Il mio migliore amico

di Padmini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La festa di compleanno ***
Capitolo 2: *** Fughe e nuovi incontri ***
Capitolo 3: *** In viaggio ***
Capitolo 4: *** Punizione ***
Capitolo 5: *** Babysitter ***
Capitolo 6: *** Amico? ***
Capitolo 7: *** Evasione notturna ***
Capitolo 8: *** South Quay ***
Capitolo 9: *** Incidente di percorso ***
Capitolo 10: *** Paura, noia e storie di pirati ***
Capitolo 11: *** Capitan Sherlock Edmund Talbot e il tesoro di Barafundle Bay ***
Capitolo 12: *** Memoria ***
Capitolo 13: *** Il vecchio libraio ***
Capitolo 14: *** La casa vuota ***
Capitolo 15: *** Charles Augustus Milverton ***
Capitolo 16: *** Il mio bimbo ***
Capitolo 17: *** Disegni ***
Capitolo 18: *** Malattia ***
Capitolo 19: *** Il mio peggior incubo ***
Capitolo 20: *** Gli amici ti proteggono ***
Capitolo 21: *** The game is afoot ***



Capitolo 1
*** La festa di compleanno ***






La festa di compleanno

 

 

 



 

 

 

 

Sherlock teneva stretti gli inviti, come se quei pezzi di carta potessero dargli coraggio.

Guardò la maestra, al suo fianco. Gli sorrideva incoraggiante. Guardò di nuovo verso i suoi compagni di classe. Erano tutti distratti. Deglutì a fatica e cercò di nuovo gli occhi dell'insegnante che, comprendendo la difficoltà del bambino, decise di aiutarlo.

“Bambini” disse ad alta voce, attirando l'attenzione di tutti “Sherlock vorrebbe dirvi qualcosa”

Tante testoline si erano girate verso la cattedra. Sherlock strinse ancora di più le dita sulla carta, al massimo della tensione.

“Io ...” cominciò, ma la timidezza era più forte di lui.

“Tu cosa?” gli chiese Sally “Muoviti, Sherlock! Non abbiamo tutto il giorno”

Il viso del bambino diventò, se possibile, ancora più rosso. Chiuse gli occhi e disse velocemente ciò che doveva.

“Il sei gennaio sarà il mio compleanno” disse tutto d'un fiato “Volevo invitarvi a casa mia per una festa”

Allungò le braccia verso i banchi per mostrare gli inviti e aprì lentamente gli occhi per verificare la reazione dei suo compagni di classe.

Si stavano stringendo sulle spalle. A quanto pareva l'idea gli piaceva, ma non li entusiasmava più di tanto. Sally, la bambina che prima lo aveva maldestramente incoraggiato a parlare, si alzò impaziente.

“Dai a me” disse, prendendo bruscamente le buste dalla mano serrata di Sherlock “Ci penso io a distribuirli”

Così, mentre Sherlock tornava mestamente al suo posto, Sally faceva il giro dei banchi per dare ad ognuno il suo invito.

Era stato facile dopotutto, si diceva Sherlock, mentre la maestra cominciava a spiegare.

 

 

 

Era passato quasi un mese da quel giorno. Le vacanze invernali erano trascorse tranquillamente. La neve era scesa placidamente e aveva imbiancato il giardino. Sherlock avrebbe voluto giocare a palle di neve con Mycroft o fare con lui un pupazzo, ma suo fratello era impegnato con i compiti per le vacanze invernali.

Lui i suoi li aveva finiti da tempo. Troppo facili. Aveva passato il resto del tempo leggendo e guardando fuori dalla finestra. Contava i minuti che lo separavano dal suo compleanno.

Quel giorno avrebbe rivisto i suoi compagni di classe dopo tanti giorni e avrebbe festeggiato con loro. Quella sarebbe stata l'occasione d'oro per fare amicizia.

 

 

 

Il giorno del suo compleanno era finalmente giunto. Gli era sembrato che il tempo scorresse al rallentatore, ma finalmente la mattina tanto attesa era arrivata.

Era ancora in vacanza perciò Violet, sua madre, non l'aveva svegliato prima delle nove. Era entrata discretamente in camera sua e aveva sussurrato.

“Sherlock, amore mio … è il tuo compleanno! Tanti auguri!” disse, avvicinandosi al lettino.

Sherlock era sveglio da tempo. Guardò la madre e le sorrise nel buio. Violet lo notò e andò alla finestra per aprire gli scuri.

“Oggi è il gran giorno, tesoro mio” disse la donna, girandosi verso di lui “Ora vestiti così farai colazione. Dopo cominceremo a preparare il rinfresco per la tua festa”

La prospettiva di aiutare la madre con i preparativi lo entusiasmò. Cacciò via le coperte dal letto e balzò in piedi. In cinque minuti era pronto, lavato e vestito in cucina.

“Siediti” lo accolse la madre, posando davanti alla sedia una ciotola piena di latte e cacao e un piattino con dei biscotti “Tu mangia tranquillo. Io intanto imposto gli ingredienti, va bene?”

Violet aveva già preparato quasi tutto. Mancavano solo gli ultimi ritocchi ai panini e ai tramezzini e, ovviamente, la torta di compleanno. Non l'aveva voluta comprare. Voleva farla con Sherlock.

Sapeva che, crescendo, suoi figlio si sarebbe sempre più staccato da lei e voleva goderselo il più possibile finché era ancora in tempo.

“Ho finito, mamma!” gridò Sherlock, posando la tazza grande quasi come la sua testa sul tavolo “Adesso facciamo la torta?”

Violet sorrise al figlio e annuì.

“Mentre io peso la farina, tu rompi le uova in questa ciotola” gli disse la donna “Pensi di esserne capace?”

“Certo mamma” rispose lui, arrampicandosi sulla sedia per lavorare con più facilità e cominciò ad eseguire il lavoro che gli era stato dato.

Violet lo osservò intenerita. Sherlock era davvero concentrato su quello che stava facendo. Sapeva che quel pomeriggio sarebbe stato importantissimo per suo figlio.

Da quando aveva cominciato la scuola non si era ancora fatto nessun amico. Non le aveva ancora chiesto di invitare un suo compagno di classe a merenda, come spesso aveva fatto Mycroft alla sua età, e questo la preoccupava.

Sherlock era il più grande di età tra tutti i bambini della sua classe perché era nato in gennaio, ma fisicamente era molto più piccolo, cosa che lo faceva sentire perennemente a disagio.

Violet sapeva perfettamente che, crescendo, Sherlock sarebbe diventato alto come suo padre, ma per il momento era ancora un piccolo folletto gracilino, così magro da far sembrare qualsiasi vestito sempre troppo grande. Quelle braccia si perdevano nelle maniche della divisa scolastica e le gambe erano così secche che spesso la gente si chiedeva come potessero sostenere il peso, se non del suo corpo, dei vestiti che lo avvolgevano.

Quella mattina tutto ciò era in secondo piano. Il largo sorriso che increspava le sue labbra lo illuminava di una luce tutta nuova. Era la speranza, l'aspettativa per una giornata fantastica.

 

 

 

Tutto era pronto. I panini, i tramezzini, ciotole piene di patatine fritte, le bibite e, ben conservata in frigorifero, una super torta di compleanno al cioccolato, realizzata con la massima cura. In un cassetto in cucina, aspettavano le sette candeline che Sherlock, di lì a poche ore, avrebbe spento con un solo soffio.

Tutto era perfetto. Mancava solo una cosa.

Gli invitati.

Sherlock guardò pieno di ansia l'orologio appeso alla parete. Segnava le quattro e un quarto.

Sull'invito lui aveva scritto di presentarsi alle quattro in punto. Pensò che, se fosse stato per lui, sarebbe arrivato leggermente prima o poco più tardi, al massimo cinque minuti. Quel quarto d'ora abbondante di ritardo lo angustiava.

Lanciò un'occhiata preoccupata alla madre, che si strinse sulle spalle. Sherlock abbassò lo sguardo e andò a raggomitolarsi in poltrona. Violet si avvicinò per dirgli sedersi composto, poi rinunciò.

Sherlock nascose il viso tra le braccia incrociate e rimase così per molto tempo. Ormai l'orologio segnava le quattro e mezza passate.

Non sarebbe venuto nessuno.

Violet si avvicinò alla poltrona e fece per sedersi sul bracciolo per consolare il figlio, quando vide che la sua schiena sobbalzava ritmicamente. Scivolò vicino a lui e lo prese in braccio.

Grosse lacrime luccicanti gli solcavano il viso. La delusione era più che evidente sul volto del bambino.

“Perché non è venuto nessuno, mamma?” chiese Sherlock, asciugandosi il viso con la manica della giacca.

Violet esitò. Non sapeva cosa rispondere. Cosa avrebbe potuto dirgli per consolarlo? Proprio non lo sapeva.

“Avranno avuto altri impegni ...” iniziò, al massimo del disagio. Nulla avrebbe potuto risollevargli il morale.

“Gli avevo dato gli inviti un mese fa” protestò lui, tirando su col naso “Nessuno vuole essere mio amico ...” aggiunse poi, nascondendosi tra le braccia della madre “Perché?”

Perché. I perché a quell'età sono domande importanti, alle quali non si può dire di no. Eppure, come spiegare ad un bambino qualcosa di così difficile? Nemmeno Violet sapeva spiegarsene la ragione.

“Non lo so, tesoro mio” gli rispose alla fine “Tu però non demoralizzarti. Sono sicura che troverai degli amici. Ne basterebbe anche uno solo. Un solo vero amico è più prezioso di un tesoro raro, non dimenticarlo mai”

Sherlock annuì, poco convinto, ma smise di piangere. Si drizzò sulle gambe della madre e guardò la tavola imbandita.

“Cosa faremo di tutto quel cibo, mamma?” chiese.

“Lo mangeremo!” rispose lei, cercando di farlo ridere “Hai fame?” chiese speranzosa.

Sherlock scosse il capo, deluso.

“Non ho fame, mamma” rispose “Posso andare a disegnare in camera mia?”

Violet restò qualche istante in silenzio.

“Va bene” rispose alla fine e aprì le braccia, per permettergli di scendere dalla poltrona e trotterellare via, mentre lei si avviava verso la sala dove era stato allestito il banchetto per sistemare tutto il cibo in congelatore.

 

 

Sherlock, nel frattempo, aveva raggiunto la sua camera. Si era chiuso bruscamente la porta alle spalle e si era fiondato sul letto. Nuove lacrime avevano cominciato a scendere dagli occhi chiari e stavolta le aveva lasciate scorrere senza freni, con il corpo scosso dai singhiozzi.

Sapeva perché i suoi compagni non volevano essere suoi amici.

Era troppo intelligente per loro. Quando una maestra dava un compito, lui era sempre il primo a terminarlo e non sbagliava mai. Molto spesso gli capitava di sentire delle bestialità. Non importava se a pronunciarle fossero i suoi compagni di classe o le maestre. Lui doveva correggerle. Si sentiva in obbligo di farlo. Così, mentre le insegnanti arrossivano, ma cercavano di tenere un comportamento adulto di fronte a quel bambino saccente, gli altri bambini lo insultavano e lo prendevano in giro.

Inoltre si annoiava durante tutti i giochi che proponevano durante l'intervallo. Non riusciva a sentirsi coinvolto in quei passatempi per lui così noiosi. Mosca cieca, nascondino, indiani e cow boy. Lui avrebbe volentieri fatto il pirata, ma quella volta in cui aveva osato portare una benda e un uncino fatti da lui e addirittura indossarli durante la ricreazione, tutti gli avevano riso dietro. Così aveva cominciato a stare in disparte. Mangiava la sua merenda seduto su un gradino, leggendo un buon libro o stringendo a sé il suo migliore amico.

 

“A quanto pare siamo rimasti soli ancora una volta, John” disse, dopo essersi soffiato il naso con un fazzoletto che teneva sempre vicino al letto, per le emergenze di quel tipo.

Il cane peluche chinò lentamente il capo, appesantito dall'imbottitura. Gli occhi azzurri di plastica lo guardavano senza vederlo, ma a Sherlock sembrò di trovarci una scintilla di compassione, o forse la cercava. Lo prese per una zampa e lo strinse forte al petto.

Il cane John non protestò per quell'eccesso di intimità. Si lasciò semplicemente abbracciare e permise al piccolo Sherlock di sfogare su di lui tutte le sue paure, le sue ansie, le su frustrazioni.

Come tutti i giorni. Tutti i giorni che Sherlock passava da solo, isolato in quel suo mondo personale che aveva creato per sfuggire ad una realtà troppo dolorosa da affrontare.

Aveva costruito una casetta in quel mondo. L'aveva arredata e ci aveva stabilito fissa dimora. La casetta era pian piano cresciuta per poter ospitare tutto ciò che stava apprendendo ma, col passare del tempo, si rendeva conto che quelle mura erano troppo distanti e fredde. Prima o poi, quella che era una piccola casa di poche stanze, si sarebbe trasformata in un palazzo, dove lui sarebbe stato solo con l'eco dei suoi pensieri.

Sarebbe rimasto solo per sempre? Non poteva saperlo, ma cominciava a sospettare per un sì.

Solo. Solitudine. Quelle parole si depositarono sul suo cuore come un grosso masso ingombrante e gli mozzarono il respiro. Aprì la bocca per inspirare più aria e strinse forte John.

Si raggomitolò nel letto e sperò che il sonno venisse a prenderlo presto.

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Capitolo 2
*** Fughe e nuovi incontri ***





Fughe e nuovi incontri

 

 

 

 

 

 

Quella sera non aveva mangiato.

Quando sua madre era entrata discretamente in camera sua la per la cena, lui aveva fatto finta di dormire.

Non aveva voglia di affrontare i suoi genitori e suo fratello. Voleva solo dormire e dimenticare quella brutta giornata.

Fu Mycroft, l'ultima persona che voleva incontrare, a riportarlo alla realtà. Entrò in camera silenzioso e si sedette in fianco al fratellino. Il peso robusto del giovane fece inclinare il materasso e Sherlock scivolò suo malgrado verso di lui.

“Vai via, Mycroft” gli sussurrò, con il viso ancora nascosto sotto il cuscino “Lasciami in pace!”

Il ragazzo sorrise e lo cinse con un braccio.

“Sherlock … capisco come ti senti ...”

“No!” obiettò il bambino, rigirandosi come una serpe e guardandolo con gli occhi assottigliati dall'astio “Non capisci! Tu hai degli amici! Io … non ne ho” concluse poi, immergendo nuovamente il viso nel cuscino.

“Forse potresti provare ad essere più … più … gentile?” propose Mycroft, carezzandogli la schiena con ampi gesti.

“Non è colpa mia se sono tutti stupidi!” esclamò Sherlock, stringendo i pugni.

“Non dovresti farglielo pesare, però” suggerì il maggiore, sussurrandogli nell'orecchio.

“Sono solo invidiosi di me” continuò Sherlock, facendo finta di non aver sentito “Sono invidiosi perché io sono più intelligente di loro”

“Ti piacerebbe tanto giocare con loro?” gli chiese Mycroft, prendendolo per una spalla per farlo girare verso di lui.

“Sì … no ...” rispose Sherlock, confuso “Fanno sempre giochi stupidi e io mi annoio con loro” spiegò, premendo il dito sul cuscino “Ma vorrei tanto avere un amico”

Mycroft sospirò e gli prese la mano.

“Sherlock … guardami”

Il bambino fece uno sforzo e guardò gli occhi del fratello, così simili ai suoi.

“Troverai un amico” gli disse Mycroft, come se fosse una promessa “Di questo sono più che sicuro”

Sherlock sbuffò, impaziente.

“Come fai ad esserne sicuro?” gli domandò acido “Tu ...”

“Io ho degli amici e non so cosa stai provando” recitò lui, volgendo gli occhi al cielo “Me lo dici sempre. Cambia musica, per favore. Non è così che cambierai le cose. Devi impegnarti e ...” esitò, in cerca delle parole giuste “ … diventare un po' più umile”

Sherlock sussultò a quella parola. Era una parola che per lui sapeva di …

“Falso” disse ad alta voce “Falso! Falso e ancora falso! Non sarò mai umile. L'umiltà è una cosa stupida. È come mentire. Io voglio dire sempre la verità. Dire che sono come loro sarebbe come mentire e io … io non voglio mentire!” [1]

Mycroft lo prese in braccio e lo fece sedere sulle sue gambe.

“Ascolta bene” gli disse stringendolo forte, ma non troppo per non fargli male “Adesso io e te andiamo in cucina. Mamma e papà ci aspettano per mangiare la torta e aprire i regali. Che ne dici, andiamo?” gli chiese poi, facendogli l'occhiolino.

Sherlock rimase qualche istante meditabondo poi, finalmente, un accenno di sorriso apparve sul suo visino stanco dal pianto.

“Va bene” disse “Sai che la torta l'abbiamo fatta io e la mamma insieme?” chiese poi, riempiendosi di orgoglio e dimenticando, almeno apparentemente, la festa andata male.

“Davvero?” gli chiese Mycroft, alzandosi senza lasciarlo andare “Non vedo l'ora di assaggiarla. Certo, dovrò fare un bel po' di ginnastica per smaltire la ciccia, ma sono sicuro che ne varrà la pena”

Quell'ultima battuta fu decisiva.

Sherlock cinguettò di gioia e strinse forte il collo massiccio del fratello in un abbraccio pieno di gratitudine.

Scesero in cucina e mangiarono insieme la torta. Sherlock aprì con entusiasmo i regali dei genitori.

Mamma e papà gli avevano regalato un microscopio e Mycroft un archetto nuovo per il suo violino. Regali stupendi che lo resero felicissimo. Violet e Siger lo guardarono sollevati mentre giocava con il fratello e cominciava ad usare il suo nuovo microscopio.

Sapevano che la vita del loro figlio minore non era tutta rose e fiori e gli dispiaceva. Soffrivano pensando che Sherlock non avesse nessun amico, a parte Mycroft. Si guardarono negli occhi e si intesero subito. Avrebbero risolto loro quella situazione. La solitudine non avrebbe più fatto parte della vita di Sherlock.

 

 

 

Il primo giorno di scuola dopo le vacanze era arrivato. Sherlock non sapeva ancora come affrontare i suoi compagni di classe. In fin dei conti lui li aveva invitati e nessuno di loro si era presentato …

Decise di far finta di niente. Entrò in classe mentre suonava la campanella e andò a sedersi al suo posto, senza salutare nessuno.

Mise a posto la cartella piena di libri e quaderni e tirò fuori l'astuccio.

Proprio in quel momento entrò la maestra.

“Bentrovati, bambini!” esclamò, con un sorriso enorme “Andate tutti a sedervi, forza!”

I bambini, ubbidienti, andarono ai loro posti.

“Sono felice di rivedervi dopo tutto questo tempo” disse allargando le braccia “Avete fatto i compiti?” aggiunse poi, incrociando i polsi dietro la schiena e sporgendosi in avanti con il busto.

In risposta ottenne un coro di 'sì'.

“Molto bene” disse sorridendo e annuendo “So anche che qualche giorno fa c'è stato il compleanno di Sherlock. Vi siete divertiti alla sua festa?”

Sherlock arrossì vistosamente e chiuse gli occhi. Attorno a lui, gli altri bambini avevano cominciato a guardarsi gli uni con gli altri e a sussurrare.

“Allora?” domandò di nuovo la maestra, guardandosi in giro “Nessuno di voi c'è stato? Sherlock?” chiese poi, rivolgendosi al bambino “Quanti di loro c'erano alla tua festa?”

Sherlock chinò il capo, triste.

“Nessuno” sussurrò, ma la maestra non lo sentì.

“Puoi ripetere?” disse “Non ho sentito bene”

Sherlock aprì bocca per rispondere ma Sally parlò per lui.

“Nessuno di noi è andato alla sua festa” disse, alzandosi in piedi e guardandolo altezzosa “Lui è sempre antipatico con noi perché pensa di essere più intelligente, ma non è vero”

“Io sono più intelligente!” disse lui, a denti stretti.

“Ecco!” esclamò Sally, indicandolo “Ha sentito, signora maestra?”

“Calmatevi, bambini” disse la donna, cercando di mediare “Non è stato carino da parte vostra non presentarvi alla sua festa, soprattutto perché vi ha consegnato l'invito più di un mese fa. D'altra parte” disse poi, rivolta a Sherlock, aggrottando leggermente le sopracciglia “Tu non sei molto gentile nei loro confronti. Dovresti essere un po' più modesto e imparare a collaborare e giocare con gli altri. Che ne dite, bambini? Gli diamo un'altra possibilità?”

Sorrise e chiuse gli occhi soddisfatta, ma il classico coro di 'sì' non arrivò.

“No, signora maestra” disse Sally “Lui è cattivo e noi lo odiamo” disse poi, guardando Sherlock con un sorrisetto maligno stampato in viso.

Sherlock avvampò. Lui non voleva essere cattivo. Si guardava attorno e vedeva solo persone stupide, idioti che a suo parere non sapevano come stare al mondo. Sapeva benissimo valutare la gente ed era consapevole di essere più intelligente dei suoi compagni di classe e non aveva nessuna intenzione di comportarsi da stupido solo per farsi degli amici.

Un amico però lo avrebbe voluto tanto.

Sentiva gli sguardi dei bambini su di lui e cercò con tutte le sue forze di non piangere. Non voleva che gli altri lo vedessero debole.

Guardò la maestra. Il mondo era leggermente sfocato dalle lacrime, così si passò un bracco sul viso. La donna era a disagio. Nessuno si era azzardato a smentire le parole di Sally, anzi. Tutti annuivano e guardavano Sherlock con occhi carichi di amarezza. Nessuno di loro aveva avuto il coraggio di dirlo, ma tutti concordavano con le parole appena pronunciate.

Il calore sprigionato da quelle occhiate lo fece arrossire ancora di più. Si sentiva al centro di un'attenzione indesiderata. Le lacrime cominciarono a bussare ai suoi occhi prima che potesse rendersene conto, ma non le voleva far sgorgare. Quando capì che non poteva veramente più trattenerle, si alzò in piedi di scatto e corse fuori dall'aula. L'ultima cosa che sentì fu la voce della maestra chiamarlo per nome e le risate dei bambini.

 

Sapeva che quello che stava facendo era male, ma non poté fare a meno di scappare. Corse attraverso il cortile e si insinuò tra due sbarre della ringhiera. Corse lungo il marciapiede, attraversò la strada e finalmente arrivò a Regents Park.

Quello, in tutta Londra, era il suo parco preferito. Abbastanza lontano da casa per poter essere libero da Mycroft e sufficientemente vicino alla scuola per potercisi rifugiare dopo le lezioni, prima che la mamma lo andasse a prendere.

Continuò a correre fino a quando le gambe non cedettero per lo sforzo. Individuato un angolino comodo, ci si avvicinò con calma. Lo spazio tra quei due alberi era perfetto per nascondersi. Lì nessuno sarebbe andato a cercarlo. Si raggomitolò e cercò di escludere tutto il mondo attorno a sé.

Il tentativo fallì in meno di un minuto.

“Hey, tu!”

La voce di un bambino lo raggiunse come lo scoppio di un petardo. Non se l'aspettava.

“Cosa ci fai qui?” gli chiese il ragazzino.

Sherlock sollevò lentamente il viso e guardò il suo interlocutore.

Era un bambino moro, con grandi occhi castani. Lo guardava incuriosito.

“Tu cosa ci fai qui, piuttosto” rispose accigliato.

“Amichevole, eh?” gli chiese, inginocchiandosi vicino a lui “Hai pianto, per caso?”

Sherlock tirò su col naso e guardò altrove.

“Non preoccuparti” gli sussurrò il bambino, sedendosi accanto a lui “Non lo dirò a nessuno. Ti fidi?”

“Cosa ci fai qui?” domandò di nuovo Sherlock.

“Mi annoiavo a lezione” rispose il bambino, stringendosi sulle spalle “Così sono andato via. Tu?”

“Più o meno per lo stesso motivo” rispose Sherlock. Non voleva ammettere di essere scappato per debolezza.

Poi, inaspettatamente, il nuovo arrivato disse una cosa che lo sorprese.

“Vorrei essere tuo amico”

Sherlock lo guardò con gli occhi sgranati, ma si rabbuiò subito.

“Nessuno vuole essere mio amico” disse, stringendosi ancora di più, come un riccio.

“Chi lo ha detto?” domandò l'altro, ridendo.

“Tutti. Tutti i bambini che conosco non vogliono essere miei amici” rispose Sherlock “Nemmeno tu farai eccezione”

“Io sono un'eccezione” annunciò il bambino, gonfiando orgogliosamente il petto “Potremmo essere amici, sai? Perché nessuno vuole fare amicizia con te?”

“Sono troppo stupidi!” gridò Sherlock a denti stretti “Non mi piacciono gli stupidi, ma vorrei avere un amico”

“Nemmeno a me piacciono gli stupidi e nemmeno io ho tanti amici” lo rassicurò “Ne ho uno, ma ci vediamo pochissimo. Si chiama Sebastian e ora è in India con i suoi genitori” Sospirò, invaso da qualche ricordo malinconico” Sai che ti dico?” gli chiese poi, illuminandosi improvvisamente “Saremo amici. Tu, d'ora in poi, sarai il mio migliore amico. Ci stai?” gli chiese, tendendogli la mano.

Sherlock osservò quella manina paffuta con attenzione poi, finalmente si lasciò andare. Rilassò tutti i muscoli del corpo e sorrise.

“Va bene” disse, stringendo la mano al suo nuovo amico “Io mio chiamo Sherlock Holmes, e tu?”

“James Moriarty” rispose il bambino, stringendo più forte la mano e sorridendo.

Anche Sherlock sorrise.

Finalmente aveva un amico.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Questo discorso lo si può ritrovare, con altre parole, ne 'L'avventura dell'interprete greco'. Watson si stupisce quando Holmes afferma che Mycroft è più intelligente di lui e Sherlock gli risponde che la modestia non è una virtù perché sottovalutare le proprie capacità è falso come esagerarle.

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Capitolo 3
*** In viaggio ***


In viaggio

 

 

 

 

 

 

Sherlock si guardò attorno, spaesato. Poi, con un grande sforzo di volontà, tornò a guardare il bambino davanti a lui.

Era tutto così strano. Un bambino sconosciuto gli si presentava davanti e voleva fare amicizia. Si puntellò con le mani sul suolo e si sporse oltre il piccolo nascondiglio che aveva trovato.

James era evidentemente più grande di lui di almeno uno o due anni e portava la divisa di un'altra scuola.

Ad un tratto si ricordò che erano le otto e mezza di mattina e lui era fuori dall'aula.

“Cosa ci fai qui?” chiese al bambino, guardandolo con severità.

Lui sapeva cosa ci faceva fuori dalla scuola. Era scappato da quella vipera di Sally, ma non riusciva a comprendere la presenza di James.

“Te l'ho detto” disse lui, alzando appena le spalle “Mi annoiavo. La scuola è noiosa. Troppo facile. Io vado in seconda elementare” disse poi, sorridendo affabile “Tu che classe frequenti?”

“Io sono in prima” ammise Sherlock “Anch'io mi annoio a scuola” aggiunse poi, sbuffando.

“Ti capisco, sai?” gli disse James, alzandosi e spolverandosi i pantaloni “Dimmi una cosa … perché stavi piangendo?”

Sherlock si sentì punto nell'orgoglio. Arrossì vistosamente, ciononostante tentò di mantenere una certa dignità.

“Non stavo piangendo” disse, alzando il mento con fare orgoglioso e voltando il viso.

“Davvero?” domandò Jim, sorridendo malizioso e porgendogli la mano per aiutarlo ad alzarsi “Eppure avevi gli occhi rossi. Stai male per caso? No, stavi piangendo. È inutile che mi inganni. Siamo amici ora. Puoi fidarti di me e … confidarti! Avanti!” lo spronò, dandogli una sonora pacca sulla spalla “Cosa non va?”

Sherlock sospirò e, dopo averla guardata qualche istante, afferrò la mano che James gli offriva.

“Avanti ...” lo incoraggiò nuovamente James, con un sorriso rassicurante “Non dobbiamo avere segreti tra amici”

Sherlock sorrise. Era abituato a doversi difendere, a erigere un muro tra lui e gli altri. Quel bambino, invece, lo faceva sentire sicuro. Lo sentiva simile a sé.

“Quella stupida oca ...” cominciò, facendosi scuro in volto “Sally, una mia compagna di classe ...”

“Problemi d'amore?” domandò James, con tono malizioso.

“No!” rispose Sherlock, forse con troppa enfasi “Quella stupida ...”

“Lasciala perdere” tagliò corto James “Non ha importanza. Non più. Quella streghetta ti ha fatto piangere, e allora? Ti vendicherai. Ci vendicheremo. Ora siamo amici. I tuoi problemi sono i miei. Ricordatelo sempre”

Sherlock faceva ancora fatica a credere a quel bambino, sbucato all'improvviso da chissà dove, ma una vocina dentro di lui lo incoraggiava a fidarsi, a lasciarsi andare.

Sorrise e annuì al suo nuovo amico. Una nuova sensazione si impadronì di lui. Percepì un calore mai sentito prima al livello del cuore.

Amicizia. Una cosa che non aveva mai sperimentato, solo agognato. Ora ce l'aveva e … gli piaceva. Gli piaceva tantissimo.

“Cosa facciamo, adesso?” gli domandò James, infilandosi le mani in tasca e osservandosi attorno spensierato “Che ne dici di fare una passeggiata fino a Camden? Non è molto distante da qui”

“Io preferirei tornare a scuola” disse Sherlock, incerto “Non dovrei saltare la lezione ...”

“Non mi dirai che adesso ti preoccupi della lezione, eh?”

“Veramente ...” provò ad obiettare lui, ma James continuò.

“Le lezioni sono noiose. Sono sicuro che tutto quello che dirà la maestra tu lo sai già, vero?”

Sherlock rifletté qualche istante. In effetti era vero. Starsene rinchiuso in quella stanza tutto il giorno a fare cose noiose come leggere, scrivere o colorare stupidi disegni, non lo entusiasmava più di tanto.

“Va bene” disse infine, sorridendo deciso “Mi hai convinto. Ormai il danno l'ho fatto, tanto vale andare fino in fondo!”

“Bravo!” si congratulò James, dandogli una pacca sulla spalla “Andiamo?”

Sherlock annuì. La sua mente, nel frattempo, era andata ai suoi genitori. Si sarebbero arrabbiati, sapendo che aveva marinato la scuola? Guardò James e sorrise. Non gliene importava niente. Ormai aveva un amico e niente al mondo avrebbe potuto intristirlo.

Si avviarono verso nord. A Sherlock sarebbe piaciuto tenerlo per mano, come teneva la zampetta pelosa di John, il suo cane peluche. Allungò la mano in direzione di quella di James, ma la ritrasse subito. Poteva prendersi certe confidenze? James lo avrebbe apprezzato? No, meglio non rischiare.

“Che ti prende?” gli chiese “Qualcosa non va?”

“No” rispose Sherlock, nascondendo la mano dietro la schiena e ridendo “Sto bene”

“Sei mai stato a Camden Town?” gli chiese James, dandosi aria da uomo vissuto.

Sherlock si limitò a scuotere la testa in risposta.

“Non te ne pentirai. È un posto fantastico. Però ...” aggiunse, fermandosi un attimo per guardarlo “Penso che lì ti annoieresti. Che ne dici di andare nella brughiera?”

Sherlock sollevò le sopracciglia, al massimo della sorpresa.

“Che hai adesso?” gli chiese James.

“Ma ...” cominciò Sherlock, leggermente turbato “La brughiera è lontana, no?” domandò, ripensando ai lunghi viaggi in auto con i genitori per andare a passeggiare la domenica.

“No” rispose James, scuotendo la testa “Non dovremo camminare molto. Vedrai. La brughiera di Hampstead è poco lontana da qui. Se vuoi, però, possiamo prendere la metropolitana fino ad un certo punto, che ne dici?”

“Va bene” rispose Sherlock e, sfoggiando il suo sorriso migliore, seguì James.

 

 

Camminarono costeggiando il parco, andando sempre verso nord, poi James indicò la strada, piena di automobili e pedoni.

“Andiamo di là” disse, indicando la via come un capitano di esperienza “Prenderemo la metro a Baker Street”

Sherlock annuì e lo seguì senza parlare. Si sentiva stranamente intimorito da quel bambino più grande di lui. Per la prima volta stava vivendo un'avventura e tutto era così nuovo e meraviglioso che non voleva sciuparlo con stupide parole.

Baker Street era una via estremamente viva. Auto e pedoni scorrevano veloci e presto Sherlock si sentì stordito di fronte a tutto quel caos. Troppi stimoli stavano alimentando la sua piccola mente, così sensibile ai dettagli e ai minimi particolari. Si tenne la testa, confuso. A James non sfuggì.

“Non sei mai stato in una grande via?” domandò, lanciandogli un'occhiata “Lo immaginavo. Non preoccuparti. Tra poco saremo lontani da tutto questo caos”

Sherlock annuì e cercò di sorridere. In fin dei conti, quel caos gli piaceva. Gli piaceva osservare le persone. Cercare di capire dai loro passi, dai loro vestiti, dai loro sguardi, da dove provenivano, dove sarebbero andate e cosa pensavano.

Lasciò scorrere lo sguardo sui palazzi. 217 .. 219 ..221 … sapeva già contare e ne era orgoglioso. Quei mocciosi con cui doveva stare in classe sapevano a malapena quante dita avevano in una mano, mentre lui era già in grado di leggere numeri a tre cifre. Sorrise, compiacendosi di quella sua capacità. Sapeva di essere superiore agli altri. Era un dato di fatto. Doveva solo trovare qualcuno che lo apprezzasse per questo e non provasse invece invidia.

Guardò bene quelle case. Erano edifici di mattoni rossi, quasi tutti uguali tra di loro. Tre piani, più uno sotterrato e due finestre per piano, il tutto incorniciato da modanature di mattoni sporgenti e chiuso grazie a solide porte nere, decorate con il numero della casa in caratteri di ferro dorato e un batacchio sempre verniciato d'oro. Gli piacevano. Un giorno, quando sarebbe stato grande, gli sarebbe piaciuto vivere in una casa così. Una bella casa di mattoni affacciata in una via piena di vita.

Una mano lo afferrò di colpo per la manica, facendolo tornare alla realtà.

“Andiamo” disse James, indicando con un moto della testa le scale della metropolitana “Dobbiamo scendere ora”

Sherlock annuì e si liberò della presa di James.

“Non ho mai preso la metropolitana” disse mentre scendevano i gradini “Non ho nemmeno i soldi per il biglietto” aggiunse poi, accorgendosi all'improvviso di quel particolare così importante.

“Non c'è problema” disse James “Offro io. Oggi ho … hem … preso in prestito qualche sterlina dal portafoglio di mia madre”

Sherlock stava per ribattere che rubare era sbagliato, ma James si era già confuso con la folla per andare a comprare due biglietti. Il panico lo investì. Se si fosse perso? Jim lo aveva abbandonato lì? Tutta quella gente lo sovrastava. Erano giganti in confronto a lui. Si spostò un paio di volte per evitare di essere calpestato da uomini d'affari troppo impegnati a parlare al cellulare o da massaie in ritardo per preparare il pranzo.

Le prime lacrime di disperazione stavano già facendosi strada, quando sentì la voce di Jim alle sue spalle.

“Stupida vecchia bigliettaia! La prossima volta userò le macchinette automatiche!”

Sherlock approfittò della distrazione di James per passarsi la manica sugli occhi e sorrise.

“Hai i biglietti?” gli chiese, porgendo una mano per avere il suo.

“Eccoli” rispose lui, posando sulla sua mano tesa un rettangolo rosa “Ora ti faccio vedere come si usano”

“James?” lo chiamò Sherlock, cercando invano di non arrossire “Ti dispiace se ti tengo la mano?”

“Cosa?” domandò Jim, guardandolo con gli occhi spalancati e le sopracciglia sollevate “Stai scherzando?”

“No ...” rispose Sherlock, sentendo ormai il sangue defluire sulle sue guance “Solo ho paura di perdermi … Con tutta questa gente ...”

James lo squadrò per un attimo. La differenza fisica era evidente. James era più alto di Sherlock e leggermente cicciottello. Quanto bastava per farlo sembrare forte, ma non troppo da ritenerlo grasso.

“In effetti hai ragione” commentò, massaggiandosi il mento con due dita “Tu sembri un elfuccio*. Dammi la mano” disse poi, offrendogli la sua.

Sherlock sorrise. Quella storia sul perdersi era vera, ma era anche una scusa per poter stare con lui, per poterlo sentire ancora più vicino.

Si incamminarono verso le porte d'ingresso della stazione e James gli mostrò come usare il biglietto.

“Lo infili qui ...” disse alzandosi sulle punte per inserire il suo biglietto nella feritoia “ … ed esce qui. Facile, no?”

Sherlock annuì, ma per lui non era per niente facile. James era già passato dall'altra parte e lui faceva fatica a raggiungere la cima della macchinetta per far obliterare il suo biglietto. Per quanto si allungasse, non ci arrivava.

“Muoviti!” lo incalzò James “Non ci arrivi? Sei proprio un tappino!”

Sherlock avvampò per l'imbarazzo e la rabbia. Si puntellò con un piede su una sporgenza della macchina e si arrampicò abbastanza in alto da poter vedere la fenditura nella quale avrebbe dovuto inserire il biglietto. Con uno sforzo enorme, vista la posizione scomoda, riuscì nel suo intento. Il biglietto fu risucchiato dentro e uscì nuovamente fuori, con un timbro in più.

Le porte si aprirono di scatto e Sherlock fece un balzo per passare, ma queste si richiusero, incastrandogli un braccio e una gamba.

“Ti vuoi sbrigare?” lo chiamò Jim, dall'altra parte.

Con uno strattone Sherlock si liberò dalla presa delle porte e seguì James verso le scale mobili.

Era strano stare su quelle scale che si muovevano da sole. Strano ma divertente. Guardò James. Lui sembrava annoiato e la cosa lo rattristò un poco. Per lui tutto era nuovo, avventuroso ed eccitante.

Dopo un tortuoso su e giù per scale mobili e normali, si ritrovarono davanti alla ferrovia. Era un lungo tunnel pieno di gente, ferma in piedi davanti ad un binario. Le voci dei presenti erano amplificate dalla forma dell'ambiente e tutto sembrava grande e spaventoso.

Una folata di vento caldo lo investì, facendolo sobbalzare. James, al suo fianco, ridacchiò.

“Non preoccuparti” gli disse “Sta solo arrivando un treno”

Pochi istanti dopo, infatti, si fermò davanti a loro il lungo treno della metropolitana. Le porte si aprirono e la gente cominciò a scendere, mentre chi stava aspettando sulla banchina salì di tutta fretta.

James strinse più forte la mano a Sherlock e lo trascinò a bordo. Individuò due posti vuoti e ci si fiondò, portandosi dietro Sherlock come un sacco di patate.

“Eccoci qui” disse sedendosi e sospirando per la contentezza “A quest'ora è quasi impossibile trovare posto per sedersi!”

Sherlock rise e poggiò la schiena al sedile.

Il treno, dopo un leggero movimento di assestamento, ripartì. Una voce metallica annunciò la seguente fermata, ma a Sherlock non importava. Guardò James, seduto placidamente al suo fianco e sorrise.

L'avventura era appena iniziata.

 



Nota dell'autrice:
Ringrazio tutti quelli che leggono e che seguono questa storiella, anche in silenzio. Un beso, Mini

 

 

 

 

 

*omaggio a SeleneWOLF <3

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Capitolo 4
*** Punizione ***


 

 

 

Bentrovati!

Speravo che, dopo il successo del primo capitolo, arrivassero un po' più di recensioni. Pazienza. Mi sto divertendo molto a scrivere questa storiella e spero che voi vi divertiate altrettanto leggendola.

Per il momento vi auguro buona lettura!

Mini

 

 

 

 

Punizione

 

 

 

 

 

Non erano passati nemmeno cinque minuti da quando erano saliti a bordo del treno, quando Sherlock si sentì afferrare bruscamente per un braccio. Per la paura lanciò un piccolo urlo di sorpresa.

Sopra le sue spalle, un uomo lo stringeva per un polso e lo guardava con aria severa.

“Cosa ci fate voi due qui, da soli?” chiese, guardandoli con sospetto “Dove sono i vostri genitori?”

Sherlock aprì la bocca per parlare, ma James rispose per lui.

“Non sono affari tuoi” disse, come se si stesse rivolgendo a un suo coetaneo “Lasciaci in pace”

L'uomo, un poliziotto che li aveva seguiti dalla stazione, guardò James con gli occhi sgranati per qualche istante, indeciso se essere arrabbiato o semplicemente sorpreso. Decise per la prima possibilità e aggrottò le sopracciglia, in un'espressione minacciosa.

“Non scherzare, ragazzino” lo apostrofò, incrociando le braccia al petto e allargando le spalle, per sembrare più grande “Ora verrete con me, chiameremo i vostri genitori e tornerete a casa”

Sherlock, in preda al panico, guardò James. Il ragazzino sbuffò e mise il broncio, ma non sembrava minimamente spaventato dal comportamento autoritario dell'uomo.

Quando il treno si fermò alla fermata successiva, l'uomo prese Sherlock e James per i polsi e li costrinse a seguirlo. Fu una lunga e faticosa marcia attraverso i tunnel sotterranei, su e giù per le scale. Finalmente, dopo aver raggiunto la superficie, si diressero verso un piccolo ufficio situato vicino alla biglietteria. L'uomo entrò e salutò un suo collega, seduto di fronte ad una scrivania.

