La buona sorte

di Flaqui
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 - La ragazza allo specchio ***
Capitolo 3: *** 2 - Quello che sono ***
Capitolo 4: *** 3 - Il ragazzo sotto la pioggia ***
Capitolo 5: *** 4 - Solo per questa notte ***
Capitolo 6: *** 5 - Ti rimane solo quella ***
Capitolo 7: *** 6 - Brillante come il sole ***
Capitolo 8: *** 7- Non ci tengo, grazie. ***
Capitolo 9: *** 8 - Direi che possiamo anche finirla qui ***
Capitolo 10: *** 9 - Lo so, Rosie. Lo so. ***
Capitolo 11: *** 10 - Dovremo contare sull'effetto sorpresa ***
Capitolo 12: *** 11 - Cosa ti è successo, ragazzina? ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Allora, prima di tutto, anche prima di iniziare a rompervi i boccini (cosa che intendo comunque fare dopo), bisogna dire una cosa importante:
Questa storia è ovviamente ispirata al meraviglioso libro "Hunger Games" di Suzanne Collins che, insieme a Mamma Row, mi ha fatto sognare e mi ha regalato e continua a regalarmi emozioni oltre ogni limite. I personaggi della storia non sono miei, ovviamente, appartengono alla fantastica J.K. e non sono utilizzati a scopo di lucro! (Si dice così? Non sono molto brava in queste cose!)
Comunque, per chi avesse letto il libro a cui la storia è ispirata, bhe, non ci saranno sorperese sconvolgenti, per chi non l'avesse letto...
Ci vediamo sotto!
E possa la buona sorte essere sempre dalla vostra parte!
Fra



Alle mie ragazze (colfersdietcoke Harry Potterish  BurningIce Alexiel94 bess_Black)  perchè ci sono sempre e perchè, senza di voi, non avrei mai avuto il coraggio di pubblicarla!

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Vincere significa fama e ricchezza. Significa non dover faticare tutta la vita per un posto di lavoro, per guadagnare un piccolo stipendio che coprirà a malapena le tue spese. Significa non doversi preoccupare di nulla se non di divertirsi, di passare la tua vita con allegria, con leggerezza, senza alcun tipo di pensiero negativo.
Ovviamente se riesci a convivere con te stesso, dopo.
Perdere, invece, significa morte certa.
Niente di più.
Semplicemente, muori. Un colpo di cannone, il tuo corpo prelevato e rispedito a casa, dalla tua famiglia, una bella cerimonia funebre, e niente gloria, solo rimpianto e rimorso. Perché magari saresti riuscito a farcela, impegnandoti un po’ di più.
Ma vincere, perdere, non cambia molto. Se perdi muori. Se vinci, vivi. Ma vivi senza speranza, assillato da incubi che ti tortureranno e ti faranno impazzire, togliendoti il sonno.
E che prezzo ha, poi, la vittoria?
Quanto sei disposto a perdere?
Quanta innocenza sei conscio di abbandonare per sempre? Quanto di te sei a pronto lasciare nell’arena?
Che i Giochi della Fame abbiano inizio, signori e signori. Che abbiano inizio davvero.
 

***

 
-Lily! Di al tuo stupido gatto di togliersi dai piedi!-
Leo, il gatto siamese di Lily, mi soffia contro, il pelo rossiccio irto e i denti scoperti in una smorfia di sfida. Mi viene involontario assumere anche io un ghigno di quelli spaventosi e agitare le braccia contro l’animale, cercando al tempo stesso di non far cadere le innumerevoli piantine per la lezione di Erbologia che trasporto.
Lily ride e si limita ad afferrare il suo orribile gattaccio e stringerselo forte contro il petto, facendogli un grattino dietro le orecchie.
Leo è probabilmente il gatto più brutto, grasso e antipatico che io abbia mai visto. Lily l’ha trovato sul ciglio della stradina di campagna che facciamo sempre per arrivare a Casa Potter, con una zampa rotta e vari segni rossi sulla pancia.
Ha piagnucolato così tanto che, pur di farla tacere, Albus ha accettato di portarlo a casa e tenerlo.
Non abbiamo mai avuto un rapporto idilliaco, noi due. Durante le prime settimane, a quei tempi -era l’estate prima del mio secondo anno- ero a casa di Al, aveva cercato più e più volte di attentare alla mia salute ma, con una buona dose di croccantini, ero riuscita a limitare le sue rimostranze di odio a soffi irritati.
Lily è mia cugina e, anche, l’unica persona in questa scuola per cui provo un vero e sincero affetto.
A parte Al e Hugo, ovvio.
Lily ha. Lily ha i capelli rossi, rossi come il tramonto, come il sangue, come la forza di un vulcano in eruzione. Lily ha gli occhi color cioccolato di zia Ginny e delle ciglia incredibilmente lunghe. Lily ha una risata strana.
Lily ha tutto quello che avrei dovuto avere io.
La delicatezza, la dolcezza, il sorriso smagliante, il carattere carismatico, la spontaneità che le fa conquistare tutti senza il minimo sforzo, la bontà e la ingenuità tipica di chi non riuscirebbe a fare nulla di male neanche volendo.
Ma non me la prendo troppo perché essere gentile e disponibile non è proprio il mio forte e, se qualcuno deve amarmi, in questa scuola, preferisco che sia una persona di cui mi fido e che rispetto piuttosto che tanti sconosciuti abbacinati dal mio cognome altisonante.
-Forse è meglio iniziare ad andare, l’anno scorso hanno punito chi è arrivato in ritardo- suggerisce lei e io annuisco, seguendola lungo la scalinata.
Camminiamo in silenzio per i corridoi deserti, i tacchetti delle scarpe da cerimonia che ci ha comprato zia Ginny che picchiettano ad intervalli regolari.
Albus si aggiunge silenziosamente al nostro piccolo corteo quando superiamo l’imbocco per i sotterranei, la camicia bianca inamidata lasciata volutamente aperta e fuori dai pantaloni. Se non possiamo rifiutarci di partecipare al sorteggio, dice lui, almeno vogliamo parteciparci secondo le nostre regole.
Lily, invece, la pensa diversamente. Il suo vestito lilla ondeggia lievemente anche senza il minimo alito di vento e la sua capigliatura rossa raccolta in un nodo le da una bellezza effimera e deliziosa, tipica di chi vuole andare a morire in grande stile.
–Se devo andare a morire, preferisco farlo in pompa magna. Tutti dovranno ricordarsi di me- mi ha detto quando sono passata a prenderla dal suo dormitorio.
Io ho scosso la testa.
Le probabilità che Lily venga scelta sono pressoché nulle.
Quelli che dovrebbero preoccuparsi di più siamo io e Albus, visto la spropositata quantità di biglietti che abbiamo a testa.
Ogni anno, da quando ne compi undici, il tuo nome viene scritto su un fogliettino bianco e lasciato cadere in una boccia di vetro, dove, se sarà sorteggiato, ti garantirà un biglietto via treno per l’inferno. Il sorteggio avviene fino a che il ragazzo non compie diciotto anni e si diploma.
Volendo uno studente può assumersi la responsabilità di un altro e scrivere il suo nome al posto di un’altra persona. Io l’ho fatto fino a quando Hugo non ha compiuto tredici anni e si è rifiutato di farmi rischiare anche per lui. Albus e James, invece, si sono divisi i biglietti di Lily anno dopo anno ma, anche lei, quest’anno è insorta e si è rifiutata di accettare questa sicurezza a discapito dei fratelli.
James, che si è diplomato l’anno scorso ed è ormai fuori pericolo, ha provato più e più volte a convincerla, ma lei non ha voluto sentirne ragione.
Io ho dieci biglietti. Albus ne ha undici. Hugo ne ha tre. Lily ne ha solo uno.
Non toccherà a noi, ne sono sicura, ma la paura ti sale sempre.
 
Rachel Conti, la signora americana che dovrà scortare,
da qui a qualche minuto, due di noi all’inferno, si lancia un’occhiata insoddisfatta intorno. Non le piace dover essere la nostra accompagnatrice, siamo troppo poco adatti ai suoi standard.
Siamo nel grande cortile di Hogwarts e attendiamo con una certa rassegnazione l’inizio di una nuova cerimonia del sorteggio per i Giochi della Fame.
Siamo in molti, qualche centinaia, all’incirca. Tutti i maghi e le streghe, anche quelli che non frequentano Hogwarts –questi ultimi provvisti di un localizzatore, nel caso, se il loro nome saltasse fuori, decidessero di scappare- dagli undici anni fino alla maggiore età, e, per quanto possa apparire strano ad uno osservatore esterno, siamo tutti in silenzio.
Dalla mia postazione, terza fila a sinistra, nel settore dei ragazzi Grifondoro, riesco a vedere benissimo la parrucca arancione di Rachel e anche a notare che si sta staccando da un lato.
Sento i miei compagni che si agitano, accanto a me, ma non riesco, e non voglio, concentrami sulle loro parole, perché ho paura di quello che potrei sentire.
Lily mi sfiora il dorso della mano con la sua e, quando alzo lo sguardo, mi sorride dolcemente, senza però poter nascondere completamente l’angoscia nei suoi occhi. Mi ritrovo anche io a sorridere, senza un vero motivo, solo perché, per quanto possa essere stupido, fingere di non essere preoccupata mi fa sentire meglio.
Rachel fa un passo in avanti e, quando le telecamere e le attenzioni dei fotografi e dei giornalisti sono rivolti verso di lei, mette su il suo falsissimo sorriso entusiasta.
Se non sapessi che ci odia con tutto il suo cuore direi quasi che vorrebbe abbracciarci tutti.
In ogni modo si avvicina al microfono e picchietta allegramente con il dito. Si schiarisce con calma la voce e il suono viene amplificato a dismisura, aiutato anche dalle casse del suono, dietro di lei.
È questo il vero potere degli americani. Usare oggetti comuni, babbani, e poi rimodellarli, ricrearli, migliorarli. Loro non inventano nulla di nuovo, riciclano.
-Buongiorno a tutti!- annuncia con la sua voce troppo pimpante e acuta –Diamo inizio alla trentaquattresima cerimonia del sorteggio per i Giochi della Fame!-
Lily stringe forte la mia mano e vorrei davvero dirle di smetterla, perché mi fa male, ma non ce la faccio, perché anche io ho una insensata voglia di aggrapparmi a qualcuno, in questo momento.
-La procedura la conoscete già! Due ragazzi verranno sorteggiati grazie a questi fogliettini- e qui si ferma ad indicare il tavolo dove sono posizionate due piccole urne stracolme di pezzetti di carta ripiegati –Questi due prescelti saranno i fortunati che parteciperanno ai Giochi della fame!-
Scoppia in una risatina entusiastica e io non riesco a fare a meno di guardarmi intorno, cercando con lo sguardo Albus, per vedere la sua reazione.
Lui odia Rachel Conti e le sue stupide risatine. Quasi quanto odia i Giochi della Fame.
Lo individuo qualche fila più indietro, vicino ai ragazzi di Serpeverde, le mani infilate mollemente in tasca e un atteggiamento rilassato tradito solo dalle spalle contratte. Mi fissa di rimando e cerca di abbozzare un sorriso, ma non è mai stato bravo in queste cose.
Io ricambio, o almeno ci provo, e, senza rendermene conto, annuisco fra me e me.
Questa è l’ultima cerimonia del sorteggio a cui dovremo partecipare. Questo è il nostro ultimo anno all’inferno.
Rachel, intanto, ha finito i suoi soliti convenevoli e assume una strana espressione seria mentre dice la solita frase con cui ci augura buona fortuna ogni anno.
-Felici Giochi Della Fame! E possa la buona sorte essere sempre dalla vostra parte!-
Rachel fa un passo avanti e con un baldanzoso “prima le signore!”, afferra la boccia con i nomi delle ragazze e la porge alla nostra preside, la professoressa Sinistra, invitandola a scegliere un biglietto e a passarglielo.
La professoressa Sinistra ci guarda con la sua espressione seria e determinata che sembra sempre volerti dire di più e poi, come se si fosse appena risvegliata da un sonno incredibilmente lungo, allunga la mano verso la ciotola trasparente dove sono contenuti i nomi delle ragazze.
Dieci foglietti, lì dentro, portano il mio nome.
Dieci foglietti, lì dentro, sono scritti con la mia grafia un po’ sbilenca e esageratamente grande.
Mia madre dice che dovrei sforzarmi di scrivere meglio, che una ragazza intelligente come me non può permettersi di consegnare qualcosa -una relazione, una documentazione, persino il foglietto per il sorteggio ai Giochi della Fame- con quella brutta calligrafia.
Ma mia madre dice tante cose e non me ne sono mai preoccupata molto.
In questo momento, però, i miei occhi sono fissi sulla mano della professoressa Sinistra. È incredibilmente curata, per appartenere ad una donna di quell’età. Ha la pelle liscia e pallida. Così chiara che si riescono a vedere le vene in quei pochi centimetri scoperti dalla tunica.
È con un movimento deciso che afferra uno dei biglietti nella boccia, come se, facendo il tutto più velocemente, potesse abbreviare anche la tortura.
Ma non serve a niente.
Perché, comunque vada, per due di noi, due fra tutti quelli che in questo momento sono in questa sala, il destino è segnato.
Condannati a morire.
Perché è questo il loro destino. Nessuno, ad Hogwarts, è mai riuscito a vincere un edizione dei Giochi della Fame. Solo una ragazza, mia cugina Victorie, che ha partecipato sei anni fa.
Il punto è che, qui ad Hogwarts, la vita, ti insegnano a rispettarla, ad onorarla. A ringraziare ogni giorno per la possibilità di avere un tetto sulle spalle e del cibo con cui nutrirsi. Di certo nessuno, qui, è pronto a sfoderare la sua bacchetta contro qualcuno, per quanto sconosciuto o derelitto o antipatico possa essere, e pronunciare una Avada Kedavra.
Nella altre scuole è diverso.
A Durmstrang, per esempio, essere scelti per rappresentare la scuola ai Giochi è un onore, un privilegio per pochi. I favoriti vengono allenati, anche se sarebbe contro le regole imposte da oltre oceano, e vengono trasformati in macchine da guerra pronte ad attaccarti. Vengono persino fatte delle pre-selezioni, per evitare che i deboli debbano andare nell’arena dando motivi di imbarazzo alla scuola.
Non so come funzionino le cose a Beauxbatons, ma, da quel poco che sono riuscita a capire da mio cugino Louis, che frequenta il terzo anno lì, nonostante le cose non siano forzate e dure come nella scuola nordica, anche i francesi preparano le classi ad ogni evenienza.
La verità è che, qui ad Hogwarts, nonostante siano passati ben ventiquattro anni da quando i primi Giochi della Fame sono stati istituiti, nessuno è davvero pronto ad affrontare la realtà.
Nessuno vuole riconoscere che, mentre tutti si affannavano a combattere Voldemort e i suoi seguaci, il Ministero Magico Americano tramava alle nostre spalle e aspettava solo il minimo cenno di cedimento per attaccarci tutti.
E alla fine, l’anno della sconfitta del Signore Oscuro, nemmeno dopo due mesi di tranquillità, gli Americani ci hanno dichiarato guerra.
Erano avanti, loro. Molto più avanti di noi. Conoscevano i principi dell’alchimia, avevano inventato macchinari potenti, brevettato nuovi incantesimi. Avevano messo al potere i giovani, i volenterosi. Non avevano paura di mettere in gioco la loro vita, pur di ottenere quello che volevano.
Per circa tre anni, dopo questa prima presa di potere, in cui erano caduti i Ministeri di quasi tutta Europa, le cose erano andate peggiorando. La crisi economica imperversava, i babbani morivano con una facilità unica, quasi i tempi bui di Voi-Sapete-Chi fossero ritornati.
Venne istituita una Resistenza, a cui parteciparono attivamente Auror e dipendenti dei Ministeri di ogni parte del Continente. Ma l’America riprese il controllo e, in un breve periodo di tempo, che il mio libro di Storia della Magia chiama “I Giorni Delle Tenebre”, venne ristabilito il potere dei nostri vicini d’oltremare con sangue e dure battaglie.
Una volta conclusasi questa parentesi rivoluzionaria, gli americani, per far meglio comprendere alle popolazioni di ogni dove che il mondo era loro, che potevano fare quello che volevano, istituirono i “Giochi della Fame”.
Ogni anno, ogni nazione assoggettata, avrebbe dovuto sorteggiare due tributi, un maschio e una femmina, fra gli undici e i diciassette anni - ancora frequentanti la scuola, dunque- e mandarli in America a combattere fra di loro fino alla morte.
All’unico vincitore sarebbero spettati la fama, i soldi, qualsiasi cosa potesse mai desiderare.
Gli americani sapevano giocare bene. I giovani sono il futuro di una nazione e, se questi venivano decimati e vivevano nel terrore della morte, allora non ci sarebbero più state rivolte.
-Guardate come veniamo e prendiamo i vostri figli. Guardate come siamo potenti, come ci divertiamo a vederli morire. Guardate come siete piccoli e poveri. Non potete fare niente contro di noi- è questo il messaggio che ci mandano ogni anno.
Albus, ama molto questo argomento. A volte capita che ce ne andiamo nella Foresta Proibita, lontano dagli occhi di tutti e dalla stretta vigilanza delle sentinelle che da molto ormai sono state messe a sorveglianza nella scuola.
E quando siamo nel fitto della foresta, quando nessuno ormai può sentirci, lui urla. Urla contro tutto questo, perché il mondo non dovrebbe essere così, perché dovremmo poter vivere serenamente, senza doverci sempre guardare dietro per accertarci che non ci sia nessuno a spiarci.
E mentre urla questi suoi discorsi sovversivi non si gira a controllare, ma io lo faccio sempre, perché la prudenza non è mai troppa e perché lui è l’unica cosa buona che ho –insieme a Lily- e io non posso permettermi di perderlo.
La professoressa Sinistra estrae un biglietto dalla boccia e, senza nemmeno guardarlo lo passa alla nostra accompagnatrice. Rachel sorride, istantaneamente e lo apre con un movimento lento che dovrebbe creare suspance e attesa.
Negli ultimi secondi prima che accada, mi giro a fissare Albus, e lo vedo fare un cenno con la testa.
Rachel solleva il biglietto e socchiude gli occhi mentre legge il nome della ragazza che sta per morire.
Non sono io. Non sono io. Non sono io.
Quello non è il mio nome. Quello non è il mio nome.
Ed è davvero così.
Non sono io e quello non è il mio nome.
È quello di Lilian Luna Potter.





ANGOLO DELLA PAZZA
Ta-dà!!
Finale a sorpesa, eh?
Allora, che ne pensate?
Comunque, se siete smaniose di leggere il seguito (quando ho letto il libro da cui è tratta la storia io lo ero!) non dovrete pazientare molto, perchè il capitolo è già pronto e mancano solo gli ultimi ritocchi.
Se pensate che faccia schifo, io stessa rileggendolo non mi trovo molto convinta, bhe, fatevi avanti! Le critiche sono sempre ben accette e aiutano a migliorare!
In ogni modo.... Spero davvero che questa storia possa piacervi perchè ci tengo particolarmente!
Per favore fatemi sapere cosa ne pensate e se vale la pena continuarla, per me la vostra opinione è sempre importantissima! Anche e sopratutto perchè è la prima volta che tratto questo genere più serio e drammatico che si distacca dalla mia solito "genere commedia"... Per non parlare poi dell'uso del presente in prima persona! Devo ancora farci l'abitudine!
In ogni modo, spero che commentiate in numerosi!
Per ogni dubbio io sono qui!
Fra
P.S. Ovviamente per la storia sono sparse diverse citazioni prese dal libro e, comunque, alcuni episodi saranno simili, almeno fino all'inizio dei Giochi...

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Capitolo 2
*** 1 - La ragazza allo specchio ***


 

Angolo Autrice

Innanzitutto ci tengo a ringraziare le meravigliose sette (SETTE!!!! *.*) ragazze che hanno recensito il prologo!
Non mi aspettavo certo che la mia storiella ottenesse tutto questo successo e, quando ho letto il numero delle recensioni, stavo per svenire! E dico stavo perchè alla fine mi sono messa a saltellare come una pazza isterica per tutta la stanza e sono persino inciampata nel filo del computer!
In ogni modo ci tengo a ringraziare personalmente le meravigliose ragazze che hanno recensito
*tira fuori un foglio di pergamena e inizia a dire i nomi mentre delle trombe e tamburi suonano*
Harry Potterish  _Valerie_96   Rosie_96  Jo_94 freak the freak   BurningIce  Rochi grazie di esistere!
Spero che anche questo capitolo possa essere di vostro gradimento!
Fra


 

Dedicato a tre persone speciali.
A Giulia, perchè questo, ricordalo, non è la fine, ma solo un inizio non molto convenzionale.
A Veronica perchè le tue parole mi scaldano il cuore
A Federica perchè in breve sei diventata parte di me e, davvero, non sai quanto sei importante.


 

Capitolo I

 

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Nel giardino della mia vecchia casa, nel Devonshire, c’era un enorme melo. Era altissimo, mastodontico, con lunghi rami frondosi e marcate venature sul legno.
Era la principale fonte di divertimento mia, di mio fratello e, quando venivano a trovarci, anche dei miei cugini.
A quei tempi, anche se il mondo era in piena rivolta e la carestia che i “Giorni delle Tenebre” si erano lasciati dietro imperversava, portando buio e desolazione, tutto si riduceva a quel vecchio albero, alla buffa altalena che Teddy aveva cercato di montare su uno dei rami più bassi e ai pomeriggi afosi e umidi di fine estate.
Quando successe quello che sto per raccontarvi, avevo undici anni o, per lo meno, stavo per compierli. Io e Hugo eravamo stesi di schiena sul prato e cercavamo di distinguere qualche forma familiare nelle nuvole di ovatta che veleggiavano in cielo. Avevo appena distinto una mano mozzata quando mi venne in mente la brillante idea di sfidare mio fratello ad una gara di arrampicata.
Issandoci in piedi sull’altalena e cercando di mantenerci in precario equilibrio avremmo dovuto issarci sui rami più bassi del melo e, poi, mano a mano, salire fino alla cima.
Il tentativo di Hugo non andò a buon fine, inciampò sulla catenella dell’altalena e cadde di faccia a terra senza neanche aver avuto il tempo di alzare un piede.
Io, invece, riuscii ad arrivare fino ad una discreta altezza e, alla fine, quando ero ormai a metà salita, mi girai per lanciare un’occhiata di sfida a mio fratello, imbronciato e dolorante in basso.
Nel farlo le mie mani persero la presa sui rami e i miei piedi con un movimento brusco persero terreno, strofinando sul tronco ruvido senza trovare appigli.
Cercai di trattenere con le mani delle foglie o dei rametti, ma non servì a nulla e io atterrai di schiena contro il suolo duro. La botta sembrò svuotarmi i polmoni, lasciandomi in preda ad una sensazione di soffocamento e asfissia che ho provato raramente nella mia vita.
Quella volta, mentre sentivo Hugo urlare come un pazzo per richiamare mia madre e il mio petto si rifiutava di abbassarsi normalmente, pensai davvero che fosse finita lì, che il mio ruolo in questa stupida recita chiamata vita si fosse concluso, con un tragico sipario rosso.
Quella sensazione di impotenza, di sconfitta, di terrore profondo l’ho provata pochissime volte.
Quando è morto mio padre, nella grande esplosione che mise fine ai “Giorni delle Tenebre” e segnò la riconquista del potere da parte degli americani. La prima volta che entrai ad Hogwarts dopo l’incidente con mia madre, al mio secondo anno. Quando Hugo si ruppe una gamba e io non sapevo che fare.
In questo preciso momento. Mentre Lily viene sorteggiata e va verso la morte.
Sento qualcosa afferrarmi il braccio e, girandomi indietro, vedo un ragazzo dai capelli scuri che mi sostiene da dietro. Evidentemente sembro sul punto di svenire. Sto per svenire.
Mi sento soffocare.
Non può essere lei, maledizione. Non può. Aveva solo un biglietto, una misera, infinitesimale, irrilevante strisciolina di carta. Un possibilità su milioni.
La buona sorte sarebbe dovuta essere dalla sua parte.(1)
Lily, accanto a me, lascia la mia mano e stringe le sue in due pugni, le braccia pallide che, così tese, sembrano ancora più magre. Ha un’espressione mai vista prima sul viso e che mi fa paura.
Perché una Lily che non sorride non è Lily.
Perché il mondo non può vivere senza Lily, senza le sue risate, senza il suo sorriso, senza le sue battutine. Perché il mondo non può continuare ad esistere senza i suoi capelli rossi, senza i suoi occhi troppo grandi e i suoi vestitini svolazzanti.
Perché io non posso continuare ad esistere senza di lei.
Quando, passandomi accanto, noto che le sue calze color carne sono smagliate mi sembra di tornare alla realtà.
Mi focalizzo su questo dettaglio e cerco, annaspando, di trovare un senso a questa situazione, di capire cosa sta succedendo, se davvero morirò in questo istante.
Non mi serve nemmeno prendere la rincorsa per raggiungere il palco dove Rachel Conti ha il suo stupido sorrisino e la professoressa Sinistra uno sguardo drammatico. Non mi serve nemmeno guardarmi intorno per sentire lo sguardo di Albus, colmo di dolore, sulla mia schiena, impotente.
Perché lui non può fare niente.
Non può nemmeno offrirsi volontario, perché è un ragazzo e perché Lily non glielo permetterebbe.
Ma io si.
-Mi offro volontaria!- non so da dove mi esce, questo suono. Non so nemmeno se è stato abbastanza forte da essere udito da quei signori, lì sopra.
Non so niente. So solo che nessuno toccherà Lily, finchè ci sarò io. Perché lei è un fiore delicato. Perché io, ho delle spine, a difendermi. Lei ha solo il suo dolce profumo, ad attirare gli insetti.
C’è subbuglio, sul palco.
Non ci sono volontari da anni, ad Hogwarts. Nessuno è così impaziente di morire, di condannarsi a morte autonomamente.
Rachel sta confabulando con un signore in giacca e cravatta e sta agitando le mani con gesti ampi.
-Splendido!- si gira verso di noi e fa un sorriso scintillante, contenta di assistere ad un po’ di azione, finalmente –Anche se, secondo la procedura, bisognerebbe chiedere se ci sono altri volontari e…-(2)
La sua voce si affievolisce e le sue spalle si stringono in un movimento involontario. Nemmeno lei sa cosa fare.
-A che serve?- Victoire mi guarda con i suoi occhi celesti ed ha in viso un’espressione strana. È anche lei su quel palco in quanto unica vincitrice di Hogwarts delle edizioni precedenti dei Giochi. Non abbiamo più parlato molto, dopo che è uscita dall’arena. Ma mi conosce. Sono Rose, sua cugina. Quella che le intrecciava i capelli con i fiorellini di campo che raccoglievamo alla Tana. Quella che l’aiutava a mettere in riga James, da piccola. Quella che, la sera prima che lei partisse per i Giochi, piangeva disperata contro il suo petto e la implorava di non andarsene. Chissà se lo ricorda. –A che serve?- e questa volta non c’è dubbio, c’è sofferenza nella sua voce –Lasciate che venga-(3)
Lily, dietro di me, grida e si dimena come una pazza, dicendo che vuole andare lei, che non mi permetterà di fare questa stupidaggine. Mi stringe il braccio e implora.
Quando questa sera verranno trasmessi i sorteggi su quella specie di TV gigante che gli Americani hanno modificato e che viene seguita da tutti i paesi assoggettati, non voglio che mi vedano piangere.
Penseranno che io sia una frignona, un bersaglio facile. Da eliminare prima ancora che inizino i veri giochi.
Perciò me la scrollo dalle spalle e cerco di assumere un tono fermo e deciso.
-Lasciami andare, Lily. Ora-(4)
Sento che qualcuno me la stacca dalla schiena e faccio appena in tempo a fare un cenno di ringraziamento ad Albus, ai suoi occhi verdi spalancati dal terrore e dalla consapevolezza di non mostrarsi debole, che Rachel mi afferra per il braccio e, con una forza che non mi sarei mai aspettata da lei, mi trascina sul palco.
-Come ti chiami, cara?- esclama poi, saltellando allegramente. Scandisce bene le parole come se si aspettasse che non la capisca fino in fondo.
-Rose Weasley-
-Oh, una piccola eroina! Coraggio, allora! Che ne dite di un bel applauso alla nostra rossa, gente?-
Con una piccola spintarella mi fa girare verso il gentile pubblico, le telecamere puntate sul mio viso, a fronteggiare il mio meritatissimo applauso.
Ma, per la prima volta da che i Giochi della Fame sono stati istituiti nessuno applaude. C’è silenzio.
E, per la prima volta da che vivo, sento calore. Un calore strano, di quelli che senti dentro, di quelli che ti scaldano tutta e ti fanno formicolare le gambe.
Questa gente sta apertamente sfidando gli americani, il mondo intero, per me.
Ok, forse non lo fa per me. Lo fa per la causa, per far capire a tutti che noi non ci stiamo. Che quello che ci fanno non è una cosa normale, che non l’accettiamo.(5)
Che è sbagliato.
E so che, anche se in minima parte, lo fanno anche per me. Perché, anche se non sono una persona molto socievole e potrei contare sulle dita di una mano le persone con cui mi intrattengo, anche solo per qualche convenevole, sanno chi sono.
Sanno che sono quella ragazzina dai capelli rossi che arrivò in questa scuola sette anni fa, quella ragazzina che non sorride mai, ma che c’è sempre. Quella ragazzina che ora è cresciuta e sta per morire davanti ai loro occhi. E che non vogliono la mia morte.
E loro rimangono in silenzio.
Un silenzio assordante che mi perfora i timpani.
Rachel si schiarisce la voce, e, spezzando l’atmosfera carica di tensione che si è venuta a creare, mi spintona leggermente verso il fondo del palco.
Approfitto di questo piccolo istante per emettere un gemito di dolore e frustrazione che sa di disperazione e di non detto.
-Ed ora è giunto il momento di scoprire chi sarà il nostro fortunato ragazzo che parteciperà ai giochi!-
Rachel ha estratto dalla boccia a destra del tavolo una nuova strisciolina, quella del ragazzo che verrà con me a morire a Royàl, la nuova capitale del Mondo Magico Americano.
Non faccio nemmeno in tempo a formulare la supplica che non sia Albus che Rachel sta già leggendo il nome.
-Scorpius Hyperion Malfoy-
Scorpius. Malfoy.
Oh, no. Non lui.
La fortuna non è dalla mia parte, oggi, evidentemente.(6)
Lo osservo mentre si fa strada verso il palco, mentre i suoi compagni di Corvonero lo lasciano passare, aprendogli un varco.
È alto, molto più di me, ha le spalle larghe e i capelli biondissimi. Ha scritto in faccia lo shock del momento e, nonostante cerchi di rimanere impassibile, nei suoi occhi grigi riesco a vedere il terrore che lo sconvolge dentro.
Si avvicina con calma e sale senza esitazione sul palco, rifiutando l’aiuto del tizio in giacca e cravatta e avvicinandosi con espressione neutra a Rachel che saltella eccitata. È elettrizzata che ben due figli di eroi di guerra vengano con lei alla capitale, dopo anni di ragazzini senza alcun tipo di fibra morale o fama, evidentemente.
Rachel, dopo un attimo di pausa, inizia con il suo solito discorso su quanto siano favolosi i Giochi. La professoressa Sinistra che sembra invecchiata di una ventina d’anni in qualche minuto, tiene la sua orazione ripercorrendo la storia di Royàl da quando gli americani hanno preso il potere. Victoire ringrazia e ricorda quanto è fortunata ad essere lì, ma i suoi occhi sono spenti.
Scorpius sposta il peso del suo corpo da un piede all’altro, in un movimento quasi invisibile se non lo si ha davanti e non lo si fissa attentamente.
Io, invece, rimango immobile.
-Perché lui?-penso.
Poi cerco di convincermi che non ha importanza.
Scorpius Malfoy e io non siamo amici. Nemmeno vicini. Non ci parliamo. La nostra unica interazione risale ad anni fa. È probabile che lui se lo sia scordato. Ma io no, e so che non lo farò mai…(7)
Rachel conclude il suo discorso con una risatina sciocca e dice a me e a Scorpius di stringerci la mano.
La sua è solida e calda. È la stretta di una persona che non scapperà, che non si arrenderà senza lottare, di una persona che non vacillerà quando sarà il momento.
Ma, mentre incontro i suoi occhi grigi l’unica cosa che riesco a pensare è che non voglio che muoia, che non voglio essere responsabile della sua morte.
Perché sono in debito con lui.
E io odio essere in debito con la gente.
Bhe, saremo venti, in quell’arena. Ci sono buone probabilità che qualcuno lo uccida prima che possa farlo io. Non che le probabilità siano state molto a mio favore, ultimamente.(8)
 
La stanzetta dove io e Scorpius siamo stati spediti comunica con la Sala Grande attraverso uno stretto corridoio e, le sue piccole dimensioni non mi aiutano a mantenere il controllo.
Mi sento soffocare.
Scorpius ha gli occhi fissi sulla mia schiena da quando siamo entrati qui. Li sento, e mi infondono uno strano senso di malinconia, un qualcosa di… diverso, ecco.
Diverso da cosa, poi?
Suppongo sia senso di colpa. Per quello che è successo. Il fatto che siamo entrambi sorteggiati, intendo.
Dopo la proclamazione dei sorteggiati la folla ha iniziato a rumoreggiare, come fa sempre. Chi conosce i poveri martiri di questo gioco di guerra, ha un’aria cupa e addolorata. Alcuni scoppiano anche a piangere.
Altri, invece, sollevati di non essere loro i prescelti, rilassano le spalle contratte e si affrettano verso il castello, cercando di gettarsi alle spalle l’accaduto il più velocemente possibile.
È una strana sensazione non poterlo fare io. Girare le spalle, correre nella mia stanza, ficcare la testa sotto il cuscino e cercare di togliermi dalla testa quelle orribili immagini. Famiglie distrutte, innamorati separati, amici costretti a dirsi addio.
Gli Americani sanno giocare bene. La partita è loro.
Alzo lo sguardo di colpo e, per la seconda volta in questa interminabile giornata, incontro gli occhi di ghiaccio di Scorpius. Una più dettagliata scansione mi fa capire che non sono proprio grigi.
Anzi, c’è anche qualche piccola traccia di verde, al limitare delle pupille. E, se lo si guarda in controluce, assumono una tonalità che ho visto solo una volta, in tutta la mia vita, mentre correvo per la Foresta Proibita e, nella velocità, i colori del bosco si erano mischiati tutti insieme, a creare una nuova cromatura.
Dovrei proprio andare nella Foresta Proibita, prima di morire, mi dico.
Improvvisamente mi rendo conto che non mi capiterà mai più di vedere quel posto. Che, probabilmente, l’unica cosa che osserverò prima di dare il mio definitivo addio al mondo saranno le cupole di metallo o le testate dei grattacieli di Royàl. Niente più Foresta Proibita, niente più Hogwarts, niente più Rose.
Mi alzo di scatto e borbottando qualcosa di indefinito corro nel piccolo bagno della stanzetta, chiudendomi alle spalle l’aria soffocante che si respira, i sospiri stanchi di Victoire e gli occhi color Foresta di Scorpius.
Tiro un impercettibile sospiro di sollievo, apro il rubinetto e mi sciacquo il viso, lasciando che il contatto con l’acqua fresca mi scuota come uno schiaffo.
Appoggio pesantemente le braccia sul bordo del lavandino e poi chiudo gli occhi, imponendomi di non perdere il controllo.
Sono forte. Sono in gamba.
Morirò, certo. Ma non darò loro la soddisfazione di vedermi piangere e supplicare.
Espiro sonoramente e cerco di dissolvere le strane vertigini che mi annebbiano il cervello, imponendomi di non pensare.
Sollevo gli occhi e vedo il mio riflesso.
All’improvviso tutto sembra avere un senso.
Perché la ragazza allo specchio mi sta guardando e io non posso deluderla.
C’è un legame irresistibile, fra me e gli specchi. Non vanità, non superbia o idotralazione. Solo insicurezza.
Perché, quando il coraggio viene meno, quando non riesco più a comprendere per quale assurdo motivo esisto, quando domande esistenziali di vario genere mi offuscano la mente, mi basta guardarmi negli occhi per ritrovare me stessa.
Il mio viso non è ingenuo come quello di mio padre o particolarmente vispo come quello di mia madre. È marcato, deciso, aggressivo. I miei capelli non sono “Rosso Weasley” , come quelli di Lily o Hugo, ma vertono su una tonalità ancora più scura. I miei occhi non sono marroni cioccolato o azzurro chiaro. Sono blu scuro. Lily dice che sono bellissimi ma a me sembrano più che altro un pozzo di cui non riesco a vedere il fondo, un qualcosa che mi spaventa e mi attrae allo stesso tempo.
E, mentre osservo incantata il mio riflesso, capisco che non esiste niente di più eccitante che affrontare la tua inquietudine guardandoti dritta negli occhi.
Afferro con un movimento brusco l’asciugamano pulito e lo calo rabbiosamente sul mio viso. Ogni segno della debolezza che sto provando in questo momento deve sparire, senza lasciare traccia.
I Giochi Della Fame non sono per ragazzini piagnoni.
E io, fortunatamente, non lo sono.


(1-2-3-4-5-6-7-8) - Citazioni tratte dal libro di Suzanne Collins, Hunger Games.
L'intero episodio del sorteggio, nel libro chiamato "la mietitura" è stato rielaborato da me, per quanto l'idea e la situazione di fondo sia la stessa. Fondamentalmente diverso è il rapporto di Rose con Victorie, le due si conoscono, si vogliono bene, in fondo. Nel libro, invece, Katniss sarà accompagnata a Capitol City da Haymitch, ubriacone e di mezza età, che non ha mai intrattenuto rapporti con lei.
Nel libro Katniss (la mia Rose) si offre per salvare Prim, la sua sorellina.
Scorpius è Peeta e, il debito che ha la mia ragazza ha contratto con lui sarà diverso da quello spiegato nel libro. La scena finale di Rose che si guarda allo specchio non esiste nel libro ed è inventata da me.


Prima di chiudere il capitolo bisogna che io specifichi una cosa.
"Credevo che, avendo scritto nel primo capitolo che la storia era ispirata a Hunger Games e che conteneva molte citazioni e episodi del libro mi fossi liberata da tutte le implicazioni e le accuse.
Ragionando bene ora, posso dire che ho avuto torto marcio.
So benissimo che avrei dovuto affrontare la questione con più calma e mettermi a segnalare le varie citazioni e il non averlo fatto è deplorevole.
Questa storia era nata come un omaggio al mio libro preferito e, alla fine, rischia quasi di essere cancellata, solo per una mia stupida mancanza."
Questo è una parte della risposta che ho inviato ad una ragazza che mi ha, giustamente, fatto presente quanto la mia dimenticanza nel segnalare ciò possa essere quasi considerato un plagio.
Ci tengo a precisare che, davvero, non so come chiedervi scusa.
Perchè non era assolutamente mia intenzione quella di impossessarmi delle idee altrui ma solo di poter far conoscere a più persone questa magnifica storia, magari modificandola un pò e mettendoci nel mio.
Dunque, per meglio risolvere la questione, vi dico questo.
La storia, tutti gli avvenimenti e i personaggi appartengono a Suzanne Collins e, per quanto io possa modificarli, farli vivere, parlare e pensare come voglio, essi saranno sempre quelli che vengono descritti nel libro.
Mi impegnerò a segnalare, comunque, tutti gli episodi in cui, per mia mancanza, avete potuto pensare che fosse farina del mio sacco.
Spero possiate perdonarmi.

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Capitolo 3
*** 2 - Quello che sono ***


Angolo Autrice

Ma voi volete farmi venire un infarto?
No, sul serio, 10 recensioni? 10?
Se l'altra volta stavo saltellando adesso son praticamente svenuta!
Insomma non pensavo che questo omaggio al mio libro preferito potesse ottenere davvero tutto questo successo!
In ogni modo cerco di non tirarla per le lunghe e rimando le note importanti, le segnalazioni e le citazioni alle note finali!
Intanto però, permettetemi di ringraziare le dieci meravigliose ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo!
Fatemi sapere cosa ne pensate anche di questo!
Grazie a _Valerie_96 freak the freak  Alexiel94 Rosie_96 RoseBlack98 MissTata55 BurningIce sweetcorvina Harry Potterish Jo_94 che ci sono sempre e che mi hanno fatta emozionare con le loro parole!
Vi amo!
Fra



Dedicato alle mie tre care/carogne preferite, Giulia, Ivana e Ale (N. mia cara, so quanto ti da fastidio che ti chiami con il tuo nome, quindi, rassegnati, tu sei e sarai sempre la mia Ale)
Dedicato a Federica perchè gli uomini, si sa, vanno presi per le palle!
Dedicato alle mie nuove fan/new-eantry/disperate che leggono la mia storia che hanno fatto gonfiiare il mio ego a dismisura!
Dedicato a Vale, Vero e Ro, perchè, comunque, ci sono sempre!

