Pirates of London

di mina_s
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Una nuova fan fiction per farmi perdonare di non essere riuscita a concludere quella vecchia. Speriamo che questa storia non abbia lo stesso destino. Ricordatevi che è AU, quindi se la cosa vi potrebbe risultare sgradita siete ancora in tempo per tornare al pagina precedente. Per chi rimarrà: spero che vi piaccia; mi raccomando, lasciatemi una recensione, altrimenti rischio di perdere la motivazione e lasciar perdere tutto (non sto scherzando!).

Ecco quello che succede quando si guardano troppe puntate di ‘Law and order’.

Prologo

Un uomo alto, dai tratti decisi e con radi e scuri capelli percorse il corridoio tenendo in mano due confezioni di caffé, un’espressione benevola e quasi sorridente sul viso mentre si dirigeva verso il suo ambiente di lavoro.

A differenza della maggior parte degli altri, in quello in cui lavorava Richard Groves si trovava la stessa atmosfera ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana: uomini e donne che correvano avanti e indietro con passo deciso, costanti squilli di telefono, fogli e cartelle varie che passavano di mano in mano…

A chi non era abituato tutto questo sarebbe risultato fastidioso, specialmente alle sette di mattina; Groves invece, come del resto la maggior parte dei suoi colleghi, trovava quel costante brusio in qualche modo confortante, sicuramente familiare: lo faceva sentire nel suo habitat naturale, per dirla in altro modo, anche se dopo ore e ore di lavoro capitava sovente che tutti quei rumori e l’aria chiusa dessero alla testa.

Ma d’altronde, se il crimine non andava mai in vacanza, tanto meno poteva farlo la polizia.

L’uomo appoggiò una delle due confezioni di caffé sulla scrivania che condivideva con il suo compagno di squadra, proprio sotto il naso di quest’ultimo, un uomo che si sarebbe notato subito perfino tra la folla di Times Square a New York per lo straordinario colore rosso fuoco dei suoi capelli.

“Ecco qui il tuo caffè Eddie. E poi non osare lamentarti del tuo compagno!” Groves rise, appoggiando subito la sua bevanda un po’ più in là e togliendosi la giacca, per poi sistemarla sulla sua sedia.

Edward Gillette prese la sua confezione, la guardò per un attimo con aria assente, osservando l’orribile colore biancastro del cartone, il mento appoggiato sulla mano, e finalmente bevve un sorso del caffé; l’attimo dopo fece una smorfia di disgusto che alterava i suoi lineamenti, già non particolarmente belli (non nel classico senso della parola, almeno).

“Fa schifo.”

“Prego, Edward.” Il suo compagno di squadra nel frattempo si era già sistemato comodo e cercava nel cassetto la cartella del caso su cui lui ed Edward avevano iniziato a investigare il pomeriggio prima. “Non so sinceramente che caffé ci si possa aspettare dal fast food cinese dall’altra parte della strada.”

Gillette roteò gli occhi, stiracchiandosi sulla sedia come un gatto. Il suo collega notò, mentre sfogliava distrattamente la cartella fino al punto interessato, che non sembrava avere ancora la minima intenzione di tirare fuori l’elenco dei testimoni e cercare i loro indirizzi, come invece avrebbe dovuto fare.

Gillette, in effetti, si portava ancora indietro i suoi difetti da adolescente: quella fatica a prendere ordini, quel senso di orgoglio e, peggio di tutti, quella mania di lasciar perdere il dovere se non aveva voglia di svolgerlo (per fortuna, accadeva solo in casi eccezionali) non sembravano voler mollare la presa su carattere di quel detective, che altrimenti sarebbe stato un poliziotto perfetto.

Ma d’altronde nessuno è perfetto, pensò Groves leggendo l’indice delle prove -scarse- che avevano raccolto, mordendosi un’unghia; lui stesso a volte mancava di serietà e procedeva nel risolvere i suoi casi con una superficialità che non poteva certo giovargli.

Se c’era un detective nella loro squadra che però poteva essere considerato quasi perfetto, era quell’uomo poco più vecchio di Edward e poco più giovane di lui che, qualche metro più in là, era già talmente immerso nel lavoro che non si era nemmeno accorto del suo arrivo…

“Dimmi che non è vero.”

La voce di Gillette lo riportò alla realtà.

“Cosa?” chiese, alzando lo sguardo dal foglio. L’altro guardava con espressione incredula e allo stesso tempo affranta un punto dietro di lui, sporgendosi dalla sedia, gli occhi scurissimi ancora leggermente annebbiati dal sonno.

Richard si voltò ma non gli sembrò di notare niente di particolarmente interessante.

“Rebecca si è tinta i capelli di rosso?” Gillette alzò un po’ la voce, facendo tastare al collega la sua irritazione.

“A quanto pare sì.” Groves vide la segretaria camminare con dei plichi in braccio, dirigendosi fuori dalla porta. “E allora?” si girò, leccandosi un dito per poi girare pagina.

L’espressione quasi disperata dell’altro era perfino divertente. “E… E allora?!” sibilò, abbassandosi verso Richard perché lo potesse sentire meglio.”Tutti stanno iniziando a farsi i capelli rossi! Mi vogliono imitare! Se si continua di questo passo, perderanno la loro originalità!” Così dicendo, si passò entrambe le mani fra la chioma, uno dei pochi aspetti del suo aspetto fisico di cui andava fiero.

“Su, Eddie, si vede benissimo che, a differenza di quasi tutti gli altri, tu sei naturelle.” Il suo compagno ridacchiò.

“Sai che ti dico?” Gillette riprese la sua confezione di caffé in mano e la puntò verso l’altro. “Lo so perché fanno così. Mi invidiano il sangue irlandese, ecco. Tutti al giorno d’oggi vogliono essere nati nella mia isola, è un dato di fatto.”

“Sì come no, e parlare con quell’accento che non si riesce a distinguere dallo zulù.”

“Fanculo.”

“Su bambini, non costringetemi a farvi saltare il pranzo, oggi.”

I due non si erano nemmeno accorti che il capitano si era avvicinato e tentarono di ricomporsi, sebbene Swann fosse un uomo tutto fuorché aggressivo o punitivo e questo, dopo anni sotto il suo servizio, lo sapevano bene. Insieme ai pantaloni grigi tenuti su da un paio di bretelle e la cravatta nera che risaltava sopra la camicia bianca, quell’uomo, ormai non più giovane, portava sempre quel piccolo sorriso, quasi impercettibile, che lo rendeva un uomo difficile da odiare.

“Ha appena telefonato la scientifica, hanno analizzato i liquidi trovati sulla camicia della vittima. Andate a dare un’occhiata.”

“Sì, capitano.” risposero i due all’unisono. Sebbene il loro capo non desse ordini con quel tono freddo e fermo con cui quasi ogni persona al comando soleva fare, non poteva semplicemente neanche saltare in testa a qualcuno di non ubbidirgli. Era come un vecchio zio che non pretende niente da nessuno ma che incute comunque una grande autorità e un grande rispetto, senza farlo con le maniere forti.

Gillette diede uno spintone sulla schiena a Groves mentre uscivano, cosa che fece sorridere amorevolmente e scuotere il capo al detective James Norrington, che stava ordinando dei fogli sulla sua ampia scrivania.

Beh, non che fosse più grande delle altre, era solo che era molto più comodo averne una tutta per sé… Dopo che il proprio compagno se n’era andato. Ma a Norrington piaceva così. Aveva passato diverso tempo lavorando con un detective intelligente e professionale che l’anno prima era andato finalmente in pensione, e ora affrontava i suoi casi da solo mentre si attendeva l’arrivo di un nuovo componente nella squadra. Certo il carico era più pesante, ma James stava dimostrando all’intera centrale che se la sapeva cavare alla perfezione anche da solo, e non c’era cosa che lo avrebbe potuto rendere più orgoglioso e felice.

Beh, in effetti una cosa ci sarebbe stata, ma…

“Ciao, James!”

Un’amorevole voce femminile gli fece alzare la testa.

“Oh, ciao, Elizabeth.”

James inarcò le sopracciglia, cercando nel contempo di sorridere, ma non era certo una cosa facile, vedendo la donna che aveva amato -e che ancora amava, a dispetto dei suoi continui tentativi di dimenticarla- così raggiante, serena e bella.

La ragazza stava in piedi di fronte alla sua scrivania, un capello di lana rosa in testa e una grossa sciarpa intonata che nascondevano in parte il suo viso pallido. Cosa peggiore di tutte, gli sorrideva. Quel sorriso con cui mostrava i denti forti e sani e che rendeva i suoi occhi più beli e luminosi che mai, quel sorriso che lo aveva fatto innamorare di lei.

James deglutì.

Elizabeth era di qualcun altro.

“Sono passata a portare la colazione a mio padre, fra venti minuti io e Will partiamo per Manchester, stiamo lì tre giorni…”

“Ah, davvero?” Norrington forzò un sorriso al pensiero dell’uomo che gli aveva rubato la sua occasione di felicità proprio sotto gli occhi, e che non gliela avrebbe mai più restituita. Quel pittore da quattro soldi…

“Divertitevi.”

“Lo spero.” lei scrollò le spalle, prima di avvicinarsi a James e dargli un bacio sulla guancia. “Ci vediamo, James. Stammi bene.”

“A-anche tu.”

Elizabeth scomparve nell’ufficio del padre, chiudendo la porta dietro di sé, e il detective restò zitto e immobile fino a che non la vide di nuovo andarsene, girandosi per salutarlo con la mano. Norrington alzò debolmente la sua.

Quanto faceva male vederla, sapere che era felice, così insopportabilmente felice, e che proprio la sua felicità rendeva lui così affranto. E poi la ragazza sembrava non accorgersene nemmeno; tutto per lei era perfetto: Will, la sua relazione con lui, il loro appartamento, la loro macchina che rischiava di sfasciarsi a ogni metro, i loro cinque gatti… Ah, poi c’era James, che era un amico che poteva trovare sempre lì, ad aiutarla, a cui poteva promettere ogni genere di cose per poi tirargli il pacco… Sì, tornava comodo, avere un amico così…

Norrington sospirò, digitando un numero sul telefono.

Elizabeth aveva Will? Bene, lui aveva il suo lavoro. Il suo lavoro che amava e che lo rendeva appagato più di qualsiasi donna. Sì, l’altra metà della sua vita era e sarebbe rimasta il suo lavoro, che mai avrebbe lasciato, e che mai avrebbe spezzato il cuore a lui.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I

Pesanti stivali salirono i gradini della scala con un movimento meccanico, come se stessero battendo il ritmo base di una canzone.

Edward Gillette sospirò pesantemente tirando fuori le chiavi di casa, che tintinnarono, rompendo per qualche istante il silenzio che regnava nel corridoio.

Era spossato; appena entrato in casa, si sarebbe buttato sul divano e avrebbe portato fuori il cane solo quando il suo corpo si sarebbe deciso a muoversi e alzarsi. Questo naturalmente se mai lo avrebbe deciso.

Tuttavia non poteva negare di sentirsi in qualche modo appagato dopo quella giornata di lavoro; lui e Groves sembravano essere sulla pista giusta per quanto riguardava il caso che era stato loro affidato. La scientifica avrebbe confrontato il DNA trovato sui vestiti della vittima con quello dei principali indiziati il prima possibile e, se sarebbe combaciato con qualcuno di loro, il gioco era fatto. Finito. Sempre che qualche avvocato della difesa non si sarebbe messo in testa di accusarli per i modi in cui avevano estorto il DNA ai sospetti…

Aveva appena infilato la chiave nella serratura quando sentì dei rumori provenire dall’interno; non erano né chiari né tanto meno distinguibili fra di loro. Ma c’erano.

Gillette restò immobile, con la fronte corrugata, per qualche istante, mentre la sua mano scivolava lentamente verso il fodero della pistola. La sua mente, dopo anni di allenamento, fece un ragionamento molto rapido e che si rivelò essere l’unico corretto, e l’uomo sospirò, scuotendo la testa, quando si rese conto di quello che stava succedendo all’interno.

La porta della sua casa era blindata e chiusa a chiave, e il suo appartamento si trovava a un piano troppo alto perché qualcuno potesse esserci entrato dalla finestra. D’altronde suo fratello minore, l’unico, a parte lui, che avesse le chiavi, avrebbe dovuto essere in biblioteca. D’altronde però, non bisognava fare troppo affidamento sulle parole di Sean.

Entrò in casa, richiuse la porta alle sue spalle, lasciò cadere il casco per terra, si tolse la giacca, appendendola all’attaccapanni. E tutto questo senza rivolgere la minima occhiata verso il salotto, da dove sentiva provenire dei fruscii e bisbigli nervosi.

“Perché hai staccato prima oggi?”

“E perché tu non sei in biblioteca?”

Finalmente Gillette si voltò.

Lo sapevo.

Un ragazzo con i suoi stessi capelli rossi, ma più corti e arruffati e con un paio di occhiali sul naso, e una ragazza bionda stavano in piedi di fronte al divano, ma avevano tutta l’aria di essercisi appena alzati. Sulla poltrona c’erano un ragazzo con corti, ricci capelli neri -Andrew, il migliore amico di Sean, anche se Edward faceva ancora fatica a capire come un ragazzo così serio e con la testa sulle spalle avrebbe potuto essere amico di suo fratello- con in braccio una ragazza. Per terra, sparse bottiglie di birra vuote o semivuote e pacchetti di patatine in condizioni simili.

Gillette avanzò lentamente verso il campo di battaglia, le mani incrociate sul petto e un mezzo sorriso sulle labbra.

“Comodi?”

Suo fratello era così. Viveva in casa sua, beveva la sua birra, esauriva le sue dispense di cibo, ma non portava fuori il cane, né faceva le pulizie, né si sognava di pagare almeno una parte delle bollette. Quel diciottenne era arrivato a Londra da Belfast da pochi mesi per studiare Biologia e non si decideva ancora a trovare un lavoro part-time.

C’erano dei momenti in cui Edward avrebbe voluto buttarlo fuori, quando sentiva che Sean si approfittava un po’ troppo della sua buona indole -cioè sempre-. Poi si diceva che forse avrebbe potuto lasciarlo fuori di casa solo per poche ore, per spaventarlo e fare in modo che si desse una mossa. Poi si diceva che non lo avrebbe fatto.

Non poteva, non ne aveva il cuore. Era il suo fratellino, e gli voleva un mondo di bene. Era consapevole che anche Sean gliene voleva, sebbene avesse il suo strano modo di dimostrarglielo.

Suo fratello roteò gli occhi, gli altri si limitarono a guardare per terra, evitando il suo sguardo, come dei bambini colti a fare qualcosa che davvero non avrebbero dovuto fare.

Gillette sospirò, dirigendosi verso la cucina per prendersi anche lui una birra.

“Su, sgombrate. Credo che vi siate divertiti abbastanza a ridurre il mio salotto in un porcile.”

Sapeva che gli altri lo stavano mandando al diavolo senza aprire bocca, ma non gliene poteva importare di meno. Anzi, ogni volta che li mandava via, sentiva uno strano senso di potere farsi largo dentro di lui, e in qualche modo la sensazione riusciva a farlo sorridere.

“Edward, se vuoi che resti a pulire…”

Senza voltarsi, l’uomo riconobbe la voce ovattata di Andrew.

“No, tranquillo. Grazie comunque.” Apprezzava il pensiero, ma conosceva abbastanza bene quel ragazzo da poter dire che non era lui quello che sarebbe dovuto rimanere a ripulire il soggiorno.

“Sicuro? Lo faccio volentieri.”

Gillette si voltò verso di lui mentre chiudeva lo sportello del frigorifero, cercando di sorridergli nonostante non ne avesse la minima voglia. “Davvero Andrew, vai pure. Non è poi tutto sto granchè…”

L’altro non sembrava molto convinto, ma alla fine sospirò, ricambiando il sorriso. “Va bene. Ci vediamo, Edward.”

“Ciao. Andrew.” Mentre beveva il primo sorso di birra, Gillette non potè fare a meno di pensare a cosa non avrebbe dato perché Sean avesse le stesse maniere dell’amico.

Quando tutti furono usciti e la porta fu chiusa, Edward sentì i passi lenti del fratello avviarsi verso il corridoio. Prima che ne potesse farne anche solo uno in più, lo chiamò a sé.

“Sean.”

Si appoggiò al tavolo della cucina, continuando a sorseggiare la birra. Sapeva cosa suo fratello avrebbe voluto fare: chiudersi in camera, mettere la musica al massimo e oziare fino all’ora di cena, quando sarebbe tornato con gli occhi mezzi chiusi per la noia e il sonno. Ma le cose non sarebbero andate così.

Si trovò di fronte Sean, che lo guardava con un espressione poco interessata e la testa inclinata di lato, e gli fece un breve cenno con la testa, che però bastò per far capire al fratello minore cosa voleva da lui. Con passo strascicato e le braccia a penzoloni, il ragazzo si diresse verso il salotto, dove iniziò svogliatamente a raccogliere le bottiglie vuote.

“Sean, senti, hai diciotto anni.”

“E tu trenta.”

Edward non prestò attenzione alle sue parole. “Hai voglia di divertirti, di stare con la tua ragazza e con i tuoi amici? Okay, fallo. Ma non in casa mia.”

“Credevo fosse casa nostra.” replicò l’altro, senza guardare il fratello.

“Non finché non ti decidi a pagare le bollette. E comunque non puoi andare dalla tua ragazza?”

“I suoi genitori sono sempre a casa…”

“Beh, trovatevi qualche altro posto. Londra è grandina come città, sai?” lo canzonò.

“Ma tu che ne sai?!” Sean finalmente si alzò in piedi, guardando in faccia l’altro. “Alla mia età non avevi la ragazza! Beh, non mi sembra neanche che ora sia messo molto meglio…”

“Senti, ragazzino.” L’uomo puntò la bottiglia di birra in direzione del più giovane, come faceva di solito quando perdeva la pazienza o doveva dire qualcosa della massima importanza. “Io alla tua età mi pagavo l’affitto del monolocale con i miei soldi, quelli che guadagnavo facendo il barista, e di sera, invece di passare il tempo guardando il soffitto, mi riempivo di caffé come una tanica per poter studiare!”

“Sì, certo, studiare.” Sean gli diede la schiena, andando a raccogliere un altro gruppo di bottiglie. “Criminologia!” lo disse come se fosse una parola ridicolamente irreale.

“Beh, eh allora? Sbaglio o volevi farlo anche tu?”

L’altro non rispose.

“E’ soltanto che non hai il coraggio di dire di no a mamma e papà,” Edward si fece avanti a passo lento “e allora cerchi di accontentarli, per poi vantartene.” Detto questo, si sedette sul divano con un tonfo, come a voler segnare la sua vittoria definitiva.

“Vuoi startene zitto?!”

Il fratello maggiore rise di gusto rendendosi conto di quanto riusciva a irritare l’altro con poche parole. Adorava stuzzicarlo.