“Ciao Steve” disse sbrigativamente “Ho bisogno di rintracciare i genitori di questi due marmocchi. Posso usare il telefono?”

Steve osservò Sherlock e Jim a lungo, poi si rivolse al collega.

“Dove li hai trovati, Mark?” gli domandò, girandosi per guardarli.

“Stavano gironzolando in stazione a Baker Street” rispose, stringendo più forte il braccio di James, che stava tentando di scappare “Poi hanno preso un treno per andare … Dove volevate andare, voi due?” domandò poi, lanciando a James uno sguardo terrificante.

“Ce l'avevano il biglietto?” domandò Steve, come se il fatto che due bambini vagassero per Londra da soli non fosse un problema.

“Il biglietto ce l'avevano” rispose Mark “Non è questo il punto, Steve. Tu” disse, rivolgendosi sempre verso James “Dimmi il tuo nome!”

In risposta James gli mostrò cinque centimetri buoni di lingua e gli diede un poderoso calcio sullo stinco. Mark, preso di sorpresa, urlò per il dolore e gli lasciò il polso. James ne approfittò e con un balzò uscì dal piccolo ufficio.

“Maledetto moccioso!” gridò, massaggiandosi il polpaccio “Steve” disse poi, lanciandogli Sherlock come se fosse un sacco di patate “Occupati tu di questo marmocchio, io vado a recuperare l'altro.

Sherlock sollevò lentamente lo sguardo verso Steve. La fuga improvvisa di James lo lasciò nel panico più totale. Era solo, con due adulti che non conosceva e il suo nuovo amico gli aveva voltato le spalle senza un briciolo di rimorso.

“Dunque” cominciò l'uomo, rilassandosi sulla sedia e guardandolo bonariamente “Come ti chiami, piccolino?”

Sherlock sobbalzò. Steve sembrava buono, ma lui non si fidava ancora. Era spaventato, lontano da casa, davanti ad uno sconosciuto.

“Tranquillo” gli disse l'uomo, guardandolo con dolcezza “Non ti farò niente di male. Dimmi come ti chiami, così chiameremo i tuoi genitori che verranno qui a prenderti”

I suoi genitori. Sherlock tremò al pensiero di quello che avrebbero potuto fargli se avessero scoperto quello che aveva fatto. D'altra parte, ormai dovevano essere già stati informati della sua fuga dalla scuola. Una bella punizione non glie l'avrebbe tolta nessuno.

“Sherlock Holmes” rispose sommessamente, abbassando lo sguardo.

Steve alzò un sopracciglio.

“Ti ho chiesto di dirmi il tuo nome” disse, impaziente “Vuoi rispondermi seriamente?”

Sherlock aggrottò la fronte. Non capiva la reazione dell'uomo.

“Mi chiamo Sherlock Holmes” ripeté piano “Mio padre si chiama Siger Holmes e ...”

L'uomo lo fece zittire alzando una mano.

“Che nomi assurdi sarebbero questi?” domandò, trattenendo a malapena una risata.

“Sono … nomi!” rispose Sherlock, guardandolo torvo “Le ripeto che ...”

“Va bene, va bene” rispose Steve, prendendo il grosso elenco telefonico di Londra “Come hai detto che si chiama tuo padre? Siger Holmes, eh? Vediamo ...”

Sfogliò il grande libro e, trovata la pagina giusta, fece scorrere il dito sui vari nomi.

“Trovato!” esclamò, prendendo il telefono.

Digitò i numeri e Sherlock sentì chiaramente i vari bip collegati con le cifre. La stanza era insonorizzata verso l'esterno. Il segnale di libero si sentì chiaramente al di sopra di quello smorzato della folla all'esterno. Allo stesso modo Sherlock poté sentire la voce che rispose dall'altro capo del telefono.

“Pronto?” rispose una voce femminile, a Sherlock familiare, ma che gli sembrò un po' troppo preoccupata.

“Sto cercando il signor Siger Holmes” disse Steve, lanciando un'occhiata a Sherlock.

“Sono la moglie” annunciò la donna, con un sospiro d'ansia.

“Per caso ha perso un figlio?” domandò l'uomo, sorridendo convinto di aver fatto una grande battuta.

“Mio Dio!” esclamò Violet, rassicurata da quella frase “L'avete trovato? Oh, Sherlock!”

Steve coprì per un istante il ricevitore e si sporse verso il bambino.

“Allora ti chiami veramente con quel nome assurdo” disse a bassa voce, prima di tornare a parlare con la donna al telefono “Sì, signora. È qui alla stazione di St John's Wood. Un mio collega lo ha beccato mentre cercava di prendere la metropolitana per andare a ...” si bloccò e si rivolse a Sherlock “Dove volevate andare, voi due?”

La voce di Violet, dall'altro capo del telefono, lo richiamò.

“Non ha importanza” disse la donna, cercando di trattenere quella che a Sherlock sembrò rabbia mista a sollievo “Ora vengo subito a prenderlo. Lo tenga lì, la prego”

“Sarà fatto, Madame” rispose Steve accennando un inchino che, chiaramente, la donna non poteva vedere”

Chiuse la chiamata e guardò Sherlock con un sorriso beffardo.

“Conosco bene le donne” disse, incrociando le braccia al petto con evidente soddisfazione “e tu, caro mio, sei nei guai fino al collo”

Sherlock deglutì a fatica. Sapeva che la guardia aveva ragione.

 

 

Un'ora dopo Sherlock era a casa. Violet era arrivata alla stazione della metropolitana avanzando come una nobildonna. Ringraziò un estasiato Steve e prese energicamente Sherlock per un braccio, per poi trascinarlo fuori senza dire una parola.

In strada, parcheggiata poco distante dall'entrata della metropolitana, li aspettava la Mercedes del padre. Violet aprì bruscamente la portiera e ci scaraventò dentro il figlio. Dopo averlo legato ben bene al sedile, salì e partì facendo fischiare le gomme.

Non aveva parlato per tutto il tempo, salvo il breve dialogo con la guardia della stazione. Per Sherlock quel mutismo era peggio di qualsiasi parola. Da quando la madre lo aveva preso per il polso, aveva abbassato lo sguardo e non lo aveva più sollevato fino a quando erano arrivati a casa.

“Sherlock” cominciò la madre, posando i pugni sui fianchi.

A quel punto Sherlock aveva timidamente sollevato il viso, rosso per la vergogna e il pianto represso.

“Cosa pensavi di fare, me lo vuoi dire?”

Sherlock farfugliò qualcosa di incomprensibile, torturandosi le mani.

“Non ho capito. Ripeti in modo che possa sentire” gli disse la madre, con voce glaciale.

Sherlock sussultò e cercò un po' di coraggio.

“Cosa è successo, Sherlock?” gli chiese la madre, stavolta con un tono di voce più dolce.

“Stamattina Sally mi ha fatto piangere” disse “Ha detto che lei e gli altri non vogliono essere miei amici perché sono cattivo e mi odiano” disse tutto d'un fiato.

“Non capisco come ti sei trovato poi alla stazione di St John's Wood!” esclamò la donna, esasperata.

“Sono scappato” ammise Sherlock “Sono andato a Regents Park e lì ho incontrato James ...”

“Chi sarebbe questo James?” domandò Violet, pallida in viso, pensando immediatamente ad un pedofilo.

“Un bambino, mamma!” esclamò Sherlock, intuendo la preoccupazione della madre “Mi ha consolato … ha detto di voler essere mio amico ...”

Il pensiero di Sherlock andò immediatamente a James e a come l'aveva abbandonato, lasciandolo da solo in quel guaio. Abbassò lo sguardo.

“Cosa pensavate di fare voi due, eh?” domandò Violet, con rinnovata rabbia.

“James voleva portarmi a fare una passeggiata alla brughiera di Hampstead” spiegò Sherlock “Non volevamo fare niente di male ...”

“Sherlock” lo chiamò la madre e lui alzò lo sguardo “è sbagliato scappare da scuola in quel modo. Hai rischiato di essere sospeso. Ho parlato con la preside e domani potrai andare a scuola senza problemi”

Sherlock accennò un sorriso, che si spense subito notando l'espressione severa della madre.

“Non avrai problemi a scuola” spiegò, incrociando le braccia al petto “Ciò non significa che non ne avrai qui. Starai in punizione per due settimane”

“Ma ...” provò a difendersi lui, ottenendo il risultato opposto.

“Tre settimane. È la mia ultima parola. Ora fila in camera tua. Stasera non cenerai”

Sherlock annuì e si avviò vero le scale. Ogni scalino scandiva una sola domanda.

Perché?

Perché James lo aveva abbandonato? Per codardia? Perché non l'aveva aiutato? Era veramente suo amico?

Entrò in camera, ignorando Mycroft che aveva tentato di intercettarlo in corridoio e si tuffò sul piumone del suo letto. Le lacrime, prepotenti, si stavano affacciando sui suoi occhi, ma lui non le fece sgorgare. Non voleva più piangere.

Prese John per una zampa e lo trascinò verso di sé. Era stanchissimo. Le emozioni delle ultime ore lo avevano spossato. Abbracciò forte il suo peluche e si addormentò.

 

 

Quando riaprì gli occhi, il sole stava tramontando. Quanto aveva dormito? Si sentì stordito. Gli girava la testa. Si mise lentamente a sedere e guardò John.

“Pensavo di aver trovato un amico, John”disse, guardandolo negli occhi di plastica “Purtroppo ora non ne sono più così sicuro. Ho paura che resterò da solo per sempre …”

“Non dire così”

Sherlock sobbalzò. Non conosceva quella voce sconosciuta. A chi apparteneva? Si girò di scatto, ma non c'era nessuno.

“John?” disse, fissando il cane peluche.

Lo scosse, ma non ottenne risposta.

“John? Sei stato tu a parlare?”

“Certo che sì” riprese la voce.

Sherlock trattenne il fiato. Aveva paura. Il suo peluche stava parlando o lui stava impazzendo. Non c'erano altre soluzioni. Tra le due, la seconda era la più probabile.

“Non stai impazzendo” lo rassicurò la voce.

In quel momento Sherlock si rese conto che la voce proveniva da dietro di lui.

Si girò di scatto e lo vide. Si domandò immediatamente perché non l'avesse visto subito. Forse si era nascosto per fargli uno scherzo.

Davanti a lui, in piedi appoggiato allo stipite della porta, c'era un ragazzo. Era alto e doveva avere più o meno quindici anni. Aveva i capelli biondi tagliati corti e gli occhi di un meraviglioso blu.

“Ciao piccolino” gli disse “Mi chiamo John. John Watson. Vuoi essere mio amico?”

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Capitolo 5
*** Babysitter ***


Buenas noches. Un altro capitolo di questa storiella. Sherlock può sembrare un pulcino tenero e coccoloso, ma sa anche essere molto capriccioso! Fargli da babysitter può essere un lavoro estremamente difficile. Non per John Watson!
Grazie ancora per le recensioni e a presto!
Mini

 

 

 

 

 

 

 

Babysitter

 

 

 

 

 

 

 

Sherlock si raggomitolò stringendo John a sé. Uno sconosciuto si era appena affacciato alla porta di camera sua. Il panico lo immobilizzò. L'unica cosa che fu in grado di fare fu stringere ancora più forte il peluche.

“Non avere paura” gli disse il ragazzo “Voglio davvero essere tuo amico. Puoi fidarti, sai?”

Sherlock lo squadrò da capo a piedi.

Doveva avere all'incirca l'età di Mycroft, forse leggermente più giovane. Mycroft avrebbe compiuto presto 16 anni e quel ragazzo doveva averne 14 o 15 al massimo. Sembrava ben vestito, ma quelli non erano i suoi abiti. Probabilmente aveva un fratello più grande di lui che glieli aveva passati perché apparivano eccessivamente rovinati.

Perché era lì? Cosa c'entrava quel ragazzo mal vestito in casa sua? Sherlock era sempre stato abituato all'eleganza. Sua madre vestiva costosi tailleur firmati e tacchi a spillo; suo padre era sempre impeccabile con i suoi completi e anche Mycroft, quando non indossava la divisa della prestigiosa scuola privata che frequentava, si distingueva dai suoi coetanei per il suo modo di vestire. Perfino lui era costretto a portare completi d'alta moda fatti su misura.

I vestiti di quel ragazzo stonavano troppo con l'ambiente così sofisticato di quella casa.

“Sei il mio babysitter?” chiese Sherlock.

La domanda gli era venuta spontanea. Sapeva benissimo di non averne bisogno, ma era evidente che quel ragazzo non era lì per caso. Solo il fatto che dovesse indossare gli abiti di qualcun altro deponeva a suo sfavore. Bisogno di soldi, uguale lavoro part time. Lavoro part time, uguale … cosa poteva fare un ragazzo in una casa di sera se non il babysitter?

Sherlock rise della sua ingenuità. Chiaramente non era possibile che …

“Esatto” rispose John, lasciandolo a bocca aperta “Io sono ...”

Non fece in tempo a finire la parola, che l'urlo di protesta di Sherlock lo coprì.

“Maaaaammaaaaaaa!”

Era indignato. Offeso fino al midollo. Lui non aveva bisogno di un babysitter!

La donna arrivò più velocemente di quanto potesse aspettarsi. Si affacciò alla porta e lo guardò accigliata, tentando di infilarsi un orecchino. Quando lo ebbe sistemato, si rivolse al figlio.

“Hai già conosciuto John, a quanto vedo” disse, con un sorriso che non prometteva nulla di buono.

“Non. Ho. Bisogno. Di. Un. Babysitter!”

Sherlock scandì le parole ad una ad una, con rabbia. Violet si accigliò, mentre John cominciò a ridacchiare al suo fianco.

“Fino a questa mattina lo pensavamo anche io e tuo padre” disse, guardandolo minacciosa “Ci hai delusi, Sherlock. Non avremmo mai pensato che potessi fare certe cose”

“Ma ...” protestò lui, con gli occhi stracolmi di panico “Ti ho detto che ...”

“Non mi interessa cosa hai da dire” lo zittì la madre “Sei stato cattivo e disobbediente. Ti meriti la punizione e un babysitter. A dir la verità avevamo già in mente di trovartene uno, ma dopo oggi abbiamo deciso di accelerare i tempi”

“C'è Mycroft, mamma!” protestò Sherlock “Se voi dovete uscire starà lui attento a me!”

Era evidente che Violet si stava preparando per una serata fuori con Siger.

“Mycroft deve studiare” gli spiegò Violet “Non può sprecare tempo prezioso stando attento ad un bambino dispettoso e disobbediente. John baderà a te. Ora cerca di fare il bravo e obbedisci a lui. È chiaro?” chiese alla fine, con un tono che non ammetteva un rifiuto.

Sherlock annuì e strinse ancora più forte il peluche.

In quel momento Siger apparve sulla soglia. Stava finendo di allacciarsi la cravatta e sembrava piuttosto di fretta.

“Muoviti, Violet” disse alla moglie “Siamo già in ritardo. Sherlock” disse poi, rivolgendo al figlio uno sguardo severo “Mi rincresce aver dovuto adottare simili soluzioni, ma non mi hai dato altra scelta, giovanotto”

Sherlock affondò il viso nel petto caldo e accogliente del peluche mentre i genitori si allontanavano dalla stanza.

“Mi raccomando” disse Violet, rivolta a John “Il nostro numero di cellulare te l'abbiamo dato. Fallo mangiare. La sua cena è in frigorifero, basta scaldarla. Se fa i capricci, obbligalo e non farti scrupoli ad essere cattivo con lui. Quando vuole” aggiunse, lanciando un'occhiata di rimprovero al figlio “Sa essere veramente indisponente. Torneremo per le undici, undici e mezza e ...”

“Non si preoccupi” la interruppe John con un movimento fluido della mano “Baderò io a Sherlock. Stia pure tranquilla e si diverta”

Violet, rassicurata, annuì e rivolse un ultima occhiata al figlio.

“Cerca di fare il bravo” gli disse, con un tono di voce più dolce, forse pentita per averlo trattato con così tanta durezza.

Sherlock sollevò leggermente il viso per guardarla e annuì.

“Bravo bambino” lo lodò lei “A dopo John” disse rivolta al ragazzo e se ne andò.

 

 

 

John, rimasto solo con Sherlock, entrò finalmente nella stanza. Il bambino si strinse ancora di più al suo cane peluche.

“Vai via” disse, guardandolo male.

John alzò un sopracciglio ma non disse nulla.

“Ti ho detto di andare via” ripeté Sherlock, girandosi per dargli le spalle “Non hai sentito?”

“Ho sentito” rispose John, sedendosi al suo fianco “Mi chiedo solo come faremo a giocare insieme se me ne vado”

“Non voglio giocare con te” gli disse Sherlock “Non mi fido! Vai via!”

John sospirò. Quel marmocchio era più diffidente del previsto.

“Eppure ti sei fidato di quel bambino con il quale volevi scappare” si interruppe per un momento “Dove volevi andare, di preciso?”

Sherlock scattò, rabbioso.

“Nella brughiera di Hampstead” disse infine “Volevamo ...”

“Hai pensato, per un momento, che potesse essere pericoloso?” lo interruppe John, senza riuscire a trattenere un filo di severità nella voce.

“No” rispose Sherlock, fingendo indifferenza “Io sono troppo intelligente per mettermi nei guai”

La sicurezza che quel batuffolo nero ostentava intenerì John. In quel momento gli vennero in mente tante cose da dirli. Avrebbe potuto avvertirlo dei pericoli del mondo, che era ancora troppo piccolo per poter andare in giro così da solo, che se non avesse fatto attenzione, la sua intelligenza lo avrebbe messo nei guai.

Non disse nulla di tutto ciò. Si limitò a sorridergli e ad avvicinarsi per cercare di prenderlo in braccio. Un'impresa ardua, quasi impossibile, visto che il bambino continuava a scappare in tutte le direzioni.

“Ti ho detto di andare via!” gridò “Vattene via!”

“Come vuoi” disse John, allontanando le mani da lui “Piuttosto, dimmi una cosa. Hai fatto i compiti per domani?”

Sherlock mormorò qualcosa, ma John non capì.

“Puoi ripetere?”

“Ti ho detto che non so che compiti ci sono per domani!” gridò il bambino “Sono scappato dall'aula e non sono più tornato a scuola!”

John rise di fronte a quella reazione così esagerata.

“Va bene” lo rassicurò “Calmati, adesso. Non puoi chiamare nessuno per farteli dare?”

Sherlock si limitò a scuotere la testa.

“Ne sei sicuro?” tornò a domandare John, inclinando leggermente la testa.

“C'è Sally” sussurrò il bambino “Ma non voglio parlare con lei. La odio”

“Odiare è una parola troppo grande per un bambino” gli disse John, sospirando.

“Lei mi odia” rispose Sherlock, più serio che mai “Lo ha detto lei. Lei mi odia e anch'io la odio”

“Se vuoi posso chiamarla io” propose John, che non sapeva più a che santo votarsi.

Sherlock non rispose. Si girò di scatto per dargli le spalle e sollevò il mento, in un gesto di ostentata caparbietà.

“Lo considererò un sì” disse John “Come si chiama questa tua amica?”

Sherlock sospirò e alla fine cedette.

“Sally Donovan” rispose senza voltarsi “Il suo numero è nella rubrica vicino al telefono”

John scese al piano inferiore. Come gli aveva detto Sherlock, appoggiata al mobiletto all'ingresso, c'era una piccola rubrica con la copertina rigida. L'aprì alla lettera D e passò il dito sopra i vari nomi finché non trovò ciò che cercava. Digitò il numero sulla tastiera e attese. Dopo pochi squilli rispose una voce femminile.

“Casa Donovan”

“Buonasera, signora” disse, cercando di essere il più formale possibile “Sono John Watson, il babysitter di Sherlock. Oggi non era a scuola e non sa che compiti deve fare per domani. Potrebbe darmi istruzioni?”

“Non sono stati ancora assegnati compiti per casa” rispose la donna “Oggi hanno semplicemente corretto quelli per le vacanze invernali”

“Ho capito. La ringrazio. Buonasera”

“Dovevi proprio dirle che sei il mio babysitter?”

La voce isterica di Sherlock lo fece sobbalzare. Il bambino lo aveva raggiunto silenziosamente e aveva ascoltato la conversazione.

“Domani Sally mi prenderà in giro, ne sono sicuro!”

“A te interessa?” gli domandò John.

Sherlock non rispose subito. Aprì la bocca, cercando le parole giuste, ma non le trovò. La richiuse e scosse la testa per dire 'no', ma dopo qualche istante cominciò ad annuire.

Sì, gli interessava. Si sentiva tanto solo a scuola. Era circondato dagli altri bambini, ma nessuno si occupava di lui. A nessuno stava a cuore il destino di quel folletto riccioluto. I bambini erano troppo presi dalle loro piccole lotte di tutti i giorni e dall'invidia per quel loro compagno così strano, mentre le maestre erano palesemente inadeguate per gestire una personalità così eccentrica e sensibile come quella di Sherlock.

“Non devi prestare troppa attenzione a chi ti prende in giro” gli disse John, scompigliandoli dolcemente i capelli “Non ne vale la pena”

“Lo so bene” rispose lui, allontanandosi per sottrarsi a quel gesto che lo infastidiva “Il fatto è che ...”

“Vorresti un amico?”

Sherlock annuì. Un silenzio imbarazzante calò sulla stanza.

“Che ne dici di andare a mangiare qualcosa?” domandò John, per rompere il ghiaccio.

“Non ho fame” fu la laconica risposta.

“Devi mangiare qualcosa” provò a insistere John.

“No”

“Non fare i capricci”

Sherlock non rispose. Incrociò le braccia al petto, fingendosi eccessivamente offeso. Quell'atteggiamento lo fece ridere di cuore. Lo afferrò con un solo braccio e lo sollevò. Era leggero come una piuma.

“Lasciami!” gridò il bambino “Lasciami brutto ciccione! Lasciami!”

“Sorvolerò sul commento relativo al mio peso” commentò John, senza smettere di ridere “Ora andiamo a mangiare, che tu lo voglia o no”

“Se non voglio mangiare non puoi obbligarmi” protestò il bambino, agitando le braccia e le gambe, cercando di prendere a calci e a pugni la schiena e il petto di John.

“Non ci giurerei se fossi in te” rispose lui, sibillino.

Lo trasportò fino in cucina e lo posò a terra.

“Ora non devo fare altro che legarti alla sedia e costringerti a mangiare tutto con un imbuto. Ti va?”

Sherlock impallidì. Sapeva che John non poteva fare nulla del genere, ma decise di non sottovalutarlo. Nel frattempo il ragazzo aveva cominciato a preparare la tavola. Aveva preso dal frigorifero una padella piena di risotto alle erbe e l'aveva messa su un fornello per scaldarla.

Nulla lo avrebbe fermato. Tanto valeva mangiarsi quel cibo e sperare di essere lasciato in pace.

Appoggiò un grosso cuscino sulla sedia per raggiungere il livello del tavolo e si mise in attesa. Pochi minuti dopo John gli posò davanti un piatto fumante e profumato.

“Sembra buonissimo” disse John, cominciando a pulire la pentola ormai vuota.

“Perché non lo mangi tu, allora?” gli domandò Sherlock, fulminandolo con lo sguardo.

“Io ho già mangiato” lo rassicurò “Questo buonissimo risotto è solo per te. Mangialo tutto e poi potremo giocare”

Sherlock aggrottò la fronte, immerso in chissà quali riflessioni.

“Giocheremo ai pirati?” chiese infine, con gli occhi lucidi per l'emozione.

“Direi che si può fare” acconsentì John “Ora mangia. Poi giocheremo”

“Evviva!” esclamò Sherlock e si avventò sul suo risotto “Ahia! Scotta!”

John rise.

“Soffia prima di mangiare” lo rimproverò “e fai bocconi più piccoli”

Sherlock gonfiò le guance e sbuffò sulla forchetta colma di riso, facendo volare i chicchi ovunque.

“Attento!” lo riprese “Fai più piano. Così, guarda”

Gli prese la forchetta dalla mano, la riempì di cibo, la alzò al livello delle labbra e soffiò dolcemente.

“Ecco” disse, avvicinando il boccone alle labbra di Sherlock “Prova ora”

Sherlock aprì la bocca e ingoiò.

“Posso mangiare da solo” disse poi, strappando con violenza la forchetta dalla mano di John.

“Come vuoi tu” rispose questo, alzando le mani in aria in segno di resa “Quando avrai finito giocheremo, va bene?”

Sherlock non rispose. Si limitò ad annuire con la bocca piena di cibo, mentre John lo osservava intenerito.

In meno di dieci minuti aveva finito di mangiare. Bevve un sostanzioso sorso d'acqua e si pulì le labbra, prima di saltare giù dalla sedia.

“Sei sicuro di non aver sonno?” gli domandò John, guardando l'orologio appeso alla parete.

“Ho dormito tanto oggi pomeriggio. Non ho sonno. Mi hai promesso che avremo giocato ai pirati!”

“Hai ragione” disse John, senza riuscire a trattenere una sonora risata “Andiamo all'arrembaggio?”

“Lo devo dire io!” protestò Sherlock “Tu aspetta qui!”

Prima che John potesse dire alcunché, il bambino corse via, verso le scale, facendo i gradini a due a due. Dopo un minuto ridiscese.

Indossava un grande cappello nero, troppo abbondante per la sua testolina. Nonostante l'ampia zazzera di ricci corvini, continuava a scivolargli sugli occhi, costringendolo a tenerlo alto con una mano, mentre con l'altra brandiva una minacciosa sciabola di plastica. L'occhio sinistro era coperto da una spessa benda nera e l'altro brillava di entusiasmo.

“Stai attento a te, fellone!” gridò, avanzando verso John puntandogli contro l'arma giocattolo.

“Mamma mia, che paura!” lo prese in giro, senza nascondere il sarcasmo nella voce.

“Stai attento sul serio, sai?” lo minacciò il bambino “Io faccio scherma e sono bravissimo”

Per dare maggior enfasi alle sue parole, lo colpì in pieno petto.

“Ahi!” gridò John, serrando gli occhi per il dolore e portando la mano al petto “Mi hai fatto malissimo! Che dolore!” disse accasciandosi a terra.

Sherlock trattenne il fiato. Non pensava di avergli fatto così male. Sollevò la benda per guardarlo meglio.

“Ti ho fatto tanto male?” gli domandò, sporgendosi verso di lui.

“Ti ho catturato!” esclamò lui, afferrandolo improvvisamente “Ci sei cascato! Un buon pirata non deve mai abbassare la guardia!”

“Maledetto! Lasciami o la mia ciurma verrà a salvarmi! Avanti miei prodi! All'arrembaggio!”

John rise e cominciò a fargli il solletico sotto le ascelle, facendolo squittire. Sherlock approfittò di un suo momento di distrazione e sgusciò dalle sue braccia.

“Prova a prendermi, se ci riesci!” gridò, e corse via a nascondersi.

Continuarono a giocare per più di un'ora. Sherlock scappava, correndo su e giù per le scale; dentro e fuori dalle ampie stanze della casa. John lo inseguiva, lo catturava e, inevitabilmente, lo vedeva svanire di nuovo.

Erano quasi le dieci quando, dopo essere scivolato via per l'ennesima volta dalla presa di John, a Sherlock sfuggì un lunghissimo sbadiglio.

“Non mi prenderai maaaaaaahhiiiiii” disse, allungando le braccia in alto.

“Mi sa che questa volta non potrai opporti” gli rispose John, avvicinandosi e prendendolo in braccio “è ora di andare a dormire”

“Non ho shonno!” si lamentò lui, cercando di nascondere un altro sbadiglio.

“Non accetto capricci dal capitano” lo minacciò John “Ora andiamo a lavarci i denti, che te ne pare?”

Sherlock annuì e si accoccolò più comodamente tra le sue braccia. John sorrise e salì al piano superiore.

Lo aiutò a lavarsi i denti e lo portò in camera sua.

“Questo è il tuo pigiama?” domandò, prendendo tra le mani un completo formato da una casacca a righe bianche e blu e un paio di pantaloni dello stesso colore.

Sherlock annuì.

“Bene, vuoi che ti aiuti a metterlo?”

“Non serve” lo rassicurò Sherlock e cominciò a spogliarsi per cambiarsi. In due minuti era pronto.

“Tra non molto arriveranno i tuoi genitori. Vuoi che ti racconti una storia?” gli chiese, sedendosi accanto a lui.

“Sì!” esclamò Sherlock e si infilò sotto le coperte “Aspetta” aggiunse poi, scivolando giù dal letto “Anche John deve sentire!”

Corse verso la poltrona sulla quale aveva appoggiato il suo cane, lo prese per una zampa e tornò a letto.

“Ecco, adesso sono pronto” disse, e si sistemò più comodamente sotto il piumone, stringendo a sé il peluche.

“Molto bene. Che storia vuoi sentire? Una sui pirati?”

“No” rispose Sherlock, scuotendo la testa deciso “Basta pirati per oggi. Mi racconti una storia sui fantasmi?”

“Non avrai paura? Ti verranno gli incubi stanotte” cercò di metterlo in guardia John.

“Non ho paura di nienthe” rispose trattenendo uno sbadiglio “Voglio una storia sui fantashmi”

“Come vuoi. Dunque, c'era una volta, nel mezzo di una foresta buia, un castello ...”

Si interruppe. Sherlock aveva chiuso gli occhi e si era placidamente addormentato. Gli rimboccò le coperte e gli diede un lieve bacio sulla tempia.

Si alzò e andò verso la porta. Sarebbe sceso al pianterreno per leggere, in attesa del ritorno dei signori Holmes, ma avrebbe tenuto la porta della camera di Sherlock aperta, per poter sentire eventuali rumori sospetti. Chiuse la luce della stanza e restò qualche istante a fissare il corpicino del bambino, ancora visibile grazie alla luce proveniente dall'esterno.

“Buona notte” disse sottovoce e si allontanò.

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Capitolo 6
*** Amico? ***


Mi scuso con i fan del piccolo Jim. Per ora sembra dato per disperso, ma sono sicura che prima o poi tornerà a far danni. Intanto godiamoci Sherlock e John. Buona lettura.

 

 

 

 

 

Amicizia?

 

 

 

 

 

 

La notte era passata in un soffio. Non si era nemmeno reso conto di aver dormito. La cena sostanziosa e i giochi con John lo avano sfiancato e, di conseguenza, era riuscito a dormire ininterrottamente per otto ore filate.

Si era svegliato di buon'umore. Dalla sua mente erano scomparsi i pensieri più tristi degli ultimi giorni. Si era dimenticato di Sally, di James e dei suoi compagni di classe. John era stato così buono con lui, l'aveva fatto sentire felice. Si era pentito di quella sua iniziale diffidenza nei confronti del ragazzo e ora era addirittura impaziente di vederlo ancora.

Si vestì con calma e scese per la colazione. La mamma era di schiena, davanti ai fornelli. Si chiese se fosse ancora arrabbiata con lui. Si avvicinò con cautela.

“Mamma?” la chiamò, titubante.

Violet smise per un attimo di mescolare le uova e spense il fornello.

“Buongiorno, Sherlock” lo salutò la donna, senza traccia di emozione nella voce.

Sherlock deglutì a fatica. Sapeva ciò che voleva da lui.

“Scusa, mamma” disse infine, abbassando lo sguardo “Sono stato cattivo, ieri. Mi dispiace”

Sapeva che non sarebbe bastato. Per quanto tempo avrebbe continuato ad ignorarlo? Si girò e andò a sedersi al suo posto mentre lei gli posava davanti la sua colazione. Non aveva voglia di guardarla, così concentrò tutta la sua attenzione sul cibo.

Il bacio arrivò inaspettato. Un bacio lieve, sulla testa, accompagnato da una carezza.

“Non sono arrabbiata, Sherlock” gli disse la madre “Ero solo tanto preoccupata per te. Mi sono spaventata a morte quando la segretaria della scuola mi ha chiamata. Mi ha detto che eri scappato e non aveva idea di dove fossi. Ti hanno cercato a lungo, nei dintorni della scuola, senza risultato. Non potevano immaginare che ti fossi allontanato tanto”

Sherlock annuì. La voce di sua madre era tornata dolce, come al solito. Provò a pensare a quello che doveva aver provato, ma non ci riuscì. Sapeva solo che aveva sbagliato. Non doveva fidarsi di quel bambino, eppure la tentazione di seguirlo era stata più forte di lui. Lo chiamava a sé come la luce attira una falena. Era ancora troppo piccolo per riuscire a capire quanto potente fosse in lui l'attrazione per il pericolo. Seguiva semplicemente i sui istinti.

“Finisci di mangiare” gli disse, carezzandoli nuovamente la testa ricciuta “Tra poco ti accompagno a scuola”

Scuola. Inghiottì a fatica il boccone che stava masticando. Dopo la sua fuga, non aveva nessuna voglia di tornare e dover affrontare quell'oca di nome Sally. Annuì e si sbrigò a finire.

 

La madre lo lasciò davanti al cancello.

“Fai il bravo, mi raccomando” gli disse, salutandolo con la mano.

Sherlock annuì, fingendo una felicità che non possedeva. Mentre guardava la madre allontanarsi in auto, fu tentato di scappare di nuovo. Il parco era lì, a due passi. Che ci voleva? Bastava solo attraversare la strada. Scosse la testa. No, questa volta avrebbe fatto il bravo. Non voleva far arrabbiare di nuovo sua madre.

Trotterellò verso l'ingresso. La campanella non aveva ancora suonato e i suoi compagni stavano bighellonando tra i banchi. Quando lo videro entrare, il chiacchiericcio che aveva sentito già dal corridoio, si tramutò in un silenzio imbarazzato. Fu Sally, come al solito, a rompere il ghiaccio.

“Guarda chi si vede” disse “Il marmocchio piagnucolone che ha ancora bisogno della babysitter!”

Il silenzio che seguì durò pochi secondi e sfociò in una risata generale. Sherlock si sentì avvampare. Guardò furtivamente fuori dalla finestra. Gli alberi di Regents Park lo stavano chiamando, ma stavolta lui non avrebbe risposto alla chiamata. Voleva affrontare i suoi problemi a viso aperto, coraggioso come un pirata.

“Stai un po' zitta, Donovan” le disse, cercando di suonare il più cattivo possibile “Ho solo sette anni, se non te ne sei resa conto. Non è così strano che i miei genitori mi abbiano affidato un babysitter. Un babysitter” aggiunse, mettendo l'accento sull'articolo indeterminativo maschile “John è un bravissimo ragazzo. Abbiamo giocato insieme ieri e ci siamo divertiti. Lui sì che è intelligente, non come voi idioti, con i quali non vale la pena sprecare mezza parola. Anzi, mi domando perché sto perdendo tempo cercando di comunicare con te, visto che ormai dovrei aver capito che è impossibile!”

Aveva eruttato quelle parole tutte d'un fiato, gettandole addosso ai presenti come lava bollente. Sentì gli sguardi di tutti su di lui. Non erano sguardi benevoli. Alcuni erano spaventati, altri lo disprezzavano. Non gli importava. Non avrebbe avuto a che fare con quella marmaglia di stupidi a vita e non aveva certo intenzione di abbassarsi al loro livello. Ora c'era John con lui. Gli sarebbe bastato.

“Il solito spocchioso” lo apostrofò Sally “Andando avanti così non ti troverai nessun amico. Resterai solo per sempre” aggiunse, con un sorriso che avrebbe fatto inacidire il latte.

“Non è vero!” gridò Sherlock “John è mio amico, lui ...”

“È solo il tuo babysitter” gli rispose un altro bambino “Lo pagano perché giochi con te. Di certo non lo fa perché gli sei simpatico. Nessuno ti trova simpatico, Freak, fattene una ragione”

“Non è vero!” ringhiò lui, cercando di ignorare l'insulto “Lui è mio amico!”

Paul, il bambino che aveva parlato, si mise a ridere, imitato dagli altri.

“Ma sentilo. Tuo amico? Chi vorrebbe essere tuo amico?”

Sherlock avrebbe voluto ribattere, quando entrò la maestra.

“Sedetevi, bambini” ordinò “Tutti” aggiunse, lanciando un'occhiata a Sherlock, che era rimasto ancora in piedi.

Sherlock intercettò con la coda dell'occhio una linguaccia di Sally e andò a sedersi. Il resto della mattina trascorse come al solito. Gli altri bambini giocavano e lui li guardava. Quel giorno, però, gli lanciavano anche delle occhiate di fuoco. Ciò che aveva detto appena arrivato li aveva ancora più allontanati da lui.

Qualcosa di quello che era stato detto, però, lo aveva colpito. John era pagato per stare con lui. Era vero, ma ciò non poteva escludere che tenesse veramente alla loro amicizia, no?

Quella domanda gli risuonò in testa tutto il tempo, ma non riuscì a trovare risposta. Quando la campanella della fine delle lezioni suonò e uscì in giardino con gli altri per aspettare la madre. Anche gli altri erano in attesa dei genitori così e non persero tempo per continuare a prenderlo in giro. Sally si avvicinò a lui, seguita da altri suoi amichetti.

“Allora ci vediamo oggi pomeriggio” disse ad alta voce, per farsi sentire anche da Sherlock “Faremo i compiti insieme e giocheremo. Ci divertiremo tanto, vero?”

“Sicuro!” rispose un'altra bambina, di nome Annabelle “Ci troveremo tutti a casa di Sally. Tutti ...” aggiunse, avvicinandosi a Sherlock che, da quella premessa, aveva ingenuamente sperato che quel 'tutti' comprendesse anche lui. Si sbagliava di grosso.

“Tutti tranne questo fenomeno da circo” precisò Sally “Non avrai creduto veramente che volessi invitare anche te, mostriciattolo?” gli domandò, tirandogli una ciocca di capelli.

“Lasciami stare, strega!” gridò lui, sottraendosi dalla sua presa.

“Ti sei offeso, freak?” gli domandò lei ridendo “Non dovresti offenderti quanto ti viene detta la verità. Tu sei strano, ammettilo”

“Sono solo più intelligente di tutti voi messi assieme” rispose, guardandola male.

“Ecco che ricominci!” lo sgridò Annabelle “Sei odioso, Holmes.

“Dico solo la verità” rispose lui, stringendosi nelle spalle “Non è colpa mia se voi non siete in grado di accettarla”

“Sarai anche più intelligente, ma non sei di certo simpatico. Non avrai mai amici, se continui così”

Le parole di Sally lo colpirono profondamente. Sapeva che aveva ragione. Sentì qualcosa di pesante sul petto, la solita sensazione di solitudine. Qualcos'altro, però, premeva per emergere.

“John è mio amico!” urlò, stringendo i pugni e cercando di non piangere.

“Te l'abbiamo già spiegato” mormorò Sally, con un tono che doveva sembrare compassionevole “Lo pagano per stare con te. Figurati se un ragazzo della sua età ha tempo da perdere con un marmocchio antipatico come te!”

“Non è vero! Lui ...”

Non riuscì a terminare la frase. Un ragazzo era appena entrato nel cortile. Sorrideva e guardava Sherlock con affetto.

“Buongiorno comandante” gli disse, accennando un buffo saluto militare e facendogli l'occhiolino.

Un largo sorriso illuminò il viso del bambino.

“John!” gridò e, spingendo via con una gomitata la fastidiosa Sally, gli corse incontro.

“Che bello rivederti. Cosa ci fai qui?” domandò, sorpreso dalla sua presenza.

“Tua madre è stata trattenuta al lavoro” gli spiegò il ragazzo “Visto che oggi pomeriggio sarei venuto comunque da te, mi ha chiesto di venire a prenderti a scuola. Sei pronto? Possiamo andare?”

“Certo” confermò Sherlock, lanciando un'occhiata ai suo compagni, dietro di lui.

John seguì lo sguardo del bambino e salutò con un sorriso gli altri.

“Voi siete i suoi compagni di classe, vero?”

I bambini annuirono, leggermente a disagio. John lo capì e cerco di sembrare più amichevole.

“Siete fortunati ad avere nella vostra classe un tipetto sveglio e intelligente come lui” annunciò.

“Non è vero!” lo contraddisse Sally, pestando un piede a terra “Lui è intelligente, è vero, ma è anche antipatico. Non vogliamo essere suoi amici”

Sherlock abbassò lo sguardo. Non voleva che John pensasse male di lui.

“Ammetto di averlo conosciuto per poco tempo” disse dopo una lunga meditazione “Non mi sembra antipatico. A volte è un po' capriccioso” disse facendogli l'occhiolino “ma tutti i bambini lo sono, no?”

Sally, suo malgrado, annuì.

“Ci ha detto che siamo stupidi!” gridò Annabelle, puntandogli un dito contro.

John guardò Sherlock con gli occhi spalancati per lo stupore.

“Quel che dice è vero, Sherlock?” domandò, chinandosi leggermente per guardarlo meglio.

Il bambino si fece rosso in viso e annuì.

“Perché dici questo?” gli domandò John, aggrottando la fronte.

“Perché è vero!” protestò Sherlock, adirato “Sono stupidi, cattivi e invidiosi!”

John non fece in tempo ad aggiungere altro, che lui era già corso via. Sospirò tristemente. Sorrise ai bambini e si avviò verso la strada. Sapeva che, con quelle gambine che si ritrovava, Sherlock non poteva andare lontano. Lo raggiunse dopo pochi passi.

“Fermati, per favore” gli chiese, camminandogli velocemente in fianco.

“No!” gridò lui “Vai via!”