 


Capitolo II - Quello che sono

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La prossima volta?
Non ci sarà una prossima volta.
-Eminem

 
È con un sospiro profondo che mi preparo a questa ultima, interminabile ora in cui dovrò congedarmi dalla mia vita, dai miei famigliari e dai miei amici, e, soprattutto, da me stessa, prima di diventare a tutti gli effetti, il rappresentate di Hogwarts ai Giochi della Fame.
Mi sembra tutto ancora così… strano.
Dopo la paura iniziale e la lunga fase della rabbia che ne è conseguita e che mi ha fatto rompere con un pugno lo specchio nel piccolo bagno della stanzetta dietro la Sala Grande, ora sto passando lo stadio dell’incredulità.
Come può, una giornata come questa, così simile alle altre, iniziata così bene, essersi conclusa in modo così travolgente e disastroso?
Questa mattina, quando mi sono svegliata, ho fatto con Al il solito giro nella Foresta Proibita. È diventata una tradizione, ormai. Sono gli ultimi giorni prima delle vacanze di Natale, questi –ovviamente per chi riuscirà a finirla, ovviamente per chi non è stato sorteggiato e non riuscirà nemmeno a salutare decentemente la sua famiglia prima di essere ammazzato- e i controlli sugli studenti sono meno rigidi.
In ogni modo, come tutti gli anni, la mattina del sorteggio, io e Al ci siamo fatti la nostra lunga sfacchinata fino alla piccola grotta semi nascosta dal sottobosco. Lì abbiamo tirato fuori i panini dolci che abbiamo fregato in Sala Grande e ci siamo limitati a mangiare in silenzio.
Io e Al non parliamo molto. Siamo entrambi due persone molto chiuse e, anche se sappiamo benissimo di poterci fidare cecamente l’uno dell’altro –cosa davvero rara di questi tempi- preferiamo i gesti a inutili discorsi.
-Potremmo andarcene, sai?-(1) mi ha detto stamattina, inclinando un po’ la testa e evitando di guardarmi negli occhi, come fa sempre quando dice qualcosa che ritiene importante.
Io ho alzato le sopracciglia visto che, questo, centrava poco con la relazione di Erbologia per la settimana seguente, l’ultimo argomento di cui avevamo discusso.
-Andarcene?-
-Si. Io e te. Potremmo farlo. Rubare del cibo dalle cucine, scappare per la Foresta Proibita. Scappare da questo schifo di posto-
Per un attimo ho soppesato l’idea, davvero. Sarebbe stato… liberatorio, ecco. Passare la mia vita con Albus, in un posto lontano, magari dove gli americani non avevano ancora gettato la loro ombra.
-Se non ci fossero i bambini, ovvio-
Albus si è stretto nelle spalle.
Ovviamente noi non abbiamo bambini, certo. Ma, dopo l’esplosione al Ministero della Magia, sei anni fa, quando sono morti entrambi i nostri padri, siamo diventati in automatico capifamiglia.
Io, almeno. Albus un po’ di meno, perché Zia Ginny, nonostante tutta non si è arresa, ha continuato e continua a lottare.
Mi piace molto Zia Ginny.
Quando è morto Zio Harry era una donna con tre figli a carico e un lavoro vacillante –chi mai vuole leggere articoli sul Quidditch, quando c’è una guerra in corso?-, ma si è rimboccata le maniche e si è data da fare per trovare una soluzione a tutto.
Mia madre, invece, non si è mai ripresa del tutto. Il dottore babbano che l’ha visitata, uno pissicologo, disse che era in shock post-traumatico. Questa era la definizione, la teoria astratta. Nel concreto, io e Hugo, non avevamo più una mamma.
Era come se non ci vedesse, ne sentisse più. Rimaneva ferma sulla sua sedia, gli occhi persi nel vuoto e le mani rovesciate sulle ginocchia. A volte si alzava all’improvviso, come se si fosse ricordata di qualcosa di molto importante che doveva assolutamente fare e poi, dopo pochi passi, ricadeva sulla sedia più vicina.
Durante il mio secondo anno, feci promettere a Hugo, ancora troppo piccolo per venire a scuola, che, se avesse avuto qualche problema, sarebbe andato a Casa Potter.
Che io sappia ci è andato solo una volta.
In ogni modo, mia madre ora è migliorata, parla, mangia, si comporta come un essere vivente, normale. Ma non ha più quella scintilla negli occhi che le vedevo ogni sera quando, papà, tornando da lavoro, le si avvicinava e le dava un bacio sulla guancia.
È uno dei motivi per cui non voglio avere figli. Oltre, ovviamente, alla possibilità che questi vengano sorteggiati per i Giochi della Fame.
-Io non voglio bambini- gli ho risposto, stamattina.
-Io li vorrei, se non vivessi qui-
Albus non avrebbe problemi, comunque. Se vuole dei figli c’è un intera armata di ragazzine a scuola che farebbero carte false per lui. È un bel ragazzo, Al.
Ha i capelli nerissimi e sempre scompigliati anche se non c’è un minimo alito di vento e gli occhi più verdi e luminosi che io abbia mai visto.
Io ne sono gelosa, ma non per il motivo che credono tutti. Semplicemente è il mio migliore amico, lo conosco meglio di me e so che merita di meglio.
-Ma ci vivi-
Albus si è rabbuiato e mi ha tenuto il muso per un po’. Si è messo ad affilare con una pietra un rametto di legno che aveva trovato per terra ed è rimasto in silenzio per il resto della mattinata.
Avevo pensato che mi sarei scusata con lui, una volta terminato il sorteggio.
Ma io, ora, sono stata scelta e chiedergli scusa, dirgli che vorrei avere dei figli, che ha ragione lui… oramai non ha più senso ne importanza.
Mi chiedo se riuscirò a salutarlo, ora, anche se solo per i pochi istanti che ci saranno concessi.
I primi ad entrare nella stanza singola che mi hanno assegnato per svolgere i miei addii sono mia madre, Hugo e Lily.
Mio fratello sta visibilmente cercando di non piangere mentre Lily non tenta nemmeno di nascondere gli enormi lacrimoni che trasbordano dalle sue lunghissime ciglia e le lasciano sulle guance dei rivoletti scuri di mascara. Mia madre ha un’espressione più viva di quelle che usa di solito.
Suppongo che il fatto di stare per perdere una figlia sia un qualcosa che, anche nel piccolo mondo di cristallo in cui si è rifugiato, sia di qualche importanza.
Lily mi si getta addosso facendomi quasi cadere dal divanetto rosso dove sono seduta e singhiozza animatamente sulla mia spalla, sussurrando frasi indistinte e urla addolorate.
Mio fratello si siede accanto a me e mi mette un braccio attorno alle spalle, senza dirmi niente.
Mia madre rimane in piedi, davanti a noi.
Quello che ci siamo detti in quella stanza non riesco a dirlo, nemmeno a pensarlo, a ricordarlo. Fa male.
Ma una cosa, una promessa che ho fatto a Lily devo ricordarla per forza. Perché è una promessa, perché, anche se non riuscirò a mantenerla, è una cosa per cui lotterò fino alla morte, letteralmente.
-Vinci, Rose-
Ma non posso vincere. Nel profondo del suo cuore Lily deve saperlo. I ragazzi degli altri paesi si saranno preparati a lungo, per questo momento. Ci sono ragazzi più grandi, più forti, più abili, più intelligenti. Io non sono niente in confronto a loro. Io sono una di quei concorrenti che verranno eliminati subito, prima che il gioco entri nel vivo.
-Forse-
Hugo si muove contro la mia spalla e, finalmente, da quando è entrato in questa stanza, mi guarda negli occhi. –Tu vincerai, Rose. E ora basta con questi piagnistei isterici. Quando tornerai e saremo ricchi da fare schifo mi comprerò tutte le Cioccorane che voglio e anche un sacco di vestiti a te, Lils. Ma smettetela di piangere perché qui Rose non è morta, e non morirà!-
Adesso sto per piangere io.
Perché è il discorso più lungo che Hugo abbia mai fatto dopo la morte di papà. Perché, sicuramente, per quanto possano giurarmi il contrario, questa è l’ultima volta che lo vedo, che li vedo tutti.
Il tizio in giacca e cravatta che era sul palco qualche minuto prima entra nella stanza e dice ai miei famigliari che il loro tempo è scaduto. È inutile chiedere altro tempo, servirebbe solo ad allungare lo strazio.
Li abbraccio forte e sussurro loro che li amo. E cerco di mettere in quella stretta tutto quello che non ho mai detto loro.
Quando escono dalla stanza affondo la testa nei cuscini rossi del divanetto e spero che questi possano soffocarmi o, in alternativa, abbiano proprietà obliviatrici e mi costringano a dimenticarmi di questo dolore straziante che mi tengo dentro.(2)
Qualcun altro entra nella mia stanza.
Quando alzo gli occhi rimango immobile per un istante, troppo sorpresa anche solo per sillabare un saluto.
Draco Lucius Malfoy, il padre di Scorpius, rimane fermo sulla porta in una posa rigida e controllata.
Il mento è alto e sporgente e le spalle sono dritte, ma, da come su i suoi occhi è scesa una patina che ne offusca il luccichio, capisco che ha appena detto addio a suo figlio.(3)
Non riesco a capire perché sia venuto a farmi visita. Dopotutto da qui a qualche giorno cercherò con tutte le mie forze di uccidere le sue nobili progenie.
Mi agito sul divanetto, a disagio, poi, però, quando il silenzio sembra diventare troppo pesante per le mie spalle stanche, mi schiarisco la voce.
-Buongiorno-
Lui non risponde ma si avvicina e si siede sulla poltroncina di fronte alla mia postazione. Il divano è leggermente più alto del normale, tanto che riesco a guardarlo dritto negli occhi senza dover nemmeno alzare il viso. Ma lui fugge il mio sguardo.
Rimaniamo in silenzio per tutto il tempo della visita e, dopo tutti questi anni, da quando lo vidi a King’s Cross per la prima volta, dopo tutti questi anni a considerarlo, sotto la guida dei racconti di mio padre, il diavolo in persona, vedo in lui quello che tutti dovrebbero vedere.
Un uomo distrutto dalla guerra che ha cercato e lottato con tutte le forze per rialzarsi, per sollevare la sua maschera di codardia e vigliaccheria e poter costruirsi una vita. Un uomo a cui stanno per portare via un figlio.
Un leggero bussare alla porta ci avverte che anche il nostro tempo è scaduto e, mentre si alza, finalmente incontro i suoi occhi.
Non sono come quelli del figlio.
Sono grigi, certo. Ma non hanno il calore di quelli di Scorpius. Sono affilati e sottili come una lama di un coltello. Ma non sono occhi cattivi.
Sono occhi che non mentono sulla loro natura.
Ho ormai abbassato lo sguardo quando lui mi richiama e parla, per la prima volta.
-Non sembri affatto una Weasley, ragazzina- dice, girato verso la porta, una mano sulla maniglia e l’altra stretta in un pugno –E non hai gli occhi dei tuoi genitori. Cerca di non morire nei primi cinque minuti, d’accordo?-
Poi, prima che io possa anche solo pensare di aprire bocca si chiude la porta alle spalle.
L’arrivo del mio, inaspettato, ospite successivo mi distoglie dalle cupe elucubrazioni che mi stanno sconvolgendo la mente.
Mary Orwell, una ragazza del mio anno, si chiude lentamente la porta e avanza dritta verso di me. Non è emozionata o taciturna, anzi, sembra mossa da una sorta di fretta, un urgenza tale che la fa precipitare sulla poltroncina davanti a me in pochi secondi.
Io e Mary non siamo amiche. Siamo entrambe molto silenziose e non abbiamo molti amici. Perciò capita spesso che finiamo in coppia insieme a Pozioni o a svolgere lavori di gruppo. A volte, quando Al non può, mangiamo anche insieme.
-Puoi portare un portafortuna, a Royàl, vero?- chiede, si mangia anche qualche sillaba per quanto parla velocemente –Per ricordarti di casa o qualcosa del genere-
Io annuisco, cercando di capire perché è qui. In effetti si, è permesso portare qualcosa di proprio nell’arena. Ovviamente nulla di troppo pericoloso o che abbia speciali proprietà magiche. Nulla che possa uccidere gli altri al posto tuo, insomma.
Mary annuisce, di nuovo. Poi si indica il petto. È molto carina, oggi. Ha una maglia bianca, semplice, infilata in una lunga gonna a cerchio, rosa scuro, in modo da formare una sorta di rigonfiamento. I capelli biondi sono legati in una specie di treccia arrotolata con un nastro rosa confetto. All’altezza del cuore porta una spilla d’oro.
Deve valere molto.
Alzo lo sguardo, interrogativamente.
Lei, per tutta risposta, si toglie la spilla e me la mette in mano. La osservo attentamente. È in oro massiccio e sembra quasi brillare di luce propria. Una più attenta analisi mi fa comprendere che rappresenta una fenice avvolta dalle fiamme.
Le fenici non esistono più, ormai. Il Ministero Americano le ha debellate tutte, anche se, probabilmente, in qualche sperduto angolo di mondo ne esistono ancora alcuni esemplari. I ribelli che avevano organizzato la rivolta dei “Giorni delle Tenebre” l’avevano scelta come simbolo della rivoluzione.
La fenice che rinasce dalle sue ceneri.
Dopo la riconquista del potere, gli Americani mandarono la Grande Bomba su Londra, distruggendo i ribelli e tutto ciò che rappresentavano e distrussero le fenici, disperdendo le loro ceneri e spegnendo le loro fiamme.
-La tua spilla?- chiedo e qualcosa si muove dentro di me.
-Era di mia zia-(4) si stringe nelle spalle lei –Vieni, te la metto, va bene?- non aspetta nemmeno una risposta e la aggancia alla mia camicetta, le sue dita pallide e lunghe che lavorano febbrilmente per assicurarla bene. –Prometti che la indosserai, lì dentro? Me lo prometti, Rose?-
-Si- dico, e non ha davvero la forza di dire niente di più.
Mary si china veloce su di me e mi da un bacio sulla guancia. Poi corre via, senza girarsi indietro. Riesco quasi a sentire un singhiozzo prima che la porta si chiuda definitivamente e mi nasconda la vista dell’unica quasi-amica che io abbia mai avuto.
Alla fine arriva Albus. Magari non c’è niente di romantico fra di noi, ma, poi, lui spalanca le braccia e io mi ci tuffo dentro. Non siamo mai stato vicini come lo siamo adesso, mai, nemmeno quando eravamo piccoli.
Ha un buon profumo. Sa di alberi, di erba appena tagliata. Di libertà, di sicurezza. Mi sento bene. Vorrei poter imbottigliare il suo odore, il colore dei suoi occhi, il suono della sua voce e portarlo con me nell’arena.
Vorrei poter sempre sentire il battito del suo cuore.
-Ascolta- mi dice, allontanandomi quel tanto che basta per potermi parlare senza dover lasciare la presa sul mio braccio –Devi assolutamente mettere mano su delle armi. La bacchetta ce l’hai e la sai usare. Trova un bel posto dove nasconderti, magari. E dell’acqua. Trova subito l’acqua….-
-Non sempre ci sono alberi dove arrampicarsi. E non so usare nessun arma- ribatto, perché con lui posso essere sincera e non devo fare nessuna promessa che non riuscirò a mantenere.
-Invece si. Ci ho pensato e bhe… Ti ricordi quell’estate che andammo al campeggio babbano? Ci insegnarono a tirare con l’arco. Tu eri una delle più brave! Non sarà troppo difficile procurarsene uno-
-Al, è stato anni fa! Non si tratta solo di andare lì e infilzarli con una freccia come se fossero dei manichini! Loro sono in grado di pensare!- obbietto e sento la disperazione farsi largo dentro di me, sempre di più, spedendomi in un abisso senza fondo.
-Anche tu. E tu hai più esperienza. Esperienza materiale. Tu sai come si uccide, Rosie-(5)
Se si riferisce a quegli stupidi conigli che abbiamo provato ad ammazzare nelle campagne vicino a Casa Potter, quando non avevamo nulla di meglio da mangiare, bhe… evidentemente si sta arrampicando sugli specchi. Io non so uccidere le persone.
-Non la gente- gli dico, infatti.
-Ma c’è poi tanta differenza?-
E la cosa più spaventosa di tutta questa situazione è che, se davvero riesco a dimenticarmi che quelli lì sono esseri umani, persone come me, che ora stanno salutando anche loro la loro vita, bhe… non ci sarà assolutamente nessuna differenza.
Il signore in giacca e cravatta rientra e, quando Al gli chiede altro tempo, glielo nega. Devono intervenire altri due uomini per trascinarlo via da me.
-Albus! Sta attento a Hugo!-
-Lo farò. Lo sai che lo farò!- esclama lui, cercando di dimenarsi dalla stretta di una guardia, divincolandosi –Rose, ricordati che io…-
Ma uno dei tizi in divisa lo spinge fuori dalla porta e chiude la porta. E io non saprò mai cosa voleva dirmi, cosa dovrei ricordarmi.
 
Quando arriviamo al binario ferroviario dove, ogni anno, parte il treno che ci riconduce a King’s Cross, Londra, realizzo che non ho la più pallida idea di come faremo ad arrivare a Royàl.
Di solito le telecamere si limitano a riprendere quando i due sorteggiati salgano sul treno e glissano sul loro lungo viaggio, per poi riprendere il loro arrivo nella capitale americana e la parata di inizio.
Perciò non so proprio come faremo a percorre una così lunga distanza e un intero oceano in così poco tempo. Non credo che ci materializzeremo, quindi, penso che faremo un breve tratto in treno e poi, magari, una nave o un altro mezzo di trasporto che ci porti alla meta.
Non mi va di fare domande, comunque, perciò, quando raggiungo la stazione, la mia faccia è una maschera impassibile. Quando riesco a scorgere le telecamere appollaiate tutto intorno, capisco che ho fatto bene a non piangere. Mentre passo lungo la banchina colgo una mia fugace apparizione sui finestrini del treno e, improvvisamente, la mia schiena si fa più dritta, il mio mento più alto e la mia espressione quasi annoiata.
Invece risulta più che evidente che Scorpius abbia pianto.(6) Non sembra nemmeno volerlo nascondere, il che, penso, potrebbe essere una sua strategia per impietosire quelli di Royàl. Magari, se si mostra debole e piagnucoloso, poco pericoloso insomma, quelli del gioco riterranno che non sia necessario ucciderlo da subito.
Non che con le sue spalle larghe possa tanto apparire deboluccio e innocuo, certo.
Stranamente, questa volta, evita il mio sguardo e io mi sento molto sollevata. I suoi occhi sono troppo simili a quelli della Foresta. La Foresta dove sono stata con Al questa mattina. Al che è il fratello di Lily. Lily che è stata sorteggiata stamattina e di cui ho preso il posto.
Tutto, ogni pensiero, ogni collegamento sembra ricordarmi la mia imminente morte e sento le mie gambe mandarmi segnali contrastanti. Come se volessero cedere all’improvviso o immobilizzarsi rigide, allo stesso tempo. Stringo le mani in dei pugni, nella disperata speranza che tutto ciò possa aiutarmi a non crollare sul pavimento sporco e freddo della stazione.
Aspettiamo qualche minuto, in modo che le telecamere e i fotografi possano riprendere per bene tutti i particolari dei nostri visi. Poi, qualcuno in un posto indeterminato, fischia e le porte dello scompartimento si aprano.
Rachel è la prima a entrare saltellando. Poi le due guardie e il tizio in giacca e cravatta. Quest ultimo offre con un gesto galante una mano a Victoire, che, però, la respinge con un gesto veloce e sale il gradino con la sua innata grazia.
Io e Scorpius ci fissiamo.
Poi lui fa uno strano cenno con la testa, come a darmi la precedenza e, anche se il mio cervello mi urla di non fidarmi, che sta soltanto cercando di conquistarmi per poi colpirmi alle spalle, lì nell’arena, io lo precedo, senza fare una piega.
Quando anche lui sale, le porte del treno si chiudono e io mi preparo a lasciare per sempre tutto ciò che mi ha reso quello che sono.




ANGOLO AUTRICE
Citazioni 1-2-3-4-5-6: Da "Hunger Games" di Suzanne Collins
IMPORTANTE!
Allora questo capitolo è una parte importante della storia perchè spiega la maggior parte dei rapporti fra i personaggi... visto che, comunque, il libro, così come i protagonisti e la trama sono del libro Hunger Games, i dialoghi (segnalati con i numeretti) sono gli stessi del libro.
I peniseri di Rose, ovviamente, non sono quelli di Katniss, ma, comunque, i dialoghi e le conversazioni, così come gli episodi che si svolgono in questo capitolo, sono uguali!
Nel libro il padre di Katniss muore in una miniera, la madre finisce in shock e Katniss deve assumere il ruolo di capofamiglia. Lei e Gale, il suo migliore amico, passano la mattina prima della mietitura, o sorteggio, nei boschi fuori dal Distretto 12, dove abitano. La ragazza che dona la spilla a Katniss nella storia è Madge, la figlia del sindaco. Hugo e il suo discorso strappalacrime, così come le riflessioni di Rose prima di salire sul treno, sono farina del mio sacco, invece. Infine il padre del tributo maschio, nella mia storia Scorpius, nel libro Peeta, fa davvero visita a Katniss. Ovviamente, i due, non conoscendosi, rimangono in silenzio per motivi assolutamente diversi da quelli che fanno tacere Rose e Draco.
La frase finale che Draco rivolge a Rose prima di andarsene è mia e, con il tempo, ne scoprirete i significati nascosti!
Detto questo, un bacio e alla prossima!
Fra

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Capitolo 4
*** 3 - Il ragazzo sotto la pioggia ***


Angolo della Piccola Pazza Sclerotica
Hola gente!
Innanzitutto ciao a chi è ancora qui!
Dai mi sembra di essere stata abbastanza puntuale nell'aggiornare questa volta, andiamo!
E voi mi avete ripagato con ben 11 (11, 11, 11, 11, 11!!!!) recensioni!
Bhe, ragazze mie (non credo che ci siano maschietti nel pubblico, vero?), ormai la tanto favolosa data del 15 Maggio, giorno in cui, per la gioia di tutti i fan di Hunger Games uscirà il terzo e conclusivo libro (aaaaaaaaaa *.*) ma, per chi non avesse letto il libro... bhe avete visto il film?
Quasi mi dispiace, però!
Avrei dovuto pubblicare prima la storia, così uno dei miei tanti amati colpi di scena non l'avreste già scoperto... ma, se avete visto il film/letto il libro, state tranquille, come ho già detto ad una ragazza che ha recensito, la storia si distaccherà di parecchio dalla trama originale, anche se da questi primi capitoli è praticamente la stessa...
Io non ho ancora visto il film, comunque... sono piena di compiti e quella banshee di mia madre non mi ha fatto uscire... avere quindici anni, alle volte, serve davvero a poco...
Ma vado a vederlo sabato *.*
Ora vi lascio al capitolo e  ci ritroviamo come al solito alle note finali!
Fra

 

Dedicato a   YouCanCallMeRose  _Valerie_96 freak the freak  Alexiel94 Rosie_96 RoseBlack98 MissTata55 sweetcorvina Harry Potterish Jo_94  Rochi che hanno recensito lo scorso capitolo
Dedicato a tutti i  "cosi" del mondo.

 


Capitolo III

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Cosa crede la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due.
-Philip Roth

 
In un primo momento la velocità con cui ci muoviamo è così elevata da farmi perdere l’equilibrio.
L’Hogwarts Express è sempre molto veloce, certo, ma non siamo mai giunti ad accelerare così tanto.
Inoltre, a differenza di quando ci ospita per andare da Londra a scuola e viceversa, il treno, per questo viaggio è tirato a lucido più che mai. Ognuno di noi ha il suo appartamento, dotato di camera da letto, salottino e bagno –il mio ha persino una vasca con le bollicine babbana-. Inoltre, il mio armadio, è strapieno di vestiti di ottima fattura, di qualsiasi tipo, colore, grandezza e provenienza. Rachel si accorge che lo sto fissando e, cercando di instaurare un rapporto di cameratismo fra donne, mi dice con voce entusiasta che posso provare e mettere quello che voglio.
L’unica cosa che voglio davvero in questo momento è gettarla per terra e strapparle la sua orribile parrucca rosa caramella, magari saltandoci anche sopra.
Ma non credo che mi converrebbe visto che, quando sarò nell’arena, fra qualche giorno, lei e Victoire saranno i miei unici legami con il mondo esterno e le uniche possibilità di salvezza su cui potrò contare.
Perciò cerco di sorriderle –senza molto successo comunque- e mi affretto a sbadigliare, come a farle vedere che, nonostante il piacere immenso che l’averla lì con me nella mia stanza mi procura, sono davvero, davvero stanca e lei, da brava donna quale è mi lascia da sola, ricordandomi semplicemente di scendere per cena, fra qualche ora.
Quando sono sola mi lascio cadere sul letto dalla trapunta verde sorprendentemente comodo e morbido. Scalcio via le scarpe da cerimonia nera e mi rannicchio stretta su me stessa. Osservo con particolare attenzione i miei piedi costretti nelle sottili calze nere.
Sono davvero dei bei piedi.
Sono piccolissimi. Quelli di Lily, invece, sono enormi, per appartenere ad una ragazzina della sua età. Infatti, quando deve cercare un paio di scarpe per un occasione speciale, finisce sempre per ordinarne un paio su misura.
Ovviamente, però, il fatto di essere migliore di lei in questo piccolo dettaglio non mi risolleva il morale, anzi, se possibile mi fa sprofondare nella depressione ancora di più perché, anche con i piedi di una mezzo-gigante, Lily è comunque molto più bella di me.
Muovo con calma le dita del piede destro e mi concentro su quelle, come se, così facendo, potessi scordarmi tutta la giornata appena trascorsa.
Ovviamente non ci riesco. O almeno non del tutto.
Il fatto che parteciperò ai Giochi è una cosa che il mio cervello ha ormai recepito e accettato. Insomma, so di cosa si tratta. L’ho visto così tante volte.
I sorteggiati, prima di andare nell’arena a scannarsi, hanno diritto a ben nove giorni di festeggiamenti in loro onore dove avranno la possibilità di presentarsi al pubblico, di conquistarsi qualche sponsor e di ottenere così regali per quando saranno nell’arena.
Per i cinque giorni precedenti all’inizio dei Giochi, poi, si terranno allenamenti, sia con gli altri partecipanti, sia individuali e questi ci serviranno a prepararci fisicamente per quando verremo gettati in pasto alla morte.
Il nostro preparatore fisico, che da anni è sempre lo stesso per Hogwarts, è un signore sulla quarantina che vedo sempre in Tv ma di cui non ricordo il nome.
Secondo il programma che Rachel ci ha lasciato potremo incontrarlo subito dopo la presentazione al pubblico, una specie di sfilata dove i concorrenti ai Giochi sfilano tutti in tiro per le strade di Royàl e dimostrano al mondo quanto sono felici e onorati di stare per morire.
Scuoto la testa cercando di riprendere il filo dei miei pensieri. Anche quando mi limito a pensare tutto mi si confonde e mi ricorda che sto per morire.
Merlino, sto per morire.
Ecco quale è la cosa che il mio cervello si rifiuta di accettare. Insomma, credo che sia una cosa normale.
Io sono qui, sono viva. Il mio cuore batte, lo sento. Come può la mia vita stare per finire quando ho ancora tante cose da fare, da dire, da provare?
Ho sempre pensato che, quando sarei morta di vecchiaia, sarei morta nel mio letto, circondata dalle poche persone che amo. Non di certo che sarei stata infilzata dall’ascia di un qualche ragazzino più spaurito di me.
Lancio uno sguardo veloce alla piccola sveglia che hanno sistemato sul mio comodino. È una invenzione americana. In origine era una sveglia babbana, poi, però è stato applicato un sortilegio che la fa continuare a suonare fino a che la persona interessata non si è davvero svegliata.
So già che mi creerà dei problemi e, per quanto l’idea di gettarla dal finestrino mi tenti, decido di tenerla, almeno per darmi un minimo di puntualità.
Chissà se Victoire ne ha una nella sua stanza. Per un attimo mi trastullo con la esilarante scenetta prodotta dalla mia mente. La mia deliziosa cugina francese che saltella per la stanza dietro la sua sveglia a forma di maialino e inciampa nelle sue scarpe con il tacco.
Rido come una cretina ma poi la smetto perché, di sicuro, questo treno è pieno di mosche-spie1 (usate dal governo americano per scoprire e sedare la rivolta dei ribelli e usate da allora per riprendere e sorvegliare) e non voglio dare l’impressione di essere completamente tocca.
Decido di farmi una doccia, giusto per occupare l’ultima mezzora di tempo che mi resta prima della cena –dormire è fuori discussione, non riuscirei a chiudere occhio.
Mentre arranco verso il piccolo bagno della mia stanza mi dico che, per essere una che sta per morire, sembro davvero troppo allegra. Il punto, però, è che io non riesco a pensarci. Non riesco ad accettare la mia fine e preferisco non pensarci e soffermarmi su altri aspetti del mio fosco futuro.
A pensarci bene, poi, non so nulla del mio futuro.
So che fra poco dovrò scendere per la cena.
So che fra qualche giorno sarò tenuta a partecipare a una specie di sfilata e imbellettata come una delle bambole che aveva Lily da piccola.
E so che, nel giro di una settimana, qualcuno morirà.
Forse non sarò la prima a morire. Spero davvero di non esserlo. Sarebbe un duro colpo per la mia autostima, per quanto il mio ego possa essere importante dopo la mia dipartita.
In ogni modo, e di questo ne sono sicura, venti ragazzi, -siamo in venti, si?- entreranno in quell’arena. E solo uno ne uscirà indenne.
Provo a figurarmi come saranno gli altri concorrenti.
Provo a figurarmi mentre uccido uno di loro.
Poi, come se me li fossi trovati davanti all’improvviso, compaiono nella mia mente gli occhi Foresta Proibita di Scorpius.
Mi ero dimenticata che ci sarebbe stato anche lui.
Un qualcosa di indefinito mi attanaglia lo stomaco e di nuovo penso che no, non voglio entrare in quell’arena con lui, che non voglio assolutamente averci a che fare.
Perché Scorpius Malfoy è buono. E uno Scorpius Malfoy buono è molto più pericoloso per me di uno Scorpius Malfoy cattivo. Perché le persone buone riescono a mettere le radici nel tuo cuore senza che tu te ne renda davvero conto. Un giorno ti guardi dentro e le trovi e non puoi più farci niente, perché ormai sono parte di te.
2
Ma io non posso permettere che accada. Devo sradicare i piccoli semini che, quella sera, sotto la pioggia, tanti anni fa, Scorpius Malfoy ha piantato nel mio cuore prima che quelli germoglino e crescano fino a diventare delle dimensioni di un baobab. Non posso permettermelo.
Eppure lo so. So benissimo che sono in debito con lui, che la mia vita, la mia anima, anche se solo figurativamente, anche se non ha davvero fatto nulla di speciale, è salva grazie a lui.
E lo odio. Io odio tantissimo essere in debito con la gente, ma ormai non posso fare niente.3
 
Quando avevo sette anni io e mia madre facevamo sempre un gioco. Ogni volta che uscivamo, qualunque fosse il motivo o la destinazione per il quale lasciavamo la nostra bella casetta nel Devonshire, fingevamo che ci fossero dei fantomatici e crudeli nemici che ci seguivano e che volevano intrappolarci.
Perciò, mentre io e Hugo ce la ridevamo alla grande, mamma si guardava intorno con fare circospetto e faceva i suoi doveri, le sue commissioni in assoluto silenzio. A volte l’aiutavamo.
Io camminavo vicino a lei, le sussurravo quando non c’era nessuno per strada e che potevamo attraversare. Hugo osservava i passanti per strada e si chiedeva quali fra loro potessero essere i nostri fantomatici nemici.
Era un gioco divertente e noi eravamo bravi.
A volte, quando non doveva lavorare mio padre si univa a noi. E allora si che era divertente.
Lui prendeva in giro la mamma, con quel suo sorriso bonario e gli occhi azzurri come i miei che gli brillavano. “Sei troppo paranoica, Herm. È solo un gioco!”.
Che poi non era solo un gioco l’avevo capito solo dopo. Che mia madre non era una stupida. Il restare nascosti, il non farci vedere troppo in giro, il preoccuparci di nemici nascosti… lo scoprii solo quando era troppo tardi. Quando i nemici, che non erano inventati, avevano buttato quella maledetta bomba nella sede del Ministero dove lavorava mio padre, distruggendo anche il centro organizzativo della rivolta contro gli americani.
A quei tempi frequentavo il mio primo anno ad Hogwarts e tutto il mio mondo crollava come un castello di carte mal costruito, gettato via da un soffio di vento.
E dire che io mi ero sempre considerata brava, a quel gioco. Riuscivo a individuare la presenza di qualcuno a distanza enormi, fiutavo con sospetto l’aria che mi circondava, ero sempre così circospetta, così pronta a giocare all’investigatrice.
E non me ne ero accorta.
E all’improvviso quando ero così vicina da poter vedere la fine del gioco, la linea del traguardo, il gioco era finito e la partita era stata persa.
E io mi svegliavo la mattina, la fronte bagnata e i vestiti appiccicati come una seconda pelle per il sudore, urlando a mio padre di scappare, perché i nemici, quei tanto temuti nemici, non se li stava solo immaginando la mamma, non erano frutto della sua mente, ma esistevano davvero. E io gli urlavo di scappare e gridavo, gridavo e gridavo.
Ma lui non mi sentiva mai e tutto sembrava svanire. Il terreno mi mancava sotto i piedi e l’aria sembrava convergere all’improvviso, soffocandomi.
 
Quando tornai ad Hogwarts, dopo le due settimane a casa che mi erano state concesse per il lutto, tutto sembrava così dolorosamente cambiato.
Le mura del castello erano sempre le stesse ma non mi davano più quella sensazione di protezione, di sicurezza.
Vedevo nemici dappertutto.
Ora che il gioco era concluso mi impegnavo sul serio a vincere. Davvero ironico e melodrammatico, in effetti.
Per quanto il fatto di aver appena perso mio padre fosse una buona giustificazione per tutti, il mio rendimento scolastico scese in picchiata. Neville aveva cercato più e più volte di aiutarmi, di fermarmi per i corridoi e di cercare di affrontare con me la situazione. Victorie mi aveva proposto di studiare insieme ma io avevo respinto il suo aiuto.
Odiavo essere in debito con le persone, anche se si trattava della mia famiglia.
Quando avvenne il fatto erano passate poche settimane da che Victorie era stata sorteggiata. Era il mio primo anno e, sia James che Molly, gli unici due studenti che, insieme a Vic, frequentavano già Hogwarts prima del mio arrivo, si erano offerti di prendere un biglietto al posto mio ma, testarda e sprezzante del pericolo quale ero, avevo rifiutato. Forse può sembrare strano, ma, la morte, in quel momento, era una di quelle situazioni che avresti accolto a braccia aperte e con il cuore colmo di rassegnazione.
Papà era morto da due mesi, circa. Il dolore si era tramutato da un urlo assordante a un costante e permanente senso di solitudine, di aspettativa.
La professoressa Erikson, che avrebbe sostituito Neville per un pò al momento troppo preso dai suoi compiti di Vicepreside per accollarsi anche una classe di primini, ci aveva assegnato come compito quello di andare per il parco di Hogwarts e di raccogliere alcune erbe, scrivendoci poi una relazione.
Il compito sarebbe stato davvero importante per la valutazione finale e, per quanto il mio unico desiderio in quel momento era quello di ritirarmi nel mio piccolo mondo di cristallo, mi impegnai duramente.
Trovai la maggior parte delle erbe richieste dalla professoressa e scrissi tutte le relazione. Alla fine mi rimaneva da rintracciare solo il quadrifoglio. I miei compagni ne avevano trovato un po’ in un angolo vicino al muro di cinta ma, quando ci ero andata io non ne avevo trovato neanche l’ombra, e, troppo orgogliosa per chiederne qualche foglie a qualcuno, la sera prima della consegna ero uscita a fare un ultimo disperato giro.
Ma quella stupida pianta sembrava introvabile, e il panorama di quella distesa verde somigliava troppo a quel prato dove avevamo fatto un pic-nic tutti insieme, con la mia famiglia, con mio padre, prima che iniziassi la scuola; e il marrone delle terra su cui stavano iniziano a cadere delle sottili goccioline era quasi della stessa tonalità degli occhi di mia madre, così spenti e vuoti; e tutto era così difficile, e così pesante, e così insopportabile. E io ero così fragile, per quanto continuassi ad impormi di andare avanti, di sopportare in silenzio, perché era quello che mio padre avrebbe fatto. Perché se non me ne fossi occupata io, di Hugo, di mia madre… chi altro l’avrebbe fatto?
E rimasi ferma, impalata, sotto una pioggia scrosciante che lavava via tutto, tranne il mio dolore, più forte che mai dopo i ricordi che avevo rivissuto.
E, poi, come in un sogno, un incubo, i passi di qualcuno che si avvicinavano a me. E, per quanto la mia paranoia fosse aumentata, in quel periodo, avevo capito che quelli non erano i passi di un nemico.
 
Scorpius non disse nulla, si limitò a fissarmi di sottecchi, mentre io tiravo su con il naso e mi asciugavo le lacrime con il dorso della mano. Ora che lo scoppio di pianto era terminato mi vergognavo profondamente.
Insomma non potevo considerarmi a tutti gli effetti il capofamiglia, quella che avrebbe sostenuto il peso della morte di mio padre, del problema di mia madre e della giovinezza di mio fratello e poi scoppiare a piangere davanti ad uno sconosciuto perché non riuscivo a trovare una stupida piantina, per quanti ricordi potesse suggerirmi.
Avevo gli occhi bassi e stavo decidendo il da farsi. Ricordo perfettamente di aver pensato di minacciare il mio compagno che, se avesse raccontato a qualcuno il mio momento di debolezza, gliel’avrei fatta pagare e poi correre via, quando, all’improvviso, qualcosa di estremamente freddo, ancora più freddo della pioggia che scendeva e batteva forte e del vento che mi sferzava il viso, frustandomi con i miei stessi capelli, mi afferrò la mano.
Alzai di poco lo sguardo e osservai con un misto di sorpresa e di sospetto la mano di Scorpius Malfoy afferrare la mia. Stavo per dirgli qualcosa, non sapevo cosa, ma quello era davvero troppo!, quando lui, con un gesto delicato, sciolse le mie dita dal ferreo pugno in cui le avevo costrette. Poi, con un movimento elegante, era elegante persino in quel momento, completamente zuppo, insieme a me che piangevo senza alcuna ragione apparente, prese qualcosa dalla tasca interna della sua divisa. Non riuscì a vedere bene cosa fosse finchè, con l’altra mano –non mi aveva ancora lasciato con la sinistra- me la posò con delicatezza sul palmo aperto.
Poi, prima che io potessi anche solo collegare o riconoscere l’oggetto in questione, mi richiuse la mano e, senza nemmeno guardarmi si girò, incamminandosi lungo la stradina che portava al cortile pavimentato e poi al castello. Rimasi ferma per un po’, cercando fra il fruscio delle foglie e il rumore indistinto della pioggia quello dei suoi passi. Non ci riuscii e sentì il groppo che mi aveva attanagliato la gola fino a pochi minuti prima allentarsi, come se la mano che mi stava strangolando avesse deciso di concedermi un attimo di tregua.
Mi lasciai cadere sul prato bagnato, ormai incurante persino del freddo e fissai il vuoto per qualche minuto buono, sentendo ancora i suoi occhi grigi nei miei e la sua mano troppo fredda sulla mia pelle.
Non feci pensieri romantici, ne sogni ad occhi aperti, quel pomeriggio. Niente di tutto ciò.
Non provavo nulla per Scorpius Malfoy.
O almeno non lo provai finchè non aprii lentamente il palmo della mia mano e ci trovai un piccolo quadrifoglio dalle foglioline spiegazzate.
 
La mattina dopo non scesi a colazione.
Sapevo che, come voleva la buona educazione, sarei dovuta andare da Scorpius e ringraziarlo per il suo gesto ma, davvero, non ne avevo il coraggio.
Insomma, non ne ero spaventata. Era solo che sentivo un qualcosa di indefinito stringermi lo stomaco e impedirmi di pronunciare una qualsiasi parola.
In ogni modo, dopo essermi preparata psicologicamente all’incontro durante le due ore di Storia della Magia e la terza di Trasfigurazione, cercai invano di convincermi che sarebbe andato tutto bene mentre mi incamminavo verso le serre.
Una volta lì la professoressa Erikson non era ancora arrivata. Io l’avevo previsto e mi ero già preparata un discorso da fare a Scorpius.
Ma lui era con i suoi amici, rideva e non mi stava guardando. Abbassai gli occhi sulla mia ricerca e sulla piccola borsetta di Mokessino dove avevo conservato le varie erbe che mi erano state richieste.
La professoressa fece il suo ingresso in classe e io persi la mia occasione. Per tutta le due ore di lezione ebbi l’impressione che qualcuno mi stesse fissando ma, quando mi giravo, nessuno sembrava guardare dalla mia parte. Poi, alla fine, quando suonò la campanella e la classe si riversò fuori, schiamazzando e bighellonando verso la Sala Grande per pranzo, io rimasi indietro a sistemare la mia borsa ed ebbi di nuovo quella sensazione che mi stessero osservando.
Alzai lo sguardo di scatto e vidi che Scorpius, anche lui rimasto indietro per aspettare un suo compagno, mi fissava e non accennava più a distogliere lo sguardo.
Io arrossii di botto e portai il mio, di sguardo, verso il pavimento. E in quel momento lo vidi.
Un piccolo quadrifoglio cresceva proprio davanti ai miei piedi, beffandosi del freddo e dell’umidità, resistente e speranzoso come non mai. Improvvisamente mi sentii meglio. Scorpius e il suo amico se ne andarono senza salutare e io mi accovacciai per terra, osservando le piccole foglioline verdi che si inerpicavano verso l’alto, piccole, ma fiere e gloriose.
E in quel momento, credo, capii che potevo farcela.
Avrei avuto bisogno di aiuto, avrei chiesto aiuto. Ma non avrei mai più dovuto portare tutto il peso del mondo sulle mie povere spalle. Quella sera andai a parlare con Neville e lui mi tranquillizzò e mi diede dei buoni consigli su come gestire la mia difficile situazione.
Non gli dissi tutto, ero orgogliosa e, comunque, abbastanza forte da poter andare avanti, ma ciò mi fece sentire meglio.
E fino a oggi non sono mia riuscita a dimenticare il collegamento tra il ragazzo sotto la pioggia, Scorpius Malfoy, il quadrifoglio che mi aveva regalato e quello che avevo trovato nel terriccio della vecchia serra di Hogwarts e che mi aveva ricordato che non ero condannata.
E più di una volta, durante le lezioni, a pranzo, durante il tempo libero, mi sono voltata e ho colto i suoi occhi puntati su di me e subito distolti.4
Forse avrei davvero dovuto ringraziarlo. Almeno per alleggerire il debito che ho contratto nei suoi confronti. Ma non ne ho mai avuto l’occasione e, sicuramente, non posso farlo ora. Non posso attraversare la mia stanza, camminare per il treno e bussare alla sua porta, ora, dopo sei anni da quell’episodio e chiedergli scusa.
Non sembrerebbe granché sincero visto che da qui a qualche giorno lotterò con tutte le mie forze per ucciderlo.5
 
1- Nel libro non esistono le mosche spie, ma, più prosaicamente, ci sono delle telecamere.
2 - Frase leggermente modificata da Hunger Games 
“Un Peeta Mellark buono è molto più pericoloso di un Peeta Mellark crudele, per me. I buoni hanno un modo tutto loro di entrarmi nel cuore e metterci radici. E non posso lasciare che lo faccia Peeta. Non dove stiamo andando. Quindi decido che, da questo istante in poi, col figlio del fornaio avrò a che fare il meno possibile.” 
3- Da Hunger Games
4 - Frase leggermente modificata da Hunger Games 
"Fino a oggi non sono mai riuscita a dimenticare il collegamento tra questo ragazzo, Peeta Mellark, il pane che mi diede la speranza e il dente di leone che mi ricordò che non ero condannata. E più di una volta, all’entrata della scuola, mi sono voltata e ho colto i suoi occhi puntati su di me e subito distolsi. Sento di dovergli qualcosa, e io odio essere in debito con la gente." 
5 - Frase leggermente modificata da Hunger Games "Stiamo per essere gettati in un'arena a combattere fino alla morte. Come potrei mai ringraziarlo, qui? Non sembrerà granché sincero, quando tenterò di tagliargli la gola." 

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Capitolo 5
*** 4 - Solo per questa notte ***


Dedicato alle meravigliose 11 ragazze che hanno impiegato qualche attimo del loro prezioso tempo per recensire lo scorso capitolo.
Questo sarà un aggiornamento lampo e non potrò soffermarmi molto su note e ringraziamenti vari, ma, ve lo giuro, sto già provvedendo a rispondere alle vostre magnifiche recensioni che mi hanno davvero scaldato il cuore.
Per farmi perdonare dalla lunga attesa ecco un capitolo bello lungo e ricco di sorprese!
Probabilmente è il primo che si discosta completamente dalla trama del libro (l'unico accenno ad Hunger Games è il commentino acido di Rachel sulla buona educazione che è stato riportato fedelmente dall'opera di Suzanne Collins).
Per il resto dovete ringraziare la mia testolina geniale (???) e le meravigliose Giu, Ale e Iv che mi hanno consigliato il modo migliore per terminare il capitolo!
Fatemi sapere cosa ne pensate, d'accordo?
A questo capitolo ci tengo particolarmente e spero davvero che possa piacervi!
Un bacio e alla prossima!
Fra
P.S. sono l'unica che sta avendo una crisi isterica perchè, domani, 15 Maggio 2012, esce il "Canto della rivolta", il terzo e ultimo libro della saga di Hunger Games?

 

Dedicato a   freak the freak  Alexiel94 Rosie_96 RoseBlack98  sweetcorvina Harry Potterish Jo_94 Elizha  Otta_Weasley  Elaeth Rochi grazie di esistere, belle!


