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Ehilà, popolo (?)di
EFP! È passato del tempo dall’ultima volta che ho aggiornato qualcosa (chiedo
scusa in particolare a chi aspetta il seguito di “Don’t Ever Trust Fate”; la parte
quarta è in lavorazione, ma continuo a riscriverla e non riesco a farla venire
come vorrei xD), ma sono tornata più in forma di prima! <-- o così dice
*COFF* <-- Ehi!
Ultimamente mi sono fatta prendere parecchio da Pokémon
Bianco&Nero, quindi ho dovuto
scrivere una FF a tema =D
I protagonisti sono personaggi originali (la versione su
carta di me stessa e dell’amico che mi ha trascinata nell’insana follia di
Pokémon B&W) e quindi un tantino stravaganti, ma non lasciatevi spaventare!
Spero che vi faccia piacere leggere questa storia, o almeno
vi strappi un sorriso e non la consideriate una completa perdita di tempo.
E ricordate: una recensione è uno spreco di cinque minuti
per voi, ma una gioia immensa per tutti gli scrittori ^-^
AVVISO A TUTTE LE FANGIRLS
DI N: IN QUESTA FF NON È TRATTATO AFFATTO BENE.
(l’ufficio lamentele si trova in fondo a destra, assomiglia un po’ a una
finestra, ma non preoccupatevi, il salto è di soli tre metri.)
***
Capitolo 1
Prevedibili
Imprevisti
Il profumo di resina permeava
l’aria; un odore fastidioso a cui non si sarebbe mai abituata.
«Ne ho trovato uno.» sussurrò
all’Interpoké che portava al polso. «È piuttosto vicino all’evoluzione.
Potremmo prendere due piccioni con una fava.» Scostò nuovamente un ramo del
cespuglio dietro cui era accucciata, per tenere sott’occhio il Deerling che
brucava l’erba a pochi metri di distanza.
«Ricevuto.» rispose una voce
maschile al suo auricolare. «Ho la tua posizione. Posso essere lì in trenta
secondi.»
«Ti aspetto.»
Sempre tenendo d’occhio la preda,
Kim infilò una mano nella borsa e accarezzò con la punta delle dita le pokéball
al suo interno. Ne tirò fuori una, contrassegnata da un’incisione a forma di smile. Era la volta buona, lo sentiva.
Il suo auricolare tornò a ronzare.
«Ci sono. Ti copro.»
«Ok.» rispose, senza quasi muovere
le labbra. Si concesse ancora qualche istante per concentrarsi. Molleggiò un
paio di volte sulle caviglie, spostò il peso da un piede all’altro. Il Deerling
continuava tranquillamente a brucare l’erba, ignaro della presenza dei suoi
cacciatori.
Kim prese un respiro e rotolò fuori
dal cespuglio.
Il Deerling si allarmò
immediatamente, ma era già troppo tardi: la pokéball che un momento prima era
nella mano di Kim era adesso aperta in mezzo all’erba.
«Porchetta, usa Lanciafiamme!»
ordinò la ragazza al piccolo esemplare di Tepig che si era appena
materializzato in mezzo alla radura.
Porchetta spalancò la bocca e da
essa uscì un potente getto di fuoco, che andò ad abbattersi contro il Deerling
terrorizzato.
Coglierlo di sorpresa non era stato
particolarmente complicato; il difficile veniva adesso.
Il Deerling aveva riportato diverse
bruciature su tutto il corpo e il fuoco aveva attecchito su una piccola
porzione di pelliccia, da cui ora saliva un sottile filo di fumo.
Ciononostante, il pokémon non mostrò segni di cedimento. Sbuffò e gemette, ma
si lanciò alla carica contro Porchetta, in un inconfondibile attacco Riduttore.
Kim strinse i denti di riflesso. I
Tepig erano sicuramente avvantaggiati contro i pokémon di tipo Erba, ma non
erano veloci quanto i Deerling. L’impatto sarebbe stato inevitabile.
«Verdebufera!»
Dal nulla, una miriade di foglie
trasportate da un vento impetuoso colpirono il Deerling, ferendolo lievemente e
fermando la sua carica. Da dietro gli alberi, erano spuntati un maestoso
Lilligant e il suo allenatore.
Kim strizzò loro l’occhio in segno
di riconoscenza, ma non perse tempo in convenevoli. «Vai con Nitrocarica,
Porchetta!»
