente cosa volessi. Stavo lentamente perdendo coscienza di cosa stesse succedendo, come se fosse tutto un grande sogno pieno di luci colorate come l’arcobaleno…forse avevo bisogno di un unicorno per vedere dove finiva l’arcobaleno…risi, ricordandomi che centrava qualcosa la palla con le paillettes. Anche se non capivo perché una palla dovesse vestirsi elegante. Ma non importava neppure quello. Intanto, il mio “ragazzo estivo” aveva cominciato a carezzarmi a schiena, e a trascinarmi lentamente fuori dalla mischia mentre andava avanti a baciarmi il collo. Si fermò vicino al bancone, e si sedette un momento mentre io ero ancora in piedi.
<< Io vado di sopra, Jim. >> Disse al barista. La bolla ormai era tutta intorno a me. Era così bella, non la volevo scoppiare, forse potevo volarci, con quella bolla. << Non è un po’ piccola per te Peter? >> Chiese l’altro, mentre puliva un calice.
<< Non lo sono mai. >> Rispose lui, mentre muoveva la mano sinistra sulla schiena bollente. Si alzò, e cingendomi la vita avanzammo verso le scale, vicino alle quali Gee continuava a divertirsi. Mentre salivamo, inciampai. Mi sentivo debole, sembrava che fosse tutto davvero un grande sogno. Lui mi prese in tempo, e mi sollevò tenendomi in braccio come fossi una principessa, anche se non con molta delicatezza, era più per arrivare in fretta “di sopra”. Arrivati al piano superiore, entrammo in una camera. Non era molto grande, abbastanza da contenere un letto a due piazze ed un comodino accanto, letto sul quale quasi mi gettò. Mi distesi e guardai il soffitto.
<< Sembra gelato. >> Sussurrai lentamente, riferendomi al colore bianco che ricopriva tutte le pareti. Intorno a me persino l’aria sembrava più leggera. Sentii la sua risata.
<< Sì, anche tu. >> Si distese sopra di me e ricominciò a baciarmi il collo. << Doveva essere proprio forte quella roba per averti ridotto così. >> Aggiunse, con un tono di voce più basso. La mano tornò a posarsi sopra la mia pelle calda, e stavolta stava carezzando il mio reggiseno. Senti che premeva contro il mio corpo, ma io non capivo molto. Di colpo, decise che il mio collo ne aveva avuto abbastanza e mi baciò sulle labbra, inizialmente in maniera quasi dolce, tenera, ma dopo poco lo rese un bacio più languido, passionale. Per lui. Perché io continuavo a pensare che il soffitto somigliasse terribilmente ad un gelato e mi faceva venire una grande fame. Presi la coperta con una mano, era rossa con un motivo complicato cucito a mano. Era anche morbida, carezzava il mio palmo quasi come faceva Peter con il mio seno. Il caldo era diventato quasi insopportabile, e quel gelato sembrava davvero buono. Il biondino si sollevò un momento e si tolse la maglietta velocemente, scoprendo un fisico modellato da grande sportivo. Allungai le dita per percorrere gli addominali definiti, sembravano il guscio di una tartaruga sul serio. Era divertente, come passare l’indice su delle montagnette di pane. Pane, gelato…avevo davvero fame. Lui si riabbassò, e mi accorsi che mi aveva sfilato la canottiera, anche se non ricordavo quando. Si mise a giocare con la chiusura del reggiseno. Ginevra me lo aveva fatto mettere apposta, era bianco a pois azzurri. A me non piaceva molto, ma lei continuava a ripetere “è sexy, vedrai che aiuterà la missione!” e io le do sempre ascolto. Comunque Peter sembrava apprezzarlo. Slacciò la cintura marrone dei pantaloni, mentre io giocavo con i suoi addominali. Stava facendo scendere la zip, quando di colpo qualcuno aprì la porta, facendola sbattere forte.