Capitolo IV

 

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Ho sempre detto che, quando arrivi a farti odiare, sai che stai facendo bene il tuo lavoro.
C. Bukowski

 
 
Sono appena uscita dalla doccia, ancora avvolta nell’asciugamano verde –lo stesso verde della trapunta, delle tende, delle pareti e di qualsiasi altro oggetto in questa enorme stanza- quando qualcuno bussa alla porta.
Lancio un occhiata veloce all’orologio a pendolo che ticchetta animatamente al muro e, con una buona dose di sorpresa, mi rendo conto che la breve doccia che avevo intenzione di concedermi, si è protratta per ben più di quaranta minuti.
Immagino che la cena sia già iniziata.
Bhe, in ogni modo non avrei la forza di mangiare, mi si è chiuso lo stomaco –come se qualcuno me lo avesse afferrato e stretto in una mano-.
Ho appena deciso di ignorare l’invito esaurientemente zuccheroso di Rachel ad unirmi a loro per la cena e di gettarmi sul letto sperando che questo incubo di giornata si concluda il prima possibile; quando, quasi a ricordarmi il vero motivo per cui sono ancora in piedi e non sotto le coperte, due colpi alla porta mi distraggono.
Improvvisamente penso che, nel caso in cui non scendessi per la cena, Rachel, Victoire e Scorpius –soprattutto Scorpius- potrebbero pensare che sia crollata emotivamente in lacrime sul mio cuscino. E non intendo dare spago a simili teorie che affonderebbero la mia –già di per sé critica- situazione emotiva e futura.
Sbuffo profondamente e, senza nemmeno dare voce all’inserviente che Rachel avrà senza alcun dubbio intimato di venirmi a chiamare, mi avvicino all’armadio con aria critica.
Ora io non pretendo di essere diversa dalle altre ragazze, davvero. Non sono una di quelle pazze scatenate che per un bel vestito si venderebbero anche l’anima, come mia cugina Lucy, ad esempio; ma non sono nemmeno il tipo da ehi-mi-vesto-da-maschio-perché-odio-i-fronzoli, ecco.
Mi piacciono i vestiti, relativamente parlando. Solo che, non avendo poi tutta questa disponibilità economica, soprattutto visto che, dopo essere entrata in quella specie di coma depressivo, mia madre ha smesso di lavorare, non ho mai indossato abiti di così importante fattura, né firmati, né, tantomeno, fatti su misura.
In ogni modo spalanco l’anta dell’armadio –che è così grande da occupare un’intera parete- e, cercando di non soffermarmi molto sulla miriade di cassetti stracolmi di vestiti impilati in ordinate file nei cassetti, afferro le prime cose che mi capitano davanti: un semplice pantalone nero e una leggera camicetta che, ne sono sicura, servirà a ben poco con il freddo gelido che troverò fuori dalla mia stanza. Ma non ho il tempo –né la voglia- di trovare qualcosa di più adatto alle condizioni atmosferiche e, d’altra parte non mi importa molto dell’abbigliamento con cui scenderò a questa stupida cena.
Rachel troverà da ridire in ogni caso.
Lancio una veloce occhiata allo specchio e contesto con una certa soddisfazione che sembro assurdamente normale. Anzi, la mia normalità sembra stonare amabilmente in questo treno dall’aria lussuosa e questa stanza colma di oggetti costosi.
Bussano di nuovo alla porta e io mia affretto ad abbottonarmi i bottoni rimasti e saltello fino alle scarpe da cerimonia che ho indossato per il sorteggio. Suppongo che da qualche parte in questo armadio grande come una casa ci sia anche uno scompartimento riservato alle calzature ma decido di rimandare l’esplorazione del mio guardaroba a quando sarò psicologicamente più preparata.
Affaccio la testa dalla porta e scruto il corridoio, ma del domestico/inserviente mandato da Rachel non c’è traccia. Il che mi fa leggermente innervosire, visto tutto quel bussare alla porta di qualche secondo fa.
Do una seconda occhiata e, piuttosto spazientita nel trovarlo assolutamente deserto, faccio per voltarmi verso sinistra, dove, a quanto ricordo dal piccolo giro turistico che ci ha fatto fare Rachel quando siamo saliti sul treno, ci dovrebbero essere gli scompartimenti riservati ai pasti.
Nel farlo, però quasi inciampo su Scorpius che, stranamente immune alla mia scansione del corridoio, è appoggiato al muro accanto alla mia porta, le braccia incrociate all’altezza del petto e un sorriso amichevole in viso.
-Ciao- dice e i suoi occhi Foresta brillano anche sotto le luci impietose e estremamente babbane dei neon appesi al soffitto –Andiamo a mangiare?-
Annuisco, cercando di mostrarmi gentile.
Io non ho nulla contro di lui.
Fra una settimana dovrò ucciderlo ma, almeno per il momento, non ho assolutamente nulla contro di lui.
E suppongo sia così. Insomma finchè non saremo nell’arena, dopotutto, possiamo anche cercare di andare d’accordo, giusto? Anche perché lo scontro fra concorrenti prima dell’inizio dei Giochi è severamente vietato e punibile con atroci castighi. Non che nessuno ci abbia provato sul serio e che l’abbia verificato.
-Non pensavo che fossi una che ci mette così tanto a prepararsi- esclama mentre cammina, qualche passo avanti a me. Se si riferisce al suo continuo bussare alla mia porta, bhe, può anche stare zitto. Ci avrò messo al massimo qualche minuto per vestirmi e asciugarmi.
-Tutte le ragazze ci mettono molto a prepararsi- rispondo senza scompormi, perché so a che gioco sta giocando. Vuole soltanto farmi innervosire, indebolirmi e poi colpirmi alle spalle.
-Ma tu non sei tutte le ragazze-
Che cosa intende dire con questo? Che non sembro una ragazza? Solo perché non indosso le gonne e non mi trucco? Solo perché le mie ambizioni si discostano dal “diventare Miss Mondo Magico” o “trovare un marito felice e multimilionario che faccia tutto il lavoro mentre io sto a casa a non fare nulla e a schiavizzare povere domestiche perché si occupino dei miei viziatissimi figli”? Bhe, si, in questo caso sono diversa da tutte le ragazze.
Sto quasi per rispondergli a tono –e anche a sperimentare gli “atroci castighi” pur di dargli un pugno in faccia- che lui apre una delle innumerevoli porte dello scompartimento 3 e mi fa segno di precederlo.
È la seconda volta che lo fa, oggi.
Anche quando siamo saliti sul treno mi ha dato la precedenza. So che fa parte della sua educazione da piccolo perfetto purosangue, ma, in ogni caso, mi da piuttosto fastidio.
Insomma che senso ha fingere, ormai?
Mi sono sbagliata. Io e Scorpius Malfoy non possiamo essere amici, anche se solo per questa settimana. Non posso fingere di essere sua amica, accettare le sue galanti attenzioni –per quanto aprire una porta possa essere considerata una galante attenzione e non un semplice e comune gesto di cortesia- e poi ucciderlo come se niente fosse lì nell’arena.
Sarebbe scorretto. E, se proprio devo partecipare a questi stupidi Giochi, almeno, voglio farlo con la coscienza pulita.
Improvvisamente mi è passata la voglia di rispondergli e, anche se lo vedo lanciarmi un’occhiatina di sottecchi –si è in pratica girato di spalle per osservarmi- faccio finta di niente.
Oltrepassiamo gli appartamenti di Rachel, i più vicini alla Sala da Pranzo, e anche il nostro ultimo argomento di conversazione, i cambiamenti apportati al treno –gli scompartimenti dove ci sediamo di solito quando il treno ci porta a scuola sono scomparsi e sono stati sostituiti da stanze dagli arredi improbabili, con tanto di salotti, sale da ballo e un interminabile corridoio con un lampadario di cristallo- cade senza che nessuno dei due lo rimpianga davvero.
Una volta girato l’ennesimo angolo inizia un lunghissimo corridoio, e qui la mia idea che sia stato gettato un incantesimo di Estensione Irriconoscibile si fa sempre più probabile, con dei finestrini con tanto di piccoli davanzali.
Io continuo a fissare la schiena di Scorpius, continuando a chiedermi da dove venga quella strana sensazione che mi stringe lo stomaco. E, anche se, in realtà, so cosa è, non voglio pensarci. Preferisco fingere, anche se solo per qualche altro misero minuto che tutta vada ancora bene.
Anche se lo so. Lo so che non posso. Devo assolutamente decidere come comportarmi con lui oppure tutto quello che ho pensato, che ho costruito, tutto… sarà vano. In un modo o nell’altro devo tranciare i rapporti fra me e il ragazzo biondo che mi cammina davanti. Non posso semplicemente ignorare che fra qualche giorno cercheremo disperatamente di ammazzarci a vicenda, giusto?
Mentre tutta la mia attenzione si focalizza su questi dettagli di strategia sopraffina, vado a sbattere contro qualcosa e quasi rimbalzo per l’impatto con la schiena del mio compagno.
Scorpius si è bloccato in mezzo al corridoio e fissa insistentemente la prima della lunga serie di finestre che affacciano sull’esterno del treno. Prima che io possa anche solo pensare di dire qualcosa o, nel caso peggiore, lanciargli una frecciatina o uno spintone, lui si riscuote e copre la distanza che lo separa dal finestrino con pochi, aggraziati, passi.
Per un attimo soppeso l’idea di lasciarlo lì da solo ma, poi, più per paura di rimanere sola in questo labirinto lussuoso che non assomiglia a niente che io abbia mai visto prima, che per vera voglia di rimanere in sua compagnia, mi avvicino alla sua figura schiacciata contro il vetro.
Lo fisso cercando di capire cosa sta facendo e, all’improvviso, mi rendo conto che questo ragazzo è davvero troppo strano.
Perché dovrei preoccuparmi se mi considera o meno una ragazza? Non sono certo io quella che si comporta come un bambino di cinque anni e che fissa il –do una veloce occhiata fuori dal finestrino- mare come se non l’avesse mai…
La mia bocca si spalanca e i miei occhi si sbarrano in un unico movimento.
Fuori dal finestrino c’è il mare.
E non intendo un paesaggio costiero, proprio il mare. Vero e proprio Oceano. Con le onde e la spuma bianca e tutto il resto.
Mi appoggio al davanzale e scuote leggermente la testa. Quando un gabbiano sfreccia ad appena qualche metro dalla carrozza mi sento girare la testa. Forse ho le allucinazioni.
Perché sembra proprio che questo treno, lo stesso treno che ogni singolo anno ci porta a scuola, stia solcando le acque del mare come farebbe una nave. Avanziamo dritti e spediti e, a giudicare dalla quantità di spruzzi che schizzano il finestrino e dal fumo biancastro che si intravede dal vetro, stiamo andando anche parecchio veloci.
-È… È… questo è…- provo a balbettare ma non riesco a trovare nessuno aggettivo che possa definire queste assurde sensazioni che mi sconvolgono dentro.
-È magia- dice Scorpius accanto a me, appoggiando i palmi delle mani e la fronte sul vetro, come a verificare che tutto questo sia vero.
Ha ragione.
È magia.
Questa è magia.
È una magia così… straordinaria, così bella, pura. Sorrido senza neanche rendermene conto e, anche se sto per morire e il pensiero della mia tragica dipartita mi assilla continuo e imperterrito, sono felice di essere qui. In questo preciso momento, proprio qui, proprio adesso, io, Rose Weasley, sono felice di essere via, di essere ancora viva.
Scorpius si gira verso di me di scatto e sorride. Sembra quasi un bambino davanti all’albero di Natale stracolmo di doni. Sembra nato per sorridere. Sembra un bambino in over-dose di Api Frizzole. -Merlino, Rose! Stiamo navigando!-
Io ridacchio ma poi cerco di contenermi.
Si suppone che io sia una persona matura e una futura assassina. Non posso mettermi a ridacchiare come una ragazzina perché il treno che mi porterà verso l’esecuzione sta galleggiando nell’Oceano.
E non posso simpatizzare con Scorpius.
Il suo unico obbiettivo è quello di ricordarmi in ogni modo che sono in debito con lui, rendersi debole e innocuo ai miei occhi e poi, dopo avermi fatto venire degli scrupoli, quando saremo nell’arena, mi colpirà alla spalle.
Lui non sembra accorgersi dei lugubri pensieri che mi affollano la mente e continua a saltellare davanti al finestrino. Cerca persino di aprirlo ma è sigillato, probabilmente per paura che qualche sorteggiato disperato dalla sua imminente fine decidesse di gettarsi.
Io mi preoccuperei di più che Scorpius, dopo essersi buttato, ritorni a bordo con un branco di sirene arrabbiate alle calcagna. Ovviamente supponendo che ci siano delle sirene in questo tratto di mare.
Quando gli appare chiaro che non è proprio possibile farsi una bella nuotate nell’acque gelide dell’Oceano, Scorpius si siede sul davanzale della finestra e mi fissa.
-Nonostante tutto Hogwarts rimane sempre la migliore, non credi?- chiede.
Hogwarts. Improvvisamente mi sento una stupida. Sono una stupida, lo sono stata per tutti questi anni. Perché, da quando è morto mio padre, ho sempre creduto che mai, mai, sarei riuscita a guardare Hogwarts, i suoi corridoi ampi, le sue aule spaziose, i suoi dormitori accoglienti, le sue torri alte e svettanti senza provare un dolore atroce e distruttivo.
Perché ho sempre cercato un posto che mi facesse sentire bene, al sicuro. E non mi sono mai resa conto di averlo già trovato anni fa, quando, per la prima volta, sono scesa da questo stesso treno che ora mi porta verso la morte e l’ignoto.
Perché non ho mai cercato una famiglia, una casa, degli amici. Ma, ora che la sto lasciando per sempre, mi rendo conto che, non importa che tu lo voglia o meno, quando tu per la prima volta alzi gli occhi verso il cielo incantato che fa da soffitto alla Sala Grande, quel posto, quella casa, quella famiglia, Hogwarts, diventa parte di te.
E non puoi farci niente.
Puoi cercare di dimenticartene, se vuoi. Puoi cercare di esiliare i tuoi ricordi in un cassetto nascosto della tua anima. Puoi evitare di parlarne e rinnegare tutto quello che hai vissuto, visto, sentito e provato in quella scuola, ma lei rimarrà sempre con te.
Perché Hogwarts rimarrà per sempre la tua casa, la tua famiglia. Perché Hogwarts è tutto ciò di più bello che l’Inghilterra Magica offre ai suoi figli, la vecchia signora che, nonostante i pregiudizi, le ingiurie, le battaglie, le ribellioni, nonostante persino le guerre, trova sempre il coraggio e la forza di rialzarsi e proteggere i suoi.
Perché un aiuto sarà sempre dato, ad Hogwarts, a chi ne avrà bisogno.
Un qualcosa di indefinito mi fa tremare le gambe e, improvvisamente, mi rendo conto che non riesco più a guardare il mare. Non me lo merito.
Perché questa è una magia così bella, così pura, così piena di gioia di vivere che io, sporca di sangue ancora prima di aver iniziato ad uccidere, non posso permettermi di guardare senza sentire un qualcosa stringermi il cuore.
Mi allontano dallo scompartimento senza girarmi indietro, perché nel profondo ho paura che, se guardassi un ultima volta quel cielo azzurro e quel mare così libero e impetuoso, quella terra che si intravede in lontananza, la mia Inghilterra, crollerei al suolo.
Scorpius rimane dentro e io non lo chiamo.
Non ho bisogno di incontrare i suoi occhi Foresta Proibita per ricordarmi di tutto quello che ho perso per sempre.
 
Il vano ristorante è enorme.
Suppongo che anche qui abbiano adottato un Incantesimo di Estensione Irriconoscibile.
Ci sono diversi tavolini circolari, tutti apparecchiati con delle tovaglie di lino candido, di un bianco immacolato che fa quasi male agli occhi. Addossati alla parete ci sono dei tavoli apparecchiati con qualsivoglia tipo di prelibatezze e di bibite.
Nell’angolo a destra della sala, seminascosti nell’ombra come prevede l’etichetta, ci sono una mezza dozzina di camerieri tutti con le loro uniforme bianche e rigide.
Rachel Conti, seduta ad uno dei tavoli sta fissando irritata la porta e, quando finalmente mi vede, mi fa un cenno veloce con la mano, esortandomi ad avanzare.
Mi sono appena seduta che anche Scorpius fa il suo ingresso in Sala. Lo osservo di nascosto e, nella sua maschera di tranquillità e di pacatezza, non trovo traccia del sorriso radioso che ha sfoggiato prima.
Mentre mangiamo Rachel ci spiega il programma della settimana di preparazione che ci aspetta. Ad ogni intervento ci mostra la voce corrispondente sulla sua agendina rosa e, per assicurarsi di essere stata abbastanza chiara ripete tutto due volte.
Credo che ci consideri piuttosto tardi perché, ogni volta che si rivolge a noi, scandisce parola per parola. Ma d’altra parte è quella la considerazione che hanno di noi gli Americani. Credono che, solo perché non siamo riusciti a ribellarci al loro potere possiamo essere considerati una razza inferiore.
-Sono felice di aver voi quest anno- esclama poi, accreditando la mia ipotesi –Finalmente qualcuno che sa usare forchetta e coltello! L’anno scorso c’erano due piccoli selvaggi che si sono buttati sul cibo con una tale foga! Mi sono sentita mancare, ve lo giuro-
Rachel tira su con il naso, assumendo una aria da vittima che fa un mirabile contrasto con i suoi occhi accesi.
-Per me è molto importante l’educazione!- conclude.
Serro la presa attorno alla mia forchetta e cerco di controllarmi. I due malcapitati che hanno partecipati ai Giochi, l’anno scorso, erano due ragazzi le cui famiglie riuscivano a malapena a provvedere ai fabbisogni essenziali. Poi, con il fatto che, ormai, ad Hogwarts, non puoi più mangiare quello che vuoi e quanto vuoi, lo credo bene che erano affamati.
Neanche la mia famiglia naviga nei galeoni, certo, ma mia madre ha sempre insegnato a me e a Hugo come comportarci a tavola. E, per quanto mi scocci, è una delle poche cose che contino davvero, ormai. Osserva come si comporta una persona quando crede di non essere osservata e la conoscerai davvero.
Albus, per esempio, mangia tutto ricurvo, con il braccio sinistro a “proteggere” il piatto. Suppongo che questo sia indice del fatto che non mangia molto, se non ad Hogwarts, e, che, quando lo fa, deve aspettarsi di essere minacciato da qualcuno –la maggior parte delle volte da James che vuole fregargli il dolce-.
Scorpius, stranamente, in barba ai ricevimenti dell’alta società magica a cui ha sempre presenziato sin dall’infanzia –il suo atteggiamento da piccolo lord e il fatto che si ostini a darmi la precedenza quando camminiamo ne sono un chiaro indice- mangia piuttosto scompostamente. La sua schiena è dritta, ma pur sempre rilassata. Evidentemente non teme che nessun fratello più grande e più stupido rubi la sua porzione di dolce.
In ogni modo il commento di Rachel, la sua superficialità e la sua presunzione mi irritano profondamente. Perciò faccio ben attenzione, quando finalmente arriva una nuova portata, a mangiarla con le mani e, già che ci sono, a pulirmi le dita sulla tovaglia pulita.
Rachel storce il naso ma non dice niente.
Quando sento un piccolo sbuffo provenire dalla mia sinistra, dove è seduto Scorpius, faccio per girarmi, ma, poi, quando mi rendo conto che è sicuramente uno sbuffo di disapprovazione e scherno, mi blocco.
Decido all’improvviso che devo smettere di condizionarmi su quello che pensa o non pensa Scorpius Malfoy di me. Dovrò ucciderlo, lui dovrà uccidere me. Punto.
 
-Dove è Victorie?- chiede Rachel dopo che abbiamo finito di mangiare anche il delizioso dolce con la pastafrolla. Si gira verso di me, il suo terzo bicchiere di champagne ancora in mano e aspetta la risposta con un sopracciglio inarcato.
-Ha detto che sarebbe rimasta in camera-
Sia io che Rachel ci giriamo verso Scorpius che fa scivolare il suo sguardo color Foresta verso la quarta sedia vuota.
-L’ha detto quando siamo saliti.- spiega quando io lo guardo sorpresa –Penso che voglia dormire un po’-
Rachel fa schioccare la lingua contro il palato e scuote leggermente i boccoli rosa, sistemandosi meglio sulla sedia. Non riesco a capire se è disprezzo o sollievo quel sentimento che sembra invaderla appena apprende questa piacevole notizia.
Penso che prevalga il disprezzo.
Ma, suppongo che, se anche io fossi una signora sulla quarantina con degli strambi capelli rosa e con l’obbligo di trasportare stupidi ragazzini al macello ogni anno e avessi a che fare con un’aitante ragazza con sangue Veela che mi snobba amabilmente… beh, reagirei allo stesso modo
È ovvio che Rachel odii Victoire per almeno tre motivi.
Il primo è perché, Victorie è, senza esagerazioni, la cosa più bella che io abbia mai visto.
È così bella, con i suoi capelli di un biondo così chiaro e puro da sembrare argento fuso, con i suoi occhi azzurri, luminosi e ardenti, così bella con quella grazia innata, quel portamento e quella specie di aurea lucentezza che irradia da tutti i pori… è così bella che mette in soggezione. È così bella che il solo guardarla ti fa sentire inferiore. E Rachel Conti non mi sembra per niente quel genere di persona altruista che gioisca delle virtù e delle qualità di un’altra, di una rivale.
Il secondo motivo per cui penso che Rachel odii Victorie è perché non sembra interessarle recitare il ruolo da oca giuliva. Il punto è che, per quanto Victorie sembri forte e impassibile, anche lei ha partecipato ai Giochi della Fame. Ha provato sulla sua pelle gli orrori, il sangue, il dolore, la perdita, la privazione, gli incubi.
Di certo non riesce a dimostrarsi felice e squittente come Rachel alla prospettiva che altri due ragazzi debbano affrontare quel orribile esperienza.
Rachel parla di mancanza di collaborazione, io penso che sia semplice e pura pietà.
E terzo, cosa molto più importante e sicuramente più fastidiosa agli occhi di un estraneo, è che Victorie respinge le persone. Loro si avvicinano, catturate dalla sua bellezza, dal suo charme, dai suoi sorrisi. E magari vorrebbero davvero conoscerla, vorrebbero davvero poterle stare accanto, perché una persona come Victorie non puoi fare a meno di amarla, ma lei ti ghiaccia.
Ti tratta con un tale disprezzo, ti guarda in un modo così infelicemente impietosito e tu ti senti sprofondare in un abisso di disperazione; perché è una creatura così bella, così perfetta e non dovrebbe farti così male.
In ogni modo, nonostante si presupponga che lei e mia cugina siano una squadra altamente collaudata e pronta a sostenerci negli ultimi giorni della nostra vita, Rachel non le risparmia una leggera smorfia.
-La vedremo domani- dico io, perché, anche se non parlo con mia cugina da secoli, non mi va che questa tizia con la parrucca fucsia pensi e parli male di lei.
-Io non credo- si stringe nelle spalle Rachel –Non si presenta mai agli incontri con i ragazzi. Probabilmente non sono degli incontri abbastanza raffinati per lei- esclama con un astio tangibile nella voce.
Io e Scorpius ci fissiamo ma non diciamo niente.
In che senso non si presenta mai agli incontri con i ragazzi? Si suppone che lei sia l’unica nostra possibilità di rivedere casa, di ritornare vivi dall’arena, di sopravvivere.
Rachel svuota il quarto bicchierino di champagne della serata e, da come i suoi occhi sono stranamente lucidi e la sua lingua molto sciolta, capisco che l’alcool sta iniziando a fare effetto.
-Si, è inutile che mi guardate così. Quella non fa mai niente, per i ragazzini. Si limita ad andare alla parata, non cerca nemmeno di trovare degli sponsor. È per colpa sua se nessuno ha mai vinto- Rachel si versa il quinto bicchiere e schiocca la lingua sul palato ma io non riesco più a guardarla. Se quello che dice è vero allora siamo -anzi, sono- nei guai.
Anche Scorpius sembra essersi accorto della situazione perché smette di fissare le sue mani, come ha fatto da quando è iniziata la cena, e drizza il capo. Poi, quando Rachel fa per versarsi il sesto bicchiere, le blocca la mano e toglie la bottiglia dal tavolo, nascondendola da qualche parte sul pavimento.
-Che cosa intendi col dire che è colpa sua se nessuno è mai tornato vivo ad Hogwarts?- chiede e la sua voce, di solito così allegra e rilassata, ha una calma e una pacatezza che non gli appartengono. Sembra quasi… serio, ecco. E non ho mai visto Scorpius Malfoy serio, se non in rarissime occasioni.
Rachel ci fissa come se ci vedesse per la prima volta e, poi, come se si fosse svegliata da un incubo ad occhi aperti, scrolla le spalle, facendo dondolare i riccioli rosa.
-Niente, assolutamente niente- si alza in piedi e fa strascicare la sedia sul pavimento in lineum –Coraggio, la cena è finita-
 
A nulla valgono i nostri tentativi per convincere Rachel a riprendere il discorso iniziato nel vano ristorante. Continua a saltellare e a cambiare discorso e, quando la mettiamo alle strette, dice che l’alcool le fa dire delle cose strane e assolutamente non vere.
Alla fine desistiamo, più per stanchezza che per altro.
Ci mettiamo in una stanzetta adiacente a quella dove abbiamo mangiato e ci guardiamo il riepilogo dei sorteggi delle altre scuole europee, magari cercando di farci un’idea su come saranno i nostri avversari.
Rachel squittisce ad ogni nome e fa commentini che dovrebbero essere divertenti ma che mi fanno solo sprofondare di più nella mia poltroncina azzurra.
Scorpius, seduto a qualche metro da me, si limita a fissare lo schermo televisivo senza dire nulla.
Mi agito al mio posto quando parte la sigla del notiziario e aspetto con il cuore pesante che inizi il reportage su i ragazzi che finiranno con me nell’arena.
Vengono mostrati solo per pochi istanti, giusto il tempo di dare loro una prima occhiata e di sentire i loro nomi. Per un attimo mi stupisco di ciò. Insomma, si suppone che la gente debba conoscerci. Alcuni dovranno persino sponsorizzarci. Come faranno a decidere chi sostenere nella lotta, a chi donare il loro aiuto se non ci hanno visti che per pochi secondi? Poi mi ricordo che avremo una settimana intera per mostrarci al pubblico e il mio umore peggiora ancora di più al pensiero di tutte quelle belle parole e alle cerimonie a cui sarò tenuta a presenziare.
Rimaniamo sintonizzati finchè tutti i concorrenti non sono stati chiamati, chi deluso, chi disperato, chi quasi felice e sicuro della vittoria.
Un ragazzo di Durmstrang davvero ben piazzato che, quando l’accompagnatore americano chiede se ci siano volontari fa un balzo in avanti. Una ragazza dai capelli biondi assolutamente bellissima che cammina verso il palco con il viso costretto in una maschera di pacatezza. Un ragazzino di tredici anni che scoppia a piangere e abbraccia quella che deve essere sua sorella. Una ragazza dal colorito olivastro che impallidisce mortalmente e stringe forte la mano di un suo compagno prima di avviarsi.
In qualche caso assistiamo all’intervento dei volontari. In altri la loro completa assenza. Dovunque, anche se fra la folla spiccano visi eccitati e quasi, Merlino, contenti, vedo un sottofondo di disperazione di rassegnazione.
Per ultimi ci siamo noi. Hogwarts viene mostrata per pochi istanti, solo il tempo di far notare a tutto il mondo il nostro degrado e il fatto che, dopo la Seconda Guerra Magica, la scuola non sia stata completamente ricostruita.
C’è Rachel che saltella sul posto e estrae il primo biglietto. C’è Lily, così piccola e fragile anche attraverso questo schermo, che avanza lentamente verso il palco. E poi ci sono io. La mia voce ricca di disperazione che sale fino ad un urlo disumano e la mia corsa verso il destino, verso la morte. Ci sono i miei compagni che rimangono in silenzio, rifiutandosi di applaudire –e qui la tele giornalista scoppia in una risatina imbarazzata e ricorda che noi inglesi abbiamo delle usanze un po’ strane. Certo, loro vengono a prenderci a casa nostra ogni anno per farci uccidere a vicenda e poi siamo noi quelli con le usanze strane-.
Poi Rachel chiama Scorpius, lui sale sul palco, molto più serio e controllato di me e mi stringe la mano. Rachel augura di nuovo di goderci lo spettacolo e poi l’immagine sfuma e viene sostituita dal viso tirato e spocchioso della presentatrice.
-Bhe, non si può dire che non abbiamo attirato l’attenzione- si stringe nelle spalle Rachel, poi, dopo essersi chinata velocemente su di noi lasciandoci un bacio veloce sulle guance, ci augura la buona notte e se ne va a dormire.
Io e Scorpius rimaniamo soli per l’ennesima volta in questa interminabile giornata ma, a differenza delle scorse volte, il silenzio che si instaura fra noi è piacevole. È piacevole poter rimanere così, senza dover tentare una conversazione, senza doverci arrampicare su pericolanti specchi per intraprendere un dialogo che non ci porterà da nessuna parte e che consisterebbe in una lunga serie di convenevoli a cui nessuno dei due è davvero interessato.
Alla fine, però, quando quasi mi addormento sulla poltroncina e la mia testa ciondola pericolosamente, capisco che è arrivato il momento di tornarmene in camera. Scorpius, che quando mi ha vista alzarmi, mi ha imitato mi tiene aperta la porta con quella sua tipica aria da gentiluomo d’altri tempi e mi fa cenno di precederlo.
-Smettila di fare il gentile con me!- sbotto, all’improvviso.
Se Scorpius è rimasto sorpreso da questo mio scatto d’ira non lo fa vedere e si limita a chiudersi silenziosamente la porta dello scompartimento alle spalle.
Ci si appoggia e incrocia le sue lunghe braccia bianche dietro la schiena. Ha un espressione indecifrabile. Non ostile, ecco, ma nemmeno così bendisposta come lo era quella che mi aveva riservato prima.
Come se quest’ idea mi avesse colpita all’improvviso realizzo che, se devo dirgli qualcosa d’importante, metterlo al corrente delle mie non-intenzioni con lui, questo è il momento giusto.
Faccio per parlare ma lui mi precede.
-Io non faccio il gentile. Io sono gentile.-
Corrugo la fronte stupita che riesca a risultare educato anche con quella punta di arroganza nella voce. Gli scocco uno sguardo scettico ma, anziché metterlo in soggezione come avevo sperato, mi ritrovo a fissarlo. Non è bellissimo, oggettivamente. È alto, si. E anche abbastanza piazzato visto che da due anni ricopre il ruolo di portiere nella squadra di Quidditch della sua Casa. Ma è così… spigoloso, ecco. Sembra che ogni parte del suo corpo termini in uno spigolo, il mento aguzzo, le spalle larghe, le sopracciglia inarcate in un espressione perennemente divertita. E poi è così pallido.
Presuppongo che questo sia dovuto che passi metà anno chiuso in una scuola immersa nel freddo pungente della Scozia e l’altra metà chiuso nella sua grande villa, isolata e sperduta nel nulla.
Anche se lo scompartimento è completamente al buio a parte la sottile linea di luce che passa da sotto la porta e il vario gioco di ombre che si riflette sui nostri visi dal finestrino, posso chiaramente distinguere il suo colorito bianco. Sembrerebbe quasi malato se non avesse sempre quel sorriso sulla faccia.
-Pensi che il fatto che ci butteranno insieme in quell’arena basti a farmi cambiare atteggiamento?- chiede e sorride, inarcando le labbra sottili in una smorfia ironica ma non derisoria.
-No, ma il fatto che dovremo ucciderci a vicenda dovrebbe bastare, non credi?-
Scorpius mi fissa un po’ e, per la seconda volta oggi, mi ritrovo a chiedermi perché debba comportarsi così. Sembra quasi che lo consideri un gioco. Un divertimento, quello che sta per succederci. Sembra quasi uno di Royàl, con la sua finta gentilezza e il rifiutarsi di dare ascolto a chiunque altro non sia sé stesso.
Come fa a prendere tutto così alla leggera? Non pensa che, appena questo treno smetterà di solcare le acque, tutto finirà? Che non potrà più essere quello che era? Che, probabilmente, io sarò l’ultima persona con un minino di rapporto con cui parlerà?
O forse lo sa e non gli importa.
Forse è un pazzo sconsiderato che non farà nemmeno niente per salvarsi la pelle, quando arriveremo.
Beh, in questo caso la mia idea di tenerlo lontano si avvalora ancora di più. Non ho proprio bisogno di dovermi preoccupare anche per lui.
-Andiamo, Weasley. Non ho intenzione di ucciderti- dice e so che è davvero così.
Il che mi fa salire una insensata voglia di colpire qualcosa. Perché io si. Io invece avevo intenzione di ucciderlo e, con la storia del trifoglio e con questa nuova brillante dichiarazione, non posso più farlo.
-Bhe, se vuoi tornare vivo a casa mi sa che dovrai farlo- esclamo ma questa volta evito di guardarlo perché non voglio che mi risponda e che io sia costretta a continuare questo inutile e difficoltoso discorso –Ormai si gioca a carte scoperte-
Scorpius non dice nulla e rimaniamo in silenzio per un po’. Riesco quasi a sentire il rumore delle onde che si infrangono contro i finestrini del treno, ben coperti da alcune strane tapparelle bucherellate.
È strano ma, ora che ho finalmente parlato con Scorpius, sento una strana pace. So che non è stata proprio una conversazione magistrale ma, d’altra parte è meglio così. Suppongo che prostrarmi ai suoi piedi e ringraziarlo per quello che ha fatto per me in passato non sarebbe stato il massimo per la mia autostima e sono davvero felice che lui non dia segni di ricordarsi di questo spiacevole episodio.
Il petto di Scorpius si alza e si abbassa piano. Riesco a vederlo, a pochi centimetri dal mio viso.
Non voglio doverti uccidere.
Scuoto la testa perché la debolezza non mi invada. Non voglio piangere un’altra volta davanti a lui. Non sarebbe coerente con il discorso di guerra che ho appena recitato. Alzo la testa di scatto, così velocemente che quasi mi viene un capogiro.
Improvvisamente l’aria sembra mancarmi e ho l’irrefrenabile voglia di uscire da questo scompartimento e di allontanarmi da lui.
-Permesso- dico.
Lui rimane fermo ancora per qualche secondo e, quando sembra sul punto di dire qualcosa, si fa da parte e mi lascia uscire. Rimango per un attimo accecata dalla luce intensa che illumina il corridoio.
So che non dovrei essere così sconvolta e che, se qualcuno mi stesse registrando, in questo momento, sembrerei una ragazzina. Però faccio finta di niente.
Perché questa conversazione è quella che mi ha scombussolata di più in tutta questa giornata. E per una volta non mi importa di cosa penserà di me perché ormai non ha più importanza.
Mi chiudo la porta della mia stanza alle spalle e mi appoggio allo stipite inclinando la testa all’indietro, proprio come ha fatto Scorpius qualche minuto fa.
Sento un qualcosa stringermi forte lo stomaco e le lacrime pizzicarmi gli occhi. Ma non voglio piangere, non l’ho ancora fatto da quando sono salita su questo treno e non intendo farlo. Quello nel bagno dietro la Sala Grande è stato e sarà per sempre il mio ultimo pianto.
Perché se piango di nuovo tutto diventerà così spaventosamente vero. Questo treno che prosegue veloce, Scorpius che dice di non volermi uccidere e che io, davvero, non voglio dover uccidere, Rachel con il suo programma illustrato e Victorie che si chiude in camera.
Albus che sparisce per sempre dalla mia vita.
Mi allontano velocemente dalla porta e mi ficco sotto la coperta verde –troppo simile agli occhi di Albus per non farmi male- ancora vestita. Non c’è tempo né importanza alcuna nell’indossare il pigiama.
Questa è la prima e l’ultima notte che passerò in questa stanza, in questo treno. Nella mia Inghilterra.
Da domani, quando l’Hogwarts Express si fermerà in una stazione ghermita di fotografi e di ricchi imprenditori venuti a vedere le bestie al macello, tutto quello che ho sempre temuto si avvererà.
Ma, almeno per questa notte, mi concedo di coprirmi la testa con le coperte e di sognare i tempi in cui ero ancora bambina e il mio unico problema era convincere mamma a farmi andare al parco con Al, Jamie e Lily.
Solo per questa ultima notte fingerò di essere la vecchia Rose. Solo per questa notte posso permettermi di pensare ad Al senza remore.
Solo per questa notte posso fingere che Scorpius Malfoy e io non saremo costretti ad ucciderci. 

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Capitolo 6
*** 5 - Ti rimane solo quella ***


NOTE INIZIALI

Passte qui per vedere i volti dei personaggi!
http://www.facebook.com/media/set/?set=a.105152609621350.6368.100003798341430&type=1
Probabilmente dovrei dedicare questo capitolo alle meravigliose undici ragazze che, come sempre, mi seguono e mi supportano, dandomi sostegno e aiutandomi sempre... ma, e credo che tutte sarete d'accordo in questa mia scelta, questa volta intendo cambiare un po' le cose.

Dedicato a Melissa, perchè a scuola si dovrebbe morire solo di noia o dal sonno.

Dedicato alle vittime coinvolte nel terremoto.

Dedicato a tutti quelli che, nonostante le cose non vadano sempre per il meglio, continuano a camminare.


 

 

Capitolo V

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Lei era abituata a risolvere quasi tutte le sue cose da sola. Non chiedeva mai consiglio o aiuto a qualcuno.
Non perché fosse troppo orgogliosa, credo, ma semplicemente perché le veniva naturale fare così.
H. Murakami

 

Stiamo per arrivare a Royàl.
Lo capisco perché, il paesaggio che intravedo dal finestrino di fronte al divanetto dove sono seduta è cambiato di nuovo, e le campagne sono state sostituite da alcune infrastrutture piuttosto high-tech.
Alla fine, questa notte, non sono riuscita a chiudere occhio, così mi sono trascinata la mia trapunta verde fino allo scompartimento dove abbiamo visto le repliche televisive dei sorteggi, la sera prima, e mi sono raggomitolata su uno di quelli più grandi.
Ma, neanche qui, sono riuscita a dormire.
Scorpius, accanto a me, si rigira di nuovo, nel sonno. A quanto pare, lui, da quando abbiamo avuto quel litigio qualche ora fa, non si è mosso da questa stanza.
Evidentemente l’idea di dormire in questo treno, il nostro treno, il treno di Hogwarts, sapendo che è l’ultima volta che ci saliamo –e non di certo perché stiamo per diplomarci- deve essere insopportabile anche per lui.
In ogni modo, suppongo che se lo avessi visto subito, addormentato su uno dei divanetti, avrei potuto evitare di raggomitolarmi sul divano rosso difronte al suo. Ma, il senso di colpa, la stanchezza, la rabbia repressa e la stanchezza accumulati in un'unica giornata hanno avuto la meglio e ho evitato di pensarci.
Le prime luci fioche dell’alba scivolano dalle tapparelle bucherellate e illuminano di una leggera sfumatura i capelli biondo-bianco di Scorpius.
Trascinandomi dietro la coperta mi avvicino a lui.
Dorme alla grossa e non da segno di essersi accorto della mia presenza.
Se fossimo nell’arena, in questo preciso istante e se dovessi lottare per sopravvivere, sarebbe il momento giusto per farlo fuori.
È addormentato, inerme, indifeso. Debole.
Gli poggio una mano sulla fronte e la faccio scivolare giù, sfiorando appena le labbra socchiuse, arrivando fino al collo. Con una mano riesco a circondarne quasi metà.
Prima che possa capire cosa sto facendo l’altra mia mano è andata a circondare l’altra parte del collo.
Potrei strozzarlo, adesso, basterebbe solo una lieve pressione e inizierebbe ad annaspare, alla ricerca disperata d’aria… e allora io potrei tappargli la bocca e…
Cosa sto facendo?
Mi allontano di scatto da lui e ricado sul mio divanetto.
Non posso.
Mi fisso le mani, terrorizzata.
Cosa stavo facendo? Cosa pensavo di fare?
Stavo davvero cercando –pensando- di strozzare Scorpius? Queste mie mani, così pure, così bianche e immacolate, queste mani da bambina avrebbero voluto circondare il collo di Scorpius e strozzarlo per evitare di farlo poi nell’arena?
Continuo a fissarle.
Le fisso per così tanto tempo che, alla fine, mi sembra di avere le allucinazioni perché un puntino rosso appare nel palmo della mano sinistra. Mi concentro su questo dettaglio e, mano a mano che il puntino diventa più grande e si allarga, sento una strana sensazione farsi strada dentro di me.
Dei rivoli di sudore, freddo, scivolano inesorabili lungo la mia schiena calda. Mi imperlano i capelli, me li fanno appiccicare alla fronte. Sento una morsa stringermi lo stomaco e uno strano sapore, quasi metallico, in bocca.
La macchia si allarga sempre di più e, quando la tocco per tastarne la consistenza con l’altra mano, mi accorgo che anche la destra ne è sporca.
Quando la sostanza vischiosa inizia a scivolarmi fra le dita e un insopportabile odore mi pizzica le narici sento il panico crescere dentro di me.
Delle gocce di sostanza rossa cadano picchiettando sul pavimento bianco e immacolato.
Nel silenzio della notte le sento quasi.
Plic. Plic.
Poi, all’improvviso, realizzo.
Sangue. Le mie mani perdono sangue. Le giro da ogni parte, me le avvicino al viso e cerco di trovare il taglio o la ferita da cui sta fuoriuscendo.
Ma non trovo niente e allora mi metto a correre, balzo in piedi e ignoro la scia rossa che mi trascino dietro, spalancando la porta dell’armadio della saletta dove ci troviamo. Lì, dietro l’anta dell’armadio, dovrebbe esserci uno specchio.
Lo spalanco e cerco di capire cosa ho che non va.
Alzo gli occhi, sicura di trovare tutto apposto e di capire che la vista del sangue è solo la mia immaginazione che gioca con la mia mente stanca.
Poi, però, guardo e urlo.
I miei occhi sono pozzi neri, cerchiati da profonde occhiaie e i miei vestiti sono sporchi e imbrattati da lunghe strisce rosse. Ma non c’è nessuna ferita che possa giustificare una così grande perdita di sangue.
Non sarei nemmeno qui, a chiedermi quanto sia grave il danno che ho subito, se avessi davvero subito un danno.
Evidentemente, penso, questo sangue non è mio.
Rimango ferma impalata per un po’, a fissare il mio profilo nella penombra, fino a quando non lo capisco.
Questo sangue non è mio.
Questo sangue non è sicuramente mio.
E se non è mio è di…
Mi giro di scatto e percorro con un balzo la distanza che mi separa dal divanetto di Scorpius. Mi protendo, allungando il collo e con il cuore che mi batte forte, cerco di trovare dentro di me il coraggio per controllare.
Scorpius dorme ancora.
È sollievo, quello che provo?
Poi, però, mentre giro velocemente per ritornare alla mia precedente postazione e lo osservo frontalmente, noto quello che, da dietro il divano non sono riuscita a vedere.
Il collo di Scorpius è ricoperto di sangue.
Completamente. Sembra quasi che qualcosa l’abbia stretto fino a farlo esplodere.
Quando mi accorgo che, probabilmente, sono stata io, urlo di nuovo.
Io, Scorpius, Lily, Albus, Rachel, Victoire, Hugo, mia madre. Tutti urlano nei miei incubi, questa notte.
 
Spalanco gli occhi di botto, boccheggiando.
È stato solo un sogno. Solo uno stupido sogno.
Non c’è nulla di vero, Rose, davvero.
Faccio respiri profondi e cerco di calmarmi.
Sono nel mio letto, è ancora mattina presto, le 3:00 a quanto conferma il mio orologio sul comodino, la mia bacchetta è ancora al suo posto, sul cuscino, accanto alla mia guancia e –soprattutto- non ho ucciso nessuno.
Per provare a riaddormentarmi, faccio finta che non sia successo nulla.
Chiudo gli occhi e, come faccio sempre quando ho paura, immagino di sentire la voce di mio padre, che mi parla, che mi tranquillizza.
Ma c’è solo silenzio.
Suppongo che, visto che passo molto tempo da sola o, al massimo con Albus e Mary –che non sono di certo persone molto loquaci- la gente possa essere portata a pensare che io ami il silenzio.
E, in parte è vero.
Mi piace il silenzio, è ordinato, è preciso. Meschino, magari. Imbarazzante e fastidioso, alle volte. Persino cinico e inaspettato.
Ma è pur vero che ci sono tanti tipi di silenzio.
Quelli piacevoli, quando, per esempio, dopo essere stata per molto tempo vicino a una fonte continua di rumore –come quella volta in cui James si era messo in testa di passare una giornata solo con me “da bravi cuginetti”- te ne scappi da qualche parte, in camera tua, in aula deserta del terzo piano, nel passaggio segreto che da sulla Torre dei Corvonero, nella Foresta Proibita, e te ne rimani in pace, accompagnato solo dal battito del tuo cuore e dalla voce interiore dei tuoi pensieri.
Quelli fastidiosi o imbarazzanti, come quelli in cui cadi quando, magari, sei con la persona che ti piace e cerchi invano di trovare qualcosa di intelligente e brillante da dire, ma non ti viene in mente niente e dentro di te imprechi sonoramente. O come quando dici qualcosa che ritieni particolarmente divertente o interessante e nessuno sembra essere intenzionato a rompere il patetico momento di imbarazzo silenzioso.
E infine ci sono i veri e propri silenzi.
Quelli che fanno rumore più di James, del battito del cuore, della voce interiore dei tuoi pensieri. Quelli che ti agitano e ti scombussolano più del non sapere cosa dire o dell’aver parlato troppo.
Quelli che ti scavano un qualcosa nel petto.
Alla fine, credo, è quello il vero silenzio.
Il vero silenzio, quello che mi fa tremare, quello che mi fa nascondere la testa sotto l’incavo delle braccia, quello che mi perseguita la notte, quello che mi terrorizza, quello che mi insegue e da cui, nonostante la mia velocità nel correre, non riesco a scappare, è l’assenza.
Il vero silenzio è urlare nel cuore della notte, quando il buio si protende verso di me e cerca di afferrarmi, di intrappolarmi con le sue lunghe dita fatte di ombre nere, senza che nessuno mi senta.
Il vero silenzio, quello di cui ho paura, è chiamare mio padre e non sentirlo rispondermi.
 
Suppongo sia stato il freddo a svegliarmi.
Un freddo lancinante, di quelli che ti bucano la pelle e ti entrano nelle ossa ghiacciandoti ogni singolo arto.
Non voglio scendere a colazione. Voglio solo rimanere nascosta sotto le coperte morbide e calde del mio letto e cercare di incamerare tutto il calore che posso.
Dopotutto posso concedermi altri cinque minuti di sonno prima di lavarmi e scendere in Sala Grande. Anche perché, Ivy, la ragazza che condivide con me il dormitorio, si sarà già impossessata del bagno e non ne uscirà prima di aver concluso la sua interminabile sessione di trucco. Ivy mi da sui nervi.
Non perché sia particolarmente stupida o particolarmente intelligente, anzi, è una ragazza normalissima, con i capelli scuri che le si arricciano verso la fine, il nasino all’insù e gli occhi sempre spalancati.
Il punto è che è così…. gentile, ecco!
Sempre.
Hai tradito il tuo ragazzo?
Hai fatto la spia su chi è stato a riempire di Caccabombe l’ufficio del professor Harris? Hai picchiato un primino?
Hai sparlato delle tue amiche? Hai deciso di concedere le tue grazie ad ogni essere vivente sulla terra?
Hai deciso di diventare un Mangiamorte?
Ivy troverà sempre qualcosa di buono su di te.
Le hai raccolto la penna, quella volta, al secondo anno. L’hai fatta passare per prima, al quarto. L’hai ignorata, ma l’hai fatto con una tale gentilezza, quell’altra volta ancora, al sesto.
Agli occhi di Ivy siamo tutti buoni, siamo tutti dolci. Potrei persino uccidere una persona e, per lei, rimarrei assolutamente deliziosa e pura.
È un atteggiamento che mi da sui nervi perché, quando le persone sono gentili con me, sento di dover loro qualcosa. E io odio essere in debito.
Mi rigiro nel letto e affondo la faccia nel cuscino.
Una nuova folata di vento gelido mi colpisce e sono quasi tentata di girarmi verso Nathalie, l’altra mia compagna di stanza –una svitata che, a differenza di Ivy, trova da ridire assolutamente su tutto- che non mi importa se vuole farsi vedere in intimo dalla squadra di Quidditch che si sta allenando fuori dalla finestra, io muoio dal freddo, qui.
-Sveglia, sveglia, sveglia!- trilla, quasi fosse una cantilena una voce femminile al mio orecchio sinistro.
Corruccio la fronte, quando sento la voce che mi sta chiamando. Non la riconosco, sul momento.
Cioè, si, mi è familiare. Ma non appartiene di sicuro a nessuna delle mie compagne di stanza, ne, tantomeno a qualunque altro membro della famiglia.
E poi, dopotutto, chi altro rimane?
Eppure quell’accento strano mi ricorda…
Spalanco gli occhi di botto.
Il viso di Rachel Conti è così vicino al mio che, per un attimo, sono tentata di urlarle in faccia –o di sbadigliare, dipende- poi, però, mi limito a tirarmi su, ormai completamente sveglia, e a fissarla con diffidenza.
Indossa un vestitino arancione acceso e i suoi capelli, o meglio, la sua parrucca, è di un violetto acceso e fastidiosamente zuccheroso. Quando vede che mi sono svegliata fa un altro dei suoi sorrisi da “ti voglio uccidere ma non posso quindi fingo di essere gentile con te finchè non muori da sola” e si allontana un po’, spalancando la porta del mio armadio e osservandolo soddisfatta.
Mentre lei si agita intorno al mio guardaroba io cerco di focalizzare e di ricordare per quale assurdo motivo mi ritrovo qui con lei.
Poi i ricordi, frammenti di ricordo, piccoli sprazzi di immagini e di sensazioni, mi colpiscono come una coltellata in pieno petto.
Il sorteggio. Lily. Mamma e Hugo. La spilla di Mary. Il treno. Scorpius che sorride. Hogwarts che si allontana all’orizzonte. Rachel. Victoire che non aiuta mai i ragazzi. Il programma televisivo. Scorpius che non vuole uccidermi. La trapunta verde. Albus.
Rachel, che intanto ha afferrato dal cumolo di roba dei vestiti, si gira verso di me e mi mostra uno dei suoi sorrisi da pubblicità di dentifrici.
-Oh, cara! Finalmente sei sveglia! Ho dovuto spalancare il finestrino perché ti decidessi a dare segni di vita! Hai un sonno così pesante…- corruccia il nasino, come a indicare tutto il suo disappunto nel dover fare tutto questo per me –Ma non importa!- si riprende e sorride ancora –Perché questa sarà una grande, grande, grande giornata!- detto ciò, dopo aver applaudito entusiasta dalla sua interpretazione, mi lancia dei vestiti che, ancora con gli occhi appesantiti dal sonno, non riesco ad identificare.
-E questi cosa sono?- chiedo diffidente quando, non appena riesco a vedere chiaramente, mi ritrovo a rigirare tra le mani una canottiera piuttosto striminzita e dei jeans dal taglio costoso e con vistosi strappi sul davanti.
-Oh, ma che sciocchina! Sono i vestiti per l’arrivo a Royàl! Non vorrai di certo apparire sciatta davanti alle telecamere, vero? Non puoi più nasconderti dietro le divise di Hogwarts, mia piccola caramellina!- mentre parla gesticola animatamente e si china per aprire un cassetto seminascosto dietro la pila di maglioncini colorati estraendone qualcosa.
-Penso di essere in grado di decidere cosa mettermi!- esclamo alzandomi e abbandonando la mini canottiera sul materasso dietro di me –E poi, dopo tutto, devo colpire gli sponsor con la forza e il talento. A cosa mi serve indossare questa roba?-
Rachel si gira a fissarmi e, per un attimo, sul suo viso appare una espressione incuriosita, poi, però, viene subito rimpiazzata dal solito sorrisetto.
-Oh, piccola. L’apparenza, qui, è tutto- detto questo si dirige a grandi passi verso la porta della stanza. All’ultimo momento si gira e mi lancia qualcosa altro.
-Forse è meglio se lo indossi, tesoro. Un piccolo aiutino non fa male a nessuno e noi abbiamo bisogno di fare colpo!- esclama con un sorrisetto che non promette nulla di buono. Poi si chiude la porta alle spalle e mi lascia sola con i miei pensieri.
Quando mi giro a controllare l’identità dell’oggetto misterioso devo trattenermi dal correrle dietro.
Un reggiseno gonfiabile.
Lo afferro e mi trascino allo specchio, fissandomi attentamente allo specchio in qualsiasi prospettiva mi venga in mente. Di profilo, di fronte, inclinata, mezza girata, persino di spalle.
Sono piatta, piatta come un tavolo, come… come qualsiasi cosa piatta a questo mondo.
L’apparenza, qui, è tutto.
Fisso il mio riflesso, poi il reggiseno e infine di nuovo lo specchio.
Un piccolo aiutino per fare colpo.
-Davvero divertente, certo- sussurro mentre me lo infilo.
 