Vide Arnold, il pastore tedesco, spuntare fuori dal corridoio e avvicinarsi trotterellando.

“Ehi, e tu dov’eri finito?”

Il cane gli si avvicinò, distendendosi a pancia all’aria per farsi fare le coccole. Edward rise e allungò la mano, ma in quel momento esatto squillò il suo cellulare, e non perse tempo a tirarlo fuori dalla tasca dei jeans.

Sean non seppe dire esattamente quello che successe dopo; sentì il fratello scambiare due parole al cellulare, ma quando si voltò per controllare perché il suo tono fosse tanto incredulo, lui era già corso fuori dalla porta di casa e l’aveva sbattuta dietro di sé, non dicendogli una parola.

La stessa cosa avvenne a casa di Groves circa una ventina di secondi più tardi, quando Richard salutò improvvisamente la moglie che usciva dalla cucina con l’arrosto, senza spiegarle né dove andava né perché, prima di avviarsi fuori dalla porta principale.

To be continued…

Grazie alle persone che hanno commentato! Spero che continuerete a dirmi che ne pensate. Ah, una cosa: che ne direste se mettessi i link alle foto dei personaggi(degli attori, in questo caso), così vi fareste un’idea del loro aspetto fisico in questa storia?

A presto

Junemy

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Ringrazio di nuovo Michy90, Ministralrapsody e Silver moon, che mi hanno lasciato una recensione anche per il primo capitolo. Spero che il secondo sarà di vostro gradimento. Prima di iniziare però, vi avevo promesso una cosa…

-James Norrington -Elizabeth Swann -Wlliam Turner

-Weatherby Swann -Edward Gillette -Richard Groves

-Anamaria Velasquez -Sao Feng

E per Jack Sparrow credo non ci sia bisogno di una foto, lui è e rimane così.^^ Per i personaggi originali non ho voluto inserire una foto, primo perché non ne ho, secondo perché voglio lasciare spazio alla vostra immaginazione.

Come sempre, vi prego di lasciare una recensione per motivarmi ulteriormente a continuare a scrivere. Grazie e buona lettura.

Capitolo II

“Faccia con calma.”

Dire quella frase era ovviamente questione di abitudine. Perché in quella situazione tutto si poteva fare tranne procedere ‘con calma’ e prendersi il proprio tempo.

La ragazza si portò la tazza alla bocca, le lunghe dita sottili che racchiudevano l’oggetto tremavano.

“Mia… Mia sorella doveva andare in bagno, così ho deciso di aspettarla fuori dalla porta…”

La sua voce era tremolante e insicura. La donna si passò una mano tra i lunghi capelli neri, probabilmente nel tentativo di darsi una calmata. Sospirò prima di continuare, mentre i due detective aspettavano pazientemente che parlasse.

Gillette, seduto sulla scrivania a gambe accavallate, diede un’occhiata al suo collega Groves, seduto su una sedia accanto a lui; un’occhiata che poteva significare tutto e niente. Tutto il dipartimento, in fondo, era rimasto ammutolito alla notizia di quello che era successo… più che altro, a chi era successo.

“Dovevo fare una chiamata,” continuò l’altra, sempre fissando i fogli sotto le sue mani “è per quello che sono rimasta lì. Nel bar c’era troppa confusione…”

+

“Come potete chiedermi di calmarmi?!”

“Signor Turner, si sieda o dovrò farla scortare fuori da un agente!”

“Ah, sì?! Beh, sono curioso di vedere come ve la caverete senza la mia testimonianza!”

“Insomma, calmatevi tutti e due!”sbraitò il capitano Swann; gli altri due ubbidirono immediatamente all’ordine, guardandosi di sottecchi. “William, ti prego, siediti e cerca di calmarti.” Questa volta pronunciò le parole in maniera più pacata, come se si fosse pentito del tono di prima. Il giovane si passò una mano sul viso, sbuffando e lasciandosi cadere sulla sedia, lo sguardo a dir poco stravolto.

“E anche lei, detective Norrington.” il capitano lanciò un’occhiata grave al suddetto, che mise da parte il proprio orgoglio e ilo rancore che nutriva ancora nei confronti di quello che un tempo era stato il suo rivale, mettendosi a sedere di fronte a quest’ultimo, lo sguardo di un cavallo domato a stento sul suo viso.

Swann appoggiò entrambe le mani sulla scrivania, e sospirò.

“Sentite, è una situazione difficile per tutti.” James non potè non notare che la sua voce era leggermente malferma e che i suoi occhi chiari non stavano nella stessa posizione un secondo, come se cercassero qualcosa su cui appigliarsi. “Ma se non collaboriamo e se non manteniamo la calma, direi che le possibilità di intercettare i rapitori saranno nulle.”

James faceva fatica a crederci. Avevano sequestrato sua figlia ed era lui che imponeva agli altri di calmarsi?

Aveva avuto sempre grande e sincero rispetto per il suo capo, ed ora che dimostrava un atteggiamento così fermo e professionale questo rispetto si stava trasformando in ammirazione. Avesse avuto lui quell’autocontrollo in casi così estremi, avesse potuto tenere lui le redini delle sue emozioni, che correvano e lo trascinavano come cavalli scatenati…

“Su Will, devi raccontarci cos’è successo esattamente.”

Notò con non poca gelosia il fatto che Swann si rivolgesse al ragazzo in tono affettuoso e impersonale, cosa che con lui non stava facendo. Presa a giocherellare con la penna, dicendosi e ripetendosi che non era il momento per l’invidia e i ricordi.

Avevano sequestrato Elizabeth, e che lei appartenesse a qualcun altro non aveva importanza. Non in quel momento.

“Perché avete deciso di partire più tardi?” chiese, gli occhi fissi su Turner.

Il ragazzo sospirò, guardando da un’altra parte, nel vuoto.

“Mi hanno comunicato improvvisamente un impegno di lavoro molto importante, così abbiamo deciso che saremmo partiti verso sera, dal momento che non ci avrebbe causato problemi…” sospirò pesantemente. “Ci siamo fermati in un bar a prendere qualcosa, e a un certo punto lei ha detto di voler andare in bagno…”

+

“Ha sentito qualcosa mentre era fuori dalla porta?”

La ragazza deglutì, guardando per la prima volta il detective seduto sulla scrivania davanti a lei. “Ho sentito come una porta aprirsi, e poi… Non saprei come descriverli… Sembravano mugolii, ma mugolii soffocati…”

I due poliziotti si scambiarono un’occhiata fulminea.

“Non sapendo che cos’era esattamente, ho deciso di lasciar perdere. Per quel che ne sapevo, avrei anche potuto aver sentito male… Però dopo…” E qui, dopo un attimo di esitazione, scoppiò in singhiozzi, mettendosi una mano davanti alla bocca.

“Però dopo…?” la incoraggiò Groves, sporgendosi in avanti.

“C’è stato uno strillo, era una voce giovane… Mi ci sono voluti due secondi per ordinare le idee…” fece un’altra pausa; aveva un aspetto così sconvolto che perfino i due agenti, sebbene lavorassero con vittime di casi ben peggiori, ne vennero scossi. “Quando sono entrata, ho visto un uomo che le teneva una mano sulla bocca, mentre con l’altra le bloccava i polsi, ma prima che io sia riuscita a raggiungerli lui aveva già chiuso l’uscita di sicurezza dietro di loro… Ho cercato di aprirla, ma non ha voluto muoversi per diversi secondi… Quando finalmente ci sono riuscita, ho visto un uomo che correva verso una macchina parcheggiata poco distante, e ho capito che aveva bloccato la porta per non farmi uscire… Ho notato che dentro la macchina qualcuno si stava dimenando in modo convulso, come se stesse cercando di scappare, e ho cominciato a correre, ma dopo qualche metro la macchina era già partita…” Strinse il fazzoletto che teneva in mano, mentre i suoi singhiozzi giungevano all’apice.

+

“Una ragazza è rientrata nella stanza principale gridando che qualcuno aveva rapito sua sorella in bagno… Sono subito corso lì, ma Elizabeth non c’era…” William collassò, nascondendosi ilo viso nelle mani.

* * *

I quattro poliziotti erano disposto a semicerchio, ognuno seduto o appoggiato a una scrivania.

“Allora.” iniziò Norrington, gesticolando con una penna in mano, lo sguardo puntato sulla mappa della città davanti ai suoi occhi. “La seguono e vedono che si sta dirigendo in bagno. Uno di loro entra, la rapisce e trova una maniera per farla stare zitta.”

“E questo spiega i mugolii soffocati di cui parla la testimone.” aggiunse Groves, annuendo quasi impercettibilmente.

“In quel momento però si fa vedere la sorella della testimone, che probabilmente esce da uno dei bagni, e prendono anche lei, per paura che possa identificarli.” continuò James, camminando avanti e indietro di fronte ai suoi colleghi, tenendo lo sguardo in basso.

“Lo strillo.” mormorò Gillette, incrociando le braccia al petto.

“Anamaria Velasquez la sente e si precipita dentro, vede l’uomo che esce dalla porta di sicurezza con sua sorella, cerca di raggiungerlo ma un altro blocca la porta da fuori per consentire al complice di raggiungere la macchina, poi si mette a fuggire anche lui, lasciando la testimone dietro. Il veicolo era parcheggiato nel vicolo sul retro, quindi nessun altro ha visto niente.” Così dicendo, Norrington si sedette su una sedia, come a voler dire che il suo discorso finiva lì.

Ci fu qualche istante di silenzio, prima che il capitano Swann lo interrompesse. “Tutto combacia.” sentenziò, prendendo la sua tazza di caffé dalla scrivania. “Ora ci rimane da scoprire chi sia stato.”

“Abbiamo portato la testimone da un disegnatore, dal momento che è riuscita a descrivere l’uomo che le ha bloccato la porta.” disse Gillette.

“E ci ha anche fornito la descrizione della macchina, più alcuni numeri della targa. Stiamo cercando sul database.” aggiunse Groves, guardando il suo capo con la faccia di chi aspetta che gli venga detto qualcosa di soddisfacente.

Swann si limitò ad annuire. “Ma chi sono queste persone?” iniziò a camminare anche lui avanti e indietro, ricalcando i movimenti di Norrington di poco prima. “Escludo che siano dei maniaci o degli assassini, quelli non sarebbero stati tanto sconsiderati da compiere un rapimento in un luogo così pubblico, rischiando di venire sorpresi a ogni momento… Vogliono qualcosa da noi.” si fermò, fissando un punto a caso fuori dalla finestra.

Per qualche altro istante nessun fiatò, probabilmente tutti colpiti dalla fermezza e dal sangue freddo del loro capo, che perfino in una situazione così personale riusciva a svolgere il proprio lavoro senza farsi prendere dal panico.

“Sarà pure un’ipotesi azzardata,” iniziò Gillette, rivolgendo lo sguardo verso il capitano “ma è possibile che sia un criminale che ce l’abbia con lei, capitano?”

“Non lo escludo, anzi.” Swann si voltò verso gli altri detective, senza però guardarli. “Ce ne sarebbero tanti. E la testimone vi ha detto qualcosa? Ha ricevuto qualche minaccia prima dell’accaduto? C’è qualcuno che potrebbe avercela con la sua famiglia?”

Groves aveva scosso la testa per tutte le tre le domande. “Lei e sua sorella vivono da sole in un appartamento non lontano da qui, e conducono una vita del tutto pacifica, a sentire lei.” sentenziò, mordendosi il labbro inferiore.

Swann sospirò nuovamente, sorseggiando il suo caffè. “Ci contatteranno.”

In quel momento arrivò un uomo, avanzando velocemente verso il capitano con un foglio in mano. “Capitano, è pronto l’identikit.” Una volta che glielo ebbe passato, si allontanò alla stessa velocità con cui era venuto.

Gli altri tre detective si alzarono e si disposero intorno a Swann, ognuno osservando il ritratto in silenzio.

L’uomo era asiatico, con i capelli brizzolati, baffi neri e una cicatrice sulla guancia sinistra. Non dovevano essercene molte di persone così.

“Dovremo distribuire l’identikit in giro.” disse Gillette, ma nessuno rispose alla sua affermazione.

“Capitano?” Norrington alzò lo sguardo verso Swann, imitato dagli altri due.

L’uomo non battè ciglio. Tutto il suo corpo era immobile, la fronte corrugata e la bocca leggermente schiusa, ma i suoi occhi scrutavano ogni particolare del volto della persona ritratta come due fari. Passarono diversi secondi prima che li alzasse verso i colleghi, guardandoli uno per uno, come se si volesse accertare che fossero tutti lì, prima di parlare.

“Ho già visto quest’uomo.”

To be continued…

Che dite, la trama regge?

Il prossimo capitolo dovrebbe essere scritto un po’ meglio, questo è servito a spiegare cos’è successo esattamente e come si sono svolti i fatti. Spero che continuerete a leggere!^^

A presto

Junemy

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo III

“Quanti anni ha sua sorella?”

“Quindici.”

Diamine, era così giovane… Sicuramente era spaventata come un passerotto ferito e caduto nel territorio di un gatto.

Gillette si strinse di più nel suo giacca, cercando di scaldarsi. A quell’ora la temperatura era doppiamente fredda di quanto non lo fosse durante il giorno.

Aveva offerto di accompagnare Anamaria a casa, visto che quest’ultima non abitava lontano dalla centrale e che non era proprio sicuro per una donna camminare da sola di notte, sebbene la zona non fosse pericolosa.

Beh, a dire la verità c’era anche un altro motivo per cui si era offerto di riportarla a casa…

Cercò di osservare con la coda dell’occhio la ragazza, concentrandosi sul suo profilo; i suoi occhi erano ancora un po’ gonfi per il pianto, il viso stanco, il passo lento… Ma niente di questo la rendeva meno attraente di quanto non fosse.

Anamaria aveva catturato la sua attenzione da subito, anche se Gillette aveva messo da parte il suo interesse per lei per tutto il tempo che la ragazza era rimasta alla centrale, non distraendosi dal suo lavoro per un minuto. In effetti si sentiva un po’ in colpa perfino ora: la sorella di Anamaria era stata appena sequestrata e lui pensava a quanto lei fosse carina… Beh, era comunque un uomo. E poi ora aveva l’occasione di distrarsi per qualche minuto senza interferenze.

Anamaria era sicuramente bella, anche se non nel senso in cui la maggior parte delle persone avrebbe inteso quella parola: l’aspetto fisico era un punto a favore, certo, ma dietro a quello che magari un altro uomo avrebbe chiamato ‘un ben di Dio’ Gillette aveva visto qualcos’altro. La ragazza non aveva certo potuto mostrarsi com’era veramente in quella situazione per lei così disperata, ma da quel poco che sapeva di lei il poliziotto aveva intuito che doveva essere una persona matura e responsabile: sembrava più giovane di lui di diversi anni, e riusciva già a mantenere una casa e una sorella senza l’aiuto di nessuno.

Ci sarebbero volute più donne a questo mondo come lei.

Gillette si schiarì la gola prima di parlare; non gli era mai piaciuto stare in compagnia di qualcuno in silenzio. “Così lei e sua sorella vivete da sole?” sapeva già la risposta, ma non gli poteva certo importare, dal momento che avrebbe conversato con Anamaria.

“Sì.” lei si voltò verso di lui, continuando nel frattempo a camminare. “Nostro padre ci ha abbandonati poco dopo che Cristina è nata, mentre nostra madre è morta un paio di anni fa, quando noi eravamo già partite da un pezzo da Santo Domingo.”

Gillette corrugò la fronte. Se avesse saputo che la sua domanda avrebbe portato a quella risposta, non gliela avrebbe neppure posta. “Mi dispiace…Lo so che una frase banale da dire-”

“Le parole sincere non sono mai banali.” La ragazza si voltò di nuovo verso di lui, e Gillette non potè ignorare quel leggero brivido che gli corse lungo la schiena come avrebbe fatto un ragno sulle zampe sottili quando vide quel sorriso debole e dolce, il sorriso di una persona fragile e allo stremo delle forze ma che conserva dentro di sé almeno un po’ di speranza.

Ricambiò, prima di rivolgere di nuovo lo sguardo per terra.

Camminarono per ancora qualche minuto prima chela donna si fermasse di fronte a lui.

“Ecco, ci siamo.”

Gillette guardò in alto, per vedere un edificio stretto e alto in mattoni rossi che avrebbe potuto contenere quattro appartamenti. Aveva un’aria semplice, ma decisamente ben curata, con un piccolo e grazioso giardino sul davanti.

“Grazie per avermi accompagnato, detective.”

Gillette annuì. “Non c’è di che. Cerchi di dormire il più possibile, sono sicuro che sia stanca.”

L’altra scrollò le spalle, guardando un punto a caso oltre il cancello, stringendosi un po’ di più nel lungo mantello viola scuro. “Grazie per il consiglio, anche se non credo che andrò a lavorare domani…”

“Dove lavora?”

“Faccio l’ingegnere, mi sono laureata da non molto.”

Il poliziotto tutto si sarebbe aspettato tranne che tale disponibilità e cortesia da parte della testimone. Di solito le persone non erano troppo in vena di conversazione quanto diventavano vittime di qualche reato.

Gillette annuì; stava per congedarsi quando la ragazza lo bloccò.

“Detective…?” chiese, alzando gli occhi leggermente umidi e luminosi verso di lui.

“Sì?”

Anamaria si inumidì le labbra e deglutì, quasi come se avesse paura di parlare.

“Crede… Crede che mia sorella sia in pericolo?”

Il tono di voce era lo stesso di quello con cui aveva parlato mentre testimoniava l’accaduto di quel pomeriggio in centrale, e per un attimo lei sembrò davvero sull’orlo delle lacrime.

Il poliziotto cercò di rassicurarla, dicendole quello di cui lui e i suoi colleghi avevano già conversato: che avevano sequestrato la ragazza solo perché avevano avuto paura che potesse riconoscerli, che probabilmente li avrebbero ricattati e che comunque erano quasi certi che non avessero interesse nel fare del male alle vittime…

Già, però c’erano inserite quelle parole nel suo discorso: probabilmente, quasi

Sapeva che rischiava di deluderla; lui e i suoi colleghi erano poliziotti, ma non maghi. Non poteva promettere successo perché spesso le cose non andavano come avrebbero voluto o come avevano previsto, come succede quasi sempre nella vita. E faceva male pensarci.

La ragazza annuì quasi impercettibilmente, mordendosi il labbro inferiore.

Per quanto avrebbe voluto passare ancora un po’ di tempo con lei, sapeva che era ora che venisse lasciata in pace.

“Non esiti a chiamarci per qualunque cosa. Buonanotte.”

Aveva già fatto un passo indietro quando la voce di Anamaria lo fermò di nuovo.

“Detective… Grazie.”

Ancora quel sorriso, ancora quel bagliore nei suoi occhi neri, quella voce gentile e sincera…

Gillette non potè fare a meno di sorridere. “Dovere.” mormorò.