<< Moira! >> Quella voce mi ricordava qualcosa, ma non era gelato. Né pane. << Porco schifoso, togliti subito da lei! >> Vidi che qualcuno afferrava Peter e lo allontanava da me, per portarlo nell’angolo della stanza. Il ragazzo era girato, e stava urlando contro il biondo, mentre l’altro rideva costantemente. Ad un certo punto il moro smise di urlare, e gli tirò un pugno, talmente forte che Peter cadde a terra. Poi l’aggressore si girò verso di me, e lo riconobbi. Sorrisi.
<< Gabriel…>> Lui aveva il volto ancora contorto dalla rabbia. << Che ci fai qui? >> Cercai di chiedergli, e intanto giocavo con i miei capelli, che sembravano morbidi come la coperta. Si avvicinò e prese la canottiera che era finita sul comodino. Me la tese.
<< Ce la fai a rimettertela? >> Sbuffai, e mi tolsi il sudore dalla pancia mentre tornavo a guardare il soffitto-gelato. Gabriel si mise in ginocchio vicino a me, e mi alzò le braccia, per infilarmi la canottiera. Lo guardai meglio. Aveva i capelli scompigliati, il fiatone ed era evidentemente imbarazzato. Ad un certo punto, appena dopo aver infilato la mia testa nella canottiera, si fermò, e vidi che stava guardando…i pois. era dolce, sembrava che stesse arrossendo. Nei suoi occhi leggevo una certa voglia di finire l’opera di Peter…si scosse in fretta, schiarì la gola e finì di vestirmi. Poi fece un grande respiro. Sembrava davvero adulto. Prima impacciato, poi sicuro. Un po’ come Ginevra! Gee…
<< Ora ti porto a casa, angioletto. >> Sorrise, con un sorriso sghembo che sembrava non forzato, ma poco allenato ad apparire sul volto abbronzato. La bolla aveva cominciato a diventare più sottile, ma in compenso la testa mi girava molto. Mi prese in braccio, come aveva fatto Peter sulle scale, ma lo fece con una delicatezza ed un attenzione quasi maniacale, come se fossi un cristallo che rischiava di rompersi solo al soffiare del vento. Quando fu in piedi e io accovacciata fra le sue braccia, mi accorsi di essere stanca, e mi appoggiai al suo petto. Sentivo il suo calore contro la mia guancia, e il suo respiro abbassava e alzava la pancia avvicinandola ai miei fianchi.
<< No, angelo, tu devi restare sveglia. >> Mi disse, colpendomi con uno schiaffo gentile la coscia. Mugugnai qualcosa che voleva essere un “ho sonno”, ma rinunciai a far muovere la mia bocca e cercai di tenere gli occhi aperti mentre mi portava fuori dalla stanza color gelato. Non sembrava che gli pesassi molto, mentre scendeva tranquillamente, per quanto potesse, le scale. La musica era ancora forte e le luci vagavano da un punto all’altro del locale. Gabriel mi stava portando verso l’uscita quando il barista gli picchiettò la spalla.
<< Forse è meglio se prendi anche la sua amica. >> Disse, indicando Ginevra che non si era spostata di molto, ma come me aveva perso il top e i pantaloncini. << Tu resta qui. >> Mi ammonì il mio salvatore mentre mi faceva sedere su uno sgabello. << E, per favore, tienila d’occhio. >> Guardò quasi rabbioso negli occhi il barista mentre lo diceva, come se lo accusasse di non averlo fatto finora. Mi accasciai sul piano di legno.
<< Signorina, dovresti proprio rimanere sveglia, fidati. >> Quello che ora mi accorgevo esser un uomo e non proprio un ragazzo mi appoggiò contro la fronte una bottiglia gelata, con il risultato che scattai dritta e per un momento mi sentii più sveglia. Gli sorrisi.
<< Dov’è Peter? >> Gli chiesi, non ricordandomi molto bene quello che era successo.
<< Spero in prigione. > Tornò a pulire un calice con un vecchio straccio. Mi guardò, triste. << Stavolta ha davvero esagerato. >> Scosse la testa. Gabriel arrivò tenendo il braccio di Ginevra dietro il collo per riuscire a farla stare almeno in piedi, anche se sembrava messa un po’ meglio di me. E di lui, che aveva lo zigomo sotto l’occhio destro un po’ rigonfio e un taglio sul labbro. Evidentemente, Lucas era un po’ più determinato di Peter.