***
 
Quando finalmente trovo il coraggio di uscire dalla mia cabina con indosso i vestiti scelti da Rachel –con in più un cardigan azzurro che mi copre almeno in parte le spalle e la mai nuova terza abbondante-, trovo la mia accompagnatrice che mi aspetta davanti alla porta con un’espressione seccata.
Quando vede il cardigan arriccia il naso, insoddisfatta, ma, alla fine, decide di soprassedere e mi guida verso la cabina dei pasti. Nonostante il suo modo di camminare –sembra quasi saltellare- mi dia parecchio sui nervi, sono contenta che mi stia accompagnando.
In primo luogo perché non credo di essere capace di ritrovare la strada che ho fatto ieri con Scorpius –Albus dice sempre che ho il senso dell’orientamento di un pesce rosso-, un po’ perché, quando, appena metterò piede nella sala pasti e tutti fisseranno il mio abbigliamento, almeno potrò dare apertamente tutta la colpa a Rachel. Anzi, è probabile che lei se ne attribuisca i meriti anche prima che io riesca a giustificarmi.
Questa volta, quando passiamo lungo il corridoio con le finestre, evito di guardare il mare dai finestrini.
La sala dove si tiene la colazione è vuota e io tiro un sospiro di sollievo, tirando dritta verso il tavolo.
Dopo che uno dei camerieri inamidati mi offre una raffinata caraffa in vetro colma di una bevanda deliziosa che non ho mai assaggiato prima, e, soprattutto, dopo aver notato che nessuno è ancora arrivato, inizio a rilassarmi. Afferro una fetta di pane e la ricopro di Nutella, una specie di dolce babbano che mia madre comprava in grandi barattoli colorati, quando ero piccola.
Rachel parla un sacco, durante la colazione, per lo più di quanto è soddisfatta del mio aspetto fisico e di quanto sarà difficile per lei organizzare tutte le nostre apparizioni pubbliche e il modo in cui dovrà lottare per ottenere per noi gli alloggi migliori, una volta a Royàl.
Mentre sta sproloquiando su quanto sia meraviglioso poter finalmente tornare a casa, nei lussi e nelle cerimonie piene di raffinatezza, sotto la luce dei riflettori in cui si ritiene nata per brillare, la porta si apre e fa la sua comparsa, per la prima volta da quando siamo saliti in questo treno, mia cugina Victoire.
È assurdo quanto possa apparire bella nonostante gli occhi gonfi, i capelli scompigliati, i vestiti stropicciati e l’andamento della sua camminata vagamente ondeggiante.
In un primo momento non sembra nemmeno accorgersi della nostra presenza e si limita ad afferrare una bottiglia piena di un liquido trasparente da una delle credenze a muro che sono sistemate lungo la parete a destra.
Poi, quando, girando la testa, nota me e Rachel sedute nel tavolino a destra, aggrotta la fronte.
Per un attimo sembra soppesare l’ipotesi di uscire e di ritornarsene in camera –la vedo insistentemente guardare la porta- poi, però, si stringe nelle spalle e, mentre avanza verso di noi afferra da un altro tavolo un bicchiere di cristallo.
Una volta arrivata davanti a noi non risponde nemmeno all’educatamente freddo “Buongiorno” di Rachel ma, invece, si siede sul tavolo, accavallando le gambe e destando un moto di protesta e oltraggio nella mia accompagnatrice, e mi fissa.
Mi sento a disagio, così. Stretta in questa stupida canottiera bianca, con questo reggiseno che mi fa sembrare una maggiorata e con questi jeans che mi stringono fin troppo in punti delicati; con lei che mi guarda attentamente, come non fa ormai da molti anni.
Poi, quando sembra ormai aver perso l’uso della parola, prende una grande sorsata del liquido nella bottiglia e, dall’odore che si propaga nella stanza, capisco che si tratta di un alcolico e inarca le sopracciglia.
-Sembri una sgualdrina- dice e il suo tono di voce è tutto un programma, distante e coinvolto allo stesso tempo, perfetto per ferire me e il briciolo di dignità che mi era rimasta.
Prima che possa rispondere io ci pensa Rachel.
-Ho pensato che almeno qualcun altro, su questo treno debba fare una bella impressione con i giornalisti- freccia rivolta alla camicetta stropicciata di mia cugina.
In un primo momento ho quasi paura che Victoire possa picchiarla. Poi, però, quando sul suo viso appare un sorrisetto sadico, un sorrisetto da pazza, la paura viene sostituita dal terrore.
-In effetti, è giusto- ammicca, prendendo un’altra bella sorsata di alcool e Rachel sgrana gli occhi –Visto che non possiamo contare su di te, la piccola Rosie deve essere perfetta, non è vero?-
L’americana boccheggia un po’, senza sapere cosa dire, poi, quando sembra essere in grado di parlare di nuovo, si impettisce tutta e parla con voce stizzita.
-Non è questo il nostro compito? Farla apparire perfetta?-
-Farla apparire perfetta è ben diverso da farla sembrare una poco di buono!- Victoire avvicina così tanto il suo viso al mio che riuscirei a contare le sue ciglia una ad una. L’odore dell’alcool che impregna la sua figura e mitigato da quello dolce, di pesca?, o forse di vaniglia che è proprio di Vic.
-Almeno non ti hanno truccato, eh, dolcezza?- esclama e vedo una punta di soddisfazione nei suoi occhi vuoti.
Quando Rachel fa per risponderle lei la blocca con un cenno della mano e continua a osservarmi attentamente. Mi solleva il mento e mi fa girare la testa.
Vorrei parlare ma, davvero, non ne trovo il coraggio.
Dovrei essere una persona coraggiosa. Si suppone che io lo sia visto che mi sono autocondannata a morte certa. Ma non sono abbastanza irriverente da dire che, alla mia morte, preferirei arrivarci con una bella maglia comoda e con delle scarpe senza tacco.
Poi, però, penso che se Albus fosse qui e mi vedesse in questo momento, così conciata, farebbe finta di non conoscermi o, magari, non mi riconoscerebbe nemmeno; e questo pensiero mi spinge a liberarmi dalle mani fredde di Victoire e a alzarmi in piedi di botto.
-Penso di essere perfettamente in grado di mettere quello che mi pare- esclamo, sciogliendo i capelli dall’elaborata acconciatura in cui Rachel li ha costretti con un tocco di bacchetta. Quest ultima mi fissa scandalizzata. Victoire, invece, si è ritratta sul tavolo e continua a sorseggiare il suo liquore con una calma apatica, osservando la scenetta.
Il suo atteggiamento mi da sui nervi.
Cosa pensa? Di poter fare quello che le pare? Di rifiutarsi di aiutarci –di aiutarmi- solo perché ha di meglio da fare?
Certo, questa mattina, ha preso le mie parti, ma, d’altra parte, non sapeva nemmeno che erano le mie, di parti. Per quanto ne sapeva lei, quel look poteva anche piacermi. Si trattava solo del solito spirito di competizione e della acutezza mista a superbia che l’avevano spinta a opporsi a Rachel.
Perché Victorie, ormai lo so, le cose le fa solo perché le vanno. Era così anche prima di entrare nell’arena.
Con i suoi sorrisi scintillanti e i suoi occhi meravigliosi spalancati, con le sue lunghissime ciglia che sbattevano e i suoi toni suadenti. Non ricordo giorno che Ted non sospirasse al suo indirizzo.
Ma a lei non importava. Voleva sapere e fare tutto.
Si interessava a tutto, lei. E alla fine era come se non interessasse a niente.
Cerco di non guardarla e di evitare ogni tipo di contatto con lei ma, quando le passo accanto, mi afferra per un braccio e mi trascina verso il basso.
Di nuovo sento l’odore acre dell’alcool che mi colpisce stordendomi quando avvicina la sua bocca al mio orecchio –Vedi di abbassare la cresta, dolcezza. O saremo costretti ad abbassarla noi-
Cosa è questo? Un avvertimento?
Mi sta minacciando? Mi sta dicendo che se non faccio come dice lei può finire male?
Sto già per morire. Cosa altro possono farmi?
Mi ritraggo strappando con forza il mio braccio dalla sua presa e me ne corro in corridoio.
Mentre cammino velocemente lungo il corridoio con le finestre, non penso a niente.
O, forse, penso a tutto.
So solo che c’è un rumore costante e continuo nella mia testa, tante voci, tante parole, discorsi, immagini che si affollano nella mia mente e che mi impediscono di fare alcunché. Riesco a malapena a mettere un piede avanti ad un altro senza inciampare e, alla fine, nemmeno quello, visto che vado a sbattere contro Scorpius.
È la prima volta che lo vedo dopo l’incubo di stanotte. Mi fa quasi impressione, osservarlo nella forte luce del mattino che viene dai finestrini.
Quando sorride al mio indirizzo mi sento stranamente in colpa. Come ho anche potuto pensare di ucciderlo?
Poi, però, noto che il suo sguardo è sceso sul mio abbigliamento e, soprattutto, che, nella corsa, il cardigan è scivolato e che le mie spalle e il mio decolté sono in bella mostra.
-Ehi- esclama Scorpius, mentre io mi affretto a coprirmi –Che hai fatto? Una banda di bambole terroriste ti hanno rapita e ti hanno trasformato in una di loro?-
Improvvisamente il senso di colpo scompare e mi ritrovo a chiedermi perché sono ancora qui a sopportarlo. Avrei dovuto ucciderlo davvero, non solo in sogno.
La sua aria rilassata e i suoi abiti semplici, adatti e coprenti mi danno sui nervi.
Perché non può essere lui, il territorio di guerra fra Rachel e Victoire? Perché deve sempre andargli così bene? Non lo sopporto.
Non sopporto nessuno, su questo stupido treno. Non sopporto nemmeno me stessa –e questo è tutto dire-.
Perciò non gli rispondo nemmeno e, facendo ben attenzione a pestargli i piedi me ne scappo, corro via. Anche se sono abbastanza lontana, però riesco comunque a sentirlo urlare.
-Ehi, Weasley, stavo scherzando! La magliettina era carina, dai!-
 
***
 
La stazione di Royàl è ghermita di fotografi e di curiosi. La principale differenza fra le due categorie è il fatto che, mente i fotografi si limitano a scattare le loro stupide foto e a segnare alcune righe su fogli di pergamena sollevati a mezz’aria con le loro penne-prendi-appunti; i curiosi non si lasciano scappare l’opportunità di commentare ogni cosa.
Un folto gruppo di ragazzine ridacchia e mi squadra dalla testa ai piedi. Io cerco di non sembrare a disagio e mi stringo la mia camicetta blu addosso.
Alla fine sono riuscita a sostituire la canottiera scollata con una semplice camicetta a mezze maniche.
-Blu come i tuoi occhi, dolcezza- ha commentato Victorie quando mi ha vista ritornare dopo il nostro litigio a colazione.
Forse era un maldestro tentativo di mostrare la sua approvazione, ma, vista la sua espressione ironica e le sopracciglia inarcate, non posso esserne poi così sicura.
Quando anche Scorpius scende dal treno con un sorriso che va da una parte all’altra del viso, alcune ragazzine scoppiano in urletti entusiastici. I gridolini di apprezzamento aumentano quando il mio compagno inizia a salutare con la mano il gruppetto e a dispensare sorrisi e cenni con la testa a destra e a manca.
Per un attimo, rimango spaesata.
Perché fa così?
Perché si mostra tanto felice?
Non sa che questa gente ci ha voluti morti? Non sa che queste ragazzine che ridacchiano mentre improvvisa una mezza piroetta e sorride abbagliante saranno quelle che lo guarderanno morire lentamente?
Scuoto la testa e decido che non mi importa quanto si diverta a farsi ammirare. Non mi riguarda minimamente.
Quando, però, mentre attraversiamo la stazione mi si avvicina e mi mette un braccio intorno alle spalle, la cosa inizia a riguardarmi.
Faccio per scansarmi dalla sua presa ma lui mi stringe ancora di più, afferrandomi per un fianco.
-Cosa stai facendo, idiota? Lasciami subito!- sibilo irritata e cerco ancora di divincolarmi.
Lui, come se gli stessi raccontando qualcosa di particolarmente divertente, getta la testa all’indietro e ride. Poi, avvicinandosi ancora di più, si abbassa verso di me.
Mi irrigidisco di botto quando avvicina la sua bocca al mio orecchio.
-Sorridi e saluta, d’accordo?- sussurra la sua voce, estremamente seria, al mio orecchio –Magari riusciamo a guadagnarci qualche simpatia fra il pubblico-
Oh.
Dunque è questo.
Sta già lavorando per il dopo. Per l’arena. Per poter sopravvivere. Il ragazzo sotto la pioggia, quello che mi ha regalato quel quadrifoglio, quello che mi ha fatto vedere il mare dal finestrino, quello che mi ha urlato che la mia maglietta non era poi così male, quello stesso ragazzo, non ha accettato la propria morte. Sta già lottando con tutte le sue forze per restare vivo. Il che, tra l’altro, significa che il buon Scorpius Malfoy, lotterà con tutte le sue forze per uccidermi.(1)
Mentre camminiamo non cerco nemmeno più di liberarmi del braccio di Scorpius sulle mie spalle, né mi preoccupo di sorridere e di mostrarmi carina e bendisposta.
Guardo la stazione di Royàl, così colorata e piena di gente stravagante, senza vederla davvero.
 
La prima tappa dopo l’arrivo alla stazione è l’Anfiteatro cittadino, che, a quanto ho capito dall’ingarbugliato discorso di Rachel sulla storiografia di Royàl, si chiama Panem.
Una volta che ci siamo smaterializzati all’interno di una piccola stanzetta dalle asettiche pareti bianche, io e Scorpius, siamo stati adeguatamente controllati –nel caso uno dei due fosse in possesso di qualcosa di potenzialmente pericoloso- e, dopo che degli strani tizi in giacca e cravatta hanno testato l’adeguatezza della mia bacchetta e di quella del mio compagno, siamo stati scoratati per un lungo corridoio.
Mentre avanziamo Rachel si gira più e più volte verso me e Scorpius suggerendoci con voce agitata di aggiustarci i capelli, di sistemare il colletto della camicia, di camminare con la schiena più dritta. Per un attimo, un piccolo infinitesimale attimo, mi sembra di essere tornata indietro nel tempo, a quando io e la mia famiglia partecipavamo alla cena di Gala del Ministero, a Capodanno, e mia madre mi assillava perché il mio comportamento fosse degno di una signorina come si deve. E per un altro attimo, un piccolo infinitesimale attimo, mi giro, aspettandomi di vedere mio padre, stretto nel suo abito blu elettrico –Con quei capelli che ti ritrovi è l’unico colore che ci si può abbinare!, diceva mia madre- che mi fa l’occhiolino e mi batte una pacca sulla spalla, come a suggerirmi di dare il peggio di me.
Ma non c’è nessuna pacca sulla spalla, nessun vestito blu elettrico. Non c’è mia madre e non c’è mio padre. Non c’è nessuna Cena di Gala al Ministero. C’è solo questo corridoio bianco le cui pareti sembrano convergere e inghiottirmi e Rachel con la sua parrucca rosa che saltella a pochi passi da me.
C’è solo morte e distruzione.
E dire che, quando usciamo da una piccola porta rossa e ci ritroviamo fuori, sarebbe così difficile da pensarlo.
L’Anfiteatro cittadino è un qualcosa che può essere descritto con un’unica parola: mastodontico.
Assomiglia vagamente a quel teatro babbano che io e la mia famiglia abbiamo visitato molti anni fa, in Italia. Quando chiesi a mia madre se fosse stato costruito con la magia lei scoppiò a ridere.
-Niente magia, piccola mia. Solo puro genio- disse, alzando gli occhi e accarezzando con la vista le ampie scalinate in pietra e lo spiazzo circolare nel mezzo.
Disse anche che, i Romani, la gente che l’aveva costruito, ci andava per divertirsi. Si mandavano dei guerrieri a combattere fra di loro o contro degli animali e li si guardava morire.
Ora che ci penso, credo che sia questa la ragione per cui la sfilata dei partecipanti ai Giochi Della Fame, dopo aver sfilato per tutta la città, si conclude in questo posto.
-Sembra il Colosseo- esclama Scorpius, accanto a me, la testa completamente rivolta verso l’alto.
Si, a quanto pare pensiamo alla stessa cosa, vorrei dirgli. Poi però, mi rendo conto che non posso. Con la discussione che abbiamo avuto ieri sera e con il sogno di questa notte una nostra collaborazione, anche solo uno scambio di parole che non siano strettamente necessarie, può significare perdere il controllo della situazione.
E io ho bisogno di mantenere il controllo.
-Penso che sia per questo che si chiami così, sai?- chiede e, questa volte, si gira a guardarmi davvero –Intendo per il Colosseo, i latini e per i Giochi-
Anche se non intendo dargli confidenza, l’argomento mi interessa, perciò, senza scompormi troppo, faccio un cenno della testa e lui prosegue con il suo ragionamento.
-“Duam tantum res anxius optat panem et circenses”- recita e, davanti al mio sguardo stralunato ridacchia. –“Due sole cose ansiosamente desidera: pane e spettacoli pubblici.” Era un vecchio motto latino. Mio padre me l’ha fatto studiare qualche anno fa. In pratica dice che se lo Stato riesce a garantire da mangiare e dei bei giochi interessanti a cui assistere non dovrà preoccuparsi di insurrezioni popolari- conclude.
Per un attimo soppeso il suo discorso. Ha senso. insomma è molto nello stile americano. Sfruttare noi europei per non dover adempiere con piena correttezza ai suoi doveri.
-E tu pensi che questo stupido posto si chiami così per questo?-
-Penso che tutti i Giochi della Fame si chiamino così per questo- ribatte lui, convinto.
Sto per fare un altro cenno della testa, neutro, quando uno sbuffo di risata mi arriva da dietro.
Scorpius, che non ha più il suo sorriso convinto sul viso, fissa un punto dietro di me con espressione corrucciata e, quando mi giro anche io, trovo Victorie, i capelli biondi che svolazzano la vento e un espressione vuota in viso.
-Volete sapere perché i Giochi della Fame si chiamano così?- chiede e inclina la testa da un lato, facendo dondolare i suoi orecchini -Perché se vinci ti rimane solo quella-
Poi, così come è arrivata, se ne va, il rumore dei suoi passi che si confonde con quello delle voci allegre degli abitanti di Royàl, addetti alla preparazione dell’Anfiteatro.
Scorpius, accanto a me, la guarda andare via con una strana espressione, poi, però, si gira verso di me e fa uno dei suoi disarmanti sorrisi.
-Credo di esserne terrorizzato!-
Quando, infine, Rachel ricompare e ci dice di seguirla di nuovo dentro la struttura –seminascosta dietro gli spalti- dove ci aspettano i nostri stilisti, assistenti e altra gente che dovrà abbellirci per la capitale, mi affianco a Scorpius.
È l’ultima volta che ci parlo, prometto a me stessa, ma devo davvero saperlo.
-Dunque è per questo che siamo qui?- gli chiedo all’improvviso e, se lui ne rimane sorpreso non lo dimostra –Per evitare che esploda una rivolta? Per parare il fondoschiena ai loro capi di stato?-
-No. Noi siamo qui per fargli divertire-
-Uccidendoci a vicenda? È la loro idea di divertimento?-
-È la loro idea di spettacolo pubblico-
 
Dopo avermi scaricata in una enorme stanza dalle pareti arancioni e avermi spergiurato di non andarmene in giro e di aspettare il mio stilista, Rachel si è trascinata via uno Scorpius parecchio su di giri e si è chiusa la porta alle spalle.
Mentre aspetto mi siedo su una delle allegre poltroncine verdi e giocherello con la mia bacchetta, divertendomi a farne uscire sbuffi colorati di fumo e scintille luminose.
Intanto rifletto.
Dopo anni e anni passati a guardare i Giochi della Fame ho capito che, se vuoi vincere, puoi adottare ben tre atteggiamenti diversi. Certo, puoi personalizzare il tutto, aggiungere delle mosse speciali e interessanti caratteristiche del tuo essere, ma il concetto di fondo è quello.
C’è chi basa il suo successo sulla bellezza e sulla popolarità –quello che sta cercando di fare Scorpius- sperando che le tue apparizioni possano comprarti un bel biglietto per tornartene a casa, una volta finita l’arena; c’è chi si finge debole –come quella ragazza che partecipò una decina d’anni fa, che fece finta di essere una piagnucolona, debole e inetta per tutta la prima parte del reality e, poi, quando tutti gli altri concorrenti avevano abbassato la guardia, si rivelò essere una abilissima combattente e una afferrata assassina- e c’è chi, non provvisto da una bellezza sgargiante o una ottima abilità recitativa, cerca di sopravvivere.
Per quanto mi riguarda, io, credo che proverò con la terza alternativa.
Questo pensiero, il fatto che potrebbe non funzionare, mi mette addosso una tristezza e una malinconia, una rabbia repressa, quasi che quando la porta dietro di me si apre non sorrido nemmeno.
Questa donna -o questo uomo, visto che non ho la più pallida idea di chi possa essere lo stilista che si occuperà di me- sta per ideare un modo deliziosamente chic per condurmi alla morte.
Non voglio nemmeno pensarci.
Poi, però, la mia attenzione si concentra sulla figura magrissima ferma sull’ingresso della mia camera.
Ha i capelli di un biondo quasi bianco e, con un misto di irritazione e orgoglio che mi invadono allo stesso tempo, mi rendo conto che ha di nuovo disubbidito agli ordini di sua madre e se li è tinti.
Gli occhi, di un azzurro così chiaro e pallido che sembrano taglienti scaglie di ghiaccio, sono pesantemente truccati, contornati da molti strati di mascara e di matita scura. Sembra quasi reduce da un pestaggio, ma, in ogni modo, il look le dona.
È stretta in un paio di jeans chiari e mi fissa come se mi vedesse per la prima volta. Il che, considerato che l’ultima volta che ci siamo incontrate di persona risale a ben cinque anni fa non è così improbabile.
Poi, però, assottiglia gli occhi e fa un sorrisino di scherno dei suoi, uno di quelli che me la rendono così insopportabile e affascinante allo stesso tempo.
-Ehi rossa, è da un po’ che non ci si vede, mh?-
E improvvisamente mi sento un po’ meglio.
Perché magari sto andando all’inferno ma, con la eccezionale guida di Dominique Weasley, che all’inferno ci è già stata un paio di volte… beh, ci andrò con stile.




1) Da Hunger Games (oppurtunatamente modificata)


ANGOLO AUTRICE

Tad-dan!
Bastardatona finale!
Ok, non so quante saranno felici di questo finale con Dominique (Zitta tu, Harry Potterish! Lo so che non la sopporti ma devi arrangiarti!)
Intanto in queste piccolo note che, ne sono sicura, nessuno si fila, voglio ringraziare meglio le meravigliose undici ragazze che hanno recensito! Sto già rispondendo alle vostre recensioni e, anzi, scusate se non sono riuscita a farlo prima ma è un periodo piuttosto incasinato fra scuola e compiti vari!
Comuuuuunque.... la meravigliosa frase finale "Se devo andare all'inferno lo farò con stile" è stata deliberatamente elaborata dalla fantastica storia "Le nouveau millénaire" di Tefnut (Capitolo 8)...
Poi, che altro? Victorie?
Bhe se vi state chiedendo cosa abbia che non va... beh, me lo chiedo anche io... ma non so mi è uscita così... molte mi hanno esposto le loro teorie su di lei e direi che vi siete avvicinate tutte molto! Insomma mi sembrava quasi che la conoscesse meglio voi di me!
Quanto a Scorpius... beh lui è cicciopuccioso, e basta!
Se avete domande e dubbi io sono qui!
Alla prossima!
Fra



 

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Capitolo 7
*** 6 - Brillante come il sole ***


Questo capitolo avrà una dedica molto lunga e molto particolare quindi, se il tuo nervosismo/pazienza non vuole essere messo a dura prova dai miei lunghi sproloqui, ti consiglio di passare subito al tuo nome oppure direttamente al capitolo.
Sarà che mi sento molto sentimentale o, forse, sono coì perchè, come dice il mio migliore amico al massimo dell'imbarazzo sono nel periodo del "ciclista" ma, ci tenevo a ringraziarvi.
A ringraziarvi tutte perchè è grazie a voi che sono qui, a blaterare di sciocchezze. 
Grazie a 
Clare Esse perchè è la mia beta, la mia donna, perchè senza di lei non ci sarebbe questo capitolo. 
Harry Potterish perchè anche se la stresso ad ogni ora della notte e del giorno per assurdi consigli non mi ha ancora mandata al bel paese. 
BurningIce  perchè per colpa sua ieri mi sono vista "In Time" per tipo tredici volte ma, alla fine, il nostro viaggio studio è stato indimenticabile. 
Marti Lestrange Efp   perchè anche lei vuole morire per mano di Cato. 
sweetcorvina RoseBlack98 perchè sono sempre qui a supportarmi, a sostenermi e a fare lievitare il mio ego come un tacchino ripieno il giorno di Ringraziamento. 
Rochi  freak the freak  Rosie_96_Valerie_96 perchè sono le mie Flaqui's Girls. 
Elizha Alara666 perchè sono riuscita a convertirle ad Hunger Games (seee come no, tutto merito tuo!)
Elaeth  perchè è una HG fan e merita il pollice in su! 
Eralery perchè è la mia melograno-girl! perchè le voglio bene e non c'è nulla in più da dire.
Viva le scimmiette!





Capitolo VI 

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Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro,
ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
-Lev Nikolaevic Tolstoj, Anna Karenina

 


Dominique è, si può dire, la pecora nera della famiglia Weasley.
Sin dalla tenera età di cinque anni, quando fece scomparire il prezioso collier della madre e lo nascose in un barattolo di marmellata – che successivamente regalò a James -, apparve chiaro a tutti che quella bambina dai tratti angelici e le guance punteggiate di efelidi, aveva un che di sadico e malvagio dentro di sé.

Zio Bill, che affettuosamente la chiama “la rivincita dei geni Weasley”, è probabilmente l’unica persona che sia mai riuscito a tenerle testa. Tutta la famiglia sapeva che non era possibile controllare la variabile impazzita che rappresentava Dominique, ma un po’ perché noi Weasley siamo asfissianti, ripetitivi, tantissimi e tutti diversi - ma pur sempre una famiglia -, nessuno le diceva mai niente. 
Quando a nove anni Dominique decise che, in barba agli ordini imposti dalla madre, avrebbe fatto un salto alla Tana dagli altri cugini con la Metropolvere, dissero che era una bambina vivace, ma che, per il suo affetto e la devozione per i parenti, doveva essere perdonata; quando a undici anni si buttò di proposito nell’acqua del Lago Nero, tuffandosi da una delle barchette che portavano i ragazzini del primo anno a Hogwarts e incolpò totalmente James, dissero che, dopotutto, poteva capitare di voler provare nuove esperienze; quando a tredici anni convinse James a prendere di nascosto la moto Babbana che era appartenuta al padrino di Zio Harry e fecero un incidente andando a sbattere contro l’albero del giardino sul retro di Casa Potter, quasi sfondando una parete in retromarcia, dissero che era solo sintomo di una personalità spiccata, un chiaro segno di un carattere da leader e sana curiosità verso gli oggetti Babbani. 
L’ultima volta che la vidi fu al quattordicesimo compleanno di James, quando, insieme al festeggiato, ai gemelli Scamandro e a Fred, nascose uno dei Razzi ad Acqua del Dottor Filibustier nella torta e la fece scoppiare dritta sul naso di un piuttosto perplesso zio Percy. 
Non ricordo di aver mai visto zia Fleur più furiosa. I capelli argentei svolazzavano e si arricciavano mossi da una brezza invisibile e il viso delicato aveva assunto caratteri spaventosamente sadici mentre urlava alla figlia che, se non fosse riuscita a raddrizzarla lei con le buone, l’avrebbero fatto altri con le cattive. 
Il giorno dopo Dominique prese una Passaporta per la Francia, diretta all’istituto per signorine di Madame Le Rue, in un paesino sperduto nelle campagne nei dintorni di Parigi. 
Lily scoppiò a piangere; anche Hugo era piuttosto triste. I più piccoli erano affascinati da lei, e vederla andare via era un qualcosa di inconcepibile ai loro occhi. Albus, invece, quando gli chiesi cosa ne pensasse di tutta quella faccenda, si limitò a stringersi nelle spalle e a ricordarmi che lo “tsunami Dominique” non si sarebbe arreso alle innumerevoli lezioni di galateo e buone maniere che le sarebbero state imposte. 
«È molto più probabile che trovi un modo per svignarsela» aveva detto. 
Il fatto che alla fine Dominique se la fosse svignata per davvero – per ben due settimane era scomparsa nel Mondo Babbano, lasciando un’esagitata Madama Clotilde e una furiosamente preoccupata zia Fleur a brancolare nel buio - e che fosse ricomparsa alla porta di Casa Potter con i lunghi capelli biondi, orgoglio della madre e della stirpe Delacour, tagliati sulle spalle e tinti di una tonalità scura, non mi sorprese più di tanto. 
Per essere tanto imprevedibile – pensai, quando, ritornando dalla mia settimana di convivenza con Zia Muriel, Albus mi raccontò dell’incursione della mia non più bionda cugina - non era poi così difficile capire quale sarebbe stata la sua prossima mossa. 
James, mi accorsi quando feci visita ai Potter, sembrava essere rinato dopo quei due giorni in cui Dominique era rimasta con loro. Ma dopotutto, quei due erano sempre stati molto legati. Me li ricordo ancora, da piccoli. Inseparabili, ecco com’erano. 
Si erano ripromessi fedeltà e appoggio reciproco ma, alla fine, era solo Dominique che lo bacchettava e lo trattava come se fosse il suo schiavetto. 
«Ma lei è Dom!» diceva James quando gli chiedevo perché, con il suo spirito di indipendenza e libertà tanto sviluppato che amava sbandierare al mondo, si lasciava trattare così da lei. 
A me, sinceramente, non è mai andata molto a genio. 
Non la odio, davvero. Solo che trovo irritante la maggior parte dei suoi comportamenti, le sue assurde prese di posizione e le sue risposte irriverenti. 
Il vero problema di Dominique, penso, è che non fa mai quello che le viene chiesto. Anche se le tue intenzioni sono fra le più onorabili e il tuo desiderio di aiutarla sia al massimo della sincerità, lei non ascolterà mai quello che dici e, se possibile, farà l’esatto contrario. Non importa da che parte tu sia, lei sarà sempre tua nemica. 
James dice che vuole dimostrare al mondo che non è come tutti gli altri Weasley e che è stufa di essere paragonata a sua sorella. Ma James ha sempre avuto un debole per lei, nonostante la maggior parte delle volte le colpe di Dominique ricadessero ingiustamente su di lui.  
James è fatto così: non odia nessuno, è capace solo di amare, in quel modo ingenuo e irritante che lo caratterizza, e quando si mette in testa che una persona gli va a genio, continuerà sempre a volerle bene. Non importa poi, come questa persona possa trattarlo di rimando, lui avrà sempre questo modo di ricambiare, senza limiti, quasi fosse un dispensatore di sorrisi. 
Forse sono solo un po’ gelosa dell’effetto che Dominique ha su tutti, ma, ad ogni modo, anche se dovrei almeno cercare di capirla, di comprendere perché si comporta così, non riesco proprio a farlo. Perché lei potrebbe vivere una vita perfetta, se volesse. Perché ha due genitori che la amano e la sostengono sempre, ha un fratellino che considera legge tutto ciò che esce dalla sua bocca, e una sorella più grande che, se presa per il verso giusto, può essere davvero divertente. E invece lei li tiene a distanza, cercando fuori un qualcosa che potrebbe avere dentro. 
Perché è bellissima con quei capelli dorati e gli occhi azzurri. E invece, per dimostrare che non è come gli altri, che lei è migliore, li tinge di colori improponibili e trucca gli occhi fino a che la bellezza della loro tonalità scompare del tutto. 
Perché potrebbe conquistare il mondo, se volesse. Ma non lo fa. 

«Cosa ci fai qui?» chiedo, quasi ringhiando. 
Forse dovrei mostrarmi almeno più felice e sollevata nel rivedere la mia perduta cugina, ma il fatto che il suo sorrisino irritante non sbiadisca nemmeno un po’ quando le rispondo così, mi fa capire che se lo aspettava.
«Ci lavoro, fino a prova contraria. Ma suppongo che, per te e mia sorella, sia più facile pensare che balli intorno ad un palo e che infanghi ancora di più il buon nome della famiglia Weasley» esclama, il sorrisetto ancora al suo posto e nessuna sfumatura dolorosa o di rimpianto nella voce. 
Questa, signore e signori, è la fottutamente sarcastica Dominique Weasley. 
Spalanco gli occhi di botto, senza riuscire a trattenermi. 
«I tuoi lo sanno che sei qui?» le chiedo, fissando lo strappo a regola d’arte che capeggia sul mio jeans all’altezza del ginocchio. 
Dominique fa uno sbuffo a metà tra un sospiro e una risata. 
«Immagino che lo sapranno ora, quando la figlioletta perfetta manderà loro una Strillettera»  
Si stringe nelle spalle e si siede su uno dei tavolini, facendo dondolare le gambe magrissime «Ma dopotutto, non sono qui per questo» 
Alza gli occhi verso di me e il suo sguardo è così pungente e affilato da farmi venire l’irresistibile voglia di correre a nascondermi da qualche parte e dondolarmi al buio come un’ossessa. 
Rimaniamo in silenzio per un po’, come a studiarci. Mentalmente, cerco di trovarle qualche difetto e, anche se ne trovo un bel po’ – il trucco troppo pesante un po’ sbavato sotto gli occhi, la sua corporatura così esile da dare l’impressione di essere sul punto di spezzarsi, i capelli terminanti in spuntoni anziché in morbidi boccoli - non le dico niente, perché non le importerebbe. 
«Certo. Sei qui per farmi apparire carina» aggiungo alla fine, quando il silenzio diventa troppo pesante perché io possa sopportarlo. 
«Sono qui per farti apparire, Rossa» 
Si batte le mani sulle ginocchia e, con una spinta di reni, salta giù dal tavolo avvicinandosi. Allunga una mano verso di me e mi afferra una ciocca di capelli rossi, attorcigliandosela attorno all’indice affusolato. Ora che i suoi occhi sono così vicini ai miei vorrei quasi abbassare lo sguardo. Perché, per quanto gli occhi di Dominique siano di un azzurro glaciale, freddi e calcolatori, a volte guardarli è come guardare il fuoco, un incendio che divampa. Ti sale l’irrazionale paura di bruciarti. 
«Il punto ora è: quale impressione vuoi dare tu, Rose Weasley, al pubblico di Royàl?»  
Dominique gioca con la mia ciocca di capelli, facendola girare più e più volte, fino a che non arriva al cuoio capelluto. Tira così tanto che sento anche un discreto dolore alla radice e vorrei scacciare la sua mano con un gesto per massaggiarmi la parte lesa. 
Io rimango in silenzio, senza sapere cosa dire, né se quello che voglio dire sia giusto o opportuno.
Il punto è che io non so che tipo di approccio utilizzare. Insomma, forse potrei provare a essere sexy. Ma non credo che faccia per me. Nemmeno l’essere spiritosa o particolarmente brillante sembra essere parte del mio essere. La verità è che, in questo momento, non ho la più pallida idea di quello che devo fare per andare avanti, per sopravvivere. 
«Uhm, vedo che la tua creatività è aumentata nel corso degli anni, eh Rossa?» esclama la mia stilista lasciando ricadere la mia ciocca e facendo un passo indietro. Ora mi fissa con aria critica, come se stesse studiando un’opera di particolare importanza. 
«Lo immaginavo, sai?» commenta alla fine girandosi velocemente e raggiungendo un pannello sul muro semi-nascosto da un’alta pianta di ficus. Tira fuori la bacchetta che ha nascosto nello stivale, e picchietta tre volte. Subito, la parete si apre e io mi ritrovo a fissare un piccolo scompartimento nascosto dove è appesa una specie di sacca nera. Dominique la afferra e, per un attimo, rimane immobile, come se stesse risolvendo mentalmente un problema di incredibile rilievo. Poi si gira verso di me e sorride. 
«Rose Weasley, questa sera tu non sarai più la patetica studentessa maschiaccio che ha offerto la sua vita per la povera cuginetta. Questa sera non sarai bella, non sarai affascinante. Questa sera sarai brillante come il sole» 

***

Dopo avermi mostrato l’abito, Dominique mi manda in pasto ad una squadra di tizi di Royàl, due ragazze e un ragazzo, che si occupano di eliminare ogni possibile pelo o imperfezione dalla mia pelle che appare ora bianca, liscia e luminosa – merito di tutta quella brillantina per il corpo. Una delle ragazze, Alexiel, una strana ragazza con i capelli scuri e un vistoso tatuaggio in una lingua sconosciuta sulla schiena, mi acconcia i capelli e li stringe in un nodo elegante. 
I miei preparatori, una volta che Dominique mi ha lasciato alle loro cure, iniziano a parlare e non smettono per le cinque ore consecutive, pranzo compreso, blaterando di fatti incredibili che hanno sconvolto le loro emozionanti vite. 
L’altra ragazza, Josie, una ragazza con i capelli verdi e una infinita serie di piercing e orecchini che spuntano da luoghi improbabili, mi ha persino raccontato dell’organizzazione della sua festa di compleanno, che si terrà fra due settimane e che avrà come tema i giaguari. 
Come se davvero potesse interessarmi. 
Ma faccio comunque attenzione a quello che dicono perché, di tanto in tanto, aggiungono dettagli su Dominique, la parata e gli altri concorrenti, che potrebbero essermi utili. 
Quando la mia seduta di bellezza è ormai completata e Matthew, il ragazzo abbronzato che si è occupato delle mie unghie, ha espresso la sua brillante opinione su quanto, al giorno d’oggi, tutti dovrebbero avere un I-Magic - una specie di rivalutazione del telefono babbano -, sono in grado di ricostruire a spezzoni come Dominique abbia iniziato da quest’anno a lavorare per Royàl e come i suoi modelli siano ormai fra i più quotati qui in America. 
Josie dice che è “la nuova Chanel americana”. Chi sia poi questa Chanel non mi è dato saperlo.
Ad ogni modo, quando arriva il momento per me di ricongiungermi a Scorpius e di percorrere insieme il lungo corridoio bianco che ci porterà nella stanza dove siamo stati questa mattina, la mia testa è stracolma di parole e discorsi futili. 
Scorpius è vestito come me. O almeno, ha qualcosa nei suoi abiti che ricorda il motivo ondeggiante sui ricami del mio vestito nero. È molto elegante, comunque. 
Camminiamo insieme lungo il corridoio per un po’, senza dire o pensare niente, poi mi sorprendo a fissare le mattonelle bianche e a camminare in modo strano, decisa a camminare su una sì e una no.
Forse è per questo che nemmeno mi accorgo della ragazza che si sta aggiustando i capelli biondi raccolti in una treccia nel bel mezzo del corridoio, e la urto. 
Lei cade a terra con esagerata enfasi – andiamo, l’ho solo sfiorata! - e assume un’espressione oltraggiata che mi ricorda molto quella di Lucy quando Molly le dice che i vestiti non sono poi così importanti nella vita.
«Per Merlino, un po’ di attenzione!» esclama in francese con una voce stranamente colorita. 
Scorpius si china su di lei e le porge galantemente la mano, aiutandola a rialzarsi. 
 «Mi scusi signorina, si è fatta male?» chiede il mio compagno, in un perfetto francese che riesco a comprendere solo grazie alle innumerevoli espressioni di zia Fleur. 
Lei lo fissa un po’, per poi limitarsi a fare un gesto veloce con il capo. Si piega e si aggiusta la gonna a campana, lunga qualche centimetro sotto il ginocchio, con rapidi ed esperti tocchi delle dita. Quando rialza il capo, Scorpius assume un’espressione beata e le fa un gesto elegante con la mano, come ad invitarla a precederci. La francesina, che mi è già parecchio antipatica, gli lancia uno sguardo curioso poi, quando i suoi occhi sfuggenti si fermano su di me, il suo viso si contrae in una smorfia involontaria e seccata.
A quanto pare l’antipatia è reciproca. 
 Ad ogni modo la biondina ci precede e, con le ballerine che ticchettano animatamente sul pavimento in marmo, raggiunge quello che deve essere il suo compagno di squadra – un ragazzo che, a sua volta, non la smette di aggiustarsi i capelli, preoccupato che si appiattiscano sotto il basco blu che indossa.
Scorpius sorride un’ultima volta in direzione della francesina, poi si lancia un’occhiata intorno, ammiccando ad ogni essere femminile presente in sala. 
«Smettila. Di. Sorridere. Idiota!» lo rimbrotto, rifilandogli una gomitata nemmeno troppo leggera sullo sterno.
La ragazza spagnola - lo deduco dal vestito con le balze che indossa, dalla rosa nei capelli e dal fatto che il suo compagno è vestito come un torero - accanto a noi, deve aver sentito il mio rimprovero perché, dopo averci fissato insistentemente per un attimo, si lascia scappare un sorrisetto divertito. 
Nessuno ci prenderà mai sul serio, se continua così. Insomma, si presuppone che ci abbiano spedito qui per morire, non per rimorchiare. 
Ma la cosa ancora più assurda è che, alla fine, alcune delle ragazze ricambiano anche! Per esempio, una ragazzina sui quattordici anni con un bel vestitino a fiori svolazzante, arrossisce tutta e abbassa lo sguardo, mentre un’altra con un vertiginoso abito verde scollato sulla schiena sorride di rimando a Scorpius.
«È una paralisi facciale, Rosellina, te lo giuro. Non posso combatterla!» risponde Scorpius mantenendo la sua espressione carismatica anche davanti all’occhiataccia di uno dei ragazzi in sala. 
La spagnola che, questa volta ne sono sicura, ha ascoltato proprio noi, scoppia a ridere apertamente e quando Scorpius si gira verso di lei, gli manda un bacio con la mano. 
Neanche lei mi va a genio. 
Mentre aspettiamo cerco di studiare i costumi e i volti dei miei avversari, ma è come cercare di trattenere dell’acqua a mani nude: appena il mio sguardo si posa su uno dei concorrenti, mi sale l’irrazionale voglia di correre via, di non pensare che, proprio quella persona, potrebbe essere la causa della mia morte. 
Forse il mio disagio e il mio tramestio sono evidenti perché Scorpius, che intanto ha finito di dispensare sorrisi, si gira verso di me e fa per mettermi un braccio intorno alle spalle. Io gli tiro una spallata, non tanto perché non voglio avere nessun contatto con lui – ormai mi sono resa conto che la mia strategia di ignorarlo è impossibile da realizzare, con lui che spara sciocchezze e cerca di ucciderci in ogni modo - ma perché, se qualcuno mi toccasse in questo momento, credo che potrei vomitare. 
«Ti senti bene? Sei verde» mi sussurra all’orecchio, la fronte corrugata. Poi, in risposta al mio sguardo non propriamente amichevole, si affretta ad aggiungere: «Non che il verde non ti doni, Rosellina» 
Io non dico niente, ma incontrare gli occhi di ghiaccio di uno dei concorrenti fissi su di me, mi fa andare ancora di più in iperventilazione. Non so se sarò in grado di farcela, davvero. 
So che dovrei mostrarmi forte, ma non so come farò a gestire questa improvvisa paura che il trovarmi letteralmente davanti alla morte – o a chi la causerà - mi arreca. 
Una donna dall’improbabile acconciatura verde – i suoi capelli sono acconciati in modo da sembrare un fenicottero - e con le labbra pitturate da un brutto color fango, si affaccia alla porta e, con una voce fastidiosamente squittente, ci annuncia che la sfilata sta per cominciare. 
I vari stilisti e mentori degli altri paesi si affrettano attorno ai loro concorrenti, aggiustando loro i capelli, le cuciture dei vestiti, calcando in testa alle testoline bionde, more, rosse, persino blu, vistosi cappelli, o forcine, o fermagli. 
Io e Scorpius ci guardiamo intorno ma non c’è nessuno intorno a noi. 
Il fatto che Victorie non si sia presentata non mi sorprende molto ma, per un attimo, il mio cuore fa un balzo all’idea che nemmeno a Dominique importi molto di quello che può succederci. Aspettiamo pazientemente l’arrivo di Rachel, ma nemmeno lei si fa vedere. 
Fisso Scorpius cercando di non far trasparire la mia preoccupazione. Per una volta sono soddisfatta dal notare che nemmeno lui sembra la maschera delle tranquillità e che ha la fronte aggrottata. 
Quando poi la stessa “donna fenicottero” di prima ci si avvicina e ci chiede di seguire lei e gli altri concorrenti verso l’uscita, tutto sembra cadermi addosso. 
Fisso il mio vestitino e, improvvisamente, mi sembra troppo corto e strano, con quegli strani motivi sulla gonna e quei piccoli fili di materiale metallico – Dominque ha detto che sono fatti in modo da catturare la luce - che spuntano sui ricami. I miei capelli, poi, sono legati così stretti sulla nuca che il nodo sembra forarmi la testa e mi pesa sulle spalle. 
«Beh» commenta Scorpius con voce pacata «direi che dobbiamo andare» 
Indica la porta e noto che, ormai, siamo rimasti solo noi come concorrenti e qualche persona appartenente allo staff. 
«Oppure possiamo darcela a gambe. Prima che questi strani vestiti si trasformino in qualcosa che provocherà la nostra morte ancora prima dell’Arena» 
Per un attimo Scorpius assume un’espressione incerta. Sembra quasi un bravo ragazzo, quello che ti viene a prendere da casa, chiacchiera con i tuoi genitori e fa le coccole al tuo cane; poi, però fa un sorrisino strano e mi ricordo che è Scorpius, e lui, probabilmente, è più quel genere di ragazzo che viene a casa tua e le dà fuoco. 
«A me piace il tuo vestito, invece»  
Mi fissa per un po’ con aria quasi critica, come se fosse lui, qui, l’esperto di moda.  
«Anche se ci vorrebbe qualcosa in più» 
Allunga una mano e afferra l’elastico dai miei capelli, facendoli ricadere sciolti e liberi sulle mie spalle. 
Nonostante il fastidio che il suo gesto mi procura – e se a me piacessero, quei capelli? - mi sento sollevata, con la sensazione dei capelli che mi solleticano la pelle. 
«Molto meglio» commenta Scorpius. 
«Vogliamo andare o avete intenzione di restare qui tutta la notte?»  
La “donna fenicottero” è accanto a noi, le mani sui fianchi e un’espressione truce in volto. A quanto pare anche per lei, come per Rachel, la puntualità e l’educazione devono essere importantissimi. 
«Certo che andiamo» dice Scorpius. Mi volta le spalle e la segue oltre la porta senza, questa volta, nemmeno darmi la precedenza. 