Lei lo guardò ancora per qualche istante, prima di tirare fuori le chiavi dalla tasca del cappotto ed aprire il cancello, che emise un suono stridente quando venne spinto.

Il poliziotto fece ancora qualche passo indietro, non scostando gli occhi dall’alta figura prima che quest’ultima fosse scomparsa oltre la porta del pianerottolo.

Si girò, sorridendo a sé stesso senza saperne esattamente il motivo. Anamaria era carina, gentile, intelligente, e in qualche modo così normale.

Approfittò dell’aria aperta per accendersi una sigaretta, sospirando di sollievo subito dopo il primo tiro. Maledisse quei dannati cartelli con su scritto ’vietato fumare’ che si trovavano nella centrale mentre osservava gli arabeschi di fumo che si disperdevano nell’aria e nell’oscurità.

Sì, quella ragazza gli piaceva. Molto. Ed era sicuro che gli sarebbe piaciuta ancora di più quando avrebbe avuto occasione di conoscerla meglio…

… Ma lei cosa poteva pensava di lui?

Il pensiero lo colpì così improvvisamente e duramente, come se un tegola gli fosse caduta in testa, che per poco non si fermò in mezzo al marciapiede.

Già, okay, l’aveva capito, lui era attratto da lei. E lei? Poteva possibilmente ricambiare il suo interesse in qualche maniera?

Scosse la testa, guardando per terra, pensando a quanto sciocco e sconsiderato era stato, non senza un po’ di amarezza. Era un uomo adulto, non un adolescente; doveva saper valutare la situazione in modo razionale e fare affidamento più sul cervello che sui sentimenti.

E no, si disse che non poteva sperare che nascesse qualcosa fra lui e Anamaria… Non ancora.

Era troppo presto anche per lui in fondo. Non aveva voglia di stabilire una relazione con una donna, non ancora. Non se la sentiva. Perchè in fondo era passato ancora poco da tempo da quando…

Il suo cellulare iniziò a vibrare e lui lo tirò fuori dalla tasca della giacca.

Era un messaggio di suo fratello, che gli diceva di tenere pronte le chiavi di casa quando fosse tornato, perché lui certamente non si sarebbe alzato dal letto qualora il campanello fosse suonato.

Gillettè ridacchiò, buttando via la sigaretta ormai consumata.

* * *

I suoi occhi e la sua schiena imploravano pietà, ma lui mise loro a tacere. Era abituato a ogni tipo di dolore, e quello fisico non si poteva certo comparare alla disperazione che provava, sebbene fosse un vero maestro nel tenerla nascosta.

La luce proveniente dallo schermo del computer portatile illuminava il suo viso che non mostrava il minimo accenno di stanchezza.

Doveva trovare quel nome.

Fece scorrere ancora la pagina dell’archivio, osservando le varie foto per riconoscere quella dell’uomo il cui l’identikit stava appoggiato accanto al computer.

* * *

Non si curò di accendere la luce, né di andare in bagno a darsi una lavata, né di prepararsi qualcosa da mangiare, né di togliersi i vestiti. Andò semplicemente a sdraiarsi sul suo letto, nella sua piccola camera immersa nel buio, con gesti talmente meccanici da non sembrare nemmeno quelli di un essere umano.

Rimase così a lungo, completamente immobile. E in effetti cosa avrebbe potuto fare?

Niente.

Aspettare.

Sperare.

Riporre fiducia nei poliziotti che seguivano il suo caso, e nelle parole che il detective Gillette le aveva detto…

Anamaria cambiò posizione quando i suoi pensieri si spostarono su di lui. Per l’ennesima volta, rimproverò se stessa per provare simili emozioni in un momento del genere. Non avrebbe dovuto sentirsi attratta da un uomo in un momento del genere, non avrebbe dovuto fare certi pensieri quando sua sorella era in pericolo, non avrebbe dovuto cercare di osservarlo un po’ meglio con la coda dell’occhio mentre lui la accompagnava a casa…

Ma era come se avesse visto in lui quel salvagente a cui avrebbe voluto aggrapparsi nella tempesta in cui si trovava.

Gillette le era sembrato così buono e disponibile, così premuroso e onesto… Sapeva che era una stupida a pensare queste cose quando a malapena lo conosceva, ma non bisogna essere degli attenti osservatori in fondo per capire qualcosa delle persone da subito…

E poi era così… così… Beh, dire che era bello non dava l’esatta idea. Madre Natura non lo aveva proprio graziato tranne per qualche cosa (come i capelli), ma nessuna donna si sarebbe sognata, secondo Anamaria, di non considerarlo attraente. Particolare, ecco, era un fascino particolare il suo.

La ragazza si passò una mano sul viso, sospirando pesantemente.

Lei e le sue sciocche fantasie. Il tempo delle fantasticherie per lei era passato da un pezzo.

Cosa aveva sperato? Che fra lei e Gillette nascesse qualcosa? Ma quanto era stata stupida.

Uno come lui doveva già avere sicuramente una ragazza, se non addirittura una moglie.

Si mise a sedere, decidendo di non pensarci più. Gli uomini erano inutili, soffrire per causa loro era inutile.

… Ma chi le diceva che lui l’avrebbe fatta soffrire?

Scosse la testa, cercando di scacciare quei pensieri come se fossero state fastidiose zanzare.

Accese la lampadina, e prese una foto incorniciata che teneva sul comodino. Erano ritratte lei e sua sorella, i visi sorridenti quasi schiacciati l’uno accanto all’altro. Portò le sue labbra sulle superficie del vetro, rimanendo così per qualche istante, prima di ritirarle e guardare l’immagine di sua sorella, sperando di rivedere quel sorriso un giorno… E lei, soprattutto.

“Ti ritroverò, Cristina. Te lo prometto.”

To be continued…

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo IV

“Ecco fatto.” Sospirò il capitano Swann, senza poter nascondere un piccolo sorriso soddisfatto, gettando sulla scrivania una breve pila di fogli freschi di stampa. “Sapevo che la sua faccia non mi era nuova.”

Gli altri tre poliziotti spostarono quasi simultaneamente lo sguardo dai fogli al loro capitano, lentamente e senza sbattere ciglio. La loro reazione bastò perché l’uomo più vecchio capisse che avrebbe dovuto dare qualche informazione in più perché gli altri potessero comprendere di che cosa stava parlando.

“L’uomo di cui la testimone ci ha fornito l’identikit. Sono rimasto fino a tarda notte sull’archivio a cercare qualche informazione su di lui, e ne è valsa la pena.”

Gillette afferrò una cartella che Swann aveva depositato di fronte a lui, iniziando a sfogliarla. “Ci illumini, allora.”

Il capitano si avvicinò alla lavagna bianca. “Elizabeth aveva solo qualche mese quando mi venne affidato questo caso.” iniziò, afferrando una penna.

“Sao Feng era un pezzo grosso della mafia cinese, che operava negli Stati Uniti come trafficante di droga e di armi, fra le altre cose.” La sua voce iniziò ad essere accompagnata dallo scarabocchiare della penna sulla lavagna. “Ad un certo punto volle trasferirsi momentaneamente in Inghilterra per allargare i tentacoli della sua piovra, ma qualcuno dei suoi mandò una soffiata grazie a cui Feng venne arrestato.”

“Da lei?” chiese Groves, alzando lo sguardo dalla cartella che Gillette gli aveva passato.

Swann annuì, senza fermarsi né voltarsi.

“Agli Stati Uniti venne concessa l’estradizione e Feng finì in prigione. Non ci rimase per molto, comunque: finì accoltellato durante una rissa con il portoricano che era il suo compagno di cella.” Swann fece un profondo respiro, riprendendo fiato, mentre lo schema che stava disegnando diventava via via più chiaro.

“Ma quello di cui nessuno si era abbastanza preoccupato,” continuò, tenendo il pugno alzato all’altezza della testa per un attimo, come a voler esaltare le sue parole “era che i tentacoli della piovra non erano stati completamente recisi. Feng ha infatti lasciato un figlio, che porta il suo stesso nome. Sappiamo che da qualche tempo è residente in Inghilterra e che sta portando avanti l’attività del padre, ma la narcotici non è stata ancora in grado di catturarlo.”

Lo stridio provocato dalla penna cessò, e il capitano restò per qualche istante a contemplare ciò che aveva scritto prima di voltarsi verso i suoi uomini, mettendo il tappo all‘oggetto che teneva in mano.

“E quindi l’uomo dell’identikit è…” Iniziò Norrington, scrutando attraverso gli occhiali lo schema.

“Uno degli scagnozzi di Feng che non riuscimmo a catturare per insufficienza di prove.” Swann concluse la frase per lui, prendendo alcune foto e dirigendosi di nuovo verso la lavagna.

“Se la sua supposizione è giusta capitano, allora tutto coinciderebbe…” sentenziò Groves, accavallando le gambe sulla sedia senza smettere di seguire i movimenti del superiore.

Non c’era bisogno di spiegare a che cosa alludeva il poliziotto. Tutti capirono qual’era il disegno che Swann aveva creato.

Quando il capitano finì di incollare le foto, completando il quadro della situazione, fece qualche passo indietro. “Feng ha un ottimo motivo per avercela con me, dal momento che ho incastrato suo padre.” Iniziò, indicando le foto e le frecce con la mano. “E uno degli uomini che hanno sequestrato Elizabeth lavorava per il vecchio Feng.”

Così dicendo si voltò, incontrando i visi degli altri poliziotti. “Anche se non ne abbiamo ancora conferma, mi sembra che questa linea sia del tutto accettabile.” sentenziò, prima di spostare gli occhi nel nulla. “Ora dobbiamo solo aspettare che chiamino.” sospirò.

Nessuno pronunciò parola. Era chiaro che Swann attendeva lo squillo del telefono con ansia. E come lo si sarebbe potuto biasimare? Perfino per gli altri agenti, che non avevano -quasi- niente a che fare con Elizabeth, l’attesa stava diventando snervante. Se i sequestratori avevano avuto intenzione di metterli sulle spine come un conduttore di un quiz televisivo fa con i concorrenti, ci stavano riuscendo alla perfezione.

“Nel frattempo ho chiesto aiuto alla squadra narcotici.”riprese Swann, incrociando le braccia al petto. “Hanno detto che avrebbero mandato uno dei loro agenti. Dovrebbe arrivare qui fra non molto.”

“Oh, Cielo, no…” sbuffò Gillette, gettando la testa all’indietro. “Quegli idioti non sano fare altro che irrompere nelle case armati ed equipaggiati come se stessero partecipando alla guerra in Iraq!”

“Se il vostro capitano è arrivato al punto di chiederci rinforzi vorrà dire che almeno a qualcosa siamo utili, detective.”

Gillette corrugò la fronte.

Tutti si voltarono all’istante per vedere a chi apparteneva la voce sconosciuta che aveva appena parlato.

Mi scuso per il ritardo con cui pubblico questo capitolo, ma fra un viaggio e l’altro l’ispirazione mi è venuta a mancare. Scusate anche se vi sembrerà troppo corto, ma mi è venuto così. Aspetto i vostri commenti.^^

Junemy

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo V

“Non ho chiesto alcun aiuto, detective.” Swann incrociò le braccia al petto, corrugando leggermente la fronte. “Sono stati i suoi superiori a stabilire che era una caso di vostra competenza.”

L’uomo a cui le parole erano state indirizzate procedeva nel contempo fra le varie scrivanie, con l’aria di un criminale spavaldo che entra in un saloon. Gli altri tre poliziotti lo osservarono accigliati mentre si avvicinava a loro, cercando però di contenere la loro incredulità.

“Mi sa proprio che qui avete perso il senso dell’umorismo, eh?” Il nuovo arrivato si fermò, guardandosi attorno con un sorriso che aveva un qualcosa di beffardo, mentre i suoi tre colleghi erano intenti a squadrarlo.

Trecce rasta, barba incolta, pelle abbronzata, abiti neo-grunge… Un personaggio che si sarebbe potuto incontrare molto più facilmente a un festival reggae che in un centrale di polizia; e, in ogni caso, nessuno si sarebbe stupito se, invece di un poliziotto, fosse stato lì in qualità di spacciatore di marijuana.

Swann sospirò prima di parlare. “Signori, il detective Jack Sparrow, squadra narcotici.”

Norrington, Groves e Gillette si limitarono a fare un gesto affermativo col capo, tutti troppo stupiti per poter dire qualcosa di intelligente.

Sparrow, dopo aver ricambiato il saluto a due dei poliziotti, soffermò lo sguardo su Norrington.

James, inconsapevolmente, strinse il bordo della sua scrivania, deglutendo a fatica.

Per un quarto di secondo, tutto, ad eccezione di loro due, sembrò fermarsi, come se tutto quello fosse soltanto un film registrato su DVD e lo spettatore avesse premuto il tasto ‘pausa’.

Per un quarto di secondo, notò qualcosa negli occhi di Sparrow, qualcosa di potente ed elettrizzante che gli mandò delle scosse elettriche lungo le gambe.

Poi, Sparrow si voltò nuovamente verso il capitano, come se niente fosse successo -ma qualcosa era effettivamente accaduto, Norrington era pronto a giurarci- , e tutto finì.

James sbatté le palpebre diverse volte, come se si fosse appena svegliato da un sogno (o da un incubo, non era in grado di stabilirlo con esattezza), non discostando gli occhi dal nuovo arrivato.

“Lavorerà con il detective Norrington, signor Sparrow.”

A quelle parole, Groves e Gillette si voltarono verso il loro collega e amico, guardandolo con un misto di pena, timore e… Diamine, che avevano da sghignazzare?!

“Credo che tu ti sia trovato un nuovo compagno, James.” commentò Swann, gli angoli della bocca quasi impercettibilmente arricciati all’insù.

Norrington osservò, con la stessa espressione con cui un immacolato studente di una scuola privata guarderebbe un ragazzo punk, il nuovo arrivato mentre si dirigeva a passo lento verso di lui con un ghigno pericolosamente malizioso.

“Oh sì, il famoso detective Norrington.” disse, inarcando le sopracciglia e mostrando alcuni dei suoi denti d’oro. “Si parla tanto su di lei.”

A qualunque cosa si stesse riferendo il suo nuovo collega, aveva uno sguardo che non convinceva James. Sentiva che quell’uomo avrebbe seriamente minato la sua pazienza, e si chiese se fossero davvero riusciti a lavorare assieme, in coppia.

Qualunque cosa avesse visto prima in quegli occhi neri, non c’era più. E sperava sinceramente che non la avrebbe nemmeno rivista.

Groves battè una mano sulla spalla di Gillette, richiamando la sua attenzione.

“E’ matita nera quella che ha sugli occhi?!” bisbigliò.

L’attimo dopo, si sentì il telefono squillare dall’ufficio di Swann.

Il capitano restò per un attimo immobile, prima di voltarsi e dirigersi a passi decisi verso la stanza, cercando di calmare quelle pulsazioni che si sentiva provenire direttamente dalla gola, e che gli risuonavano nelle orecchie.

Sarebbe stato il procuratore distrettuale, oppure il capitano di un altro distretto, di sicuro.

Oppure…

Una mano tremante raccolse la cornetta del telefono.

Deglutì, prima di appoggiarlo all’orecchio.

“Swann.” rispose.

+

Qualche minuto dopo

Si inumidì il viso con una salvietta bagnata. Lentamente. Molto lentamente.

Come ci si sente, capitano Swann?

Sospirò a fondo, con calma, guardando il suo viso spossato alla specchio. Da quante ore non dormiva?

Come ci si sente ad essere con le spalle al muro, a sapersi impotenti, senza possibilità di agire?

Chiuse gli occhi per qualche istante quando gli tornò in mente quella voce lenta e pacata, che gli aveva detto con tanta tranquillità parole che gli avevano fatto gelare il sangue.

Cosa si prova a sapere che qualcuno che si ama è ad un passo dal raggiungere un punto di non ritorno?

Quel dannato bastardo.

Era come se fosse legato a una corda appesa al soffitto e ci fosse qualcuno giù, per terra, che si stesse divertendo a punzecchiarlo con un forcone.

E la cosa peggiore era che non era ancora riuscito a trovare un modo per liberarsi da quella corda, diminuendo almeno in parte le sue sofferenze.

Non pretenderà che troviamo un accordo subito, vero capitano Swann? Dopotutto, la vendetta è un piatto che va servito freddo… Nel mio caso, congelato.

Una risata.

Swann battè il pugno sul bianco muro del bagno non appena si rese conto che Feng aveva avuto ragione.

Era impotente. Per il momento, almeno.

+

Era così stanco che dovette appoggiarsi al corrimano per non inciampare nelle scale.

Era rimasto parecchio seccato quando Swann gli aveva detto di andarsene a casa a riposarsi almeno per un po’, dal momento che aveva ancora delle ferie arretrate e che il suo aspetto non era dei migliori. Gillette aveva replicato, dicendo che si sarebbe preso una mezz’ora nella stanza con le brande, ma non era riuscito a convincere il suo superiore. Non lo aveva fatto per spavalderia o per mostrarsi forte, no: era solo che non aveva alcun desiderio di abbandonare -momentaneamente- le indagini proprio quando si era arrivati a una svolta decisiva.

Feng non aveva chiesto un riscatto. Non aveva chiesto né proposto alcun accordo. Niente. Ma, almeno, ora avevano una pista su cui indagare, e avrebbero potuto, forse, rintracciare il numero da cui Swann era stato chiamato.

Ma lui non sarebbe stato con gli altri. Se all’inizio se l’era presa male, ora non poteva che essere grato al capitano per avergli dato quella possibilità.

Probabilmente aveva qualche linea di febbre, dal momento che si sentiva accaldato e che la testa gli girava come se avesse fatto cinquanta giri su se stesso. Si domandava come aveva fatto ad arrivare a casa in moto senza rimanere ucciso.

Aprì la porta dell’appartamento con un pesante sospiro, e sussultò quando, un attimo dopo, si accorse che non era solo.

“Ehi, tranquillo.”

Gillette sospirò di nuovo, questa volta socchiudendo gli occhi per qualche istante, nel tentativo di darsi una calmata, mentre la sua mano lasciava il fodero della pistola.

“Cielo, Andrew… Mi hai spaventato.”

L’altro si alzò dal divano con un debole sorriso dispiaciuto dipinto sul volto. “Scusami, ma Sean mi ha dato una copia delle chiavi. Non intendevo fare irruzione.” rise, abbandonando il salotto e dirigendosi verso la cucina, dove era appena entrato Gillette.

“Mi dispiace, ma il tuo amico è in biblioteca a studiare. A quanto pare ha finalmente deciso di farsene qualcosa della sua vita.” Edward nel frattempo cercava nelle varie credenze le bustine del tè, voltando le spalle al ragazzo.

“Non importa… Non ero venuto per lui, in ogni caso.”

Il poliziotto si bloccò, piegato sulle ginocchia, gli occhi fissi sul tubo di sale posto davanti alla piccola confezione di cartone con le bustine del tè.

To be continued…

Ringrazio di nuovo tutti coloro che stanno commentando a questa fic: senza di voi non sarei neppure riuscita ad arrivare fino a qui!