<< Scusa, Gabriel. Avrei dovuto capirlo. >> Disse quello che prima Peter aveva chiamato Jim al ragazzo. Lui sorrise.
<< Non importa. Capita. >> Gabriel lasciò lentamente cadere Ginevra sullo sgabello vicino a me. Lei si appoggiò ai palmi delle mani. Si girò verso di me, il volto triste, ma gli occhi persi nelle luci della palla da discoteca. Non doveva essersi divertita molto.
<< Gran bei ricordi d’estate, Momo. >> Annuii. Il mio salvatore moro si sedette alla mia sinistra, mentre Jim gli passava del ghiaccio avvolto in uno straccio.
<< Grazie. >> Disse a Jim. Sfiorò il bernoccolo con l’impacco. << Ah, porta dell’acqua alle ragazze. >> Il barista annuì e andò a riempire due bicchieri di plastica. Gabriel si lasciò sfuggire un gemito di dolore mentre premeva contro la ferita da guerra.
<< Lascia fare a me. >> Presi lo straccio dalle mani rosse del ragazzo e lo appoggiai delicatamente sotto l’occhio. Guardai per un attimo l’iride scura, tanto scura che pareva non distinguersi dalla pupilla, poi mi scossi, penando che probabilmente sembravo una psicopatica assatanata che si divertiva a fissare gli occhi meravigliosi della gente che veniva a salvarla dalle situazioni scomode. Sussultai, quando la bolla ricominciò a formarsi intorno a me. Chiusi gli occhi, sconsolata. Lui mi guardò e mi carezzò la guancia.
<< Povero angelo…>> Lo sentii sussurrare. Quel nomignolo suonava terribilmente sincero detto da lui. I suoni stavano ancora sparendo, e il caldo ricominciava a tormentarmi. Stavolta era diverso, però, da quando ero con Peter, infatti ero stanca, volevo solo che finisse e non ero meravigliata da tutto, senza freni inibitori. Gabriel notò che la mia situazione stava peggiorando,e prese il cellulare dal taschino della gilet che indossava. Chissà come mi aveva trovato…
<< Mike, ti ricordi del favore che ti ho fatto? >> Mi guardò, lo sguardo addolcito.
<< Beh, ho bisogno che tu mi dia una mano a riportare a casa due pecorelle smarrite…>>


Mike era un bel tipo, alto e piazzato, con gli occhi blu e i capelli neri raccolti in una coda di cavallo. Sembrava uno di quei camionisti che vedi nei film, solo che gli occhi erano quelli di un bambino, anche se si trovavano sullo stesso viso di una barba da uomo. Era arrivato poco dopo la chiamata “dell’amico a cui doveva un favore”, e insieme a lui ci aveva trascinato in una jeep vecchiotta. Mike aveva disteso con cura Ginevra sul sedile posteriore, con la testa sulle gambe di Gabriel, e aveva messo una coperta logora e sporca sulla povera ragazza. Era ancora sotto effetto di quello che avevamo assunto, qualsiasi cosa fosse. Eravamo già in viaggio da un po’, io ero seduta vicino a Mike davanti, e anche se ero terribilmente stanca, mi sembrava di essere sana. Sentii che dietro di noi Gee stava vomitando, e per fortuna i ragazzi ci avevano pensato ed avevano messo un secchio vicino a lei, o sarebbe stato davvero difficile ripulire quello schifo.
<< Mi dispiace per il disturbo, Mike. >> Gli dissi, stringendomi nell’altra coperta che aveva dato a me. Avevo tolto le scarpe, che erano fradice per la pozza nella quale ero caduta appena uscita dal locale, e da quello che io avevo ribattezzato “il magico cassetto di Mike” erano fuoriusciti due calze di lana molto calde, e sicuramente molto asciutte. 