“Basta così, bambino capriccioso” gli disse John, prendendolo bruscamente per un braccio “Voglio essere tuo amico, ma non tollero che mi manchi di rispetto, è chiaro?” gli disse, lanciandogli un'occhiata di rimprovero.

Sherlock non resse più. Il tono di John e il suo sguardo severo lo avevano fatto sentire in colpa. Il labbro cominciò a tremargli e, prima che potesse fermarsi, scoppiò a piangere.

“Sei come loro!” gli urlò contro, tremando per la rabbia e per i singhiozzi “Sei cattivo e stai con me solo perché i miei genitori ti pagano. Cattivo!”

Voleva dirgli altro, ma non ci riuscì. Cercò di divincolarsi dalla salda presa del ragazzo, ma John gli stringeva il polso con fermezza, pur stando attento a non fargli male.

“Hai capito male” gli disse, con voce più dolce ma pur sempre autoritaria “Hai ragione a dire che mi pagano per stare con te, ma non è vero che lo faccio solo per questo. Quello che ho detto prima è vero. Mi piaci. Sei un bambino sensibile e intelligente, abbastanza da capire la mia posizione. Posso essere tuo amico, ma prima di tutto sono il tuo babysitter. Non potrei mai perdonarmi se ti succedesse qualcosa. Hai capito?”

Sherlock restò in silenzio per qualche istante, poi annuì.

“Bravo” lo lodò John e tirato fuori un fazzoletto pulito, glielo posò sul naso “Soffia”

Sherlock obbedì e si passò la manica sugli occhi gonfi.

“Davvero sei mio amico?” gli chiese, cercando di smettere di tremare.

“Certo che lo sono” lo rassicurò John, prendendolo in braccio “Io sono ...”

“Guardalo!” gridò Sally, uscendo dal cortile in fianco alla madre “Piange come uno dell'asilo!”

John guardò Sherlock, che minacciava di scoppiare in una seconda crisi di pianto, poi guardò Sally e infine la madre di lei, alzando un sopracciglio, in un gesto di eloquente disapprovazione. Lo sguardo di Sherlock si posò prima sul viso duro di John, poi su Sally e sua madre. La donna non disse nulla. Arrossì e trascinò via la figlia e Sherlock sentì che, mentre si allontanavano, la stava rimproverando per il suo comportamento.

I due si guardarono e sorrisero. Non c'era nulla da dire.

“Andiamo a casa?” gli chiese John, sistemandoselo meglio tra le braccia.

Sherlock si strinse di più a lui e affondò il viso sulla sua spalla. Restarono così qualche istante poi Sherlock cominciò a muoversi per scendere a terra.

“Posso camminare da solo” lo rassicurò.

Si passò nuovamente il braccio sul viso per pulirsi dalle lacrime e gli porse la manina.

“Andiamo?” gli chiese, sorridendo.

“Andiamo” confermò John, stringendo quella mano così piccola nella sua “Hai fame?”

Sherlock annuì. La tristezza di pochi istanti prima sembrava svanita come neve al sole. La sola presenza di John aveva il potere di fargli dimenticare tutto il resto. Gli strinse più forte la mano e cominciò a parlare senza sosta.

“Oggi la maestra ci ha parlato dei cinque sensi: l'udito, la vista, il tatto, il gusto e l'olfatto. Ci ha portato tante cose per poter sperimentare insieme. Ha portato dei fiori per farceli annusare, un libro su un pittore francese che non conosco, vari tipi di stoffe per farcele toccare. Ci ha anche fatto sentire un concerto per violino e poi ci ha fatto mangiare la cioccolata e poi …”

Sherlock parlava a raffica. Era così contento di stare con John, che non riusciva a smettere di ridere e saltellargli in fianco. Lui ascoltava con attenzione e ogni tanto annuiva per sottolineare quanto per lui fosse importante ciò che Sherlock gli stava dicendo.

 

John aveva intuito la tristezza di quel bambino, la sua solitudine. Quello di cui lo aveva accusato Sherlock era vero e lui lo sapeva bene. Non aveva trovato altri lavori part-time, ma voleva mettere da parte un po' di soldi per studiare medicina. All'inizio la prospettiva di doversi occupare di un bambino di sette anni non gli era piaciuta. Aveva protestato con i suoi genitori, avrebbe preferito lavorare in un fast food piuttosto che asciugare il moccio dal naso di un petulante bambino capriccioso, ma i signori Watson erano stati irremovibili. Gli avevano trovato quel lavoro con un colpo di fortuna e non volevano che il figlio buttasse via così la possibilità di un'occupazione relativamente poco impegnativa ma comunque remunerativa.

I pensieri di John, pochi istanti prima di entrare a casa Holmes erano molto cupi ma, non appena aveva posato lo sguardo sul viso di quel bambino, qualcosa era scattato dentro di lui. Un sentimento primordiale, che non poteva controllare. L'unica cosa che sapeva per certo era che doveva prendersi cura di Sherlock. Nient'altro. Lo avrebbe protetto da tutto e da tutti.

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Capitolo 7
*** Evasione notturna ***


Rieccomi qui. Mi sono presa una pausa per scrivere un'altra storia: La Luna Verde. Un racconto tratto da un cortometraggio che ho realizzato qualche tempo fa con alcuni miei amici. Andate a darle un'occhiata, mi farebbe piacere perché è una storia a cui tengo molto.

 

Dopo questa piccola premessa, possiamo tornare a noi.

Buone notizie per i fan del piccolo Jim. Il marmocchietto è tornato e porterà scompiglio nella vita di Sherlock-elfuccio. Naturalmente ci sarà sempre John a proteggerlo, perciò non preoccupatevi.

Buona lettura.

Mini

 

 

 

 

 

 

Evasione notturna

 

 

 

 

 

Sembrava che i problemi dei signori Holmes con il figlio minore fossero svaniti con l'ingresso in casa loro di John Hamish Watson.

Quel ragazzo riusciva a farsi obbedire senza riserve da quel piccolo folletto capriccioso che avevano per figlio. Quando John era presente, Sherlock diventava obbediente e straordinariamente tranquillo. Ormai erano passate due settimane da quando si erano conosciuti, eppure il loro legame era diventato tanto forte in così poco tempo.

Giocavano, studiavano e John riusciva perfino a farlo mangiare decentemente la sera, quando si tratteneva per cena.

Sherlock non aveva più provato a legare con i suoi compagni di classe. Se ne stava in disparte, osservando tutto ciò che lo circondava, ma evitando di dialogare con chiunque gli stesse vicino e aspettando con ansia solo l'arrivo del suo caro amico John.

Ogni mattina si svegliava felice e la prima domanda con la quale salutava i genitori era: oggi John verrà? Se la risposta era positiva, cominciava a saltellare per l'impazienza e, di ritorno da scuola, si piazzava davanti al pendolo del soggiorno per contare i minuti che mancavano all'arrivo del suo migliore amico.

Naturalmente John non poteva recarsi in casa Holmes tutti i pomeriggi a causa dei suoi impegni scolastici. Allora Sherlock diventava triste e si chiudeva in un mutismo apparentemente inaccessibile. Nemmeno Mycroft, che era sempre riuscito a scalfire la corazza di cui si dotava il fratellino nei momenti di difficoltà, riusciva più a tirarlo su di morale in quei pomeriggi solitari.

 

John era felicissimo. Anche quando era lontano da lui, chino sui libri, non riusciva a pensare a quella testolina bruna. Sherlock era straordinario. Non era riuscito a trovare un'altra parola per descriverlo. Tutto, in lui, era unico e … straordinario. Non c'era niente da fare. Non c'erano altri termini per definirlo ma … lo si poteva davvero definire?

Sherlock era un bambino molto sensibile, solo e bisognoso di affetto eppure dietro questa facciata di fragilità, si nascondeva un'anima forte, caparbia e avventurosa, oltre a un'intelligenza vivace e in costante crescita. John sapeva che un grandioso futuro lo aspettava e si sentiva onorato di poter seguire da vicino la crescita di quell'arbusto che, col tempo, si sarebbe trasformato in un rigoglioso e solido albero. Sorrise a quel pensiero e si ricordò del leccio* che aveva visto al giardino botanico qualche tempo prima. Era maestoso e forte, eppure trasmetteva un'intensa sensazione di tranquillità e di eleganza. Se Sherlock fosse stato un albero, sarebbe stato un leccio.

John chiuse bruscamente il libro di chimica e lo lanciò sul letto. Aveva gli occhi stanchi e ormai era tarda sera. La verifica del giorno seguente gli aveva impedito di andare a trovare Sherlock. Gli era dispiaciuto, ma lo studio era più importante. Pensò a quell'angioletto, così lontano da lui, e sentì una fitta al petto. Gli mancava tantissimo. Avrebbe voluto che fosse lì per poterlo coccolare, per sentirlo parlare di quello che aveva fatto a scuola e per vederlo indossare quel buffo cappello da pirata che gli piaceva tanto.

Era un sentimento strano. Non riusciva a capacitarsi di come quel bambino fosse entrato nel suo cuore fino a quel punto. Sentiva che non avrebbe resistito oltre, lontano da lui.

Non aveva ancora mangiato ed era stanchissimo, ma un impulso improvviso lo costrinse ad uscire di casa. Non sapeva perché, ma sentiva il bisogno – assoluto bisogno – di andare ad augurare la buonanotte a Sherlock. Guardò l'ora. Erano le otto e un quarto. Se avesse fatto presto sarebbe riuscito ad arrivare giusto in tempo. Prese al volo la sua giacca e, salutati velocemente i genitori, usci quasi di corsa. Mezz'ora dopo era arrivato a destinazione.

Suonò al campanello. Non vedeva l'ora di poter strapazzare quell'esserino e rimboccargli le coperte. Però sentiva qualcosa, al livello dello stomaco. Un peso, un dubbio che lo aveva spinto ad andare fin lì a controllare che tutto andasse bene”

Non era passato un minuto, che la porta si aprì con violenza. Era Violet.

Il suo bel viso era rigato dalle lacrime e i capelli erano spettinati.

“Ispettore è già ...” iniziò a dire, ma si fermò quando vide John.

“Signora Holmes!” esclamò lui, sorpreso dal vederla in quello stato “Cosa le succede?”

“Oh, John!” rispose lei, continuando a piangere “Sherlock ...”

Il cuore di John saltò un battito. Era successo qualcosa al suo scricciolo?

“Signora Holmes ...” la chiamò, sperando che non fosse accaduto qualcosa di male. Ciò che la donna gli rispose, lo fece sprofondare in un pozzo oscuro di disperazione.

“Sherlock … è scomparso!”

 

 

 

 

 

Poche ore prima Sherlock sedeva triste sul suo letto. Sulle sue gambine magre stava appoggiato un grosso libro. L'aveva rubato dalla libreria di Mycroft e, nonostante lui continuasse a ripetergli che era troppo difficile per lui, glielo sottraeva ogni sera.

Leggendolo si immedesimava nei personaggi, cercava di capire cosa potessero provare. Gli sarebbe piaciuto essere grande, saggio e forte come Guglielmo di Baskerville e risolvere i crimini con la sua intelligenza. Gli sarebbe piaciuto avere anche un aiutante come Adso, che gli facesse compagnia e lo aiutasse.**

Aveva sospirato, ripensando a quel pomeriggio. Anche se era stata una giornata particolarmente calda e assolata per la stagione, non aveva avuto voglia di uscire a giocare in giardino. John non aveva potuto andare da lui a causa dello studio. Una stupidissima verifica di chimica che, a detta di Sherlock, John avrebbe potuto superare brillantemente anche ad occhi chiusi. Così era rimasto cocciutamente in camera sua a leggere. Aveva letto tutto il pomeriggio, interrompendosi solo per la cena. Dopo aver mangiato in fretta e furia una gustosa fetta di dolce preparata dalla madre, Sherlock era corso nuovamente in camera sua, per poter tornare ai misteri dell'abazia benedettina.

Erano le otto e un quarto. Aveva ancora mezz'ora prima che la madre lo raggiungesse per dirgli di lavarsi i denti e di spegnere la luce.

Aveva appena aperto il libro, quando sentì un rumore alla finestra, un piccolo tuc. Alzò lo sguardo, ma non vide nulla. Pensò di essersi immaginato tutto, così riportò la sua attenzione al libro.

Qualche istante dopo, il rumore si ripeté. Stavolta voleva vederci chiaro. Richiuse il tomo, facendo attenzione a posizionare il segnalibro, poi saltò giù dal letto. Prese una sedia e si arrampicò sulla finestra. Non senza difficoltà riuscì ad aprirla. L'aria notturna lo colpì in viso, procurandogli un brivido.

“Finalmente!”

Una voce impaziente, proveniente dal giardino, attirò la sua attenzione. Non aveva parlato ad alta voce, ma si sentiva ugualmente che chi lo stava aspettando non aveva tempo da perdere.

Sherlock guardò in basso e riconobbe James, il bambino che aveva conosciuto al parco.

“Cosa ci fai qui?” gli domandò, sperando che nessuno in casa si fosse accorto di qualcosa.

“Ti dispiace?” gli domando il bambino, con un tono fin troppo provocatorio per i suoi gusti.

Sherlock sorrise e scosse la testa in risposta. Non gli dispiaceva. Dentro di se sentiva che il legame con quel bambino era sbagliato, ma lo intrigava. Voleva saperne di più su di lui, voleva che gli insegnasse ad essere coraggioso, a osare e vivere avventure indimenticabili. Già il fatto che fosse fuori casa a quell'ora, che avesse trovato casa sua e che fosse così tranquillo, lo rendevano speciale.

“Cosa ci fai, qui?” gli chiese di nuovo, stavolta più curioso che spaventato.

“Niente di che” gli rispose Jim, stringendosi nelle spalle “Non avevo niente da fare, così ho pensato di farti una visita”

“Hai fatto bene” gli rispose, allargando il sorriso.

“Vuoi fare un giro?” gli chiese Jim, indicando la strada dietro di sé con il pollice.

Sherlock sobbalzò. Questo non se l'aspettava. Lanciò un'occhiata preoccupata alle sue spalle.

“Stai scherzando?” gli chiese, cercando di nascondere il panico crescente nella sua voce.

Jim incrociò le braccia al petto e lo fissò con un sorriso di scherno.

“Hai paura?” gli domandò, scrollando il capo per la delusione “Tutto ciò non è onorevole per un pirata”

Sherlock aggrottò la fronte.

“Come fai a sapere dei pirati?” gli domandò.

“È irrilevante” rispose lui, impaziente “Vuoi venire o no?”

Sherlock esitò e guardò verso la porta della sua camera.

“Io vado” annunciò Jim, alzando la mano in segno di saluto “Se vuoi unirti a me, stanotte, ti aspetto tra venti minuti all'incrocio di questa via”

Poi, senza aspettare la risposta, sparì nel buio.

Sherlock saltò giù dalla sedia e cominciò a passeggiare su e giù per la camera. Non sapeva cosa fare. Non voleva disobbedire di nuovo alla madre. D'altra parte la tentazione di seguire Jim era troppo forte, ma non poteva permettersi di essere scoperto. Richiuse la finestra, afferrò John per una zampa e corse in soggiorno.

“Papà! Papà!” urlò “Vieni a darmi il bacio della buonanotte, ho sonno!”

“Non mi sembra” gli disse

“Ma è vero” insistette lui e, per sembrare più convincente, si esibì in un lunghissimo sbadiglio con tanto di stiramento di braccia.

“Va bene, mostriciattolo” gli disse il padre, prendendolo in braccio “Andiamo a lavarci i denti?”

Sherlock annuì e il padre lo portò al piano superiore. Nel giro di dieci minuti era pronto per dormire. Non aveva tempo da perdere. Jim non l'avrebbe aspettato oltre.

Cominciò a stropicciarsi gli occhi e a esibirsi in altri sbadigli mentre raggiungeva il letto. Quando mamma e papà andarono a dargli il bacio della buonanotte, non stava più nella pelle.

 

Violet e Siger tornarono al piano inferiore, confortati dal respiro del loro bambino che dormiva pacifico nel suo letto. Si sedettero sul divano per continuare a guardare la televisione. Erano rilassati e sereni, ignari di quello che il figlio stava architettando alle loro spalle.

“Vuoi qualcosa da bere?” domandò lui dopo un po', alzandosi per andare verso il mobile con i liquori.

“Un goccio di sherry non mi farà male” rispose lei.

Siger annuì e verso il liquore scuro su due bicchierini di cristallo. Tornando verso la moglie, notò qualcosa che lo fece sorridere.

“John” disse, posando i bicchieri sul tavolino.

“Come, scusa?” domandò Violet, allungandosi per afferrare il suo.

“Sherlock ha dimenticato qui John quando è venuto a chiamarmi. Vado a portarglielo. Tu aspettami qui”

Afferrò il peluche, le diede un lieve bacio sulla fronte e si avviò verso la camera del figlio.

Era buia e silenziosa. Entrò cauto nella stanza e raggiunse in punta di piedi il letto di Sherlock. Voleva infilare John sotto le sue coperte senza svegliarlo, ma quel che vide lo fece urlare per il terrore.

Il letto di Sherlock era vuoto.

 

 

 

 

Sherlock aveva aspettato qualche minuto, per sicurezza, poi era sgusciato fuori dalle coperte. Si era rivestito in fretta e andò ad aprire la porta. Il corridoio, fatta eccezione per una sottile striscia di luce proveniente dalla porta della camera di Mycroft, era buio e deserto. Lo attraversò in punta di piedi e scese le scale, stando attaccato alla parete, per non farsi vedere. Raggiunse la porta sul retro e l'aprì silenziosamente. Sarebbe rientrato di lì, più tardi. Non sapeva dove Jim volesse portarlo, ma era sicuro che sarebbe tornato entro mattina e nessuno lo avrebbe scoperto.

Un piano perfetto.

Stando attento a non fare rumore, se la richiuse alle spalle e corse verso il cancello, sgusciò tra le sbarre e alzò un braccio, in segno di saluto verso Jim che, come promesso, lo stava aspettando sotto la luce di un lampione.

Quando lo raggiunse, gli sorrise.

“Sapevo che non ti saresti tirato indietro” lo lodò.

“Non potevo di certo perdermi un'avventura” gli disse Sherlock “Cosa facciamo?”

Non si aspettava granché. Per lui era già tanto starsene lì senza il permesso dei genitori. Gli sarebbe bastato fare il giro dell'isolato e rientrare alla chetichella in casa, sotto il naso di mamma e papà.

Jim aveva altri piani.

“Lo vuoi vedere un cadavere?” gli chiese, con un sorriso che gli illuminava il volto.

Sherlock trasalì. Jim era una fonte continua di sorprese. Come faceva a sapere dove trovare un cadavere? L'aveva già visto o lo sapeva solo per sentito dire? In fin dei conti era un bambino come lui, eppure sembrava in qualche modo più maturo, più indipendente. Per un attimo si chiese dove fossero i suoi genitori, perché gli permettessero di andarsene in giro per Londra di notte a trovare uomini morti.

“Un … cadavere?” mormorò e automaticamente il suo pensiero andò a Venanzio, il frate trovato morto all'interno dell'abazia.

L'idea di vedere una persona morta aveva risvegliato in lui una parte nascosta del suo carattere, di cui nemmeno lui era a conoscenza. Il desiderio di emulare Frate Guglielmo lo travolse. Non pensò che sarebbe stato spaventoso o che non aveva idea di dove James lo avrebbe condotto. L'unico pensiero che attraversò il suo cervello così sveglio fu: voglio indagare, voglio scoprire il colpevole. Si sentiva come un segugio, un investigatore pronto a tutto pur di fare giustizia.

Una parte più razionale di lui sapeva che un bambino di appena sette anni non avrebbe potuto fare niente, che tutto ciò era ben al di sopra della sua portata e che probabilmente gli sarebbero venuti gli incubi, ma una spinta misteriosa, un istinto che faticava a controllare, scacciò quei dubbi

Prese un profondo respiro e annuì.

“Molto bene” gli disse Jim, dandogli un pacca sulla spalla “Andiamo!”

 

 

 

 

 

 

 

* 'Holm', in inglese, vuol dire 'leccio'

** Mi pare superfluo specificare di che libro sto parlando, no?

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Capitolo 8
*** South Quay ***


Visto che il mondo non è finito, posso continuare a scrivere. Grazie infinite a tutti quelli che seguono la mia storia in silenzio e a chi la recensisce. Vi ringrazio tanto. Mi date l'ispirazione per andare avanti.

Lo Sherlock adulto non è tanto diverso dal bambino. Sarà perché il bambino è molto maturo o perché l'adulto è molto infantile? Come diceva Quelo (il mitico Corrado Guzzanti): “La seconda che hai detto!”

Per fortuna che c'è John!

Buona lettura e buon Natale per domani!

Mini

 

 

 

 

 

South Quay

 

 

 

 

 

 

La notte era fredda e umida e Sherlock si strinse ancora di più nel cappotto che aveva indossato in fretta e furia. Immerse le manine nelle tasche e represse un brivido.

“Hai paura o freddo?” gli chiese Jim.

“F-freddo” rispose Sherlock, cercando di sorridere “Non ho paura”

“Bravo” lo lodò “Sapevo che non sei come gli altri. Non sei noioso”

Sherlock sorrise, compiaciuto da quelle parole.

“Nemmeno tu sei noioso” gli disse “Però …”

Esitò. Era dal giorno in cui si erano conosciuti che voleva porgli una marea di domande. Si limitò alla più urgente, quella che lo aveva tormentato prima di uscire, gli aveva messo la pulce nell'orecchio, fino a farlo dubitare dell'affidabilità di quel bambino.

“Perché sei scappato, quel giorno?” gli chiese tutto d'un fiato.

Jim si fermò di colpo e lo guardò sorpreso.

“Come, scusa?” gli domandò, alzando le sopracciglia.

“Perché mi hai lasciato nei guai?” domandò Sherlock, con più energia “Sei scappato e io ...”

Jim sogghignò e scosse la testa, deluso.

“Avresti dovuto fare altrettanto” lo sgridò “Pensavo che ci fossi arrivato, no? Ero sicuro che mi avresti seguito”

Sherlock arrossì. In effetti non gli era venuto in mente.

“Però quel signore mi teneva stretto” cercò di protestare “Non ce l'avrei mai fatta e poi ...”

“Volevi tornare da mamma, vero?” gli sibilò Jim, con gli occhi ridotti ad una fessura “Sai, ho visto da lontano la tua reazione. Mi avevi deluso. Per questo non mi sono fatto vivo in questi giorni. Quando ti ho incontrato per la prima volta ho pensato che fossi un ribelle, come me, invece sei solo un bambino spaventato che vuole la mamma … e il babysitter!”

Pronunciò l'ultima parola come se fosse qualcosa di disgustoso e ciò non piacque a Sherlock.

“Non puoi dirmi queste cose” gli rispose Sherlock, ribellandosi a tutte quelle offese “Non hai il diritto di parlarmi così. Sono finito nei guai a causa tua. Non potevo scappare perché quel tizio mi stringeva troppo forte il polso, inoltre” sibilò, avanzando di un passo verso di lui, per sembrare più minaccioso “Non parlare così di John” gli disse “Lui non è solo il mio babysitter. È il mio migliore amico”

“Il tuo migliore amico?” lo schernì Jim “Davvero?”

“Davvero” confermò Sherlock, annuendo deciso.

“Cosa direbbe il tuo 'migliore amico' se sapesse che sei scappato di notte per poter vedere un cadavere?” gli chiese con tono di sfida.

Sherlock aprì la bocca per rispondere, ma non sapeva cosa dire. La richiuse e pensò a John. In effetti aveva fatto una cosa sbagliata. Era uscito di casa senza dire nulla ai genitori, in compagnia di un quasi sconosciuto, per andare a vedere un morto. Cosa avrebbe detto John? Si sarebbe di certo preoccupato, lo avrebbe sgridato e avrebbe perso per sempre la sua fiducia in lui.

Si guardò alle spalle, incerto se proseguire.

“Ormai è troppo tardi, femminuccia” gli disse Jim, notando la sua indecisione “Ci sei dentro fino al collo. Ora muoviti, o ti lascio qui. Dobbiamo andare in un posto troppo lontano per raggiungerlo a piedi e per questo dovremo prendere la metropolitana. Tranquillo, non ci sarà nessun intoppo, stavolta. Ti fidi?”

Sherlock prese un profondo respiro e seguì James lungo il marciapiede.

 

 

 

 

 

Il cuore di John si era fermato. Gli ci volle qualche istante per rendersi conto che era ancora lì, saldo e stabile sul suo petto, ma per quei pochi secondi gli parve di essere morto.

Sherlock era scomparso.

“Lo avete cercato?” domandò, rendendosi conto troppo tardi della stupidità della sua domanda.

“Lo abbiamo cercato ovunque” rispose Siger, comparendo alle spalle della moglie “ma non c'è stato verso di trovarlo. Deve essere per forza scappato. Dovevo capire che c'era qualcosa di strano in lui, stasera, quando ha voluto andare a letto così presto!” ringhiò contro sé stesso.

“Cosa è successo?” chiese John, allarmato.

“Nulla di grave” rispose Violet “Vuoi entrare?” gli disse poi, rendendosi conto che erano rimasti fermi sulla soglia.

“No, non voglio entrare. Voglio andare a cercare Sherlock” rispose John risoluto.

“Abbiamo allertato la polizia” lo informò Siger “Non preoccuparti. Vedrai che si sistemerà tutto. È tutto a posto, John” gli disse, posandogli la mano sulla spalla.

“No, non lo è!” gridò lui in risposta, divincolandosi dalla presa dell'uomo “Non è tutto a posto! Sono terrorizzato a morte!” *

“John, calmati” lo rimproverò Siger, “Anche noi siamo spaventati, ma ...”

“Non mi importa!” la interruppe lui, chiudendosi la giacca sopra il collo “Andrò a cercarlo e lo riporterò a casa”

Pronunciò le ultime parole con fermezza e, senza dare il tempo ai coniugi Holmes di ribattere, si voltò e ripercorse a ritroso il vialetto del giardino, fino a raggiungere la strada.

Le vie di quel quartiere residenziale erano deserte e John capì che sarebbe stato facile per Sherlock dileguarsi senza essere notato da nessuno. Non aveva indizi e non sapeva da che parte cominciare per cercarlo. Cosa poteva fare? Decise di seguire l'istinto e corse verso la fermata della metropolitana più vicina.

Avvicinandosi al parco, le vie cominciarono ad animarsi. Se Sherlock era passato di lì, qualcuno doveva averlo visto. Si avvicinò all'ingresso del Purple Turtle, un pub privato poco lontano dall'ingresso della fermata Mornington Crescent e si rivolse al buttafuori. **

“Mi scusi ...” cominciò, ma l'omone mal interpretò la sua presenza.

“I minorenni non possono entrare” disse lapidario “Vattene, moccioso”

“Non voglio entrare!” protestò John, con una certa energia “Volevo solo un'informazione”

La paura di aver perso Sherlock gli avevano dato una grinta che non avrebbe avuto in altre occasioni. Il buttafuori alzò un sopracciglio e non disse niente, ma nemmeno lo cacciò.

“Volevo chiederle se per caso ha visto passare di qui un bambino solo”

La guardia rise.

“Sei serio, marmocchio?”

“Sono serissimo!” gridò John “La prego, mi aiuti!”

L'uomo lo squadrò da capo a piedi. Era spettinato a causa di un venticello che si era alzato da poco, pallido per la paura ma con uno sguardo che non lasciava dubbi.

“Calmati, ragazzino” disse cercando di tranquillizzarlo “Vuoi bere qualcosa di caldo?”

“Non ho tempo!” rispose John “La prego, mi dica se ...”

“Li ho visti” rispose lui, grattandosi il mento “Erano due bambini soli. Uno era abbastanza alto, grassoccio e con i capelli e gli occhi scuri. L'altro era una specie di elfuccio con i capelli ricci neri e gli occhi chiari. Si sono diretti verso la metropolitana ...”

Non appena ebbe sentita la descrizione di Sherlock, John si precipitò verso la sua prossima destinazione. Attraversò di corsa l'incrocio, rischiando di essere preso sotto da un'auto, e raggiunse le scale. Le scese a due a due, mentre cercava la sua Oyster Card nel portafogli. ***

Imprecò quando quasi si incastrò tra le porticine dell'ingresso, poi si bloccò un istante. C'era una sola linea, la Northen, ma non poteva sapere che direzione aveva preso Sherlock. Restò immobile qualche istante, poi si diresse verso Morden.

 

 

 

 

 

Erano riusciti a salire sulla metropolitana senza problemi. Jim aveva 'preso in prestito due Oyster Card e ne consegnò una a Sherlock. Ormai era tardi e la metropolitana era meno affollata.

“Non dobbiamo dare nell'occhio” disse Jim “Avvicinati a quella signora anziana, faremo finta di essere i suo nipotini”

Sherlock annuì e, camminando come meglio poteva, raggiunse la donna e si sedette lì vicino. Voleva parlare a Jim, ma lui gli fece segno di tacere, posando l'indice sulle labbra chiuse. Sherlock annuì e si voltò per guardare dritto di fronte a sé.

Dopo qualche tempo, che Sherlock non sarebbe stato capace di quantificare, Jim si alzò.

“Ora dobbiamo scendere” disse, mentre la voce metallica dell'interfono annunciava che stavano giungendo alla stazione di Embarkment “Cerca di essere veloce. Non dobbiamo farci prendere”

Sherlock annuì e seguì James lungo gli intricati saliscendi della stazione. Si diressero verso la Circle e arrivarono giusto in tempo per salire prima che il treno partisse.

“Anche ora dobbiamo fare finta di essere parenti di qualcuno?” domandò Sherlock, guardando in giro in cerca di qualcuno di adatto “Che ne dici di quella signora? È così impegnata con il cellulare che non si accorgerà di noi. Potrebbe essere nostra madre, che ne dici?”

“Ottima idea” gli rispose Jim e lo precedette per raggiungere la donna.

La stessa scena si ripeté anche quando arrivarono a Tower Hill.

“Stavolta dovremo uscire dalla stazione” gli disse Jim, dirigendosi verso l'esterno “Prenderemo la linea di superficie”

“Si può sapere dove stiamo andando?” gli domandò Sherlock, cercando di non far trasparire dalla voce l'ansia che stava cominciando a crescergli dentro.

Da quando erano partiti da Camden, si erano allontanati parecchio e Sherlock sapeva che la DLR li avrebbe portati solo a …

“Alle Docklands” rispose Jim “Precisamente a South Quay. Hai paura?”

“N-no!” rispose lui, risoluto.

“Bene. Stavolta non dovremo accodarci a qualcuno. La linea che va verso Canary Wharf è sempre deserta a quest'ora. Non ci troveranno mai”

“Mi fido” rispose Sherlock anche se, in realtà non ne era tanto sicuro.

 

 

 

 

 

Seduto sullo scompartimento del treno semi deserto, John pensava. Dove diavolo poteva essere andato quel monello? Aveva fatto qualche cambio? Scese a Embarkment e uscì all'aria aperta. Aveva bisogno di riflettere. Se avesse fatto qualche cambio sarebbe stato lì, ma per dove? Si appoggiò con tutto il peso del corpo al muricciolo che dava sul Tamigi e restò ad osservare l'acqua che danzava impetuosa sotto di lui. Non aveva idee. Che linea aveva preso? La Circle, la District? L a Bakerloo? Se invece fosse sceso a Leicester Square? Le variabili erano troppe e gli sembrò che gli stesse per scoppiare la testa.

“Dove sei, Sherlock?”

Lasciò che quella domanda fluttuasse nell'aria davanti a lui, consapevole che non avrebbe trovato risposta.

 

 

 

 

 

In quel momento Sherlock stava viaggiando sulla DLR, diretto verso le Docklands.

“Sei mai stato all'Isola dei Cani?” gli domandò Jim.

Sherlock scosse la testa.

“Parlami di questo cadavere” gli disse, mettendosi comodo per ascoltare.

“Di quale cadavere stai parlando?” domandò lui.

Sherlock alzò le sopracciglia, stupito.

“Non avrai creduto che ti avrei davvero portato a vedere un cadavere?” gli disse, ridendo di gusto “Non pensavo che fossi così ingenuo! Era solo un trucco per attirarti fuori casa. Ho tirato ad indovinare, ma ho centrato il bersaglio. Così ti piacciono i cadaveri, eh? Sei inquietante ...”

Sherlock si senti arrossire, per la rabbia e l'imbarazzo.

“Tu sei inquietate!” gli disse, sputandogli addosso ogni parola con ira crescente “Scappi di casa in piena notte, parli di cadaveri, inganni la gente, rubi denaro e tessere ...”

“Tu sei uguale a me” lo interruppe Jim, con un sorrisetto diabolico.

“Non … non è vero!” protestò Sherlock, ma sapeva che aveva ragione. Tranne per una cosa.

“Dimmi la verità, perché sei venuto da me? Ah, giusto! Non hai amici! Allora ti sei ridotto a elemosinare la mia attenzione, eh? Dove sono i tuoi genitori? Non ti puniscono per le cattiverie che fai?”

Jim lo guardò con odio, ma fu solo un istante. La solita espressione beata ricomparve presto sul suo viso.

“Tutto giusto” gli rispose, parlando lentamente, come per cercare le parole giuste “Non ho amici e non ho genitori, se proprio vuoi saperlo. Sono orfano. Vivo in un istituto con altri bambini come me. Quando dico 'come me', intendo nel senso che non hanno genitori. Non c'è nessuno, tra di loro, che abbia una mente brillante come la mia. Per questo mi sento solo. Certo che mi sgridano quando faccio il cattivo. Mi picchiano con una spranga di legno e mi lasciano senza cena per due sere di seguito, quando la combino grossa. Allora io scappo e mi merito un'altra settimana di punizione, ma ne vale la pena!”

Sherlock avvertì un grosso nodo alla gola e qualcosa di pesante che era andato a posarsi sul suo stomaco. Cos'era? Pena? Provava pena per quel bambino? Sì, evidentemente sì. Lui era fortunato. Aveva due genitori fantastici, un fratello intelligentissimo e un amico che gli voleva bene. Jim, invece, era solo. Lo guardò a lungo. Pensò che sarebbe stato bello se i signori Holmes avessero deciso di adottarlo. Avrebbero vissuto insieme e forse …

“Non ci pensare nemmeno” gli disse Jim, interrompendo i suoi pensieri.

“Di cosa stai parlando?” gli domandò Sherlock, distogliendo lo sguardo da lui.

“Ho visto come mi fissavi. Va bene, sono orfano, ma non è la fine del mondo. Quando sarò maggiorenne me ne andrò da quel buco e vivrò per conto mio. Per ora mi basta avere un tetto sopra la testa. Non mi importa di avere dei genitori, voglio essere libero”

“Avere dei genitori non è come stare in una prigione” mormorò Sherlock, ripensando alla mamma e al papà, al caldo davanti al camino di casa.

“Per me sì” obiettò Jim, incrociando le braccia al petto “Ci sono troppe regole”

“Anche all'orfanotrofio ci sono delle regole” rispose Sherlock “Per questo ti puniscono quando le infrangi”

“Non mi interessa. Almeno dall'orfanotrofio potrò uscire, tra qualche anno. Diciamo che è una specie di purgatorio. Avere dei genitori? Quello sarebbe l'inferno!”

Sherlock lo osservò attentamente. Non sembrava che stesse mentendo e la cosa lo inquietò ancora di più.

“So che ti sembro strano” aggiunse Jim, notando l'espressione perplessa del bambino “Sono fatto così. Anche tu sei strano, ammettilo”

Sherlock annuì, poi gli venne in mente una cosa.

“Se non stiamo andando a vedere un morto, dove mi stai portando?”

Jim si strinse nelle spalle.

“In un posto a caso” rispose “Ho puntato il dito sulla mappa di Londra e ho scelto South Quay. Sembra divertente. Ci son un sacco di cantieri in quella zona, grattacieli e canali. Inoltre, se siamo fortunati, potremo incontrare un mio amico”

Sherlock non rispose. Appoggiò la testa al freddo vetro del treno e cercò di guardare fuori. Osservò le luci della città farsi sempre più indistinte mentre si allontanavano dal centro e si domandò se e quando sarebbe riuscito a tornare a casa.

 

 

 

 

 

 

*Piccolo omaggio a 'Il mastino di Baskerville'

** Il pub Purple Turtle esiste davvero e si trova a Camden Town vicino alla fermata di Mornington Crescent. Ci sono passata davanti un sacco di volte, ma non ci sono mai entrata.

*** La Oyster Card … Londra … quanti ricordi!

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Capitolo 9
*** Incidente di percorso ***


Scusatemi tanto per la lunga assenza, ma ho avuto da fare … he he he

Scuse a parte, rieccomi qui! Anno nuovo, capitolo nuovo! Moooolto angst verso la fine. Buona lettura e … recensite!

 

 

 

 

 

 

Incidente di percorso

 

 

 

 

 

 

 

Appoggiato a quel muretto in riva al Tamigi, John pensava. Non aveva nessuna traccia, nessun indizio per poter cercare Sherlock. Da dove poteva cominciare? Doveva tornare indietro? Si era agitato come un pazzo di fronte ai genitori del bambino, senza ottenere nulla. Forse avrebbe fatto meglio a restare a casa con loro, aspettando notizie da parte della polizia, ma gli sembrava impossibile. Non avrebbe resistito un minuto. Doveva agire, muoversi, fare qualcosa, anche se inutile, per riportare a casa Sherlock.

Sbatté il pugno sulla pietra, in un gesto di rabbia, ignorando il dolore e la vista gli si offuscò. Si sentiva impotente, ma aveva la ferma intenzione di fare qualcosa. In quel momento non poteva far altro che piangere. Si nascose il viso tra le braccia e pianse forte. Il solo pensiero di non sapere dove fosse il suo piccolo lo faceva stare male fisicamente.

 

Sherlock scese alla fermata di South Quay. Il vento freddo della sera gli scompiglio i capelli e lo fece tremare. Si guardò intorno per cercare di orientarsi. La ferrovia si trovava su una banchina sopraelevata e da lì poteva vedere il terreno irregolare e fangoso di un cantiere.

“Chi sarebbe questo tuo amico?” chiese a Jim, seguendolo lungo una stretta scala a chiocciola.

“Un tipo che gira per i tunnel della metropolitana suonando la chitarra e no, non è pericoloso. È mio amico, te l'ho detto. L'ho conosciuto una volta che ero scappato dall'istituto. Non ci farà del male”

“Se lo dici tu” commentò Sherlock, ma era ansioso “Quando potrò tornare a casa?”

“Quando potrò tornare a casa?” lo imitò Jim, parlando con un tono di voce smielato e piagnucoloso “Davvero vuoi tornare a casa? Stai scherzando?”

“Non sto scherzando” gli rispose Sherlock, guardandolo seriamente “Devo tornare a casa entro domani mattina, altrimenti i miei genitori si accorgeranno che me ne sono andato e mi metteranno sotto stretta sorveglianza. Non oso immaginare cosa potrebbero farmi se ...”

“Tranquillo” gli disse Jim “Tornerai a casa prima che la mammina si accorga che sei sparito”

Sherlock annuì, ma non si sentiva tanto sicuro. Non conosceva quella parte di Londra e se avesse perso di vista Jim non avrebbe saputo come tornare a casa. Lo afferrò per un braccio.

“Non mi dirai che hai paura!”

“Io non ho paura” gli rispose Sherlock, digrignando i denti “Ma non è saggio affrontare dei pericoli inutili”

“Pericoli inutili?” esclamò Jim, più sorpreso che mai “I pericoli non sono mai inutili. Servono per formare il carattere. Certo, ci sono degli effetti collaterali ...”

Sherlock deglutì a fatica.

“Di cosa stai parlando?”

“Di certo non di sbucciature o semplici taglietti” gli rispose lui, restando sul vago “Se vuoi crescere devi romperti qualche osso … anche nel senso letterale del termine. Lo sai perché sono orfano?” gli domandò poi.

Sherlock notò una lieve scintilla di rabbia attraversare gli occhi del bambino, ma fu un momento.

Scosse la testa e lo osservò. James si era irrigidito e guardava un punto fisso, davanti a sé, immerso in chissà quali ricordi.

“Mio padre non era una bella persona. Era un ladro. È stato ucciso durante una rapina. Stava scappando con la refurtiva, ma un poliziotto gli ha sparato e lui è morto sul colpo. Io ero a casa con mia madre. Avevo appena due anni. Lei non ha retto alla notizia e ...” esitò, non voleva la compassione di quel marmocchio, ma si costrinse a terminare la frase “ … si suicidò. Capisci? Nemmeno dei propri genitori ci si può fidare! Mi abbandonarono e ne fui felice perché capii che potevo contare solo su me stesso!”

Sherlock lo osservò a lungo. Rideva e sembrava un pazzo. Era così piccolo, eppure le circostanze lo avevano fatto diventare grande troppo presto. Non sapeva nemmeno cosa dirgli. Non sapeva come si sentiva, non aveva mai provato nulla del genere. Lui aveva i suoi genitori, un fratello e un amico. Si era sempre autocommiserato per la mancanza di un nutrito gruppo di amici, ma ora vedeva che c'era qualcuno che stava peggio.

“Cosa vuoi fare, ora?” gli chiese. Certamente non lo aveva portato laggiù solo per raccontargli la sua infanzia. Che volesse solo metterlo nei guai?

“Mi annoiavo e volevo un po' di compagnia, tutto qui. Ti sei già pentito di avermi seguito, eh? Rimpiangi il tuo bel letto caldo! Pivello!”

“Non sono un pivello!” si difese Sherlock “Solo trovo che sia un'inutile perdita di tempo vagare per Londra senza un obiettivo. Mi sto annoiando … ahi!”