Note Conclusive (Citazioni, segnalazioni e avvertimenti)

In queste piccole note di fine capitolo che, ne sono sicura, non considera nessuno (me tapina!) farò delle segnalazioni importanti, quindi, per quelle poche anime buone che hanno avuto la voglia –e il coraggio- di leggere queste rughe… beh, drizzate le orecchie.
Prima di tutto ci tengo a ringraziare nuovamente la mia nuova, favolosa e rapidissima Beta, Clare, perché, probabilmente questo è il primo capitolo completamente privo di errori che pubblico ed è tutto merito suo.
In ogni modo, ora, passiamo alle segnalazioni di vario genere. Prima di tutto va detto che la mia Dominique è lievemente ispirata (solo dal punto di vista del “carattere variabile” a quelle di molte altre storie favolosa che girano su di lei, ma, in futuro, come scoprirete, assumerà dei comportamenti inaspettati. Io, più che altro, me la immagino con un visino alla Taylor Mosmen, tutta truccata e con i capelli di un biondo quasi bianco, anche se, nella mia immaginazione fervida, è perfetta anche Amanda Seyfried in “In Time” con caschetto e capelli rosso fuoco (si, Ivy, è tutta colpa tua, brutta carogna!).
La frase in cui Dom dice a Rose che è “brillante come il sole”, frase da cui, fra l’altro prende nome il capitolo, è opportunamente modificata da una frase tratta da Hunger Games “Non sono bella, non sono affascinante. Sono brillante come il sole”.
Poi, che più? La “paralisi facciale” e il “Rosellina” di Scorpius sono chiari omaggi alla mia storia preferita sulla NG, quella della favolosa Dira_Real. La frase in cui Rose dice che guardare Dominique è come guardare un incendio che divampa, invece, non è mia, l’ho letta da qualche parte, solo che non ricordo dove. Ho voluto inserirla ma, allo stesso tempo, ci tengo a segnalarla nel caso, magari qualcuno sapesse da chi è stata ideata o, magari, proprio chi l’ha scritta, passasse di qui.
La mia antipatica francesina (che no, ragazze, non è la “Lux/Glimmer” della storia), che, come vedremo si chiama Sophie, ha il volto della bellissima Barbara Palvin, mentre la spagnola (che mi sento già in diritto di adorare) è Sarah Hylend.
Infine, la scena finale, quando Scorpius scioglie i capelli a Rose, è un riferimento nascosto a Shadowhunters (libro magnifico che ho appena concluso di leggere e che, nonostante i primi dubbi iniziali, mi ha catturata) e si riferisce a quando, poco prima di andare alla festa di Magnus Bane, l’affascinante Jace scioglie i capelli alla deliziosa Clery. So che non centra un accidenti ma volevo inseririli, ecco.
Che altro c’è da aggiungere? Niente, solo, passate dalla mia pagina face book dove troverete tutti i “volti” dei personaggi!
Un bacione gigante!
Fra

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Capitolo 8
*** 7- Non ci tengo, grazie. ***


Note:
Ciao a tutte!
Mi scuso per il terribile ritardo, ma mi si è rotto il pc e ho perso tutto quanto.
Fortunatamente la mia Beta Clare Esse
 aveva salvato questo capitolo ed è stata così gentile da pubblicarlo per me.
Per lo stesso problema, non riesco a rispondere alle recensioni, cosa che farò non appena mi sarà possibile.
Nel frattempo, ringrazio le tredici ragazze che hanno recensito l'ultimo capitolo, ossia 
bess_Black, Alara666ElaethMontgomeryavalonneJo_94lysdance1RoseBlack98,BurningIceHarry PotterishElizhasweetcorvina e ancora Clare.
Spero possiate perdonare questa lunga attesa!

 

Capitolo VII
Non ci tengo, grazie.

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Scorpius è andato a chiedere ai tizi dello staff se hanno visto Rachel o Dominique, o chiunque altro essere vivente che possa esserci d'aiuto prima della sfilata. Ci troviamo in uno spiazzo all’aperto, le uniche luci che regnano sovrane sono quelle di alcune fiammelle sospese a mezz’aria. Per un attimo penso che siano delle torce incantate come quelle che ci sono ad Hogwarts, poi però, quando mi avvicino e le osservo meglio, noto che sono più che altro puntini luminosi che riflettono una luce angelica.
«Carine, no?» chiede una voce alle mie spalle. Mi giro di scatto, cercando la fonte del rumore e, nel farlo, identifico la schiena di Scorpius a qualche metro di distanza, intento a discutere con la strana “donna fenicottero”.
Ma non è stato lui a parlare. È una ragazza dai capelli lunghi e neri, che le incorniciano il volto dolce e dai lineamenti simpatici. Ha una spruzzata di lentiggini sulla carnagione abbronzata e gli occhi truccati con una strana matita che cambia colore a seconda della luce. Indossa un abito bianco che sfiora il pavimento, con le maniche di pizzo a campana che le avvolgono le braccia esili. Dalla gonna corta sul davanti e provvista di strascico sul retro, si intravedono un paio di stivali neri, di quelli da motociclista, che stonano moltissimo con il suo abbigliamento quasi d’altri tempi.
È una curiosa mescolanza di opposti: il chiarore della pelle si contrappone con i capelli mori e le guance rosse, gli occhi scuri e vispi si muovono continuamente e, allo stesso tempo, sembrano fissi su di me, inquietanti e ammalianti.
«Cosa?» le chiedo, anche se la vera domanda che mi risuona nella mente è “Parli con me?”. La ragazza fa un sorrisetto strano e, per qualche assurdo motivo, rabbrividisco.
«Quelle cosine luminose che vedi lì» esclama, facendo un cenno con la testa verso le strane lucine che ho osservato fino all’attimo prima «nel mio Paese vanno molto di moda. Si chiamano “Luci Portatili” e potrebbero illuminare tutto l’Anfiteatro, volendo»
Si avvicina con quel sorriso sempre al suo posto e afferra una Luce Portatile. La tiene sul palmo della mano per un attimo, poi, di scatto, chiude il pugno intorno ad essa. Ci gioca un po’ e, sussurrando qualcosa in una lingua che non riesco ad identificare, forse greco, forse italiano, fa aumentare la luminosità fino a che non sembra stringere in mano un piccolo sole.
«Credo che sarebbero capaci di bruciare viva una persona» aggiunge alla fine, aprendo la mano e lasciando che la Luce Portatile veleggi fino al soffitto, dove era posizionata in precedenza. Rimane pensierosa per un attimo, a guardare il puntino luminoso che brucia e illumina, brillante come una stella, poi si gira verso di me e fa di nuovo il suo sorriso inquietante «Vuoi provare?»
«A bruciare viva?» chiedo, cercando con lo sguardo Scorpius che, noto con sollievo, sta attraversando la sala e viene verso di me «Non ci tengo, grazie»
Provo a sorridere anch’io, ma forse per il nervosismo, forse perché trovo questa strana ragazza piuttosto inquietante e, in un certo senso, pericolosa, mi esce una smorfia.
La ragazza inclina la testa e mi lancia un ultimo sorriso «Quello lo farai comunque stasera, che tu ci tenga o meno» esclama. Sorride ancora e io mi sento incredibilmente vuota mentre la guardo andare via, gli stivali da motociclista che colpiscono ritmicamente il pavimento in marmo e le maniche bianche del suo vestito che fluttuano in una brezza inesistente.

Quando Scorpius ritorna, il suo volto è così scuro che non oso nemmeno chiedergli come sia andata. Perciò mi accontento di fissare la stanza in cui siamo: deve essere una specie di backstage per l’Anfiteatro. Che sia appena fuori da esso lo si capisce dal rumoreggiare di mille voci, a qualche metro di distanza. Gli schiamazzi e le urla della folla sono in parte coperte dalle solide pareti di pietra che ci circondano, ma quel suono costante mi inietta una dose abbondante di adrenalina in corpo e mi fa sorridere nervosamente.
Scorpius, al contrario, ha aggrottato le sopracciglia e fissa con aria perplessa la “donna fenicottero”, che gesticola qualche metro più in là. C’è un uomo in giacca e cravatta con lei, che sembra essere parecchio arrabbiato a giudicare dalla fronte aggrottata e dal fervido movimento delle mani. Una ragazza con i capelli di un bel blu sgargiante e un vestitino di uno strano materiale quasi trasparente segue con aria vagamente annoiata la discussione.
Alla fine, l’uomo in giacca e cravatta zittisce la “donna fenicottero” con un gesto imperioso della mano e fissa la giovane con una certa aspettativa. Quando la ragazza annuisce l’uomo emette un sospiro di sollievo e fa per stringerle la mano, ma la ragazza si tira indietro e fa mulinare i lunghi capelli turchini che, per un attimo, sembrano un cascata frusciante di acqua e luce.
Quando si gira ne noto i tratti delicati: è assolutamente bellissima. Per un attimo penso che sia in parte Veela, perché davvero nessun essere umano può essere così bello, così perfetto, può brillare di tanta perfezione. Se dovessi fare un confronto, lei sembrerebbe una Barbie di ottima fattura, Victorie una vecchia bambola di pezza dai capelli di una tonalità opaca e spenta.
Improvvisamente, tutto sembra essere perfetto. Nell’aria risuona una strana musica, piacevole, ammaliante, e avverto l’impulso irrefrenabile di scoppiare a ridere.
Quando la ragazza dai capelli blu mi sorride, sento l’istantanea voglia di andarle incontro e di toccarla, per vedere, per testare, per accertarmi che è vera, che è qui. I suoi occhi sono privi della pupilla e sono come un vortice. Un vortice azzurro che ti travolge, ti afferra il cuore e lo stringe in una morsa delicata e forte allo stesso tempo. Mi sento in pace con me stessa, immersa nell’oceano blu dei suoi occhi.
Magari potrei avvicinarmi e parlarle. Potrei chiederle come si chiama, potrei invitarla a danzare – perché sono sicura che un essere del genere sarebbe assolutamente in grado di danzare per ore e ore senza mai cadere o stancarsi - e potrei prometterle la mia amicizia, la mia vita.
I miei piedi si muovono senza che io possa controllarli, più aggraziati di quanto abbiano mai fatto, e si dirigono a passo sicuro verso di lei.
Faccio un passo in avanti, ma qualcuno mi tira per il braccio.
Nonostante l’intontimento e la confusione che mi affollano la mente, la smorfia tirata di Scorpius mi appare piuttosto evidente. Così come la sua presa sul mio gomito, stretta come se stessi per cadere e lui mi avesse afferrata giusto un attimo prima dell’impatto al suolo.
«Cosa?» chiedo, e la mia voce suona strana e strascicata anche alle mie orecchie. Anzi, penso fra me e me, non arriva nemmeno alle mie orecchie. È come sentire qualcuno che parla oltre una parete, un muro d’acqua.
«Stai ferma qui, idiota. È una Seelie, quella. Se ti avvicini a lei e fai qualche stupidaggine come danzare, parlare o promettere rimarrai sua schiava a vita» esclama, con un tono di voce che non ammette repliche, mentre la sua stretta sul mio braccio si rafforza fino a farmi male.
E forse è proprio il dolore a farmi tornare in me e a permettermi di riconquistare il controllo di me stessa. Improvvisamente le parole di Scorpius assumono un senso e i suoi avvertimenti mi scuotono dal torpore.
«Pensavo esistessero solo nelle leggende» mi giustifico.
«Perché, c’è rimasto qualcosa che sia solo una leggenda, di questi tempi?» commenta Scorpius stringendosi nelle spalle. Così come il lieve sorriso che gli ha illuminato il volto per qualche attimo è apparso, così spuntano delle sottili rughe d’espressione intorno ai suoi occhi fissi e concentrati.
«La cosa che non riesco a capire è per quale assurdo motivo una Seelie è qui» sussurra, e non sono sicura che stia parlando con me o se si limiti a ragionare fra sé e sé.
So chi sono le Seelie, ovviamente. È solo che pensavo fossero solo una fiaba di quelle che si raccontano ai bambini più irrequieti per farli addormentare. Anche mia mamma me le raccontava, quelle storie.
Scientificamente – anche se la scienza non è proprio compresa nel Mondo Magico - le Seelie non esistono. Certo, vengono chiamate Seelie le tribù di fate o di Pixie più evolute, ma comunque non sono quelle intese dalle leggende. Le Seelie, così dice la storia, sono creature per metà angeli e per metà demoni, il che le rende doppiamente pericolose. Hanno la bellezza degli angeli e il malsano, perverso e crudele senso dell’umorismo di un demone.
Scorpius, accanto a me, sta ancora sproloquiando su quanto io sia stata stupida a non riconoscere la ragazza con i capelli blu per quello che è. Io, per un po’, disconnetto il cervello e mi lancio un’occhiata intorno. Non sono l’unica ad aver subito l’effetto della Seelie, a giudicare dall’espressione di catalessi che accomuna quasi tutti i concorrenti. Gli unici che sembrano essere in grado di pensare, al momento, sono i membri dello staff, probabilmente avvisati in precedenza di non lasciarsi distrarre: il ragazzo biondo dall’aria feroce che ho osservato di nascosto nella saletta bianca e che mi incute, adesso, ancora più terrore, e la sua compagna, una ragazza dai capelli anch’essi biondi e lo sguardo serio che si limita a fissare il vuoto davanti a sé, costretto in una posizione rigida. Gli altri sono tutti imbambolati a fissare la ragazza dai capelli blu.
Mentre cerco di non pensare a lei e di concentrarmi su qualcos’altro, noto che anche la ragazza della Luce Portatile è immune all’effetto della Seelie. Mi sta fissando e, quando si accorge che ricambio il suo sguardo, mi sorride ed io vengo pervasa dalla strana voglia di scoppiare a ridere. Ma è diverso da come mi sentivo prima, mentre guardavo gli occhi senza pupilla della Seelie.
Quando fissavo quei buchi azzurri mi sembrava di essere sospesa su una nuvola soffice e morbida, come se nulla potesse farmi male. Questo, invece, è uno sguardo che fa male già di per sé.
Mi giro di scatto, cercando di togliermi dalla testa questa brutta sensazione e tento di concentrarmi su quello che sta dicendo Scorpius. Ma lui è ancora nel bel mezzo della sua filippica sulle Seelie.
«Se invadi il loro territorio, i vampiri posso attaccarti, ma una Seelie può costringerti a ballare fino a morire con le gambe ridotte a moncherini, può indurti con l’inganno a una nuotata di mezzanotte e trascinarti urlante sott’acqua finché non ti esplodono i polmoni, può riempirti gli occhi di polvere fatata finché non te li strappi…»
«Merlino, Scorpius!» lo interrompo, e strattono il braccio perché me lo lasci libero «Non voglio che mi reciti un intero paragrafo di un’enciclopedia sulle Seelie!»
Lui mi fissa con la fronte aggrottata e incrocia le braccia al petto con una smorfia davvero fastidiosa e femminile – mi ricorda quasi quella francesina. Sembra sul punto di dirmi qualcosa, poi però inclina la testa di lato, perplesso.
«Cos’è una ciclopetia
Quando la ragazza dai capelli blu scompare uscendo dalla porta da cui siamo entrati noi, quella che da sulla stanza bianca, tutti quanti ritornano alla normalità, anche se qualcuno sembra ancora risentire degli effetti dell’Incanto Seelie; il ragazzo spagnolo scuote forte la testa, come se avesse dell’acqua nelle orecchie e, ripensando alla sensazione di trovarmi proprio sott’acqua quando Scorpius mi parlava, mi fa pensare che, alla fine, è proprio così.
La “donna fenicottero” richiama la nostra attenzione con un battito delle sue deliziose manine avvolte in guanti di pelle di serpente – o di qualche altro animale squamoso, forse una lucertola - e, per un attimo, lascia che il silenzio impregni la stanza, forse per dare un po’ di suspance alla situazione.
Quasi tutti i tributi rimangono in silenzio.
«Benvenuti, tributi!» squittisce, con le maniche a palloncino del suo vestito verde acido che si sollevano sempre più, scoprendo una buona porzione di pelle flaccida «Io sono Cinthia Illary, la vostra responsabile di scena. Come tutti sapete, la sfilata è una parte fondamentale nei Giochi della Fame in quanto, oltre a segnarne l’inizio, è la prima occasione per voi partecipanti di rapportarvi con il pubblico di Royàl»
Cinthia fa una pausa e io mi ritrovo a fissare i suoi capelli, davvero interessata alla strana pettinatura che sembra sfidare ogni legge di gravità o della fisica. Non che qualcuno qui sappia cosa è la fisica. Io stessa non lo saprei se mia madre, quando avevo a malapena nove anni, non si fosse messa in testa di darmi lezioni su ciò che, a suo dire, l’Istruzione Magica ignorava amabilmente.
Cinthia continua a parlare, ma la sua voce fastidiosa non sembra voler arrivare alle mie orecchie e io continuo a fissare lei, i suoi capelli verdi, le sue labbra disegnate con un marrone atroce – sembra un cespuglio, a dire il vero, con tanto di terriccio - e il vestito color lime e le maniche più scure.
Scorpius mi da una gomitata sul fianco, richiamando la mia attenzione, e mi sussurra qualcosa che non riesco a capire, facendomi un cenno con il capo.
Io, ormai, rinunciando del tutto a seguire il discorso commemorativo di Cinthia, seguo con lo sguardo la direzione indicatami e, ad uno degli angoli dell’enorme sala – Merlino, non mi ero accorta di quanto fosse grande qui! - noto degli strani aggeggi in metallo. È solo quando vedo qualcosa muoversi che capisco, dopo aver strabuzzato più e più volte gli occh, di avere davanti una lunga serie di carrozze trainate da cavalli.
Sbatto più volte le palpebre e decido che forse è necessario seguire almeno in parte il discorso della “donna fenicottero”. Ma lei ha ormai concluso, e tutti i presenti in Sala stanno applaudendo: chi entusiasta, come i preparatori e gli altri abitanti di Royàl, e chi con una pacata gentilezza, come alcuni dei tributi presenti in Sala. Alcuni dei ragazzi nemmeno si sforzano di battere le mani, come i due che avevo osservato prima, quelli che erano rimasti immuni al fascino della Seelie.
I due biondini, infatti, rimangono immobili, così com’erano la prima volta che li avevo visti, come se nulla potesse distoglierli dalla loro posizione. Improvvisamente capisco che, se voglio vincere, dovrò avere a che fare soprattutto con loro.
Cinthia calma gli applausi con un cenno e ci invita a prendere posto sui carri assegnati a ciascuno di noi.
Scorpius mi prende per un braccio, come se non fossi capace di camminare in linea retta. Ma non protesto perché mi sento ancora tutta scombussolata. Non protesto nemmeno quando, appena arriviamo al nostro carro, lui mi aiuta a montarci sopra evitandomi una caduta.
Scorpius sale accanto a me e fissa il resto dei concorrenti. Cerco con lo sguardo i suoi occhi ma, alla fine, ci rinuncio e guardo gli altri anch’io.
La ragazza della Luce e il suo compagno si stanno sistemando. Lui sorride entusiasta e la sua espressione pacifica mi ricorda in qualche modo quella di Scorpius. Lei, invece, sta fissando con la fronte corrugata qualcosa dall’altra parte della Sala. Lì, i due biondini di ghiaccio stanno sistemando il loro carro e accertando le briglie dei loro animali – cosa che dovrò fare anch’io, penso - con una precisione e dei gesti quasi meccanici.
La francese fissa con un’espressione disgustata il suo cavallo, la spagnola è accanto all’animale ad accarezzarlo e una delle concorrenti con un vestito verde dal vertiginoso spacco sulla schiena piagnucola e si stringe nelle spalle, protestando contro il suo compagno di squadra e contro il suo staff. Parla in una lingua sconosciuta che, a senso, mi suggerisce che venga da qualche paese del Nord, magari la Norvegia o la Russia, per quanto sono convinta che venga dalla Danimarca.
Mentre fisso gli altri concorrenti, vengo di nuovo pervasa dall’incertezza. I loro vestiti sono splendidi: particolari, alcuni piuttosto appariscenti, ma comunque perfetti per catturare l’attenzione del pubblico.
E, per quanto quelli che ci ha confezionato Dominique donino a me e a Scorpius e siano davvero di ottima fattura, non sono nulla di speciale. Se mettendomi nei panni di uno spettatore di Royàl vedessi arrivare una vestita da dea greca – come, tra l’altro, è vestita il tributo femmina di quella nazione, una bambina di circa dodici anni con i capelli biondissimi e la pelle così pallida da lasciar intravedere le vene - e una con un vestitino al ginocchio nero, mi interesserei di più alla piccola dea.
Eppure Dominique l’aveva detto: “Sono qui per farti apparire”.
Ma non sei qui, Dominique. E io non sto “apparendo” per niente.
Sospiro pesantemente e cerco di convincermi che andrà tutto bene e che, in un modo o nell’altro, troverò una soluzione.

Quando Cinthia dà il segnale perché inizi la sfilata e il primo carro – quello della ragazza con il vestito verde - parte, i cavalli si spingono in avanti con un movimento brusco e, per un attimo, sia io che Scorpius veniamo sbilanciati e perdiamo l’equilibrio. Lui afferra la stanga di ferro che corre sulla parte interna del carro, molto simile ad uno di quelli che, come ho visto a Roma, si usavano nel Colosseo.
Immagino che, come per l’Anfiteatro, gli Americani si siano ispirati agli antichi romani anche per questo.
Il nostro carro è l’ultimo che esce dallo spiazzo; quando finalmente giriamo l’angolo e spuntiamo in una delle stradine di Royàl – quella da cui inizia il giro per le strade della città prima che i carri ritornino all’Anfiteatro e ricevano la “benedizione” del Presidente - le urla della gente sono un boato indistinto.
Non ho mai visto così tanta folla in vita mia: per strada, ai margini delle vie, accampati sui balconi, alcuni persino sui tetti colorati dei palazzi. Urlano, esclamano, ci acclamano: per un attimo, tutto sembra illuminarsi di una luce brillante e forte come il sole, di qualcosa che mi fa sentire, all’improvviso, molto più sicura di me, molto più rilassata e pronta ad affrontare la situazione.
Sono le urla del pubblico che si fanno quasi isteriche, nel loro volume, a farmi capire che c’è qualcosa che non quadra. Siamo già a metà del percorso che ci porterà all’Anfiteatro e, per quanto il pubblico non ci abbia ignorato completamente, non è sembrato poi così catturato da noi e dal nostro aspetto.
Almeno fino ad ora.
Ma ora, la gente si gira a fissarci come se fossimo una specie rara. Vedo, come a rallentatore, un bambino indicarmi mentre sfreccio veloce davanti a lui.
È allora che me ne accorgo.
Vado a fuoco.
Il mio primo istinto è quello di scrollarmi questo vestito di dosso, di saltare giù da questo carro infernale, di mettermi a correre e magari di gettarmi sotto una bella doccia fredda. Sotto dell’acqua.
Il panico sta prendendo possesso di me quando all’improvviso realizzo che, se quello che indossassi fosse… fuoco, ecco, sarei già morta da un pezzo. Eppure c’è del fuoco, sul mio vestito.
Parte dall’orlo della gonna, dagli strani ghirigori ondeggianti che ornano la parte inferiore del mio vestito e sale fino al corpetto, che mi appare ardente e vivo.
Il fuoco che mi brucia è vivo, si muove, si agita, le fiamme si innalzano spinte dal vento, ma non mi brucia.
Sono in fiamme ma posso sorridere, posso agitare le braccia, posso mandare baci al pubblico che acclama il mio nome.
E allora lo faccio.
Perché posso farlo. Perché mi sento felice, sollevata. Perché Dominique, alla fine, ha fatto anche più di quanto sperassi. Perché sì, sto apparendo. Perché, accanto a me, Scorpius ride felicemente sorpreso e gli americani, sotto di me, acclamano a gran voce i nostri nomi.
«Rose!» urlano «Rose!»
Mi sento bene e sorrido. “Questa gente mi vuole morta!” urla una parte del mio cervello, quella più lucida e che non si lascia contagiare da un simile entusiasmo. “Ma questa gente è anche andata a cercare il mio nome su quelle stupide riviste di programmazione!” ribatte la parte di me più frivola e rilassata, quella più codarda ed egoista, che vorrebbe semplicemente vivere quest’attimo e congelare il tempo in questo preciso istante.
Alzo gli occhi e colgo un’immagine mia e di Scorpius, a sua volta rivestito di fiamme, ingigantita su uno degli schermi disseminati per le vie della città.
Siamo sconvolgenti, ecco.
Brilliamo, avvolti dalle fiamme, brilliamo come… brilliamo come il sole. Come aveva detto Dominique questo pomeriggio.
Sarai brillante come il sole.
Sorrido ancora di più al pensiero. Dominique è insopportabile, certo, e non credo che nonostante questi vestiti formidabili riuscirò mai a farmela andare davvero a genio. Ma alla fine è grazie a lei se sono qui.
Dovrò ringraziarla, quando scenderò da questo coso.
Sempre se non muoio bruciata.
Continuo a fissare il cartellone che, per quanto stacchi più e più volte per inquadrare anche gli altri tributi, continua a ritornare su di noi, di certo i più sfavillanti e innovativi della sfilata. Forse è per questo che, come se all’improvviso il tempo stesse correndo lentissimo, vedo con estrema precisione – prima sullo schermo e poi dal vivo, abbassando lo sguardo - la mano di Scorpius che scivola verso la mia.

Per un attimo penso freneticamente al da farsi. La parte razionale della mia mente, che ho deciso di chiamare A, come Attenzione, mi suggerisce caldamente di fingere di non averlo notato e di alzare la mano presa di mira per salutare gli spettatori. Questo è quello che dovrei fare, mi dico. Questo è quello che farebbe il tributo biondo composto come una marionetta che ho osservato qualche minuto fa, nello spiazzo dietro l’Anfiteatro. Questo è quello che farebbero tutti, dalla francesina alla ragazza con il vestito verde, da Victorie a Rachel. Persino le incognite della Ragazza Luce e di Dominique, le cui voci mi affollano la mente, mi suggeriscono di ignorare la sua mossa e di fingere indifferenza.
Ma c’è una piccola parte della mia mente, che ho deciso di chiamare S, come Speranza, che mi spinge a prendere la mano di Scorpius. Ci sarebbero tanti motivi per farlo, mi spiega Speranza nella mia mente. Per esempio, facendolo potrei mandare avanti la messa in scena della stazione, quella della grande amicizia sventurata che non può persistere per i Giochi. Oppure, così facendo, potrei farlo intendere come una sorta di sfida all’autorità del mio staff, del mio mentore, della mia stilista, dei miei preparatori.
Ci sarebbero tante versioni per giustificare a me stessa perché afferro la mano di Scorpius e la stringo alla mia, intrecciando le dita in una morsa intricata che non so nemmeno se riuscirò a sciogliere, una volta scesi da questo coso.
Ma alla fine, l’unica cosa che riesco a pensare è: “Forse, visto che è sempre freddo, eviterò di andare a fuoco completamente”.
E nessuna scusa mi appare più vera e falsa allo stesso tempo.
Scorpius sorride al mio gesto e alza il viso, il mento sollevato in un chiaro segno di sfida.
Qualcuno lancia sul carro un fiore e quando riesco ad afferrarlo per aria, scoppia un boato. È una rosa rossa e, anche se so benissimo che è una coincidenza e che, volendo, la persona che l’ha lanciata avrebbe potuto scegliere un qualsiasi altro carro e un qualsiasi altro fiore, per un attimo penso che questo sia per me. Una specie di segno del destino.
Quando finalmente arriviamo in vista dell’Anfiteatro e già i primi carri iniziano a scomparirvi dentro, sento l’eccitazione che mi fa tremare le gambe e sono lieta, davvero lieta, di avere la mano di Scorpius a sorreggermi e offrirmi qualcosa a cui appoggiarmi.
È enorme, visto da qui sotto. Illuminato da migliaia di Luci Portatili e con migliaia di spettatori che si sbracciano dalle gradinate circolari.
Proprio davanti a noi tributi c’è una specie di enorme palcoscenico. È rialzato di parecchi metri da terra, così da sovrastarci tutti e, in cima, c’è un signore dai capelli neri e la barba fitta che ci osserva con espressione indecifrabile. È in piedi e indossa un abito elegante di un bel nero lucido. Accanto a lui, la riconosco subito, è seduta la ragazza Seelie, affiancata da altri uomini in giacca e cravatta.
So chi è. L’ho visto tante volte sugli specchi magici che vengono usati a scuola per trasmettere i Giochi della Fame. È il Presidente Americano, Mr. Knightley.
Per un attimo, un minuscolo infinitesimale attimo, lo sguardo del presidente si sofferma su me e Scorpius, gli ultimi della fila, poi, velocemente, ritorna a fissare il pubblico in platea.
Con gesti lenti e calcolati si punta la bacchetta alla gola, e la agita dolcemente.
«Tributi» esclama, e la sua voce rimbomba in tutto l’Anfiteatro, propagandosi con la stessa chiarezza e velocità fino alle ultime file. Io stessa ne avverto chiaramente la potenza. È come se mi stesse parlando all’orecchio, e la cosa non mi piace molto.
Scorpius deve aver percepito la mia preoccupazione perché mi stringe la mano, dandomi una dose di coraggio indispensabile.
«Gentili ospiti» continua Mr. Knightley «e abitanti di Royàl, benvenuti. Benvenuti nella nostra bellissima città. Sono già passati ventiquattro anni da che la nostra gloriosa civiltà si è mossa ad un livello superiore e ha raggiunto la pace. È perciò un onore per me, quest’anno, presentare la ventiquattresima edizione dei Giochi della Fame»
Scoppia un applauso senza fine e Knightley aspetta pazientemente che si concluda prima di aggiungere, con voce fredda e chiara, la formula di rito: «Signore e signori, che i Giochi abbiano inizio!»


 

Note conclusive (Citazioni, segnalazioni e avvertimenti)

Allora, passiamo alle varie segnalzioni.
Ci tengo a specificare che le Seelie non sono creature di mia invenzione, sono 
ispirate a diverse leggende anche se io ne ho scoperto l'esistenza grazie a Shadowhunters. La frase di Scorpius su quello che possono farti le Seelie é una citazione appunto di Shadowhunters.
Non ho altro da aggiungere, solo spero che questo problema si risolva in fretta così potrò rispondere alle vostre recensioni!
Fra


(Note della Beta: Sì, spunto anch'io. Poiché sto facendo il lavoro di pubblicazione, Tinypic mi è ostile e non riesco a postare l'immagine del capitolo. Chiedo scusa in primis a Flaqui e a voi lettrici. Guai a voi se fate calare le recensioni di questa storia solo per colpa mia, altrimenti vi metterò col burro e la marmellata sulle mie fette biscottate mattutine! :P)

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Capitolo 9
*** 8 - Direi che possiamo anche finirla qui ***


Capitolo VIII
Direi che possiamo anche finirla qui.

 

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La mattina dopo la parata di inizio mi sveglio di colpo, come se qualcuno mi avesse lanciato un gavettone pieno d’acqua in pieno viso. Rimango per un attimo immobile, le coperte arrotolate sul fondo del materasso, il petto che si rifiuta di abbassarsi normalmente.
Mi ci vuole un po’ per convincermi a sollevare il busto e lanciare un’occhiata intorno, osservando un po’ meglio la mia nuova camera; ieri sera, dopo i festeggiamenti che hanno seguito la fine della sfilata, la visualizzazione dei filmati girati dalle mosche-spie per i Cartelloni-Magici e il brindisi in onore di una Dominique brillante come i suoi costumi, ho avuto a malapena le forze di trascinarmi nel mio appartamento, di sfilarmi il mio costume con le fiamme – che ora sembra quasi fissarmi dalla poltrona in velluto verde sulla quale l’ho abbandonato - e di gettarmi sul letto.
Ma ora che sono sveglia e non devo scendere a colazione – Rachel mi ha detto che la mia presenza è gradita per le sette, e al momento la mia sveglia segna le sei e venti - decido che posso concedermi di fare le cose con calma. 
Con un sospiro mi stiracchio le braccia e scalcio via contemporaneamente le coperte e i rimasugli di stanchezza, postumi dell’effervescenza che mi ha colpito ieri. Faccio una breve doccia e, quando esco dal bagno, indosso dei jeans e una semplice maglietta blu che sono stati poggiati con cura sulla poltroncina verde, gemella di quella dove ho lasciato il mio vestito di ieri. Che strano, avrei giurato che qualche secondo prima non ci fosse niente, lì sopra.
Scuoto la testa e decido si fare un giro di perlustrazione del mio appartamento. La camera è, come ormai sono abituata a constatare viste le esperienze degli ultimi giorni, estremamente lussuosa. È arredata con mobili antichi e le pareti sono di un bel verde scuro e cupo, così come le tende, il copriletto e la pelle delle poltroncine e del divanetto. C’è una bella scrivania in quello che, a prima vista, sembra essere mogano – non so se è mogano, ma visto quanto la superficie è lucida e scura, arrischio questa ipotesi - e su di essa sono posati alcuni dei pochi oggetti che mi sono portata da casa: la spilla con la fenice che mi ha regalato Mary, la coroncina fiammeggiante che completa il vestito di ieri e un biglietto segnato da una grafia elegante che mi avverte che potrò usufruire dell’intera giornata per prepararmi mentalmente e fisicamente agli allenamenti che si terranno il giorno seguente.
Il piccolo salottino adiacente alla mia camera da letto è arredato a sua volta con mobili dall’aspetto pregiato e lussuoso. Sul tavolino basso di legno, circondato da alcune poltrone e da un divanetto, sono poggiate diverse miniature in cristallo che rappresentano diversi esseri e animali fantastici. Mi accovaccio sul tappeto persiano e osservo affascinata il modo in cui la prima luce del mattino, ancora debole e fioca, proveniente dalla finestra si infrange contro il vetro, dando alla sostanza trasparente particolari sfumature colorate. È mentre sono intenta ad osservare i deliziosi particolari del bellissimo viso di una Pixie di cristallo che mi accorgo dei quadri.
Appesi alle pareti rosse della stanza ci sono tanti, tantissimi quadri. I soggetti dei dipinti dormono ancora, posso vedere i loro petti abbassarsi e rialzarsi piano. Sotto ogni quadro c’è una targhetta bianca su cui, probabilmente, è segnalato il nome della tela. Lascio con cautela la miniatura sul tavolino e mi avvicino al muro. Osservo con attenzione i primi quadri, la maggior parte dei quali rappresentano tizi vestiti con abiti d’altri tempi, in pose scomode, che russano della grossa, in un mirabile contrasto con il contesto in cui si trovano. E poi ancora bambini, giovani donne che sospirano, piangono, si affacciano alla finestra, animali babbani e fantastici, creature mistiche e personaggi famosi, tutti addormentati.
L’ultimo quadro che mi ritrovo ad osservare è quello che mi colpisce di più. La targhetta posta sotto la tela lo denomina come “Il Bacio” e rappresenta due giovani innamorati che si baciano appassionatamente sulla gradinata di una chiesa, in quello che deve essere il crepuscolo di un giorno ventoso – lo si capisce dalla poca luce e dal movimento continuo dei vestiti, mossi da una brezza inesistente. O almeno penso che quando siano “in servizio”, questi due si bacino visto che, al momento, sono profondamente addormentati.
Mi ci vuole un po’ per capire per quale assurdo motivo questo quadro, di certo non il più bello che abbia visto in questa enorme stanza, mi abbia colpito tanto. Poi, però, mentre osservo il modo in cui i due protagonisti sono addormentati, seduti sulle scale, lei con la testa abbandonata sulle spalle di lui e lui con il braccio a cingere la vita di lei… beh, mi sento in pace con me stessa. Perché, per un attimo, mi è sembrato di rivedere Victorie e Ted, felici e innamorati nel giardino della Tana, prima che lei venisse sorteggiata per i Giochi. Perché, magari, da quando sono qui a Royàl avrò visto tante cose strabilianti e ricche di sorprese ma, alla fine, è rassicurante ritrovare qualcosa di conosciuto come l’amore.
Mi avvicino ancora di più al dipinto, osservandone i dettagli che, alla prima occhiata, mi erano sfuggiti. Il vestito lungo fino ai piedi di lei, i pantaloni scuri di lui, l’espressione rilassata di entrambi. Il mio naso, ormai, quasi sfiora la tela.
«Non ti consiglierei di avvicinarti così tanto. Lei sembra gentile e delicata, ma le sue urla si sentono a distanza di chilometri» 
Una voce nel buio tenue della mattina presto si sparge per la stanza, acuta e squillante quanto basta per farmi sobbalzare violentemente.
Mi allontano velocemente dal quadro dentro il quale la ragazza, quasi avesse capito di essere lei l’oggetto della conversazione, si agita per qualche secondo contro la spalla del suo ragazzo prima di rilassare di nuovo il viso dai tratti delicati. Giro più e più volte la testa, alla ricerca del qualcuno che mi ha così gentilmente avvertito sui rischi a cui andavo incontro svegliando povere fanciulle indifese, ma la stanza si presenta ai miei occhi così come l’avevo lasciata pochi minuti prima della mia esplorazione dei quadri: completamente vuota. 
Perlustro bene ogni angolo e, dopo che nemmeno tale ricerca sembra dare i suoi frutti, inizio seriamente a pensare che la stanchezza possa avermi fatto un brutto scherzo. Sto per riavviarmi in camera da letto quando la stessa voce, questa volta in tono meno allarmato, risuona nuovamente intorno a me.
«Ehi, sono qui! Devi solo girarti verso la porta del salone!»
Con la strana sensazione di vivere in un assurdo sogno, faccio un mezzo giro e mi ritrovo a fissare la porta in legno che fa comunicare il salone ad uno stretto corridoio, di poco nascosto dalla libreria. Mentre mi avvicino a passi cauti e leggeri alla sporgenza costituita dalla rientranza di una delle colonne portanti, penso che se la voce non mi avesse nuovamente chiamata, non avrei mai identificato quella particolare conformazione della stanza.
In un primo momento continuo a non vedere niente, poi, però, due paia di occhi marroni si spalancano di botto e, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, mi ritrovo a fare un balzo all’indietro. È una ragazza. Ha i capelli castani che le ricadono disordinatamente sulle spalle, sulla fronte e che sono stati inutilmente fermati dietro le orecchie a sventola. Il sorriso smagliante che mi rivolge, però, basta a compensare la sua aria piuttosto svampita e assente, tipica delle persone che passano il loro tempo più sulle nuvole o in mondi fantastici che sulla terra. È giovane, al massimo le darei qualche anno in più di me. Quanto James e Dominique, per intenderci. È alta, o almeno, la mia mente la immagina piuttosto alta perché la cornice che la contorna e che si ferma all’incirca a metà busto, è posizionata ad una decina di centimetri più in alto di me. Vista da qui sembra quasi che si stia affacciando da una finestra, le braccia incrociate all’altezza del petto e il viso rivolto in avanti, come una dirimpettaia curiosa che spia le tue buste della spesa e le tue compagnie quando, ritornando a casa, passi davanti al suo giardino.
Rimango a fissarla con quella che ritengo essere un’espressione di sorpresa per qualche istante, poi però viene da sorridere anche a me e allora lo faccio.
«Ciao» esclamo, cauta.
«Ciao!» risponde lei, il sorriso che si allarga sempre di più «Scusami se ti ho spaventata prima, ma non potevo rischiare che l’ochetta si svegliasse. Non la sopporto, davvero» 
Socchiude un po’ gli occhi e arriccia la bocca in una smorfia esasperata, poi però, prima che io possa anche solo pensare di aprire la bocca, attacca a parlare con voce allegra e con un ritmo rapidissimo: «Io sono Stephanie, piacere. Ti darei la mano ma, come vedi, non posso. Oh, con questo non intendo farti notare il fatto che sono un quadro, davvero! Quindi non sentirti in soggezione a parlare con me, sul serio! A me va bene essere un quadro, è una posizione rispettabile, meglio di molte altre in questa società, non credi? Insomma i quadri sopravivvono a tutto: alle guerre, all’usura, all’odio, al rancore… alle persone…»
La voce squillante per tutto il discorso si interrompe di botto e per un attimo il suo sguardo perde la scintilla allegra e rimane vuoto e spento. Stephanie sembra quasi persa in contemplazione di un qualcosa di inesistente prima che, con un veloce cenno del capo, riprenda possesso delle sue facoltà mentali e mi chieda, con la stessa baldanza di poco prima, il mio nome e il motivo per cui mi trovo lì.
«Mi chiamo Rose Weasley. Sono il tributo inglese per i Giochi della Fame di quest’anno» 
Per un momento mi chiedo se ho fatto bene a dare per scontato che lei conosca i Giochi. Ma dopotutto, mi dico, lei sembra essere qui da un po’ e i quadri sanno sempre tutto di tutti.
Capisco che sa davvero di cosa sto parlando quando la sua fronte si aggrotta e la sua espressione cambia nuovamente. È estremamente seria, ora. Non energica ed entusiasta, né drammaticamente segnata, come poco prima. Immagino che sia piuttosto lunatica e umorale per riuscire a cambiare atteggiamento ed espressione così velocemente.
«Capisco» dice senza smettere di cercare il mio sguardo «Speravo fossi la cameriera»
«Non lo sono» esclamo, piuttosto infastidita. Sembro una cameriera? Ho l’aria di una cameriera? Dunque è per questo che ha attaccato bottone? Perché voleva che le spolverassi la tela o le lucidassi la cornice. Lei mi lancia uno sguardo obliquo piuttosto triste e comprensivo e una parte di me si chiede se quello che intendesse dire non fosse che sperava io fossi una cameriera perché la cameriera non sarebbe destinata a morire in uno spettacolo da circo.
«Non lo sono» ripeto, più dolcemente questa volta «Sarebbe stato meglio che lo fossi, a dirla tutta» ammetto.
Lei annuisce e fa un sorrisino mesto «Sì, in effetti. Ma non preoccuparti, sono sicura che hai ottime possibilità per farcela! Chi è il tuo mentore?»
«Victorie Weasley»
Nei suoi occhi passa un lampo che non riesco ad identificare, poi la sua bocca si costringe in un sorriso forzato e mi ritrovo a sapere, ad avere la certezza che quello che sta per dirmi è una bugia.
«Oh, non la conosco. Ma sono sicura che hai comunque molte possibilità di vittoria. Non disperare!»
«Oh, Stephanie» penso mentre contraccambio il sorriso e osservo con la coda dell’occhio l’orologio appeso alla parete «non sai decisamente mentire»