<< Ti pare? Dovevo un grande favore a quella vecchia canaglia…>> Indicò Gabriel, che nel frattempo stava tenendo la fronte alla mia migliore amica. <<…e poi non si lasciano due ragazzine come voi in una situazione come quella. >>
<< Oh! Due ragazzine hai detto? >> Gli tirai uno schiaffo amichevole sulla spalla e lui rise con me. Era stato davvero gentile. Insomma, neppure ci conosceva! Mi venne un dubbio. << Qual’è il favore che ti ha fatto Gabriel, se posso saperlo? >> Gli chiesi a bassa voce, per paura che quest’ultimo ci sentisse, anche se quando mi girai per controllare stava dormendo profondamente come Ginevra. Guardai Mike, sperando in una risposta. Lui respirò a fondo.
<< Conosco Gabri da quando era un bambino cicciotello in fasce, la mia famiglia non è molto ricca e visto che i miei genitori lavoravano tutto il giorno per potermi dare un pasto la sera ed un tetto sopra la testa, restavo a dormire da Fatima, sua mamma. Crescendo, siamo diventati come fratelli, ma circa sette mesi fa è successo un brutto incidente nel cantiere in cui lavora…lavorava mio padre, e lui è morto. Mia madre è caduta in depressione, ha cominciato a lavorare giorno e notte per mantenere i miei studi, ma avevo cominciato a frequentare una brutta compagnia e quando è successa…quella cosa mi sono lasciato andare, e ho cominciato a fare brutte cose, ad andare in luoghi pericolosi, e a drogarmi. Sono andato avanti così per qualche settimana, poi una notte ero nella casa abbandonata nella quale andavo ogni santa sera e mi stavo per iniettare un’altra dose, quando lui ha fatto irruzione nella stanza, ha rotto in due la siringa, ha tirato un paio di pugni al tipo che me l’aveva data, mi ha guardato e mi ha detto; “tua madre ti sta aspettando”. Scoppiai a piangere come un bambino, e lui mi portò fino a casa mia, scusandosi con mia madre per il ritardo. Ha cominciato a venirmi a prendere la mattina prima di andare a scuola e la sera appena finite le lezioni. Pranzava con me, passava le giornate con me, a volte restava persino a cena per controllare che andassi a dormire e non fuori di nuovo. Solo che mia madre stava ancora male, così una domenica pomeriggio lui si presentò in cucina e cominciò a parlarle. Io non c’ero, ero andato a lavorare sul serio, ma quando tornai le valige erano pronte. Ci siamo trasferiti in casa sua, con la sua famiglia. Ho cominciato a studiare, mia mamma a lavorare di meno, ci siamo rimessi in piedi. E indovina? Ho passato l’anno con degli ottimi voti. >> Sorrise, tirando su con il naso. << Quando sono tornato a casa con la pagella, c’era solo Gabriel in casa e quando gliel’ho mostrata mi ha detto; “sono fiero di te”. Lui, capito? Lui a me.>> Aveva gli occhi lucidi, e li carezzai un po’ la spalla cercando di consolarlo. >>
 Terminò. Rimanemmo in silenzio per un po’. Dire che mi aveva sconvolto era poco, aveva completamente ribaltato l’opinione che avevo del ragazzo che mia aveva salutato con la manina quel pomeriggio.
<< Sai, non è un cattivo ragazzo. >> La voce di Mike mi fece quasi sussultare.
<< Adesso lo so…>> Sussurrai, mentre lui accostava la macchina vicino a casa mia.
<< Casa bianca in fondo alla via, giusto? >> Io annuii, e feci per scendere dalla macchina, quando mi cadde l’occhio sull’orologio digitale, e risalii di colpo chiudendo la portiera. << Sono le tre del mattino! >> Dissi, spaventata da quanto il tempo fosse trascorso in fretta, quella sera. << Non posso tornare a casa adesso, i miei mi uccideranno! >> Aggiunsi, dando un’occhiata alle luci spente della camera dei miei genitori.
<< Facciamo una cosa, stanotte dormite a casa nostra e domani vi riportiamo a casa, tanto di posto ce n’è! >> Disse Mike.<< E prometto che faremo i bravi! >> << Grazie, Mike. Ti sono davvero grata. >> Lui abbassò la visiera del cappellino.