Non fece in tempo a finire la frase, che qualcosa lo colpì alla testa. Era un sasso. Si girò di scatto e cercò il responsabile di quel gesto. Vide che gli occhi di Jim si erano illuminati per la sorpresa. Era rimasto a bocca aperta e fissava un punto indeterminato nel buio. Guardò in quella direzione e vide un ragazzino, appollaiato su un albero, che li osservava. Teneva in mano una fionda carica e pronta a colpire, ma quando vide James, si rilassò.

“Sebastian!” esclamò il bambino, al massimo della gioia “Sei tornato dall'India!”

Sherlock capì immediatamente di chi stesse parlando. Si massaggiò il bernoccolo e guardò male il nuovo arrivato.

“Perché mi hai colpito?” gli chiese.

L'interpellato si strinse sulle spalle e scese con un balzo dal ramo.

“Mi andava così” gli disse “Mi sto allenando per migliorare la mira”

Ripose la fionda in una borsa che portava a tracolla e cominciò a giocherellare con il sassolino che teneva in mano, lanciandolo e riafferrandolo al volo. Sherlock lo osservava mentre si avvicinava a loro.

“Quanto tempo, Jim” gli disse “Sono felice di rivederti, ma chi è questo moccioso?”

Sherlock voleva dire che non era un moccioso, ma Jim lo precedette.

“Lui è a posto” gli assicurò James “L'ho portato a vedere la Londra notturna. È la prima volta che esce clandestinamente di casa ed è preoccupato che i suoi genitori lo scoprano”

Sherlock non fece in tempo ad indignarsi per quell'affermazione, che Sebastian intervenne.

“Quindi non è uno dei soliti orfanelli che ti porti dietro, eh?” gli domandò.

“Quelli sono tutti stupidi. Diciamo che lui mi è sembrato più svegli degli altri”

“Dunque?” si inserì a quel punto Sherlock “Cosa volete fare? Il tempo passa e io devo tenere conto che non posso rincasare più tardi delle sette”

“Come vuoi, carino” gli rispose Sebastian, con un tono canzonatorio “Che si fa, Jim?”

“Andiamo a cercare Big Bobby?” gli chiese questo, eccitato in viso “Non lo vedo da due settimane e sono certo che avrà un sacco di storie da raccontarci!”

“Stai parlando di quel ragazzo che suona la chitarra?” gli domandò Sherlock.

“Ovvio!” esclamò Jim “Dovrebbe trovarsi dalle parti di White Chapel o giù di li. Andiamo a farci un salto?”

Sebastian annuì, ma Sherlock era incerto sul da farsi. La notte sembrava sempre più fredda e lui non voleva seguire quei due, che cominciavano a spaventarlo, anche se non l'avrebbe mai ammesso.

“Vogliamo andare?” chiese, lottando contro la diffidenza che lo divideva da due.

“Direi che possiamo procedere” convenne Jim “Dovremo prendere di nuovo la metropolitana”

 

Risalirono sulla ferrovia di superficie e in breve raggiunsero la fermata giusta. Scesero e si addentrarono nuovamente nelle viscere di Londra. Scesero alla fermata di Whitechapel. Jim li precedette, guardandosi attorno in cerca dell'amico chitarrista, ma di lui non c'era traccia.

“Dobbiamo risalire” disse “Quando non suona qui, va a spaventare i turisti per i vicoli. Andiamo”

Sherlock e Sebastian lo seguirono in silenzio e risalirono in superficie.

Davanti a Sherlock si aprì il largo viale di White Chapel. La strada era divisa da un'aiuola mal curata che la rendeva disordinata, così come le numerose bancarelle appostate ai lati del marciapiede. Ora erano solo solitari gazebo coperti da tele cerate bianche, sporche di smog. Sherlock non era mai stato in quella parte della città, ma si immaginò quella via, che in quel momento era triste e desolata, piena di vita, gremita di gente, di suoni, odori e mercanzia di tutti i tipi.

Nell'aria aleggiava ancora l'odore sgradevole della verdura marcia e dell'inquinamento. Non sembrava una via della Londra che Sherlock conosceva. Ripensò alle parole di Jim sul suo amico e non poté non interrogarlo a proposito.

“Cosa intendevi per 'spaventare' i turisti? In giro per White Chapel non c'è nessuno ...”

“Nessuno a parte i fanatici” mormorò Jim.

“Fanatici?” ripeté Sherlock “Di cosa stai parlando?”

James sorrise e lo lasciò nel dubbio per qualche istante.

“Hai mai sentito parlare di Jack lo Squartatore?”

Sherlock trattenne il respiro. Eccome se ne aveva sentito parlare! Mycroft gli aveva raccontato tutta la storia, senza lesinare i dettagli più scabrosi e sanguinosi. Gli aveva elencato i possibili sospetti in base alle prove raccolte e alla descrizione psicologica dell'assassino. A Sherlock sembrava impossibile che nessuno fosse mai riuscito in quell'impresa. Nemmeno suo fratello sapeva chi era il vero colpevole di quei delitti, ma immaginò che non si fosse impegnato abbastanza. Da quando aveva saputo di tutta quella storia, si era fermamente deciso e si era riproposto di indagare, quando sarebbe stato più grande, sullo Squartatore di White Chapel.

Annuì a James e lo lasciò proseguire con la spiegazione, anche se aveva già intuito a cosa si riferisse.

“I turisti più pazzi vengono qui di notte per visitare i luoghi degli assassini nelle ore più buie e suggestive” * spiegò “Così Big Bobby e tanti altri come lui si divertono, travestendosi dal vecchio Jack e spaventandoli a morte. Si nascondono dietro i vicoli e … bum! Li colgono di sorpresa!”

Anche Sherlock si spaventò in quel momento, pensando come sarebbe potuto essere presi alla sprovvista da uno sconosciuto in un vicolo buio. Jim se ne accorse e si mise a ridere.

“Tranquillo, tu sei con noi! Non oserebbe mai spaventare me!”

Il tono con cui James aveva parlato non era molto tranquillizzante. Era troppo sicuro di sé. Aveva parlato di quell'uomo come se fosse un suo sottoposto, eppure era solo un bambino! Doveva avere un carattere estremamente forte per poter assoggettare perfino un adulto, oppure era disposto a tutto pur di incutere paura nel suo prossimo.

Era esattamente questo che Sherlock provava nei confronti di quel bambino. Paura. Il suo sguardo era quello di un pazzo e i suoi gesti confermavano il suo aspetto. Sherlock arretrò di un passo, quando due mani forti e robuste lo afferrarono saldamente per le spalle.

Non riuscì nemmeno a gridare, tanto fu lo spavento. Per un momento gli mancò il fiato poi, cercò di divincolarsi per scappare, ma si accorse che James e Sebastian stavano ridendo di lui.

“Lascialo, Big Bobby” gli disse Jim, con il fare di un grande capo, asciugandosi una lacrima.

Sebastian era ormai piegato dal ridere e non accennava a smettere.

Sherlock si rese conto che l'uomo l'aveva lasciato e si girò per guardarlo. Era alto, vestito con dei laceri abiti sporchi e portava a tracolla una chitarra.

“Volevo rendermi conto se il tuo nuovo amico era degno di stare con te, Jim” gli disse “Mi pare che sia più che adeguato. È anche intelligente o è uno di quei marmocchi del tuo orfanotrofio?”

“Non è orfano, anzi. Vive in una grande casa di ricchi, però è un disobbediente come me. Non sarebbe qui, altrimenti”

Sherlock cominciava a sentirsi a disagio tra quei tre. Sebastian se ne stava in silenzio, ma il suo sguardo era tutt'altro che pacifico. Voleva andarsene, ma non sapeva come fare.

 

 

 

 

 

La notte si stava facendo più profonda e John non aveva ancora uno straccio di prova per poter trovare Sherlock. Non aveva idea di come muoversi, ma doveva farlo.

Scese nuovamente verso la metropolitana e prese una linea a caso, senza nemmeno guardare. Da quando aveva conosciuto quel moccioso, si era instaurato in lui uno strano istinto e sapeva che nemmeno in quell'occasione lo avrebbe tradito. Così, mentre mille paure continuavano a tormentarlo, si insinuò nella linea District, diretto a White Chapel.

Non sapeva a cosa stava andando incontro, ma sapeva che doveva sbrigarsi. Quando il treno si fermò a White Chapel, salì velocemente le scale. Non aveva prove che Sherlock fosse lì, ma sapeva quanto la storia di Jack lo Squartatore lo avesse affascinato, così non ritenne impossibile che avesse deciso di aggirarsi per quelle strade di notte.

Quando raggiunse il marciapiede pensò di incontrare il ferreo silenzio del quartiere, rotto solo dall'abbaiare di qualche cane in lontananza e, magari, un antifurto. Ciò che sentì, invece, gli fece gelare il sangue nelle vene. La frenata brusca e stridente di un'auto e un colpo secco.

 

 

 

 

 

Pochi minuti prima Sherlock si stava guardando attorno. Non voleva più stare con loro. Voleva scappare e tornare a casa per non essere scoperto. Nonostante la ferma decisione di andarsene, stava esitando. Continuò ad ascoltare i deliranti discorsi di Jim su barboni morti per il freddo da lui trovati senza riuscire a muoversi.

Dal canto suo, il bambino non lo degnava di uno sguardo e nemmeno Sebastian e quell'adulto così strano. Indietreggiò di qualche passo, quando Jim si rese conto della sua fuga.

“Dove credi di andare, signorina?” gli chiese “Tu ora resterai qui con noi. Non puoi andartene! Scommetto che non sai nemmeno da che parte andare per tornare a casuccia dalla mamma!”

“Me ne vado invece” protestò Sherlock “Me ne vado perché siete tre pazzi e non voglio avere a che fare con voi!”

“Pazzi noi?” gli chiese l'uomo, chinandosi per guardarlo meglio “Non siamo pazzi … tutti gli altri lo sono ...” aggiunse con un tono che spaventò Sherlock ancora di più.

Jim e Sebastian cominciarono a ridere e lo guardarono con superiorità. Ormai ne era certo. Doveva andarsene da lì.

I tre continuavano a ridere di lui, così decise di approfittarne per correre via. La strada era vuota. Solo ogni tanto qualche automobilista sfrecciava per quelle strade deserte. Sherlock era così impegnato a tenere d'occhio Jim e i suoi amici, che non si rese conto che un'auto si stava avvicinando a grande velocità. Attraversò la strada per raggiungere le scale della metropolitana e si fermò, giusto in tempo per vedere due fari accecanti avvicinarsi sempre di più.

L'uomo alla guida vide all'ultimo momento il bambino e riuscì a frenare, ma non abbastanza in tempo per evitare lo scontro. Sherlock si sentì sbalzare via dall'urto e provò un grande dolore al torace e alla gamba, poi tutto si fece buio.

 

 

 

 

 

 

 

 

* Io l'ho fatto, quando sono andata a Londra, ma era giorno … Non penso che esista gente che fa scherzi del genere e nemmeno turisti che si addentrino per quelle strade di notte, ma non si sa mai.

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Capitolo 10
*** Paura, noia e storie di pirati ***


Eravate in ansia per il povero Sherly? Tranquilli, quel marmocchietto ha la pelle dura e non si è fatto niente e già rimpiangerete la sua breve malattia perché tornerà a stressare genitori e parenti in men che non si dica!

Buona lettura.

 

 

 

 

Paura, noia e storie di pirati

 

 

 

 

 

Era appena riuscito a inspirare l'aria frizzante della notte, una volta riemerso dalla metropolitana, che sentì un rumore agghiacciante. Una frenata e un colpo secco. Il suo istinto lo fece subito correre verso il luogo dal quale proveniva il rumore. Fu il primo ad arrivare e, con un tuffo al cuore, riconobbe il cappottino di Sherlock.

Gli sembrò che il mondo si fermasse e ogni muscolo del suo corpo si irrigidì. Qualcosa dentro di lui, poi lo fece risvegliare. Era lo stesso istinto che lo aveva condotto lì, ne era sicuro. Un sentimento che lo legava ormai in modo indissolubile a quel bambino.

Corse verso di lui e lo osservò attentamente prima di toccarlo. Sherlock sembrava incosciente. Era steso su un fianco e non perdeva sangue, ma ciò non lo rassicurò. Mentre con la mano cercava di girarlo per metterlo a pancia in su, per valutane meglio la situazione, scorse tre individui scappare lungo un vicolo, ma non ci badò. Vide anche la macchina che aveva urtato Sherlock. L'autista era spaventatissimo. Restò qualche istante immobile poi, istigato dalla paura, fece retromarcia e sparì nel buio. John non aveva tempo per lui, doveva pensare al bimbo. Lessa la targa e la scarabocchiò velocemente su un pezzo di carta che teneva in tasca.

Ora doveva solo pensare al piccolo. Con la mano tremante afferrò il cellulare che aveva in tasca e chiamò l'ambulanza.

“Buonasera. Mi trovo in White Chapel Street. Un bambino è stato preso sotto da una macchina … no, no. Se ne è andato … Io no ho nemmeno la patente! Non è questo il punto! Venite subito qui, vi aspetto”

Chiuse il telefono di scatto. Gli infermieri imbecilli gli stavano facendo perdere tempo con quelle inutili domande, mentre lui aveva bisogno solo di assistenza medica.

 

Non erano passati che pochi minuti da quando aveva chiamato, che arrivò un'ambulanza, lampeggiando. John si allontanò subito da Sherlock per permettere ai paramedici di intervenire indisturbati e li osservò da lontano. Quando lo caricarono sulla barella, fece un passo per salire con lui in ambulanza, ma il medico lo fermò con un gesto.

“Non puoi venire con noi” gli disse tenendolo per una spalla “Puoi esserci comunque d'aiuto. Lo conosci?”

John annuì.

“Ho il numero di telefono dei suoi genitori e ...”

“Chiamali subito, dovranno essere avvisati immediatamente. Lo porteremo al Royal”

Detto questo, salì velocemente in ambulanza e chiuse gli sportelli alle sue spalle, lasciando John solo.

In quel momento si rese conto di essere l'unico a conoscenza della situazione. Riprese in mano il cellulare e chiamò i signori Holmes e anche i suoi, per informarli che avrebbe passato la nottata in ospedale.

 

 

 

 

La sala d'aspetto del Royal London Hospital era deserta. Il silenzio era rotto soltanto dal singhiozzare della signora Holmes, quasi svenuta tra le braccia del marito, e dal rumore remoto dei passi di qualche infermiere. John e Siger se ne stavano in silenzio, fissando il vuoto.

Il medico che dal pronto soccorso aveva portato Sherlock in sala operatoria li aveva guardati e aveva sorriso. John aveva interpretato quello sguardo come un segnale positivo e infatti, in cuor suo, sapeva che Sherlock stava bene, ma non riusciva a tranquillizzarsi. Vedeva i genitori del bambino distrutti dalla preoccupazione. Oltre al fatto che era finito sotto una macchina, si stavano chiedendo come avesse fatto a raggiungere White Chapel, quasi dall'altra parte della città.

Si chiedevano quali errori avevano commesso con lui, ma John sapeva fin troppo bene che non era colpa loro. Quel demonietto che si ritrovava per amico era incontrollabile. Si domandò chi avesse potuto trascinarlo lì e gli venne in mente il bambino con il quale Sherlock era scappato la prima volta. Sicuramente doveva essere stato lui.

In quel momento non importava. Passarono ore prima che il chirurgo uscisse dalla sala operatoria. Quando lo videro, si alzarono tutti di scatto, ma non riuscirono a muovere un passo per raggiungerlo. L'uomo, un canuto medico alto e robusto, si avvicinò togliendosi la mascherina e la cuffia dai capelli. John guardò i coniugi Holmes con aria di supplica e Violet gli sorrise per fargli capire che poteva restare.

“Ci dica, dottore” esordì Siger, al massimo della preoccupazione “Come sta? È grave?”

Il medico, il dottor Albert Mc Thompson, li guardò amichevole.

“Sta benissimo. Sembra uno scricciolo, ma ha nervo! Si è incrinato due costole e abbiamo dovuto rimediare ad una piccola emorragia interna, ma non ha nient'altro di rotto. Sospettavamo che si fosse rotto il femore, ma fortunatamente se l'è cavata solo con una brutta botta. Dovrà camminare con le stampelle per un po', ma si riprenderà presto”

John crollò sulla sedia, le gambe ridotte a due gelatine inconsistenti. Anche Siger sembrò cedere e fu compito della Moglie sostenerlo. Violet era ora l'immagine della forza. Una vera madre decisa a stare accanto al figlio, certa che ormai niente avrebbe potuto portarglielo via.

Il medico le fece cenno di seguirla e lei si avviò, trascinando il marito per un braccio. Si voltò verso John e gli sorrise.

“Vieni anche tu, figliolo. Hai il diritto di vedere quell'irresponsabile che ho per figlio. Dottore, non è un parente, ma è come se lo fosse”

Il medico annuì e continuò a camminare lungo il corridoio. Violet avanzava come una guerriera e John tremò, pensando a come avrebbe affrontato il figlio. Una madre preda della paura può essere a sua volta terrificante.

Raggiunsero una piccola stanza, nella quale filtrava la luce della strada. Sherlock era adagiato sul grande materasso del suo letto e sembrava sereno. Era rilassato ma non dormiva e teneva gli occhi fissi sul soffitto, immerso in chissà quali pensieri. Si ridestò quando la madre gli posò una mano sulla fronte.

“Sherlock ...” disse, con voce rotta dall'emozione “Ci hai fatto spaventare … scappare di casa in quel modo ...”

John sorrise. La rabbia negli occhi della donna si era spenta come un fuoco su cui viene buttato un secchio d'acqua, alla sola vista del figlioletto. Si sedette accanto a lui e cominciò a mormorare dolci parole mentre gli carezzava la manina. Poi prese la grande borsa che portava a tracolla e tirò fuori il cane peluche che porse al figlio.

Siger restò sulla soglia, ma lanciò al figlio un sorriso che lui intercettò.

“John, è meglio che tu vada a casa” gli disse l'uomo, posandogli una mano sulla spalla “Potrai venire a trovarlo domani, ma per adesso è meglio che tu ti riposi”

John stava per protestare, ma fu la vocetta di Sherlock a bloccarlo.

“Vai a dormire, John. Io starò bene. C'è John con me” e alzò il peluche, poi si esibì in un lunghissimo e larghissimo sbadiglio “Ho sonno mamma”

“Dormi tranquillo, tesoro” gli disse la donna e si alzò per abbassare ulteriormente le tapparelle della finestra.

“Vai pure John” disse anche lei “Starò io qui con lui. Siger” disse poi rivolta al marito “Porta a casa John e vai anche tu. Domani mattina dovrai lavorare”

L'uomo annuì. Si avvicinò al letto del figlio e lo baciò sulla fronte.

“A domani, piccola peste!” gli disse, scompigliandogli i capelli.

Sherlock rise debolmente e chiuse gli occhi, stringendo forte John. Anche Violet si sistemò sulla poltrona con una coperta che un'infermiera le aveva portato.

“Vieni con me, John” gli disse Siger “Andiamo a casa”

John si allontanò, continuando ad osservare la porta della stanza di Sherlock finché non raggiunsero l'ascensore.

 

 

 

 

 

John andò a trovare Sherlock tutti i giorni successivi, fino a quando fu dimesso e anche dopo lo andò a visitare a casa. L'impatto con l'auto era stato irrisorio ed era volato via soprattutto per il suo scarso peso, ma non aveva subito danni gravi. Aveva camminato con le stampelle per una settimana e per i primi giorni zoppicò un po', ma dimostrò di possedere un nervo d'acciaio, infatti neanche un mese dopo l'incidente, già saltava sul letto di fronte ad un esasperato John. Ormai l'avventura di quella notte sembrava dimenticata, ma John aveva ancora domande senza risposta.

Quel giorno Sherlock era parecchio vivace. Era contento perché era riuscito a raccogliere, tra il giardino della sua casa, le aiuole del parco e della scuola, venti tipi diversi di terra, diligentemente catalogata e conservata in scatoline trasparenti che aveva rubato alla madre.

“Hai visto Jawn?” gli chiese “Questo terriccio è molto particolare. L'ho trovato vicino all'aiuola dei gigli e ...”

Si interruppe. John non lo stava ascoltando e si poteva chiaramente intuire dalla sua espressione.

“Jawn?” lo chiamò nuovamente il bambino, tirando la manica della sua giacca “Jawn, stai bene?”

John sospirò e si voltò lentamente verso di lui.

“Sto bene, Sherlock. Solo ...”

“Solo?” chiese lui, allarmato.

“Mi chiedevo cosa ti spinge a far certe cose”

Sherlock restò ad osservarlo per un po' senza capire, poi ricordò. Arrossì un poco, posò la scatola con la terra e andò a recuperare John il cane e lo strinse tornando da quello che ormai era stato ribattezzato 'Jawn'.

“Mi annoiavo” rispose serio, sommergendo il viso sul petto peloso del cane “Jim ...”

“Ah!” lo interruppe John “Dunque c'entra ancora quel Jim?”

Sherlock si limitò ad annuire.

“Ti rendi conto di cosa hai fatto, spero” gli chiese, incrociando le braccia al petto, più severo che mai.

Sherlock strinse più forte il suo peluche e annuì di nuovo poi, inaspettatamente, lo abbassò e guardò John a viso aperto.

“Volevo solo andare ad esplorare! Niente di più! Poi però lui ha cominciato a farmi paura … è matto, sai?” disse aggrottando le sopracciglia “Gira da solo … è orfano, ma è anche cattivo. Non ha paura di niente ...”

Pronunciò le ultime parole con la voce che si faceva sempre più piccola, come se si vergognasse di non essere coraggioso come Jim.

“Secondo te è saggio aggirarsi per Londra di notte?” gli domandò John, scompigliandogli i capelli “Non devi imitare Jim solo per sembrare coraggioso. Tu sei coraggioso, Sherlock. Non serve che lo dimostri a nessuno”

Sherlock annuì un'altra volta.

“Sei preoccupato per lui? Perché se ne va in giro da solo?”

“No ...” rispose Sherlock “Sono preoccupato perché mi spaventa. Ha qualcosa di strano ...”

Scosse la testa per scacciare pensieri molesti e fece danzare i suoi riccioli scuri, poi guardò fuori dalla finestra il sole che ormai stava tramontando.

“Resti a cena con noi, Jawn?” gli chiese, saltellando sul posto e poi correndo a saltare sul letto “Resti? Resti?”

John restò interdetto per un attimo, guardò l'orologio e infine si lasciò andare ad un lungo sospiro.

“Va bene, demonietto!” disse infine alzandosi per prendere il cellulare “Lo dici tu alla mamma?”

Gli occhi del bambino si illuminarono di gioia. Saltò giù dal letto e si mise ad urlare per chiamare la madre, mentre John avvisava i genitori.

 

 

 

 

La cena fu abbastanza tranquilla. Sherlock parlava a raffica con John, continuando a spiegargli i vari tipi di terra che aveva trovato poi, quando arrivò il secondo, si mise a dissezionare la sua ala di pollo, criticò la madre per la cottura delle patate e osservò che il fratello avrebbe dovuto evitare di mangiare tutta quella torta nel pomeriggio. John e Siger ridevano mentre Violet e Mycroft arrossivano per la rabbia e l'imbarazzo.

Dopo cena, Sherlock prese John per una manica e cominciò a trascinarlo al piano superiore.

“Sherlock!” lo richiamò la madre “Adesso John deve andare a casa”

“No!” protestò il bambino “Prima deve raccontarmi una storia”

Si rivolse al ragazzo con due occhioni che avrebbero fatto sciogliere il metallo“Vero Jawn?”

“Se vuoi te la racconto io la storia” propose Violet, guardando preoccupata il ragazzo “John sarà stanco”

“No!” esclamò nuovamente Sherlock “Deve essere Jawn! Io voglio solo lui! Lui è bravo a raccontare storie! Potrebbe fare lo scrittore da grande!”

John guardò prima Violet, poi abbassò lo sguardo su Sherlock.

“Va bene” rispose “Prima però ti lavi i denti e ti metti in pigiama, va bene?”

“Sììììììì!!” esclamò Sherlock e continuò a trascinare John verso le scale.

A quel punto il ragazzo lo prese in braccio come un sacco di patate e lanciò un'ultima occhiata alla madre, per rassicurarla, e trasportò Sherlock al piano di sopra.

 

 

 

 

Lavato e con indosso il pigiama, Sherlock si accomodò sotto le coperte con John al suo fianco. John il cane e Jawn il suo migliore amico.

“Dunque, che storia vuoi sentire?” gli chiese John, sistemandosi meglio sul materasso.

“Una storia di pirati!” esclamò Sherlock ed estrasse da sotto il cuscino la sua benda nera che indossò.

“Vada per la storia di pirati” rispose John annuendo “Vediamo … ah, ecco! La storia si intitola: L'avventura di Capitan Sherlock Edmund Talbot e il tesoro di Barafundle Bay”

“Bello! Bello!” esclamò Sherlock, saltellando da seduto sul letto “Racconta!”

John prese un gran respiro, fece una pausa drammatica, e cominciò a narrare ...

 

 

 

 

 

Note conclusive: il titolo della storia è ricco di citazioni. Sherlock è per il bambino che ascolta la storia; Edmund Talbot è riferito a 'To the and of the earth' e Barafundle Bay è la spiaggia del film 'Third star' entrambi con il nostro caro Benedict.

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Capitolo 11
*** Capitan Sherlock Edmund Talbot e il tesoro di Barafundle Bay ***


Un capitolo speciale, dedicato alla fiaba della buonanotte per Sherlock. Buonanotte anche a voi e alla prossima.

Mini

 

 

 

 

 

Capitan Sherlock Edmund Talbot e il tesoro di Barafundle Bay

 

 

 

 

 

 

Il mare dei Caraibi era rimasto tranquillo dopo la morte del Corsaro nero, per almeno un paio d'anni. Anche i soldati della regina si erano adagiati sugli allori, credendo che nessuno oltre il vecchio Pirata, avrebbe potuto incutere altrettanto terrore tra le navi mercantili.

Non sapevano che, nell'ombra, stava crescendo un giovane pirata.

Aveva radunato, in gran segreto, una nutrita ciurma costituita da elementi tra i più spaventosi che era riuscito a racimolare tra Tortuga e Port Royal.

Nonostante fosse ancora molto giovane, riusciva ad assoggettare alla sua volontà anche gli uomini più determinati ed esperti. I suoi occhi di ghiaccio sapevano terrorizzare anche il più coraggioso bucaniere e non c'era niente che non fosse disposto a fare per il tesoro. Era coraggioso e si buttava a capofitto in ogni avventura, ma non uccideva se non era costretto.

 

Il suo nome era Sherlock Edmund Talbot, Capitano della 'Silver Blaze'. Il suo scafo, completamente dipinto di vernice argentata, si confondeva con lo splendore del mare sotto la luce della luna e le sue vele nere sparivano nella notte come dei fantasmi. Nessuno la sentiva o la vedeva arrivare, finché non era troppo tardi. Allora la ciurma si lanciava sulle assi della nave di turno, saccheggiava e rientrava. Quasi nessuno si rendeva conto di quello che succedeva, ma quando il trambusto e il vento che la nave misteriosa portavano con sé spariva, si ritrovavano derubati.

 

Sherlock Edmund Talbot era un uomo alto, slanciato, magro ma atletico. Il suo viso era pressoché perfetto, fatta eccezione per una brutta ferita, riportata durante una battaglia, che lo aveva privato dell'occhio sinistro, elegantemente coperta da una benda di seta nera. Anche il suo abbigliamento denotava stile e gusto per le cose belle. Indossava sempre abiti scuri, di tessuti preziosi, cuciti dai migliori sarti dei sette mari appositamente per lui.

La sua abilità nel comando aveva permesso a lui e alla sua ciurma di accumulare una ricchezza a stento immaginabile, che custodivano in un luogo segreto, conosciuto solo da lui stesso e dal suo primo ufficiale.

 

Primo ufficiale della Silver Blaze era James Moriarty, uomo intelligente e riservato, sulla cui fedeltà Sherlock non aveva mai dubitato. Lo aiutava a prendere le decisioni importanti e spesso sembrava che gli leggesse nel pensiero, precedendolo nel dare ordini alla ciurma o consigliandolo sulla rotta da tenere.

 

Il cecchino, arruolato da Moriarty stesso, era Sebastian Moran. Un ex soldato della Marina, cacciato con disonore per aver aiutato un pirata in difficoltà. Era un abile tiratore, capace di annientare una nave nemica con un solo colpo.

 

La ciurma era composta da elementi di prim'ordine. Uomini forti, coraggiosi e intuitivi, enormemente legati al loro capitano. Nessuno di loro si tirava indietro sia che si dovesse arrembare una nave o per lucidare il legno del ponte. Erano orgogliosi di servire un così bravo capitano ed erano altrettanto fieri della loro nave. Niente poteva fermarli.

Ciò che gli piaceva di più, però, era John. John Hamish Watson era l'ultimo arrivato. Un giovane mozzo trovato dal capitano in un'isola deserta dopo il naufragio della nave su cui stava viaggiando. Per correttezza nei confronti della ciurma non avrebbe potuto promuoverlo subito, anche se avrebbe voluto farlo.

Quel giovane così spontaneo e sincero lo aveva conquistato subito, così come aveva conquistato anche il resto della ciurma. Diceva sempre la verità e non parlava mai alle spalle di nessuno, ma c'era anche altro che aveva fatto innamorare tutti di lui.

Le sue storie.

Raccontava storie di fate, di cavalieri e draghi, di maghi e incantesimi, di principesse da salvare o di strani omini buffi. Tutti rimanevano incantati ad ascoltarlo mentre,solo con le sue parole, era capace di creare mondi da fiaba.

Questi paesaggi, che dimoravano perennemente nella sua testa, venivano tessuti nelle lunghe ore di pulizia, quando stava chino sui fornelli o sui piatti da lavare. Sapeva che erano lavori umili, ma a lui piaceva tantissimo quella nave. La considerava un gioiello prezioso e come tale le curava.

 

 

 

Così, tra un arrembaggio e l'altro, la vita proseguiva senza strappi, avventurosa ma, tutto sommato, noiosa. Il Capitano era sempre più inquieto. Tutto andava troppo bene. Il tesoro cresceva a vista d'occhio e ormai nemmeno lui sapeva a quanto ammontava. Un tesoro invidiabile.

Tutti i pirati covavano il sogno segreto di potersene impossessare, ma era chiaro che era impossibile.

Dobloni, corone, diademi, diamanti, rubini e smeraldi e gioielli di ogni tipo arricchivano quel bottino, frutto di mille rapine.

John era orgogliosissimo della nave, ma ancora più felice di poter seguire il suo Capitano. Lo coccolava, lo viziava e lo serviva come meglio poteva ma, soprattutto, vegliava su di lui. Non che avesse mai corso dei pericoli seri. In battaglia era praticamente invincibile e nessuno osava avvicinarsi a lui per fargli del male, ma John aveva paura che qualcuno, all'interno della ciurma, potesse tramare contro di lui. Non per insoddisfazione, questo mai! Capitan Sherlock era severo sì, ma anche estremamente leale e giusto con i suoi sottoposti. Non puniva nessuno a meno che non fosse costretto e anche in quel caso cercava di far comprendere gli errori, piuttosto che spaventare. Questa condotta lo aveva reso celebre e benvoluto, tanto che nessuno tra i suoi avrebbe mai pensato ad un ammutinamento.

Da qualche tempo, però, aveva cominciato a tenere d'occhio il primo ufficiale, Moriarty. Ogni sera si appartava con il cecchino e insieme parlavano a lungo, ma appena sentivano un rumore smettevano e si allontanavano come se niente fosse. Tutto ciò era alquanto sospetto.

 

Il fatto avvenne una sera estiva.

John aveva personalmente preparato la cena al suo Capitano e, come ogni sera, stava per portargliela. L'aveva già messa nella ciotola e coperta con una cupola di metallo per proteggerla dal freddo della sera, quando qualcuno venne a chiamarlo, dicendogli che lo stavano aspettando sul ponte. Corse più velocemente che poté per non far aspettare il Capitano, ma non c'era nessuno ad aspettarlo. Tornò quindi in cucina, scocciato per quello scherzo, e prese al volo il vassoio con la cena. Tenendo il tutto con straordinario equilibrio, uscì dalla cucina cantando e danzando per andare nella cabina di Sherlock.

Il capitano stava consultando delle carte nautiche e non lo sentì entrare.

Capitano” disse John, per attirare la sua attenzione “Le ho portato il pasto”

Capitan Sherlock non alzò nemmeno lo sguardo e fece un breve cenno con la mano e gli indicò il tavolo ingombro di carte. John sospirò. Certamente non l'avrebbe aiutato a creare uno spazio per il vassoio, così si rassegnò ad arrangiarsi.

Con una serie di movimenti che avrebbero fatto invidia ad un equilibrista, riuscì a scostare i documenti quel tanto che bastava per poter appoggiare la cena. Capitan Sherlock sembrò non notare la cosa.

Non mangia, capitano?”

Sherlock in risposta agitò una mano e John capì che avrebbe mangiato, ma che molto probabilmente la sua cena nel frattempo si sarebbe raffreddata. Sospirò e decise di lasciar perdere. Sollevò il coperchio dal piatto della zuppa, sperando che l'odore invogliasse il Capitano, ma storse subito il naso. Un strano odore raggiunse le sue narici. Non era il solito odore della sua zuppa. Forse qualcosa era andato storto mentre la cucinava? Si era bruciata mentre era uscito quei pochi minuti dalla cucina? Non poteva permettere che il Capitano mangiasse qualcosa di non degno del suo palato.

Capitano ...”

Sherlock si girò di scatto.

Ho capito, Watson. La ringrazio per la cena, ma ora si eclissi. Vada via!” rispose lui, indicando con un gesto perentorio la porta, così John si rassegnò e uscì a capo chino.

 

 

 

Il mattino seguente si svegliò di buon'ora. Sapeva che Sherlock non voleva che lo si disturbasse dopo cena, così andava a ritirare i piatti sporchi solo quando doveva sostituirli con quelli della colazione. Quel giorno, però, non fece nemmeno in tempo a mettere l'acqua del tè sul fuoco.

Appena uscito dalla sua cabina, fu sorpreso di vedere una insolita agitazione a bordo. Tutti erano fermi davanti alla cabina del capitano. Sentì mormorare le parole 'morto' e 'avvelenato'.

Il sangue gli si gelò nelle vene e stava quasi per svenire, quando vide il suo capitano uscire vivo e vegeto dalla cabina, ma con uno sguardo cupo.

Cos'è successo” chiese a Anderson, un altro membro della ciurma.

Powers è morto” rispose lui, senza staccare gli occhi stupidi dalla soglia della cabina del capitano “Sembra che sia stato avvelenato”

Powers?” domandò John, sconvolto “Carl Powers?”

Anderson annuì e John si sentì incredibilmente triste. Carl Powers era entrato nella ciurma poco prima di lui e l'aveva aiutato e guidato, facendogli da fratello maggiore. Gli sembrava impossibile che fosse morto.

Com'è accaduto?”

Anderson aprì la bocca per parlare, ma fu Moriarty a rispondere per lui.

Quel veleno non era destinato a Powers” disse, guardandosi in giro per assicurarsi che tutti ascoltassero “Il giovane Carl aveva procurato al Capitano delle carte a lui fondamentali e per questo era entrato nella sua cabina. Il nostro generoso Capitano, vedendolo affamato e ingolosito dalla sua cena, gliela offrì. Il veleno era nella zuppa destinata al Capitano e solo una persona avrebbe potuto mettercelo”

Fece una pausa drammatica e tutti trattennero il fiato. Si guardò nuovamente attorno, soddisfatto del clima di aspettativa che aveva creato, poi puntò il responsabile con un dito accusatore.

John Watson, il cuoco!”

Si levarono fischi e improperi da tutte le parti, mentre John arrossiva come un pomodoro. Si sentiva le gambe molli. Com'era possibile che il primo ufficiale sospettasse di lui? Indietreggiò. Sapeva cosa lo aspettava. Gli ammutinati avevano un triste destino e, a meno che qualcuno non lo aiutasse, un bel tuffo non glielo toglieva nessuno. Stava quasi per rassegnarsi a morire nelle profondità dell'oceano, quando una voce si levò sopra gli insulti, facendoli tacere all'istante.

Era il Capitano.

Non credo, James” disse avanzando regalmente tra la ciurma “Il giovane John non è responsabile di questo attentato”

Lo guardò dall'alto al basso, esaminando la sua reazione.

Non ha l'aspetto di un assassino colto sul fatto, inoltre è fin troppo ovvia la sua implicazione. Se avesse veramente voluto uccidermi, non avrebbe avvelenato il mio cibo, avrebbe escogitato un altro espediente. Inoltre ci sono altre prove a suo favore”

Tutti ascoltavano Capitan Sherlock in religioso silenzio. L'uomo passeggiava tranquillamente su e giù per il ponte, perfettamente a suo agio, con le mani incrociate dietro la schiena.

La mia cena arrivò con un ritardo di ben quattro minuti. Solitamente John è molto puntuale. Lo vidi uscire dalla cucina di corsa, come se fosse in ritardo per un appuntamento e dopo pochi istanti uscì un altro uomo, che si diresse verso una parte della nave sulla quale non avrebbe dovuto provare nessun interesse.

Quando poi John, nella mia cabina sollevò il coperchio perché l'odore mi invogliasse a mangiare, ma con la coda dell'occhio lo vidi storcere il naso. C'era qualcosa che non andava in quella zuppa ed era evidente che lui non ne conoscesse la natura. Pensai subito a qualche pisello bruciato e non ci feci più caso. Stavo per mangiare, quando arrivò il giovane Powers. Io avrei mangiato solo per non dispiacere il caro John, ma quando vidi Carl così affamato non esitai a dargli la mia cena.

Mi fu subito evidente che il misterioso messaggero aveva creato un diversivo per allontanare il cuoco dalla cucina e mettere il veleno nella mia zuppa, per poi recarsi dal suo committente per ricevere la paga per il lavoro svolto”

Tutti i presenti avevano cominciato a guardarsi l'uno con l'altro. Chi era dunque il traditore? Tutti erano in preda al panico. Tutti tranne due persone. Sherlock, ignorando i sussurri e i mormorii, proseguì.

L'uomo misterioso non era altri che il cecchino, Sebastian Moran, che stava recandosi dal suo committente, il mio non molto fedele primo ufficiale James Moriarty”

Non aveva pronunciato quelle parole con solennità, ma come una semplice constatazione. I colpevoli sbiancarono e, compreso che non avrebbero avuto scampo, decisero di tentare il tutto per tutto.

Sebastian, uccidi il capitano!” gridò il primo ufficiale, gridando e agitando le mani come un pazzo.

Il cecchino estrasse la sua fedele pistola e la puntò al petto di Capitan Sherlock, ma John fu più veloce. Estrasse un'altra pistola dal fodero di un marinaio al suo fianco e sparò alla mano del cecchino. La pistola che stava per uccidere il capitano volò via e andò a scivolare sulle assi del ponte. Ormai era finita. Moriarty era disarmato e Moran era ormai fuori combattimento.

Lestrade!” chiamò Capitan Sherlock “Ammanetti Moran e Moriarty e li porti in cella. Li abbandoneremo alla prima isola utile.

Il marinaio annuì e, aiutato da Anderson, portò via i due traditori, furenti per l'ira. Capitan Sherlock li osservò allontanarsi per qualche istante, poi sorrise soddisfatto.

Ottimo lavoro, Watson” disse rivolto al cuoco “Mi dispiacerà non poter più gustare le sue zuppe” aggiunse allargando il sorriso.

John rimase interdetto per qualche istante, spaventato. Voleva forse cacciarlo per un crimine che non aveva commesso?

Ma … Capitano ...”

Mi chiami pure Sherlock, John” lo interruppe lui, alzando la mano e trattenendo una risata.

Non penso che sia consono ad un primo ufficiale preparare zuppe di piselli”

Si interruppe per dare sfogo ad una risata e osservare la reazione stupita di John.

Ha capito bene, John Hamish Watson. D'ora in poi lei sarà il mio primo ufficiale e mi chiamerà per nome. Le sta bene … John?”

Lo stupore aveva preso il posto della paura, ma John restò ugualmente ammutolito.

Non faccia quel viso!” lo rimproverò scherzosamente il Capitano “Il primo ufficiale ha anche il compito di proteggere il suo capitano e non penso che possa esserci qualcuno più qualificato di lei”

Finalmente John riuscì a respirare normalmente e sorrise.

La ringrazio Cap … Sherlock”

Sherlock annuì soddisfatto e lo cinse per una spalla con un braccio.

Qual'è la nostra prossima meta, Sherlock?” gli chiese, mentre si avviavano verso la cabina di comando”

Prima di tutto accompagneremo quei due signori a Port Royal” disse Sherlock accennando ai due ammutinati “Sono certo che la Marina sarà lieta di ricevere un pacco dono. Poi … poi ci aspetta … il tesoro!!”

 

 

 

Come deciso, lasciarono i due ammutinati nelle mani della marina e si dileguarono prima di essere presi. Poi si diressero nuovamente verso il mare aperto, verso l'isola del tesoro.

Con i suoi nuovi abiti da primo ufficiale, John si sentiva forte e potente come mai in vita sua.

Sherlock, come ormai si era abituato a chiamarlo, sorrideva al suo fianco, lo sguardo puntato verso l'oceano.