Per Michy90: ho ricevuto la tua e-mail, ma per qualche oscuro motivo non sono stata in grado di rispondere. Comunque anch’io ho cambiato indirizzo; quello nuovo è emi_the_mole@yahoo.com.

Baci

Junemy

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Capitolo VI

“Una cabina telefonica.”

Sospirò James, appoggiandosi al tavolo, gli occhi verdi fissi su quella piccola luce rossa intermittente di forma circolare, posta all’incrocio fra due linee perpendicolari grigie.

“Una fottuta cabina telefonica.” Ripeté, non muovendosi di un millimetro.

Il suo nuovo compagno si voltò verso di lui, con un sopracciglio inarcato, quasi come se Norrington avesse detto qualcosa di ridicolo.

“Beh, non ti aspettavi mica che Feng fosse così stupido da chiamare dal suo cellulare… Vero?” chiese, con un tono molto vicino allo stizzito.

L’altro si voltò verso di lui con un viso talmente inespressivo da sembrare una maschera Noh.

Non passarono molti secondi prima che Sparrow abbozzasse il suo tipico sorriso, talmente malizioso e infido da sembrare quasi perfido. Ma in un modo molto, molto peculiare. “O forse ti ho semplicemente sopravvalutato, detective?”

James non si mosse, né si alterò. Era troppo orgoglioso per dare sfogo a quel ruggito che gli risuonava dentro, in quell’animo già ferito in maniera praticamente incurabile. Aveva deciso diverso tempo prima di costruire una barriera d’acciaio intorno a se’, impenetrabile e indistruttibile, al fine di non venire scosso per l’ennesima volta. Sarebbe resistito a tutto, proprio come gli animali della foresta resistono agli inverni più gelidi.

Eppure, quell’uomo stava minando pericolosamente la sua stabilità; gli sembrava quasi che un uccellino stesse battendo col becco quella barriera di acciaio, provocando dei suoni metallici che gli rimbombavano fastidiosamente in testa, e che per quanto cercasse di ignorare, continuavano a perseguitarlo.

Ma mostrarsi indifferente con Sparrow era l’unica cosa da fare.

Perché per quanto Norrington cercasse di rispondere qualcosa di pungente, Jack trovava sempre qualcosa da ribattere di ancora più pungente; era stata una battaglia persa fin dall’inizio, e l’unica alternativa era quella che James stava usando in quel momento: mostrarsi totalmente indifferente, freddo, superiore.

Ma sapevano entrambi che la realtà era un’altra.

“Il luogo da cui ha chiamato si trova esattamente qui.” disse l’uomo seduto al computer, indicando con l’indice il piccolo cerchio rosso sul monitor. Aggiunse anche i nomi delle vie che si incrociavano in quel punto.

“Potrei andare a dare una controllata io.” suggerì Groves, che era rimasto in silenzio fino a quel momento, facendo un passo verso gli altri due. “Chiedere in giro se qualcuno ha visto Feng o uno dei sospettati da quelle parti…”

“Ottima idea!” esordì Sparrow, raggiante, voltandosi verso Theodore e alzando le braccia con aria gioiosa. “E nel frattempo io e Jamie ce ne staremo buoni buoni ad aspettare gli aggiornamenti, vero?”

Persino l’uomo che operava al computer non potè fare a meno di corrugare la fronte con aria leggermente divertita a quell’uscita.

Norrington e Groves si scambiarono un’occhiata che era un misto di imbarazzo e disperazione, stando bene attenti a non farsi notare dal loro collega- che nel frattempo stava ancora sorridendo, un po’ da una parte e un po’ dall’altra, come un bambino alle giostre.

Già, quell’uomo era molto, molto più strano di quanto si erano immaginati la prima volta.

Dopo qualche rampa di scale e diversi corridoi, si ritrovarono in ufficio, e una visita inaspettata.

“Edward?” Groves inarcò le sopracciglia, fermandosi a pochi metri dalla scrivania sua e del suo collega, che stava sistemando la giacca sulla sedia. Il rosso alzò lo sguardo nel sentire pronunciare il suo nome, e ci volle davvero poco a Theodore per intuire che c’era qualcosa nel viso dell’altro che non andava. Probabilmente non si era ancora rimesso completamente, qualunque cosa avesse avuto.

“Già qui? Swann non ti aveva dato un permesso ieri sera?” chiese, avanzando a passi lenti verso Gillette, le mani in tasca e la fronte corrugata. Si tranquillizzò un minimo quando notò gli angoli della bocca dell’altro incurvarsi impercettibilmente verso l’alto.

“Diciamo soltanto che non mi andava di abbandonarvi.” Edward gli fece l’occhiolino, ma quel piccolo gesto non bastò certo a rassicurare al cento per cento il collega, non ancora convinto da quell’ombra che aveva visto dal primo istante negli occhi del rosso. Ma Gillette sembrava voler evitare l’argomento ‘salute’ a tutti i costi.

“Allora, cosa mi sono perso?” chiese, stiracchiandosi.

Groves fece appena in tempo a schiudere le labbra che Sparrow si fece avanti con aria baldanzosa.

“Oh, guarda chi si rivede!”

Gillette si irrigidì, puntando gli occhi sull’uomo come fanno i gatti quando si mettono in allerta.

“Ci sentivamo poco bene, huh?” il moro era già pericolosamente vicino all’altro, e ghignava; James sapeva che fra poco avrebbe detto qualcosa di particolarmente audace, o crudele, e guardò preoccupato il suo amico.

“Oppure… Oppure avevamo già organizzato qualche rendezvous e non volevamo mancare? Con quei capelli e questo fisico…” Jack ispezionò l’altro poliziotto con lo sguardo, da capo a piedi, senza smettere di sorridere, mentre a Gillette si poteva leggere il terrore negli occhi, sebbene cercasse di mascherarlo. “Scommetto che le donne cascano tutte ai tuoi piedi… E anche qualche uomo, giusto?”

Fu il colpo di grazia.

Edward mosse le palpebre, schiuse le labbra, si prese la testa fra le mani, scompigliandosi i capelli.

“Ma che avete tutti?” La sua sembrò quasi una supplica, sì, una supplica disperata.

“Io non sono gay! Io non sono gay!” la seconda volta il suo tono di voce si era parecchio alzato, e diversi poliziotti si erano voltati nella sua direzione, piuttosto sorpresi a quella constatazione improvvisa.

Ma nessuno fece in tempo a dirgli qualcosa, poiché l’attimo dopo Gillette stava correndo fuori dall’ufficio, quasi investendo una delle segretarie che stava portando una tazza di caffè a qualcuno, e che lo seguì con lo sguardo per diversi secondi, gli occhi che emanavano fiamme.

Ci fu qualche istante di silenzio prima che Sparrow si voltasse verso il suo collega, facendo ondeggiare le treccia rasta sulle spalle. “Mi sa che quello ha bisogno di farsi vedere da un medico.” disse semplicemente, la fronte leggermente corrugata.

James lo guardò con un sopracciglio inarcato, le braccia incrociate al petto. “A me invece sa che quello che si deve far vedere da un medico -da un bravo medico- sei tu, Sparrow. Chissà che qualche buona anima venga risparmiata da te.”

L’altro lo guardò, di nuovo, esattamente come aveva fatto la prima volta che si erano incontrati, e per un attimo Norrington sentì le proprie ginocchia crollare, insieme alle proprie certezze… Di nuovo.

Jack scoppiò a ridere, passando oltre e dirigendosi verso quello che ormai era anche la sua scrivania.

Gli altri due aspettarono che si fosse allontanato, tenendo lo sguardo basso, prima di proferire parola.

“Beh.” iniziò Groves, schioccando la lingua. “Credo che dovrò aspettare qualche minuto prima di chiedere ad Edward se vuole venire con me. Conoscendolo, a quest’ora sarà fuori o in bagno a fumare.” Constatò, ispezionando alcune carte sulla sua scrivania.

“Già.” sospirò James, mettendosi le mani in tasca e scrutando la porta da dove era uscito il suo collega poco prima.

In effetti il suo comportamento era stato decisamente insolito: non era da Edward sclerare per una battutina. Non era da Edward sclerare e basta.

Ma che avete tutti?… A chi si era riferito con quel ‘tutti’?

“Ma che gli è preso?” chiese, togliendosi gli occhiali, senza smettere di osservare l’uscita e non battendo ciglio.

“Non lo so, ma ieri non era in quelle condizioni.” Groves scosse la testa, voltandosi anche lui in quella direzione e appoggiandosi alla scrivania. Sembrava che attendessero il loro amico tornare da un momento all’altro, ma in realtà sapevano che non sarebbe successo.

“Qualunque cosa sia accaduto, deve averlo scosso parecchio.”

+

Riuscì ad accendersi la sigaretta a stento a causa delle sue mani malferme.
Ispirò a fondo, prendendo una lunga boccata a appoggiando la testa al muro di mattoni dietro di sé, il labbro inferiore che tremava leggermente.

Era tutto così fottutamente sbagliato.

Sembrava che il mondo intero dal giorno prima avesse deciso di fargli andare tutto storto, e nel peggiore dei modi. La sua esistenza da diverse ore era diventata insopportabile: aveva i nervi a fior di pelle, e si sentiva scoppiare per ogni piccola cosa che non andasse nel verso giusto.

Ecco, si era pure dimenticato la giacca in ufficio, e fuori si gelava.

Fanculo, pensò, prendendo un’altra boccata e sospirando pesantemente, ignorando le occhiate che gli rivolgevano i passanti. Così tremante, pallido, con occhi vitrei e una sigaretta in mano doveva di sicuro sembrare un tossicomane.

L’unica cosa che avrebbe voluto fare in quel momento era urlare, mandare al diavolo tutto e tutti, e sigillarsi in un luogo dove il mondo intero lo avrebbe lasciato almeno per un po’ in pace…

“Detective?”

Una voce debole, tremante e non del tutto sconosciuta lo riportò alla realtà. Gillette si voltò di scatto, sgranando gli occhi non appena riconobbe la figura, che stava a pochi passi da lui.

“Anamaria…?” sussurrò, la voce arrochita per la stanchezza e il fumo.

La ragazza non era in condizioni molto migliori delle sue, ed aveva quasi l’identico aspetto di quando l’aveva vista per la prima volta: tremante, infreddolita, con le guance rigate dalle lacrime e gli occhi gonfi…

Fece qualche passo verso di lei, vergognandosi un po’ del suo aspetto pietoso. Non aprì bocca. In fondo, le aveva detto che poteva contattarli in qualsiasi momento… Ma c’era una ragione precisa per cui Anamaria era lì, all’entrata della centrale, in quelle condizioni?

La ragazza sembrò quasi che gli avesse letto nel pensiero, perché si appoggiò una mano alla fronte, guardando per terra, e iniziò a singhiozzare sommessamente.

“Io non ce la faccio… Non ce la faccio ad andare avanti così…”

Gillette la fissò per qualche istante, la bocca semiaperta e le braccia cascanti lungo i fianchi. Era abituato a situazioni di quel genere, a persone disperate, vittime di qualche abuso o crimine, come era ormai abituato a consolare -o, almeno, a provarci… Eppure, allo stesso tempo, in quel momento l’intera scena gli era così estranea.

Buttando via la sigaretta, si avvicinò alla ragazza, trattenendo il fiato per qualche motivo che non riusciva a spiegarsi.

“Vieni. Vieni con me.” le disse, appoggiandole una mano sulla spalla.

Lei lo guardò per una manciata di istanti con due occhi da cane bastonato, prima di seguirlo, via da lì.

+

“Non riesco a chiudere occhio da ore e ore… Mi viene sempre in mente Cristina… Le sue grida…”

La donna sorseggiò il suo tè bollente, sempre guardando in basso. Ormai aveva smesso di piangere e di singhiozzare, eppure quell’equilibrio e quella calma erano ancora precari.

Gillette la guardò, le mani incrociate e appoggiate sul tavolo, di fronte a sé. Si chiedeva ancora perché aveva portato Anamaria in quel bar, invece di averla accompagnata dentro la centrale, ed averla affidata a uno degli psichiatri del distretto.

Ma dopotutto, dopo anni di servizio come poliziotto si imparava molto di quello che studiano gli psicologi. E, in fondo, bere un tè in un bar o in una centrale di polizia non faceva molta differenza… Beh, a parte il fatto che la ragazza si stava sfogando di più di quanto avrebbe potuto fare in un ufficio pieno di gente che andava avanti e indietro con plichi di fogli, con intorno costanti squilli di telefono.

Nonostante fosse amareggiato nel vederla così, Edward era stato lieto di incontrare di nuovo Anamaria.

Molto lieto.

“Io e i miei colleghi stiamo facendo il possibile… Ma purtroppo, senza ulteriori indizi, non si può procedere con le indagini. Ho paura che per ora ci stiamo solo arrampicando sugli specchi.”

Ci furono diversi secondi di scomodo silenzio, prima che la ragazza parlasse di nuovo, senza guardare l’altro. “Io… Non so cosa farei se a Cristina dovesse succedere qualcosa.”

A quelle parole, qualcosa nel poliziotto scattò.

“Non le succederà niente, te lo prometto.” Ma era stato qualcosa di più profondo e meno razionale del suo cervello a parlare, tanto che quando la donna alzò lo sguardo verso di lui, puntando i suoi occhi luminosi e sperduti, come quelli di un bambino, sui suoi, Gillette si trovò spaesato.

Non avrebbe dovuto fare promesse che non era sicuro di mantenere, non avrebbe dovuto rischiare di deludere le aspettative delle persone…

“Te la riporteremo sana e salva. Non ti preoccupare.”

Eppure non poteva evitare di farlo, nel vedere lo sguardo di Anamaria, nel constatare quanto amore provava verso la sorella, con la consapevolezza che quelle due persone non si erano meritate in alcun modo quello che stava loro accadendo…

Le sorrise, probabilmente per cercare di sembrare più convincente.

Con sua grande sorpresa, la ragazza ricambiò il sorriso… andandogli ad appoggiare una mano sul polso e mozzandogli letteralmente il fiato per una frazione di secondo.

“Grazie, per tutto l’aiuto che ci state offrendo, detective.” disse, quasi in un sussurro.

Lui spostò prima lo sguardo sulla mano delicata della ragazza, appoggiata al suo polso, e poi nuovamente su di lei. Aveva i capelli legati in una coda di cavallo, che risaltava la perfetta forma del suo viso, e Gillette non potè fare a meno di notare quanto liscia e morbida sembrava la sua pelle scura…

“Dovere.” deglutì, senza smettere di sorridere e, con una buona dose di coraggio, andò ad appoggiare la sua mano su quella della donna.

Era una sensazione strana, condividere un tocco così innocente eppure così piacevole con qualcuno, di nuovo.

Si guardarono per qualche istante, come avrebbero fatto due buoni amici, senza alcuna nota di malizia negli sguardi, solo tanta sincerità e… affetto?

“Mi dispiace averti fatto perdere così tanto tempo…” iniziò lei, inarcando le sopracciglia con aria onestamente dispiaciuta.

“Oh, no, nessun problema. Mi è stato dato un permesso, in ogni caso.”

Lei lo osservò per qualche altro istante, sembrando valutare la situazione. “Non hai una bella cera in effetti… Sicuro di stare bene?”

Il poliziotto inarcò le sopracciglia. “Beh, io-”

“E non hai freddo così, senza un cappotto?”

La preoccupazione di Anamaria nei suoi confronti lo fece ridacchiare… e anche arrossire un minimo. “Mi ricordi Theodore.”

“Un tuo amico?” chiese lei, bevendo dalla sua tazza di tè.

“Uno dei miei migliori amici. E’il poliziotto che ti ha interrogato insieme a me, ricordi?”

“Ah, già.” annuì la ragazza, inumidendosi le labbra. “Vuol dire che siete parecchio affezionati, se vi preoccupate così tanto l’uno per l’altro, no?”

“Sì, beh… Abbiamo un bel modo di dimostrarcelo, sfanculandoci ogni due secondi.”

Diventò più rosso dei suoi capelli non appena si rese conto di quello che aveva detto. Almeno davanti a una donna, quel linguaggio se lo sarebbe potuto risparmiare.

Non si sentì di certo meno in imbarazzo quando vide Anamaria ridere piano, coprendosi la bocca con una mano.

Nonostante la sua gaffe, era contento di essere riuscito a strapparle almeno quella risatina, molto contagiosa, fra l’altro.

“Scusa…” ridacchiò, scuotendo la testa.

“No, no, scusami te.” replicò lei, facendo un gesto negativo con la mano. “E’ solo che mi fai ridere.”

Lui alzò gli occhi verso di lei, tornando serio. “Ed è una cosa buona o cattiva?”

“Beh… Prendendo in considerazione il fatto che non mi capita di ridere spesso… Buona, direi.”

Si sorrisero di nuovo, esattamente come avevano fatto poco prima, in un momento in cui le parole sarebbero state davvero superflue. Solo allora Gillette si rese conto che le loro mani erano ancora giunte…

“Edward?”

L’uomo si voltò dall’altra parte nel sentire il suo nome venire pronunciato, trovandosi davanti l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare.

Anche Anamaria assunse un’espressione seria alla visione di quella donna bionda, graziosa, ben vestita che teneva in mano diverse borse di negozi costosi, e che aveva chiamato Gillette per nome.

“Cielo, da quanto tempo non ci vedevamo!” cinguettò l’altra, facendo qualche passettino in avanti per mettersi di fianco all’uomo, guardandolo dall’alto con un sorriso smagliante.

“Ciao, Jane.” Si limitò a dire il poliziotto, non dimostrando di certo la stessa gioia.

Anamaria vide l’altra donna puntare i suoi bei occhi castani verso le loro mani, e trattenne il fiato, come una ragazzina colta nell’atto di scappare dalla finestra.

“Oh… Disturbo?”

Torna sulla terra, Anamaria.

“Oh, no, no! Me ne stavo giusto andando.” la ragazza di colore si alzò, forzando un sorriso, mentre sentiva gli occhi iniziare a bruciare.

Gillette si voltò istintivamente verso di lei, sentendo il tocco tiepido e leggero della sua mano venire a mancare, e percependo la stessa sensazione di vuoto di quando, di prima mattina, qualcuno ci scosta brutalmente le coperte di dosso.

Anamaria recuperò goffamente alcune monete dalla tasca del suo capotto viola scuro, gettandole sul tavolo.

Edward tentò di dissuaderla. “Anamaria, non-”

“Grazie per il tempo concesso, detective. A presto.” Gli sorrise di nuovo, si sforzò a sorridere, prima di voltarsi e uscire dal bar, a passi veloci.

Solo quando fu abbastanza lontana, si sedette su una panchina, lo sguardo fisso nel vuoto.