<< Di niente, madama! >> Esclamò mentre faceva ripartire l’auto. Poi rise. << Sai, neanche tu sei una cattiva ragazza. >> Mi strinsi nella coperta.
<< Non ne sono più così sicura…>> Dissi flebilmente, girata verso il finestrino. La casa di Gabriel non era molto lontana dalla mia. L’ambiente, però, era totalmente diverso. Non si poteva certo dire che fosse un quartiere sicuro. Le case, se così si volevano chiamare, erano in rovina, le finestre rotte o inesistenti, e all’interno si scorgevano famiglie numerose radunate intorno ad un caminetto quasi spento per cercare di non perdere anche quel poco calore che si poteva trovare. Abbassai lo sguardo, pensando che invece io passavo le giornate in una casa enorme con tutto il cibo di cui avevo bisogno e ancora credevo di non essere felice. I rumori che percorrevano le vie erano i più disparati, dalle richieste ammiccanti di prostitute svestite agli spari tra gang senza pietà. Mike aveva spento la radio, come se volesse essere silenzioso per non farsi sentire dalla notte. Dopo poco, posteggiò la jeep vicino ad una casa abbastanza grande, e sicuramente in condizioni migliori di quelle viste fino ad ora. L’autista, da vero gentiluomo, appena sceso corse ad aprirmi la portiera e mi tese la mano, e scherzosa lo assecondai. Svegliammo Gabriel e facemmo molta attenzione invece a lasciare dormire Gee, sperando che non ricominciasse a vomitare. Entrammo in casa dalla porta principale, e in casa non si sentiva alcun rumore, neppure un’asse che cigolava o uno scalino scricchiolante.
<< Moira, noi non abbiamo una camera degli ospiti, ma Gabriel ha un divano letto ed io un materasso in più. Ti va bene dormire con lui, così io mi posso preoccupare che la tua amica dorma senza vomitare troppo? >> Annuii, e cominciai a seguirlo su per le scale.
<< Ginevra. >> Dissi. Mike si girò. << Si chiama Ginevra, comunque. >> Lui sorrise.
<< Ginevra…gran bel nome. >> Si fermò a guardare la ragazza che aveva tra le braccia, poi ricominciò a salire la rampa. Gabriel era appena dietro di me, silenzioso. Sinceramente, mi era sembrato strano che Mike non lo avesse neppure dovuto avvertire della nostra permanenza in casa loro, insomma, magari avrebbe voluto dire di no. Anche se dentro di me, sapevo che non lo avrebbe fatto. Mi sentivo un po’ un ladro mentre entravo furtiva nella camera dove avrei passato la notte, soprattutto quando si chiuse la porta dietro di me, lasciando un silenzio pesante tra me e Gabriel.
<< Se vuoi, mentre sistemo il divano, puoi andare a farti una doccia.>> Disse, mentre mi superava per cominciare a tirare via i numerosi cuscini dal mobile a fiori. Annuii, e senza dire una parola aprii la porta sulla quale era appeso un’insegna verde con la scritta “wc”. Era piccolo, conteneva giusto un gabinetto, un lavandino e una doccia, ma era anche molto pulito. Mi chiesi se fosse lui a tenere tutto ordinato o se invece sua madre facesse la casalinga o qualcosa del genere. Tolsi in fretta la canottiera e i pantaloncini, scoprendoli bagnati di sudore. Non era stata una gran bella serata, sicuramente. Mentre ero in macchina, avevo ripensato all’accaduto, rendendomi conto di cosa avesse fatto Peter. Ci aveva drogate, e aveva approfittato di me, quasi. Sicuramente, se non fosse arrivato Gabriel non si sarebbe fermato e…non volevo pensare a cosa sarebbe potuto succedere. Dovevo davvero tanto a quel ragazzo. Slacciai il reggiseno, e stavo per togliere le mutande quando quest’ultimo entrò in bagno di colpo.
<>Arrossì di fronte alla mia nudità, e abbassò subito lo sguardo, evidentemente imbarazzato.