Barafundle Bay ” disse in un sussurro “Il tesoro si trova a Barafundle Bay” *

John annuì, ascoltando con attenzione.

Approderemo in un'isola qualsiasi dell'arcipelago dei Fantasmi, poi solo noi due prenderemo una scialuppa e ci recheremo alla spiaggia”

Ha intenzione di assaltare un'altra nave?” domandò John, chiedendosi perché Sherlock volesse portarlo lì”

Il Capitano scosse la testa.

No, John, ma non si sa mai. Per ora dovrai solo sapere dove si trova il tesoro. Il problema è che anche Moriarty lo sa, ma so già come rimediare”

Dovremo spostare il tesoro?” domandò John, spaventato. Non lo aveva mai visto, ma sapeva bene che sarebbe stato un lavoraccio e, dal momento che solo loro due avrebbero dovuto farlo per questioni di segretezza, la cosa lo atterrì ancora di più.

No, non lo sposteremo” lo rassicurò Sherlock “Questo è proprio ciò che Moriarty si aspetta. Creeremo invece una mappa nuova, facendogli credere di averlo spostato. Non sospetterà mai che invece resterà al suo posto. In ogni modo, non potrà più tornare lì, nemmeno se volesse”

John non capì quelle parole. Se Moriarty conosceva il luogo dove era nascosto il tesoro, una volta capito l'inghippo della mappa falsa ci avrebbe fatto ritorno, ma Sherlock sembrava fiducioso, così lo seguì.

 

 

 

Nel giro di due settimane raggiunsero l'arcipelago dei Fantasmi. Approdarono in una verdeggiante isoletta e, mentre la ciurma si riposava al sole della spiaggia, loro due presero una scialuppa e si addentrarono tra gli isolotti che formavano l'arcipelago.

John sapeva che il tesoro era immenso. Se l'era figurato mille volte nei suoi sogni ad occhi aperti, così rimase deluso quando vide dove lo stava conducendo Sherlock.

Era un'isoletta minuscola, tanto piccola da poterla abbracciare tutta con un solo sguardo. Proprio al centro c'era un ammasso di rocce con un'apertura che la faceva assomigliare ad una caverna.

Sherlock approdò in quella minuscola spiaggia e saltò giù.

Ma … ma ...” protestò John scendendo a sua volta e guardandosi in giro “Quest'isola è minuscola! Come può contenere un tesoro tanto grande?”

Sherlock sorrise e si girò verso di lui per guardarlo negli occhi.

Poco fa ti ho detto che Moriarty non potrà più tornare qui, nemmeno se vorrà. Potrà raggiungere la spiaggia, ma non riuscirà mai ad accedere al tesoro”

John continuava a non capire, così Sherlock proseguì.

Questa caverna” disse indicando con un gesto l'ammasso di rocce “è il mio cuore”

La rivelazione sorprese John, ma non disse nulla, lasciando che Sherlock continuasse a spiegare.

Solo chi è nel mio cuore può accedervi e vedere ciò che contiene” spiegò avvicinandosi a John “Fino a poco fa James era nel mio cuore, ma da quando cominciai a sospettare di lui, lo cacciai. Lui lo sentì e decise di tentare il tutto per tutto con quell'avvelenamento. Non sapeva che, uccidendomi, avrebbe perso anche il tesoro”

Vedendo la faccia sgomenta del suo nuovo primo ufficiale, si affrettò a continuare.

Tanti anni fa una strega mi fece un incantesimo. Disse che il mio era un cuore immenso e che avrebbe potuto ospitare il più grande tesoro mai visto in tutti i Sette Mari. Così lo trasformò in una caverna senza fine. Questa caverna.” disse indicandola “Ora tu, John, sei nel mio cuore e puoi accedere anche al tesoro. Bada bene, non è solo oro e argento. C'è di più”

Si avvicinò ulteriormente a John, che era arrossito come un pomodoro.

Ho nascosto negli anni i bottini di mille arrembaggi, ma la cosa più preziosa è il mio amore, e solo chi ne è degno può goderne. Tu, John, sei degno”

John riprese un colorito normale e abbracciò il suo Capitano, felice per quella dichiarazione inaspettata.

Anch'io le voglio bene, Sherlock!” gridò, abbracciandolo “Le voglio bene come non ho mai voluto bene a nessun altro e voglio proteggerla!”

Sherlock si era irrigidito a quel contatto così diretto, ma presto si lasciò andare all'abbraccio e lo ricambiò.

Vuole vedere il tesoro?” gli chiese, con un sorriso più luminoso di un diamante.

Entrarono insieme nella caverna e John rimase letteralmente a bocca aperta.

Davanti ai suoi occhi si aprivano valli e boschi e, ben disposto su un prato, un immenso tesoro fatto di ori, argenti, pietre preziose e gioielli dal valore incalcolabile. L'aria era calda e piacevolmente rilassante. John si sentiva come cullato da un amore intenso e profondo, un legame che lo avrebbe unito al suo Capitano per sempre …

 

 

 

 

 

 

 

John si fermò di colpo. Sherlock aveva ormai chiuso gli occhi e anche il suo respiro si era fatto più profondo e regolare. Stava dormendo. Si avvicinò al viso del bimbo con discrezione e lo osservò a lungo. Quel legame era vero, così come era vero che il cuore di quel bambino era immenso e pieno di tesori da scoprire. Lo baciò lievemente sulla fronte e sussurrò.

“Buonanotte, mio Capitano”

Si alzò facendo attenzione a non svegliarlo e si avviò verso la porta, non prima di aver spento la luce del comodino. Anche al buio riusciva a intuire il corpicino del suo bimbo preferito. Sorrise al buio e chiuse la porta alle sue spalle.

 

 

 

 

 

 

 

 

*Il nome è solo indicativo, non è la vera Barafundle Bay.

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Capitolo 12
*** Memoria ***


Orbene. Facciamo passare un po' di anni … Sherlock e John sono cresciuti, ma qualcosa li dividerà.

Questo capitolo si intitola 'Memoria' per due motivi: perché qualcuno la perde e perché è un insieme di ricordi.






 

 

Memoria

 

 





 

 

 

Afghanistan, 21 anni dopo

 

“Capitano! Capitano! Si svegli!”

Albert Murray, attendente del capitano, lo scuoteva energicamente, sperando che si risvegliasse.

“Come sta?”

“Ha perso molto sangue?”

“Capitano!”

“Coraggio, capitano!”

“Maledetti!”

“Dobbiamo portarlo subito in infermeria! Muovetevi!”

Altre voci, lontane e sovrapposte, lo intontirono.

Era stato appena colpito da un proiettile che gli aveva fratturato l'osso, sfiorando l'arteria succlavia. Era pienamente cosciente della sua situazione clinica e ciò lo preoccupò ancora di più. Sapeva che doveva restare sveglio il più possibile, ma proprio non ce la faceva. Le voci dei suoi compagni si fecero pian piano più lontane e indistinte. Anche il viso di Murray cominciò a farsi sfocato e alla fine tutto si fece buio.

 

Due giorni dopo si risvegliò in un letto d'ospedale. Tutto era bianco, candido e puro. Tutto era chiaro, tranne la sua memoria. Provò a sollevarsi, ma un dolore fortissimo alla spalla lo fece rinunciare.

“Non deve sforzarsi, Dottor Watson” gli disse una voce femminile.

Si girò. Era un'infermiera. Lo osservò per qualche istante con dolcezza, poi si girò verso un'altra donna e le sussurrò qualcosa che John, nella sua confusione mentale, non capì. Pochi minuti dopo apparve un giovane soldato.

“Capitano! Capitano Watson! Si è svegliato, finalmente!”

Lo guardò stranito. Con chi stava parlando? Di chi stava parlando?

“Cosa … non capisco … lei chi è? Io … io non capisco ...”

L'uomo lo guardò e nel suo sguardo si leggeva tutta la preoccupazione che doveva provare in quel momento.

“Capitano … non si ricorda di me?”

Rise. Come poteva ricordarsi di lui? Non ricordava nemmeno di se stesso! Scosse la testa, ma rimaneva nel buio più totale.

“Non ricordo nulla … nulla ...”

“Nulla?!”

“Non saprei … è tutto così confuso ...”

Murray annuì e cominciò a pensare a cosa dire per aiutarlo.

“Dunque, lei si chiama John Hamish Watson ed è un soldato, ma soprattutto un chirurgo. Lo ricorda?”

John lo guardò con gli occhi sgranati per il terrore. Ricordava le nozioni apprese all'università e ora che glielo aveva detto, si ricordava di essere un medico, ma tutto il resto era in ombra. Non capiva più dov'era e chi era.

“Non si preoccupi, John” lo rassicurò Murray “Pian piano ricorderà tutto”

 

 

 

 

 

Londra, ospedale Saint Bartolomwes, pochi mesi dopo

 

Sherlock Holmes percorreva a lunghi passi il corridoio dell'ospedale. Finalmente il suo cellulare aveva ricominciato a collaborare e riuscì a mettersi in contatto con suo fratello.

“Mycroft!”

“Che c'è ora?” rispose lui con voce stanca.

“Ho bisogno di un'informazione, subito”

Dall'altro capo del telefono si sentì uno sbuffo.

“Cosa vuoi?”

“John Hamish Watson” rispose Sherlock “Ho bisogno di informazioni su di lui”

“Cosa?” domandò Mycroft. Sherlock intuì che il fratello doveva essersi rizzato sulla poltrona.

“Proprio lui” rispose seccato “Che informazioni puoi darmi?”

“Perché ti interessa?” domandò.

“Sai se per caso ha avuto problemi di memoria?” chiese, ignorando la domanda postagli.

“Dovrei controllare … perché?”

“Prima ci siamo incontrati. Non mi ha riconosciuto, ma ho imputato la cosa al fatto che non ci vedevamo da anni ma poi … gli ho detto il mio nome”

“Dunque? Nemmeno allora ha dato segni di ricordarsi di te?”

Sherlock annuì al telefono.

“Esatto. Sherlock Holmes è un nome piuttosto insolito, difficilmente si dimentica. A seguito del trauma subito, perché è evidente che ha subito un trauma, deve aver perso la memoria. Immagino che lo abbiano curato e aiutato a ricordare, ma non credo che tra le priorità dei suoi familiari ci fosse un ragazzino a cui ha fatto da babysitter da giovane. Controlla e fammi sapere”

Chiuse la telefonata e tornò a casa. Sapeva che John non avrebbe rifiutato di convivere con lui, nonostante non l'avesse riconosciuto. Non si vedevano da quando era partito per Netley, appena presa la laurea, perciò non sapeva nulla di lui dopo tale data, ma era sorpreso dal fatto che non si ricordasse più di lui. La risposta gli arrivò due ore più tardi, quando era ormai tornato a casa.

 

Sms: Mycroft

Memoria persa dopo un incidente. MH

 

Sherlock sospirò tristemente. Il suo Jawn si era dimenticato di lui, ma era sicuro che, con il tempo, pazienza e magari un colpo di fortuna, si sarebbe ricordato di lui. Non sapeva come, non sapeva quando, ma ci sarebbe riuscito.

 

 

 

 

 

Londra, Piscine

 

Stava ancora tremando. La temperatura all'interno della piscina era costante e non sentiva freddo anche se Sherlock gli aveva bruscamente tolto il giaccone esplosivo, ma non riusciva a tenere sotto controllo i fremiti che lo scuotevano.

Aveva già provato quella sensazione prima, ma mai così intensa. I puntini rossi sulla pelle di Sherlock lo avevano raggelato. La paura di perderlo gli aveva stretto il cuore in una morsa gelata, che lo aveva paralizzato.

Non era la prima volta che quello scapestrato rischiava la vita, ma quella volta c'era qualcos'altro. Lui era andato da Moriarty … James Moriarty … quel nome gli ricordava qualcosa. Moriarty lo aveva invitato a giocare e Sherlock aveva risposto all'invito.

Tutto ciò era tremendamente familiare, ma non riusciva a connettere le idee. La paura di morire e di perdere Sherlock lo aveva confuso e ciò che riuscì ad ottenere fu soltanto un gran mal di testa.

Sherlock lo vide in difficoltà e si affrettò a raggiungerlo per aiutarlo a camminare. Lo prese per un braccio e lo sostenne, mentre uscivano lentamente dall'edificio per tornare a Baker Street.

“Andrà tutto bene, John. Andrà tutto bene e … scusa” disse poi, abbassando la testa in segno di contrizione.

“Di cosa ti scusi?” gli domandò John, la cui voce tradiva ancora la paura “Mi hai salvato … tu ...”

“No” rispose Sherlock, scuotendo vigorosamente la testa “Non è così. Tu mi hai salvato … per l'ennesima volta. Sarai stanco di farmi da babysitter, no?”

Si voltò verso John, sperando che la frecciata lo aiutasse a recuperare la memoria, ma John prese le sue parole come una battuta pura e semplice, infatti cominciò a ridere e anche la sua tensione sembrò calare. Anche Sherlock lo imitò, rassicurato dalla sua ritrovata serenità.

James Moriarty … i pensieri di Sherlock tornarono a lui. Ancora non aveva imparato la lezione, dunque? La storia di Edmund Talbot non era stata sufficiente? No, non avrebbe permesso a Moriarty né a nessun altro di dividerlo da John o di fargli del male.

 

 

 

 

 

Londra, Queen Annes' Street.

 

Erano passati tre anni. Tre lunghissimi anni da quel giorno maledetto, in cui il fantomatico James Moriarty si era portato via il suo migliore amico, ma non riusciva a dimenticare, anche se voleva farlo. Voleva dimenticare tutto quel dolore, quel pugno che gli stringeva il cuore ogni volta che pensava a Sherlock. Si era trasferito, aveva cambiato abitudini, ma nulla sembrava salvarlo dal ricordo. Inoltre altri dubbi sorgevano alla sua mente.

James Moriarty.

James Moriarty o Richard Brook?

Quale dei due era vero? Chi mentiva?

Era certo, assolutamente certo della sincerità di Sherlock. James Moriarty esisteva veramente. Lo avevano incontrato per la prima volta alle piscine … no. Non era quello il momento dell'incontro.

Si scompiglio i corti capelli biondo scuro e strinse gli occhi. Perché si ricordava di lui? C'era, nella sua memoria, un ricordo legato a quel nome. Un nome sussurrato nel silenzio della stanza di un bambino, un nome temuto. Chi era quel bambino? Era uno dei due rapiti? Quando Moriarty si era intrufolato nella scuola per rapire i fratelli e far incolpare Sherlock?

No, impossibile. Lui non era presente, non poteva avere quel ricordo.

Sapeva di aver perso la memoria. Grazie ad Harry era riuscito a recuperare parte del suo passato, ma c'erano ancora tanti vuoti.

Sapeva che per riempirli avrebbe dovuto cercare delle prove, degli stimoli esterni. Il problema era … dove? Dove cercare? A Baker Street? Sì, avrebbe cominciato da lì, ma … ne aveva veramente il coraggio? In fin dei conti erano passati tre anni! Tre maledettissimi anni!

Lui era un soldato! Aveva visto decine di soldati come lui, morire sotto le sue impotenti mani, ma allora? Cos'era quel dolore fisico che provava ogni qualvolta il suo pensiero tornava a lui?

Uno dolore impossibile da respingere, che lo braccava, inseguendolo nei sogni, braccandolo tra le vie di Londra, dove ogni angolo, ogni stradina, gli ricordava … lui.

Guardò l'ora. Era ormai tardi. Il giudice lo stava aspettando per la deposizione sul caso Aldair, per il quale aveva fatto da medico legale.

Il giovane era stato trovato morto nel suo studio, ucciso da un proiettile a punta morbida. Un apparente suicidio, che non trovava conferma in alcuni dettagli riscontrati nello studio. John ripensò subito all'affare della mafia del Loto Mero, ma gli sembrò impossibile che il giovane Ronald Aldair potesse c'entrare, inoltre non aveva nessun tatuaggio sotto il piede che giustificasse un'esecuzione.

Si era sforzato di osservare oltre che guardare, come diceva Sherlock, ma era stato tutto inutile.

Se non era un suicidio, il cecchino doveva essere estremamente abile, fin troppo bravo.

Raccolse le carte e si diresse al tribunale.

 

 

L'udienza fu lunga e tediosa. Se Sherlock fosse stato lì, si sarebbe annoiato a morte. Forse avrebbe cercato di indovinare … no, lui non indovinava mai … di dedurre le professioni dei presenti per poi sussurrargliele in un orecchio facendolo ridere. Infatti rise. Rise a quel ricordo verosimile … verosimile … già. Ormai poteva solo immaginare come poteva essere avere Sherlock al suo fianco.

Si fermò.

Un'improvvisa fitta al petto gli fece chiudere gli occhi e cominciò a lacrimare. Non c'era nulla che non andava in lui. Aveva fatto esami su esami, ma continuava a sentire dolore al cuore e non poteva farci nulla.

Poi, così com'era comparsa, la fitta svanì. Sentì un vento caldo, benefico e rassicurante, sfiorargli il viso. Eppure attorno a lui sembrava che nessuno lo avesse percepito. Ricominciò a camminare e non si accorse di un uomo che gli camminava al fianco e andò a sbattergli contro, facendolo cadere.

“Faccia più attenzione, giovanotto!” gli disse il vecchio, con voce roca e gracchiante, cominciando a raccogliere una pila di vecchi libri sgualciti.

“Mi scusi, signore” provò a dire John, ma quello sembrò non ascoltarlo.

Era un signore molto vecchio, ingobbito e canuto, con uno strano completo scuro e rovinato dal tempo e dall'usura. Lo guardò con rabbia e se ne andò borbottando fra sé e sé, calcando con più energia il cappello sulla testa.

John, ancora turbato da quell'incontro, si lisciò la giacca sporca di polvere e fu in quel momento che lo vide. Era un quaderno. Un vecchio quaderno spiegazzato. Sulla copertina erano incollati con precisione alcuni fogli disegnati da un bambino. C'era una nave con lo scafo d'argento e le vele nere, un pirata con i capelli corvini e una benda sull'occhio e un'isola del tesoro.

Lo raccolse tremando. Lo aveva già visto! Eccome se lo aveva già visto! Lo aprì lentamente e riconobbe all'istante la sua scrittura, quella che Harry gli aveva fatto vedere negli appunti di medicina e che era riuscito a recuperare nel tempo. Quella scrittura larga e precisa che non l'aveva mai abbandonato.

 

 

Capitan Sherlock Edmund Talbot e il tesoro di Barafundle Bay

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Capitolo 13
*** Il vecchio libraio ***


Chi ha letto l'avventura della Casa vuota ha già capito chi è il vecchio con i libri, ma non voglio rivelare troppi dettagli prima della fine, anche se questo capitolo non è l'ultimo, sia chiaro!

Per ora vi auguro buona lettura.

Kiss, Mini.

 

 

 

 

Il vecchio libraio

 

 

 

 

 

John si guardò attorno con aria smarrita. Possibile che quel vecchio avesse fatto cadere apposta il quaderno perché lui lo trovasse? Se sì, perché? Naturalmente tutti ormai lo conoscevano, sia per il blog che aveva scritto sulle sue avventure con Sherlock, sia per il processo in cui era stato coinvolto, ma non capiva il significato di quel gesto.

Tornò a casa quasi correndo e si mise in poltrona con una tazza di tè fumante, poi aprì nuovamente la prima pagina di quel testo.

Non c'erano dubbi, la scrittura era la sua. La data era antecedente di molti anni, precisamente a 28 anni prima. Mille ricordi cominciarono a turbinargli nella mente. Quel racconto era il suo, l'aveva inventato per un bambino solo e spaventato a cui faceva da babysitter e gli era piaciuto così tanto che aveva deciso di scriverlo a mano su un quaderno, lasciando al piccolo l'onore di illustrarne la copertina e i capitoli.

Sfogliò le pagine, soffermandosi più sui disegni che sulla sua scrittura. Erano i disegni di un bambino estremamente creativo, vivace e intelligente. Il bambino che gli era stato affidato tanti anni prima. Tutto ciò gli suonava estremamente dolce, ma c'era qualcosa di stonato.

Il nome. Perché quel nome?

Sherlock Edmund Talbot …

Sherlock …

La testa cominciò a dolergli in modo insopportabile, tanto che fu costretto a chiudere gli occhi. Cercò di rilassarsi, come quando il panico gli stringeva il cuore. Il suo petto si alzava e si abbassava convulsamente perché i suoi pensieri erano confusi e la sua mente non riusciva a reggerne la velocità. La memoria, tanto a lungo cercata, stava tornando prepotente come un fiume in piena. Voleva dormire, voleva rilassarsi, ma non ne fu capace.

All'improvviso tutto fu chiaro.

Aprì gli occhi e si rizzò a sedere. Una nuova consapevolezza si fece strada dentro di lui ma fu solo altro motivo di dolore.

Sherlock sapeva e aveva sempre taciuto. Sapeva che si erano già incontrati e probabilmente grazie all'intercessione di Mycroft era venuto a conoscenza della sua amnesia. Allora perché? Perché non gli aveva detto nulla? Perché aveva preferito restare in silenzio?

Sapere che l'uomo che amava più di chiunque altro al mondo altri non era che quel bambino ricciuto del quale aveva condiviso l'infanzia e l'adolescenza lo gettò nella disperazione più totale. Aveva sofferto terribilmente quando era stato costretto a separarsi da lui per andare a Netley, per terminare i suoi studi e non ci fu più occasione di vederlo prima di partire per l'Afghanistan e poi … la perdita della memoria.

Come aveva potuto dimenticarlo? No, non lo aveva fatto. La sua mente si era scordata di lui, ma il suo cuore no, aveva continuato a serbarne il ricordo e ora che non c'era più tutto il dolore per la sua perdita sembrò amplificarsi di dieci volte e gli sembrò di sentire nuovamente la sua voce, colma di lacrime trattenute, che gli diceva addio dal tetto del Barts.

Grosse e dolorose lacrime cominciarono a scendergli dagli occhi stanchi. Fu come dover affrontare la sua morte una seconda volta. Il dolore lo sfiancò e finì per addormentarsi.

 

 

 

 

 

Si risvegliò più stanco di prima. Controllò il cellulare, ma fortunatamente non c'erano né chiamate perse né messaggi. Cercò di rilassarsi. Non aveva impegni e sentiva di voler stare solo. Tutto attorno a lui si era fatto buio e freddo e nemmeno la coperta di pail lo aiutò a scaldarsi. Il freddo veniva da dentro. Freddo come il marciapiede dove Sherlock si era schiantato, come la sua lapide, nera e definitiva, freddo come il suo cuore.

Non sapeva cosa fare per placare quella sensazione sgradevole che lo paralizzava. Quella rivelazione lo aveva stroncato. Guardò fuori dalla finestra, quella città che aveva rifiutato il suo bimbo. Ormai non riusciva più a pensare a Sherlock se non come al 'suo bimbo'.

In effetti, anche da adulto, aveva dovuto fargli da babysitter. Ripensò a certe sue battute quando si prendeva cura di lui come una mamma con un bambino capriccioso. Faceva finta di prendersela, in realtà se la godeva e sperava che lui capisse, che ricordasse. Quei ricordi lo fecero piangere e ridere insieme. Per la prima volta, da quando lui era morto, pensarci non gli provocò dolore.

Sentì qualcosa di buono, di caldo, avvicinarsi e coccolarlo. Un'aria spessa e dolce, un vento benefico come quello che lo aveva accarezzato davanti al tribunale.

Aveva appena cominciato a bearsi di quella sensazione, quando suonò il campanello.

Nascose il viso con la mano aperta. Non aveva voglia di ricevere visite. Voleva stare solo. Cosa c'era di male in tutto ciò? Evidentemente l'uomo fuori dalla porta non era molto d'accordo perché continuava a suonare imperterrito. Cosa poteva fare? Ignorarlo? No, sarebbe stato più facile alzarsi, dirgli gentilmente di andare a quel paese e chiudere la porta a chiave.

Sì, ottimo programma.

Si alzò e andò svogliatamente ad aprire la porta e si stupì di trovarsi di fronte l'uomo scorbutico che aveva accidentalmente urtato poche ore prima. Cosa ci faceva lì? Cosa voleva da lui?

Non fece in tempo a porsi mentalmente quelle domande, che l'uomo entro prepotentemente in casa sua.

“Salve, dottore. Sono venuto qui per scusarmi per il mio comportamento”

L'uomo era gobbo, indossava gli stessi stracci lisi di prima. I capelli erano una massa di paglia bianca e il viso era segnato da profonde rughe. Gli occhi erano chiari, ma la voce era catarrosa e irritante. John avrebbe dovuto provare disgusto di fronte a quel relitto umano, ma non oppose resistenza. Lo lasciò entrare. L'uomo si sedette in poltrona e si mise comodo, come se si trovasse a casa sua. Portava a tracolla una borsa, che poggiò sul tavolino di fronte. Ne tirò fuori alcuni vecchi libri.

“Ho pensato di farmi perdonare per il mio atteggiamento così poco cortese. Deve sapere, dottore, che ho un piccolo negozietto di libri antichi poco lontano. La vedo sempre, quando va a lavorare, perciò sapevo benissimo dove trovarla. Le ho portato questi libri per scusarmi. Sono tutti pezzi rari, quasi introvabili, ma sono certo che lei sarà capace di apprezzarli come meritano, nevvero?”

John esibì un sorriso di circostanza. Non aveva voglia di leggere vecchi libri muffiti. Voleva solo che quell'uomo se ne andasse il prima possibile, ma non poteva cacciarlo dopo che lui era stato così gentile da andare di persona a scusarsi. Doveva velocizzare quella visita.

“Vuole del tè?” gli domandò, avviandosi verso la cucina senza aspettare risposta.

Cercò di restare in cucina più tempo possibile. Aspettò con pazienza che l'acqua si scaldasse nel bollitore, poi cercò le bustine. Allungò la mano sullo scaffale e scelse due tazze. Tra tutte quelle che poteva scegliere, scelse proprio quelle due. Quelle bianche a righe, blu per lui, nere per Sherlock.

Perché? Le osservò. Non le toccava da … troppo tempo.

Le riempì d'acqua bollente e ci mise in ammollo una bustina ciascuno. Earl Grey. Il suo preferito.

Tornò in salotto portando una tazza per mano e fu per miracolo che non le fece cadere entrambe. Tutto il suo corpo si irrigidì e le nocche si fecero bianche per quanto stringeva i manici delle tazze. Con un gesto meccanico le posò sulla mensola del caminetto, poi crollò.

Abbandonò le braccia sui fianchi e cadde in ginocchio, la vista gli si offuscò e svenne.

 

 

 

 

 

Si risvegliò sentendo l'odore pungente dell'alcool. Si ritrovò seduto in poltrona e la testa gli girava come un dopo sbronza con scazzottata. Sbatté le palpebre due o tre volte, cercando di mettere a fuoco le immagini. Non era possibile, eppure era lì. Era davvero lì! Credette di svenire di nuovo, ma riuscì a restare lucido. inginocchiato con in mano una bottiglia di brandy, c'era lui.

Sherlock Holmes.

Il suo Sherlock.

“Non … non è vero ...”

Lo afferrò per le braccia e sentì i suoi muscoli magri e nervosi. Era vero, concreto, non una di quelle fantasie che la notte gli regalava quando la nostalgia prendeva il sopravvento. Calde lacrime gli bagnarono le guance. Era ammutolito, senza parole. Emozioni contrastanti lo invasero come un fiume in piena. Si sentì travolto da tutto quello.

Rabbia, frustrazione, dolore … ma anche gioia, sollievo e dolcezza. Fu quest'ultima a prevalere su tutte le altre sensazioni. Cominciò a tremare come una foglia, ma quando Sherlock gli posò una mano rassicurante sulla spalla lo carezzò lentamente, gli sembrò che tutto andasse bene.

Non c'era nulla di sbagliato in tutto ciò. Era tutto quello di cui il suo cuore aveva bisogno, ma la sua mente aveva bisogno di risposte.

“Perché?”

Quella domanda riassumeva tutti i suoi dubbi.

Perché aveva finto di morire?

Perché non gli aveva detto niente?

Perché se n'era andato tutto quel tempo?

… ma soprattutto …

Perché era tornato?

“John …” lo guardò e sembrò che non riuscisse a trovare le parole, poi riprese il controllo di sé. Si alzò e parlò con calma, come se l'avesse lasciato solo da poche ore. Non sembrava che fosse sparito per anni. Era giusto un po' più magro di come se lo ricordava, ma per il resto non era cambiato di una virgola.

Il viso era perfettamente sbarbato e gli occhi erano limpidi e lucenti come quando stava per affrontare un nuovo caso. Sembrava inconsapevole dell'inferno in cui l'aveva gettato e ciò lo riempì di rabbia, ma subito gli venne alla memoria il faccino spaventato di quel bambino che si era perso a White Chapel. Anche quella volta era stato divorato dall'angoscia, ma era durata poche ore. La consapevolezza di aver passato tre anni nella disperazione più totale fece prendere il sopravvento alla rabbia.

Si ricordava benissimo il piacere che aveva provato picchiandolo nel vicolo in Belgravia, prima dell'incontro con Irene Adler. Quella volta si trattava di soddisfazione personale, ma in quel caso era pura vendetta. Si alzò in piedi e lo afferrò per il colletto della camicia. Lui non protestò. Si limitò a guardarlo negli occhi.

“Lascia almeno che ti spieghi ...”

Non fece in tempo a finire la frase, che John lo colpì in pieno volto con un pugno micidiale, nonostante lo avesse inferto con la mano sinistra. Sentì un crack e un rivolo di sangue cominciò a scendere dal naso del detective.

Sherlock rimase con la testa inclinata. Guardava un punto indistinto di fronte a sé, rassegnato a ricevere altre botte, che puntualmente arrivarono. Gli diede altri due pugni al viso e poi lo lasciò andare e lo colpì con un destro allo stomaco prima che potesse accasciarsi a terra.

John ansimava per la rabbia e lo sforzo perché aveva messo in quei pugni tutta la sua frustrazione, accumulata in tre anni di sofferenza. Sherlock cercò di rialzarsi ma John lo colpì nuovamente in viso con il dorso della mano.

“Maledetto bastardo! Maledetto bugiardo! Perché? Perché tutto questo silenzio?”

“Dovevo … pro – proteggerti ...”

“Al diavolo!” esclamò lui, riafferrandolo per il bavero e colpendolo nuovamente con un pugno ben assestato “Mi hai mentito! Non mi hai detto nulla, mai! Non parlo solo della tua morte, parlo anche di ...” si interruppe e lo lasciò andare.

Sherlock si inginocchiò ai suoi piedi, e si portò una mano al viso per pulirsi dal sangue.

“Posso parlare, ora?” domandò, puntellandosi con il braccio per mettersi in piedi.

John annuì e Sherlock raggiunse la poltrona, sulla quale si abbandonò respirando a bocca aperta perché il primo colpo gli aveva deviato il setto nasale. Chiuse gli occhi e con un colpo secco lo raddrizzò. Strinse gli occhi per il dolore, ma resistette senza lamentarsi. Di fronte a lui, John lo osservava e cercava di ritrovare la calma. Andò in cucina a passo di marcia per smaltire gli ultimi residui di collera e tornò con cotone e disinfettante, che posò sulle ginocchia dell'amico.

“Avanti! Ti ascolto!”

Si sedette di fronte a lui, con le gambe incrociate e le punte delle dita accostate sotto il mento. A Sherlock sfuggì una lieve risata, vedendo quella buffa imitazione di sé stesso. Si pulì come meglio poté il sangue dal naso e si tastò i punti in cui John lo aveva colpito. Facevano male, ma sapeva di meritarselo.

“James Moriarty, John” disse “Ti ricordi di lui, ora?”

John annuì.

“Mi ricordo di lui” rispose prendendo distrattamente il quaderno del racconto “Mi ricordo di lui, anche se non l'ho mai visto, se non una volta di sfuggita a White Chapel. Mi ricordo anche di quel bambino capriccioso che scappava di casa e non voleva mangiare. Prosegui”

Sherlock annuì e sorrise. Ora sarebbe stato tutto più semplice.

“Mi stava ricattando e sapevo che l'avrebbe fatto, perciò avevo predisposto una via di fuga”

“Cosa intendi dire?” domandò John “Come avrebbe potuto ricattarti? Ormai la tua reputazione era rovinata, non avrebbe potuto fare più danni di così!”

Sherlock lo guardò e il dolore di quel giorno riaffiorò nei suoi occhi.

“Avrebbe ucciso le persone a me più care” disse semplicemente, mentre una lacrima solitaria scendeva sulla sua guancia macchiata di sangue “Tre cecchini, tre pallottole e tre obiettivi. Il principale, il colonnello Sebastian Moran, era destinato all'unica persona che abbia mai amato. Mi teneva sotto controllo. Se non mi fossi buttato, avrebbe fatto fuoco e ordinato agli altri due di fare altrettanto con la signora Hudson e Lestrade. Fintanto che Moriarty fosse stato in vita, non avrei avuto problemi ma lui, nella sua follia, si sparò in bocca proprio di fronte a me. Non avevo via di scampo. Se Moran non mi avesse visto precipitare da quel palazzo, avrebbe sparato e io sarei morto di dolore”

John lo bloccò sollevando la mano.

“Hai detto che Moran ti teneva sotto controllo, ma che contemporaneamente aveva sotto tiro l'unica persona che tu abbia mai amato ...”

Abbassò lo sguardo e arrossì a quel pensiero. No, non poteva essere vero … o sì? Rialzò gli occhi lucidi verso di lui e si morse il labbro, indeciso se continuare. Decise di farlo.

“Tu ti trovavi sopra il tetto del Barts” disse, per richiamare uno schema mentale “Quindi Moran doveva trovarsi nella vicinanze”

Sherlock annuì ma non aggiunse altro. Voleva che fosse lui ad arrivarci.

“Io ero appena arrivato lì davanti” proseguì il dottore, agitando le mani per darsi coraggio “Quindi il bersaglio di Moran, l'unica persona che tu abbia mai amato ...”

Si interruppe e cercò di deglutire. Un grosso nodo aveva preso dimora nella sua gola. Lo sguardo carico d'amore che Sherlock gli lanciò lo libero da ogni dubbio e il nodo si sciolse come per magia.

Parlarono insieme. Quel momento perfetto, fu scandito dalle loro voci nello stesso istante.

“ … ero io”

“ ...sei tu”

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Capitolo 14
*** La casa vuota ***


Voglio cominciare questo capitolo con un po' di pubblicità.

Con altre persone ho creato la pagina di un Gioco di Ruolo su facebook.

Si chiama Sherlock BBC GDR page (https://www.facebook.com/pages/Sherlock-BBC-GDR-page/119978311502355?fref=ts).

Quasi tutti i personaggi principali sono occupati, ma ce ne sono tantissimi liberi che aspettano solo un attore! Se avete voglia fate un giretto e guardate gli album dei personaggi del canone e della BBC e di quelli inventati. Spero vogliate raggiungerci!

Se volete partecipare con un personaggio fatemelo sapere. Potete leggere la storia nell'album dell'archivio delle role.

 

 

 

Sherlock Scott Holmes

 

 

 

 

 

 

Bene, dopo i consigli per gli acquisti (no, scherzo, è gratis!), torniamo alla storia.

John si è sfogato e ora può ascoltare con calma la storia di Sherlock … se ne avrà il tempo! Ho cambiato il rating proprio per questo … heheheh Buona lettura!

 


 

 
La casa vuota 





 

John restò per qualche istante senza fiato, incredulo.

L'aveva detto.

No, non l'aveva detto. Non aveva detto 'ti amo'. Se l'avesse fatto avrebbe capito che quello di fronte a lui non era Sherlock Holmes. Non gli aveva confessato apertamente il suo amore ma gliel'aveva fatto capire. Sorrise e scosse la testa, cercando di non piangere per la felicità. Erano altre le domande a cui voleva rispondesse.

Prese il disinfettante, il cotone, alcuni cerotti e delle bende.

“Spogliati” gli ordinò “Devo medicarti”

Lui arrossì lievemente, colorando di rosa le pallide guance e distolse lo sguardo.

“Avanti!” lo incoraggiò nuovamente il dottore “Non fare i capricci. Ti ho già visto quasi nudo a Bukingham Palace, ricordi?”

“Non è nulla” si affrettò a dire Sherlock scuotendo la testa “Davvero”

“Questo lo deciderò io”

Prese l'alcool e lo versò su un batuffolo di cotone, poi cominciò a tamponare lievemente le ferite sul viso. Fu come fare un viaggio indietro nel tempo. Non era cambiato assolutamente nulla.

 

Gli tornò alla mente quel pomeriggio di tanti anni prima. Aveva portato Sherlock al parco con la bicicletta nuova, regalo del suo ottavo compleanno. Faceva freddo ma lui aveva insistito per uscire lo stesso. Voleva provarla a tutti i costi e John, da bravo babysitter, non aveva potuto dirgli di no. Gliel'aveva detto tante volte. 'Vai piano, Sherlock, o rischi di cadere!' Non c'era stato verso. Le gambine magre di Sherlock pigiavano scatenate su quei pedali, lungo i viali del parco. Per loro fortuna non c'erano tante persone in giro o avrebbe rischiato di investire qualcuno.

Quando John vide Sherlock correre verso una larga lastra di ghiaccio non fece in tempo ad urlare. Riuscì solamente ad aprire la bocca ma ormai era troppo tardi. Lo scivolone fu interminabile. Sherlock finì a terra e faccia in giù. Per qualche istante sembrò che non si fosse fatto niente, poi John lo vide tremare e nel giro di pochi secondi l'aria fu squarciata dalle grida di dolore del piccolo. Non si era mosso dalla posizione nella quale era caduto ma piangeva disperato.

John gli era andato subito incontro e lo aveva preso in braccio e con l'altro aveva recuperato la bicicletta. Lo aveva portato a casa, e disinfettato con cura. Le ginocchia erano piene di graffi anche se portava i pantaloni lunghi e le mani erano rosse e piene di sangue, così come la punta del naso.

Sherlock piangeva in silenzio mentre John lo curava.

 

Non aveva bevuto alcool, eppure gli sembrava di essere ubriaco. Mentre toccava con il batuffolo di cotone la pelle dell'amico, rivedeva il faccino di quel monello al quale voleva così bene. Si passò le mani sugli occhi, incredulo. Di fronte a lui non c'era il detective freddo e insensibile con il quale aveva condiviso l'appartamento per tanti anni. Guardandolo negli occhi vedeva proprio il piccolo Sherlock, spaventato e solo.

Si chiese quante ne avesse dovute passare in quei tre anni, nascondendosi e vivendo in costante pericolo. Si pentì di avergli dato tutte quelle botte, ma in fin dei conti entrambi sapevano che se le meritava.

“Ora togliti la camicia” gli ordinò “Devo controllare il petto. Ti ho dato un bel destro prima e non vorrei aver incrinato una costola”

Sherlock sbuffò.

“È proprio necessario?”

“Continuiamo con i capricci?” gli chiese John, con lo stesso tono di voce che avrebbe usato per un bambino.

“Non vorrei essere scortese, John, ma non è il momento. Abbiamo i minuti contati”

Si alzò e andò alla finestra, scostando appena le tende.

“Stanotte mi aspetta una missione particolarmente difficile ...” disse rivolgendo nuovamente lo sguardo a John “Vorresti unirti a me?”

John restò qualche istante senza parole, poi sorrise.

“Verrò con te ovunque e molto volentieri” disse alzandosi e raggiungendolo alla finestra “Quando partiamo?”

“Non ora. Dobbiamo aspettare ancora qualche ora, poi entreremo in azione. Non preoccuparti, ti spiegherò tutto a tempo debito. Ora è meglio che ti riposi. Sembri stanco”

“Non sono stanco” rispose John massaggiandosi il viso “Voglio sentire tutto. Spiegami come ti sei salvato, come hai simulato la tua morte”

“Sei sicuro di volerlo sentire adesso? Non preferisci rimandare a quando tutto sarà finito?”

“Sherlock” lo richiamò John guardandolo severamente “Mi hai tenuto nascosto il nostro passato e la tua finta morte. Devi ammettere che mi merito qualche spiegazione, non credi?”

Sherlock annuì e indicò le due poltrone perché si accomodasse e anche lui prese posto. Chiuse gli occhi qualche minuto, per riordinare le idee, poi cominciò a raccontare.

I dettagli di quella storia erano orribili e spaventosi, eppure a John sembrava di sentire il piccolo Sherlock che gli raccontava della sua giornata a scuola. Lo stesso entusiasmo impregnava la sua voce, la stessa voglia di condividere, l'identica gioia. Lo ascoltò con la bocca spalancata per lo stupore perché ad ogni parola Sherlock confermava la sua genialità.

 

 

 

Quando la pendola del soggiorno suonò le undici e mezza, Sherlock interruppe il racconto e balzò in piedi.

“Presto, dobbiamo andare”

Si vestì velocemente, tralasciando il travestimento, e trascinò John in strada.

Tenendolo per mano, corse lungo i vicoli di Londra che conosceva così bene. Con un tuffo al cuore, John ricordò l'angoscia di quella sera, in cui entrambi erano scappati dalla polizia. Aveva visto per la prima volta Sherlock come una preda in fuga dai cacciatori. Era spaventato, confuso e aveva bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi, anche se poi aveva dichiarato di non aver bisogno di amici.

Quella sera, però, era diverso. Guardò gli occhi dell'amico. Brillavano come stelle.

Non era la preda, ma il cacciatore. Un predatore sicuro di sé e della pista che stava seguendo.

“Sherlock, mi vuoi spiegare dove stiamo andando?”