Si sciolse la coda, liberando i suoi capelli unti, che non potevano certo competere con quelle ciocche color oro leggermente boccolose di Jane; si passò una mano sugli occhi, quegli occhi stanchi, gonfi e arrossati, che sembravano quelli di uno zombie a confronto con gli occhi vivaci e sapientemente truccati dell’altra donna. Pensò al suo carattere timido ed introverso, alla disperazione che provava in quel momento, alla tristezza generale che la attorniava, mettendole a confronto con la gaiezza della bionda.

Non importava chi fosse quella Jane per Gillette- era stata una comparsa, una specie di misso mandato dal fato che era servito a farle capire in tempo che lei era l’ultima cosa che sarebbe servita -o interessata- a un uomo come Edward.

Quei sorrisi, quelle promesse… Era solo state frutto della sua compassione e della sua pena. Era un poliziotto, dopotutto: chissà verso quante persone si era già comportato in quella maniera così disponibile.

Anamaria appoggiò i gomiti sulle ginocchia, affondando la testa nei palmi delle mani, sentendo al contempo affondare le sue speranze, come un relitto nel fondo dell’oceano.

+

Si voltò nuovamente verso la donna, la mascella serrata e gli occhi inespressivi.

“Cosa vuoi, Jane?”

La donna non sembrò fare attenzione al tono secco dell’uomo, anzi. Si sedette di fronte a lui -sullo stesso posto che aveva occupato Anamaria- con un sorriso ancora più ampio di prima.

“Stai facendo nuove conquiste, Eddie?”

“Jane, cosa vuoi?”

“Come cosa voglio, Eddie?” mugolò lei, abbozzando un broncio in maniera molto teatrale. “Stare solo un po’ con te, no?”

E pensare che una volta ero matto per lei, pensò il poliziotto, sentendosi disgustato da se stesso e facendo una risata ironica.

“Direi che il tuo tempo l’hai avuto. E lo hai pure sprecato.” sentenziò, accendendosi una sigaretta.

La donna ignorò le sue parole. “Ti ricordi, Eddie? Quando venivamo qui insieme, dopo che tu avevi finito di lavorare…” allungò la mano verso il viso di Gillette, che la scostò facilmente, guardando poi la bionda con occhi di fuoco.

“Oh, questa è bella. Proprio ora ti metti a ricordare i nostri momenti insieme? Perché non potevi farlo mentre eri a letto con quell’altro? Chissà, magari non ti saresti fatta sorprendere come un ladro.”

La donna corrugò la fronte, senza smettere di mettere il broncio. “Eddie…”

“Devi proprio pensare che io sia un perfetto coglione, per cadere di nuovo tra le tue grinfie!” Gillette alzò il tono di voce, alzandosi e resistendo al forte impulso di rovesciare una bella tazza di caffè sul cappotto nuovo della donna.

“Eddie-”

“Sai che ti dico, Jane? Vai al diavolo.”

“Ti prego-”

“Devo andare a lavoro, Jane. Addio.”

Così dicendo, si avviò fuori dal bar a passi veloci, lasciandosi dietro la donna ammutolita e imbronciata, seduta da sola a quel tavolino nell’angolo accanto alla finestra.

Jane riusciva sempre a rovinare tutto. Prima lo tradiva, facendo concludere una delle relazioni più lunghe che aveva mai avuto nelle sua vita, e ora gli si presentava davanti, come se niente fosse, proprio mentre lui e Anamaria stavano diventando intimi…

Ricordandosi di lei, il rosso si guardò intorno diverse volte, ma non vide ombra della ragazza. Sbuffò, facendo un’altra lunga tirata.

Chissà cosa aveva pensato, vedendo quell’oca salutarlo in maniera così cordiale…

Si bloccò quando vide Groves dall’altra parte del marciapiede, con in mano la sua giacca, guardandosi spaesato intorno. Richiamò la sua attenzione alzando una mano, vedendo Groves allargare le braccia in segno di impazienza mentre attraversava la strada, facendo bene attenzione a non farsi investire.

“Ma si puo’ sapere dove ti eri cacciato?” gli chiese l’altro, guardandolo fisso negli occhi e porgendogli la giacca, che Gillette non esitò ad afferrare.

“E’ una storia lunga.” replicò secco, infilandosi l’indumento e tenendo la sigaretta in bocca.

“Allora mi dici che ti è successo prima?”

“E’ una storia ancora più lunga.”

Groves sghignazzò, voltandosi dall’altra parte e iniziando a camminare. “Avrai tempo di raccontarmi tutto nei prossimi minuti, vedrai.”

“Dove andiamo?” chiese il rosso, seguendolo e desiderando davvero impiegare il meno tempo possibile per arrivare a destinazione, dal momento che non aveva alcuna voglia di raccontare al collega nulla di quello che era successo nelle ultime ore.

“Vieni, ti spiego strada facendo.”

 

To be continued…

 

Mi scuso di nuovo per il ritardo con cui pubblico questo capitolo, ma fra scuola, compiti, violino, le altre fanfictions ed impegni vari di tempo per scrivere me ne rimane davvero poco. Ho paura che questa situazione si protrarrà per i prossimi nove mesi, quindi vi chiedo di portare pazienza.

Mi sono accorta che forse ho dedicato troppo spazio a Gillette e Anamaria e tralasciato quello che dovrebbe essere il pairing principale della fanfic (avete intuito qual è immagino;-)), ma prometto che da ora in poi suonerà un’aria diversa. Dopotutto, Jack è entrato da poco nel orso degli eventi, e dovremmo aspettare un po’ prima che le cose si sviluppino. ;-)

Ringrazio nuovamente tutti coloro che stanno seguendo questa storia e lasciando commenti: senza di voi non sarei arrivata nemmeno fino a questo punto.

A presto

Junemy

 

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Capitolo VII

L’uomo annuì, senza smetter di pulire il bicchiere ancora umido con uno straccio.

“Credo proprio di sì. O almeno, se non era lui, era un asiatico molto simile venuto qui all’ora che mi avete detto… Ma sarebbe una coincidenza bella e grossa.”

I due poliziotti si guardarono per un istante, sapendo che in quel momento le parole non erano necessarie.

Le coincidenze non esistevano.

“Quindi è stato qui.” Sospirò Groves, rimettendosi la foto in tasca, parlando più con se stesso che con il barista.

“A quanto pare.” rispose l’uomo all‘altro lato del bancone, abbassandosi per riporre il bicchiere in una credenza. “In effetti mi sembrava un tipo strano… Indossare quegli occhiali scuri quando non si vede un raggio di sole da giorni…” Constatò, lisciandosi i baffi scuri.

“Ci puo’ dire qualcosa in più?” chiese l’altro poliziotto, appoggiando il gomito sul bancone. “Ha parlato con qualcuno? Le è sembrato che si atteggiasse in modo strano? Qualsiasi cosa.”

“Era con un altro tizio. Parecchio più giovane credo.” annuì il barista, stringendo gli occhi mentre ci pensava su. “Una strana coppia, davvero.”

“Cioè?” Chiese Gillette, inarcando un sopracciglio.

“Beh… Quello della foto aveva un’aria parecchio composta e tranquilla, si limitava ad annuire e a dire una parola occasionalmente.” Il barista richiamò l’attenzione del cameriere alzando il braccio, invitandolo a venire al bancone a recuperare un vassoio pronto. “Mentre il ragazzo era a dir poco un personaggio. Non sono riuscito a vederlo bene in faccia perché ha tenuto il cappuccio in testa per tutto il tempo.”

Gillette non scostò gli occhi dall’uomo, spostandosi per consentire al cameriere di prendere il vassoio.

“Sembrava un’acciuga. Era magro e con i vestiti sporchi, e tremava tutto. Non vorrei dire una sciocchezza, ma per quel poco che sono riuscito a vedere, mi è sembrato che avesse le pupille dilatate.” Constatò il barista, inarcando le sopracciglia con aria di sufficienza. “Probabilmente la carta di credito era rubata, anche perché non vedo il motivo di pagare due caffè in quel modo. Ma non sono certo un poliziotto per controllare questo genere di cose.”

Groves e Gillette avevano drizzato le orecchie come due cani appena sentita la parola ‘carta di credito’.

“Ha usato una carta di credito?!” chiese incredulo Groves, inarcando tanto di sopracciglia.

“O forse era gliela aveva data l’asiatico. Non ne ho idea.” il barista scrollò le spalle, andando a riempire un boccale di birra.

I due poliziotti si guardarono, stupiti e allo stesso tempo confusi.

“Mi sembrerebbe davvero poco saggio da parte di Feng usare la sua carte di credito per pagarsi da bere.” bisbigliò Groves, sporgendosi verso il collega.

“O forse era davvero di quell’altro tizio, rubata magari.”

“O forse,” continuò l’altro, lasciandosi sfuggire un sorisetto “per quanto improbabile, era davvero sua, ed era troppo stupido per capire che la sua identità è rintracciabile.”

Il rosso sospirò, un minimo di speranza che cominciava a farsi largo nel suo animo. “C’è un solo modo per scoprirlo.” Constatò, sporgendosi di nuovo oltre il bancone per rivolgersi al barista. “Ci servirà il numero di quella carta di credito.”

L’uomo annuì, senza guardarlo. “Va bene.”

“Ah, un’altra cosa.” irruppe Groves. “E’ riuscito a sentire anche una parola di quello che si dicevano? O a cogliere qualcosa della loro conversazione?”

Il barista scosse la testa, serrando le labbra, mentre riempiva un altro boccale.

“No, erano seduti là nell’angolo, completamente isolati. Comunque il ragazzo sembrava parecchio assoggettato da quell’altro, se sapete cosa voglio dire. Insomma… teneva lo sguardo basso, e ogni tanto gli capitava di tremare anche più del solito.”

+

“Siamo sicuri che sia questo il posto?”

Norrington aggrottò la fronte, guardandosi attorno ma cercando di non posare gli occhi sui topi che correvano e squittivano per il corridoio lercio e impregnato di muffa, non molto lontano dai suoi piedi.

“Tranquillo, Jamie.Ti ho detto che sono già stato qui, no?” Il suo neo-collega gli sorrise, mettendogli una mano sulla spalla. “Oh, povero piccolo… Hai paura? Su, c’è il tuo Jack qui che non permetterà ai topolini di avvicinarsi.”

Norrington dovette fare un respiro molto profondo per porre un freno all’impulso incredibilmente forte di bloccare Sparrow sul muro e fargli ingoiare uno di quegli schifosissimi topi.

Quell’uomo stava minando pericolosamente il suo karma positivo, e nel meno opportuno dei momenti.

“Datti una mossa, Sparrow.” sibilò a denti stretti, scostando bruscamente la mano ornata di anelli del collega dalla propria spalla.

“Okay, okay…” Sospirò l’altro, iniziando a salire la pericolante rampa di scale che portava al primo piano. “Vediamo… Lesley abita da questa parte, se ho buona memoria.” Affermò, dirigendosi verso il corridoio di sinistra e ignorando completamente il collega, che era appena scivolato su uno degli scalini intrisi di lerciume, facendo quasi cadere gli occhiali a terra.

“Spero davvero che sia così.” mormorò, la voce roca di rabbia, mentre si rialzava appoggiandosi al corrimano, prima di risistemarsi gli occhiali sul naso.

Lesley Garrett.

Da quanto gli avevano comunicato Gillette e Groves non molto tempo prima, la carta di credito era intestata a lui. Sparrow aveva riconosciuto la descrizione del ragazzo, affermando che aveva già avuto modo di conoscerlo a causa dei problemi di Lesley con la droga. A quanto pareva, il barista ci aveva visto giusto.

Trovato Lesley, trovata una via per arrivare a Feng.

Già, ma il problema era trovarlo.

“Tranquillo, non è un tipo particolarmente vispo.” Sparrow rassicurò il collega, avvicinandosi all’ultima porta in fondo al corridoio con aria del tutto tranquilla. “Ha le stesse possibilità di sfuggirci di quante ne abbia un topo da un’aquila.”

Gli fece l’occhiolino (cosa che provocò un giramento di occhi da parte di Norrington) prima di bussare alla porta.

“Lesley Garrett?”

Attesero per qualche istante, immersi nel silenzio più totale.

Niente.

“Lesley?”

Ancora niente.

Diversi, lunghi secondi di niente.

I due si guardarono, pronti a cogliere il più minimo segnale di movimento.

“Magari… Magari è fuori.”

Sparrow si morse il labbro inferiore. “Già.”

“Forse… Tornerà.”

“Sì… Probabile.”

Quieti e silenziosi come due formiche, si allontanarono piano, gli sguardi persi di fronte a loro.

Beh, era stato tutto troppo veloce e bello per essere vero, in effetti, pensò James. Eppure, faceva così male subire delle delusioni, vedere il proprio obiettivo così vicino a se’ quasi da poterlo toccare, per poi realizzare che era stata solo un’illusione…

Sentì un soffio d’aria, e percepì la mancanza del corpo di fianco a lui.

“Cosa…?”

Si voltò, giusto in tempo per vedere il collega sfondare la porta dell’appartamento con un calcio e precipitarsi dentro.

Non perse un solo secondo.

Lo seguì, oltrepassando la soglia e trovandosi in una marea di vestiti, spazzatura, vecchi materassi.

“Fermo!”

Voltandosi verso la direzione da dove era provenuta la voce di Jack, vide il collega tentare di trattenere un altro uomo, che stava provando a scappare oltre la finestra, dall’uscita di emergenza.

Li raggiunse e diede una mano all’altro poliziotto a bloccare il ragazzo, che si dimenava come un animale in una rete, sebbene fosse innaturalmente magro ed esile.

“Non ho fatto niente!” sbraitò l’altro, sebbene la sua sembrasse più una supplica che una minaccia.

“Lo dicevo io che non sei mai stato molto furbo, Lesley.” commentò Sparrow, mentre, tenendogli i polsi, tirava fuori le manette dalla tasca, la voce contratta dalla fatica. “Se non hai fatto niente perché volevi scappare?”

“Perché so come siete fatti voialtri.” Replicò il ragazzo, tentando di liberarsi per l’ultima volta con uno strattone, ma le mani di Sparrow erano rigide come tenaglie.

“Ma non mi dire. Dai, ora ce ne andiamo in centrale.”

“Lasciami!”

“Su, da bravo.” Tagliò corto il poliziotto, rafforzando la presa sui polsi del ragazzo e trascinandolo fuori dall’appartamento, aprendosi una specie di passaggio tra varie bottiglie rotte e rottami di ferro.

James lo seguì, la fronte corrugata e la bocca semi aperta.

Sparrow era una sorpresa dietro l’altra.

“Come facevi a sapere che…?”

Jack si voltò verso di lui, sorridendo, ma questa volta senza il minimo accenno di quella perfida malizia che lo caratterizzava.

“Forse noi della narcotici non siamo poi così idioti, James.”

Si voltò nuovamente di fronte a sé per non rischiare di inciampare, lasciandosi dietro un Norrington accigliato e, per qualche strana ragione, basito.

+

“Lesley, Lesley, Lesley. Non imparerai mai, vero?” sospirò Sparrow con grande teatralità, le braccia incrociate al petto mentre camminava su e giù, dietro alla sedia dove era seduto l’interrogato.

James osservò attentamente il ragazzo battere spasmodicamente le lunghe, ossute dita bianche sul tavolo di ferro, le iridi azzurre contornate di rosso spettralmente fisse in basso.

“P-posso avere dello zucchero?” mormorò, la voce debole e tremante come un lume di candela vicino allo spegnersi.

Sparrow ridacchiò. “Ti piacerebbe, eh?”

“Parlaci di Feng.” li interruppe James, battendo il tappo della penna che teneva in mano sul tavolo. “Che sai su di lui? Che rapporto avete?”

“Io n-non… Non…” Lesley si passò entrambe le mani le mani sulla testa, i capelli chiarissimi e quasi completamente rasati che si smuovevano al contatto.

“Lesleeeey… Ti conviene parlare, cocco.” L’altro poliziotto gli si fece di fianco, appoggiando una mano sul tavolo e fissandolo. ”Sul serio, non ti si prospetta un bel futuro se non collabori. Beh… Non che tu non abbia già buttato via la tua vita. Forse la cella di una prigione sarebbe anche più accogliente di quel letamaio dove vivi.”

“P-posso andare in bagno?” implorò il ragazzo, evitando gli occhi di Sparrow.

“Ti hanno visto in un bar assieme a Feng, e ci risulta che tu abbia pagato il conto con una carta di credito.” continuò Norrington, imperterrito. “Te l’ha data lui?”

“Già, non è stata una mossa che si puo’ definire saggia.” l’altro canzonò Lesley, non scostandosi dalla sua posizione. “Prima si ritirano i soldi dal bancomat, cocco, e poi si paga con quelli, se non vuoi vederti la polizia fare irruzione in… Beh, ci vuole un bel coraggio per chiamare quella una casa.”

“Io no-no-non so quello che volete.” il ragazzo tremava, non stava un attimo fermo, trovava una qualsiasi scusa per evitare le domande. Sembrava quasi che si volesse nascondere, coprendosi la testa con le mani e puntando gli occhi in basso.

Ma sapevano entrambi che, nello stato in cui si trovava, non avrebbe resistito ancora per molto.

Dovettero continuare a punzecchiarlo per un bel po’, e ogni minuto che passava per Norrington era come una chance in meno di poter ritrovare Elizabeth. Lasciò fare a Sparrow la maggior parte del lavoro, dal momento che si trovava in uno stato di impazienza il quale gli risultava davvero assurdo ed straneo.

“Sì, sì, sì! Mi ha dato lui quella dannatissima carta!” Lesley scoppiò come una pentola a pressione, probabilmente in preda a una crisi di astinenza.

“Perché?” continuò Sparrow, con una serietà che James non aveva mai notato in lui.

Il ragazzo si passò le mani sul viso scarno e pallido, singhiozzando, quasi come se si fosse pentito di quello che aveva appena detto.

“Cosa ti ha richiesto di fare in cambio?”

L’altro aspettò qualche istante prima di aprire nuovamente bocca, ed entrambi i poliziotti sapevano che, oltre il vetro che permetteva la visione della sala d’interrogatorio, dovevano esserci diverse paia di occhi puntati su loro tre.

“Io… Dovevo andare a ritirare dei pacchi da un posto all’altro, non lontano da casa mia, e lasciarli dietro una siepe al parco, oppure vicino a una macchina parcheggiata… Mi telefonavano, e dicevano cosa dovevo fare…”

“E poi…?” chiese Sparrow, incoraggiandolo a parlare.

“E p-poi… Sono andato un paio di volte al giorno a quel vecchio fabbricato a duecento metri da casa mia, a portare da mangiare…”

“Portare da mangiare a chi?” questa volta fu Norrington a parlare, osservando il ragazzo oltre la lente degli occhiali, aspettando ansioso la risposta.

Lesley scosse la testa. “C’erano un paio di uomini che mi aspettavano dentro, ma dubito che fosse per loro… Una volta… Ho visto di uno di loro aprire una porta… Ha lasciato il sacchetto con il cibo dentro, e se l’è richiusa alle spalle…”

I due detective si guardarono, capendo che sì, c’erano arrivati, e che in un attimo sarebbe partita una raffica di telefonate, e che fra non molto si sarebbero sentite le sirene delle auto della polizia ululare lungo le strade che portavano a quel fabbricato.