Stiamo aspettando che qualcuno in questo enorme palazzo si ricordi di noi, povere bestie da macello che, dopo aver subito le angherie di una donna dalla parrucca gialla esaltata dalla prospettiva di avere finalmente due tributi con un minimo di potenziale, sono state confinate in questa strana stanza dalle pareti a pois colorati, ma ormai ho perso le speranze.
Scorpius, seduto su uno dei divanetti color arcobaleno che arredano la stanza, giocherella con un braccialetto di corda che porta al polso e fischietta un motivetto allegro che, a lungo andare, mi da davvero sui nervi.
«La finisci, per la miseria?!» esclamo, dopo che al terzo ritornello Scorpius ricomincia la melodia.
«Hai per caso altro da fare?» chiede con la sua solita aria da “sono figo e lo so” «Siamo piuttosto nervosette, oggi, eh? Perché sei così sclerotica?»
«Fatti miei» rispondo, piuttosto sgarbatamente.
«Oh, giusto. Sono cose private. Potevi anche dirlo prima che eri in quel periodo del mese» 
Scorpius sorride così tanto che, per un attimo, la sua testa sembra essere oscurata dalla sua bocca larga. In effetti, ora che lo osservo bene, ha davvero la bocca larga. Non mi ero accorta di questo piccolo difetto. Lui continua ad annuire convinto, come se con la sua mente superiore fosse riuscito a raggiungere la tanto agognata soluzione. Peccato sia quella sbagliata.
«Perché voi maschi, ogni qualvolta una ragazza vi risponde in un modo che non reputate carino e alla vostra altezza, dovete pensare che abbia “le cose”? Il che, fra l’altro, farebbe supporre che io abbia il ciclo ogni santissimo giorno per tutta la mia lunghissima vita. Non sono in quel periodo del mese, se proprio ti interessa»
«Certo, certo» Scorpius fa ciondolare la testa in modo accondiscendente, cosa che mi fa innervosire ancora di più, e riprende a fischiettare.
Con un sibilo di protesta affondo la testa in uno dei morbidissimi cuscini che completano l’arredamento della stanza e cerco di calmarmi. In effetti, anche se faccio fatica ad ammetterlo anche a me stessa, il fatto che Scorpius abbia pensato che io avessi le mie cose non è poi così insolito. Non so per quale motivo, ma dopo che Rachel, a colazione, ci ha annunciato che oggi inizieremo i nostri allenamenti individuali – delle prove a porte chiuse che ci faranno da preparazione ai veri allenamenti con gli altri concorrenti -, mi è salito un groppo allo stomaco e non sono più riuscita a mandare giù nulla.
Il punto è che, maledizione, non mi sento pronta. Io… io non so fare nulla. Ok, vado bene a scuola, prendo sempre ottimi voti in Incantesimi e in Difesa Contro le Arti Oscure, so praticare con risultati discreti molti incanti, alcuni anche abbastanza complicati e ho un innato senso di autoconservazione, abbastanza raro da trovare in un Grifondoro, ma alla fine tutto questo non conta. Perché quando scenderò nell’arena, non sarà come a scuola. Perché a scuola, quando un esercizio non ti viene al meglio, puoi sempre riprovare il giorno dopo. Perché a scuola puoi contare sull’aiuto di un insegnante, di altri compagni, sulla fortuna e sul non essere interrogato. Ma in questa condanna a morte che ci è stata riservata non ci sarà nessuna possibilità di ripetere, nessun secondo tentativo sarà accettato. E sarai solo tu, la tua bacchetta, la tua paura, le tue ferite e i tuoi incubi, contro la morte.
La porta della stanza si spalanca all’improvviso facendomi aprire gli occhi di botto e, finalmente, chiudere la bocca a Scorpius, che, ancora giocherellando con il suo braccialetto, interrompe il suo fastidioso fischiettio e drizza la testa.
«Buongiorno raggi di sole!» cinguetta una voce alle mie spalle.
Sulla soglia, dietro l’ingombrante presenza di Rachel - che occupa circa tutta la porta con la sua pelliccia di un qualche strano animale dal pelo verde e la sua parrucca voluminosa che mi ricorda quella che indossavano i Babbani in quelle foto degli anni 50 che mi ha fatto vedere mamma - c’è un uomo. In un primo momento non lo noto nemmeno, presa come sono a cercare di calmare i battiti accelerati del mio cuore. Poi però, Rachel fa un baldanzoso saltello in avanti e riesco a distinguerlo con chiarezza. 
«Finalmente ci siamo, tesorini! Ora vi presenterò l’uomo che, per i prossimi tre giorni, sarà il responsabile dei vostri allenamenti individuali e che sarà a disposizione anche per i successivi cinque giorni, in cui vi allenerete con gli altri, per delle sessioni private o di coppia. Caramelline, lui è Derek Waywood»
Derek, che nonostante l’espressione dura e la muscolatura molto sviluppata sembra piuttosto giovane, circa sulla trentina, non dice nulla e si limita a fissarci con un espressione vuota e piuttosto significativa allo stesso tempo. Ha i capelli cortissimi, la carnagione abbastanza scura e indossa una maglietta nera a maniche corte che fa risaltare i muscoli del petto e delle braccia.
Non so per quale assurdo motivo ma, se dovessi dare una faccia ad un assassino o mercemago, darei loro il suo volto. Ha qualcosa di poco raccomandabile nell’aspetto e nella postura, ma, allo stesso tempo, vederlo così, sicuro e posato anche nel bel mezzo di questa assurda situazione, mi tranquillizza. Sento improvvisamente di potermi fidare di lui. Se è un assassino saprà come si uccide. E a me serve solo sapere come si fa – e come non provare rimorso o essere tormentata da ricordi per sempre - per sopravvivere. 
Scorpius, accanto a me, è scattato in piedi come se lo stare seduto davanti ad una figura maschile come quella di Derek possa, all’improvviso, averlo messo a disagio. Ma forse è solo una di quelle solite sceneggiate fra uomini, in cui si mettono in mostra come pavoni, tirando fuori le loro penne e dimostrando – con intimo terrore - di non essere impauriti dall’avversario.
Quando Rachel finisce di parlare cade un improvviso silenzio che persiste per un po’, visto che né io né Scorpius né tantomeno il nostro allenatore sembriamo intenzionati a presentarci senza essere costretti. In compenso il gioco di sguardi e di piccoli movimenti del capo – Derek scuote impercettibilmente la testa in avanti - e di piedi – Scorpius molleggia nervosamente da un piede all’altro -, mi fa improvvisamente pensare al gioco dello Shangai, un gioco babbano in cui ogni bastoncino deve incanalarsi alla perfezione con gli altri per impedire il crollo.
Qui è lo stesso. Basta uno sguardo mal interpretato o un gesto che nel linguaggio del corpo possa essere frainteso e la strana sensazione di rispetto e cautela che si è formata al momento rovinerà sul pavimento accanto alle scarpe verdi a punta di Rachel.
È proprio quest’ultima che alla fine interrompe il nostro gioco silenzioso schiarendosi la voce. 
«Bene, immagino che il signor Waywood voglia portarvi nella palestra riservata al nostro piano» 
Si gira con un’espressione interrogativa verso il nostro istruttore e quando lui si limita a un cenno con il capo e ad infilarsi le mani in tasca tranquillo, si rivolge nuovamente verso di noi: «Fate bene attenzione a tutti i suoi insegnamenti, dolcetti. Potrebbero essere l’unico modo per rimanere vivi, nell’arena»
Poi, dopo aver sorriso in modo smagliante e finto come suo solito, si aggiusta il colletto della pelliccia – mi chiedo come faccia a non morire di caldo con tutti quei chili di pelo addosso - e, sbattendo i tacchi con un rumore cristallino, si avvia nel lungo corridoio.
Appena la porta si chiude, Derek fa un passo in avanti così velocemente da apparirmi indistinto e si getta contro Scorpius, cercando di colpirlo con un pugno. Il mio compagno si getta per terra, rotolando giù dal divano ed evitando per un soffio la collisione. Quando si rialza, con un’espressione sconvolta e irritata allo stesso tempo in viso, Derek è chino su di lui, ad offrirgli una mano per rialzarsi.
«Hai dei buoni riflessi, ragazzino. Ma dobbiamo lavorare sull’atterraggio» esclama mentre il mio compagno scaccia via infastidito la sua mano e si tira in piedi da solo. Quando è ormai alzato, scocca un’occhiataccia a Derek che, d’altro canto, si è girato verso di me e mi sta squadrando con un sopracciglio inarcato.
«E tu tesorino? Che cosa sai fare?» chiede, e la sua voce vagamente ironica mi fa improvvisamente venire voglia di afferrare la bacchetta e schiantarlo contro le pareti eccessivamente colorate di questa stupida stanzetta.
«Quello che è necessario per mandarti all’altro mondo» rispondo, anche se dentro di me qualcosa trema e la sensazione che ho provato quando l’ho visto per la prima volta, di affidamento e simpatia, viene largamente sostituita da un odio profondo e accecante.
«Uh, sei una tosta, eh?» chiede, e se non avesse quel sorrisetto di scherno che sembra quasi farmi il verso in bella mostra sul viso, potrei anche perdonarlo. Mi limito ad indurire i lineamenti del mio viso e incrocio le braccia. Scorpius, corrucciato quanto me, mi si accosta e ora siamo in due a fronteggiare la nostra unica speranza di sopravvivenza, con gli occhi che mandano scintille.
Derek, d’altra parte, non sembra minimamente preoccupato dalla piega che la situazione sta prendendo anzi, a giudicare dal sorriso radioso che gli si apre in volto, la cosa lo diverte. Ci fissa per un po’, poi, quando nessuno di noi due distoglie lo sguardo, scoppia a ridere in una risata strascicata che sembra quasi il latrato di un cane.
«A quanto pare mi hanno dato una coppia di combattenti, quest’anno!» ride «Bene, allora, credo che andremo piuttosto d’accordo. Seguitemi»
Spalanca la porta della stanza e si avvia in corridoio a grandi passi. Sento che sta dicendo qualcosa ma, non so come, il mio cervello sembra incapace di registrare qualsiasi altra cosa oltre al battito accelerato del mio cuore. Lo sento che mi pulsa nelle orecchie.
“È tutto vero” mi dice il mio cuore mentre continua a battere forte “Sei davvero qui. Devi davvero imparare a combattere. O morirai. Morirai come muore una mosca, Rosie. Devi darti da fare. Reagire. Restare viva.”
Che strano. La voce che mi parla nella testa è la stessa che ieri mi supplicava di non prendere la mano di Scorpius sul carro. È familiare, in un certo senso. Come quando rispondendo al tuo I-Magic passa qualche infinitesimale secondo prima che tu capisca con chi stai parlando. A di Attenzione continua a scandire nella mia mente ordini e suggerimenti su come seguire l’allenamento, sul farmi amico Derek, su come battere Scorpius sul suo stesso terreno.
È in quel momento che mi accorgo che anche il vero Scorpius, molto più vicino a me di quello ricreato dalla mia immaginazione – che al momento sorride malvagiamente nella mia testa - sta parlando. Lo fisso senza capire, cercando di concentrarmi sulle sue parole, ma le uniche cose che noto sono le sue labbra rosate – così chiare in confronto alle mie e, allo stesso tempo, così scure rispetto alla sua pelle - che si aprono e si chiudono in una ordinata successione.
«Rose?» Scorpius schiocca le dita davanti ai miei occhi e capisco di essermi di nuovo persa nei miei pensieri. Mi sta capitando troppo spesso ultimamente. È come se la mia mente, sapendo che ben presto morirò, si sia decisa a lavorare più del solito. Peccato che questo mi distragga dalle poche informazioni che mi sono date per tentare di restare viva.
«Si?» chiedo a Scorpius che intanto mi ha afferrato il braccio e mi sta spingendo fuori dalla porta. Non so per quale assurdo motivo, sarà che forse davvero mi stanno per arrivare “le mie cose”, ma sono molto più suscettibile del solito e Scorpius mi irrita ancora di più di quanto faccia normalmente.
Lui mi lancia uno sguardo piuttosto risentito e lascia il mio braccio «Beh, dobbiamo andare, non pensi? Non credo che sarebbe molto contento se dopo tutto il discorso della “coppia di combattenti” arrivasse in palestra, si girasse e non ci trovasse»
Annuisco mentre l’irritazione sale sempre più dentro di me. Mi sento arrabbiata senza un vero motivo apparente.

***


La palestra è una sala enorme dove, oltre ad alcuni attrezzi babbani – li riconosco in quanto identici a quelli che usavo alla scuola babbana che ho frequentato fino agli undici anni -, sono presenti diversi strani oggetti che coinvolgono animali fantastici, manichini animati armati di bacchetta con cui esercitarsi a duello, specchi dalle strane proprietà che, se fissati a lungo, distorcono la realtà che ti circonda e, soprattutto, uno strano armadio che si agita al limitare della sala.
Derek, che ovviamente è arrivato prima di noi, è davanti a quest’ultimo a braccia incrociate; fissa la soglia della palestra da dove abbiamo appena fatto la nostra entrata in scena con un’espressione che non promette nulla di buono.
«Bene. Mi sembra che sia arrivato il momento di chiarire un paio di cosette. Non siamo qui per divertirci, d’accordo? Quello che imparerete in questi giorni potrebbe essere la vostra unica risorsa e unica possibilità di rimanere vivi, o per lo meno di non morire subito, una volta nell’arena» 
Mentre parla, i suoi occhi grigi non smettono di seguire ogni nostro minimo atteggiamento, come se stesse cercando di leggere i nostri pensieri per trovare un punto debole per attaccarci. 
«Quindi, mettiamo in chiaro fin da subito le cose» continua «Qui, il capo, sono io. Voi farete quello che dico io, come lo dico io e, soprattutto, quando lo dico io. Non saranno ammesse distrazioni o proteste. Non esiste il “non ce la faccio”. Esistono solo il “Sì, allenatore Waywood” e il “Morirò di una morta terribile e dolorosa se non lo faccio”. Ci siamo intesi?»
Io e Scorpius annuiamo energicamente.
«Perfetto, spero che questo piccolo discorso introduttivo sia servito a voi due “caramelline” a capire come andranno le cose per i prossimi giorni. Il mio compito non è quello di essere accanto a voi, spalla a spalla, ad asciugarvi le lacrime e a sentire i vostri piagnistei su quanto vi manchi casa vostra. Il mio compito è quello di farvi piangere, gridare, sputare sangue ora, per non farvi morire come dei cretinetti dopo» 
Fa un passo in avanti e per un attimo ho l’impulso di indietreggiare come se avessi paura che stesse per tirare un pugno anche a me. Ma ovviamente non lo fa, e io rimango al mio posto. 
Mentre lui si avvicina all’armadio che avevo notato al principio, io mi ritrovo ad osservare di nascosto Scorpius. Ha ancora l’espressione indurita, come quella che aveva dopo essersi tirato su qualche minuto fa, ma i suoi occhi brillano di una scintilla di ammirazione e capisco che almeno lui ha cambiato idea sul nostro allenatore, e lo ritiene, se non simpatico, almeno abbastanza passabile per una certa convivenza pacifica. O forse è solo per il fatto che stiamo per combattere contro dei manichini e si sente esaltato come ogni altro maschietto che si trova nella situazione di mostrare le sue straordinarie capacità.
«…quindi per oggi mi limiterò a osservare le vostre capacità e come ve la cavate con alcuni “ostacoli”, sia del Mondo Magico che di quello Babbano» 
Mi accorgo di essermi persa parte del discorso solo quando un piccolo tonfo mi fa riprendere dallo stato di catalessi apparente in cui ero caduta. Derek è appoggiato con la schiena alle ante del grande armadio, con le mani intrecciate dietro il busto, e ci fissa con un sorrisino malizioso. 
«Buona fortuna, caramelline. E possa la buona sorte essere sempre con voi!»
Con un movimento fluido e velocissimo, spalanca le porte dell’armadio e si scosta di lato. Per un attimo l’interno dell’armadio appare buio e vuoto, tanto che sia io che Scorpius ci lanciamo un’occhiata perplessa e stranamente complice. Allento di poco la presa sulla bacchetta e sto quasi per abbassarla.
«Dunque?» Scorpius ridacchia «Questo è tutto? È una prova per chi ha paura degli armadi? O del buio? Estremamente pericolosa, a dire il ve…»
Non fa in tempo a concludere la frase che una Acromantula dalle dimensioni mastodontiche si getta su di noi, le otto zampe pelose che si protendono verso le sue povere prede, che per poco non strappano la stoffa della mia camicia, i numerosi occhietti che roteano all’impazzata.
Prima di iniziare a correre riesco solo a pensare confusamente che, miseriaccia, io odio i ragni, li odio davvero.
Quello che ai miei occhi spaventati era una Acromantula e a quelli ancora più terrorizzati di Scorpius era un Basilisco, si rivela essere un Molliccio Animale. Come ci spiega Derek mentre, con un gesto della bacchetta, rinchiude la creatura nell’armadio, un Molliccio Animale, oltre ad assumere contemporaneamente una forma diversa per ognuno - io vedevo un ragno e Scorpius, allo stesso tempo, un serpentone gigante - è principalmente meno pericoloso ma, allo stesso tempo, più spaventoso di un vero e proprio Molliccio, in quanto è stato incantato per trasformarsi solo in qualcosa che esiste davvero, in una Creatura, in una persona e non in una paura recondita e profonda. In un certo senso è un bene che nessun Molliccio che incontrerò negli allenamenti – e, Merlino non me lo auguri, nell’arena - si trasformi in mio padre che corre via dall’esplosione ma, da un altro punto di vista, è piuttosto spaventoso che si trasformi in un ragno gigante o nella mia insegnante di Trasfigurazione.
È difficile da spiegare: se da una parte protegge i tuoi più intimi timori e impedisce che, per esempio, tu possa trovarti davanti i tuoi cari morti o che ti urlano contro, da una parte il fatto che possa rivelarsi essere un Lupo Mannaro pronto ad ucciderti è piuttosto terribile allo stesso modo perché, oltre ad essere più spaventoso, è anche più complicato capire se sia vero o meno e, di conseguenza, come affrontarlo.
Nelle seguenti sei ore, con una breve pausa per il pranzo, Derek ci fa affrontare alcune fra le creature più infide che il Mondo Magico sembra offrire - tutte ricostruite tramite un incantesimo avanzato, ma fanno comunque male - e, di tanto in tanto, quando io e Scorpius ci blocchiamo o non sappiamo come colpire l’avversario, ci grida contro e ci mette sotto pressione fino a che non soccombiamo o non troviamo una soluzione al problema.
Scorpius mi si avvicina più volte e cerca di aprire un argomento di conversazione, ma io lo scaccio in malo modo perché in un momento delicato come questo non credo di essere in grado di reggere le sue stupidaggini. L’ultima volta che prova ad attaccare bottone prova con un argomento che, mio malgrado, mi interessa.
«Cosa ne pensi di lui?» chiede, e i nostri sguardi si posano contemporaneamente su Derek che sta armeggiando con dei manichini animati in fondo alla sala.
«Lo trovo fastidioso, in effetti» confido, pensando al suo continuo schernirci quando non troviamo velocemente un modo per evitare un attacco o per attaccare a nostra volta «Crede di essere divertente. E questo allenamento non ci servirà a niente. Dobbiamo imparare ad uccidere le persone, non a schiantare manichini e a stendere stupidi Mollicci»
«A me piace, invece. È un tipo forte e, anche se non penso che te ne sia accorta, si vede che gli vai a genio» esclama «Io non so se gli piaccio. Ma d’altra parte sono uno dei migliori giocatori di Quidditch dell’universo. Fra un po’ manderò la Pluffa negli anelli dell’avversario e chiuderò la partita»
«Molto utile. Peccato che tu non possa colpire con la mazza da Battitore uno dei concorrenti fino a che non rimarrà inerme come i Cannoni di Chudley dopo un incontro con i Tornados» dico per chiudergli il becco. Se crede di poter iniziare a sminuirsi per farmi abbassare la guardia e pensare di riuscire a batterlo, crede davvero male.
Sono oculata. Sono attenta. Sono vigile.
«Non crederci troppo, Rosellina. Magari l’arena sarà un enorme campo da Quidditch! Non sai quanto vorrei che…» risponde Scorpius, felice di poter iniziare una vera e propria conversazione.
«Direi che possiamo anche finirla qui» lo interrompo io «Non dobbiamo essere amici anche quando siamo soli. Basta e avanza fingerlo davanti alle telecamere»
Per i successivi cinque secondi sono fiera della mia risposta. Mi sembra perfetta per mettere al suo posto Scorpius, la sua tattica dell’amico e i suoi tentativi di distrarmi dall’allenamento. Per non pensare poi che, così facendo, ho anche messo in chiaro che il prendergli la mano ieri fosse una mossa solo puramente strategica. Poi però, al sesto secondo, incontro i suoi occhi Foresta Proibita e devo mordermi il labbro per non rimangiarmi tutto.
Sarà stata anche solo una strategia quella di parlare con me, ma ho sbagliato ad espormi e a trattarlo così male. Sto per aprire bocca e cercare di rimediare quando Derek ci richiama e mette fine a quei pochi secondi di pausa che ci aveva concesso.

Visto che i combattimenti e gli scontri sono singoli, mentre Scorpius lotta contro un manichino particolarmente agguerrito ed evita per un soffio di essere bruciato vivo, io osservo i suoi movimenti. È molto più calmo e cauto di me. Sarà che alla fine non sono una Grifondoro per niente, ma il mio modo di combattere è molto più aggressivo e avventato del suo. Scorpius, invece, sembra riflettere bene prima di fare una qualsiasi mossa e, per abbattere il nemico, impiega diversi minuti in più di me.
Nell’ultima ora a disposizione, Derek ci spiega le basi del combattimento corpo a corpo e, visto che non si può lottare fra tributi, ci dice di applicare su dei manichini animati – questa volta sprovvisti di bacchetta - alcune delle mosse appena imparate. Io me la cavo abbastanza bene e riesco a stendere il mio avversario in poco tempo, anche se ricevo tre pugni e un calcio discretamente dolorosi. Scorpius conclude la lotta con un solo pugno incassato ma con ben cinque minuti di combattimento in più.
Derek se ne va verso le sette e Scorpius, che ha continuato ad ignorarmi per tutto il resto del pomeriggio, lo segue dopo un’oretta buona in cui è riuscito a sollevare circa una decina di chili con un rapido movimento del braccio.
Io rimango lì, con il mio manichino, a saltellare avanti e indietro e colpire a vuoto quello stupido umanoide che non vuole proprio saperne di accasciarsi. Alla fine crollo anch’io – un po’ per la delusione e il senso di colpa che mi attanagliano per aver detto quelle cose a Scorpius, un po’ perché la rabbia che ho provato per tutta la giornata sembra essersi trasformata in stanchezza - e tutto sembra fermarsi intorno a me.
Mi stendo di schiena su uno dei tanti tappetini blu che tappezzano la palestra e fisso il soffitto fino a che le luci - impostate in modo da accendersi e spegnersi a seconda che nella stanza ci sia qualcuno o meno - sembrano anche loro dimenticarsi di me e si spengono, e io rimango così.
Viste da qui sotto, le corde che pendono dal soffitto sembrano… non so cosa sembrano, ma continuo a fissarle fino a che le palpebre non mi si chiudono praticamente da sole e mi ritrovo a lottare contro i postumi della pesante giornata appena trascorsa. Eppure non riesco ad addormentarmi e, appena chiudo gli occhi, mi ritrovo davanti a scene terribili che la mia mente stanca mi ripropone con un sottofondo sonoro piuttosto lugubre, una voce femminile che canta con incredibile maestria ma che, allo stesso tempo, mi mette i brividi. È dopo un minuto buono che mi accorgo che la voce che canta non è frutto della mia immaginazione, ma è qualcosa di vero. 
Nella canzone non ci sono vere parole, solo picchi acuti e gorgheggi, ma per un attimo mi sembra di stare ascoltando la canzone dell’impiccato, come quando ero bambina e Dominique si divertiva a cantarla e a spaventarmi con il suo terribile testo.
La canzone dell’impiccato è una di quelle ballate che tutti quanti conoscono ma nessuno canta mai. Questa soprattutto, è protagonista di una lunga tradizione ma è sempre stata esiliata nella sezione proibita, diciamo così. A me la fece conoscere mio zio Charlie, che durante una di quelle sere d’estate che trascorrevamo fuori, nei campi di grano che circondano la Tana, riunì tutti noi nipoti per un bel falò di mezzanotte. Quando poi, dopo avercela fatta imparare, ci fece promettere di non dire a nessuno dei nostri genitori quello che ci aveva insegnato – vi ho mai detto che mio zio Charlie è uno dei membri della famiglia maggiormente amati dalla “nuova generazione”? - tutti promettemmo la massima segretezza, per poi sbandierare al vento le nostre nuove conoscenze il giorno dopo. Dominique la cantò persino al cenone della Vigilia di Natale.
Ma non voglio pensarci ora – al buio, da sola, facilmente suggestionabile come sono al momento. Voglio solo cercare di dimenticare, di non pensare più a nulla, di svegliarmi e di ritrovarmi magicamente a casa mia, nel mio letto, con davanti il viso sorridente di mia madre, con il borbottio continuo di Hugo e le canzoni del suo gruppo Heavy-Metal preferito in sottofondo. Voglio tornare nella mia Foresta Proibita, nella mia Hogwarts, anche se non è sicura o bella come quella di un tempo. Voglio vedere di nuovo Albus sorridere come fa lui, inclinando la testa e abbassando gli occhi, come se si vergognasse.
«Non puoi avere tutto quello che vuoi, sai Rosie?»
La voce di Scorpius mi risuona in testa e penso che mi dispiace. Che magari, se ci fossimo conosciuti in un altro modo, io e lui saremmo potuti essere amici. Avremmo potuto fare tante cose insieme. Avremmo litigato sempre, come facciamo ora, ma per le cose più futili e normali del mondo, come in che ruolo giocare per una partita a Quidditch o per il colore dell’inchiostro per pergamene. Ma ci siamo conosciuti qui, stiamo per morire e non possiamo essere amici, non possiamo fare nulla insieme, se non addestrarci ad uccidere – sapendo che potrebbe toccare a noi, di combattere fra di noi - e litighiamo perché affrontiamo il destino in modo diverso.
E improvvisamente capisco perché, per tutta la giornata, sono stata così arrabbiata, continuamente: perché mi sto affezionando a Scorpius. Non in modo che preveda un qualsivoglia tipo di coinvolgimento sentimentale, in quel senso. Solo non voglio che muoia quasi quanto non voglio morire io. È difficile da ammettere ma, alla fine, credo sia anche normale. Quando passi tanto tempo a contatto con una persona è normale che inizi a conoscerla meglio ed apprezzare le sue qualità, a passare sopra ai suoi difetti.
Con questo non intendo dire che Scorpius mi piaccia, anche solo come amico. Ma non posso ucciderlo, ora che lo conosco. Se c’era qualche possibilità all’inizio di poterlo fare fuori senza alcun rimorso, ora so che non posso nemmeno provare a pensarci. Mi sentirei male. Mi sento male.
E poi c’è questo suo pensare positivo. Sempre. E il suo voler vivere la vita fino all’ultimo istante, come se ogni secondo fosse l’ultimo – cosa che, in parte, è anche vera. Come faccio ad uccidere qualcuno che desidera così disperatamente vivere? Come può qualcuno che ama così disperatamente la vita trovare la morte in un modo così orribile e barbarico? Se lui fosse, non so, disperato, senza più forze né voglia di andare avanti, allora potrei ucciderlo, ma Scorpius non lo è. Scorpius lotta giorno per giorno per la sua vita. E io non posso farci niente.
E questo mi fa arrabbiare. Mi dico che, se fossi stata più attenta, se lo avessi evitato, se avessi rifiutato la sua mano sul carro, se non gli avessi mai rivolto la parola, allora le cose sarebbero state diverse. Ma dentro di me, lo so già, non sarebbe cambiato niente.
Scrollo la testa e mi alzo in piedi di scatto. I sensori sul soffitto registrano la mia presenza e la luce si accende all’improvviso, accecandomi. Rimango per un attimo ferma, aspettando che le macchioline di luce si estinguano e mi permettano di vedere dove metto i piedi con chiarezza. Poi, come se qualcuno stesse tirando i vari arti del mio corpo con dei fili per marionette, i miei piedi si muovono velocemente e attraversano il corridoio dalle pareti azzurrine. 

***


Sto oltrepassando l’appartamento di Victorie quando sento un rumore sordo venire da dietro la sua porta che, avvicinandomi, trovo chiusa ma senza alcuna serratura a bloccarla. Rimango per un attimo ferma davanti alla porta, pensando al da farsi. Da una parte un rumore del genere può essere giustificato con molte spiegazioni ragionevoli: sta spostando un mobile, le è caduto qualcosa, è inciampata - per quanto Victorie abbia nel sangue un gene che la rende incapace di inciampare - ma mi accosto comunque alla porta e do una sbirciatina all’interno.
Il piccolo salottino - la disposizione delle stanze sembra essere uguale a quella del mio appartamento - è vuoto, ma i ripetuti colpi che mi fanno sobbalzare provengono dalla camera da letto, a qualche passo di distanza.
Potrebbe essersi fatta male, mi dico, ma in realtà voglio solo vedere qualcuno di conosciuto e che, nel profondo, mi vuole bene. Quando noto la figura di Victorie, seduta a gambe accavallate sulla scrivania nel centro della stanza, il viso rivolto verso la porta e gli occhi azzurri che guardano verso di me, mi prende un colpo.
«Smettila» dice, sempre fissandomi, e la sua voce è così spossata e stanca che sto per farmi avanti e uscire dal mio nascondiglio dietro la porta quando qualcun altro, una macchia bionda, si fa avanti e si para davanti ai miei occhi. Victorie segue la figura con lo sguardo e improvvisamente capisco che non si è mai accorta di me. 
«Dominique, calmati. Io non sono papà. Non sono pronta ad accogliere i tuoi attacchi di isterismo da prima donna a braccia aperte. Sai benissimo che non puoi perdere così facilmente il controllo»
Dominique serra il pugno della mano destra in una presa ferrea «Sei davvero senza cuore, Vicky. Non capisco come faccia la gente a provare affetto per te» 
Victorie, che ha un po’ storto il naso a sentirsi chiamare con il vecchio soprannome affibbiatole da Lily quando aveva cinque anni, non si scompone e continua a fissarla. 
«Io ho il tuo stesso diritto di sapere cosa è successo. Dopotutto James e Fred sono più cugini miei che tuoi»
Improvvisamente inizio a sudare freddo. Che cosa è successo a James e Fred? Perché Victorie non vuole dirlo a Dominique? Perché, soprattutto, io non ne so niente?
«Tu non hai alcun diritto di sapere, Dominique. Soprattutto visto che non c’è nulla da sapere»
«Oh, ma per favore. Non dire cazzate, Victorie! Io non sono Teddy o uno di quegli stupidi americani che ti porti dietro. Ho visto la lettera di zia Ginny. Vi ho sentite parlare via camino. So che è successo qualcosa a James. E voglio sapere cosa. Di certo, e non credo che vorrai negarlo, quello che fa riguarda più me che te» 
Dominique giocherella con una statuina di cristallo, una delle miniature che ornano anche il mio tavolino in soggiorno.
Victorie rimane in silenzio per un po’ osservando con sguardo fisso e inquietante sua sorella. Poi scuote la testa e sembra decidersi a parlare: «Se te lo dico, eviti di distruggere anche quella miniatura? Sai, non credo che saranno molto contenti visto che ne hai già fatte fuori tre»
Improvvisamente collego quei rumori che ho sentito dal corridoio alle manie di protagonismo di Dominique e alle sue prese di posizione con tanto di lancio di oggetti contro le pareti. E suppongo che tutto questo sia avvenuto con una Victorie impassibile e immobile, come se invece che fragili pezzi di vetro, le stessero tirando addosso petali di fiori. Da morire dal ridere.
«Dimmi» 
L’urgenza nella voce di Dominique mi fa sentire bene. Vuole bene a James e a Fred. Sono la sua cricca e, per quanto la maggior parte del tempo li tratti come degli schiavetti, è davvero legata a loro. Sembra, in effetti, che siano loro i suoi veri fratelli e Victorie solo una lontana cugina.
«Ieri notte James, Fred e i gemelli Scamandro sono andati vicino al confine per completare quella cosa. Ma le guardie li hanno scoperti. Hanno cercato di scappare ma li hanno bloccati alla dogana. Fred è stato rispedito a casa perché è ancora minorenne, ma i fratelli Scamandro sono stati arrestati. Zia Ginny era sconvolta»
Dominique si lascia cadere su una sedia, spossata, e anche io sento il bisogno di afferrare qualcosa per non rovinare a terra. In prigione, condannati per sempre a marcire in delle celle che, anche senza Dissennatori a fare loro la guardia, sono capaci di risucchiarti l’anima. Guardie, uomini senza cuori, mercemaghi che trattano i loro prigionieri, anche quelli che devono ancora ricevere un processo, come criminali della peggior specie. Scappati, morti, scomparsi per sempre, senza alcuna possibilità di tornare a casa.
Mi sento male.

***


«Victorie!» la voce di Dominique sale di un’ottava e assume una particolare sfumatura stridula «Se Fred è a casa e gli Scamandro in… in prigione… dov’è James?»
Victorie sposta lo sguardo verso il basso.
«Victorie… Vic… dove è James?» la voce di Dominique sembra quasi quella di una folle «Victorie, ti prego»
«James…» Victorie si interrompe «James è scappato, Dominique»

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Capitolo 10
*** 9 - Lo so, Rosie. Lo so. ***


 

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Angolo Autrice

Allora, cosa posso dire di questo capitolo se non che scriverlo è stato doloroso e stancante quasi quanto un parto con complicazioni?
Stranamente, però, ne sono abbastanza soddisfatta, per quanto il finale sia una specie di bomba ad orologeria pronta a scoppiare. Insomma può piacere come non può piacere, ecco.
Non vi aspettate una cosa allegra, comunque.
È ormai giunto il momento che Rose si renda conto che sta per morire. Una delle ragazze nelle recensioni mi ha chiesto come faccia Rose ad essere così tranquilla davanti alla prospettiva di morire a pochi giorni. Beh, la verità è che, lei, non ci pensa.
Non riesce a concepire di dover morire. Il suo cuore batte, lei parla, mangia. Vive.
Come può una persona accettare la propria morte così? Ok, si, in molti scoppierebbero a piangere ma Rose non è una piagnucolona (eccetto in questo capitolo, però, e anche un po’ nel prossimo, ma un po’ di autocommiserazione ci sta sempre).
Dunque, apprestiamoci al prossimo capitolo.
La faccenda del suggerimento di Audrey (leggerete dopo, non scervellatevi) è ovviamente ispirato da “Il canto della rivolta” il terzo libro della serie ma, d’altra parte, le informazioni e gli episodi che Rose ricorda sono di mia invenzione.
Altra domanda ricorrente. Dominique e James NON stanno insieme, nemmeno segretamente. Lei è una ragazza che va avanti da sola, uno spirito libero. Quanto a James… beh, lo conoscerete meglio nel seguito della storia, per ora dovete accontentarvi! U.U
Infine, ultimo avvertimento, fate ben attenzione alla penultima scena, c’è un dettaglio che può sembrare trascurabile ma che, in realtà, nasconde molto più di quanto pensiate. Quindi, dichiaro aperta, la CACCIA AL DETTAGLIO. Ditemi cosa ne pensate.
E preparate i fazzoletti.
Un bacione gigante.
Fra
P.S. il mio fantavolante allenatore, Derek Waywood (il cognome non vi ricorda nulla, voi che avete letto Shadowhunters?? :D) ha il volto di Garrett Hedlund (il figone che vedete nell’immagine sotto il titolo del capitolo. Se volete vedere i volti degli altri personaggi oltre che ai banner e altre creazioni obbrobbriose fatte da me sulla storia, passate da qui:
http://www.facebook.com/media/set/?set=a.105152609621350.6368.100003798341430&type=3
P.S. del P.S. ringrazio la mia favolosa Beta Clare perché ha creato quella meraviglia di banner. In verità non è l’unica ad avermi fatto un banner (anche le mie deliziose Aniva e Elizha si sono prodigate) ma, capitolo per capitolo, li posterò tutti. *.*
P.S. del P.S. ecco il link della mia one-shot su Dominique, scritta sulle note della meravigliosa “Valerie”, di Amy Winehouse. La storia è legata alla long in quanto ci sono alcuni riferimenti ma può essere letta anche senza aver completato “La Buona Sorte”.
Ecco, comunque:
Why don’t you come on over, Dominique?

 
 


Capitolo IX
Lo so, Rosie. Lo so.
 

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Cosa posso dire?
Lui tira fuori il peggio di me.
E, stranamente, io tiro fuori il meglio di lui.
- Gossip Girl

 
Quando, dopo la morte di mio padre, iniziai a soffrire di acute crisi di panico che mi impedivano di respirare con facilità, i miei parenti si affollarono intorno a me, proponendo tutti i metodi magici che venivano loro in mente per aiutarmi. Io provavo tutto senza protestare, ma finiva sempre nello stesso modo, con me stesa per terra o immobilizzata nel mezzo della stanza, le mani sul petto che premevano all’altezza del cuore e che cercavano invano di farlo battere; con me che chiudevo gli occhi e desideravo morire, anche quando Albus afferrava la mia mano e mi sussurrava piano che sarebbe andato tutto bene, che ne saremmo usciti insieme.
Io ero convinta, lo sapevo con una sicurezza tale che nessuno riuscì a smuovermi da quell’idea, che quella fosse la mia punizione, il mio peso da sopportare per aver lasciato che mio padre morisse davanti ai miei occhi senza fare niente.
Albus, quando iniziavo a colpevolizzarmi subito dopo essere riuscita a controllare gli attacchi, mi lasciava le mani e mi guardava con uno sguardo strano. E con quello sguardo sembrava quasi dirmi “Sei una stupida Rose, smettila”. Io abbassavo il capo e sembravo dirgli “Invece è colpa mia, io ero lì con lui. Lui mi ha detto di scappare e io l’ho fatto. Io sarei dovuta morire con lui, non avrei dovuto lasciarlo”.
E allora lui, mostrando quella meravigliosa parte di carattere che nascondeva al resto del mondo, mi metteva una mano sulla spalla – non mi abbracciava, Al non abbraccia mai nessuno, non ci riesce - e stringeva un po’ la presa, mi faceva alzare e mi accompagnava a letto, e sentivo la sua voce bassa nella mia testa, come se mi stesse parlando in un orecchio: “Lo so, Rose. Ma ora dormi, io rimango con te e non scapperò”.
Alla fine fu mia zia Audrey che, essendo di origini Babbane, si era informata anche nel mondo dei non-magici riguardo al mio problema per suggerirmi una soluzione. Aveva parlato del mio caso con un suo amico che faceva il dottore, lo pissicologo, tornando speranzosa e pronta a sottopormi ad un nuovo tentativo per sconfiggere letteralmente la paura. Mi spiegò che, in effetti, il vero problema che mi affliggeva era il senso di colpa che, misto all’ansia, ai problemi respiratori e ai ricordi terribili che roteavano furiosi nella mia mente, facevano in modo che il tutto si confondesse nella mia testa e mi fosse impossibile pensare ad altro che al tragico episodio che avevo vissuto.
Perciò il suggerimento del medico era stato quello: mentre cercavo di rallentare i battiti e tranquillizzarmi, avrei dovuto fare un semplice esercizio per riordinare i miei pensieri. In un primo momento dovevo semplicemente ricordare a me stessa qualcosa di semplice e istintivo, come il mio nome, o la mia età, o il mio indirizzo. Poi sarei dovuta passare a qualcosa di sempre più complicato e con argomentazioni più ampie:
 
 
Mi chiamo Rose Weasley. Ho dodici anni. La mia casa è il numero 15 di Fireless Street, Londra. La mia cuginetta si chiama Lily e mi ha appena mandato una lettera. Sono al secondo anno ad Hogwarts. Mio padre è morto da tre mesi. Katie Flint, la mia compagna di dormitorio, mi ha appena chiesto come sto. Katie Flint mi accarezza il braccio e mi guarda con compassione. Odio che Katie Flint mi guardi con compassione.
 
Mi chiamo Rose Weasley. Ho tredici anni. La mia casa è il numero 15 di Fireless Street, Londra. Mio cugino Fred è abbastanza stupido, ma simpatico. Mio cugino Fred ha una passione per i Fuochi ad Innesto ad Acqua del Dottor Filibustier. È il suo compleanno e Fred ha fatto partire un’intera cassa di fuochi in giardino. Zio George si sta congratulando con il figlio mentre zia Angelina è rossa dalla rabbia. Mio padre non c’è – colpa mia, solo mia -e mia madre è in un angolo e fissa il vuoto.
 
Mi chiamo Rose Weasley. Ho quattordici anni. La mia casa è il numero 15 di Fireless Street, Londra. Mia cugina Dominique sta partendo per un collegio femminile, in Francia. A me non piace Dominique e sono contenta che se ne vada. Zia Fleur piange, anche se ha deciso lei di mandare via la figlia. Mia madre, invece, piange la notte, quando crede che nessuno possa sentirla. Ma io la sento comunque.
 
Mi chiamo Rose Weasley. Ho diciassette anni. La mia casa è il numero 15 di Fireless Street, Londra. Mio fratello si chiama Hugo e il mio migliore amico è mio cugino Albus. Frequento l’ultimo anno ad Hogwarts. Ora sono in America, a Royàl, e sto per partecipare ai Giochi della Fame. Sono accucciata, nascosta dietro la porta della camera da letto di mia cugina Victorie. Al di là della porta, mia cugina Dominique piange e lancia un’altra statuetta contro il muro. James è scappato e probabilmente, una volta che l’avranno ritrovato, lo uccideranno.
 
Mi chiamo Rose Weasley. Ho diciassette anni. La mia casa è il numero 15 di Fireless Street, Londra. Probabilmente morirò fra qualche giorno. Sempre che io non muoia ora.
 
***
 
Non so come, ma improvvisamente mi ritrovo nella mia stanza. L’attacco di panico che mi ha colpito appena pochi minuti fa è ormai passato, ma ha lasciato strascichi di paura e di terrore che continuano a sconvolgermi.
Mi siedo per terra, incurante dello sguardo preoccupato che i quadri alle pareti mi rivolgono, mi attiro le gambe al petto e le cingo con le braccia. Metto la testa tra le ginocchia e cerco di calmarmi, ma dentro di me è tutto un subbuglio, un turbinio di ricordi e di emozioni.
E mio padre muore davanti ai miei occhi, di nuovo. E ancora, ancora, ancora.
Poi, mio padre si trasforma in James, il mio James, James che è andato a sbattere contro un albero con la moto di Sirius Black, James che nasconde un razzo nella torta di compleanno di zio Percy, James che sta sempre in sella alla sua scopa, James che si lascia abbindolare dagli occhi dolci di Lily e che abbraccia Albus, anche se poi sa che lo aspetta una fattura di quelle potenti, James che sorride sempre, che è come un piccolo sole… James che adesso è sperduto, solo, in pericolo, probabilmente ferito e che rischia la morte.
E le voci nella mia testa diventano sempre più assillanti, più alte, più confuse e davanti ai miei occhi sbarrati non c’è nulla, solo il vuoto, come quello che sembra interessare mia madre così tanto.
Andrà tutto bene. Andrà tutto bene. Andrà tutto bene.
«Rosie, corri! Corri e non ti fermare!»
James è in gamba, se la sa cavare.
«James è una delle persone più irresponsabili che conosca! Credo che se non ci fossi io, morirebbe di fame e di sete piuttosto che alzarsi dal suo letto!»
Smettila. Smettila. Smettila. Smettila.
«Sei una stupida, Rose, smettila»
«Rose, corri! Vattene da qui! Io arrivo subito! Papà arriva subito, Rosellina!»
«Non chiamarmi Rosellina, Malfoy!»
Basta. Smettila, ti prego.
Rose. Rose? Rose! Rosie! Rosellina?
«Rose, corri!»
 
«Rose?»
La luce accecante mi ferisce gli occhi e mi ritrovo a doverli aprire e chiudere un paio di volte prima che si abituino al cambiamento. Una volta che recupero la vista, mi ritrovo stesa sul divano rosso nel salottino del mio appartamento con il viso di Victorie a pochi centimetri dal mio.
Questo mi fa sobbalzare nuovamente e scattare seduta.
Victorie non si scompone, come suo solito, e mi fissa con un sopracciglio inarcato. Io sbatto più volte le palpebre e per quanto la situazione sia già di per sé assurda, avverto qualcosa di sbagliato, di diverso nell’aria. Quando alzo gli occhi e fisso il viso di mia cugina, finalmente capisco cosa c’è che stona: mi sta guardando con un’espressione strana, per la prima volta non vuota da quando sono arrivata qui.
E improvvisamente realizzo che lei sa.
Sa che ieri ero nascosta dietro la sua porta e che ho sentito la notizia di James. Lo sa, ma non dice niente e io non posso che esserne felice. Non credo che riuscirei a sopportare un’altra conversazione a cuore aperto, soprattutto non dopo quello che ho sentito, dopo il brutale allenamento di ieri e dopo il ricordo nitido di Albus che mi prende per mano e cerca di calmarmi.
Il dolore, quasi l’avessi richiamato con un fischio, torna a stringermi forte e mi sembra che una mano invisibile si sia serrata intorno al mio stomaco. Stringo forte la mano in un pugno per evitare di portarmela al petto e mostrare a Victorie quanto debole io sia.
Quest’ultima sembra aver capito nuovamente – dopotutto non è stata smistata, ai tempi, a Corvonero per niente - e continua il suo gioco del silenzio infinito. Io non dico nulla, perché al gioco del silenzio sono brava anch’io, e mi avvio in camera, a cambiarmi e a fare una doccia. Quando ritorno in salotto, Victorie è nella stessa posizione in cui l’ho lasciata e io mi ritrovo a pensare che, nella migliore delle ipotesi – uscire viva dall’arena -, io diventerò come lei: una pallida copia di quella che ero.
Scuoto la testa e mi avvio alla porta dell’appartamento. Victorie mi è accanto senza che nemmeno senta i suoi passi sul pavimento di legno. Non è sempre stata così silenziosa, ricordo.
Prima di entrare nell’arena la sua prerogativa principale sembrava essere quella di apparire, di farsi notare. Ora sembra solo voler scomparire e annegare tutto ciò che fa parte di lei.
Sto per uscire quando, inaspettatamente, mi mette una mano sulla spalla – come faceva Albus, sussurra il mio cuore - e inclina la testa in modo che i nostri sguardi si incontrino.
E poi, iniziamo a parlare. Non con le parole ma con quello strano alfabeto di gesti e di espressioni che, a furia di stare con Albus e mia madre, ho imparato a comprendere tanto bene quanto l’inglese.
I suoi occhi dicono: “Lo so, Rosie. Mi dispiace”. E i miei rispondono: “Fra qualche giorno sarà finita, in un modo o nell’altro. Non ci perdiamo in sentimentalismi. Sono l’ultima cosa che mi serve al momento”.
Camminiamo una a fianco all’altra fino ad arrivare nella grande mensa dove ho fatto colazione anche il giorno prima. Gli altri sono già tutti lì.
Dominique sta in un angolo, indossa un paio di occhiali da sole babbani enormi, quelli che fanno assomigliare ad una mosca anche la ragazza più bella. Potrebbe sembrare un accessorio mirato a completare un look perfetto ma, io lo so, sono lì solo per nascondere le occhiaie e gli occhi gonfi e rossi dal pianto. Al momento la mia stilista sta rimproverando Josie, la mia preparatrice dai capelli verdi, rea di aver ordinato un metro di raso anziché di taffetà come lei aveva “fottutamente chiesto ben dieci minuti fa”. Ma per una volta non mi sento in vena di giudicare il suo comportamento, perché i nostri stati d’animo sono identici.
Rachel sta blaterando convinta di qualcosa che, evidentemente, non sembra interessare minimamente né Derek, né Scorpius, seduti accanto a lei. Ma mentre il mio compagno cerca almeno di mostrarsi interessato, annuendo di tanto in tanto come la sua buona educazione da perfetto purosangue prevede, il mio allenatore fissa con uno sguardo malizioso Josie, che assume un colorito vicino al violaceo e si aggiusta i capelli sovrappensiero.
Quando entriamo in stanza, lo sguardo di Scorpius si posa su di me veloce come un fulmine. Io vorrei sorridere ma non ne ho neanche il tempo visto che lui gira subito il capo e, interrompendo il monologo di Rachel, chiede a Derek in cosa consisteranno gli allenamenti di oggi.
Il nostro allenatore interrompe il gioco di sguardi seducenti con la mia preparatrice e lo fissa per un attimo prima di rispondere. Intanto io mi lascio scivolare nella sedia accanto a lui, di fronte a Scorpius, che evita il mio sguardo fissando insistentemente la caffettiera.
«Dopo il primo allenamento di ieri mi sono fatto un’idea di cosa siete capaci di fare. Credo di aver trovato il modo per tirare fuori da voi il massimo delle capacità. Penetreremo a fondo nella vostra anima, ragazzini» commenta e, all’ultima frase, fissa insistentemente Josie che sembra sul punto di svenire. Solo dopo qualche secondo capisco il doppio senso presente nella frase.
Dominique, invece, sembra averlo capito da un pezzo, e infatti sbuffa, una ciocca di capelli biondi che cade davanti al vetro scuro degli occhiali.
«Sentite, raggi di sole, non è che potreste andare a copulare da un’altra parte? Non che io non apprezzi la vostra sfacciataggine, ma ci sono delle bambinette impressionabili qui» commenta sarcastica lanciando un’occhiatina di sfuggita ad una scandalizzatissima Rachel.
Josie balbetta qualcosa e se ne scappa ad ordinare del taffetà mentre Derek e Dominique si lanciano uno sguardo divertito. Per un attimo Dominique sembra essersi ripresa poi ritorna alla sua smorfia e capisco che sta pensando a quando prendeva in giro James, dicendogli che era una femminuccia pudica e timorosa.
Mi giro e, guardando davanti a me, incontro lo sguardo di Scorpius, fisso su di me. Stavolta non lo abbassa subito ma nemmeno sorride e io sento che la presa della mano invisibile si serra ancora di più sul mio stomaco.
 