Naturalmente il detective non rispose. Si fermò all'improvviso, in un vicolo stretto e buio. Si avvicinò ad un portone e lasciò la mano di John solo per prendere il suo set da scassinatore. Scelse il grimaldello giusto e cominciò a trafficare con la serratura, che cedette quasi subito.

Entrarono silenziosamente. Se non fosse stato per l'incredibile capacità di Sherlock di vederci anche nella semi oscurità, John sarebbe andato a sbattere contro qualcosa, ma l'amico lo teneva saldamente per un braccio, guidandolo tra scale e stanze vuote.

Infine arrivarono ad una stanza polverosa, illuminata da un paio di finestre impolverate. Sherlock si avvicinò con prudenza e intimò a John il silenzio posandogli un lungo dito sottile sulle labbra, con il quale poi indicò la finestra.

John si sporse per vedere senza essere visto e riconobbe la via sulla quale la casa si affacciava.

“Ma questa ...” inizio, stupito.

“Sì, è Baker Street” rispose Sherlock con un sorriso eccitato “ ...e quello che vedi di fronte a noi è l'appartamento nel quale abbiamo convissuto per tanti anni. Questo è l'appartamento che Moriarty usò per piazzare la bomba e successivamente per spiarci. Oggi, però, andrà diversamente”

“Com'è possibile? Perché … Sherlock!” sussurrò in preda al panico “C'è qualcuno in casa nostra! Lì alla finestra ...”

Socchiuse gli occhi per mettere a fuoco l'immagine, poi li sgranò nuovamente, sempre più stupito.

“Sei tu ...” disse, indicando la figura che si stagliava nello schermo della finestra e alternando lo sguardo tra lui e l'appartamento al 221B.

“È ovvio che non sono io, John” gli rispose bonariamente Sherlock “Si tratta di un manichino, che la fedele signora Hudson sposta ad intervalli irregolari, perché sia più vero”

“Perché tutta questa farsa?” domandò lui leggermente irritato “Vuoi deciderti a spiegarmi?”

Sherlock sorrise, compiaciuto e rimase in silenzio.

“Allora?” lo incalzò il dottore.

“Dobbiamo far credere ad una persona che io sia in casa mentre in realtà sono da tutt'altra parte”

“Di chi stai parlando?”

Sherlock si rabbuiò.

“Dell'unica persona ancora in vita che voglia vendicare Moriarty. Sto parlando del suo più fidato collaboratore, Sebastian Moran”

“Moran?” domandò John “Perché dovresti scappare da lui?”

“Non sto scappando, John. Non sono io la preda, in questo momento, anche se è mio desiderio che lui lo pensi. Mi tiene d'occhio da quando sono tornato a Londra, perciò ho organizzato questa trappola per lui, con la collaborazione dell'Ispettore Lestrade” aggiunse, indicando un uomo seminascosto nell'ombra, poco lontano dalla loro porta.

John sorrise e, voltandosi verso Sherlock, vide gli occhi dell'amico illuminati da quell'eccitazione che ben conosceva. La caccia era aperta.

 

 

 

Aspettarono a lungo, come al solito quando Sherlock preparava un appostamento. Non si posizionava mai troppo presto, ma era inevitabile dover passare diverse ore nel silenzio più assoluto in attesa dell'obiettivo.

John stava quasi per addormentarsi, quando sentì le dita affusolate dell'amico stringersi sul suo braccio.

“Non addormentarti proprio ora, Jawn” gli sussurrò “La nostra preda sta per arrivare”

Sherlock si alzò e scostò leggermente le tende per avvisare Lestrade. Ora anche John sentì dei leggeri rumori provenire dal retro della casa, dalla stessa direzione in cui erano arrivati loro.

“Sta arrivando Moran?” domandò in un sussurro.

Sherlock annuì e si mise un dito sulle labbra per ammonirlo di fare silenzio, poi indicò un punto buio della stanza accanto alla finestra, invitandolo a nascondersi lì e andò a prendere posizione dall'altra parte opposta.

Non dovettero aspettare molto. Pochi minuti dopo i rumori, che si erano fatti pian piano più vicini, li fecero capire che il loro uomo era entrato.

Come un'ombra aveva attraversato la stanza e si era inginocchiato appena sotto la finestra. Portava un grosso borsone, che aprì lentamente, facendo meno rumore possibile. Poi, con gesti lenti e misurati, estrasse le parti di un fucile di precisione che montò in silenzio. Nell'arco di una decina di minuti era pronto per agire. Posizionò l'arma sul balcone e si concentrò al massimo per prendere la mira.

Sia John che Sherlock videro il lampo di pazzia sugli occhi del cecchino un attimo prima che premesse il grilletto. Sentirono il rumore attutito dell'arma e, ovattato dalla distanza, il fragore del vetro che si rompeva.

In quello stesso istante si avventarono su di lui. Il primo ad arrivare fu Sherlock, che lo bloccò saltandogli sulla schiena come una ghepardo su una gazzella mentre John gli bloccava le braccia e allontanava con un calcio il fucile.

“Cosa …” borbottò Moran, cercando di capire chi lo avesse catturato, poi vide Sherlock “Tu! Maledetto! Non dovresti essere qui!”

Alzò lo sguardo verso la finestra per sincerarsi di non essere impazzito.

“Non è impazzito, Colonnello” lo rassicurò Sherlock “Ha una mira perfetta, ma non penso che quel manichino abbia sofferto molto. Lo stesso non posso dire del giovane Aldair. Ispettore” disse rivolgendosi al buio, dal quale emerse Gregory Lestrade, accompagnato da alcuni agenti “Ora posso consegnarle l'assassino. Lo arresti, in fin dei conti è ciò che le riesce meglio. Sono sicuro che potrà riscontrare la corrispondenza tra le pallottole conservate in quel borsone con quella che uccise Ronald Aldair. Noi, nel frattempo, possiamo andarcene”

“Va bene, Sherlock” acconsentì Lestrade sospirando “Ma domani ti voglio in centrale per gli ultimi dettagli”

 

 

Quando la stanza si svuoto e John e Sherlock rimasero nuovamente soli, il detective si lasciò andare, si sedette per terra appoggiando la schiena alla parete e chiuse gli occhi. Ora John vedeva nel suo viso la stanchezza tipica che lo prendeva quando giungeva alla fine di un caso.

“Sherlock?” lo chiamò “Immagino che tu sia molto stanco, ma credo sia meglio tornare a casa”

Il detective annuì e si alzò. Si avvicinò alla finestra e osservò fuori. Quella città che un tempo l'aveva respinto, ora era di nuovo lì, davanti a lui, pronta per essere nuovamente vissuta, con tutte le avventure che racchiudeva nelle sue vie e nei suoi angoli più bui.

“Possiamo andare” disse avvicinandosi a John “Ormai è troppo tardi per prendere la metro o un taxi e fa particolarmente freddo stanotte. Vuoi dormire a Baker Street?”

“Non saprei ...” rispose lui, cercando di fare il prezioso “Quel buco nel vetro farà passare molti spifferi”

“Non accadrà” rispose Sherlock prendendolo per mano e uscendo “Staremo in camera mia. Il letto è grande abbastanza per entrambi”

“Vuoi che dormiamo insieme?!” domandò più che sorpreso.

Sherlock si strinse nelle spalle.

“Che male c'è?”

“Nessun male ...” ammise lui, sorridendo “Solo non me l'aspettavo”

A quelle parole Sherlock sorrise e lo trascinò via. Non gli lasciò la mano fino a quando arrivarono al loro vecchio appartamento. Nulla era cambiato.

Grazie all'intercessione di Mycroft, la signora Hudson aveva provveduto a tenere pulite le stanze e ora li aspettava con un tè caldo in tre tazze.

“Si unisce a noi, Madame?” le chiese Sherlock con tono canzonatorio.

La donna lo squadrò da capo a piedi con quel suo sguardo severo, da mamma.

“Vi ho preparato il tè, ma solo per festeggiare il tuo ritorno. Non sono la governante!”

Sherlock prese la sua tazza e sorrise.

“Non ne avrò bisogno, signora Hudson. Ho già un fantastico … assistente”

Si voltò verso John e gli fece l'occhiolino. Avrebbe voluto dire 'babysitter' ma si era trattenuto. La signora Hudson non avrebbe capito, ma quell'intesa li fece ridere entrambi.

Festeggiarono a lungo perché avevano tante cose da raccontarsi, anche se sapevano che non sarebbero bastate quelle poche ore per riempire tre anni di vuoto. Erano ormai le due, quando anche la donna cedette al sonno.

“Vi saluto, vado a dormire. Cercate di non fare troppa confusione, voi due!” ammiccò velocemente e sparì giù per le scale, mentre Sherlock cominciava a stiracchiarsi.

“Hai sonno?” gli domandò John incredulo “Non mi sembra possibile!”

“Sono un essere umano anch'io, Jawn e non dormo decentemente da tre giorni. Sono spossato. Ho assoluto bisogno di dormire”

John sbuffò. Gli sarebbe piaciuto fare altro … sicuramente non dormire. Lo guardò meglio. Era evidente la stanchezza nei suoi occhi e probabilmente non era il momento giusto per andare oltre. Si era già sforzato tanto per confessargli in quella maniera così buffa il suo amore. Non voleva forzarlo.

“Posso almeno darti il bacio della buonanotte?” gli chiese poi, non potendo resistere.

Sherlock arrossì impercettibilmente ma annuì.

Andarono in camera e si spogliarono lentamente. John restò in canottiera e mutande, mentre Sherlock portava solo quelle.

“Dovresti coprirti di più!” lo sgridò “Prenderai freddo” gli disse mentre nella sua mente prendeva forma un'altra esclamazione: 'e mi farai prendere un colpo!'

“Non ho freddo” disse e si tuffò sotto le coperte.

John lo guardò intenerito. Quante volte lo aveva visto fare così da bambino e ora era adulto e incredibilmente sexy. Si intimò mentalmente di calmarsi e frenare i bollenti spiriti.

“Vuoi il tuo cane peluche per addormentarti?” gli chiese, raggiungendolo sotto le coperte.

Voleva baciarlo, ma non sapeva come approcciarsi senza spaventarlo.

“Non mi serve più” rispose lui, rimettendosi a sedere “Sei tu il mio Jawn”

Poi, senza preavviso, lo baciò sulle labbra. Un bacio casto, che divenne pian piano più aduace.

John gemette per il piacere. Quante volte aveva desiderato quel bacio! Sentì che tutto il suo corpo si stava eccitando e avrebbe continuato a baciarlo per tutta la notte, ma Sherlock era veramente stanco.

Così come l'aveva baciato, si staccò da lui. Gli sorrise brevemente e si distese, dopo avergli sussurrato un 'buonanotte' così dolce e sensuale da farlo quasi impazzire.

Restò senza parole qualche istante, come congelato in quella posizione, poi suo malgrado scoppiò a ridere. Di Sherlock ora vedeva solo la zazzera di capelli ricci e una piccola porzione di viso.

Sorrise intenerito e spense la luce.

“Buonanotte, Capitano”

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Capitolo 15
*** Charles Augustus Milverton ***


Rieccomi qui! John dovrà portare molta, moltissima pazienza con Sherlock, in tutti i sensi … un po' come voi per aver aspettato così a lungo questo capitolo! Hahahaha

Ho voluto attingere nuovamente dal canone, spero che il risultato vi piaccia.

Vi aspettavate tanto fluff e invece dovrete accontentarvi di un po' di angst.

Ormai sapete che, come Holmes, mi piace essere drammatica, ma amo anche il lieto fine, perciò non dovete preoccuparvi.

Buona lettura.

Mini

 

 

 

 

 

 

 

Charles Augustus Milverton

 

 

 

 

 

 

 

 

Non era stato facile riprender la vita di tutti i giorni.

Erano pur sempre passati tre anni e avevano lasciato il loro segno sulle spalle stanche di John, che portava un peso non indifferente di ansie, paure e dolore.

Sherlock, contro ogni aspettativa, era riuscito però a compiere un vero miracolo.

Mentre John si torturava cercando di ritrovare un equilibrio che sembrava perduto, Sherlock vagava per il loro appartamento, dove il dottore si era nuovamente trasferito, come se niente fosse.

Lo si poteva vedere in pigiama, con la veste da camera e scalzo, mentre suonava il violino o sedeva chino sul suo microscopio, analizzando chissà quali esperimenti.

Ogni mattina John si svegliava dopo l'ennesimo brutto sogno. Gli incubi dell'Afghanistan si mescolavano con il sangue di Sherlock sul marciapiede del Barts e solo con un grande sforzo di volontà non gridava. Si metteva a sedere sul letto tremando come una foglia, poi si costringeva ad alzarsi e a vestirsi e quando entrava in cucina e vedeva il suo Sherlock, tutto cambiava.

Allora non erano passati tre anni, lui non era morto spiaccicato sulla dura terra.

Erano sempre stati insieme.

 

Quindi erano tornati quelli di prima. Holmes e Watson, inseparabili. John seguiva Sherlock nei casi più interessanti, lo aiutava, qualche volta lo salvava da morte quasi certa e molto spesso lo medicava. Il tutto però avveniva in modo assolutamente formale e, anche se ormai John non si arrabbiava più quando li indicavano come coppia, non erano mai andati oltre quel primo fatidico bacio.

John ci aveva riprovato varie volte, ma in ogni occasione si era presentato un intralcio. Un nuovo caso, la signora Hudson che entrava senza preavviso o Sarah che lo chiamava per una sostituzione lampo alla clinica.

Quella sera si era ripromesso di andare fino in fondo. Sherlock aveva appena risolto un caso e ciò gli dava la speranza di poter avere una sera tutta per loro.

Si avvicinò all'amico con passo sicuro. Non voleva girarci attorno. Sherlock era raggomitolato sulla poltrona.

Leggeva.

Cosa, non aveva importanza.

Teneva il libro sulle ginocchia piegate e con un dito affusolato si rigirava un ricciolo. L'espressione era concentrata e le labbra corrucciate. Era sexy in un modo impressionante e John lo avvertì immediatamente al cavallo dei pantaloni.

Andò verso di lui con l'intenzione di strappargli il libro dalle mani e liberarlo di quello stupido pigiama, quando suonò il campanello.

Dall'urgenza del trillo doveva essere qualcosa di molto grave. L'idea di dover accogliere un cliente a quell'ora della sera lo smontò all'istante. Sherlock era balzato in piedi per andare a cambiarsi, quindi capì che spettava a lui fare gli onori di casa.

Andò ad aprire e accolse una giovane donna, letteralmente distrutta dal dolore.

Era alta, bionda, con un paio di magnifici occhi azzurri come la porcellana. Il viso era magro di suo, ma la preoccupazione le aveva scavato le guance e tremava.

“Sto cercando Sherlock Holmes” disse, asciugandosi le lacrime che avevano iniziato a solcarle in viso.

John si girò verso la stanza del detective e questo uscì con passo sicuro.

“Si accomodi, signorina. John prepara del tè”

Mentre Sherlock prendeva posto nella sua poltrona di pelle e la donna su quella di fronte, John andò in cucina, irritato. Con gesti bruschi iniziò a preparare il tè, ma non poté trattenersi dal sorridere vedendo l'espressione di gioia dell'amico, mentre si preparava ad ascoltare la giovane cliente.

Si voltò per prendere le tazze e quando tornò a guardare il detective, vide la sua espressione gioiosa farsi man mano più grave. Il caso doveva essere serio. Decise di ritardare il più possibile la preparazione del tè per permettere alla donna di sfogarsi e a Sherlock di raccogliere tutti i dati senza essere interrotto.

Stava giusto versando il liquido ambrato nelle tazze, quando vide Sherlock alzarsi di scatto e cominciare a passeggiare avanti e indietro per la stanza. Il segugio era stato sguinzagliato.

Capì che era il momento giusto per entrare, ma Sherlock non sembrava in vena di bere tè.

“John, non ho tempo per il tuo tè. Danne un po' alla signorina. Ne ha bisogno. Non disturbarmi”

Senza dire altro, si fiondò in camera sua, chiudendosi bruscamente la porta alle spalle.

John era rimasto imbambolato per alcuni istanti, chiedendosi come mai si dovesse sorprendere dopo tutti quegli anni insieme.

“Prenda pure, signorina …?”

Lasciò un punto di domanda in sospeso perché, in tutto quel trambusto, non si erano nemmeno presentati.

“Eva Brackwell” rispose lei prendendo la tazza che John le porgeva “La ringrazio. Sono molto tesa di questi tempi ...”

Rise istericamente e bevve il tè, che sembrò calmarla.

“Non si preoccupi” disse lui, occupando la poltrona da poco lasciata da Sherlock “Sono sicura che Holmes saprà risolvere la situazione”

La donna annuì, poco convinta.

“Sì, lo so … Ma non riuscirò a trovar la pace finché non avrò chiarito questa faccenda. È troppo delicata”

John non sapeva cosa turbasse la donna, ma aveva abbastanza esperienza – maturata negli anni di professione medica ma soprattutto seguendo i casi con Sherlock – da poterla confortare. Il tè e la sua voce rassicurante l'aiutarono a ritrovare un po' di colore sul viso e addirittura un abbozzo di sorriso.

 

 

 

 

 

Il problema di Eva Brackwell era apparentemente semplice, ma presentava una serie di ostacoli non indifferenti.

Sherlock passeggiava avanti e indietro nella sua stanza. Avrebbe preferito farlo davanti al camino, magari con il suo amato Stradivari, ma sapeva che la donna aveva bisogno di essere consolata, così aveva deciso di lasciare quella tediosa incombenza a John.

Nel frattempo la sua mente lavorava.

Un ricatto non è mai un caso facile da affrontare, tanto meno quando la vittima non ha nessuna carta a suo favore.

Miss Brackwell non era che l'ultima di una lunga lista di persone che era finita sotto le mani di Charles Augustus Milverton.

Aveva già sentito parlare di lui da alcuni criminali dei bassifondi ma non aveva mai avuto modo di incrociare la sua strada, cosa di cui era profondamente grato al destino, almeno fino a quel momento.

L'idea di avere a che fare con un uomo del genere lo disgustava. Non era un criminale raffinato come lo era stato Jim. No, costui era una bestia travestita da gentiluomo. I ricatti ai quali sottoponeva le donne più in vista di Londra erano a dir poco abominevoli. Non c'era intelligenza dietro tutto questo ma pura malvagità.

Non c'era nessun puzzle da districare, nessun mistero. Solo un lungo e laborioso lavoro di diplomazia, che Sherlock non si sentiva in grado di portare avanti, sempre che la diplomazia potesse avere qualche effetto su quell'essere immondo.

Dopo cinque minuti di ragionamenti aveva già preso la sua decisione.

Aspettò quasi pazientemente che John finisse di cianciare con la donna e, quando sentì che se ne era andata, ritornò in salotto con la ferma intenzione di suonare tutta la notte. Si tolse la giacca, le scarpe e i calzini, rimise la veste da camera e tornò con passo leggero in soggiorno.

Ignorò lo sguardo implorante di John, che evidentemente voleva dormire e non sentire il suo violino tutta la notte e si posizionò con lo strumento accanto alla finestra.

Aveva bisogno di riflettere. Il piano era pronto e doveva solo definirne i dettagli.

 

 

 

 

 

Sherlock aveva suonato tutta la notte. Sarebbe stato bello se avesse suonato qualcosa di riconosciuto o quantomeno ascoltabile. Invece il detective, perso in chissà quali ragionamenti, aveva strimpellato tutto il tempo motivi sconnessi.

Con la pazienza che lo aveva contraddistinto fino a quel momento, John aveva sopportato ed era riuscito, in qualche modo, a dormire.

Il giorno seguente sperò di cavare qualche informazione dal suo amico.

Niente.

“Non è nulla per cui tu possa aiutarmi, John” gli aveva detto mentre bevevano il tè della mattina “Non preoccuparti se starò via qualche giorno, sto svolgendo delle indagini”

“Sei sicuro che non possa darti una mano?” gli aveva chiesto, sperando che cedesse.

La risposta era stata la stessa. No, non aveva bisogno di aiuto.

Si era quindi annoiato tutto il giorno, sperando che quel sociopatico iperattivo che si ritrovava per coinquilino tornasse presto.

Cosa che non accadde. Era l'una passata quando John si risvegliò seduto in poltrona e Sherlock non era ancora rincasato. Lo aveva avvisato del fatto che probabilmente sarebbe rimasto fuori casa qualche giorno, così si alzò con la schiena dolorante e andò a dormire.

 

I giorni seguenti furono un vero inferno. Sherlock arrivava a casa alle ore più strane e restava pochissimo, giusto il tempo di farsi una doccia veloce e consultare i suoi archivi.

Quella sera però John era particolarmente preoccupato. Aveva cominciato a piovere e minacciava temporale e Sherlock non era ancora tornato a casa. Non aveva motivo di pensare che si trovasse all'aperto. Probabilmente si era rintanato in uno dei suoi tanti nascondigli, ma non era tranquillo.

La sua preoccupazione svanì quando sentì la chiave girare nella toppa al piano di sotto. Sherlock era tornato.

Non andò ad accoglierlo alla porta ma si fiondò subito in cucina per scaldare l'acqua per il tè. Sherlock entrò con il giaccone leggermente umido, Per sua fortuna era riuscito a scampare la pioggia che, di lì a pochi minuti, iniziò a scendere una pioggia insistente e fitta.

“Jawn, tu non pensi che io sia un uomo da sposare, vero?”

La sua domanda gli giunse come una martellata in testa.

“Co-cosa?” domandò, cercando di non strozzarsi con la sua stessa saliva.

“Hai capito benissimo”

“Be' …” rise imbarazzato. Non aveva mai pensato ad un matrimonio con lui, ma … la frase successiva spezzò quel bel pensiero.

“Dunque sarai felice di sapere che sono fidanzato”

Molto probabilmente Sherlock aveva l'intenzione di fargli distruggere almeno un paio i tazze. Stava appunto avvicinandosi a lui con due tazze colme di tè, quando disse ciò e per poco non le fece cadere in terra. Riuscì a recuperare quel minimo di autocontrollo che gli era stato tanto utile in guerra e le posò sulla mensola del caminetto, il luogo più vicino al momento. Una gelosia mai provata prima, nemmeno ai tempi della Donna, lo invase come un fiume in piena.

“Cosa hai detto?” domandò, sperando di aver capito male.

“Ho detto ciò che hai sentito. Mi sono fidanzato” sorrise malizioso “Con la cameriera di Charles Augustus Milverton”

La faccia di John doveva essere estremamente buffa, perché Sherlock si mise a ridere.

“Sherlock … sei serio?”

Il detective annuì, poi scosse il capo.

“Sì e no. Avevo bisogno di informazioni su Milverton. È lui l'uomo che ricatta Eva Brackwell. L'ha minacciata di mandare a monte il suo matrimonio grazie ad alcune lettere compromettenti se non lo paga. Le ha chiesto una cifra enorme, impossibile per lei se non chiedendola al futuro marito. È in trappola, perciò in questi giorni, travestito da idraulico, ho raccolto più informazioni possibili su quell'essere che pretende di farsi chiamare uomo”

Lo osservò con attenzione. Era la prima volta che manifestava un tale sentimento per un caso.

“Quindi … hai corteggiato la cameriera di Milverton solo per avere informazioni?”

Sherlock annuì cupo. La pioggia era aumentata e minacciava temporale. John lo guardò con disapprovazione. Non tanto per i mezzi che aveva usato per raggiungere tal nobile fine, ma per avergli fatto prendere quello spavento inutile. Alla fine si rassegnò. Ormai conosceva lui e la sua tendenza alla drammaticità. Lo guardo mentre si avvicinava alla finestra e osservava le raffiche di vento che spazzavano le strade, portando secchiate di pioggia contro i vetri della finestra.

“Che magnifica notte” esclamò, come se si trattasse di una battuta teatrale.

John lo guardò esterrefatto.

“Stai scherzando, vero? Sembra che si stia scatenando il diluvio universale!”

Sherlock si concesse un mezzo sorriso.

“È la notte ideale per un furto con scasso, Jawn”

Questa notizia lo sconvolse ancora di più della precedente.

“Stai scherzando, spero”

Sherlock sorrise e scosse la testa.

“Sei ripetitivo stasera” disse tornando al camino e prendendo la sua tazza di tè “Te l'ho detto. Ho corteggiato Beth per ottenere informazioni sulla casa di Milverton. Non preoccuparti, però. Ho un degno rivale che me la porterà via appena volterò lo sguardo” disse poi, portando una mano sul cuore e ostentando una faccia addolorata. John rise, suo malgrado.

“Come mai tutta questa messinscena per un semplice ricatto? Non è da te!”

Sherlock bevve un lungo sorso di te e posò bruscamente la tazza sul tavolino.

“Tutto ciò è deprecabile, Jawn. Non c'è fantasia, non c'è un problema da risolvere. Tutto ciò che ho è solo un verme che campa con i problemi degli altri. So che non concorderai, ma quasi rimpiango Jim. Lui era creativo, agiva per un motivo più alto … questo Milverton è un essere spregevole che non vede altro che il suo interesse”

“Sherlock, ne hai incontrati tanti così ...” cercò di calmarlo John.

“No. Non così. I criminali che ho incontrato fin'ora erano spregevoli ma ne erano almeno consapevoli. Questo tizio crede di essere furbo, in realtà è solo un prevaricatore e un violento. È un volgare topo di fogna che pretende di agire come un felino.

Stanotte lui sarà fuori casa per una festa di beneficenza. Ne approfitteremo per entrare in casa sua e distruggere i documenti compromettenti. Solo così potrò liberare Miss Brackwell dal suo persecutore e, chissà, magari anche qualcun altro”

Restarono qualche minuto in silenzio. Sì, quei tre anni avevano profondamente cambiato Sherlock. Non era più il freddo detective che agiva con il solo scopo di tenere allenata la mente. C'era qualcosa di diverso in lui, un lato umano che stava affiorando.

Passarono altri minuti. Sherlock si era seduto in poltrona e aveva chiuso gli occhi, così John si era rassegnato al suo mutismo poi, improvvisamente aprì gli occhi e si alzò.

“Direi che possiamo andare” disse, poi si voltò verso l'amico “Perché verrai anche tu, non è vero?”

John esitò. Da tanto tempo aveva desiderato vivere un'avventura con il suo migliore amico, ma questo …

“È per una buona causa, Jawn!” gli disse Sherlock, vedendo la sua incertezza “Ho bisogno del tuo aiuto … non posso farcela senza di te”

Gli sorrise e lo guardò con quegli occhioni che, fin da bambino, lo facevano cedere senza fatica. D'altra parte anche lui non stava nella pelle e desiderava azione.

“Va bene” disse infine, bevendo tutto in un sorso il tè che ormai era quasi freddo “Andiamo”

“Ora ti riconosco, Jawn” gli fece l'occhiolino e si vestì velocemente “Sarei perduto senza il mio primo ufficiale” ed uscì di corsa.

 

 

 

 

 

L'incursione notturna era andata abbastanza bene. Erano riusciti ad entrare evitando le telecamere di sicurezza e i cani e ora si trovavano nello studio di Milverton. Mentre John guardava alternativamente fuori dalla finestra e dalla porta che dava sul corridoio, Sherlock tentava di scassinare la cassaforte dove Milverton teneva le prove contro le sue vittime.

“Sherlock, muoviti!” disse John preoccupato “È appena rientrato in casa. Hai finito con quella roba?”

Sherlock annuì nel buio e stava per estrarre i fogli dalla cassaforte quando sentirono i passi del padrone di casa farsi più vicini. Non ci fu tempo per fare altro. Fu costretto a lasciare lì tutto. Si nascosero dietro lo spesso tessuto della finestra e attesero.

Milverton entrò nello studio e si sedette alla scrivania. Accese la luce e iniziò a controllare alcune carte.

Sherlock era al massimo della tensione. John, accanto a lui, lo vedeva respirare piano, gli occhi puntati sulla cassaforte semichiusa e i documenti ancora da distruggere. I muscoli del collo erano tesi così come il viso e le labbra erano socchiuse. Nonostante la strana situazione, John dovette ammettere di non averlo mai visto così sensuale e lo desiderò come non aveva mai fatto in vita sua. Si morse il labbro e cercò di scacciare quei pensieri, quando avvenne il fatto.

Successe tutto molto velocemente. Una donna entrò nella stanza e affrontò l'uomo. Era sicuramente una delle tante sue vittime. Lui non fece nemmeno in tempo a parlare perché lei estrasse una pistola e la scaricò sul suo petto.

Sherlock, con la velocità di spirito che lo aveva sempre contraddistinto, uscì dal nascondiglio veloce come un fulmine e finì il lavoro. Smosse le braci del caminetto con l'attizzatoio e ci buttò sopra le carte e alcune chiavette usb, poi aiutò la combustione con un accendino. Riuscì a fare tutto nel giro di pochi minuti, durante i quali la donna si era dileguata uscendo dalla finestra, e tornò da John. Lo afferrò per un braccio e lo condusse fuori, dalla stessa apertura per la quale era fuggita l'assassina.

Approfittarono delle tenebre per non farsi vedere e correndo raggiunsero un vicolo più appartato e da lì riuscirono a tornare a casa. Nessuno li aveva visti.

 

 

Erano euforici.

“È stato … fenomenale!” esclamò John, cercando di riprendere fiato dopo la corsa “Non mi divertivo così tanto da … non ne ho idea!”

Erano appena rientrati a casa, entrambi affaticati per la lunga corsa ma anche per l'eccitazione.

“Jawn, è appena morto un uomo” finse di rimproverarlo Sherlock.

“Non era un brav'uomo” si giustificò lui scuotendo la testa “Come quel tassista. Prima o poi sarebbe accaduto. Sinceramente non penso che lo rimpiangerò”

Sherlock sorrise e si avviò verso camera sua.

“Sherlock?” lo chiamò John.

Il detective si girò. Era stupendo.

I capelli erano leggermente scompigliati e il viso era ancora pregno della tensione e della gioia per quell'avventura. Le guance, leggermente imporporate, facevano da cornice alle labbra, rosse e sensuali che non chiedevano altro che essere baciate.

Quella sera era stata piena di avvenimenti e prove di coraggio, così John decise che avrebbe potuto affrontare anche quella.

Si avvicinò a Sherlock con passo deciso e lo afferrò per le spalle, alzandosi leggermente sulle punte dei piedi per eliminare la differenza di altezza che li separava.

“Tu non vai da nessuna parte, stasera” gli disse con un tono che non ammetteva repliche.

Sherlock arrossì ancora di più e fece un passo indietro.

“Jawn … cosa … cosa vuoi fare?” chiese, senza riuscire a nascondere una vena di panico nella voce.

“Voglio fare ciò che aspetto da mesi … da anni” rispose lui, avvicinandosi ancora di più al suo viso.

Lo baciò. Unì le loro labbra e sperò che rispondesse, ma ciò non avvenne. Sherlock si era irrigidito ed era sbiancato come se avesse visto un fantasma.

John non se ne accorse e cominciò a carezzargli il petto, per poi scendere più in basso, ma Sherlock gli afferrò il polso e lo allontanò.

“Jawn, ti prego ...”

Allora John si accorse che Sherlock era paralizzato dal terrore e si accigliò.

“Sherlock … cosa significa?” chiese bruscamene “Pensavo che tu ...”

“Ti voglio bene, Jawn” disse lui, in evidente disagio “Ma ...”

“Mi hai baciato quando sei tornato! Mi hai detto di amarmi!”

Sherlock lo guardò con occhi imploranti.

“Perdonami, Jawn, ma io ...”

“Sei adulto, Sherlock. Adulto. Non ho intenzione di ...”

“Sono ancora vergine, John. Sarò pure adulto e … sì, ti amo, ma non ho mai avuto esperienze di questo tipo e … mi spaventano”

“Non ti fidi di me?”

“Sì, mi fido … solo ...”

“Sei stranamente esitante, stasera” lo prese in giro John.

“Tutto questo … sta accadendo troppo velocemente!”

“Non mi sembra proprio! Tu ...”

Questa volta fu John ad esitare. Aveva puntato il dito contro Sherlock e fu allora che lo vide. Nonostante gli anni e le numerose esperienze, Sherlock era rimasto innocente come un bambino per quanto riguardava il sesso. Si ricordò il dialogo tra lui e il fratello, a Buckingham palace e capì.

Il sesso lo turbava. Aveva intuito che le sue intenzioni andavano oltre quel semplice bacio che si erano scambiati quando era tornato e si era spaventato.

Aveva sbagliato. Lo aveva forzato contro la sua volontà e lo aveva anche sgridato per questo. Vide il suo viso sofferente, per il senso di colpa e la paura e si sentì un verme.

“Sherlock, mi dispiace ...” disse.

Sherlock annuì piano, ma la sua tristezza era evidente.

“Dispiace anche a me, Jawn. Ci riuscirò un giorno, ma ora ...”

Sentimenti contrastanti si mossero nel petto di John. Da una parte c'era il desiderio che aveva di lui, dall'altra il suo senso di protezione, sempre vivo, che gli impediva di fargli del male. Davanti a lui non c'era Sherlock Holmes il grande detective, c'era Sherlock, il bambino a cui disinfettava le croste da caduta di bicicletta.

Il suo istinto ebbe la meglio sul desiderio.

“Sherlock, ti desidero troppo. Non posso più vivere con te”

Quelle parole, se possibile, lo spaventarono ancora di più del desiderio di John.

“Non puoi dire questo!” disse “Non puoi andatene! Come farò senza di te?”

John tremò impercettibilmente e si allontanò.

“Quando pensavo che fossi solo il miglior consulente detective non osavo avvicinarmi a te perché ero troppo codardo per ammettere di essermi innamorato. Ora che lo shock del tuo ritorno mi ha fatto ritornare la memoria, faccio fatica a pensare a te come un adulto, soprattutto quando mi fai queste scene così … infantili!”

Sherlock si morse il labbro, a disagio e lo guardò con i suoi occhioni azzurri, che non erano in effetti molto cambiati da quando era bambino.

“Mi dispiace, Jawn ...” disse, facendo qualche passo verso di lui con il braccio teso nel tentativo di fermarlo.

“Non chiamarmi così, ti prego” disse John “Rendi tutto più difficile. Io ti desidero, ti desidero follemente, ma cerca di capire la mia situazione. Ti ho considerato come un figlio per anni … come potrei ora …” scosse la testa “Mi dispiace. Non ce la faccio. Non così”

Sherlock era rimasto senza parole e, anche se ne avesse avute, non sarebbe riuscito a pronunciarne neanche mezza.

John era infatti corso in camera sua prima che potesse riaversi da ciò che gli era stato detto.

Tornò dopo una ventina di minuti con due grossi borsoni colmi di vestiti. Quando lo vide, Sherlock reagì.

“No! Ti prego, Jaw... John! Ti prego! Non andartene!” implorò Sherlock, irrigidito per la paura e con gli occhi fissi su di lui.

“Non ce la faccio, Sherlock”

“Ce la possiamo fare, invece! Possiamo tutto, ricordi? Sarei perduto senza il mio blogger!”

“Dimmi come posso fare allora!” rispose John, buttando in un gesto di stizza “Dimmi come posso fare! Ragiona, grande detective! Voglio fare sesso con un uomo che ho conosciuto da bambino occupandomi di lui come se fossi suo padre e che ora ha addirittura paura di ciò che provo per lui! Sarai anche intelligentissimo, Sherlock, ma se infantile. Sei ancora un bambino ai miei occhi e … non potrei fare ciò che desidero con te”

Senza dire altro riprese le sue borse e uscì di casa, sbattendo la porta.

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Capitolo 16
*** Il mio bimbo ***


Salve! Stavolta il capitolo è arrivato un po' più in fretta ma sono particolarmente ispirata.

Molte volte mi succede di creare prendendo spunto da cose che mi hanno colpita o che mi sono piaciute. In questo caso parlo della storia di Kazuma e Tsubasa, due personaggi del manga “Karekano” o, in italiano “ Le situazioni di lui e lei” di Masami Tsuda, che ho imparato ad amare grazie alla mia cara amica Giulia.

In questo caso John sarebbe Kazuma e Sherlock Tsubasa … quindi capirete che alla fine tutto andrà bene per i nostri eroi!

Buona lettura.

 

 

 

 

 

 

Il mio bimbo

 

 

 

 

 

 

Era passato quasi un mese da quando John era tornato nel suo appartamento. Non aveva più sentito Sherlock e nemmeno lui aveva accennato a fare la prima mossa.

John se l'era aspettato e, d'altra parte, riconosceva di essere dalla parte del torto. Era lui quello che se n'era andato sbattendo la porta. Lui l'aveva spaventato a morte con il suo desiderio.

Sherlock si era chiuso a riccio. Sicuramente avrebbe ignorato messaggi e chiamate e l'unica cosa da fare sarebbe stata andare di persona da lui, ma aveva paura di ricadere nello stesso errore.

No, non poteva più vederlo. Lo desiderava così tanto, ma sapeva che quello era un sentimento sbagliato. Gliel'aveva fatto capire Sherlock quella notte e lui non aveva più avuto il coraggio di tornare all'argomento, anche con sé stesso.

Non sapeva come stava Sherlock, ma sperava che se la stesse cavando. In fin dei conti in quegli ultimi anni lo aveva fatto, perciò pensò che avrebbe continuato così. Sì, se ne era convinto, eliminando ogni altra possibilità.

Non voleva sentirsi in colpa per lui.

 

 

I giorni di John si erano susseguiti uno uguale all'altro. Tante perle in un filo di cotone. Sufficientemente forte da tenerle insieme ma altrettanto fragile da potersi spezzare al minimo scossone. Sarebbe bastato un niente a romperlo e a disperdere la serenità che era faticosamente riuscito a ricrearsi. Serenità fittizia, ma pur sempre un equilibrio.

La vita di John si era dunque di nuovo ridotta al solito andare e venire dalla casa alla clinica, intervallato ogni tanto da qualche birra con Stamford. Si sentiva esattamente come quando era tornato dall'Afghanistan.

Solo.

Sherlock era tutto ciò di cui aveva bisogno, ma era troppo codardo per ammetterlo. Finalmente era riuscito a dichiararsi apertamente e lui l'aveva rifiutato. In cuor suo sapeva che era questo il vero motivo che l'aveva spinto ad andarsene.

Orgoglio.

Stupido orgoglio.

Non poteva sopportare di essere rifiutato e aveva mascherato questo sentimento con il disagio che provava nel vedere adulto lo Sherlock che aveva conosciuto bambino. In effetti c'era anche questo, ma in misura minore. Erano troppe le volte in cui la personalità e il corpo del suo ex coinquilino avevano destato in lui desideri troppo imbarazzanti da essere espressi a voce e sapeva che, se l'avesse rivisto così, non avrebbe resistito.

Per questo se n'era andato. Non voleva essere rifiutato un'altra volta.

Tutti questi pensieri avevano vagato nella sua mente i primi giorni, insieme agli incubi ricorrenti, poi aveva creato un muro, una diga tra lui e la sua emotività. Voleva proteggersi dal dolore. La valvola di sfogo era rappresentata dalla consapevolezza che Sherlock era vivo e questo doveva bastargli.

 

Così la sua collana di giorni continuava ad allungarsi, come un rosario infinito che ripeteva ogni giorno la stessa monotona litania. John non sapeva, però, che quel giorno sarebbe arrivata una forbice che avrebbe vanificato il tutto, distruggendo il suo precario castello difensivo.

Stava per andare a casa. L'orario delle visite sarebbe finito di lì a pochi minuti ma la sala d'aspetto era vuota e ormai non avrebbe fatto in tempo a visitare più nessuno e anche Sarah era andata via. Aveva appena chiuso la porta del suo studio, quando sentì la porta esterna aprirsi.

“L'orario delle visite è finito” disse senza girarsi “Torni domani alle otto …”

Quando si girò, la voce gli morì in gola. Di fronte a lui c'era l'ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere.

“Buonasera, dottor Watson” disse l'uomo, chinando leggermente il capo in segno di rispetto “Mi duole disturbarla a quest'ora tarda, ma ho assoluta necessità di discorrere con lei. Proprio per questo motivo ho scelto di venire qui ora”

Siger Holmes era invecchiato ma conservava ancora la dignità che John aveva imparato a conoscere quando frequentava la sua casa per badare a suo figlio. In quel momento i pensieri che provava verso Sherlock tornarono a galla e si sentì avvampare per la vergogna.

“Buonasera, Signor Holmes” disse cercando di darsi un contegno “Cosa desidera?”

Siger sospirò. Era evidente che qualcosa lo turbava.

“Non occorre che cerchi di nascondermi il suo amore per mio figlio” disse guardandolo francamente negli occhi “So cosa prova per lui e devo ammettere di averlo intuito già molti anni fa, quando ancora faceva da babysitter a Sherlock. Mi dica, cosa è successo tra di voi?”

John vide il luccichio di una lama che si stava avvicinando alla fila di perle che rappresentava i suoi giorni. Cosa sapeva Siger?

“Non si preoccupi” lo rassicurò Holmes, sorridendo gentilmente “Sono solo un padre preoccupato per il figlio, tutto qui. Non ho intenzione di immischiarmi negli affari vostri, ma vorrei sapere perché Sherlock si è ridotto in quelle condizioni”

La lama si posò delicatamente sul filo di cotone.

“Quali condizioni?” chiese John preoccupato.

“Sarà meglio che venga a vedere” lo pregò Siger “Il mio autista ci porterà a casa”

 

Uscirono in strada, dove una lussuosissima auto li stava aspettando per portarli a destinazione. Quando si accorse che non stavano andando a Baker Street, si sporse verso l'autista.