 

To be continued…

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Capitolo VIII

 

Diversi uomini in divisa presero postazione attorno al perimetro del fabbricato, veloci, silenziosi ed efficienti come formiche. Le auto erano state fermate diversi metri prima, in modo da non insospettire nessuno con il rombo del motore, e l’unico suono che si sentiva era quello dei passi spediti dei vari poliziotti, ciascuno armato e pronto a scattare al minimo segnale.

Un paio di loro, indossanti una divisa più pesante e un giubbotto antiproiettile nonché un casco, si accostarono alla porta principale. A un lato del muro di mattoni rossastri si appoggiarono Swann, Norrington e Sparrow, all’altro Gillette e Groves.

Si scambiarono tutti uno sguardo leggermente corrucciato. Ma ognuno di loro sapeva che, oltre l’ansia, la paura di fallire, il terrore di venire uccisi, c’era qualcos’altro, qualcosa che si provava solo in pochi lavori, con poche esperienze, e che era uno dei motivi che li spronava ad andare avanti e, in un certo senso, ad amare il loro lavoro.

L’adrenalina pura.

Il capitano fece un breve cenno col capo, e i due poliziotti sfondarono il portone senza troppa fatica, puntando i fucili di fronte a sé.

Soltanto due punti rossi rappresentarono una forma di luce nell’ambiente, immerso nell’ombra più totale.

Gli altri poliziotti li seguirono, tenendo ciascuno una pistola tra le mani, guardandosi attorno nel tentativo di notare qualcosa, ma con successo davvero scarso. Almeno finchè Swann non accesa una torcia, iniziando a puntarla intorno.

L’ambiente in cui si trovavano era una stanza ampissima, con i muri ormai sporchi e ammuffiti, gli angoli pieni di ragnatele. Era vuota salvo un tavolo e qualche sedia posti nel bel mezzo, sotto una lampada che penzolava dal soffitto.

Swann si avvicinò e tirò una corda, illuminando lo stanzone di una luce fioca e debole, mentre gli altri uomini perquisivano una ad una le varie stanze, tutte vuote e prive di porte.

Si sentirono dei rumori provenire dal lato opposto dell’edificio, segno che anche l’altro gruppo di poliziotti aveva fatto irruzione, nel tentativo di bloccare eventuali fuggitivi… Fuggitivi che però non si erano presentati.

Swann alzò lo sguardo, notando che c’erano delle scale che portavano al piano superiore.

“Trovato niente?” alzò notevolmente il tono di voce per farsi sentire.

“Qui niente per ora, capitano.” rispose qualcuno.

L’uomo restò lì, osservando diversi poliziotti che si stavano avviando lungo le scale, mentre i restanti gli si avvicinavano, ancora guardandosi attorno, come dei gatti che non erano riusciti ad atterrare sulle zampe e che stavano tentando di capire quale calcolo avevano sbagliato.

Ci vollero pochi minuti perché tutte le stanze venissero perquisite, un viavai di poliziotti che percorreva i corridoi al piano terra e al primo piano.

Un agente si avvicinò alla ringhiera arrugginita, appoggiandovisi, le labbra serrate.

“Niente.”

Poco dopo un altro si avvicinò al gruppo di uomini fermi in mezzo allo stanzone, la stessa espressione dell’altro.

“Nemmeno qui.”

Ritornò il silenzio per una manciata di scomodi istanti, che ognuno passò guardandosi le scarpe oppure passandosi una mano fra i capelli, coltivando il proprio rancore dentro di se’.

Sparrow sospirò, rimettendosi la pistola nella fodera e guardandosi attorno.

“Ci avrà raccontato un mucchio di stronzate.” constatò, riferendosi ovviamente alla persona che lui stesso aveva interrogato poco tempo prima.

Sentì il proprio collega sbuffare come un cavallo, e lo vide calciare una sedia, rovesciandola.

“Merda!” sibilò Norrington, appoggiando i palmi delle mani sul tavolo e fissando il vuoto, immobile,come se fosse stato solo all’interno di quel fabbricato.

Il capitano si limitò a sospirare, anni di esperienza che lo avevano abituato alle delusioni… Anche a quelle più cocenti.

“No.” disse pacatamente, ma tutti gli occhi dei suoi uomini erano puntati su di lui.

“Siamo solo arrivati in ritardo.”

In mezzo al tavolo c’era un posacenere, contenente vari mozziconi di sigarette.

Una di loro era appoggiata al bordo, quasi completamente consumata, ma ancora accesa.

+

“Ehi, Theo.”

L’uomo con i capelli rossi richiamò l’attenzione del collega, puntando la luce della torcia in direzione dell’oggetto su cui qualche momento prima si erano posati i suoi occhi.

L’altro si voltò, inarcando le sopracciglia.

“Trovato qualcosa?”

Gillette fece un paio di passi in avanti, verso il mucchio di carte strappate e sgretolate nell’angolo della stanza.

“Forse sì.” Mormorò, mentre con il piede le spostava, corrugando la fronte per lo sforzo di leggere ciò che vi era impresso.

“E’ di ieri.” constatò, non appena lesse la data stampata a lettere minuscole sul bordo della pagina. Notò fra l’altro che fra i fogli del giornale c’era ancora qualche rimasuglio di filetto di pesce che, sebbene non avesse un’aria troppo fresca o appetitosa, non sembrava nemmeno essere rimasto lì a lungo.

“Secondo te le hanno tenute qui?” chiese Groves, guardandosi attorno.

“Beh, considerando questo che ho sotto i piedi e il fatto che questa sia l’unica stanza dell’edificio che abbia una porta con una serratura e una chiave funzionante ancora infilata dentro… Sì, credo proprio di sì.” concluse il rosso con un profondo sospiro.

Theodore puntò la sua torcia sui muri lerci, i suoi occhi che non cercavano nulla di particolare.

“Non sono state ancora trovate tracce di sangue, né altri indizi. Dubito che li abbiano fatto del male, considerando che si facevano addirittura portare cibo da Garrett.” affermò, indicando con la testa il giornale.

Edward sospirò nuovamente, imitando le azioni del collega.

“Spero davvero che quella ragazzina stia bene.” disse in poco più che in un sussurro, abbandonando il tono freddo e distaccato che si addiceva a lui come a tutti i poliziotti, quasi come se quelle parole fosse state una confessione, una supplica.

Parole che provocarono un’inarcamento di sopracciglio da parte di Groves.

“E di Elizabeth non ti importa?” chiese in tono leggermente canzonatorio, lasciando un imbarazzante silenzio dietro di se’.

Gillette si limitò a continuare l’ispezione della stanza, non degnando il collega di una singola occhiata.

“Sai cosa penso di lei, no?” disse a voce bassa e insolitamente roca.

“Su, Eddie, non sei un po’ troppo insensibile, ora?”

“Mai quanto lo è stata lei, ammettilo.”

Groves non potè fare altro che sospirare per l’ennesima volta in quell’ultima mezz’ora.

Sapeva che Edward aveva preso così a cuore e male il torto che Elizabeth aveva fatto al loro amico che era sembrato che il fattaccio fosse capitato a lui, ed era sinceramente lieto nel vedere quanto il rosso si preoccupasse dello stato di James, di quanto non aveva sopportato nel vederlo così affranto, così vuoto e scialbo… Ma a tutto c’era un limite. Eppure, Gillette era fatto così: fare un torto alle persone per lui care era come offendere lui stesso, e le offese non era mai stato in grado di perdonarle.

“Fatto sta che rimane la figlia del capitano,” ribattè “e non per fare la figura del leccaculo, ma a lui siamo affezionati tutti, e non voglio che la sua famiglia sopporti una tragedia. Pensa almeno a lui!”

Passarono altri lunghi secondi di silenzio, interrotti solo dal ticchettio dei passi degli agenti che si avviavano su e giù per le scale.

Il rosso piegò le ginocchia, appoggiandosi sulle punte dei piedi, fissando ancora il giornale e il mezzo filetto di pesce fritto rimasto, decine di immagini che gli si contrapponevano l’una sopra l’altra in testa senza alcun ordine: Anamaria, lo sguardo di James, Andrew, la sua casa a Belfast, la sua moto, la foto di Sao Feng, il sorriso impertinente di Elizabeth.

Odiava ammetterlo, perfino solo a se stesso… Ma era davvero stanco.

Si morse il labbro inferiore.

“Chissà dove sono, ora.”

 

To be continued…

 

Grazie di nuovo a tutti quelli che mi stanno supportando tramite commenti e che mi stanno motivando ad andare avanti.

Nel prossimo capitolo si troveranno ulteriori spiegazioni riguardo quello che è successo, e finalmente la cosa Fra James e Jack inizierà a farsi interessante. ^.^

Aspetto i commenti.

Junemy

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Capitolo IX

Ma cosa avevano tutti? Sembrava che il mondo intero si fosse coalizzato contro di lui, come se ogni singolo essere della Terra avesse deciso di intralciargli il percorso. Perfino quei vecchi volantini che gli svolazzavano fra i piedi pareva volessero farlo inciampare.

Non può farlo, non può.

James camminava risoluto sullo spiazzato, gli occhi fissi sull’asfalto e i pugni serrati, le suole delle scarpe che battevano rigorosamente sul terreno a ritmo regolare.

Si sentiva un po’ come un’adolescente che si rifugia a chiave in camera dopo un litigio con i genitori a comportarsi in quel modo, ma non poteva evitarlo.

Il suo povero orgoglio aveva subito un gran brutto colpo.

“James!”

Non si sarebbe di certo fermato se non avesse saputo a chi appartenesse quella voce.

Ma la riconobbe e, a dir poco sorpreso, fu costretto a fermarsi.

L’uomo procedeva a passo di leggera corsa verso di lui, proteggendosi gli occhi dall’ozioso sole autunnale con una mano.

“Ehi.” sospirò, ormai a pochi passi da Norrington. “Che ti prende?”

L’altro sbuffò, passandosi una mano fra i folti capelli castani, evitando con cura gli occhi stranamente seri e preoccupati del collega. Quest’ultimo, dopo vari secondi di silenzio, interrotti solo dal rumore di macchine in lontananza, non potè fare a meno di ridacchiare.

“Mi sa che Swan aveva ragione quando ha detto che eri troppo personalmente coinvolto.”

Per tutta risposta, Norrington riprese a camminare, ignorando l’altro poliziotto, che presa a seguirlo come un cagnolino troppo affezionato.

“Gesù, Jamie! Certo che non ti si può proprio dire niente!” esclamò esasperato Sparrow, allargando le braccia e roteando gli occhi.

“Non doveva farlo.” rispose sbrigativo James, non accennando a rallentare il passo. “Questo non poteva farmelo.”

“Era per il tuo ben-”

“Per il mio bene un cazzo! Posso capire il caso di Edward, che era ammalato, ma dare un permesso a me, mentre sono in ottima salute, in un momento del genere!” esclamò stizzito, imboccando una strada percorsa da macchine, iniziando a guardarsi subito intorno alla ricerca di un taxi.

“Intanto, fermati.” Jack lo prese per un braccio, voltandolo verso di se’.

Fu un’azione brusca.

Norrington rimase interdetto per diversi secondi, quegli occhi scurissimi, quasi neri, che lo fissavano intensamente, quasi come se volessero leggere quello che conservava più in profondità, i suoi pensieri più intimi.

“Ascoltami.” Iniziò poi Sparrow, spezzando quel momento di leggera tensione. “Swann è un uomo intelligente e in gamba. Sapeva che in queste condizioni non saresti stato di grande aiuto e che non avresti fatto altro che… infervorarti ancora di più. Ti ha semplicemente dato un giorno di permesso. Un giorno, perdio. Domani te ne starai di nuovo con i tuoi amichetti a dare la caccia a quei brutti che hanno osato rapire la dolce pulzella.” L’uomo gli offrì a quel punto un sorriso sghembo. Ma per quanto il suo tono fosse diventato sarcastico nell’ultima parte del discorso, restava in ogni caso insolitamente apprensivo.

Norrington guardò verso la strada, senza prestare troppa attenzione ai veicoli colorati che li oltrepassavano, lasciando una scia rumorosa e puzzolente dietro di sé.

Forse avevano tutti ragione. Forse era lui l’unico a problema, lui il solo a doversi dare una calmata. E, per quanto il suo orgoglio ne risentisse, in fondo doveva ammettere che quella mini vacanza avrebbe giovato notevolmente alla sua salute fisica e mentale.

“Garrett ha chiesto di andare in bagno non appena finimmo di interrogarlo. Probabilmente ha telefonato agli uomini di Feng da lì, perché non saprei in che altro modo spiegare la fuga… Tuttavia è ancora trattenuto alla centrale, quindi possiamo ancora spremerlo per bene. E’ tutto sotto controllo, James.”

Il poliziotto respirò a fondo a quelle parole, il suo livello di rabbia e incontrollabilità che si abbassava ulteriormente.

Lanciò un’occhiata scettica al collega.

“E tu invece?”

Jack scrollò le spalle. “Swann non è il mio capo. E in ogni caso oggi avevo la giornata libera.” così dicendo, fece l’occhiolino a Norrington, il quale alzò ulteriormente le sopracciglia, corrugando la fronte.

+

 

“Eccoci arrivati. Ah, e non prendere paura dei gatti: sono tutti miei.”

Annunciò Sparrow, aprendo la porta dell’appartamento.

“No, non ti preoccupare… Ne ho anch’io uno.” rispose vago James, seguendolo all’interno dell’abitazione. Gli si avvicinarono cinque gatti miagolanti di razze assortite, che iniziarono a strofinarsi sinuosamente contro i suoi polpacci, rendendogli più difficile il passaggio.

Beh, i gatti erano la cosa che lo colpivano di meno, a dirla tutta.

Le pareti dell’appartamento era di una tinta arancione tramonto, un colore mite ed esotico. I mobili erano tutti in legno scuro, recanti libri, statuine africane e vari oggetti, soprattutto di piccole dimensioni, provenienti da chissà quale parte del mondo. In un angolo era posto un acquario di notevole dimensioni, in cui nuotavano pacifici diversi pesci dai colori vivaci e fantasiosi. Norrington notò inoltre che, invece delle porte, lunghi fili di perline nere e blu separavano le varie stanze.

“Fa come se fossi a casa tua.” ribadì Jack, scandendo bene le parole. Dopo aver gettato il giubbotto sul divano di pelle marrone, si diresse in cucina, stiracchiando le braccia.

L’altro poliziotto si guardò bene attorno, avvicinandosi a passi lenti e accorti verso l’acquario, come se invece di un pavimento di legno stesse camminando su un territorio minato. Si piegò leggermente in due per poter osservare meglio quelle creaturine affascinanti che boccheggiavano contro il vetro, la banda di gatti ancora alle sue calcagna.

“E non voglio sentire parlare di lavoro, chiaro?” aggiunse Sparrow dalla cucina. James sentì il rumore di un’anta che sbatteva e il tintinnare di bicchieri di vetro.

“Come puoi pretendere che faccia finta di niente?!” chiese, incredulo, rimettendosi in posizione eretta.

Il suo collega spuntò con due bicchieri vuoti in una mano e una bottiglia di whisky nell’altra, prima di appoggiarsi alla parete.

“Perché so che se noi poliziotti prendessimo ogni caso a cuore come stai facendo tu, dubito che arriveremmo ai quarant’anni senza finire in manicomio.” rispose in maniera semplicistica, prima di scostarsi dal muro e avviarsi verso il salotto.

Norrington fece schioccare la lingua, seguendolo. “Ma non posso ignorare il fatto che Elizabeth rimanga comunque-”

“Per te,” lo interruppe il collega, facendosi cadere con un tonfo sul divano e puntando l’indice verso di lui “lei non dovrebbe essere Elizabeth. E’ semplicemente una vittima, come tutte le altre.”

Norrington sospirò, sedendosi sulla poltrona che affiancava il divano. “Io non… Non posso…” Mormorò, guardando in basso.

Ancora una volta, Sparrow aveva ragione. Ma certo, prendere la faccenda in modo neutrale era più facile a dirsi che a farsi. Avrebbe voluto anche lui possedere lo stesso sangue freddo e la capacità di autocontrollo di Swann, ma non ne era in grado.

Non poteva. Semplicemente non poteva prendere con calma il fatto che fosse la ragazza di cui un tempo era innamorato ad essere stata sequestrata.

“Non posso agire in modo freddo e distaccato, quando a una persona che conosco da tanto tempo è in pericolo.”

“Oh, se le avessero voluto fare del male, lo avrebbero già fatto, fidati.” sospirò Jack, versando il whisky nei due bicchieri adagiati sul tavolino di legno intagliato di fronte a sé. “E credimi, so quanto tu in realtà tenga alla ragazza, ma dovresti distrarti per un po’ dalla faccenda e lasciare il lavoro agli altri.” Così dicendo, il detective offrì un primo bicchiere all’altro, il suo sorriso infido più evidente che mai sulle sue labbra.

Norrington accettò silenziosamente il bicchiere, afferrandolo delicatamente tra le sue dita lunghe ed affusolate, prima di voltare lo sguardo di fronte a sé, facendo finta di concentrarsi su un poster verde, giallo e rosso che pubblicizzava un concerto reggae tenutosi in un pub.

Non gli piaceva troppo quel peculiare sorriso; aveva la sensazione che Sparrow, pur non accusandolo di niente, sapesse un po’ troppo sul suo conto, e volesse stuzzicarlo su alcune faccende che avrebbero fatto meglio a non venire a galla.

Tuttavia, anche lui stesso ero un tipo parecchio curioso, sebbene cercasse di non darlo troppo a vedere.

“Sparrow?”

“Hm?” L’altro gli si rivolse mentre sorseggiava il suo whisky.

“La prima volta che ci siamo incontrati… Beh… Tu dicesti che avevi già sentito parlare di me, o qualcosa del genere.”

“Sì, ricordo.” Annuì l’altro, un angolo della bocca che si arricciava gradualmente.

“Cosa intendevi?” L’attenzione di Norrington era ora completamente focalizzata sull’altro poliziotto. Sembrava che stesse attendendo i risultati della lotteria.

Jack guardò per un attimo il soffitto, prima di riaprire bocca. “Swann è noto a tutta la centrale per la sua abilità e professionalità, come forse sai. E ad un certo punto è iniziata a spargersi la voce che uno dei suoi uomini, che fino ad allora si era comportato come se al mondo non esistesse altro che il lavoro,” marcò attentamente quelle ultime parole, che fecero irrigidire il suo ascoltatore “avesse un debole per sua figlia. Per un certo periodo di tempo la situazione è rimasta incerta, fino a che non si è venuto a sapere che lei aveva scelto una specie di artista invece di un uomo dallo stipendio assicurato. A dirla tutta, non è che la faccenda mi interessasse più di tanto , ma ora che mi trovo il diretto interessato di fronte… Sai, la mia curiosità ne è stuzzicata.” Aggiunse l’uomo in un risolino, sorseggiando l’alcolico senza distogliere gli occhi da Norrington.