Quando entro in palestra oggi, l’aspetto della sala è completamente diverso da quello del giorno precedente. Prima di tutto, l’armadio che conteneva il Molliccio Animale è stato fatto scomparire ed è stato sostituito da una specie di palco dalla forma quadrata, contornato da alcune funi.
Quando Derek nota che i nostri sguardi – il mio e quello di Scorpius, che si ostina ancora a non parlarmi - sono entrambi fissi su questa strana presenza, batte con forza la mani una sopra l’altra e se le sfrega con aria energica.
«Caramelline, questo è un ring da combattimento» esclama, mentre con un balzo fa presa su una delle funi che circondano lo spazio riservato alla lotta e si lascia cadere dall’altra parte con una grazia insospettabile per uno della sua stazza.
«Oggi ci concentreremo principalmente su come avviene una lotta dal lato fisico, alla Babbana. Ieri vi ho insegnato alcune mosse base su cui lavorare, se le vostre deliziose testoline se lo ricordano. Bene, oggi dovrete metterle in pratica»
Fa un attimo di pausa, come se volesse scrutare la nostra reazione ad una simile notizia «E le metterete in pratica contro di me»
Per un attimo il cuore perde un battito. Derek è circa tre volte me e neanche Scorpius sembra tranquillo davanti a questa nuova rivelazione. Da come la sua mano sale immediatamente allo zigomo destro – per poi cambiare rotta e andare a scompigliarsi i capelli già troppo in disordine - capisco che si ricorda benissimo del gancio che gli è stato rifilato ieri ancora prima di iniziare l’allenamento. E a giudicare dal livido violaceo che si sta formando, Derek non sembra esserci andato piano con lui.
«Che c’è caramelline?» chiede Derek, comodamente appollaiato su una delle funi, con un piede sul ring e uno che penzola in aria dall’altra parte «Avete paura, per caso? Che c’è, nessuno ha il coraggio di venire qui a sfidarmi? E come pensate di sopravvivere, poi? Chiamando papino e mammina?»
Derek ridacchia e il sangue prende a scorrere sempre più velocemente dentro di me. Come si permette? Come si permette di dire così? Di dare per scontato cose che non sa? Come si permette di nominare anche solo per un attimo mio padre? Come si permette di mettere in dubbio il mio essere coraggiosa e Grifondoro?
Per un attimo continua a persistere un silenzio incredulo e continuo, poi qualcosa si smuove dentro di me e, senza nemmeno capire come e perché, decido che è arrivato il momento di dimostrare a questo stronzo di che pasta siamo fatti noi Grifondoro.
Dopotutto Lily me lo dice sempre: cavalleria e audacia sono gli aggettivi per i perfetti Grifondoro. La prima è prettamente maschile ma, la seconda… non necessariamente.
Scavalco il ring senza dire nulla ma senza interrompere il contatto visivo con Derek. Lui scoppia a ridere e butta indietro la testa.
E improvvisamente mi sento percorsa da una scarica di adrenalina che mi fa stringere ancora più forte i pugni all’altezza del petto, una rabbia improvvisa che mi fa venire voglia di buttare tutto per aria e di fregarmene delle conseguenze, una carica omicida che mi spinge a gettarmi di scatto contro il mio avversario e a tempestarlo di pugni e di calci, cercando di eliminare con lui tutti i demoni che infestano i miei sogni.
 
Derek mi ha stesa in qualche minuto con una mossa particolarmente potente che mi ha fatta finire distesa sul ring, sotto il suo non tanto dolce peso, con una guancia schiacciata contro il pavimento e il respiro rotto e incastrato in gola.
Anche adesso, dopo qualche minuto, mentre osservo il combattimento fra Scorpius e Derek seduta su una delle panchine addossate al muro, sento pesare su di me una profonda delusione e amarezza. Anzi, di più, mi sento umiliata.
Pensavo che, piena di fuoco e di rabbia com’ero per il commento sui miei genitori, sarei riuscita a battere il mio avversario in un attimo, sfoderando dal mio arsenale una di quelle favolose mosse che ho visto in quei film di lotta babbani che si vede Hugo. Ma Derek non ha battuto ciglio e mi ha bloccato le mani con una semplice presa. E mentre continuavo a dimenarmi come un’anguilla lui rideva. Rideva come se fosse davanti allo spettacolo più divertente ed entusiasmante del mondo. Rideva come ride Rachel alla prospettiva di fare soldi con la nostra morte, come rideranno tutti i telespettatori che assisteranno in diretta alla mia morte, lì nell’arena. Rideva come se sapesse già delle mie speranze nulle di uscire viva.
E più rideva, più io perdevo il controllo. E più perdevo il controllo, più cercavo di liberarmi della sua presa per fargli vedere di che pasta sono fatta. E più cercavo di liberarmi, più lui rideva.
E la sua risata era come sale su una ferita aperta e sanguinante.
Alla fine sono riuscita a tirargli un pugno in pieno stomaco e, approfittando della sorpresa e del dolore che lo hanno colpito, sono riuscita a liberarmi dalla sua presa e ho lasciato il ring.
Serro forte i pugni, così forte che le nocche diventano bianche e avverto un certo dolore alle dita; per cercare di calmarmi, mi soffermo sulla lotta che sta avvenendo in questi momento sul ring.
Come ho già avuto modo di notare ieri, Scorpius è molto più lento di me nell’attaccare. Ma oggi ha qualcosa di strano, ancora più del solito. Sembra perso in pensieri che non sembrano avere nulla a che vedere con la lotta e che ciò gli impedisca di attaccare Derek e usufruire di tutti i punti che il mio allenatore sta lasciando scoperti.
Anche quando Derek fa per attaccarlo lui si limita ad abbassarsi e quando gli si presenta la possibilità di colpire l’avversario lui continua imperterrito con il suo broncio. Sembra che non gli importi molto del combattimento in generale, a dirla tutta.
Così, quando Derek indietreggia di qualche passo e tende il braccio pronto a colpirlo, so già che lo prenderà. E che il mio compagno non riuscirà ad abbassarsi, preso com’è a fissare il pavimento.
Che cosa aspetti stupido? Alza lo sguardo! Alza lo sguardo e scansati!
Derek sferra il suo micidiale gancio destro e, dalla posizione dei suoi piedi, capisco che sta attuando la stessa mossa che ha provato con me qualche secondo fa e che mi ha fatto finire distesa al suolo.
Il pugno è a circa due centimetri scarsi dal viso di Scorpius quando quest’ultimo si muove di colpo e si scansa con un gesto veloce e preciso, afferrando una delle funi che delimitano il ring e osservando con un sorrisino sardonico Derek che, per il contraccolpo e lo slancio datosi in precedenza, è franato in avanti.
Si è mosso così velocemente da apparire indistinto e la sorpresa che mi pervade è tale da costringermi a fissare spudoratamente la scenetta che si presenta ai miei occhi sbarrati.
«Hai dei buoni riflessi, ragazzone» esclama il mio compagno mentre con un salto si avvicina alla figura carponi di Derek e gli porge una mano per aiutarlo a rialzarsi «Ma dobbiamo lavorare sull’atterraggio»
Scorpius sorride e io ricordo che sono le stesse parole che Derek gli rivolse il primo giorno, quando ancora prima di presentarci ufficialmente, gli tirò un gancio destro con una potenza tale da farlo cadere al suolo e lasciargli un grosso livido violaceo sulla guancia.
Derek rimane per un attimo imbambolato, fissa la mano di Scorpius come se non ne avesse mai vista una. Poi, con una lentezza estenuante, alza la testa verso di lui - Merlino ora lo ammazza! - e, inspiegabilmente, scoppia a ridere.
Ride, ride di cuore, afferra la mano di Scorpius come se non fosse successo nulla e si tira su, spazzando via il sottile strato di polvere che ricopre i suoi pantaloni.
 
Derek ha assegnato a Scorpius un manichino dotato di bacchetta capace di attaccarlo sia con calci e pugni, sia con poderosi incantesimi. Ora, infatti, è intento a schivare una delle tante mosse offensive che l’umanoide gli riserva. Mentre lo guardo combattere noto quanto, in lui, sia solo strategia.
La postura eretta e l’espressione sempre calma sembrano essere scomparse del tutto, sostituite da una strana frenesia nel rispondere agli attacchi. Sta perdendo il controllo e il suo modo di lottare è completamente diverso da quello che aveva riservato nello scontro con Derek. O forse, più semplicemente, gli attacchi e le insidie di questo combattimento sono maggiori di quelle del precedente e si trova a dover essere più partecipe.
Derek, accanto a me, lo fissa con un sorrisetto enigmatico. Poi, all’improvviso, mi mette una mano sulla spalla e io scatto, già pronta a colpire – o a scappare, dipende - credendo che sia un altro dei suoi trucchetti odiosi per buttare giù non solo il mio corpo ma anche la mia autostima.
«Ehi, tesorino, calmati!» esclama alzando entrambe le mani sopra la testa, in segno di resa «Per quanto apprezzi il tuo carattere esuberante e il tuo istinto omicida, questa volta dovrai ritirare gli artigli e seguirmi»
Fa una risatina, compiaciuto da quella che per lui è la battuta del secolo, poi si avvia verso un angolo della palestra.
Appesa al muro e protetta da una teca di vetro, c’è una collezione invidiabile di coltelli. Sorrido insistentemente quando capisco che, probabilmente, il mio modo di lottare deve averlo colpito a tal punto da passare direttamente all’apprendimento e all’uso delle armi.
Derek arriva proprio davanti alla teca e, affiancandosi ad un tavolino posto proprio lì sotto, si gira verso di me sorridendo.
«Ho osservato il tuo modo di combattere, Rose» inizia, e io cerco di sorridere un po’ di meno, sebbene dentro di me senta un vago senso di soddisfazione.
Coltelli. Coltelli. Imparerò ad usare i coltelli! Sarà un vantaggio enorme, per me.
Derek si siede sul tavolo e mi fissa con una strana espressione.
«Non va bene, Rose. Ti lasci prendere dalla rabbia. Che è esattamente quello che non devi fare. Se ti lasci coinvolgere troppo da ciò che ti accade attorno, se reagisci alle provocazioni e vai incontro a qualcosa che è più grande di te con troppa leggerezza finirai per essere schiacciata. Come un moscerino, Rose. Come un piccolo, inutile, moscerino»
Le mie mani sono strette in due pugni e questo a Derek non sfugge. Si china su di me e afferra la sinistra, la solleva fino all’altezza dei miei occhi e poi me la avvicina al viso, scrollandola un po’. La sua espressione è trionfante e soddisfatta, e l’unica cosa che vorrei fare adesso è tirargli un pugno e cancellarla dalla sua orribile faccia.
«Visto? Non sai controllarti, Rosie» esclama usando il vezzeggiativo con cui mi chiamano a casa.
Tutto mi sembra così… ingiusto. E sbagliato. È ovvio che io sia arrabbiata! Sto per morire in uno spettacolo da circo! Come si può pretendere che io non lo sia? Derek non può biasimarmi se l’unica cosa che posso fare è buttarmi nella lotta a testa china e cercare un modo per uscirne viva.
La rabbia è una cosa positiva. La rabbia mi rende forte e coraggiosa. La rabbia mi fa andare avanti.
Sento che gli occhi iniziano a pizzicarmi e mi odio.
Non voglio scoppiare a piangere ora. Anche se il mio allenatore è uno stronzo insensibile. Anche se non ha la minima possibilità di tornare a casa, a questo punto. Anche se, dietro di me, Scorpius ha abbattuto il suo manichino e sento il suo sguardo sulla mia schiena.
«Rose» la voce di Derek è stranamente gentile e carezzevole e quando incontro i suoi occhi li trovo leggermente socchiusi, simili a quelli di un gatto in un certo senso, e altrettanto sfuggevoli «La rabbia non ti poterà da nessuna parte. So che pensi che ti stia facendo un dispetto o che non sia interessato alla tua sopravvivenza, ma davvero, devi imparare a controllarti. Non puoi scoppiare a piangere e sperare che il tuo nemico si impietosisca! Tu non sai controllarti!»
Le sue parole, che fino a questo momento sembravano essere state in grado di calmarmi, riprendono a graffiare il mio orgoglio e, davvero, non riesco a resistere alla provocazione che mi si sta presentando. Fa parte del mio essere Grifondoro, del mio essere Rose.
Improvvisamente penso che non mi importa di quello che dice Derek. Io so che posso avere buone possibilità di vittoria solo grazie alla rabbia e all’odio che conservo dentro di me.
«Io so controllarmi benissimo» dico a denti stretti e con i pugni serrati.
«Non è vero»
La sfumatura di dolcezza che la sua voce aveva assunto qualche istante prima sparisce completamente e riprende ad essere colma del solito menefreghismo.
«Sì, invece. E credo di potermela benissimo cavare senza di te!» esclamo senza nemmeno sapere a cosa mi porterà questa scelta dell’ultimo momento. Ma non sto molto a ragionarci e, girando velocemente su me stessa, mi avvio verso la porta della palestra. Questa è l’ultima volta che ci entro. O almeno, visto che non intendo comunque darmi per vinta, è l’ultima volta che ci entro per obbedire alle stupidaggini sparate da Derek.
Io non ho problemi di gestione della rabbia, penso mentre con una spallata irrompo nel mio appartamento e mi chiudo la porta alle spalle.
I quadri che ho visionato con tanta cura ieri mattina sono ora tutti sveglissimi e mi fissano con curiosità dalle loro cornici preziose. Lancio un’occhiata veloce alla tela di Stephanie, ma lei non c’è, così mi lascio cadere su una delle poltrone.
Ho voglia di spaccare tutto, per dimostrare a tutti che sono forte e, allo stesso tempo, di rannicchiarmi su me stessa e piangere, perché mi sento schifosamente debole.
 
Bussano più volte alla mia porta.
Derek, arrabbiato, che mi urla di non fare la bambina piccola. Rachel, sconvolta, che si limita a squittire alcune volte, isterica. Persino Josie e gli altri preparatori si fermano a parlarmi oltre la porta. Pensano che io sia sconvolta, che abbia paura di ciò che sta per succedermi, di andare nell’arena.
Ma la verità è che sento solo un vuoto dentro di me e non riesco a pensare a nient’altro che a James, solo, al buio, e a quello che potrebbe accadergli.
Alla fine, poi, arriva anche Scorpius. Non mi dice nulla, si limita a sedersi sul pavimento, le spalle poggiate contro il legno della porta e le mani che si muovono febbrilmente, giocherellando con il braccialetto di corda. Lo osservo dallo spioncino della porta per un po’ e poggio l’orecchio contro il pannello, ma lui continua a stare zitto perciò, dopo un po’, ci rinuncio. Così mi lascio scivolare lungo la parete liscia e mi siedo sul pavimento anch’io.
Poggio la schiena contro la porta, esattamente all’opposto di dove è lui, con solo il legno a dividerci e penso che sembra una di quelle squallide commedie romantiche in cui i due innamorati sono così vicini da essere distanti.
Poi, e non so nemmeno come o perché, scoppio a piangere.
Piango un po’ per tutto: per James, per i Giochi, per Scorpius.
Per me.
E Scorpius rimane in silenzio, ma so che c’è. Come quella volta al primo anno, nel parco di Hogwarts, sotto la pioggia battente e con in mano uno stupido quadrifoglio spiegazzato.
E come se me lo avesse sussurrato nell’orecchio, sento la sua voce che mi dice, con un sospiro triste: “Lo so, Rosie. Lo so”

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Capitolo 11
*** 10 - Dovremo contare sull'effetto sorpresa ***


Questo capitolo è dedicato a molte persone.
Alle meravigliose quattordici ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo e che non mi abbandonano mai, anche se pubblico dopo mesi e non mi faccio sentire.
Alle nuove amiche che sto conoscendo su Facebook e con cui mi trovo, se è possibile, ogni giorno meglio. Ci conosciamo da poco, ma siete già importantissime.
E, infine, a quelle vecchie, di amiche. Perchè, se mi gettassi da un ponte, prenderebbero un gommone e verrebbero a salvare il mio stupido culo. (???)
Si, sono particolarmente in vena oggi.
Ma lasciamo perdere.
Vi lascio al capitolo e vi prometto di recensire il prima possibile.
Love all you.
Fra
P.S. Non uccidetemi, il capitolo finisce in modo... come dire...? Sorprendente.
Come sempre grazie a Clare Esse per essere la migliore beta del mondo. <3



Capitolo X

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-Solo ricorda, non scusarti.
Non dire loro quanto è difficile per te.
[Tra le nuvole

 
Quando mi sveglio, mi accorgo di essermi addormentata accovacciata per terra e mentre sento la mia schiena protestare animatamente per il dolore a cui è stata sottoposta, decido che almeno fino all’inizio dei Giochi dormirò sul letto come ogni persona normale.
Non riesco a resistere alla tentazione di dare una sbirciatina dietro alla porta: non so perché la cosa mi deluda tanto, ma Scorpius se ne è andato. Mi do della stupida: è ovvio che il principino non avrebbe mai passato la notte sul pavimento fuori dalla mia stanza.
Non siamo in una favola, stiamo vivendo un incubo.
Mentre mi avvio verso il bagno, passo davanti alle pareti dei quadri e stranamente neanche oggi Stephanie è nella sua cornice. Un po’ mi dispiace: mi era piuttosto simpatica e vedere il quadro vuoto, lo sfondo scuro senza il suo viso allegro e il sorriso smagliante ad illuminarlo mi deprime alquanto.
Forse è meglio così. Una persona in meno a cui dire addio fra qualche giorno e di cui sentire la mancanza.
«Se n’è andata» commenta una voce acuta alle mie spalle «Finalmente, direi. Non la sopportavo»
Quando mi giro, un paio di occhi scuri, molto diversi da quelli di Stephanie, mi fissano al di là della loro cornice. È la ragazza del “Bacio”. Questa mattina, a differenza della prima volta che ho osservato il suo quadro, è sveglissima e mi fissa insistentemente. Il ragazzo ritratto con lei dorme ancora, un’espressione pacifica in volto e il petto che si alza e si abbassa regolarmente.
«Cosa?» chiedo avvicinandomi di più «Perché?»
«Beh, perché era odiosa, ecco! Sempre con quei suoi piagnistei e con quel “non mi importa di essere un quadro”! Davvero insopportabile! Certo, anch’io preferirei non essere confinata qua dentro con la sola compagnia di George e con solo questo vestito, ma mica asfissio tutti gli altri quadri!» esclama la figurina, avvicinandosi di più, tanto da sembrare sul punto di fare uno strano tuffo in avanti «E poi era sempre un “Sybil non la finisce di lamentarsi”, “Sybil è davvero stupida” e cose del genere… come se non l’avessi capito che le piaceva il mio George!»
Lancia un’occhiata dolce, la prima che vedo sul suo viso, al ragazzo addormentato sugli scalini.
«Ok… ma perché se ne è andata? Pensavo che voi quadri… insomma… non potete spostarvi solo di quadro in quadro?» chiedo, mentre inizio a risentire della stanchezza dovuta alla notte quasi completamente insonne e del dolore alla schiena.
«Beh, lei non è un vero quadro rispettabile come me. O come George. Ma sta’ tranquilla, in serata ne arriverà uno nuovo»
Si stringe nelle spalle, aggiustandosi la gonna azzurra del vestito con piccoli colpetti delle dita e osservando il suo lavoro corrucciata «Merlino, quanto vorrei che il pittore mi avesse dipinto addosso un bel vestito rosso, di quelli con lo spacco. Il celeste non mi dona affatto, non credi?»
«Stai bene» rispondo automaticamente mentre cerco di decifrare le sue parole. In che senso Stephanie non è un quadro rispettabile? Esistono forse i quadri fuorilegge? Mentalmente scoppio a ridere per l’assurdità del mio pensiero.
Sybil si agita dentro la cornice e blatera di quanto il raso sia uno dei tessuti peggiori, di quanto sia fastidioso indossarlo ogni giorno e agita i lunghi boccoli neri sistemandoseli sulle spalle. È particolarmente graziosa, con la corporatura esile, i capelli lunghi fino a metà schiena, la pelle bianca e le efelidi che le punteggiano deliziosamente le guance rosate.
«Cosa vuol dire che stasera ne arriverà uno nuovo?» chiedo, interrompendola a metà della sua ardente critica al gusto del pittore, mentre penso freneticamente ai significati che possa avere.
Lei rimane zitta per un po’, imbarazzata, e si guarda intorno come alla ricerca di qualcosa «Beh, non dovrei dirtelo, ma…» inizia, ma un tonfo fuori dalla porta la fa sobbalzare e correre alla sua posizione iniziale, sulle scale accanto a George.
Qualcuno inizia a bussare con forza alla porta, ma io, furiosa oltre ogni limite per tale interruzione, mi avvicino al quadro e sussurro: «Cosa? Sybil? Cosa non dovresti dirmi?»
Ma Sybil si è accoccolata sul suo ragazzo e ha chiuso gli occhi, e io non posso fare a meno di dare un calcio alla gamba di uno dei tavolini.
 
Non ho nemmeno il tempo di aprire completamente la porta che qualcosa mi colpisce la guancia e mi ritrovo a pararmi il viso con le mani alzate.
Quando non mi arriva niente, alzo finalmente gli occhi e mi trovo davanti una Dominique dal viso rosso e dal respiro ansante, la mano destra ancora sollevata in aria. Per un attimo rimango immobile, incredula. Mi ha davvero colpita? Mi ha tirato uno schiaffo?
La mia guancia pulsa, così come il mio orgoglio e, senza starci a pensare molto, alzo anch’io una mano, pronta a rispondere all’attacco. È stato un riflesso involontario, ma Dominique è comunque abbastanza veloce e forte da bloccare la mia mano e stringerla fino a farmi male.
«Tu sei una stupida, Rose Weasley!» urla, e le sue unghie affondano nella carne del mio braccio «Cosa ti è saltato in mente, ieri? Abbandonare gli allenamenti?»
Il fatto che le luci della mia camera abbiano iniziato a lampeggiare pericolosamente non mi sorprende più di tanto. Sin da quando era piccola, Dominique ha sempre avuto problemi a controllare la sua energia e, a volte, quando perdeva completamente il controllo, capitava che provocasse scoppi di magia accidentale. Faceva esplodere gli oggetti, rompere i vetri delle finestre, sbattere le porte e andar via la luce. Con il passare degli anni è riuscita ad affinare una tecnica di rilassamento, ma talvolta capitano ancora episodi di questo genere.
Non dico niente, un po’ per non farla arrabbiare, un po’ perché, questa notte, una volta che i miei singhiozzi hanno smesso di sconvolgermi ho capito di avere esagerato, e lei rimane davanti alla porta, il petto che si alza e si abbassa velocemente.
Dominique fissa la sua mano ancora alzata, sconvolta. La guarda come se la vedesse ora per la prima volta, completamente stranita. Poi la stringe di colpo in un pugno e si muove così in fretta da apparirmi indistinta. Per un riflesso incondizionato faccio per pararmi il viso con le mani, senza avere la minima idea di cosa stia per succedermi finché non mi ritrovo con il suo capo poggiato sulla mia spalla, stretta in un abbraccio, il primo in cui sono coinvolta dal mio arrivo qui, che mi lascia sorpresa oltre ogni limite.
Non mi sorprende tanto il gesto. Dominique, per quanto sia sempre stata una tipa piuttosto solitaria, uno spirito libero che nessuno è mai riuscito ad incastrare o a domare, ha sempre creduto fermamente nell’importanza del contatto fisico, anche più delle parole.
Ma, dopotutto, è sempre stato il suo motto: agire, invece che rimanere a riflettere sul da farsi.
No, la cosa che più mi sorprende è il modo in cui, mentre mi tiene stretta, mi sussurra nell’orecchio con voce agitata e piena di un qualcosa che non riesco a decifrare: «Scusami Rose, scusami»
Non ricordo di aver mai, mai sentito Dominique scusarsi per qualcosa. Ma credo che dirlo a me non conti. Fra qualche giorno sarò morta e non potrò comunque andare a dirlo in giro.
Quando si stacca da me, noto due cose contemporaneamente: la prima è che la luce è tornata ed ha smesso di lampeggiare sinistramente come qualche secondo fa; la seconda, è un’ombra di tristezza che infonde gli occhi gonfi di mia cugina, a pochi centimetri dei miei, come se fosse sul punto di scoppiare a piangere.
Merlino, Dominique. Non piangere. Non farlo, almeno tu.
Perché lo so benissimo, se ora Dominique scoppia a piangere, tutto diventerà così maledettamente vero. E se diventa vero, non potrò scappare via, non potrò fare a meno di crollare anche io.
Quando si allontana velocemente da me, dopo pochi secondi, entrando finalmente nella mia camera e chiudendosi la porta del mio appartamento alle spalle, nei suoi occhi si è riaccesa la solita scintilla che li rende così vivi, brillanti quasi.
«Bene, Rosie» esclama lasciandosi cadere con grazia innata sul divanetto rosso al centro della stanza. Accavalla le gambe fasciate dalle calze nere, probabilmente di seta, e si aggiusta il filo di perle attorno al collo «Facciamo così. Tu non racconti a nessuno questo episodio e io non andrò a dire in giro che tu e il tuo amichetto ieri avete fatto gli innamorati sventurati divisi da una porta»
Abbasso gli occhi, lievemente in imbarazzo. Non tanto per il commento mirato e malizioso di mia cugina, ma più che altro per il modo in cui l’ha detto, con un sorrisino quasi di scherno e gli occhi che le brillano divertiti. Finalmente riesco a rivedere in lei la Dominique a cui, anche se sembra impossibile perfino a me stessa, stavo iniziando ad affezionarmi prima della fuga di James.
Evidentemente non si aspetta che io risponda perché afferra una delle miniature poggiate sul tavolino in vetro davanti a lei e inizia a giocherellarci. Per un attimo ho quasi paura che ricominci a tirarle contro il muro.
«Comunque, Rossa» sospira profondamente, e per un attimo smette di passare l’oggetto da una mano all’altra «Oggi c’è allenamento di gruppo. E visto che hai deciso di mandare al bel paese uno dei pochi alleati che avevi fuori dall’arena, che fra parentesi sta diventando insopportabile e pretende le tue più sentite e sincere scuse, e Vic si sta occupando del tuo amichetto, sarò io a spiegarti come funziona»
Sapevo che oggi era previsto il primo allenamento a porte aperte con il resto dei concorrenti e, anche se solo per un attimo, il mio corpo viene percorso da un’irrazionale moto di paura e inadeguatezza. Ma questa sensazione sparisce di colpo, sostituita da una buona dose di perplessità e curiosità.
«Victorie è con Scorpius?» chiedo e sento uno strano groppo alla gola.
So che non dovrebbe sorprendermi tanto tutto questo. È risaputo che il mentore debba scegliere solo uno dei suoi protetti e aiutarlo in tutto e per tutto, in modo che riesca a uscire vivo dal Gioco. Così come è noto a tutti che il mentore debba scegliere chi è maggiormente degno sin dalla fase pre-arena e sostenerlo nei vari allenamenti e nella preparazione delle interviste finali.
E non dovrebbe nemmeno sorprendermi che Victorie abbia scelto Scorpius. Lui è così bravo a combattere, così carismatico e pieno di vita, con la risposta pronta e il sorriso sempre sulle labbra. Ed è un Corvonero intelligente, una mente affine a quella di mia cugina che ha sempre avuto poco da spartire con me, una povera Grifondoro che, davanti alla morte, si mette a fare la bambina orgogliosa e rifiuta l’aiuto del suo allenatore.
Se anche all’inizio Victorie avesse deciso di aiutare me, e la delusione che provo mi fa capire che in fondo ci speravo, mi sono giocata tutto con la scenata di ieri.
Derek e Victorie sono ormai parzialmente contro di me e spudoratamente a favore del mio avversario. Mi resta solo Dominique.
Alzo lo sguardo verso mia cugina, che come sempre sembra fregarsene dei miei pensieri ingarbugliati e si sta aggiustando la maglia nera in modo che il giro di perle bianche risalti sul tessuto scuro. Non sembra per niente interessata alla mia sopravvivenza.
Oh, certo. Soffrirà per la mia morte come, ne sono convinta, soffrirà anche Scorpius. Ma il loro compito è quello di fare in modo che almeno uno di noi ritorni vivo. Non possono spendersi in sentimentalismi.
E Dominique, più di darmi un vantaggio con un bel vestito o suggerirmi una risposta maliziosa e sibillina da dare all’intervista, non può aiutarmi.
Sono sola.
Sono schifosamente sola.
 
Quando scendo a colazione, ignoro deliberatamente mia cugina, il che non è nemmeno troppo complicato perché il suo sguardo è fisso sulla caffettiera, e tento di ignorare Scorpius. E dico tento perché questa mattina sembra aver dimenticato di essere arrabbiato con me ed è tornato il solito bambino in overdose di Api Frizzole.
Sorride entusiasta, mangia carrettate di dolci che prima infilza nella forchetta d’argento e poi punta quasi fosse un’arma particolare contro una sinceramente spaventata Josie. Rachel osserva con un certo disappunto la sua particolarmente visibile vitalità e io stessa inizio a chiedermi quale sia la causa di tanto buon umore.
Non può essere a causa degli allenamenti, vero?
Nessuno sarebbe felice per questo, credo.
«Non vedo l’ora di conoscere gli altri concorrenti!» esclama, mandando giù un boccone particolarmente grosso del suo pancake.
Nessuno eccetto Scorpius “Sono-un-cretino-totale” Malfoy, ovviamente.
Sto per infrangere la promessa che mi sono fatta e rivolgergli la parola, quando una stranamente incupita Dominique – Ma qui sono tutti lunatici, Merlino? Dominique cinque secondi prima è tutta allegra e piena di vita e cinque secondi dopo sembra stranamente spenta. Per non parlare di Scorpius, che sembrava deciso a non rivolgermi mai più la parola fino a ieri e ora è tutto pieno di entusiasmo e di “Rose, non è fantastico?” - si muove irrequieta sulla sua sedia e si sporge in avanti, a pochi centimetri dalla forchetta sollevata a mezz’aria di Scorpius «Raggio di sole devi ucciderli, non farci amicizia!»
Questo commento, veritiero eppure così fuori posto, fa scendere il gelo più totale lungo l’intera tavolata e persino Josie, che sta blaterando da mezz’ora con Matt riferendogli della sua famosa festa a tema giaguari, si interrompe, gli occhi marroni spalancati.
Scorpius ha smesso improvvisamente di sorridere e, anche se posso contare solo sul riflesso deformato del mio cucchiaio per osservare il mio viso, riesco comunque a comprendere che nemmeno la mia espressione è delle più rilassate.
Scorpius sembra essersene accorto perché, quando rialzo gli occhi, mi fa un cenno del capo come a dirmi di stare tranquilla. Ma io lo ignoro, perché Victorie avrà anche deciso che vuole aiutare lui, ma in fondo questo non azzera completamente le mie possibilità e io non intendo arrendermi.
 
Verso le dieci, io, Scorpius e Derek, che ha passato l’intero viaggio in ascensore a ignorarmi completamente e a fissare ostinatamente il pannello dei pulsanti, scendiamo in quello che sembra essere il piano riservato agli allenamenti a porte aperte con gli altri tributi.
Come ho già avuto modo di notare, ogni piano è dotato di una palestra provvista di particolari attrezzature e diversi manichini incantati, in modo che i tributi possano allenarsi anche singolarmente con il loro allenatore o poter provare le proprie mosse speciali in gran segreto.
È quello che mi ha detto Dominique stamattina, mentre ci avviavamo verso la mensa.
«Non far capire agli altri concorrenti in cosa sei davvero brava. Sai lanciare i coltelli? Evita quella postazione. Te la cavi con l’arco? Non pensare nemmeno di usarlo. Visto che non possiamo puntare sul tuo charme o sul tuo talento nel farti degli amici nel pubblico, dobbiamo contare sull’effetto sorpresa»
A quel punto, forse mi sarei dovuta ritenere offesa, ma alla fine Dominique ha ragione. Non sono sexy. Non sono spiritosa. Non ho carisma. Non sono gentile ed educata. Non sono capace di sorridere come in una pubblicità di dentifrici. Posso solo contare su tanta forza di volontà e un grande, disperato desiderio di tornare a casa mia.
Un altro consiglio di Dominique è stato quello di spaziare tutte le discipline che ci verranno proposte «Anche se c’è un seminario su come non morire per mano di perfidi Asticelli, tu seguilo. Non sai cosa potrai trovare lì dentro. Magari metteranno degli Asticelli modificati e pronti ad ammazzarti con le loro gambette esili»
Le porte in vetro dell’ascensore si aprono su un’ampia stanza dalle pareti grigie. Al nostro arrivo, i volti di ben sedici tributi si alzano di scatto e, quando si rendono conto che non siamo gli istruttori che stanno evidentemente aspettando, tornano a farsi gli affari propri.
È preoccupante vedere come, anche se l’appuntamento era fissato per le dieci e un quarto, tutti siano già lì da molto prima. Evidentemente sono nervosi.
Io non sono nervosa. Affatto. Non mi tremano le gambe, non sento l’improvvisa voglia di correre via, non credo che riuscirei a vomitare o a piangere neanche se ne andasse della mia stessa vita - brutto gioco di parole, davvero brutto. Sento solo uno strano vuoto, una sensazione ovattata che mi trascina in un abisso sordo e muto, pieno di nulla.
Io e Scorpius ci affianchiamo ad una coppia di ragazzi che sembrano avere la nostra età e fissano insistentemente le porte davanti a noi.
Una volta appoggiatami al muro, incrocio le braccia al petto e inizio a darmi una prima occhiata in giro. La maggior parte dei tributi è compresa in una fascia di età fra i quindici e i diciassette anni. Fanno eccezione solo alcuni ragazzini che sembrano di poco più piccoli: un ragazzino dai capelli così chiari da sembrare bianchi, una ragazzina dai capelli castani che riconosco essere quella che arrossì davanti al sorriso malizioso di Scorpius alla parata, e una ragazzina minuta dai capelli rossicci che fissa spaurita il pavimento. È proprio quest’ultima ad impietosirmi di più.
Un’occhiata più dettagliata mi fa capire che è ancora più piccola di quanto pensassi, sui dodici o tredici anni. I suoi occhietti marroni sono spenti e gonfi, segno che ha pianto molto, e ha qualcosa nell’espressione del viso che mi fa capire che sì, è consapevole di non poter tornare a casa. Non viva, almeno.
Chi invece sembra essere sicuro della sua vittoria sono i sei ragazzi dalla carnagione pallida che si sono riuniti in un angolo della stanza. Per quanto i tratti somatici dei loro visi e le loro corporature siano diverse fra loro – uno ha le spalle larghe ed è ben piazzato, una ha l’aria da reginetta di concorsi di bellezza e l’altra sembra pronta ad ammazzare qualcuno anche ora, e così via - riconosco in tutti loro qualcosa che li accomuna.
Forse è la loro espressione. Persi nel vuoto davanti a loro, la postura dritta e rigida, le mani dietro la schiena o intrecciate garbatamente in grembo. Sembrano parenti, anche se sono così differenti.
«Sono di Dumstrang» sussurra una voce nel mio orecchio.
Mi trattengo dal ritrarmi di scatto e dal protestare per questa invasione del mio spazio personale solo perché, così facendo, porterei l’attenzione su di me. Ed è un’altra delle cose che Dom mi ha sconsigliato di fare.
Scorpius, dal canto suo, continua a sorridere, a suo agio. Però fissa anche lui di sottecchi il gruppetto che si è creato con una certa sollecitudine.
«Credo che saranno i più difficili da abbattere. Soprattutto se giocheranno alla “Grande Famiglia Del Nord”»
Si stringe nelle spalle e si passa una mano fra i capelli già troppo scompigliati «Ma ce la possiamo fare, penso. Credo che, presi singolarmente, alcuni di loro potrebbero risultare innocui»
In quel momento uno di loro alza lo sguardo, come se qualcuno lo avesse chiamato, e i suoi occhi di ghiaccio incontrano i miei. Non leggo paura o nervosismo nel suo sguardo. Solo forza e determinazione. E morte.
Distolgo velocemente lo sguardo e penso che lui, anche se preso da solo, non sarà mai abbastanza innocuo, almeno per i miei gusti.
 
La porta dell’ascensore si apre qualche minuto dopo e, questa volta, anche la mia testa si alza di scatto, girandosi in quella direzione, per poi riabbassarsi di nuovo quando ad uscirne sono gli ultimi due concorrenti dei Giochi, la ragazza spagnola e il suo compagno. Lei non sembra curarsi degli sguardi nervosi degli altri puntati addosso, anzi, sorride apertamente, come se la cosa la divertisse enormemente. Il ragazzo, invece, ha le mani così sprofondate nelle tasche che è tutto curvo in avanti. Ma almeno ha la decenza di non sorridere entusiasta al nostro indirizzo.
Quando anche loro prendono posto, lui appoggiato al muro di fronte a noi e lei seduta con le gambe incrociate su una delle panchine che arredano l’ambiente, tutti torniamo alla nostra precedente occupazione: fissare il vuoto davanti ai nostri occhi.
Decido che osservare l’atteggiamento dei miei futuri avversari non fa altro che rendermi più nervosa perciò passo i restanti cinque minuti a fissare il grande orologio a pendolo appeso alla parete, proprio sopra all’antipatica francesina con cui mi sono scontrata alla parata iniziale che oggi sembra aver perso il suo atteggiamento di superiorità, battendo ritmicamente il piede sul pavimento.
Alle dieci e un quarto spaccate le porte dell’ascensore in vetro si aprono nuovamente e, questa volta, scattiamo tutti e venti. C’è chi si tira su, chi si alza, chi si stacca dal muro, chi si aggiusta freneticamente la tenuta d’allenamento e chi semplicemente appare terrorizzato, come una delle ragazzine più piccole.
Sulla soglia ci sono tre persone, due uomini e una donna. Lei la riconosco: è Maya Nerubert, colei che, sin dalla prima edizione dei Giochi, è stata incaricata di gestire gli allenamenti dei partecipanti. Mi mette in soggezione.
Dovrebbe avere cinquanta anni, adesso. Sembra una di trenta. È rimasta uguale in tutti questi anni, sempre con il viso giovane, fresco e privo di rughe, con i capelli scuri acconciati alla perfezione e senza nemmeno una traccia del tempo che scorre. Probabilmente è ricorsa ad alcune magie estetiche per migliorare l’aspetto.
I due uomini, invece, sono molto diversi fra loro. Il primo è un tipetto mingherlino con i capelli neri e scompigliati, gli occhiali dalla montatura quadrata e un camice bianco. Il secondo è una montagna di muscoli di colore che ci fissa con i suoi occhi neri e profondi come pozze di petrolio. Improvvisamente penso alla prima volta che ho visto Derek, a come ho pensato che sembrasse un assassino. Ora, mentre lo cerco con lo sguardo, unica conferma di sostegno in questa stanza – anche se al momento i nostri rapporti non sono dei migliori -, mi sento quasi rassicurata nel vedere che ci sta guardando, a me e a Scorpius.
Quando si accorge della direzione del mio sguardo mi fa un cenno con la testa, come a darmi allo stesso tempo la sua benedizione e il suo perdono.
Mi sento stupida. Sono una stupida. Ho rifiutato l’unico aiuto che Royàl era stata disposta a darmi. Spero solo che questa sera sarà abbastanza disposto a darmi qualche consiglio e a riprendere ad allenarmi nelle lezioni private.
Maya si schiarisce la voce e, se è possibile, in sala scende ancora più silenzio.
Lei ci fissa per un po’, i lunghi capelli le ricadono sulla fronte ma lei non fa niente per spostarli. Poi, quando il silenzio diventa quasi insopportabile e alcuni dei tributi danno i primi sintomi di nervosismo e ansia, finalmente inizia a parlare.
«Benvenuti, tributi. Benvenuti alla venticinquesima edizione dei Giochi della Fame. Io sono Maya Nerubert, la responsabile che si occuperà di voi per questi allenamenti di gruppo. E questi sono Case Flint, mio collega e amico» fa un cenno all’uomo muscoloso che la affianca e quello china il capo, in un saluto rispettoso e distaccato «e il professor Tyler Zyne»
Quest’ultimo balbetta un saluto nervoso.
Maya fa una pausa in cui cammina adagio verso di noi. Tutti ci spostiamo di lato e lei, passando in mezzo al varco che abbiamo creato, arriva sino alla porta della palestra, ancora sigillata. A questo punto si gira verso di noi e ci guarda con uno strano scintillio in viso.
«Il tempo è molto importante, non credete?» chiede, e questa domanda ci lascia tutti perplessi mentre già alcuni dei concorrenti iniziano a lanciarsi occhiate confuse.
«Il tempo sancisce il ritmo della nostra vita e per quanto ci riguarda non ne abbiamo mai abbastanza. Vorremmo avere il tempo di fare molte cose nella nostra vita. Ma molto spesso, il tempo, che è un tiranno crudele, finisce prima di quanto ci si aspetti»
Il discorso di Maya continua a non assumere nessun significato ragionevole per me e mi ritrovo a fissare di sottecchi Scorpius, controllando che anche lui sia perplesso come me. Lo è, ma cerca di non farlo vedere e continua a fissare Maya assorto.
Maya sorride, enigmatica «Questa, ragazzi, è la venticinquesima edizione dei Giochi della Fame e, come tale, sancisce il passare di un quarto di secolo in cui la pace e la gloria di Royàl ha influenzato benevolmente il mondo. È un’occasione per festeggiare il tempo trascorso insieme. Perciò, quest’anno, le cose saranno un po’ diverse dal solito»
Questa volta nessuno riesce a trattenersi e, con poche eccezioni, tutti sembrano sconvolti e iniziano a sussurrare con i compagni di squadra o a lanciare occhiate ai loro allenatori. Anche questi ultimi, d’altra parte, sembrano perplessi e ci esortano al silenzio perché Maya possa continuare e spiegarci meglio.
«Prima ancora di entrare nell’arena vi verrà somministrata una pozione ideata dal qui presente dottor Zyne che… come posso dire? Segnerà il tempo che vi rimane. Apparirà sul vostro braccio un orologio a cinque cifre, dalle settimane ai secondi, che sancirà lo scorrere della vostra presenza nel gioco. Non appena atterrerete nell’arena il vostro orologio sarà calibrato per una settimana. Allo scadere del primo giorno, il tempo segnato dal vostro orologio inizierà a correre. E, beh, da quel momento in poi sarebbe meglio che iniziaste a correre anche voi»
Maya conclude il suo discorso con un sorrisetto che mi sento già in diritto di odiare.
«Non capisco» ammette un ragazzo dai capelli chiari, il compagno di squadra della bambina. Ha un’espressione perplessa in viso che rispecchia quella di molti di noi.
Maya ripete con calma lo stesso discorso e mi ritrovo a chiedermi se non l’abbia imparato a memoria. Non può ricordarlo così bene.
Una ragazza che ho osservato qualche minuto fa, quella che sembra essere una reginetta di bellezza, alza la mano, perplessa «Cioè, abbiamo un giorno di tempo prima che l’orologio si attivi e poi una settimana prima che il tempo si esaurisca, ma… insomma, cosa succede quando il tempo finisce?»
«Quando il tuo tempo finisce, muori» risponde Maya, il sorriso così fuori posto adesso.
La stanza è silenziosa, così silenziosa che potrebbe sentirsi cadere uno spillo.
All’improvviso non riesco più a respirare.
Come…? Cosa…? Perché…?
Non era già abbastanza difficile? Non bastava il vederci scannare per sopravvivere? Ora siamo anche cronometrati? Mi viene da piangere.
«In pratica…» esclama il ragazzo spagnolo e la sua voce bassa mi fa sussultare, persa come sono nei miei pensieri «In pratica dopo una settimana il Gioco finisce?»
«Oh, no!» Maya scuote la testa sorridente «Ogni volta che mettete fine ad un avversario guadagnate tutto il tempo che gli restava. Ogni volta che superate una prova particolarmente difficile o superate un ostacolo difficile vi vengono assegnate ore o giorni, a seconda della pericolosità dell’azione. Semplice, no?» chiede, come se tutto questo fosse normale.
Come se si divertisse a spiegarci nel dettaglio come moriremo.
Assomiglia tremendamente a Rachel.
Il ragazzo spagnolo serra i pugni e ribatte di nuovo, questa volta la voce più alta e accesa «E il vostro brillante programma ha pensato a cosa succederà quando rimarranno pochi concorrenti nell’arena? A quando non ci sarà tempo da prendere da altri o imprese da superare? Cosa pensate di fare? Non potete certo restare senza un vincitore, no?»
Quando finisce di parlare, il suo viso è teso ma comunque sorride, in un’imitazione del discorso semplice e facile su come moriremo di Maya.
La ragazza spagnola gli mette una mano sul braccio e gli lancia uno sguardo di ammonimento, preoccupata. Lui la ignora e continua a fissare Maya.
Dal modo in cui la spagnola sospira, comprendo che deve essere abituata a questi scatti d’ira del suo compagno e che, quest’idea mi colpisce forte allo stomaco, loro devono davvero essere stati amici – sono amici - prima dell’arena.
Maya ignora completamente il tono arrabbiato del ragazzo e sorride rassicurante «Oh, caro… ti chiami Nicolas, vero?» chiede e poi sorride senza aspettare una risposta «Non devi preoccuparti! Certo che il Gioco avrà un vincitore! Grazie agli sponsor! Se riuscirete a fare una buona impressione agli spettatori, loro potrebbero decidere di aiutarvi e di regalarvi minuti, ore e, perché no, giorni interi!»
Tutto si riduce a questo, penso. A fare colpo.
Improvvisamente penso a quello che mi ha detto stamattina Dominique: Visto che non possiamo puntare sul tuo charme o sul tuo talento nel farti degli amici nel pubblico, dobbiamo contare sull’effetto sorpresa.
Effetto sorpresa. Effetto sorpresa.
Ho cinque giorni per imparare tutto quello che hanno da insegnarmi, qui dentro.
E poi devo solo cercare di sorprendere il pubblico.
E, possibilmente, anche me stessa.
 