“Dove diavolo sta andando? Baker Street è da tutt'altra parte!”

“Si calmi, dottor Watson. Sherlock è a casa mia. Quando l'ho trovato a Baker Street non ho potuto lasciarlo lì … gliel'ho detto … ora vedrà”

John si lasciò cadere sul sedile. Se Siger era preoccupato fino a quel punto, voleva dire che Sherlock si era messo nei guai. Come? Non sapeva darsi risposta. Non poteva lasciarlo solo nemmeno cinque minuti che già aveva bisogno d'aiuto?

Immerso nei suoi pensieri, non si accorse che nel frattempo erano arrivati. Il suono delle ruote dell'auto sull'asfalto venne sostituito da quello più crepitante della ghiaia e la macchina si fermò davanti all'ingresso per permettere ai due uomini di scendere.

“Mi segua” disse Siger “Non c'è un momento da perdere”

John lo seguì in casa e poi lungo le scale, fino alla stanza che così tante volte aveva visitato.

Dentro la luce fioca proveniva da un'unica lampada accanto al letto, ma fu quello che vide su quel giaciglio ad agghiacciarlo. Fu ciò che fece strappare il filo. Sentì le singole perle cadere a terra con un frastuono che lo assordò. Tutto era finito. Non c'era più pace, non c'era la falsa serenità che si era faticosamente creato. C'era Sherlock.

Giaceva immobile sul letto. Le braccia, più magre di quanto si ricordasse, sembravano quelle di una marionetta alla quale avevano tagliato i fili. Uno solo era rimasto, quello di una flebo, posizionata vicino alla testiera.

Il viso era scavato, pallido e negli occhi non avevano più quel lampo di vita che li contraddistingueva. Erano spenti, lucidi di pianto e fissavano un punto imprecisato della stanza senza vederlo. Sicuramente stava vagando senza meta nel suo mind palace.

John restò sulla soglia, tramortito. Siger gli posò una mano sulla spalla e sospirò.

“Cosa … cosa gli è successo?” chiese con voce roca.

“Depressione, John” gli rispose Siger stringendogli involontariamente la spalla “Da un mese a questa parte non ho più avuto sue notizie e la cosa mi aveva preoccupato. Solitamente Mycroft mi teneva aggiornato sui suoi movimenti, ma in questo periodo nessuno dei suoi agenti l'aveva mai visto uscire di casa. La cosa non mi avrebbe insospettito, ma quando anche Lestrade è venuto da me per avere informazioni ho temuto il peggio.

Sono andato in casa vo … sua e l'ho trovato in condizioni pietose. Era raggomitolato sulla poltrona. Il fuoco era spento e lui si trovava in questo stato catatonico ed era denutrito. Non aveva febbre e non aveva nemmeno assunto cocaina, ma dalle analisi del sangue è venuto fuori che stava quasi per esaurire le scorte di glicogeno *… Insomma, l'abbiamo trovato giusto in tempo.

È qui da un paio di giorni. Possiamo nutrirlo solo tramite flebo perché si rifiuta di mangiare, di bere o di parlare. Ormai si sta riprendendo, ma non è la sua salute fisica che mi preoccupa, al momento. Capisce cosa intendo”

Si portò la mano per coprire la bocca. Anche lui era sconvolto, ma John lo era sicuramente di più. Si avvicinò al letto con passo spedito, senza staccare gli occhi da quel viso smunto che apparteneva al suo migliore amico.

Si inginocchiò al suo fianco e gli prese la mano. Era gelata e incredibilmente sottile. Non strinse troppo, per paura di fargli male. Sembrava fragile come una statuina di cristallo.

“Sherlock, brutto stupido … che hai fatto?” chiese, mentre le lacrime scivolavano silenziose dai suoi occhi per abbattersi sulla pelle chiara di Sherlock.

John non si aspettava risposta ma questa, incredibilmente, arrivò.

Sherlock sbatté tre volte gli occhi e girò lentamente il viso verso di lui.

“Ja-Jawn ...” disse con voce debole.

“Sì, sono Jawn” annuì lui convinto “Sono il tuo Jawn”

Baciò quella mano e se la posò sulla fronte. Alle sue spalle, Siger gli sfiorò la spalla.

“Vi lascio soli” disse con un sorriso che John non poté vedere “Avete molto di cui parlare e, John … ti ringrazio. Di tutto”

Detto questo uscì e John si lasciò ulteriormente andare. Le lacrime continuavano a scendere e lui cominciò a singhiozzare.

“Perché, Sherlock? Dimmi perché?” chiese, anche se conosceva già la risposta.

“Te ne sei andato …” rispose Sherlock tornando a fissare il soffitto “ … mi sentivo così solo … così solo ...”

“Come pensi che mi sia sentito io nei tre anni in cui tu sei sparito, eh?” domandò John, senza poter trattenere una vena di rimprovero nella voce, ma si morse il labbro. Ormai quella era acqua passata. Non doveva continuare a rimproverarlo per quello.

“Scusa, Sherlock. Scusa. Non volevo dirlo … cioè, volevo dirlo, ma ho sbagliato. Non pensarci più”

Sherlock cominciò a tremare, scosso dal pianto.

“Anche allora mi sentivo solo” sussurrò tra le lacrime “Ma sapevo che tu stavi bene, da qualche parte … e questo mi aiutava ad andare avanti, ma adesso … non potevo sopportare che tu non mi volessi più bene ...”

Scoppiò a piangere e la cosa tranquillizzò John. Almeno era una reazione. Quelle lacrime gli avrebbero fatto bene, ripulendolo del dolore accumulato in quei giorni neri.

Lo fece sedere e lo riempì di piccoli baci su tutto il viso, continuando a piangere.

“Io non ho mai smesso di volerti bene, Sherlock. Mai. Non ti ho mai voluto così tanto bene come ora”

“Allora perché sei andato via? Cosa ho sbagliato, Jawn? Dimmelo ...”

Lo abbracciò e lo carezzo sulla testa e sulla schiena, ridendo e piangendo insieme.

“Non hai fatto nulla di sbagliato, Sherlock. Al contrario, mi hai salvato. Hai rinunciato a tutto per salvare me e questa è la cosa più bella che tu abbia mai fatto. Sherlock, me ne sono andato per non spaventarti con i miei sentimenti. Capisci? Ti amo così tanto, piccolo mio ...”

Rise e lo strinse più forte. Non gli importava che fosse più alto di lui, più intelligente o più furbo. Lui era il 'suo piccolo Sherlock', bisognoso d'amore. Un amore che lui poteva dargli.

“Anch'io ti amo, Jawn ...” sussurrò Sherlock “Ti amo … per piacere, non lasciarmi più solo ...”

“Non lo farò. Te lo prometto. Starò sempre con te”

Restarono abbracciati a lungo. Sherlock tremava tra le sue braccia, ma pian piano si rilassò. John sapeva che era molto debole. In quel momento lo vedeva come un delicato fiore da accudire, da sfiorare, per non sgualcirne i petali.

Soavemente lo posò sul materasso e cominciò ad accarezzargli la fronte con movimenti ampi e lenti e asciugargli il suo viso dalle lacrime con un soffice fazzoletto di stoffa.

“Ora devi riposare, Sherlock” gli disse dolcemente.

“Domani, quando mi sveglierò, ti troverò qui?” chiese con un filo di paura.

“Sì” confermò John annuendo e sorridendo “Mi troverai qui”

Sherlock sorrise e chiuse gli occhi.

“Parlami, Jawn” disse, cercando la sua mano. Una volta che l'ebbe trovata la strinse.

John si sorprese sentendo tutta quella energia ma d'altra parte si era ormai abituato alle sorprese che il grande detective sapeva elargirgli, giorno dopo giorno. Anche quella richiesta lo incuriosì.

“Vuoi … che parli?” gli chiese, incredulo.

“Sì. Sono stanco e ho sonno, ma non riesco a dormire. Parlami, ti prego. Vorrei addormentarmi al suono della tua voce”

Un largo sorriso illuminò il viso di John. Come aveva fatto ad allontanarsi da lui? Come aveva potuto abbandonarlo? No, quello era un errore che non avrebbe ripetuto.

“Vuoi che ti racconti una storia?”

“Quello che vuoi” rispose Sherlock sorridendo “Basta che parli. Mi piace la tua voce”

John rise, pensando che a parlare era un uomo con una voce così sensuale da sciogliere di desiderio sia donne che uomini.

“Mi piace anche quando ridi, Jawn”

“Allora vedrò di farlo più spesso” rispose lui “Stando con te non mi sarà difficile. Ora vediamo … cosa potrei dirti … o raccontarti?”

Gli sembrò di essere tornato indietro di anni e di raccontare la fiaba della buonanotte al suo bimbo.

Quello che aveva di fronte era sì il suo bimbo ma era anche l'uomo che amava. Comprese che avrebbe dovuto portare molta pazienza, ma non avrebbe sopportato di stare lontano da lui nemmeno mezzo minuto. L'amore che provava per lui andava al di là del sesso e non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo.

Non si alzò per prendere una sedia. Non lasciò la presa della mano di Sherlock. Allungò un braccio verso la poltrona e afferrò un comodo cuscino, su cui si adagiò, restando seduto sul tappeto.

“Quando ancora i pirati costituivano una minaccia per la compagnia delle Indie ...”

 

 

 

 

 

 

 

* è un polisaccaride (uno zucchero) che si deposita nei muscoli e nel fegato ed è la nostra ultima riserva di energia. Quando si esaurisce si muore.

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Capitolo 17
*** Disegni ***


Eccomi nuovamente qui! Buona lettura!

 

 

 

 

 

Disegni

 

 

 

 

 

 

I giorni successivi Sherlock fu trasferito a Baker Street, raggiunto immediatamente da John.

Il recupero, sia fisico che mentale, fu lento e faticoso. John si era preso un periodo di aspettativa per curare il suo migliore amico.

I primi tempi fu costretto a nutrirlo via flebo o con cibi liquidi. Brodo di pollo, puree di verdure, che la signora Hudson preparava con tanto amore.

Era sempre John, però, ad aiutarlo a mangiare. Era talmente debole che non riusciva nemmeno a sollevare le posate e, a parere di John, non ne aveva nemmeno voglia.

Da quando erano tornati al vecchio appartamento c'era stato un miglioramento, ma tutto ciò che aveva passato in quel periodo lo aveva parecchio debilitato, nel corpo e nello spirito.

La paura che John potesse andarsene lo faceva ricadere in stati catatonici che John associava al suo mind palace.

Non era facile, per nessuno dei due. Sherlock ce la metteva tutta per guarire e John gli stava vicino quasi tutto il tempo così, pian piano, la natura forte e indipendente del detective prese il sopravvento e lo aiutò a superare la depressione.

John lo accompagnava tutti i giorni a Scotland Yard dove, con la massima discrezione, Lestrade gli faceva esaminare i dati dei casi, man mano più difficili, per aiutarlo a riprendere il ritmo.

 

 

 

 

Già quattro mesi più tardi non c'era più traccia della depressione. Sherlock era tornato sé stesso, nel bene e nel male e John non poteva essere più felice. L'unica cosa che contava era che aveva di nuovo il suo sociopatico iperattivo preferito e niente avrebbe potuto dividerli.

L'inizio di tutto avvenne una sera piovosa. Sherlock aveva in programma un pedinamento, ma John era stato irremovibile. Alla fine ebbe la meglio e il detective si raggomitolò sulla sua poltrona preferita con un broncio degno di un bambino capriccioso.

“Mi annoio, Jawn!” disse stringendo le magre gambe al petto “Dovrei stare là fuori, non puoi relegarmi qui solo perché ...”

“... solo perché piove a dirotto?” domandò John ridendo “Te ne starai buono qui, Sherlock. È la mia ultima parola”

Sherlock si raggomitolò sulla poltrona e si mise a fissare il fuoco. Osservava la danza delle fiamme come ipnotizzato e intanto la sua mente vagava. Distolse lo sguardo dalla luce e sbatté le palpebre e lo sguardo gli cadde nel quaderno con la storia del pirata.

Da quando gliel'aveva restituito, John aveva tenuto sempre in bella mostra quel racconto e sovente lo rileggeva, soffermandosi soprattutto ad ammirare i disegni di Sherlock.

Anche John vide lo sguardo del detective soffermarsi sul quaderno.

“Perché non fai qualche disegno?” gli propose, come se si rivolgesse ad un bambino annoiato cosa che, in effetti, Sherlock era in quel momento.

“Potrei ...” rispose lui stringendosi nelle spalle.

“Allora fallo” lo incoraggiò John alzandosi.

Nel cassetto della sua scrivania c'era una confezione di pastelli nuovi, mai usati, che aveva comprato qualche tempo prima proprio per indurlo al disegno come antidepressivo. Glieli porse e prese anche una matita, una gomma e un foglio bianco da disegno.

“Ecco, mio caro artista. Crea!”

“Cosa dovrei disegnare, di grazia?” rispose lui, prendendo in mano il tutto.

“Quello che vuoi! Che ne so ...” guardò il cesto con le mele “Perché non fai una bella natura morta?”

“Noioso”

“Allora disegna un teschio”

“Banale”

“Prova ad affacciarti alla finestra e fai un paesaggio urbano”

“Scontato”

“Arrangiati allora!” sbottò John, stanco di sentirsi scartare ogni idea.

Proprio in quel momento lo sguardo di Sherlock si posò nuovamente sul quaderno. Quella volta aveva disegnato le avventure del Capitano Talbot. Pensò dunque al blog di John. Anche quelli erano racconti avventurosi e lui poteva illustrarli.

Fece girare la matita tra le dita in cerca dell'ispirazione. Chiuse gli occhi e ripercorse mentalmente le loro imprese. Non sapeva da quale cominciare, poi la razionalità prese il sopravvento.

Perché non cominciare con la prima?

Uno studio in rosa.

Ritornò a quei giorni e cercò i momenti salienti.

L'incontro al Barts, l'indagine a Brixton, l'incontro con Angelo, l'inseguimento del taxista, il dilemma delle due pillole e infine l'immancabile coperta anti-shock.

 

Tutti conoscevano la versione di John perché l'avevano letta nel suo blog. Nessuno sapeva però cos'aveva provato lui in quei momenti soprattutto perché, naturalmente, nessuno pensava che ne provasse, perciò non si erano nemmeno dati la pena di chiederglielo.

Stava eseguendo un delicato test sull'emoglobina, quando vide John.

L'aveva riconosciuto immediatamente, nonostante l'aria affaticata e gli anni trascorsi lontano da lui.

Aveva sentito che il suo cuore aveva mancato un battito dalla felicità, ma si era sentito sprofondare in un pozzo nero di delusione quando il medico, entrando in laboratorio, non dava segni di averlo riconosciuto.

Aveva chiamato Mycroft e da lui aveva ricevuto conferma di ciò che sospettava.

L'amnesia di John era qualcosa alla quale non era preparato. Da anni si era immaginato quel momento, aspettando il ritorno del suo Jawn, ma ora che era di nuovo con lui non aveva più ricordi del loro passato.

Si era trovato in una situazione incerta. Non sapeva bene cosa fare perché sapeva di essere ignorante nel campo dei sentimenti e non si immaginava quale reazione avrebbe potuto avere John se gli avesse rivelato il loro passato insieme.

Tutto ciò che era successo poi lo aveva fatto desistere dal raccontargli qualsiasi cosa.

Non voleva rovinare l'alchimia che si era ricreata spontaneamente tra di loro rievocando il passato e rischiando di rovinare quel rapporto appena rinato dalle ceneri della sua amnesia, ma che prometteva grandi sviluppi.

 

I mesi successivi gli avevano dato ragione. John, forse inconsciamente, si era ritrovato a occuparsi di lui come un babysitter con un bambino troppo cresciuto e lui aveva alimentato questa situazione, sperando che ricordasse spontaneamente.

Durante gli anni in cui l'aveva atteso si era sempre interrogato sulla natura dei suoi sentimenti per lui, ma non era riuscito a giungere ad una conclusione.

Quando Angelo li aveva scambiati per una coppia era rimasto segretamente lusingato, ma nel momento in cui John aveva esternato in modo così esplicito il suo orientamento sessuale e la ferma intenzione di non cambiare, aveva farfugliato qualcosa riguardo al fatto di essere sposato con il suo lavoro, per difendersi dalla delusione.

In realtà in quel momento aveva capito di essere innamorato di lui.

Quante sere era rimasto in casa solo a soffrire, mentre John usciva con la fidanzata di turno!

C'era anche la noia a tormentarlo, ma la cosa che lo faceva rodere dentro era il continuo tentativo del suo Jawn di fuggire da lui.

Non era riuscito a trovare altre spiegazioni alle numerose 'fidanzate' che si portava a casa, più spesso per tappare qualche buco emotivo più che per vero interesse.

 

Ora finalmente erano finalmente riusciti a venire a patti con i loro sentimenti. Anche John si era reso conto di amarlo. Si era odiato fino al midollo per essere stato così codardo con lui. La depressione che lo aveva colpito non derivava solo dall'abbandono di John ma anche dalla sua inadeguatezza. Si sentiva in colpa per averlo costretto ad una decisione così drastica. Si era comportato da perfetto imbecille e lui era fuggito.

Non sarebbe successo, mai più.

 

Aveva appena finito il disegno del loro primo incontro al Barts. Era venuto decisamente bene. I tratti erano decisi ma non troppo marcati. Soppesò per un attimo l'idea di colorarlo, magari con degli acquerelli, ma la scartò quasi subito.

Era perfetto così, in un bianco e nero che ricordava le illustrazioni dei libri che John gli leggeva la sera prima di dormire.

Chiuse l'album da disegno con un gesto secco che attirò l'attenzione del dottore.

“Hai già finito?” gli chiese sporgendosi “Posso vedere il tuo capolavoro?”

Sherlock scosse la testa.

“Non ancora. Quando saranno finiti anche gli altri, non prima. Me lo prometti?”

Lo guardò con il suo solito sguardo da cucciolo, quello che usava quando voleva ottenere a tutti i costi qualcosa e John non seppe resistere.

“Va bene! Va bene! Sempre circondato dal mistero, eh?” chiese scherzosamente “Penso che andrò a dormire” aggiunse poi, mettendo da parte il libro che stava leggendo. In quell'istante Sherlock reagì.

Posò l'album di disegni al suo fianco e si alzò. In due passi raggiunse John e si sedette a cavalcioni sulle sue gambe poi, senza preavviso, lo baciò.

Un bacio dapprima casto, poi sempre più audace. Se prima lo sfiorava solo con le labbra, cominciò a esplorare la sua bocca con la lingua, sperando di indurlo ad aprirla.

John, che era rimasto interdetto per quel gesto così inatteso, lo assecondò e lo circondò con le braccia, attirandolo a sé. Sentì le reciproche eccitazioni incontrarsi al cavallo dei pantaloni e la cosa lo fece fremere di piacere.

Le loro lingue si rincorrevano e giocavano, regalando ad entrambi momenti di puro godimento. Non solo ciò che stavano facendo era bello, ma lo stavano provando con la persona amata.

Fu John, questa volta, a staccarsi.

“Non va bene, Sherlock, non va ...”

Il detective lo zittì con un altro bacio e continuò a dargliene altri sul viso tra una parola e l'altra.

“Non sono più il piccolo Sherlock al quale raccontavi le fiabe. Sono un adulto che ti ama e ti desidera. Lascia stare il passato... è un bellissimo passato ma deve rimanere tale. Pensa solamente a quanto ci siamo sempre voluti bene e ora …”

Lo baciò con maggiore passione e andò a sfiorargli i pantaloni.

“Ora mi sento pronto, Jawn. Mi sento pronto per questo. Ho capito che non posso rinunciare a te e che ti amo”

Il cuore di John perse un battito sentendo quelle parole. Non solo gli stava dichiarando i propri sentimenti, ma gli stava dicendo che voleva sperimentare con lui anche qualcosa di più fisico.

Non se lo fece ripetere due volte e, continuando a baciarlo, iniziò a sbottonargli la camicia.

“Anch'io ti desidero, Sherlock... Ti desidero come non ho mai desiderato nessuno”

Sherlock sospirò sentendo le dita di John insinuarsi sotto la sua camicia e toccare la pelle. Era estremamente delicato, ma anche molto sensuale, così fece altrettanto con la camicia di lui.

Si spogliarono lentamente, assaporando ogni gesto.

Si erano già visti reciprocamente nudi. Sherlock girava seminudo per casa con una disinvoltura invidiabile ed entrava in bagno mentre John faceva la doccia, ma quella volta c'era qualcosa di diverso.

Si stavano esplorando l'un l'altro, toccandosi e baciandosi in carezze sempre più audaci. Ci volle molto tempo perché anche l'ultimo strato di vestiti venisse adagiato sul pavimento.

Sherlock era magrissimo ma ben proporzionato, mentre John esibiva i muscoli sviluppati durante la sua permanenza nell'esercito.

Sembrava che i loro corpi non aspettassero altro. Avevano preso il sopravvento sulle menti dei loro proprietari e si muovevano come in una danza perfettamente coreografata.

Si sfioravano con tutta la pelle. Sherlock strusciò il viso su tutto il corpo di John come un gatto che fa le fusa, facendogli il solletico con i capelli.

A quel punto John non seppe più resistere. Afferrò con le mani le loro eccitazioni e le fece strofinare. Quel semplice tocco bastò per farlo gemere dal piacere e anche Sherlock espresse a voce ciò che provava. La voce baritonale del detective era ancora più eccitante e John sentì che non avrebbe resistito a lungo.

“Sherlock, ti prego … Non così … Io non ce la faccio ...”

A quella richiesta di pietà, Sherlock sorrise e si alzò per andare in cucina. Tornò dopo qualche istante con la bottiglia dell'olio e si avvicinò malizioso al dottore.

 

 

 

 

 

Martha Hudson si era sempre considerata una donna di ampie vedute. Non si scandalizzava quando guardava le scene di sesso nei film e si commuoveva quando vedeva due uomini o due donne scambiarsi effusioni amorose in pubblico. Era perfino scesa in strada quando era passato il gay pride, ma quando spense la televisione per andare a dormire, arrossì.

Era stata molto in ansia per il destino dei due uomini, soprattutto da quando John se n'era andato senza dirle il perché ma ora, soprattutto sentendo i rumori sospetti che provenivano dall'appartamento al piano di sopra, capì che era perfettamente guarito.

Sentì la voce di Sherlock anche da lì e, in misura minore, quella di John. Ciò che la turbava di più, però, fu il rumore sordo e regolare della poltrona che sbatteva sul pavimento di legno.

Dopo l'iniziale imbarazzo si mise a ridacchiare.

Finalmente quei due si erano decisi, sopratutto quel bambino cresciuto che era Sherlock.

Abituata com'era ai rumori molesti provenienti da quel piano, anche se di solito erano costituiti dagli spari contro la parete, prese gli immancabili tappi per le orecchie dal comodino e andò in camera sua per prepararsi per la notte.

 

 

 

 

 

Si fermarono con il fiato corto, come se avessero corso dieci chilometri.

“Non amo lo sport fine a sé stesso, Jawn. Dovresti saperlo ormai”

“Lo so... ma in questo caso potresti fare un'eccezione, non credi?”

“Sì ...” rispose ansimando “Potrei … potrei … Jawn?”

“Dimmi, Sherly ...”

“Ti amo”

John sorrise e prese senza guardarla la coperta dal divano. Erano entrambi sporchi, ma non voleva interrompere quel contatto. La stanza era riscaldata dal tepore delle braci nel caminetto, ma preferì coprirsi. Lo cinse in un abbraccio di pail e gli fece appoggiare la testa al suo petto.

“Ti amo anch'io” rispose e lo baciò sulla testa, come faceva quando gli rimboccava le coperte, ma ormai Sherlock dormiva, sfiancato da tutta quell'attività fisica. Lo annusò. Sapeva di sapone di marsiglia, caffé e sudore. Un mix strano che gli piacque. Gli piaceva l'odore del suo sudore, soprattutto perché sapeva da cosa derivava.

Chiuse gli occhi.

Non aveva mai sperimentato una felicità più intensa né un piacere più appagante, con nessuno.

Finalmente ciò che aveva sempre provato per Sherlock era sbocciato e non avrebbe potuto avere un profumo migliore.

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Capitolo 18
*** Malattia ***


Sono tornata dopo tanto tempo, ma penso mi perdonerete, visto che ho in cantiere almeno altri tre capitoli! Cosa altro dire? Buona lettura!

 

Mini

 

 

 

Malattia

 

 

 

Il tempo non era stato clemente quella settimana. Aveva continuato a piovere per giorni e giorni e alla fine John era stato costretto a permettere a Sherlock di uscire anche con quel tempo.

Non che a lui servisse l'autorizzazione per farlo, ma se lo avesse fatto senza il consenso del medico, probabilmente quest'ultimo gli avrebbe tenuto il muso per molto tempo e non voleva rischiare.

Quella sera pioveva più forte del solito e faceva molto freddo.

Il corpo era stato trovato da un operaio in un cantiere edile. Gli uomini di Scotland Yard avrebbero dovuto fare immediatamente un sopralluogo e cercare eventuali indizi, ma il maltempo li fermò.

Sherlock, arrabbiato e impaziente, andò a vedere da solo la scena del crimine.

Raccogliere gli indizi prima che andassero persi fu di fondamentale importanza. Molte impronte, prontamente fotografate da Sherlock, e i resti di un biglietto scritto dall'assassino, che altrimenti sarebbero andati perduti, furono fondamentali per l'arresto del colpevole.

Il caso fu chiuso nel giro di poche ore e stavolta nessuno degli yarders ebbe nulla da ridire a Sherlock. Si erano in effetti comportati in modo poco professionale e se non fosse stato per il consulente detective non avrebbero risolto il caso.

Tennero Sherlock in centrale per due ore, senza preoccuparsi del fatto che fosse bagnato fradicio. Ciò che gli premeva era avere tutte le informazioni sul caso e lui, eccitato come non mai, non aveva protestato. Aveva fatto sfoggio delle sue capacità, spiegando ogni indizio che era riuscito a trovare.

Quando finalmente tutto fu chiarito tornò a casa, prendendo altra pioggia. Quando arrivò al 221 B di Baker Street era nuovamente bagnato come un pulcino e tremava. John lo vide scendere dal taxi in tali condizioni e lo accolse con un asciugamano.

“Ora tu vai a farti un bagno caldo, va bene?” gli disse frizionandogli i capelli “Poi mi spiegherai come hai fatto a ridurti così! Non avevi un ombrello?”

“Come potevo tenere l'ombrello e cercare gli indizi, John?” domandò lui, scandalizzato “Certe volte fai delle domande proprio ...”

Non riuscì a proseguire perché fu colto da un improvviso attacco di tosse.

“ … proprio?” domandò John, divertito e intenerito da quell'interruzione.

“Lascia perdere” rispose Sherlock “Vado a farmi un bagno”

Prese l'asciugamano e si allontanò. Pochi minuti dopo John sentì lo scrosciare dell'acqua nella vasca e, dopo un po', il rumore del corpo di Sherlock che si immergeva. Avrebbe voluto raggiungerlo e fargli compagnia, ma preferì occuparsi della cena. Preparò del brodo, verdura cotta e carne e servì tutto nel tavolino vicino al caminetto, per fare in modo che Sherlock non stesse troppo al freddo.

Quando mezz'ora dopo lo sentì uscire dal bagno tirò un sospiro di sollievo. Sperò di vederlo entrare in salotto trionfante, con il suo solito sorriso e lo svolazzo della sua vestaglia rossa, ma non accadde. Era vestito sì con il pigiama e la veste da camera, ma sembrava un morto. Avanzò lentamente e si raggomitolò sulla sua poltrona di pelle, tremando come una foglia. Era rosso in viso e quando John gli sfiorò la fronte, sentì che scottava parecchio.

“Sherlock … hai la febbre!” disse preoccupato e gli passò il piatto con la minestra “Ora siediti composto e mangia, ti farà bene”

“Non ho fame” rispose lui debolmente, ma fece come gli era stato ordinato, mentre John andava a prendere il termometro.

Riuscì a finire tutta la minestra e a mangiare qualche boccone di carne e verdura, interrompendosi spesso per tossire. Quando John gli misurò la temperatura risultò molto alta, oltre i 38 ° C.

“Sherlock … l'hai pagata per l'ultima uscita” disse John rimettendo via il termometro e prendendo lo stetoscopio “Solleva la maglietta, avanti”

“Non ho nulla...” cercò di difendersi lui “Davvero ...”

“Chi è il dottore, tra di noi?” gli ricordò John severo “Ora obbedisci, avanti”

Sherlock sospirò, si sfilò la veste da camera e sollevò la maglietta sulla schiena per permettere a John di auscultargli i polmoni. Non fu necessario chiedergli di tossire, perché non faceva altro da quando era uscito dal bagno.

“Hai preso una bella influenza” disse John riponendo lo stetoscopio nella sua borsa “Ora vai subito a dormire. Ti porterò qualcosa per far abbassare la febbre e uno sciroppo per la tosse”

Sherlock si rivestì e andò in camera, camminando debolmente, sotto lo sguardo preoccupato di John, che sperava ardentemente che si trattasse di semplice influenza.

 

 

I giorni seguenti Sherlock peggiorò. Tossiva continuamente e John fu costretto a iniettargli della morfina per farlo dormire. La tosse e la febbre non accennavano a diminuire, anzi sembravano peggiorare di ora in ora.

Per fortuna non arrivarono né chiamate da Scotland Yard ne clienti al loro appartamento e di ciò John fu grato perché Sherlock, pur stando a riposo, non riusciva a dormire bene a causa della febbre e della tosse e non accennava a migliorare.

Una mattina, improvvisamente, due settimane dopo, si alzò dal letto con un colorito promettente sul viso. Andò a raggomitolarsi vicino al fuoco e bevve a piccoli sorsi il tè che John gli aveva preparato. La febbre era scesa di qualche linea e anche la tosse sembrava calata.

“Ottimo!” disse John “Ancora qualche giorno a letto e passerà tutto!”

Sherlock sorrise debolmente tra un colpo di tosse e l'altro, ma in quel momento gli arrivò un SMS da parte di Lestrade. Lo aspettava in centrale per un nuovo caso. Stava per rispondere di sì, ma John gli prese il cellulare dalle mani, lesse il messaggio ricevuto, la risposta, e di venne rosso per la rabbia.

“Non se ne parla nemmeno!” ruggì “Stai ancora male. Stai migliorando, è vero, ma se uscissi ora sarebbe peggio! SHERLOCK!”

Il detective non l'aveva minimamente ascoltato. Era corso in camera sua, si era vestito in fretta e furia ed era uscito. John era furente, ma lo seguì ugualmente. Non sapeva cosa poteva succedere se si fosse sentito male per strada. Lo raggiunse giusto in tempo, prima che salisse sul taxi.

“Mi spieghi perché non puoi stare a casa? Se la caveranno anche senza di te!”

“Sì, certo ...” disse tossendo “Hai letto cosa mi ha scritto Lestrade? Un caso simile non posso perderlo … e quegli stupidi non capirebbero mai ...”

Tossì più forte e rinunciò a finire la frase.

“Stai male, devi renderti conto che anche il tuo corpo ha dei limiti! Non puoi farti del male così!”

Sherlock non rispose, tormentato da attacchi di tosse sempre più ravvicinati.

“Ecco! Hai visto?” gli domandò John mentre scendevano dal taxi ed entravano a Scotland Yard “Stai peggiorando!”

Sherlock fece qualche passo più lungo per distanziarlo, poi si girò e lo guardò con rabbia.

“Stai zitto! Per piacere stai zitto! Sei stressante!”

Restò ad osservarlo con intenzione per qualche istante, poi entrò in centrale, seguito dall'amico che sospirava amaramente.

 

 

Quando entrarono trovarono subito Lestrade e Donovan ad attenderli.

“Era ora, Geniaccio. Ti sei fatto vedere! Ci hai degnato della tua ...”

Non riuscì a finire la frase perché Lestrade si parò davanti a lei. Aveva notato il pallore inusuale di Sherlock.

“Sherlock … ti senti bene?”

In risposta Sherlock tossì.

“Sono qui, no?” disse poi, riemergendo da un attacco di tosse particolarmente forte “Cosa succede?”

A quel punto John si arrabbiò sul serio.

“Non dovresti essere qui! Sei malato, Sherlock! Non puoi girare per Londra come se nulla fosse!”

Lestrade annuì.

“John ha ragione. Ce la caveremo anche senza di te, Sherlock. Puoi andare a casa a riposare”

Gli posò una mano sulla spalla e gli fece l'occhiolino, ma lui si ribellò, guardandolo con occhi spiritati e febbricitanti.

“No! Sto bene! Come ve lo devo dire? Sto beniss ...”

Un violento colpo di tosse lo interruppe, seguito da altri.

“Vi ho detto che sto bene. Ho solo un po' di tosse, tutto qui!”

Si sistemò meglio la sciarpa e si schiarì la voce.

“Diceva, Lestrade? Cosa è successo?”

Lestrade guardò John stupito e quest'ultimo scosse la testa.

“Per due settimane hai avuto la febbre alta e solo oggi sei un po' migliorato … non vorrai fare un passo avanti e due indietro, vero? Hai sentito cos'ha detto Greg, se la caveranno anche senza di te!” lo prese per un braccio e tirò “La tua tosse sta peggiorando, perciò smettila di fare il bambino capriccioso e vieni a casa!”

Parlò con voce autoritaria, ma Sherlock si divincolò dalla presa.

Sembrava che stesse per ribattere, invece proruppe in un violento attacco di tosse. Si girò e si piegò in due, tramortito da tutta quella violenza che lo scuoteva. Si appoggiò con tutto il peso del corpo ad una scrivania mentre con la mano libera si copriva la bocca, i colpi di tosse sempre più violenti e dolorosi. Gli sembrava che i polmoni stessero prendendo fuoco.

John gli andò accanto e gli carezzò la schiena, più preoccupato che mai.

“Sherlock … hai visto? Devi starmi a sentire … tu ...”

La voce gli morì in gola quando vide la mano dell'amico macchiata di sangue. Sherlock tossì ancora e un altro spruzzo di vermiglio andò a macchiargli la mano candida.

“Sherlock! Cosa ...” In quel momento capì.

Era stato cieco, non aveva voluto vedere o, meglio, ricordare. Aveva cresciuto Sherlock, sapeva che era cagionevole di salute e che quello che l'aveva colpito non era una semplice influenza ma qualcosa di ben più grave, e lui doveva saperlo.

“Sherlock … perché non mi hai detto niente, brutto stupido!” lo rimproverò John, reprimendo le lacrime “Perché …?”

Lo afferrò per le spalle e lo scosse forte, come se potesse fargli uscire la risposta.

Sally si avvicinò a John.

“Sappiamo tutti che è un idiota per certe cose” lo rassicurò lei “Ma è davvero così grave?” domandò poi, guardando preoccupata il detective che, nel frattempo, non aveva smesso di tossire.

“Pensavo fosse influenza!” esclamò John, disperato “Speravo fosse solo influenza! Dobbiamo portarlo immediatamente in ospedale!” ruggì.

Sherlock, con un incredibile forza di volontà, si rialzò e prese un fazzoletto dall'interno della giacca per pulirsi dal sangue.

“È solo un po' di tosse” disse lui, guardandolo con rabbia “Mi passerà!”

La sua voce era gracchiante e ruvida, sembrava che avesse mangiato carta vetrata. Si sistemò meglio la sciarpa e fissò Lestrade.

“Dunque? Vuole dirmi cosa è successo? Non ho ancora imparato a leggere nel pensiero!”

Lestrade sospirò e guardò le carte che teneva sopra la scrivania con la coda dell'occhio. Sherlock sembrava abbastanza in forma, ma la crisi di tosse e il sangue che aveva visto sulla sua mano lo avevano spaventato e anche Sally sembrava preoccupata.

“Sherlock … le disse sorridendo incoraggiate “Non è un caso così complesso, davvero ...”

Esitò un attimo, vedendo lo sguardo incredulo di Sherlock, si schiarì la voce e proseguì.

“ ...Volevo dire che non è un caso per il quale tu debba muoverti più di tanto. Più che altro si tratta di confrontare alcuni vecchi documenti, controllare alcuni conti … niente di che … potresti farlo anche a casa, se volessi ...”

Guardò Lestrade, che le sorrise, incitandola ad andare avanti.

“Possiamo farti controllare questi ...” andò alla scrivania e prese un plico e glielo porse.

Sherlock lo osservò a lungo e sorrise. Era proprio ciò di cui aveva bisogno. Si trattava di alcuni resoconti di autopsie effettuate diversi anni prima. Allargò il sorriso, sfogliando i documenti.

“Molto bene” disse con voce ruvida “Non mi sembra di aver bisogno di andare al Barts... a casa ho già tutto quello di cui ho bisogno e ...”

“Non se ne parla, Sherlock!” lo sgridò John, cercando di prendergli le carte dalle mani“Tu devi andare subito al Barts, sai benissimo che è urgente! Stai troppo male e voi” aggiunse guardando male Donovan e Lestrade “Non incoraggiatelo. Ha bisogno di essere ricoverato in ospedale, immediatamente!”

Sherlock si divincolò dalla presa dell'amico e si girò su sé stesso.

“Idiozie!” gracchiò, impallidendo per l'ira “Lestrade, le farò sapere presto qualcosa. Arrivederci!”

Era veramente arrabbiato. John sapeva che era la malattia a parlare e sospirò, pensando che, con un po' di fortuna, sarebbe riuscito a curare Sherlock anche al 221 B, ma era ugualmente in ansia.

Sherlock era già uscito a grandi passi dalla stanza e John si stava avviando, quando sentirono il detective tossire ancora più forte rispetto a prima e un tonfo.

Si precipitarono fuori e lo videro riverso sul pavimento. Le labbra erano macchiate di nuovo sangue, tremava e tossiva sommessamente.

John gli si avvicinò piano e gli sentì il polso. Era svenuto.

“È molto debole, dobbiamo portarlo subito all'ospedale!” disse, respirando affannosamente per l'ansia e la preoccupazione.

Sally, al suo fianco, era paralizzata dal terrore e fu Lestrade ad aiutarlo a sollevarlo.

“Cosa succede, John? Non è influenza? Anche prima ha tossito sangue … cos'ha?”

John si morse un labbro mentre, telefono in mano, aspettava che il pronto soccorso rispondesse “Polmonite”

 

 

L'ambulanza arrivò dieci minuti dopo. Sherlock, che nel frattempo aveva ripreso conoscenza, aveva smesso di lottare contro le cure di John ed era diventato estremamente docile.

“Mi dispiace, John ...” disse con un debole sussurro “Mi dispiace ...”

John gli posò un dito sulle labbra.

“Zitto” lo sgridò “Sei troppo debole e stupido per parlare”

Sherlock rise debolmente e chiuse gli occhi e si concentrò sul respiro, che era stentato e interrotto da colpi di tosse.

Quando fu portato via dai paramedici, John insistette ed ottenne per salire con lui. Salutò Lestrade e Donovan velocemente, assicurandogli che li avrebbe tenuti informati.

Lo portarono in una stanza singola, ma John rifiutò l'aiuto dei medici. Volle occuparsi lui di Sherlock e ci riuscì. Il medico lo conosceva e decise che era la cosa migliore e lo lasciò fare. John si fece aiutare dalle infermiere per somministrargli le prime medicine, lo aiutò a infilare il pigiama e gli inserì la flebo.

Quelle poche ore lo avevano spossato, così Sherlock si lasciò andare alla stanchezza e, dopo qualche minuto, si addormentò profondamente.

John era disperato. Avrebbe dovuto capirlo prima, ma non aveva voluto. Non aveva ancora recuperato tutti i ricordi del suo passato. Un qualche meccanismo nel suo cervello lo aveva protetto da quelli brutti. Tra questi c'erano le malattie di Sherlock.

Non era la prima volta che si ammalava di polmonite e John lo aveva spesso assistito durante la malattia. Erano stati momenti di estremo terrore per lui perché aveva paura di poterlo perdere, ma dopo l'amnesia aveva rimosso quei ricordi e non era ancora riuscito a farli riemergere.

In quel momento lo travolsero come un caterpillar. Si raggomitolo sulla poltrona nella stanza d'ospedale di Sherlock, mandò un SMS a Sarah per spiegarle la situazione e sperò di potersi rilassare, sperando che tutto andasse bene e che Sherlock guarisse.

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Capitolo 19
*** Il mio peggior incubo ***


Avete voluto che continuassi con la storia? Bene! Mi avete provocata e questo è il risultato!

Ho imparato da Moffat e Gatiss, perciò soffrirete …. soffrirete moltissimo! *risata diabolica lunghissima*

 

Padma: Mini, chiamo il ristorante e dico che arriveremo in ritardo?

 

Padmini: Bwahahahaha – sì, grazie – Bwahahahahaha ….

 

 

(citazione da Rat Man, “Il signore dei Ratti”)

 

 

 

 

 

Il mio peggior incubo

 

 

 

 

 

22 anni prima

 

Era stato un inverno particolarmente freddo. Non aveva nevicato ma la temperatura era scesa molto sotto lo zero. Sherlock voleva uscire a giocare, ma la mamma glielo aveva proibito, faceva troppo freddo.

Lui, testardo come al solito, aveva iniziato a battere i piedi a terra, ad offendere la madre dandole della stupida e della rompiscatole. A quel punto Violet non aveva trovato altra soluzione se non quella di rinchiuderlo in camera sua finché non si fosse calmato.