Quest’ultimo roteò gli occhi con aria esasperata. “Sei peggio di una vecchia zia, Sparrow.”

“Su, sputa il rospo. Sono tutto orecchie.” fu la controbattuta dell’altro, che si appoggiò al bracciolo del divano per avere una visuale migliore.

James cercò di frenare un debole sorriso, appoggiando i gomiti alle ginocchia, gli occhi persi nel liquido semitrasparente che non aveva ancora toccato.

Per qualche istante rimase in silenzio, chiedendosi il motivo che l’aveva spinto ad accettare l’invito di Jack di venire a casa sua, e che ora lo stava invitando a raccontare le sue faccende private a una persona che praticamente non conosceva; o che comunque aveva considerato irritante e diffidabile per tutto quel tempo che avevano passato assieme.

Tale motivo, come si rese conto, non gli interessava.

“All’iniziò la trovavo simpatica, carina, gentile.” Cominciò, con la risata amara di chi sa di aver commesso dei grossi sbagli. “Una ragazza semplice ed affidabile. Poi, mi sono reso conto che, sebbene fosse parecchio più giovane di me, i miei sentimenti si stavano facendo a mano a mano più nitidi, più chiari, più forti. Abbiamo iniziato a parlare, a conoscerci meglio. A volte uscivamo, perfino. La cosa assurda era che a me sembrava che lei mi ricambiasse veramente. Ero felice come una pasqua, ormai mi sembrava cosa fatta. Swann poi, a cui -lo ammetto- sono sempre piaciuto, non ci vedeva più dalla gioia. Quando all’improvviso… Puff! Lei inizia a frequentare questo William, e di tempo per me non ne trova più. E’ stato un periodo brutto, culminato nel classico momento del ‘restiamo solo amici’.”

Norrington concluse la spiegazione facendosi appoggiare allo schienale della poltrona, avvicinando il bicchiere alle labbra.

Sparrow, che era rimasto muto e fermo per tutto il tempo, si mosse di scatto, piegandosi verso il tavolino per versarsi dell’altro whisky. “Le donne sono crudeli.” Spiegò.

“Già.” fece l’altro, scuotendo la testa. “E superficiali. Soldi, soldi, soldi… Anche se non credo che questo sia il caso di Elizabeth. Insomma, va bene che io guadagno in un mese quello che prende un avvocato in una settimana, ma un pittore…!”esclamò, con aria incredula.

Jack rise sotto i baffi. “Le donne adorano gli artisti.” continuò, bevendo dal proprio bicchiere.

“Mah…” Rispose James, roteando gli occhi. “Io ho la sensazione che non le capirò mai.”

L’altro poliziotto lasciò passare qualche istante, osservando il collega intensamente, prima di azzardare un’ipotesi. “Che ne dici di ripiegare su quelli della tua stessa specie, allora?”

Norrington non seppe trattenere le risate a quella frase, alzando una mano per massaggiarsi le palpebre.

Quell’uomo era una sorpresa dietro l’altra.

Era… Simpatico. E gentile. E sapeva ascoltare.

Incredibile a dirsi, ma la sua compagnia non gli risultava più tanto sgradevole. Anzi.

“Ce l’hai una sigaretta?” chiese, riaprendo gli occhi.

Sparrow alzò tanto di sopracciglia a quella richiesta inaspettata. “Tu fumi?”

“Fumavo.” Precisò l’altro, prendendo sigaretta e accendino dal palmo dell’uomo. “Ma quando ci vuole, ci vuole.” Dichiarò, tirando una lunga boccata e sospirando di sollievo. Alcol, fumo… In pochi minuti il James di sempre si era trasformato.

Passarono diversi, lunghi momenti di silenzio. Jack restava immobile, appoggiato allo schienale del divano, gli occhi fissi attentamente sulla figura di Norrington, il quale, stranamente, non pareva accorgersi di lui né della strana luce che padroneggiava nei suoi occhi.

“Le apparenza ingannano, eh?” sorrise verso l’ospite, il tono di voce basso, quasi un sussurro.

Solo allora James si voltò verso di lui. “Già. Le persone non smettono mai di stupirci.”

Un calore inaspettato venne a cozzare contro le sue labbra sottili, l’attimo dopo. Una presenza estranea, che lo lasciò inerme e impietrito.

Ma proprio quando il suo cervello riacquistò la capacità di riflettere in modo razionale, Sparrow si era già allontanato da lui con un sorriso da angelo con le corna e la coda a punta.

Il sorriso di un bambino che, dopo aver commesso una monellata, cerca di dare il bacetto per farsi perdonare.

Il sorriso di chi fa finta che non sia successo niente di rilevante.

“Pollo al curry, per cena?”

 

 

To be continued…

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Capitolo X

Come si stava bene.

Coperte spesse, tiepide e morbide in cui avrebbe passato una settimana intera.

Già, era proprio quello che gli ci sarebbe voluto. Una settimana intera a letto, a ronfare e rotolarsi nella trapunta come un animale in letargo…

Un momento.

James aprì un occhio. Poi anche l’altro.

Io a casa non ho queste coperte.

Di fronte a lui si paravano delle tende arancioni che lasciavano filtrare una singola fascia di luce, sottile eppure incredibilmente fastidiosa.

Dove diavolo sono.

Improvvisamente allarmato, il poliziotto si mise a sedere sul letto, uscendo completamente dal piacevole stato di torpore di poco prima.

Con sua immenso terrore, si rese conto che, eccetto per i boxer, era nudo.

E di fianco a lui, in condizioni non molto dissimili, c’era l’uomo che lo aveva –e che lo stava tutt’ora- ospitato.

Jack era completamente stravaccato sulla sua parte di letto, la bocca semiaperta, i dreadlocks disordinatamente sparsi attorno al viso. Il suo petto si alzava e abbassava a un ritmo lento e regolare mentre un paio dei suoi gatti gli si acciambellarono accanto alle gambe magre.

“Cazzo”, commentò Norrington, gli occhi che scrutavano attorno alla stanza mentre il russare di Sparrow gli ronzava nelle orecchie. I suoi vestiti erano sparsi ai piedi del letto, accanto a un paio di lattine di birra vuote. Sul comodino era posta una bottiglia di vodka- vuota.

Gli occhi verdi di James si accigliarono.

In stato di ubriachezza, si compiono atti di cui si è del tutto incoscienti; frequenti sono i vuoti di memoria.

In effetti, nella sua mente erano presenti solo frammenti di memoria, la quale versava nelle condizioni di uno specchio rotto.

Si ricordava di un pollo maledettamente piccante di cui però aveva ingerito porzioni a dir poco sostanziose; sembrava che la sua lingua ne risentisse ancora.

Si ricordava del salotto di Jack girare vorticosamente, dei miagolii dei gatti, di un sorriso terribilmente tentatore…

E poi?

A quel punto subentrava un terribile buco nero.

Che, forse, si poteva colmare solamente indovinando ciò che era seguito; il che non era poi così difficile…

“Oh, merda”.

Senza aspettare un solo attimo di più, Norrington si alzò di scatto in piedi, racchetando qua e là i suoi vestiti e mettendoseli in fretta e furia, le guance che gli si arrossavano per la vergogna e per la rabbia.

Soltanto allora si rese conto di che terribile mal di testa provava; i postumi della sbornia, naturalmente.

“Sei proprio un fottutissimo genio, Norrington”, borbottò tra sé e sé, premendo il palmo di una mano contro la fronte, resistendo al fortissimo impulso di dare un calcio al gatto rosso e bianco che gli si stava strofinando contro il polpaccio.

“E’ quel che dico anch’io”.

Il poliziotto si voltò con sguardo scettico.

Jack Sparrow si stava strofinando gli occhi, ronfando oziosamente e stiracchiandosi. La sua pelle era… abbronzata… e liscia… così liscia…

Ma che cazzo di pensieri mi metto a fare?!

Norrington si sforzò di guardare da un’altra parte, deglutendo.

Postumi della sbornia. Erano i postumi della sbornia.

“E’ stato un cambiamento piacevole rispetto alla tua solita, noiosa routine?” cinguettò Sparrow, mettendosi a sedere e offrendogli uno dei suoi sorrisi più micidiali.

“Che è successo?” chiese frettolosamente l’altro, evitando di innervosirsi.

“Tu cosa credi che sia successo?”

James sgranò tanto d’occhi; l’espressione divertita e in qualche modo saccente del collega non faceva che rendere le cose peggiori.

Seguirono diversi istanti di silenzio. La voce di Norrington si era bloccata in gola per lo shock. O per il disgusto. O per la rabbia. O per l’imbarazzo.

“Noi… Noi non…?”

Sparrow scoppiò in una sonora risata ai borbottii dell’altro.

“Rilassati, Jamie”, sospirò, stendendosi nuovamente. “Se qualcosa fosse successo, non avresti i tuoi adorati boxer addosso. E soprattutto, non saresti nelle condizioni di camminare.”

Ci vollero diversi istanti perché Norrington intendesse a cosa l’altro poliziotto si stava riferendo; quando ciò accadde, divenne talmente rosso che Jack scoppiò di nuovo a ridere.

“Sei troppo divertente, Jamie”, riuscì a dire fra una risata e l’altra.

L’unica cosa che fece James fu lanciargli un’occhiata talmente gelida che avrebbe potuto facilmente congelare il più bollente, più piccante piatto thailandese.

Si diresse fuori dalla stanza mentre Sparrow era ancora occupato a ridire, prese la propria giacca dal divano e chiuse la porta dell’appartamento dietro di sé con un sonoro tonfo, lasciandosi alle spalle il disordine generale causato dalla sera precedente e la voce del collega.

Scese le scale velocemente, guardando per terra.

Non vedeva l’ora che fosse tutto finito. Ritrovato Elizabeth, lui avrebbe ritrovato la sua scrivania mezza vuota, e la sua pace. Tutto sarebbe tornato alla normalità.

Niente Sparrow, niente bastoni fra le ruote, niente sbronze, niente prese per il culo.

Una catena perfetta.

Sceso la seconda rampa di scale, si ricordò che non aveva controllato il cellulare dalla sera precedente. Forse qualcuno aveva cercato di contattarlo e di informarlo a proposito delle novità. A quel pensiero, il suo cuore si alleggerì un minimo.

Pensare alla centrale e ai suoi colleghi era come pensare a una calda, accogliente casa abitata da persone che ci tenevano davvero a lui, e che non lo avrebbero mai deluso. Persone disposte a tutto per lui.

Era quello che gli altri per lui erano. Una famiglia.

Nonostante la mano malferma a causa dell’emozione, riuscì a selezionare il tasto desiderato.

Nessuna novità, ma stiamo tenendo duro. Come stai? Ti aspettiamo. Theo&Eddie

Chissà che faccia avrebbero fatto se avesse raccontato loro come aveva passato le ultime ore.

“Ehi, rinco”.

James fece schioccare la lingua.

“Che vuoi?” chiese secco, non voltandosi al suono dei passi che si avvicinavano.

“Vado al lavoro. Che c’è di strano?” rispose disinvolto il collega, facendo tintinnare le chiavi in mano.

Norrington rimise il cellulare in tasca. “Non sapevo fossi un tipo mattiniero.”

“Beh, la verità è che ho paura a lasciarti andare in strada da solo, Jamie.”

L’altro scosse quasi impercettibilmente la testa, roteando gli occhi. Azioni che compiva circa ogni trenta secondi quando si trovava a fianco del collega.

Aveva già iniziato a ridiscendere le scale quando Jack lo bloccò di nuovo.

“Ti stavi per addormentare e ho pensato di toglierti i vestiti per farti stare più comodo, tutto qui.”

Cristo, era proprio necessario parlarne?

James si voltò lentamente, guardando l’altro poliziotto in faccia per la prima volta dopo che era uscito dall’appartamento.

Le tracce di matita nera erano ancora presenti attorno al contorno degli occhi; se fossero stati gli occhi di qualcun altro, avrebbero fatto assomigliare quella persona a un panda. Ma nel caso di Jack non facevano che rendere quello sguardo più profondo e intenso.

“Andiamo, Sparrow.” Borbottò il castano, scendendo le scale frettolosamente, seguito da un Jack ghignante e soddisfatto.

+

“Credo di essere bisessuale”.

“Cosa?!” Due voci maschili si unirono nello stupore.

Seguirono diversi, scomodi, imbarazzanti istanti di silenzio.

James rimase appoggiato al muro, gli occhi bassi, le labbra serrate; gli altri due uomini lo fissavano a occhi sgranati, entrambi con in mano un bicchiere di plastica.

“Magari… Ci potresti dire qualcosa in più?” Suggerì cautamente Groves, inarcando un sopracciglio.

“Oh, vi dirò tutto” replicò sarcastico Norrington, alzando lo sguardo e incrociando protettivamente le braccia al petto. “Ieri sono andato a casa di Sparrow, mi sono fatto baciare e ubriacare da lui, stamattina mi sono svegliato nel suo letto e lui non fa altro che farmi gli occhi dolci. E la cosa peggiore di tutte e che non so che cosa voglia da me, né tantomeno cosa cazzo voglia io stesso!”

Gli altri due poliziotti lo fissarono ammutoliti e ancora più sconvolti di prima, stupiti dall’ondata di parole arrabbiate e confuse che erano uscite dalla bocca di un uomo che conoscevano per essere razionale e solitamente silenzioso.

Norrington si ricompose, tornando nella stessa identica posizione di prima, i due amici che non riuscivano a trovare le parole per esprimersi – qualunque cosa volessero esprimere.

Questo, finchè Gillette non iniziò a ridire tranquillamente, mescolando con il cucchiaino di plastica il suo caffè.

“Questo non ti fa di certo bisessuale, Jamie. E’ stato lui a baciarti ed è lui che sta cercando di fare il furbo. E’ lui a essere bisessuale – se non gay”, commentò con una leggera smorfia, ancora concentrato sulla sua bibita.

Norrington appoggiò la spalla al distributore automatico, sbuffando mentre si passava una mano fra i capelli. Il ragionamento di Edward era stato semplice, eppure corretto: lui non aveva fatto niente, giusto? Niente a parte lasciar fare a Sparrow tutto quello che gli era passato per la testa, che era già troppo.

Però…

“Parlatene”, intervenne Groves, scrollando le spalle. “Digli che non sei interessato e che la smetta di infastidirti.” Detto ciò, sorseggiò tranquillo il suo tè.

James era rimasto piacevolmente stupito da come l’avevano presa i suoi colleghi; non sembravano schifati né tantomeno eccessivamente sorpresi – a parte lo shock iniziale, certo. Non per nulla Norrington aveva deciso di sfogarsi con loro: sapeva che le sue confessioni con Theodore e Edward erano al sicuro.

“E se non volessi?”

Si pentì subito di aver replicato in quel modo. Soprattutto per il fatto di non averci pensato bene prima.

Gli altri due uomini inarcarono nuovamente le sopracciglia.

Groves si schiarì la gola. “Cosa vuoi dire?”

Norrington esitò qualche secondo prima di rispondere. “Beh… Voglio dire… Lui in fondo in fondo è una persona gentile… E mi sono accorto di guardarlo –diciamo, ecco… Più attentamente di prima, e… E che diavolo, non lo so nemmeno io.” Sbuffò, passandosi stancamente una mano sul viso. “Mi sembra di essere un adolescente sessualmente confuso”.

“Stai tranquillo, Jamie”, lo incitò Gillette, sedendosi sul davanzale della finestra dall’altra parte dello stretto corridoio. Aspettò che una segretaria gli passasse davanti prima di proseguire. “Sparrow è davvero… Beh, un personaggio. Irritante ma, se vogliamo, attraente. Soprattutto per te, che non sei abituato a trattare con gente del genere, si è rivelato una boccata d’aria inaspettitivamente fresca. Vorresti sapere di più sul suo conto, ma al contempo ne sei spaventato e preferisci stare all’erta. La tua è solo curiosità- almeno, credo”.

“Ma sentitelo! Credevo che fosse Beckett lo psicologo, non tu”, lo stuzzicò Groves, dirigendosi verso Gillette mentre quest’ultimo consumava il contenuto del suo bicchiere senza prestargli troppa attenzione. “Come mai tutto d’un tratto sei diventato un esperto in queste tematiche?” Chiese malizioso, andando ad appoggiarsi al muro, di fianco al collega.

Il rosso rimase interdetto per una frazione di secondo, prima di voltare lo sguardo in direzione opposta con fare sospetto. “Non ci vuole mica una laurea per consigliare un amico”, borbottò.

“E invece io dico che stai nascondendo qualcosa, caro il mio Irlanda…” Ridacchiò Theodore, battendo piano il pugno contro la spalla forte dell’altro, che si limitò a sbuffare. “Non sei mai stato troppo bravo a nascondere le cose, quindi spara”.

Gillette abbassò lo sguardo. “Non è niente…”

“Ho detto spara.”

Edward sospirò. “Vi ricordate di quando l’altro giorno Swann mi ha mandato a casa?”Raccontò ai colleghi di come si era trovato Andrew, l’amico del fratello, a casa; di come avesse creduto che era venuto per Sean, quando invece lo scopo della sua visita era stato un altro.

“Insomma, mi dice che gli piaccio. E io gli rispondo che anche lui mi sembra un ragazzo in gamba, cortese e disponibile, uno che nella vita farà strada…”

“E poi?” Lo incitò Groves, che sembrava essersi parecchio calato nel racconto.

“Beh… La sua risposta è stata: ‘No Edward, non hai capito… tu mi piaci.’ ”

Detto ciò, il rosso alzò lo sguardo verso il collega con aria di sufficienza, come aspettandosi la sua reazione.

Theodore rimase a bocca aperta per diversi istanti, prima di scoppiare a ridire. “E bravo il nostro Irlanda!”

“Ma la vuoi smettere di chiamarmi così, cazzo?!”

“E il succo della storia è…?” Chiese Norrington, contento di avere le rogne di qualcun altro da ascoltare. Almeno non lo avrebbero potuto accusare di avere manie di protagonismo.

“Non c’è”, tagliò corto l’altro, tornando al suo caffè. “Gli ho spiegato come stanno le cose ed è finita lì. Mi è dispiaciuto per lui, ma che posso farci… Semplicemente non sono cose per me.”

“Ecco perché quando sei tornato eri così strano,” annuì Theodore, più a se stesso che all’amico.

James lo ignorò. “Ma tu non sei attratto da lui, no?”

Gillette scosse la testa. “Per niente. Non ho mai avuto interesse per gli uomini – e comunque sono sicuro che avrei dato la stessa risposta anche se Andrew fosse stato una donna… Però, ecco… Mi sono sentito anch’io strano. Confuso, e un po’ arrabbiato, a dirla tutta”. Concluse gettando il bicchiere vuoto nel cestino di fianco al suo piede.