<<…asciugamani. >> Me ne diede due, ed uscì di corsa dal locale. Sinceramente, non avevo neppure cercato di coprirmi, ed era strano da parte mia, perché ero molto pudica in quel senso. Tornai ad occuparmi della doccia, e appena sentii l’acqua fredda sulla pelle sospirai, felice di potermi finalmente rinfrescare. Uscii dal bagno con un asciugamano sul corpo, e vidi che Gabriel aveva già sistemato ordinatamente un letto dove io potessi dormire.
<< Avresti una maglia un po’ lunga per dormire, per favore? >> Gli chiesi. Lui era seduto alla finestra, con una sigaretta in bocca. Stava guardando la luna, o le stelle.
<< Guarda nel primo cassetto. >> Disse, senza voltarsi. Presi una camicia verde e me la infilai, accorgendomi che mi andava molto larga, e mi avvicinai a lui.
<< Non ti ancora ringraziato. >> Rivolsi lo sguardo alla luna. Era in mezzo al cielo, quasi piena, bellissima e incredibilmente luminosa nel nero tenebroso della notte.
<< No, non l’hai ancora fatto. >> Sorrise, aspirando un’altra boccata di fumo, e gettandolo nell’aria scura. Aspettai un po’, poi gli diedi in fretta un bacio sulla guancia fresca.
<< Grazie. >> Gli sussurrai. Andai a nascondermi sotto le coperte, quasi tremante per il freddo, e sentii che si alzava dal cornicione. Mi girai per guardare, mentre lui si toglieva la giacca, e la maglia. Il petto sul quale solo poche ore prima mi ero accoccolata era illuminato dalle ombre della luna, lui con quell’espressione seria mentre non staccava gli occhi dal cielo. Non si tolse i jeans, prima di andare a letto. Scese il silenzio.
<< Gabriel? >> La mia voce suonava terribilmente rumorosa in quel momento.
<< Mmh? >> Mugugnò lui.
<< Ho freddo. >> Gli dissi. Lui si girò verso di me.
<< Vuoi un abbraccio? >> Sussurrò, lentamente.
<< Sì. >> Lui abbassò le coperte e scese dal letto, per poi sdraiarsi sotto le coperte davanti a me e fermarsi a guardarmi per un attimo.
<< Che c’è? >> Gli chiesi. il suo sguardo mi faceva sentire esaminata, era come se cercasse di catturare ogni angolo del mio corpo. Lui si avvicinò e mi abbracciò.
<< Niente. >> Rimanemmo così, l’una nelle braccia dell’altro. Appoggiai le mani sul suo petto, che tremò al contatto con i palmi freddi. Lui fece per andarsene, ma io lo fermai.
<< Resta, per favore. >> Lui mi guardò dritto negli occhi, rubandomi il respiro per un istante, poi tornò ad abbracciarmi, anche se stavolta mi girai e lui avvolse le braccia attorno alla mia pancia. Era comodo, dormire contro il suo corpo morbido. Chiusi gli occhi, e mi bastarono pochi secondi per lasciare che quel caldo sonno mi prendesse con se.














* Angolo dell'autrice *
Ciauuu! Beh, a me questa storia piace, anche se ovviamente all'inizio è un po' noiosa perchè, diciamocielo, deve ancora svilupparsi! Lo ammetto, ho sbagliato il rating della storia u.u 
Sinceramente non volevo neanche metterci pezzi spinti, ma volevo che Gabriel arrivasse like a hero e salvasse la situazione :3 Team Gabri mode on:3
Comunque, io adoro Ginevra, anche perchè mi ricorda un po' me, e Mike DOVEVA esserci perchè è mega dolcioso! Cioè, lui è teneroso 0^0
Vabbuò, mi farebbe piacere sapere la vostra opinione, anche critica, sulla storia (tra l'altro, questo capitolo è satto un pochinoino strano da scrivere per la parte in cui lei è drogata, spero di averla fatta bene!)
Al prossimo capitolo <3
                                            N.

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