Sherlock si era arrampicato sul divanetto posizionato sotto la finestra e, inginocchiato, sognava di poter uscire. Saltò giù dal divanetto e andò alla porta. Era chiusa a chiave. Cercò inutilmente di aprirla, ma era tutto inutile. Sbuffò scocciato e diede un calcio allo zaino di scuola.

John era occupato a studiare e non poteva andare a giocare con lui. Si annoiava da star male.

Giusto davanti alla sua camera cresceva un grande albero. Gli sarebbe bastato fare un piccolo salto per poter raggiungere il ramo più grosso e, da lì, saltare di ramo in ramo e raggiungere il giardino. La madre era troppo occupata con i lavori domestici e non si sarebbe certo accorta della sua assenza. Indossò la sua giacca, i guanti e la sciarpa e aprì delicatamente la finestra, cercando di non fare rumore. Si arrampicò sul balcone e valutò la distanza tra lui e il ramo. Con un salto ce l'avrebbe fatta. Si inginocchiò e, dandosi una bella spinta, saltò sul ramo. Ce la fece per un pelo. Si tenne con entrambe le braccia e riuscì a sedersi a cavalcioni. Il primo passo era fatto. Ora bastava raggiungere il suolo. Era più alto del previsto e gli girò un po' la testa, ma guardando in basso riuscì a individuare ottimi appigli per scendere e, più tardi, risalire.

Rischiando di cadere, riuscì in qualche modo a scendere dall'albero e atterrò fiero e soddisfatto su un cumulo di foglie secche. Si guardò attorno. Non c'era anima viva.

Corse veloce verso il cancello e uscì dal buchino che conosceva solo lui, direzione Regents Park.

 

 

Restò fuori casa per due ore buone. Corse lungo i viali alberati del parco, inseguì gli scoiattoli e fece volare gli aironi. Si divertiva come un matto, anche se non c'era John. La sola idea di disobbedire, di fare il pirata, lo riempiva di gioia e di orgoglio. Era sfuggito alla prigionia della madre e ora si godeva la sua libertà.

Nonostante la follia, rimaneva un bambino molto furbo, perciò tenne sempre d'occhio l'ora, per evitare che la madre lo scoprisse fuori di casa. Stava per rientrare, quando arrivò il primo colpo di tosse. Non ci fece caso e trotterellò fino a casa allegro come sempre.

Se tutto fosse andato come aveva previsto, non avrebbero scoperto nulla, ma non aveva fatto i conti con Mycroft. Il fratello maggiore tornava proprio in quel momento da un pomeriggio in casa di un amico, a cui aveva dato ripetizioni di matematica.

Entrò in giardino proprio mentre Sherlock si apprestava ad arrampicare l'albero. Il fatto che il fratellino si comportasse in modo così strano lo insospettì, ma non disse nulla. Entrò in casa e permise al piccolo di continuare i suoi giochi.

 

 

Trascorsero un paio di giorni. Sherlock ogni tanto tossiva, ma erano sfoghi momentanei, nulla di cui preoccuparsi. La notte del secondo giorno, però, qualcosa cominciò a muoversi. Sherlock non riusciva a prendere sonno. I colpi di tosse erano diventati sempre più frequenti e lo tormentavano incessantemente, nonostante lui cercasse di tenerli nascosti.

I signori Holmes dormivano pacificamente, ma quando Violet si svegliò per andare in bagno, sentì il malessere del figlio e corse immediatamente in camera sua. Sherlock era a letto, raggomitolato e tremante, tossiva convulsamente. Gli andò vicino e gli posò una mano sulla fronte. Scottava.

Sherlock ...” sussurrò Violet preoccupata “Hai la febbre … com'è successo, signorino?”

Era veramente in ansia. Sherlock non era uscito se non per andare a scuola e in quei casi si era sempre premurata che non prendesse freddo. Si allontanò per andare a prendere il termometro e gli misurò la temperatura. Era superiore ai 38 ° C. Violet guardò spaesata il figlio, che nel frattempo aveva iniziato a respirare sempre più affannosamente, tormentato dalla tosse.

Sherlock ...” sussurrò nuovamente “Cosa ti è successo?”

Il bambino non rispose, ma qualcun altro lo fece per lui.

È uscito qualche giorno fa, di nascosto” disse Mycroft, entrando nella stanza con le braccia incrociate al petto “Per questo ha preso freddo”

Violet guardò il figlio furente.

Quel che dice tuo fratello è vero?” chiese, cercando di non sembrare troppo arrabbiata, per non spaventarlo.

Non è vero!!” mentì il piccolo, tra un colpo di tosse e l'altro “Sei un bugiardo, My, un bugiardo cattivo!”

Il ragazzo sospirò ma non si arrabbiò per le offese ricevute. Portava molta pazienza con il fratellino e gli voleva molto bene, anche se ultimamente si era parecchio ingelosito per il suo rapporto con John.

Ti ho visto arrampicarti sull'albero di fronte a camera tua per rientrare di nascosto” spiegò Mycroft “Non ho detto nulla perché volevo che la tua piccola avventura rimanesse segreta, ma ora mi vedo costretto a dire la verità”

Violet guardò Sherlock preoccupata. In quel momento aveva altri pensieri e non lo sgridò. Sherlock era sempre stato cagionevole di salute, anche a causa del fatto che era nato prematuro di quasi un mese. I medici le avevano detto che avrebbe potuto avere dei problemi ai polmoni, anche se al momento della nascita sembrava tutto a posto.

Si alzò e andò a guardare fuori dalla finestra. Non se la sentiva di spostarlo. La notte era troppo fredda e si era alzato un venticello gelido che aveva portato con sé alcune gocce di pioggia.

Si alzò dal letto e posò una mano sulla spalla del figlio maggiore.

Pensa tu a tuo fratello. Io vado a chiamare il medico”

Mycroft prese il posto della madre affianco al fratellino e lo carezzò piano sulla testa.

Perché l'hai fatto, My?” chiese Sherlock, sull'orlo delle lacrime “Perché hai fatto la spia?”

L'avrebbe scoperto lo stesso, piccolo ...” gli rispose lui “Ora stai male, pensa solo a guarire, ok?”

Sherlock tenne il muso per qualche istante, poi si rilassò e annuì debolmente.

 

 

Il medico arrivò dopo poco tempo e visitò Sherlock con attenzione. Il responso fu polmonite, non troppo grave per sua fortuna. Prescrisse degli antibiotici e se ne andò, assicurandosi che lo avrebbero chiamato in caso di bisogno.

Il giorno seguente arrivò John. Violet gli spiegò lo stato di salute di Sherlock e che presto sarebbe guarito. John entrò nella stanza di Sherlock in punta di piedi, quasi intimorito dal silenzio che regnava lì. Solitamente il bambino gli sarebbe saltato al collo ridendo e raccontandogli le sue ultime avventure. Quel giorno giaceva inerme a letto, scosso ogni tanto da tenui colpi di tosse.

Buongiorno mio Capitano” sussurrò avvicinandosi al letto “Come sta oggi?”

Sto bene!” rispose Sherlock, ma un colpo di tosse lo smentì “Sto quasi bene!” si corresse poi ridendo “Però ora che ci sei tu qui con me sto meglio!”

John rise e si sedette accanto a lui per coccolarlo.

Sherlock restò a letto per due settimane piene e poté alzarsi solo all'inizio della terza, anche se non era completamente guarito. La febbre era scesa ma non passata del tutto e gli restava ancora un po' di tosse, ma anche quella svanì nel giro di pochi giorni.

John gli era sempre stato vicino ed era lì anche per l'ultima visita del dottore.

Quel giorno pioveva a dirotto e Violet non se l'era sentita di portare il figlio in ambulatorio, preferendo far venire lì il medico, che naturalmente si era trovato d'accordo con lei.

Lo visitò a lungo e quando si ritenne soddisfatto uscì dalla stanza e si congedò.

 

 

Il tempo passò e Sherlock aveva ormai 12 anni. Anche se quell'inverno non era stato particolarmente rigido, ancora una volta si ritrovò a letto, con la febbre alta e i polmoni infiammati.

John, come al solito, era con lui, più preoccupato che mai, mentre osservava il medico che lo visitava. Anche lui sarebbe diventato un medico e osservò ogni mossa del suo futuro collega con attenzione, soprattutto perché si trattava di Sherlock.

L'uomo gli auscultò i polmoni, gli misurò la temperatura e la pressione del sangue, poi si alzò sospirando e scuotendo la testa. Si rese immediatamente conto di quella reazione involontaria e si affrettò a sorridere, per non spaventare il bambino.

Guarirai” gli disse, senza troppa convinzione nella voce. Salutò John con un cenno del capo e uscì dalla stanza, per andare a parlare con Violet.

John, che aveva colto quel momento di sconforto da parte del dottore, lo seguì silenziosamente, dopo essersi assicurato che Sherlock fosse ben coperto.

Violet era in cucina. Piangeva piano. Forse si aspettava brutte notizie. Il medico la raggiunse e le posò una mano sulla spalla.

Signora Holmes, devo parlarle … penso sappia cosa sto per dirle, no?”

Violet non rispose ma si limitò ad asciugarsi una lacrima con il dorso della mano.

Suo figlio, Signora Holmes, è molto debole. Ormai in questi ultimi anni è stato vittima di infezioni ai polmoni diverse volte … è sempre guarito, ma non so se riuscirà a diventare adulto … se continuerà così, morirà nel giro di pochi anni o peggio … probabilmente non supererà questo inverno ...”

Violet scoppiò a piangere. John aveva ascoltato tutto con il terrore che pian piano gli saliva sulla schiena. Non poteva essere … non poteva … Corse a grandi passi verso la camera di Sherlock.

Aveva gli occhi chiusi e respirava appena. Si avvicinò a lui. Gli carezzò la fronte rovente mentre con la mano libera andava a prendere il fazzoletto nella bacinella d'acqua fredda. Lo strizzò e glielo posò sul viso, per fargli sentire un po' di refrigerio. Sherlock tremò sotto la stoffa bagnata e fu la sua unica reazione. John temeva di poterlo perdere, magari proprio sotto i suoi stessi occhi, magari di lì a qualche istante. Calde lacrime gli scivolarono sul viso e andarono ad abbattersi sul corpicino del bimbo. Quando una di queste lambì la mano tremante del malato, questi aprì dolcemente gli occhi.

Guarirò, Jawn” disse con voce debole, rotta ogni tanto da un colpo di tosse “Devo guarire, altrimenti la mia ciurma sarebbe persa senza di me!” rise piano e cercò di alzarsi, ma John glielo impedì posando la mano sul suo petto.

Piano, Sherly, piano ...” gli sussurrò asciugandosi le lacrime con il dorso della mano “Stai ancora troppo male per alzarti”

Sto male ora” lo assicurò lui “Ma presto guarirò. Non mi importa cosa pensa il dottore”

John lo guardò a bocca aperta, ma Sherlock proseguì.

So che il dottore pensa che morirò” disse serio, togliendosi il fazzoletto ormai caldo dalla fronte “Ma io non posso morire, non voglio. Non so cosa farò da grande, ma so che sarà qualcosa di importante, che mi renderà famoso. So che sono intelligente e le persone intelligenti possono fare tutto ciò che vogliono! Anche se non diventerò un pirata so che mi divertirò perché tu ...” gli sorrise “Tu sarai sempre con me, vero Jawn? Anche quando non avrò più bisogno di un babysitter?”

John, che stava maturando un inconscio sentimento d'amore per il piccolo, annuì scoppiando a piangere”

Ti starò sempre vicino, Sherlock. Sempre” rise tra le lacrime “Non ti abbandonerò mai … diventerò un dottore e ti curerò, qualsiasi cosa accada”

 

 

I giorni seguenti avvenne un vero e proprio miracolo. La forza di volontà di Sherlock andò contro qualsiasi pronostico e, dopo soli due giorni cominciò a migliorare. Due settimane dopo era perfettamente guarito e saltellava allegramente tra il letto e la poltrona dove John era seduto, ancora incredulo.

Hai visto, Jawn? Sono guarito! Sono guarito! Adesso non posso venire fuori a giocare, però quando farà più caldo andremo insieme al parco e inseguiremo gli scoiattoli e le papere, vero? Vero?”

John sorrise e si alzò per prendere un libro.

Vuoi che ti legga qualcosa?”

 

 

 

 

 

 

Erano passate diverse ore da quando avevano ricoverato Sherlock in ospedale. Da quando lo conosceva non aveva mai avuto una forma così grave di polmonite. Non riusciva a capacitarsi di non essersene reso conto prima. I sintomi c'erano tutti, ma come al solito Sherlock aveva cercato di minimizzare e lui gli era andato dietro, nascondendosi in una barriera di voluta cecità. Non poteva sopportare che quella malattia lo avesse colpito di nuovo. Lo osservò a lungo, seduto nella comoda poltrona della stanza. Il suo petto si alzava e si abbassava regolarmente, ma troppo lentamente. Posò il viso sulla mano aperta, cercando di rilassarsi, quando sentì un allarme. I macchinari segnavano evidenti problemi respiratori. Cercò di alzarsi, ma il terrore lo bloccava. Non sapeva cosa fare, sentiva che il suo cervello era offuscato dalla paura, così fece l'unica cosa sensata che gli venne in mente in quel momento. Chiamò aiuto.

Dopo qualche istante arrivarono un medico e un'infermiera, già attirati dall'allarme di macchinari, con il carrellino di emergenza. John fu gentilmente invitato ad aspettare fuori. Lo aiutarono ad alzarsi e lo spinsero con decisa cortesia in corridoio. La porta si chiuse davanti al suo naso … e al suo cuore.

 

 

Era passata una settimana da quel giorno infernale. John non aveva visto come era successo, ma ricordava le voci delle infermiere e dei medici ovattate dalle pareti che lo dividevano da Sherlock in quel momento. Erano voci concitate, cariche di ansia e preoccupazione. Per un momento gli era sembrato che si stessero rilassando e anche i rumori dei macchinari si erano fatti più regolari, ma la speranza fu presto sostituita da nuova ansia. Il suono intermittente dell'elettrocardiogramma si era fatto improvvisamente acuto e penetrante. Era entrato nell'udito di John come un trapano, assordandolo. Aveva sentito il primario chiamare a gran voce un defibrillatore, il rumore acuto dell'elettricità che andava a caricare le piastre e poi quello secco della scarica sul petto di Sherlock. Una, due, tre volte i medici provarono a rianimarlo, ma ormai non c'era più nulla da fare.

Il suono lungo e doloroso dell'elettrocardiogramma piatto gli aveva trafitto il cuore come una lancia.

Ora si trovava di nuovo lì, di fronte alla lapide nera e lucida con inciso il nome del suo migliore amico, del suo amante, dell'uomo che amava: Sherlock Holmes.

Gli sembrò di tornare indietro nel tempo, a ormai quasi quattro anni prima, quando piangeva al capezzale di quel bambino di dodici anni e poi, anni dopo, davanti alla stessa lapide e implorava per il miracolo. Stavolta il miracolo non sarebbe accaduto. Sherlock non era guarito, non si era rialzato da quel letto.

John tornò al 221 B, intenzionato a non rimetterci più piede. Troppi ricordi aleggiavano tra quelle mura e stavolta non sarebbe riuscito a conviverci. Decise di chiudere il suo cuore al passato in quelle stanze dove li aveva vissuti. Prese il cappotto di Sherlock e lo indossò per l'ultima volta. Accese il camino e aspettò che la fiamma si facesse abbastanza potente per poter bruciare quella stoffa e tutti i ricordi che portava con sé.

Si raggomitolò sulla poltrona di pelle di Sherlock e pianse a lungo finché, suo malgrado, si addormentò.

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Capitolo 20
*** Gli amici ti proteggono ***


Vi ho fatto prendere paura con il precedente capitolo, eh? *risata diabolica*

Bene … ora mi farò perdonare. Non dico altro.

Buona lettura.

 

Mini

 


 

 

 

Gli amici ti proteggono

 

 

 


 

 

 

 

“John … John … Jawn ...”

Qualcuno lo stava chiamando. Una voce lontana, indefinita, un eco … chi era? La signora Hudson? Lei non lo avrebbe mai chiamato Jawn … ma chi era, dunque?

Aprì lentamente gli occhi, sciogliendo le gambe e sedendosi meglio sulla poltrona e cercando di mettere a fuoco la stanza.

Non si trovava al 221 B di Baker Street. La poltrona su cui era seduto non era quella comoda e soffice di pelle di Sherlock, accanto a lui non ardeva il fuoco sul quale voleva bruciare il cappotto del suo migliore amico e che non indossava, in quel momento.

Si trovava seduto nella poltrona della stanza d'ospedale di Sherlock ed era proprio lui, steso sul letto, a chiamarlo.

Si alzò di scatto e gli corse incontro. Gli prese una mano e la baciò.

“Sei vivo! Sei vivo!” gridò, sull'orlo delle lacrime “Dio, ti ringrazio, sei vivo!”

Sherlock sorrise, tossendo piano.

“Perché dovrei essere morto, Jawn? Hai fatto un brutto sogno?”

Il detective capì che lo aveva spaventato a tal punto da trasmettergli addirittura un incubo. Si domandò cosa mai avesse potuto sognare, ma era chiaro.

“Ho sognato la tua lapide, Sherlock … la tua lapide nera …” disse senza riuscire a trattenere le lacrime “La tua stramaledettisima lapide nera ..”

Si inginocchiò accanto a lui e scoppiò in un pianto liberatorio.

Sherlock si sentì in colpa. Da quando era 'morto' aveva fatto soffrire John tante volte. Prima con il finto suicidio, poi quando era quasi morto per denutrizione e ora … la malattia. Quella volta però non poteva imputarsi tutte le colpe. Il suo fisico era già debole per costituzione ed era stato recentemente messo alla prova, quindi era abbastanza normale che non avesse retto all'influenza.

“Mi dispiace, Jawn …” gli disse carezzandogli la schiena “Io … starò più attento alla mia salute … non voglio che tu soffra a causa mia ...”

John calmò il pianto e sollevò la testa. Tra le lacrime spuntò un sorriso.

“Non è colpa tua, Sherlock. Sono io … io avrei dovuto accorgermi che stavi più male di quanto davi a credere … sono io il medico …” gli passò una mano sui capelli “Sono io che devo prendermi cura di te ...”

Sherlock sorrise, gli prese la mano e la baciò.

“ … e io di te ...”

Qualche lacrima cominciò a scivolare anche dagli occhi di Sherlock.

“Ti amo, Jawn … ti amo tanto ...” disse con voce roca, interrotta dalla tosse “Guarirò, Jawn. Devo guarire. Devo riuscirci ...” sorrise e gli strinse la mano “Ho pensato che quando andrò in pensione potrei comprare una casetta nel Sussex e allevare api. Verresti con me?” gli domandò, allargando il sorriso.

John non rispose subito. Un grosso nodo di emozioni gli stringeva la gola. Si limitò ad annuire e stringere a sua volta la mano dell'amico.

“Molto bene” continuò Sherlock chiudendo gli occhi “Visto che ormai te l'ho promesso, dovrò vivere per mantenere ciò che ho detto. Ora se non ti dispiace vorrei riposare. Mentre dormivi mi hanno fatto una serie di analisi e sono molto stanco … anche tu dovresti andare a casa. Torna domani …” aggiunse aprendo gli occhi per guardarlo “Ti aspetterò … ah! Portami anche il necessario per disegnare … so già che mi annoierò …” stava per dire 'a morte', ma si bloccò appena in tempo “ … tantissimo qui da solo”

John annuì alzandosi. Gli rimboccò le coperte e lo baciò sulla fronte, sul naso e poi sulle labbra.

“A domani, mio capitano”

 

 

I giorni passarono tutti uguali. John andava a trovare Sherlock ogni mattina e ogni sera, portandogli nuovi fogli bianchi da riempire e ammirando i disegni già fatti.

Sherlock disegnava tantissimo. Molto spesso riempiva i fogli di schizzi, dettagli che osservava nelle persone. Le mani delle infermiere, le boccette dei medicinali, i visi …

Quelli erano solo schizzi preparatori che usava per illustrare i racconti che John, nel tempo, aveva pubblicato nel suo blog. Erano disegni fatti molto bene, ben distanti dagli scarabocchi seppur molto espressivi che realizzava da piccolo.

Erano eleganti, dal tratto sottile ma espressivo. Ne realizzava due per ogni soggetto. Uno ricco di sfumature da tenere in bianco e nero e l'altro da completare, una volta tornato a casa, con gli acquarelli.

John lo osservava ed era sempre più felice di constatare che migliorava di giorno in giorno.

Nel giro di due settimane lo dimisero e poté tornare a Baker Street. Tornarono a casa a piedi, camminando lentamente perché Sherlock doveva riabituarsi a camminare, dopo tutto quel tempo passato a letto. Ne approfittò anche per ritemprare le sue capacità di osservazione, sussurrando all'orecchio di John ogni dettaglio che notava nelle persone che incontravano lungo la strada.

John cercava di mascherare le risate che le parole di Sherlock suscitavano in lui, con scarso risultato. Sherlock notava ogni dettaglio buffo, inquietante o imbarazzante con nonchalance incredibile. Finalmente erano tornati loro due. Il suo detective preferiti era guarito e, come al solito, lo divertiva con le sue deduzioni. Mancava solo una cosa.

John sentiva gli sguardi dei passanti su di loro. Erano estremamente famosi, sia per il lavoro di Sherlock che per il suo blog ed era normale che li riconoscessero, anche se Sherlock era così bello che si sarebbe attirato gli sguardi dei passanti anche senza essere famoso.

Il dottore ridacchiò come un adolescente alla prima cotta all'idea di ciò che stava per fare. Lo fermò, prendendolo per un braccio e lo fece abbassare quel tanto che bastava per poterlo baciare delicatamente sulle labbra. Chiuse gli occhi mentre le loro bocche si incontrarono, ma sorrise, beandosi della sensazione degli sguardi dei curiosi puntati su di loro.

“Jawn ...” disse Sherlock, arrossendo leggermente “Ora la gente parlerà ...”

“Lascia che parli” sussurrò John al suo orecchio “Noi abbiamo di meglio da fare ...”

Lo baciò sulla guancia e lo prese per mano, orgoglioso di mostrare al mondo intero chi era il suo fidanzato.

 

 

Passò un po' di tempo. Il maltempo continuava a imperversare su Londra. Sherlock, su ordine di John, se ne stava in casa quasi tutto il tempo. Ogni tanto, soprattutto durante le ore più calde e solo se il cielo era limpido, andavano insieme a fare una passeggiata, perché Sherlock non rimanesse troppo tempo al chiuso. Gli sequestrò il cellulare, per impedirgli di accettare un qualche caso da parte di Lestrade e mise un avviso sul blog. Nessuno avrebbe dovuto importunarlo per almeno due mesi. Ordine del medico.

L'indebolimento del suo fisico, dovuto sia al prolungato digiuno che alla polmonite, meritavano un lungo riposo e sapeva che Sherlock non sarebbe stato in grado di gestirlo da solo.

Stavano appunto passeggiando lungo Haymarket, quando sentirono il nome di Sherlock. Qualcuno lo stava chiamando, correndo disperatamente verso di loro.

“Sherlock! Sherlock!”

Era Lestrade.

“Finalmente ti trovo! Sono ore che ti chiamo al cellulare, ma lo trovavo sempre spento! Puoi venire con me?”

John lo guardò malissimo, assottigliando gli occhi.

“Si è chiesto perché Sherlock non rispondesse? Si ricorda quando ha sputato sangue a Scotland Yard? Perché sta male! Deve ancora riprendersi!” ringhiò “Sapevo che avremmo dovuto andare in Sussex! Lontano da qui e da voi!!”

Lestrade lo guardò basito, ma fu Sherlock a rompere il silenzio.

“Va bene, John. Sto bene. Oggi non fa molto freddo e mi sento bene. Posso dare un'occhiata alla scena del crimine ...” gli fece gli occhioni dolci da cucciolo.

John restò con il viso contratto per la rabbia qualche istante, poi si rilassò vendendo i suoi occhioni.

“Va bene!” disse infine “Ma solo mezz'oretta, non di più!”

“Ma guardatevi! Fate pena ...”

I tre uomini si girarono contemporaneamente. Era appena sopraggiunta Sally, che rideva scuotendo la testa in un malcelato gesto di condiscendenza.

“Prego?” domandò John, guardandola male.

“Chi sei, John? La sua babysitter? È un uomo adulto, non dovresti trattarlo come un bambino ma … evidentemente non è così, sbaglio?”

Si avvicinò a Sherlock e gli pizzicò una guancia tra due dita.

“Vero piccolo Sherly?”

Sherlock lasciò fare, con l'eleganza che lo contraddistingueva si allontanò da lei. John non fu della stessa opinione. Erano anni che desiderava dire a quella donna ciò che pensava di lei, soprattutto dopo la finta morte di Sherlock. In quel momento gli venne in mente la mocciosa che prendeva in giro Sherlock e la rabbia salì ulteriormente.

“Sì, sono stato il suo babysitter, quando era bambino. Penso che ti ricordi di me, vero? Ero quel John che veniva a prenderlo a scuola … eravate in classe insieme alle elementari e da allora non sei cambiata. Sei rimasta una bambina pettegola e cattiva e non ti devi permettere di parlargli così. È stato malato e ora io sono il suo medico curante. Non può stare fuori troppe ore al giorno altrimenti rischia una ricaduta. Quindi, se non vi dispiace, ora andiamo a casa e io prenoterò due biglietti per il Sussex … ci faremo una bella vacanza, lontani da voi incapaci!” sospirò e guardò l'ispettore” Perdonami, Greg, ciò che sto per dire non riguarda te” gli sorrise e si rivolse nuovamente alla donna “Vi lamentate sempre di Sherlock e lo prendete in giro, ma correte subito da lui appena c'è un problema, vero? Vergognatevi e imparate ad arrangiarvi o almeno non siate così ipocriti!!”

Ringhiò le ultime parole, con un rabbia che raramente aveva espresso. Prese un sorpreso Sherlock per un polso e lo trascinò via il più velocemente possibile, lasciando Lestrade sbalordito e Sally irritata al massimo, ma incapace di rispondere.

 

 

Rimasero in silenzio fino a quando tornarono a Baker Street. Sherlock si spogliò e si mise il più comodo pigiama e la vestaglia e tornò in soggiorno, di fronte al caminetto dove lo attendeva John. Era rosso in viso e sembrava a disagio. John lo raggiunse immediatamente e gli posò una mano sulla fronte.

“Non sembra che tu abbia la febbre, ma ...” fece qualche passo per prendere il termometro, ma Sherlock lo fermò, tenendolo per un braccio.

“Non ho la febbre, sto bene … sono solo ...” esitò, arrossendo ancora di più.

“Solo …?” domandò John, fermandosi incuriosito.

“Quello che hai detto a Sally …” gli regalò un sorriso pieno di gratitudine “Te ne sono grato”

John sospirò di sollievo.

“Te l'ho detto quella volta al Barts, Sherlock. Gli amici ti proteggono. Tu mi hai protetto quando hai finto di suicidarti ...” esitò, travolto dal dolore di quel ricordo, ma il sorriso di Sherlock lo fece rilassare “Questo è il minimo che io possa fare”

“Non è il minimo” lo corresse Sherlock ridendo “Fai tantissimo per me e io ...” esitò, leggermente a disagio “... vorrei riuscire a fare di più … per te ...”

John lo baciò sulle labbra e lo abbracciò.

“Sei vivo e mi ami … e questo è tanto, Sherlock. È tantissimo”

Lo abbracciò ancora, poi lo prese per mano e lo portò sul divano, dove lo fece sedere.

“Ti va se ci guardiamo un puntata di Dr Who?”

Sherlock annuì felice e si accomodò sul divano mentre John andava a prendere due tazze di tè, i loro biscotti preferiti al cioccolato e accendeva la TV, dove già c'era il DVD pronto.

Restarono accoccolati tutto il tempo, mangiando biscotti e bevendo tè.

Sherlock sapeva che da qualche parte a Londra c'era un assassino che aspettava solo di essere smascherato, ma in quel momento non gli interessava. Jawn era più importante di qualsiasi omicidio. Non c'era nulla che lo attraesse di più, in quel momento, di stare con John, con il suo Jawn. Il tè e i biscotti, uniti al suono della televisione, lo fecero addormentare.

John se ne accorse, così spense la televisione, indeciso su come comportarsi. Non sarebbe stato bello farlo addormentare sul divano, ma non si sentiva in grado di trasportarlo fino al suo letto. Ciò nonostante ci provò. Passò la mano sotto il suo collo e una sotto le ginocchia e cercò di sollevarsi.

Fu più facile del previsto. Era incredibilmente magro. Lo sollevò, pur con qualche difficoltà, e riuscì a trasportarlo fino al letto, dove lo fece atterrare bruscamente. Sherlock si mosse un po' nel sonno, ma non ebbe altre reazioni, così John lo coprì e si distese al suo fianco.

Si addormentarono abbracciati.

 

 

I preparativi per il viaggio in Sussex erano ormai terminati. Dopo qualche ora di treno arrivarono a destinazione, un tranquillo paesino vicino al mare. Sherlock era restio a partire, ma infine si fece convincere da John, il quale gli promise che, una volta tornati a casa, avrebbe potuto riprendere a lavorare come consulente detective.

Si erano appena sistemati e John stava giusto preparando il pranzo, quando sentirono suonare alla porta.

“Non è possibile ...” disse John disperato “Come hanno fatto a trovarci anche qui?”

“Tranquillo” disse Sherlock sorridendo “Sono certo che sarà qualcuno del posto che vorrà accoglierci, in fin dei conti questa casetta è rimasta vuota per molti mesi ...”

“Spero tu abbia ragione” gli rispose lui ridendo “Altrimenti lo manderò via a calci!”

Questa reazione estremamente protettiva fece sorridere il detective, che andò ad aprire, seguito dal dottore. Si trovarono di fronte ad un uomo sorridente, che li scrutava con interesse. Non era troppo alto, il viso cicciottello era abbellito da un paio di folti baffi brizzolati e li osservava alternativamente, cercando di cogliere in ognuno di loro ogni singolo aspetto. Sherlock e John

“Salve!” disse porgendo la mano, sperando che almeno uno dei due ricambiasse la stretta “Sono il vostro vicino di casa. Sono qui anch'io per passare qualche mese di vacanza con la mia famiglia … Molto piacere, mi chiamo Arthur Conan Doyle”

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Capitolo 21
*** The game is afoot ***


Miei cari, questo sarà l'ultimo capitolo della storia. Davvero l'ultimo, stavolta. Non ci saranno altri colpi di scena né altre sofferenze … vi lascio nel fluff, dove potrete crogiolarvi … almeno fino alla prossima storia!

*Risata diabolica*

A presto e grazie per avermi seguita, sia a chi ha recensito che a chi ha letto in silenzio.

Grazie!

Mini

 

 

 

 

 

 

The game is afoot

 

 

 


 

L'omino che si era presentato a John e Sherlock era simpatico e intelligente. John aveva subito temuto ad un cliente, giunto fino a lì chissà come per un consulto. Non riusciva a capacitarsi di come qualcuno fosse riuscito a rintracciarli fin laggiù.

Sherlock, che fino a quel momento era rimasto raggomitolato sulla poltrona, alzò appena lo sguardo e scosse la testa in direzione dell'amico. No, non era un potenziale cliente, solo un curioso vicino di casa. Tutto sommato sembrava simpatico, così lo fecero entrare.

“Scusate l'intrusione, ma mia moglie Touie sta male e mi annoiavo a casa da solo” disse l'uomo, togliendosi il cappello entrando.

“Malata?” chiese John preoccupato “Io sono un medico, se vuole posso visitarla”

“Non si preoccupi” disse Arthur con un sorriso “Anch'io sono medico. L'ho già visitata io e non c'è nulla di cui preoccuparsi. Presto si ristabilirà”

“Capisco ...” disse John sorridendo a sua volta, rassicurato “Vuole un tè? Lo stavo giusto preparando per noi …oh!” disse ridendo “Mi scusi, non ci siamo nemmeno presentati. Io sono il dottor John Watson e lui è ...”

“Sherlock Holmes” concluse l'uomo.

John lo guardò con gli occhi spalancati, Sherlock scosse la testa e Arthur rise.

“Se c'è John Watson deve per forza esserci anche Sherlock Holmes! Inoltre vi avevo riconosciuti”

“In effetti ...” ammise John versando il tè in tre tazze “Legge il mio blog?”

L'uomo annuì. Soffiò sulla superficie del suo tè e l'aria che uscì dalle sue labbra fece svolazzare i folti baffi biondi che gli davano l'aria di un nobile dell'ottocento.

“Non so usare molto Internet, ma i miei figli mi aiutano. Di solito consulto i siti per leggere le recensioni ai miei romanzi, ma quando ho visto il suo blog me ne sono innamorato! Sono storie fantastiche e lei ha un grande talento per la scrittura!”

John arrossì lievemente e guardò Sherlock, ridendo perché lui non l'aveva mai apprezzato per i suoi sforzi di tradurre in prosa le loro avventure. Sherlock alzò un sopracciglio quando Arthur menzionò i suoi romanzi, poi sospirò perché aveva già capito tutto, ma John era ancora curioso.

“Si sieda, dottor Doyle” lo invitò John “Ha parlato di recensioni per i suoi romanzi … non ha detto di essere medico?”

“Sì” spiegò lui “Lavoro in una clinica privata, perciò ho molto tempo libero. Ho cominciato a scrivere racconti dell'occulto e ora...” rise imbarazzato “I miei romanzi hanno avuto così tanto successo che ho potuto abbandonare la professione medica e, sinceramente, non la rimpiango. Nasi gocciolanti? Gole arrossate? No, grazie. Preferisco la tranquillità della mia stanza e la macchina da scrivere. Sì, odio i computer, ma ci pensa mio figlio a trascrivere tutto in modo che sia leggibile per la casa editrice”

John ascoltava affascinato. Ben presto lui e Arthur divennero buoni amici. Iniziarono a chiacchierare e in breve terminarono un litro di tè. Si scambiavano aneddoti sulla loro professione, ridendo come due amici di vecchia data.

Sherlock non si sentiva per nulla coinvolto in quella discussione così si estraniò, entrando nel suo palazzo mentale. Prese il suo blocco da disegno e la matita e iniziò a disegnare. Dapprima fece qualche scarabocchio, poi decise di concentrarsi sulla scena che aveva di fronte. John e Arthur erano due soggetti straordinari e li ritrasse con perizia e precisione.

Era così concentrato che presto i due si sentirono osservati, nonostante i racconti delle reciproche esperienze li stessero coinvolgendo, la faccia di Sherlock mentre disegnava era sicuramente più interessante. Si voltarono verso di lui, ma il detective non si accorse nemmeno del silenzio che era calato nella stanza.

“Che fa?” chiese Arthur, sbirciando sul foglio alzando il collo.

“Disegna” spiegò John “In questi mesi è stato parecchio male e non ha potuto occuparsi dei casi, perciò ha ripiegato sul disegno. È molto portato, a dire la verità”

Arthur ascoltò annuendo e si alzò per andare a vedere. Affianco a Sherlock c'era una cartellina rigida, dalla quale sporgevano i fogli con i suoi disegni più vecchi.

“Posso dare un'occhiata?” chiese, ma non ottenne risposta.

“Faccia pure, dottor Doyle” rispose John “Ormai è nel suo 'palazzo mentale'” disse facendo le virgolette in aria “Non risponderà per ore. Guardi pure”

Arthur prese il blocco e lo sfogliò con ardore, ammirando ogni disegno sempre più affascinato.

“Sono fenomenali!” disse, riponendo sul tavolino i disegni “Sarebbe bello pubblicarli insieme ai suoi racconti, Dottor Watson. A mio parere non sono abbastanza conosciuti”

John arrossì, ma Doyle continuò.

“Come le ho detto, non sono molto pratico dell'uso di Internet e le sue storie sono a me note solo grazie all'intermediazione di mio figlio ma … sono certo che avrebbe almeno il doppio dei lettori se si decidesse a pubblicarli su carta, come veri romanzi”

A quel punto Sherlock riemerse dal suo estraniamento e guardò entrambi gli uomini.

“Devo dire che sarebbe un'idea fantastica!” esclamò, sorridendo “Qualche anno fa mi sarei opposto con tutte le mie forze, per preservare l'anonimato nella mia professione, ma ormai che tutto il mondo mi conosce … Sarebbe bello per te, Jawn!”

Arthur Conan Doyle si sfregò le mani, soddisfatto.

“Non solo per lui” disse ridendo “Anche per lei! I libri pubblicati dal dottor Watson sarebbero perfetti se fossero abbelliti dai suoi disegni”

Sherlock lo guardò disorientato.

“Non si è accorto che ho guardato i suoi disegni?” rise “No, non se n'è accorto... pazienza. Non si preoccupi, sono disegni bellissimi e starebbero benissimo con la prosa del dottor Watson”

“Un momento” si inserì a quel punto John “Non potete decidere così! L'autore dei testi sono io e … non voglio pubblicarli”

Sherlock e Arthur si guardarono increduli.

“Come sarebbe a dire che non vuoi?” chiese Sherlock alzando un sopracciglio “Mi spieghi l'esistenza del blog?”

John sospirò, esasperato.

“Il blog serviva solo per aiutarmi con i miei incubi sull'Afghanistan!” sbottò “Non mi sarei mai aspettato che avesse tutto quel successo!”

Sherlock rise, guadagnandosi un'occhiataccia da parte di entrambi i medici.

“Jawn … per piacere … eri così orgoglioso di tutti i visitatori del tuo blog! Non dire che non ti sentivi fiero!”

John si mordicchiò il labbro inferiore, indeciso sul da farsi. In effetti Sherlock aveva ragione, come al solito del resto. Si sentiva combattuto da una certa timidezza da una parte e il desiderio di mettersi in mostra dall'altra. Alla fine decise di intraprendere una via di mezzo.

“Va bene” disse infine “Pubblichiamo pure queste storie ...”

“Fantastico!” esclamò Arthur interrompendolo “Contatterò subito il mio editore! Non ci saranno problemi lui …”

“ … ma ad una condizione” specificò John, cogliendo di sorpresa entrambi “Non voglio che il mio nome compaia”

Sherlock alzò un sopracciglio.

“Come intendi fare, dunque?” chiese dubbioso “Vuoi usare uno pseudonimo?”

“Non proprio” disse John annuendo “Non mi piacciono”

Guardò Arthur e lì Sherlock capì.

“Sì, penso che si possa fare, sempre che il dottor sia d'accordo, naturalmente ...” aggiunse sorridendo.

“D'accordo per cosa … oh!” disse, mentre un timido sorriso gli illuminava il viso “Vorrebbe passare il merito dei suoi scritti a me?”

John si strinse nelle spalle.

“Diciamo che voglio essere ricordato più come compagno di Sherlock Holmes che come suo biografo. Trovo che sia troppo … banale. Già mi scoccio quando sento in giro che sono il suo Boswell … diventarlo veramente non mi entusiasma, se devo essere sincero”

Sherlock sorrise, ma John lo fulminò con lo sguardo.

“Non fare quella faccia, Boswell. Lo sei, non puoi negarlo”

Sospirò. Non gli piaceva essere relegato al ruolo di biografo. Arthur intuì questo disagio e sorrise, ma non sapeva bene cosa dire per consolarlo, così cercò di prendere tempo sfogliando i disegni di Sherlock.

Erano fatti veramente bene. Anche se illustravano le avventure narrate nel blog del dottor Watson, sembravano appartenere ad un'altra epoca. Arthur si era sempre appassionato alle storie dell'occulto, infatti aveva scritto una serie di racconti e romanzi che trattavano quel tema, ma gli sembrava troppo romantico per inserirlo nel tempo moderno, perciò aveva deciso di narrare le avventure di uomini e donne vissuti nell'ottocento. Un'idea gli illuminò il viso.

“Signori” disse alzandosi e chiudendo il raccoglitore “Ho un'idea”

Sherlock e John lo osservarono a lungo.

“Le vostre storie sono così belle … voi due potreste essere immortali, ma … ho un'idea che potrebbe dare giovamento ad entrambi. Lei dottor Watson è già famoso per il suo blog e sono sicuro che continuare a scrivere i suoi racconti lì le sarà di sicuro giovamento ma … che ne direbbe se io reinterpretassi i suoi scritti come se voi due aveste vissuto nell'ottocento?”

I due si guardarono negli occhi, indecisi se essere preoccupati o entusiasmati da quell'affermazione, ma presto l'esaltazione prese il sopravvento e si ritrovarono coinvolti dalla vitalità dell'uomo che, nonostante la mole, si muoveva freneticamente avanti e indietro davanti al camino, illustrando le sue idee.

“Lei mi darà i suoi appunti e io li riscriverò, anche quelli passati. Uno studio in rosa potrebbe diventare … uno studio in rosso, dove il rosso potrebbe essere una metafora per il delitto e non il colore della valigia .. Il mastino di Baskerville potrebbe diventare dei Baskerville e, al posto di una base militare, potrebbe esserci un'antica famiglia minacciata da una maledizione! Il quadro che causò … mi scusi se tocco questo tasto … il suo finto suicidio, potrebbe richiamare le vere cascate di Reichembach ...” rise e si sfregò le mani “Ho tantissime idee in testa! Vedrete! Vedrete!!”

 

 

 

 

 

 

 

 

Un finale aperto, che preannuncia un lungo e avventuroso futuro per John, Sherlock e Arthur.

Mi sono molto divertita scrivendo questa storiella.

Grazie ancora per avermi seguita e alla prossima.

Mini

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