Norrington annuì, guardandosi le scarpe. Ripensò a tutto quello che si erano detti negli ultimi minuti; minuti che si erano rivelati preziosi, che gli avevano fatto intendere che forse il problema se l’era creato da solo. Aveva preso tutto troppo sul drammatico, perfino sul tragico.

Probabilmente Edward aveva ragione: la sua era semplice curiosità. In ogni caso, lui non aveva fatto niente, si ripetè. Erano cose che poteva capitare.

Già… Ma è normale il fatto che io pensi che Sparrow sia da stupro?

“Già che siamo in aria da confessionale, anche io ho qualcosa da dirvi”, annunciò Groves, gli angoli della bocca che si arricciavano in un sorriso felice e sincero.

Non fece aspettare troppo gli amici.

“Allison aspetta un bambino”.

Gillette emise un suono che era una via di mezza fra un urlo di esaltazione e un ululato, scattando in piedi e abbracciando il collega. “Congratulazioni, Theo!” Rise, battendogli una mano sulla spalla. “Non vedo l’ora di vederti alle prese con biberon e pannolini”, puntualizzò, sciogliendosi dall’abbraccio.

L’altro gli mostrò la lingua prima di ricevere i più sinceri auguri e un caloroso abbraccio anche da James, non potendo nascondere la gioia e l’orgoglio.

“Diamine, se fosse almeno mezzogiorno andrei a prendere qualche lattina di Guinness…”

Theodore scosse la testa. “Irlandese fino all’osso, lui. Non ti preoccupare, Eddie. Ci saranno altre occasioni.”

I tre uomini si sorrisero, dimenticando, anche per soli pochi istanti, lo stato di angoscia e preoccupazione generale in cui si trovavano.

“Beh, io comunque vado a festeggiare con una bella sigaretta”, annunciò il rosso, mettendosi le mani nelle tasche dei pantaloni e incamminandosi verso l’ascensore.

“Che coglione”, commentò Groves, guadagnandosi una linguaccia da parte dell’altro.

“Qua dentro regna l’anarchia”, rise.

+

Tenne il cellulare in mano a lungo, così a lungo che il freddo si trasformò in dolore.

Diamine, Ed… Sei o no un poliziotto? Non fare il pappamolle. Chiamala e basta.

Con un profondo sospiro, compose velocemente il numero che gli aveva dettato la centralinista, prima di avere il tempo di ripensarci.

Batté nervosamente le dita sulla parete, mentre gli squilli lo rendevano ancora più inquieto.

“Non rispondere”, sibilò. “Non rispondere, non rispondere, non risp-“

“Pronto?”

L’ansia e il nervosismo diventarono vuoto.

“Pronto?” chiese di nuovo la voce all’altro lato della cornetta, con una nota di insistenza.

“A-Ana?”

+

“Novità?”

L’uomo scosse la testa, sconsolato, avvicinandosi agli altri due. “Niente. E’ un osso duro, non molla.”

Swann si lasciò cadere sulla prima sedia che gli si parò davanti, massaggiandosi le tempie, gli occhi arrossati e quei pochi capelli che aveva arruffati a causa delle troppe poche ore di sonno.

“Sa di aver già sbagliato una volta, non vuole farlo di nuovo”, commentò Norrington, guardando fuor dalla finestra.

“Esattamente”, rispose una voce assolutamente ferma.

Groves diede un’occhiata all’uomo che aveva a pochi metri da sé. “Lei che ne dice, Beckett?”

L’altro cominciò a girare in tondo, le mani dietro la schiena, i grandi occhi verdi fissi su un punto del pavimento. “Dico che è meglio cercare un’altra alternativa. La salute mentale di Garrett è estremamente fragile. Ho provato a giocare su questo, a cercare di stuzzicare i suoi punti deboli, ma la paura è qualcosa di molto potente. Lo ha bloccato definitivamente. Terrorizzato com’è all’idea di commettere un altro sbaglio, non credo che parlerà. Non entro la prossima settimana.” Concludendo il suo giro, Beckett alzò lo sguardo verso gli altri, quell’impercettibile sorriso perennemente impresso sulle sue labbra.

“Beh, il dottore sei tu…” Sentenziò Swann, facendo cadere una mano sul ginocchio.

Groves e Norrington si guardarono preoccupati. Quel ragazzo era il loro unico appiglio a Feng; di alternative, come le aveva chiamate Beckett, non ce n’erano.

Erano sul punto di chiedere al capitano cosa potessero fare quando Mullroy, un agente dalla mole notevole, goffo ma che aveva la simpatia di tutti, richiamò la loro attenzione da un’altra scrivania più in là.

“C’è una chiamata per lei, c-capitano Swann”, annunciò, tenendo la cornetta in mano. “E’ urgente, direi”.

 

To be continued…

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


*Si prostra umilmente*

Vi prego di scusarmi per l’enorme attesa. Non mi è mai successo di tralasciare la scrittura per così tanto tempo, ma vari fattori hanno impedito l’aggiornamento delle mie fanfiction : 1- problemi di natura personale, per cui a causa del mio stato d’animo frequentemente indisposto non sono riuscita a concentrarmi sulle trame; 2- scuola: una parola che è un programma. Gli ultimi mesi sono stati davvero soffocanti; 3- l’ispirazione mi prendeva nei momenti meno opportuni per abbandonarmi dopo… diciamo cinque minuti. E onestamente, non mi andava di scrivere spazzatura. I miei lettori sarebbero stati insoddisfatti, ma io di più -.-

Detto questo, spero che riuscirete a perdonare la mia negligenza, e che comunque continuerete a seguire la storia.

Ne approfitto per ringraziare i miei lettori più fedeli, che sono stati così gentili da lasciarmi dei commenti o delle recensioni. Non so cosa farei senza di voi. Resistite ancora un paio di capitoli XP

Buona lettura.

Capitolo XI

“Ci dispiace non essere riusciti a fare dei passi avanti, ma ce la stiamo mettendo tutta, te l’assicuro”.

Un piccolo sbuffo d’aria dall’altra parte del telefono.

Era strano come, sebbene l’avesse vista appena un paio di volte, riuscisse tuttavia a immaginare che emozioni stessero prendendo forma sul viso di Anamaria.

Ora, ad esempio, riusciva a vederla mentre sorrideva debolmente, in un misto di gratitudine per il suo appoggio e di amara consapevolezza. Cedendo alla realtà da una parte, aggrappandosi a quel che le poteva rimanere dall’altra.

“Non lo metto in dubbio”. Anche il tono della sua voce si accoppiava perfettamente con tale constatazione: era mite, dolce, pacato… E la nota di rassegnazione preoccupò Gillette.

Deglutì.

+

Era tutto un frenetico formicolio di passi e comandi.

Tutti andavano nella stessa direzione, scendendo le varie rampe di scale, chi mettendosi il giubbotto antiproiettile, chi caricando la propria pistola.

“Avanti, muoversi!”

Groves velocizzò i propri passi per poter raggiungere il capitano.

“E’ sicuro che sia il momento adatto?”

L’altro tenne lo sguardo fisso di fronte a sé; la bocca formava una linea dritta, sottile, la mascella era serrata.

Già prima che Swann aprisse bocca, Groves conosceva la risposta.

“Cos’altro abbia da aspettare, Theodore?”

+

“Sai, io… Non dovrei promettere niente a nessuno”.

“Si… Immagino”.

“Purtroppo, noi poliziotti non ne siamo in grado. Spesso le cose non vanno come tutti vorremmo”.

Un sospiro. Ecco, ora Ana aveva sicuramente chiuso gli occhi, e magari si stava tenendo la fronte, sull’orlo delle lacrime…

“Lo… Lo so”. Ancora una volta, Gillette fu sicuro di aver azzeccato.

Iniziò a battere le punte delle dita sul muro.

“E se io volessi azzardare?”

+

“Lo sapevo. Lo sapevo che solo dopo un paio di giorni fuori dalla squadra narcotici mi sarei annoiato a morte. Era proprio l‘ora di vedere almeno un po‘ d‘azione”.

Le narici di Norrington si dilatarono notevolmente. Il poliziotto cercò di soffocare un pesante sbuffo e contemporaneamente di non far girare gli occhi verso il punto da cui era provenuta la voce- si fa per dire, il suo fianco sinistro.

“Poi naturalmente voglio vedere cosa sa fare il mio Jamie con quelle sue gambette tanto snelle e una pistola in mano- il sogno erotico di ogni donna, eh, Norrie?”

L’altro socchiuse per un istante gli occhi, i ciuffi di capelli castani gli sbattevano leggermente sulla fronte mentre scendeva velocemente gli scalini.

Se per Jack quello era un gioco, un trastullamento, per lui non lo era- non più. La cosa doveva finire: quei commenti, quelle suggestioni del collega lo turbavano ormai troppo. A ogni parola si chiedeva se l’altro fosse serio o se lo stesse puramente prendendo in giro, se in quello che diceva ci fosse una parvenza di verità o se fosse tutto una finzione. C’era una linea netta che divideva le due cose, e lui non sapeva su che parte stesse Jack.

A caso concluso -e, a quanto pareva, ormai non mancava molto- avrebbe raccolto la forza per affrontare quel… quell’essere dai mille volti.

“Sparrow?”

“Si?”

“So che probabilmente questo è pretendere troppo da te, ma potresti astenerti dal dire cazzate fino a quando questa cosa non finisce?”

“Oh, non lo so, Jamie”, replicò Jack, inarcando le sopracciglia con grande teatralità mentre si accertava di avere una ricarica di proiettili nella tasca interna del giubbotto di pelle. “Come dici tu, mi costerebbe davvero molto”.

“In quel caso mi limiterò ad ignorarti”, constatò con semplicità l’altro, facendo spallucce.

Sparrow volse gli occhi verso il collega, mostrando i denti in un ghigno divertito.

“Non è quello che tenti di fare sempre, mio caro?”

Non riuscì a soffocare del tutto una risatina alla vista dell’espressione esasperata di James.

Rimase indietro, facendosi sorpassare dagli altri poliziotti per mettersi il giubbotto antiproiettile, accingendosi a scendere l’ultima rampa di scale.

+

“Lo hai già fatto, ricordi?” La sentì tirare su col naso. “Quando mi hai accompagnata al bar”.

Fu una specie di flash per entrambi, il ricordo di quei minuti passati assieme, l’immagine della mano bianca e forte di lui posata su quella esile e color caffelatte di lei.

“Me lo hai già promesso. Mi… Mi hai promesso quella mattina di riportarmi Cristina”.

Un sorriso si dipinse sulle labbra del poliziotto. “Allora questa sarà solo un’ulteriore conferma”.

Si sentiva saturo di una strana energia, di un insolito senso di potenza, alimentato ulteriormente da quella conversazione. Anche Ana gli stava dando l’impulso di andare avanti.

Già, quella mattina. Momenti in cui effettivamente di era venuto a creare qualcosa, fra di loro.

Era stata l’ultima volta che si erano visti, e lui sentiva la sua mancanza.

“Mi dispiace che tu sia andata via, quel giorno”, continuò, cambiando argomento. Si girò, andando ad appoggiare la schiena al muro. “La mia ex non ci avrebbe dato fastidio. L’ho mandata subito via”.

Un respiro mozzato. Dall’altra parte della cornetta non provenivano suoni di alcun tipo.

Il poliziotto corrugò la fronte. “Ana? Tutto bene?”

Balbettii. “I-io… Si… Soltanto pensavo che…”

Non fecero in tempo a dirsi null’altro.

Il rosso si voltò non appena vide diversi dei suoi colleghi dirigersi a gran velocità verso le macchine della polizia parcheggiate di fronte alla centrale; non passarono una manciata di secondi che comparì pure Groves. Quest’ultimo gli passò senza troppe cerimonie un giubbotto antiproiettile.

“Ricarica la pistola”, gli fece, prima di allontanarsi nuovamente.

Il rosso rimase interdetto per un istante prima di riprendere coscienza di ciò che stava succedendo. Le sue palpebre sbatterono una volta, prima che nei suoi occhi comparisse una nuova luce.

“Ana, devo andare. Ti richiamo”.

“Aspet-”

Beep. Beep. Beep.

+

Le sopracciglia fini erano piegate quasi innaturalmente a causa della confusione in cui era stata gettata l’attimo prima.

Allontanò il cellulare dall’orecchio per tenerlo di fronte a sé, gli occhi fissi sulle lettere nere comparse poco prima sullo schermo.

Durata chiamata: 00:08:11

Ma anche se la conversazione era stata troncata così bruscamente, Anamaria aveva udito quelle tre parole che erano state rivolte al suo interlocutore.

E anche se Edward non l’avrebbe sentita, lei pronunciò comunque quel consiglio che avrebbe voluto dargli, in poco più che un sussurro, premendo il cellulare contro le labbra.

“Ti prego… Stai attento”.

+

“Ultimamente mi hai nascosto un po’ troppe cose, Eddie”.

“Cos’è successo?” Chiese nervosamente il rosso, sedendosi velocemente sul sedile posteriore dell’auto, a fianco al compagno.

“Con chi stavi parlando al telefono? Adesso che mi viene in mente-”

“Sapevi che fra gli uomini di Feng c’è un agente infiltrato?” Lo interruppe Swann, guardando i due nel finestrino retrovisore, mentre l’agente Murrtogg metteva in moto la macchina.

“Cosa?”

“Non mi hai neppure detto dove eri andato a finire quel giorno che ti sei comportato in modo strano e che ti ho trovato in mezzo alla strada”.

Gillette lanciò un’occhiataccia al collega, come a volerlo informare che in quel momento c’erano cose più importanti di cui discutere.

“Jo Leong, del distretto di New York”, continuò imperterrito il capitano, gli occhi chiari fissi sulla strada di fronte a sé. Le sirene avevano già iniziato a suonare in massa. “Ha fatto cadere diversi pezzi grossi della mafia cinese nelle mani dell’FBI”.

“Perché ne siamo stati informarti solo adesso?” chiese Gillette, inarcando un sopracciglio mentre si infilava il giubbotto antiproiettile.

“Suppongo che per Leong fosse ancora troppo rischioso- insomma agente, stia attento!” L’ultima parte della frase venne pronunciata in tono decisamente più alto e irritato.

I tre poliziotti furono costretti a reggersi su qualcosa per non sbattere la testa sul finestrino mentre l’auto curvava pericolosamente e all’ultimo istante, evitando di andare a sbattere contro un camion.

Murrtogg balbettò delle scuse mentre assumeva un’espressione più concentrata, curvandosi leggermente in avanti.

Swann roteò gli occhi prima di continuare. “Era ancora troppo rischioso tentare di fare qualcosa quando si trovava nella squadra di Feng da così poco tempo. Da quel che mi hanno detto, tende a non fidarsi troppo degli ultimi arrivati. Inoltre, hanno teso a spostarsi molto da quando Garrett ci ha informati del loro nascondiglio”.

“Quindi ora dove andiamo?” Gillette guardò fuori dal finestrino, tentando di riconoscere la zona.

“A casa di Feng, il nuovo quartiere generale. Ora si trovano tutti lì e- Murrtogg, ha sbagliato strada, dannazione!”

“Oh!” L’agente al posto di guida sbattè le palpebre, notando sul navigatore che effettivamente stavano andando nella direzione sbagliata. “R-riparo subito, capitano”, disse nervosamente, facendo un’inversione a U e provocando diversi suoni di clacson. Impaurito, mancò nuovamente di imboccare la strada giusta e fu costretto a ripetere l’operazione.

Gli altri poliziotti sbatterono da un capo all’altro della macchina. Swann si tenne il gomito, che era andato a colpire contro il manico della portiera, mentre Gillette con una smorfia si massaggiava la fronte, su cui fra non molto, probabilmente, sarebbe cresciuto un bernoccolo a causa dello scontro con il finestrino. Groves, a sua volta, non riusciva a smettere di ridere mentre era ancora appoggiato al collega.

“Io amo il mio lavoro”, commentò, beccandosi uno sguardo non del tutto innocuo e comprensivo dagli altri due.

+

Norrington sospirò nervosamente, gli occhi verdi che osservavano come, a poco a poco, gli edifici lungo la strada stessero divenendo man mano più rari.

Il viaggio in effetti non era stato dei più brevi. Feng abitava in una zona notevolmente fuori mano, oltre la periferia. Ad ogni minuto, ad ogni istante che passava, il detective veniva scosso dal timore di poter ritardare, anche solo di poco, e di perdere Elizabeth e quella ragazzina un’altra volta.

Come un giocatore che si allena troppo a lungo prima dello scontro con un avversario che sa essere più abile di lui, James aveva più paura ora di quanta ne avesse avuta durante quegli ultimi giorni.

Sentiva lo spazio, il tempo di fronte a lui stranamente… vuoti. Non aveva la più pallida idea di cosa stesse aspettando lui e i suoi colleghi: avrebbero potuto sorprendere la squadra di Feng come non avrebbero potuto, avrebbero potuto salvare gli ostaggi come avrebbero potuto fallire, e… qualche vita poteva andare persa.

Rischio la vita praticamente ogni giorno… Che mi sta prendendo?

Corrugò la fronte quando intuì che, forse, non era per se stesso che si stava preoccupando.

“Ci siamo quasi”, annunciò l’agente al posto di guida. Le sirene, difatti, si stavano a poco a poco spegnendo del tutto.

La maggior parte delle case in quel quartiere erano più che altro somiglianti a ville di medie dimensioni, ben distanziate le une dalle altre, con giardini sul davanti perfettamente curati e dall’erba di un verde quasi splendente.

Norrington osservò con la coda dell’occhio il compagno di squadra che gli sedeva accanto. Quest’ultimo batteva il piede sul pavimento a ritmo regolare, tenendo i palmi delle mani appoggiati sulle ginocchia; le labbra erano leggermente arricciate, mentre gli occhi, privi di qualsiasi forma di eccitazione, vagavano fuori dal finestrino.

James corrugò nuovamente la fronte, non riuscendo però a trattenere un piccolo sorriso. Sembrava che Sparrow stesse partecipando ad una visita guidata di una città d’arte piuttosto che a un’azione di polizia. Probabilmente Edward aveva avuto ragione: quelli della narcotici ci erano ormai abituati. Per il suo collega l’irruzione nell’abitazione di un capo mafioso sarebbe sicuramente stata una passeggiata.

Lo spero.

Proprio quando il poliziotto si chiese perché la sua mente faceva simili dissertazioni, l’auto si fermò. Norrington notò che avevano parcheggiato vicino alle altre in quel che sembrava il retro di un giardino, ma prima che potesse aprire lo portiera, qualcun altro lo fece per lui.

“Norrington, Sparrow, con me”.

Swann si allontanò velocemente, l’orlo del trench beige che gli svolazzava attorno alle caviglie.

I due agenti si guardarono per un istante, scambiandosi uno sguardo di sorpresa mista a dubbio, prima di spostarsi sul sedile per uscire dal veicolo.

 

To be continued…

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