In molti fanno delle domande a Maya. Lei risponde sempre con quell’irritante sorrisino sulle labbra, come se stessimo parlando delle previsioni del tempo. Beh, quelle prevedono tuoni e fulmini in ogni caso.
Tempesta su di me e su tutti noi.
Quanto durerà? Oh, non so. Probabilmente fino a quando il nostro orologio continuerà a correre e il nostro cuore a battere. Ma non mi sento in diritto di fare delle ipotesi.
Ci sono molte persone intorno a me che parlano. Ma non riesco a sentire una parola di quello che dicono.
Io e Scorpius rimaniamo in silenzio, vicini ma distanti, come la scorsa notte. Poi lui mi tocca il braccio con la punta delle dita e vorrei morire. Perché questa tempesta non avrà fine fino a quando non finirò anch’io.
E a questo punto perché continuare, perché combattere?
Continuo a pensare tutto questo mentre Maya ci scorta dentro la palestra assegnataci per gli allenamenti e ci illustra i vari modi che abbiamo per far secco un avversario.
Con la magia ovviamente, con armi di tipo babbano, rubando il tempo del nemico fino a prosciugarlo completamente, spingendolo nelle fauci delle terribili creature magiche che popolano l’arena, facendogli ingurgitare per sbaglio erbe velenose – e qui elenca ogni singola pianta presente nel mio libro “Delle Erbe e dei Veleni” a cura di S. Collins, e così via.
E io penso che ci vuole davvero poco, in fin dei conti. Un movimento della bacchetta, un attimo di distrazione, un incontro sbagliato, il tempo che non basta e scorre inesorabile verso la tua fine.
Dopo una mezzora buona, Maya ci augura buona fortuna e ci lascia alle varie postazioni presenti nella palestra. Io e Scorpius, con un tacito accordo, decidiamo di procedere insieme.
E per il momento mi va bene così: sono troppo frastornata e terrorizzata per fare altrimenti.
E, fra tutte, la cosa che più mi spaventa e mi preoccupa è che Scorpius è nelle mie stesse condizioni. Non dico che è incapace di muoversi e tremante per la paura, ma i suoi occhi continuano a muoversi irrequieti, senza mai soffermarsi su niente.
Il ragazzo dagli occhi di ghiaccio, quello che ho deciso essere il capo della “Grande Famiglia Del Nord”, come li ha chiamati Scorpius, a pochi passi da me, lancia una maledizione che non riconosco ma che lascia dietro di se un lampo di luce viola e un manichino animato che si contorce sul pavimento per cinque interminabili minuti, prima di accasciarsi completamente con uno squarcio sulla parte che rappresenta il petto.
Io deglutisco e cerco di concentrarmi sui gesti dell’istruttore davanti a me, che al momento sta illustrando come si crea un’ottima trappola per conigli, ma poi il mio sguardo scivola un po’ più in là e vedo il tributo Norvegese – la bandierina in miniatura sulla sua divisa conferma le mie ipotesi sulla sua nazionalità - che si intrattiene con la sua compagna, quella con due buchi neri al posto degli occhi, a cui sussurra qualcosa, piano.
 
Cerco di non pensare a come sarebbe avere quei buchi neri puntati sul mio viso, magari con un coltello dalla lama particolarmente affilata a frapporsi fra noi.
Scorpius rimane zitto per tutto il resto della giornata e, confusamente, penso che non serve poi molto per fargli chiudere la bocca. Solo una minaccia di morte, altri diciotto ragazzi che intendono farti morire nel modo più doloroso possibile, e il sangue e il tempo che scorrono veloci nelle tue vene, inarrestabili.
Verso le sette, quando lasciamo la palestra, non ho nemmeno la forza di sentirmi stanca.
La verità? Sono terrorizzata. Non ho mai avuto più paura di adesso. Derek è davanti a noi e ci sta scortando verso la tavola calda al nostro piano. Non dice nulla e, per una volta, gliene sono grata.
È stata una giornata particolarmente dura e non credo che riuscirei a sopportare anche un semplice e spassionato commento. Victorie e Dominique ci stanno aspettando, in piedi davanti alla porta della mensa. Hanno entrambe le sopracciglia aggrottate e sono incredibilmente simili nella loro maschera di indifferenza e menefreghismo.
Per un attimo penso a come reagirebbe Dominique sapendo che l’ho paragonata a “Sua Perfezione Victorie”, poi scuoto la testa, perché la mia morte è vicina e i miei pensieri sembrano incapaci di soffermarsi su altro.
Una volta dentro la Sala Pasti, Derek spiega in breve la situazione, con una voce spenta che non ho mai sentito. Le mie cugine hanno due reazioni completamente opposte: se Dominique inizia ad urlare infuriata con il viso rosso e i vetri delle finestre che traballano pericolosamente, Victorie diventa, se possibile, ancora più calma e indifferente di quanto non fosse prima.
La fisso mentre, con estrema lentezza, inarca un sopracciglio, così tanto da farlo confondere con l’attaccatura dei capelli. Non un gesto, non una parola, non uno sguardo. Solo un’alzata di sopracciglio e quella sua solita espressione fuori dal mondo che ci riserva continuamente. La mia morte, la morte di Scorpius, la morte di diciannove ragazzini equivale a questo per lei. Ad un’alzata di sopracciglio.
Sento la rabbia, il dolore, la paura e il risentimento che mi scorrono veloci nelle vene e la voglia terribile di farla finita qui. Di salire sul tetto di questo stupido posto e di gettarmi sotto, di morire ora, che sono ancora innocente e le mie mani non sono ancora macchiate dal sangue. Di morire ora, per far vedere a questa gente che posso prendermi una mia piccola vendetta.
Ma non posso, perciò rimango lì, a fissare il sopracciglio di Victorie mentre finalmente anche Dominique sembra calmarsi. Derek, che ha un braccio sulla sua spalla, le sta sussurrando qualcosa all’orecchio e sembra volerla far ragionare, ma Dominique si libera dalla sua presa e esce dalla sala sbattendosi la porta alle spalle.
Derek fissa il vuoto davanti a se e dopo un po’ si gira verso di me «Il carattere irascibile allora è una caratteristica di famiglia?» chiede e per un attimo il mondo sembra smettere di pesare sulle mie spalle. Gli sorrido, perché sono così disperata e piena di tristezza che mi appiglio a qualsiasi aggancio mi venga proposto per tirarmi su.
«Chissà se lo è anche la tua capacità di dare sui nervi» sussurro e Derek si passa una mano fra i capelli, imbarazzato. Dopo essersi concesso un’ultima occhiata al corridoio vuoto dove è sparita Dominique, si stringe nelle spalle e ci dice di farci trovare pronti domani mattina, perché deve parlarci delle strategie da adottare nel prossimo allenamento di gruppo.
Il fatto che la richiesta non sia rivolta solo a Scorpius mi fa sentire un po’ meglio ma non troppo, così mi limito ad annuire e a guardarlo andare via, con una strana espressione impaziente, lungo lo stesso corridoio che ha percorso Dominique.
Sono ancora persa nei miei pensieri e vagamente infastidita per il comportamento di Derek –pensavo sarebbe rimasto a cena e invece ora sono sola con mia cugina e il suo pupillo - quando mi accorgo che i due appena nominati si sono avviati insieme verso la tavola imbandita.
So che non c’è nulla di strano in questo gesto. Sono abituata a essere lasciata indietro.
Ma sento la mia ormai famosa mano invisibile serrarsi intorno allo stomaco. Fino a questo momento mi sono fidata ciecamente. Ho sempre pensato che Victorie, pur preferendo Scorpius, sarebbe stata disposta ad aiutarmi, a darmi un minimo di sostegno. Ma non è così.
Fino a questo momento ho sempre avuto dentro di me, nascosta sotto chili di paura e disperazione, la speranza di riuscire a farcela. Mi sono continuata a ripetere, fino a convincermi davvero, che sarei riuscita ad uscire viva dall’arena. Che, in realtà, le cose si sarebbero concluse per il meglio. Che avrei vinto, perché non poteva essere altrimenti.
Perché il mio cuore batte ora e vorrei che battesse anche fra due settimane o più.
Ma non è così.
E non so perché, non so come e non so nemmeno in che modo ma, mentre fisso Victorie e Scorpius seduti a tavola che bisbigliano, il mio cuore accelera sempre di più e vorrei solo che si sbrigassero a farla finita. Chiudo gli occhi e, quando li riapro, mi trovo davanti alla realtà. E la realtà non prevede una mia sicura vittoria o un rapporto idilliaco con mia cugina o un mio trionfale ritorno a casa.
E mi viene da piangere, perché dopo aver passato tanto tempo rinchiusa nel mio piccolo mondo di cristallo, tutte le mie certezze stanno crollando e crollo anch’io. Come un insignificante castello di carte – non necessariamente quelle esplosive - vengo trascinata via da una folata insospettabilmente forte di vento e mi disperdo, mi disfaccio nell’aria.
Scorpius si gira verso di me e mi guarda, perplesso che io sia ancora impalata lì davanti alla porta. Fa un cenno del capo, come a chiedermi di sedermi e per un infinitesimale istante vorrei soltanto avvicinarmi a lui e piangere a dirotto, come questa notte.
Ma la realtà che adesso sono in grado di vedere mi blocca, ancorata al pavimento. Non posso abbracciare Scorpius, non posso piangere davanti a lui. Non dovrei nemmeno volere tutto questo. Lo voglio, certo. Perché nonostante tutto, lui sembra essere l’unico in grado di capire i sentimenti contrastanti che mi sconvolgono dentro alla prospettiva del tempo, il mio tempo che passa.
Ma non posso farlo perché, ah, quanto è dura e terribile la mia realtà, Scorpius morirà. O, in caso contrario, morirò io.
O tu o io, Malfoy. Non c’è tanta alternativa. Quindi smettila di guardarmi con quegli occhi.
La mia mente però ha registrato un pensiero ancora più molesto rispetto ai precedenti e ancora più terribile. E all’improvviso, nella mia mente non c’è più un ragazzino senza volto né identità, né Scorpius con i suoi occhi Foresta Proibita spalancati e vitrei, ma ci sono io.
Io riversa al suolo, con i capelli scomposti e gli occhi sbarrati.
Non ce la faccio.
Non ce la faccio.
I miei piedi si muovono praticamente da soli e mi getto in corridoio, correndo.
Non mi importa di cosa penseranno Scorpius e Victorie. Tanto sono diventati abbastanza amici, non saranno di certo infastiditi dalla mia mancanza o dalla prospettiva di fare due chiacchiere senza la mia asfissiante presenza.
Certo, Vic. Digli come farà ad uccidermi. Dagli i consigli giusti per farmi morire nelle più atroci sofferenze. Non guardarmi negli occhi, non preoccuparti nemmeno. Fa’ pure come se io non esistessi. Tanto fra poco tutto finirà e io smetterò di esistere per davvero.
Mi chiudo la porta alle spalle e singhiozzo. Mi ero detta che non avrei più pianto, che mi sarei allontanata da Scorpius e che sarei rimasta impassibile ad ogni tipo di evento.
Non sono mai stata in grado di mantenere le promesse, figuriamoci quelle fatte a me stessa.
Sybil, dalla sua cornice, mi fissa con i grandi occhi neri spalancati e il suo ragazzo - ha detto che si chiama George, vero? - le accarezza un braccio. Anche lui mi sta guardando. Tutti mi guardano e improvvisamente sento il disperato bisogno di una faccia amica.
Sto per riaprire nuovamente la porta e andare, non so, da Dominique o da Derek, quando una risatina strana mi fa bloccare di colpo.
Mi giro velocemente e percorro la stanza con lo sguardo: è vuota come sempre, e sto per abbassare la maniglia e andarmene, convinta che si sia trattata di un allucinazione, quando la stessa voce ride di nuovo. Appartiene ad un ragazzo, a giudicare dal tono baritonale su cui verte.
«Non avrei mai pensato che Rose Weasley fosse una piagnucolona. Dimmi Rosie, chi devo andare a picchiare? Non esiste che qualcuno, a parte me, ovviamente, faccia piangere così la mia piccola rossa!»
Il cuore mi batte veloce ma la mia mente lo è di più.
E, mentre mi giro verso l’angolo dove qualche ora prima c’era la cornice di Stephanie so già chi troverò al suo posto. Non so come o perché, ma so già che incontrerò un paio di occhi chiari e fini capelli biondi che ricadono sulla fronte alta di qualcuno che, per troppo tempo nella mia infanzia, sono stata costretta a sopportare. Ma adesso, sono stranamente felice di vederlo. Perciò mi avvicino a grandi passi all’ex-quadro di Stephanie e sorrido alla nuova figura rappresentata sullo sfondo scuro.
«Ciao, Lorcan»
 

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Capitolo 12
*** 11 - Cosa ti è successo, ragazzina? ***


Ehm... sono piuttosto in imbarazzo, in realtà.
Ecco non mi era mai capitato di aggiornare a distanza di così tanto tempo. So di non essere mai stata l'emblema della puntualità e mi dispiace infinitamente per questo ma... davvero, questa volta ho esagerato e mi sento dannatamente in colpa.
Ho avuto un orribile blocco dello scrittore (se, scrittore! Aspirante scrittore. Aspirante aspirante scrittore!) e ho continuato a rimandare la pubblicazione di questo capitolo per non so nemmeno quanto.
Per questo alcuni ringraziamenti sono assolutamente necessari.
Prima di tutto Bess, senza la quale non ci sarebbe stato nessun capitolo e che mi ha dato una spinta (o calcio nel fondoschiena, che rende di più) per riprendere ascrivere. A Fede che mi sopporta sempre e a Ivana senza i cui scleri non sarebbe più lo stesso.
Ma devo ringraziare anche tante altre persone. MarchHere (Giulia <3), che mi ha dato preziosi consigli nella recensione e che mi vizia con milioni di banner uno più meraviglioso dell'altro. A Daphne, Tefnut e Wynne perchè forse non leggeranno nemmeno queste righe ma poter conoscere le mie autrici preferite e scambiare qualche chiacchiera con loro mi sembra un sogno. A Marti e Alice per il sostegno.
E, sopratutto, a voi, se state ancora leggendo queste parole vuol dire che non sono una cos' pessima persona.
Grazie mille e scusate, scusate davvero.
Ci vediamo sotto.
Fra



Breve Riassunto Per Chi (A Ragione) Non Si Ricordasse Niente.
Rose, sempre più preoccupata per la sua sorte e quella del cugino, James, partecipa ai suoi primi allenamenti con li altri tributi. Qui scopre la variazione imposta ai giochi, per festeggiare la 25esima edizione: i giochi saranno cronometrati.
Sul braccio di ogni partecipante, alla fine del primo giorno, apparrà un orologio a cinque cifre (secondi, minuti, ore etc..). Queste cifre indicano il tempo rimasto al tributo nel gioco e il concorrente può, superando particolari ostacoli o uccidendo un avversario, guadgnare altro tempo. Quando/semmai l'orologio dovesse arrivare a segnare 00:00, allora la vita del tributo sarà interrotta.
Rose è sconvolta e scoprire sua cugina Victoire "fraternizzare" con Scorpius non la tranquillizza affatto.
Quando torna in camera, orami prossima ad una crisi isterica, ecco trovarsi, al posto del quadro di Stephanie, misteriosamente scomparsa.... Lorcan Scamandro, anche lui raffigurato in un quadro.
 

Dedicato a Clare, perchè anche con le pupille dilatate e  gli esami, riesce ad essere la Beta migliore del mondo.

Capitolo XI
Cosa ti è successo, ragazzina?


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Posso vedere che sei triste anche quando sorridi, anche quando ridi. 
Nel profondo vuoi piangere.
Eminem

 
Qual è il modo più rapido per morire?
Ci penso mentre gioco a fare l’acrobata, le braccia aperte e il viso rivolto in alto, verso questo cielo dai colori tenui e dalle costellazioni diverse da quelle che mi sono così a lungo impegnata a studiare. Non so nemmeno da quanto sono qui, sono qui e basta.
 

***

 
«E allora ci hanno presi. Freddie è riuscito a cavarsela, il mocciosetto. L’hanno riportato a casa e Angelina ha avuto una specie di crisi isterica. Gli Yankee hanno preso le generalità e hanno gettato un Sortilegio D’Allerta Perpetuo sulla casa. In pratica se Freddie si fa una canna o Roxy si sbaciucchia con Cameron sul retro, loro lo sapranno» Lorcan si stringe nelle spalle e passa poi a descrivere i terribili due giorni passati in cella.
Non mi ha spiegato come sia finito in un quadro – e il mio stomaco si serra davanti all’evidenza così palese della sua morte - o che fine abbia fatto James.
Io non gliel’ho chiesto e non sto piangendo, non ne ho nemmeno la forza. È come se in questi giorni avessi prosciugato tutte le mie lacrime.
A volte penso che la mia mente funzioni diversamente da quella degli altri. Non so come spiegarlo. In verità, non lo comprendo nemmeno io. Però è… è come se nella mia testa ci fossero tanti fogliettini e su ognuno di essi fosse scritta una frase, una parola, una lettera. Per la maggior parte del tempo i fogliettini sono ordinati e pronti all’uso, impilati con cura nei cassetti della mia memoria.
E quando devo dire qualcosa di importante io scelgo i fogliettini giusti e dico quello che voglio.
Delle volte, però, capita che un soffio di vento particolarmente forte, un terremoto sotto la mia pelle, spazzi via tutti i foglietti, li faccia volare via.
E i foglietti si mischiano, si mescolano, svolazzano nel turbinio dei miei pensieri. Migliaia di frasi possibili mi passano davanti agli occhi ma nessuna sembra mai essere adatta.
Io corro, scappo, mi precipito, li inseguo. Cerco di afferrarli, protendo le dita più che posso ma non ci riesco. E quando il vento smette di soffiare tutto mi appare così confuso, e i fogliettini giacciono scomposti e in disordine.
Delle volte riesco a riparare il danno, afferro uno dei biglietti e me lo faccio andare bene. Quando poi sono con Albus non mi importa molto di quello che sta scritto sul foglietto, tanto lui lo capisce lo stesso. Quando però è necessario mantenere una parvenza di normalità, in quei momenti mi sento persa. Muta, cieca, sorda. Sola.
Ma altre volte il vento è così forte, il terremoto mi agita così tanto e il baratro sembra essere sul punto di inghiottirmi e davvero non ce la faccio a inseguirli tutti. La mia vita mi scivola via dalle mani e io non posso farci niente.
E allora l’unica cosa che mi rimane da fare è aggrapparmi a quello che ho intorno: contare il numero delle piastrelle del pavimento, il numero dei passi che percorro, la quantità delle venature nel legno della porta, piccoli dettagli che non si contraddistinguono, che non risaltano, che non sono importanti, ma che mi servono per rimanere ancorata a me stessa.
A volte vorrei solo che la mia mente funzionasse in modo normale. Che i fogliettini non esistessero e che il mio cervello fosse come quello di chiunque altro.
E chi ti dice che anche i cervelli degli altri non siano così?
Non lo so perché sto facendo questo ragionamento, ora. Forse sono gli occhi scuri di Lorcan e la sua voce bassa e roca che parla piano, nel silenzio della mia stanza, che mi confondono sempre di più.
È solo che delle volte… mi perdo, ecco.
Lorcan mi sta raccontando di quello che è successo quella sera, quando li hanno presi al confine. Ho tanto desiderato, ma allo stesso tempo temuto, una spiegazione e ora riesco solo a pensare che voglio andare via. Voglio scappare da questo posto. Voglio correre fuori da questo palazzo dalle pareti di vetro che non riflettono alcuna luce, voglio che i Giochi siano solo uno dei tanti ricordi poco piacevoli che affollano la mia mente e che soffiano impetuosi sui fogliettini dei miei pensieri.
Lorcan ha smesso di parlare. Il silenzio pesa sulle mie spalle stanche e davvero, davvero non ce la faccio a continuare così. Forse è per questo che non gli chiedo maggiori informazioni.
I fogliettini sono dispersi in angoli remoti della mia mente e non ho alcuna possibilità di recuperarli ormai. Rimango a fissare Lorcan per un po’. È dimagrito, molto. Sul viso sottile si intravedono le ossa degli zigomi, i capelli sono più corti di quanto ricordassi e, nonostante il viso sia costretto nella sua solita smorfia di superiorità, il ghigno che mette in mostra ha perso tutta la sua strafottenza. Anche gli occhi sono più scuri del solito e si muovono inquieti lungo la stanza. Quando li posa su di me abbasso subito i miei e faccio per allontanarmi.
Sarà stupido, ma non voglio sapere altro. Non voglio ricevere ulteriori notizie in grado di sconvolgermi. Non so se ce la farei. Non so nemmeno se, dopo la tempesta che sta infestando la mia mente, mi rimarranno abbastanza foglietti anche solo per chiedergli qualcosa.
«Smettila» dice, e la sua voce rimbomba nella stanza vuota «Smettila di fare così»
«Così come?» chiedo, e mi sorprendo di sentire la mia voce.
«Così. Non hai mai avuto paura di guardarmi negli occhi» Lorcan irrigidisce le spalle e per un attimo la mia mente torna indietro a quei pomeriggi d’estate in cui, ingenua come ero, avevo una colossale cotta per lui e lo spiavo di nascosto mentre parlava con James.
Credo che lo sapesse, cosa provavo. Ma credo sapesse anche che era una stupida infatuazione infantile, di quelle di cui poi ridi o ti meravigli quando sei grande.
Non ha mai detto nulla, comunque. E nemmeno io avevo detto nulla. Mi limitavo a guardarlo, ad osservare come i raggi del sole si riflettessero sui suoi capelli biondi e come la sua bocca si contraesse spesso in un ghigno, quando voleva farsi bello agli occhi delle altre ragazze. Lui era più grande di me, di quasi due anni – lui e Lysander, essendo nati a fine settembre, erano i più grandi della comitiva di James - e aveva già fatto le sue prime esperienze. Io avevo appena compiuto undici anni, frequentavo Hogwarts da appena un mese e l’unico essere maschile che mi si era avvicinato, oltre ad Albus, era Josh Calvinson, un Corvonero con i capelli cortissimi e la faccia paffuta.
Ma rideva sempre, quando mi beccava a guardarlo e mi diceva che era un grande pregio, il mio.
«Non hai paura di guardare qualcuno negli occhi, ragazzina. È una bella cosa»
E ora, rivederlo qui davanti a me dopo tanti anni da quel momento è qualcosa di troppo strano perché riesca a comprenderlo.
«Non capisco cosa stai cercando di dirmi» sussurro piano, mentre mi allontano sempre di più dalla sua cornice. Anche se evito il suo sguardo, noto con estrema dovizia di particolari le sue mani grandi che si protendono verso l’alto, verso di me, irraggiungibile.
«Sì che lo capisci, invece» Lorcan non ha una voce triste o spaventata. Anzi, sembra piuttosto arrabbiato, e il suo tono fa uno strano picco di intensità alla fine della frase «Lo sai, Rose. Questa non sei tu»
«Forse non so chi sono»
«Ma io sì»
Scuoto la testa e corro via, mi chiudo la porta le spalle e fuggo dal suo sguardo indagatore e dalla sua comprensione. Sbatto il legno della porta, affinché il rumore sovrasti anche i miei pensieri confusi e ingarbugliati.
Ma lo sento comunque.
La sua voce, come se mi stesse sussurrando all’orecchio: «Cosa ti hanno fatto, ragazzina?»
 
Le luci del corridoio sono tutte accese e, sul momento, mi feriscono gli occhi.
Non so come ho fatto ad arrivare qui. Ho semplicemente avuto bisogno di uscire, di allontanarmi dal passato che mi tortura.
Un minuto fa ero in camera mia, ad autocommiserarmi. E ora sono qui, arrancando verso un qualcosa di cui nemmeno io sono certa.
Lo trovo negli occhi sorpresi di Derek, apparso all’improvviso, che si scontrano con i miei.
«Cosa ci fai qui?» chiede con una punta di rimprovero nella voce.
Quando si affretta a chiudere la porta da cui è evidentemente appena uscito, registro distrattamente che non è quella dei suoi appartamenti, visto che non è nemmeno questo il suo piano. Poi però penso che non me ne frega un accidente di quello che sta facendo qui.
Sarò egoista, ma sono più preoccupata per me.
E mi sembra anche ora, Rose. O pensavi che qualcuno l’avrebbe fatto per te?
«Niente. Volevo parlare con Dominique» invento sul momento, stringendomi nelle spalle. La mia voce è troppo bassa e ho una grandissima paura di scoppiare a piangere da un momento all’altro, ma la bugia sembra convincerlo.
«Tua cugina non è dell’umore giusto per parlare con nessuno. Non credo che anche tu sia così masochista da volerti far urlare addosso» Ha una voce dura, seccata. Evidentemente anche lui non è al massimo del buon umore. Perciò decido di non contraddirlo e lo seguo lungo il corridoio buio.
Le pareti sembrano così strette, pronte ad inghiottirmi mentre cammino.
Questo posto fa paura di notte. Ad Hogwarts era diverso. Era tutto diverso. E io non l’ho mai saputo apprezzare.
«Cosa?» la voce brusca di Derek mi coglie alla sprovvista.
«Hmm?»
Derek deve essersi accorto del mio sguardo vacuo e degli occhi rossi evidentemente, perché mi afferra per un gomito e inizia a trascinarmi via. Io non dico niente e mi lascio trasportare, mentre camminiamo veloci e superiamo la cucina. In questa zona dell’appartamento le luci sono spente e mi ritrovo a chiedermi che ora sia. Il tempo passa troppo velocemente, in questi ultimi giorni. Forse sa come mi sento e vuole solo abbreviare il dolore.
Ma il tempo è bastardo, e forse vuole solo strapparmi gli ultimi attimi di vita che mi rimangono.
Derek mi lascia il braccio quando arriviamo nel bel mezzo della piccola stanzetta accanto alla cucina; dagli odori diversi che coesistono in questo piccolo spazio comprendo che deve trattarsi di una specie di dispensa, o perlomeno di un posto dove conservano il cibo. Si abbassa fino ad arrivare all’altezza di un piccolo scaffale semi-nascosto.
Lo sento armeggiare al buio con quelle che potrebbero essere delle bottiglie di vetro contenenti chissà cosa. Quando si risolleva, le mie congetture sembrano essere confermate e Derek mi lancia uno sguardo strano al di sopra delle sue spalle larghe. Tiene un paio di bottiglie dal collo sottile e sofisticato strette al petto con il braccio destro a circondarle e, con la mano sinistra, lasciata molle lungo il busto, mantiene due bicchieri.
Sono quelli delle grandi occasioni, quelli che si usano alle feste o alle cerimonie di grande importanza. Le utilizzavano nei miei primi anni ad Hogwarts al banchetto di Halloween.
Evidentemente qui non devono necessariamente avere qualcosa da festeggiare per utilizzare i bicchieri da festa.
Scuoto la testa e penso che alla fine sono soltanto dei bicchieri.
Derek, intanto, ha chiuso con un colpo di tallone il piccolo sportellino dello scaffale e mi sta guardando con una strana espressione in volto.
«Andiamo» mi dice, e si fa largo nel buio come se riuscisse a vedere tutto alla perfezione.
«Cosa hai intenzione di fare?» chiedo mentre gli arranco dietro.
«Ubriacarmi come se non ci fosse un domani, fino a dimenticare tutto» risponde lapidario mentre, ritornati nel corridoio principale, svolta a destra «E tu?»
Ci rifletto un po’, prima di dare una risposta.
Provo a concentrarmi, ma la mia mente sembra insofferente a qualsiasi tipo di ragionamento questa sera. Così mi limito ad afferrare i primi fogliettini che volano davanti ai miei occhi rossi e stanchi e a leggere le parole scritte sopra con tutta la convinzione che mi rimane.
«Immagino ubriacarmi. Per me non c’è davvero, un domani»
È buio quando Derek si volta a guardarmi. Eppure posso sentire sulla pelle, sotto la pelle, che sta sorridendo.
Derek ha preso a salire su una piccola scala a chiocciola che conduce verso l’alto e il rumore dei bicchieri che si scontrano fra loro accompagna anche la mia salita, guidandomi sui gradini alti e nel buio.
Quando finalmente la scala termina siamo parecchio in alto, e il rumore del vento ne è testimone. Derek spalanca una porticina bianca ed esce fuori, sotto la luce bianca della luna.
Sono sul tetto del palazzo più alto di Royàl e mi sento in cima al mondo.
 
Il primo sorso è stato difficile da mandare giù.
«Questa roba è forte, ragazzina. Non credere che sia come quella sbobba che vi danno in Inghilterra. Com’è che si chiama? FireWhiskey? Ridicolo» Derek aveva ciondolato il capo mentre tirava fuori la bacchetta e faceva evanescere il tappo della bottiglia con un movimento rotatorio del polso «Persino i cocktail babbani sono più potenti di quella roba!»
Poi mi aveva offerto il bicchiere da festa colmo fino all’orlo di un liquido ambrato dall’odore forte e acre e io mi ero ritrovata la gola in fiamme ancora prima di far scendere completamente giù il primo sorso. Era come se il mio intero corpo fosse stato messo davanti ad un focolare e tutti i miei arti, fino alle punta dei piedi irrigiditi dal freddo, si erano ridestati e risvegliati al tocco di quel liquido rosso.
Improvvisamente avevo sentito una gran voglia di ridere e di scrollare il capo perché –dannazione! -era dicembre inoltrato ed ero seduta sul cornicione di un tetto senza sentire nemmeno un brivido di freddo, non più almeno, e beh… ero ancora viva.
Derek, che aveva già finito il primo bicchiere, se ne stava versando un secondo e allora io avevo pensato – pensato, poi. Il liquore mi ha raggiunto il cervello perché sento il bruciore sordo anche lì- che meritavo un altro goccio anche io.
Avevo afferrato il collo – sottile e lungo, raffinato. Come i bicchieri di Hogwarts ad Halloween. Ad Halloween. Mi piace Halloween - della bottiglia e me ne ero versata un altro po’ di quel Whisky che incendiava le vene. Avevo ciondolato un po’ il capo – la testa mi si sta staccando dal collo. La mia testa si sta… oh, no. Ce l’ho ancora - e avevo ridacchiato. Era divertente, in fondo.
So ancora sorridere, Lorcan? Hai visto? Hai visto! Hai…?
Non importa. Non importa, non fa niente.
E poi me ne ero versato un altro. E un altro ancora.
La seconda bottiglia era ormai finita e la terza ci stava occhieggiando – quella bottiglia mi sta guardando! Mi guarda! Ha un bel colore, il vino. Sto bevendo il vino! È vino? È rosso, comunque. Albus dice sempre che io sono una persona rossaFa freddo qui e anche caldo. È un… un contrario? Come si dice? Molly la dice sempre quella parola. Ossimoro. Ossimoro. Mi piace dirlo. Ossimoro. È come se mi si arrotolasse sulla lingua. Ossimoro. Albus dice che sono rossa, ma che non è per i capelli. Ma io ho i capelli rossi, sono l’unica cosa rossa che ho.
E ora?
Ora voglio bere. Voglio continuare a bere fino a che non mi dimenticherò anche il mio nome.
 
La prima volta che Derek mi rivolge la parola, senza contare i borbottii, è quando stiamo iniziando la seconda bottiglia e sono ancora abbastanza lucida.
«È un tuo amico?» chiede.
«Cosa?» ribatto, vagamente perplessa. Le piccole Luci Portatili brillano appese al muro e i contorni del mio allenatore sembrano così indistinti.
«Il prigioniero, il ragazzo nel quadro»
«Non capisco»
«Cosa non capisci? Ti sto chiedendo se il ragazzo che hanno intrappolato nel quadro è un tuo amico. Non mi sembra difficile»
«In che senso intrappolato nel quadro? Lorcan è…» Smetto di parlare, non voglio saperlo. Non voglio sapere niente, questa notte.
 
«Tu credi che io sia uno stronzo» La voce di Derek mi appare così distante, così lontana «Credi che io mi diverta, a fare questo lavoro»
Io non dico nulla e continuo a fissare incantata le sue mani grandi – le mani di Albus sono sottili invece. Mi fanno paura delle volte. Le guardo e penso che potrebbero circondarmi tutta, se volessero. E allora immagino che quelle mani mi possano…- con le dita lunghe e callose.
«Tu e tua cugina credete di sapere tutto, non è così? Credete che mi piaccia ogni anno mandare a morte certa due ragazzi la cui unica colpa è quella di essere nati nel posto e nel tempo sbagliato?» Le sue mani si chiudono di scatto sul collo della bottiglia -io ho le mani piccole. Credo. Nella classifica delle mani, dico. Sono… normali, penso. Quelle di Derek non mi fanno paura, neanche quelle di Albus… le mani di Albus sulle mie. Non è paura, è pace, forse. Non lo so. Cioè sì, Derek mi fa paura, ma non quella paura cattiva, che ti fa… correre.
«Credete di sapere tutto di me. E non sapete un cazzo. No, non sapete niente. Voi non ne avete idea. Di quello che succede lì dentro. Di come ti cambia» Scuote la testa e contrae la bocca mentre beve un altro sorso dal suo bicchiere. Lo regge bene, l’alcool. Le sue mani – mi piacciono le sue mani, anche se fanno paura - non tremano e io ho davvero bisogno di qualcosa che non tremi, che non crolli. Tutto mi sta crollando addosso - cade, cade tutto. Il muro che ho costruito mi sta crollando addosso, mattone per mattone. E non so se riuscirò a uscirne fuori.
«Quando sei lì dentro, quando entri… non so cosa ti succede. Forse diventi… pazzo. L’unica cosa che conta è sopravvivere, non importa come. Le persone che conoscevi, che amavi nella tua… vita precedente… le odi. All’improvviso le odi, non puoi fare altrimenti. Perché… perché è così. Loro sono fuori, tu sei dentro. E vuoi solo…» Derek si interrompe, come se avesse anche lui finito i fogliettini per esprimersi «Non so, uscirne vivo. I primi giorni, se non muori subito, credi davvero di potercela fare. Pensi che, magari, se ti tieni alla larga da tutto quello che ti circonda… beh, magari puoi farcela anche tu. Anche se non sei il migliore. Poi però i giorni passano e tu… beh, tu inizi a contarli. E li conti perché sono l’unica cosa che ancora ti lega alla realtà e pensi… “arriverà il giorno in cui uscirò di qui”. Ma poi perdi il conto e tutto… tutto… tutto perde significato»
Non riesco a muovere un muscolo. Il vento mi sferza la schiena coperta solo dalla leggera maglietta del pigiama e tutto… tutto perde significato. Derek muove ancora le sue mani – le mani di Derek fanno paura, ma una paura buona. Perché c’è anche quella paura buona che ti avvisa quando è arrivato il momento di fermarti o ti suggerisce come rimanere vivo - e io penso che… che non ha senso. Come fa a sapere questo? Come può capire cosa si prova? Come… come… Non lo so.
«E un giorno, quando finalmente siete rimasti in pochi, quando è passato così tanto tempo che sei solo e perso da non ricordare nemmeno il tuo nome… incontri qualcuno, nella foresta. In un primo momento hai i sensi in allerta, ma poi… poi capisci che è un essere umano, che è come te. Che ha i tuoi stessi problemi. E vuoi… corrergli incontro, dirgli qualcosa. Poi ti ricordi che devi ucciderlo. E tutto diventa buio, tutto diventa un incubo»
Derek rimane in silenzio per un po’, poi improvvisamente si alza, raccoglie le bottiglie vuote e, dopo aver lanciato una breve occhiata al panorama che si gode da qui sopra, mi volta le spalle e se ne va, lasciandomi sola con un’ultima bottiglia di - vodka? - alcool.
Improvvisamente mi coglie una grande smania di muovermi, di ridere, di ballare: mi aveva colta ed ero balzata in piedi perché il mondo mi sembrava così maledettamente bello quella sera, così… vivo. Ero viva anche io – sono viva, alla faccia vostra! Sono viva, sono viva, sono viva!
«Sono viva!» avevo urlato e poi ero balzata in piedi anch’io. Non so dove l’ho sentita, questa cosa. Ma so che l’alcool fa venire a galla i tuoi desideri più profondi. In quel momento, desideravo unicamente, disperatamente, profondamente la vita.
Ero incespicata fino al cornicione e ci ero salita con non poche difficoltà. E ora, in precario equilibrio sul vuoto, sento il vento che mi accarezza il viso e ho il cuore più leggero.
«Sono viva!» urlo al mondo che si agita trenta piani sotto di me.
«Sono viva!» urlo a me stessa.
«Sono viva!» urlo. Perché fra poco non lo sarò più.
 
Qual è il modo più rapido per morire?
Ci penso mentre gioco a fare l’acrobata, le braccia aperte e il viso rivolto in alto, verso questo cielo dai colori tenui e dalle costellazioni diverse da quelle che mi sono così a lungo impegnata a studiare. Non so nemmeno da quanto sono qui, sono qui e basta.
Il tetto del Palazzo Addestramenti è alto, troppo, e dalla sua posizione, lì sul cornicione estremo, riesco ad abbracciare con lo sguardo quasi tutta Royàl.
In fondo riesco ad intravedere palazzi più alti, ma non mi importa molto.
Sul tetto la temperatura è abbastanza alta, soprattutto considerando che siamo in Dicembre inoltrato e ci stiamo avviando verso l’inizio del nuovo anno.
Se ora fossimo in Inghilterra, penso mentre fisso assorta le luci colorate che brillano molti metri sotto di me, in questo momento sarebbe praticamente impossibile fare un passo all’aperto, fra neve e precipitazioni varie. È sorprendente notare come qui il gran freddo invernale sia sinonimo di un venticello freddo che mi scompiglia i capelli e fa frusciare i pantaloni del mio pigiama. Non è troppo freddo, anzi, è piacevole sentire la sua carezza fredda sulla mia pelle sudata.
Sono in piedi sopra il vuoto e, per quanto delle volte mi colgano picchi di vertigine, non riesco a fare a meno di guardare in giù.
Sono davvero in alto, a giudicare dalla moltitudine di piani che ha questo palazzo. Almeno trenta o quaranta metri di distanza mi separano dal marciapiede bianco. Molta gente passa per strada. O forse sono quegli strani mezzi di trasporto che usano qui. Sono troppo distante per poterlo dire con certezza.
È che mi sento così piccola e insignificante, qui.
Di solito mi è sempre piaciuto, salire in alto. Arrampicarmi sugli alberi nel giardino della Tana, spiare il mare dalla piccola finestra nella soffitta di Villa Conchiglia, filosofare sul senso della mia vita dal balconcino con vista poco prima della Torre di Corvonero.
Il punto è che… non so come spiegarlo, ma più salgo in alto più i miei pensieri e le mie preoccupazioni sembrano sparire. Perché, quando hai il cielo sopra di te – così dannatamente immenso - come puoi preoccuparti seriamente di qualcosa – così dannatamente piccolo, al confronto? È come avere un’altra prospettiva di me stessa.
Delle volte mi serve. Isolarmi un po’. Solo io e il cielo, il mondo fuori. Sentire il vento fra i capelli… il mio cuore che batte.
Ancora per poco.
Mi concedo un ennesimo sguardo a questo posto. Nonostante tutto, è di una bellezza quasi struggente. Il sole che sta per sorgere all’orizzonte, le fulgide luci che illuminano le strade ancora trafficate, le sagome dei palazzi che si stagliano contro il cielo.
Mi mancherà, il mondo.
Sento ancora in bocca il sapore acre e disgustoso della Vodka che ho bevuto poco prima con Derek. È strano pensare che sarà l’ultima persona ad avermi vista viva.
Che io abbia visto viva.
L’alcool mi circola in viso e per un attimo penso che sto per fare la cosa più stupida della mia vita. Mi sono ubriacata e sono sul tetto di un palazzo.
Ma a cosa serve vivere? Morirò comunque fra qualche giorno. Non serve a niente continuare così. Proprio a niente.
In questo modo, almeno, deciderò io come farla finita.
La mia morte sarà come la desidero io, non per mano di qualche ragazzino spaventato.
Chiudo gli occhi e mi concedo di pensare alle persone care che hanno popolato la mia vita. A mio padre, mia madre, Hugo, Lily, James. Victorie, Dominique. La mia famiglia.
Albus.
Scorpius. Scorpius che mi fissa con i suoi occhi “Foresta Proibita” spalancati e mi supplica mentalmente di non farlo. E sarei persino in grado di ascoltarlo, volubile come sono al momento.
Faccio un passo in avanti e nel frattempo immagino cosa potrebbero scrivere sulla mia tomba.
Qui giace Rose Weasley. Amava così tanto l’amore che le veniva negato, che ha scelto di morire. Aveva tanta paura di ricordare che ha deciso di morire per ricorrere all’oblio. Non lascia niente e nessuno, solo una disperata e lacerata voglia di vivere.
Al diavolo.
 
 
«Rose!» Una voce urla dietro di me e delle luci mi accecano.
Ma io non la ascolto, la voce, perché ce ne sono già troppe intorno a me.
 
«Ciao, Scorpius» trillo deliziata, perché la luce che viene dalla porta aperta mi acceca e i suoi contorni sembrano indefiniti e tremolanti «Benvenuto alla mia festa!»
Ridacchio fra me e me per la battuta - La mia festa. Perché sto per morire. E daranno una festa. Perché ora mi butto. E faranno festa. Perché diavolo si dice così, poi?
«Rose» La voce di Scorpius ha una tonalità bassa che non riconosco «Cosa stai facendo?»
Fa un passo in avanti, cauto. È come se avesse paura di me.
«Sto ballando, ovvio!» asserisco e per tutta risposta accenno a qualche movimento strano.
Non voglio che rimanga con quell’espressione in viso, non mi piace. Provo un passo in avanti ma traballo pericolosamente indietro, mentre il mondo si muove vorticosamente contro di me.
Non so perché mi sento così instabile, ma Scorpius è impallidito sempre di più e si avvicina a piccoli passi. Forse non ha paura di me, forse non vuole che io mi spaventi.
“Io non voglio spaventarmi, voglio solo divertirmi un po’, qui non ci si diverte mai. Mai. Mai. Mai.”
«Rose, basta. Scendi da lì»
“Lì? Lì, dove?”
Sono confusa e non mi piace il tono lamentoso che Scorpius sta usando con me. Mi sembra di essere di nuovo una bambina piccola che viene rimproverata dalla mamma.
“Mia madre non mi rimprovererà mai più.”
Smetto di ascoltarlo allora, perché non voglio ricordare. La bottiglia che ho preso in cucina mi sfugge dalle mani e cade giù, per metri e metri di altezza, schiantandosi contro il marciapiede e rompendosi in mille pezzi. Mi sento come quella bottiglia, adesso.
“Ho fatto trenta piani di colpo e ora mi sono sfracellata.”
«Smettila, tu non sei così, Rose. Questa non sei tu!» Scorpius si è avvicinato e protende le sue mani verso di me – ha le mani grandi, Scorpius. Come quelle di Derek. Le sue mani, però, sono una paura cattiva. Sono una paura cattiva perché… perché quando lo guardo ho voglia di correre. Ma tanto lo so, Scorpius mi inseguirebbe se corressi via. È tanto veloce, Scorpius. È bravo, è tanto… Perché dovrei correre? Non me lo ricordo.
«E chi sarei, allora?»
«Tu sei Rose Weasley e io…»
«Sono Rose Weasley, gente!» Lo urlo, come ho urlato prima. Continuo e continuo tanto… tanto non importa «Sono Rose Weasley! E non importa a nessuno…»
«A me si!»1 Scorpius mi fissa e il cuore batte, e io penso a quello che ha detto Derek prima.
“E un giorno, quando finalmente siete rimasti in pochi, quando è passato così tanto tempo che sei solo e perso da non ricordare nemmeno il tuo nome… incontri qualcuno, nella foresta. In un primo momento hai i sensi in allerta, ma poi… poi capisci che è un essere umano, che è come te. Che ha i tuoi stessi problemi. E vuoi… corrergli incontro, dirgli qualcosa. Poi ti ricordi che devi ucciderlo. E tutto diventa buio, tutto diventa incubo.”
«Tutto diventa…»
 
Ci sono delle mani a stringermi. Mani grandi e che, a pensarci bene, non mi fanno paura. Mi bloccano le spalle e mi impediscono di saltare, ma non possono impedirlo al mio cuore.
Cosa ti è successo ragazzina?
Non lo so, Lorcan. Non lo so proprio.


1- Da Gossip Girl, ovviamente. Chuck, Blair e un tetto. Vi ricorda niente?
La storia dei fogliettini nella testa di Rose è un chiaro riferimento alla mia serie preferita. Vediamo chi lo indovina.


Note Finali.
Non mi uccidete.
Se non avete smesso di leggere e siete arrivate fino a qui... beh, non so, mi volete davvero bene!
Io non sono affatto sicura di questa scelta. Insomma ci ho pensato un sacco.
Ho riscritto il capitolo una ventina di volte ma... niente.
Avevo questa idea in testa, non era programmata, e non sono riuscita ad eliminarla.
Ah, comunque non fate delle connessioni e supposizioni affrettate. Il finale non è come voi credete! (???)
Ma, sappiatelo, se non dovesse aggradarvi, scrivetemelo! Vi giuro che modifico il capitolo e lo riscrivo secondo la mia idea iniziale.
So che questa storia risulta essere piuttosto pesante e non mi sorprende un calo di recensioni ma... grazie se siete ancora qui.
Fatemi sapere che ne pensate.
Fra

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