Il pokémon ci mise qualche secondo
a far prendere fuoco al suo intero corpicino, ma poi si scagliò con tutte le
sue forze contro il Deerling, ancora intontito dall’attacco inaspettato di
Lilligant.
L’impatto fu tremendo e, con il più
delle probabilità, fatale.
Il Deerling lanciò uno strillo
acuto e le sue zampe cedettero, lasciandolo a terra, ansimante.
Era fatta.
Kim si voltò verso il suo amico,
con un sorriso trionfante. «Hai visto, Lee?» gli urlò. «Così impari a dire che
Porchetta è inutile! Non me lo sogno nemmeno di farlo evol- »
Fu interrotta da alcuni colpi di
tosse ai suoi piedi.
«Che cos’hai, Porchetta?» chiese
Kim, perplessa, sollevando il suo pokémon per osservarlo meglio. «Hai ingoiato
qualcosa?»
Gli aprì la bocca e gli controllò
l’interno della gola, ancora lievemente luminosa a causa delle fiamme che aveva
sputato poco prima. Le sembrò di scorgere qualcosa vicino all’ugola, così
infilò la mano con cautela e, facendo del suo meglio per non scottarsi, staccò
qualcosa di più o meno sferico dalla gola del suo Tepig.
«Piccolo pasticcione, vediamo un
po’ cos’hai... oh, merda, no!»
Era troppo tardi. Kim lasciò cadere
il parassiseme per far scattare la mano nella borsa, verso la pokéball più
vicina, ma il Deerling si stava già rialzando, avvolto da un tenue bagliore
verde. Porchetta gemette, l’energia che gli veniva drenata dai numerosi
parassisemi che aveva tra la pelliccia.
Kim lo strinse a sé, ma il suo
sguardo era puntato sul Deerling, che a sua volta la stava fissando. I suoi
erano occhi pieni di paura, dolore e rabbia. Kim avrebbe potuto giurare che
fossero perfino colmi d’odio, se non avesse saputo che era un sentimento di cui
i pokémon non erano capaci. Non riuscì a smettere di fissarli, nemmeno quando
il Deerling si lanciò alla carica contro di lei.
«Kim! Cosa stai facendo? Spostati!»
La ragazza tornò in sé appena in
tempo per buttarsi di lato, in una caduta che le sbucciò entrambe le ginocchia.
Il dolore pose fine al suo intontimento. Approfittando dei pochi attimi in cui
il Deerling inchiodò per girarsi e riprendere la carica in sua direzione, fece
rientrare Porchetta nella sua pokéball. A quel punto, però, il Deerling le era
praticamente adosso.
«Lilligant, usa Paralizzante!»
La polverina gialla che scese sul
pokémon non servì a paralizzarlo, ma sicuramente lo intorpidì, perché fu
costretto a fermarsi per scrollarsela di dosso. Kim ne approfittò per alzarsi
in piedi e raggiungere con la mano la sua ultraball preferita. «È stremato, ma
dobbiamo farcela in un solo colpo o si riprenderà!» urlò a Lee.
Il ragazzo, seppure con
un’espressione preoccupata, annuì. Si rivolse al suo pokémon: «Giornodisole,
Lilligant!»
Lilligant obbedì, incominciando a
generare uno schermo trasparente, quasi invisibile all’occhio, se non fosse
stato per i suoi riflessi lucenti, e ad alzarlo lentamente verso il cielo.
Era una mossa rischiosa.
L’intensificazione dei raggi solari avrebbe di certo favorito le mosse di tipo
Fuoco, garantendo la vittoria in un colpo solo, ma il processo richiedeva
tempo. Tempo che Kim non era certa di avere.
Appena ebbe finito di scrollarsi di
dosso la polvere paralizzante, il Deerling selvatico indugiò, indeciso su quale
dei due nemici concentrarsi. Scelse quasi subito, forse perché Kim pareva la
più debole e indifesa, senza nemmeno un pokémon al suo fianco. Anche lui decise
di rischiare il tutto per tutto: fissò lo sguardo sulla ragazza ed incominciò
ad accumulare energia.
«Kim!» esclamò Lee, allarmato.
«Vuole lanciarti un’Energipalla, levati di lì!»
«No!» urlò Kim in risposta,
stringendo la sua ultraball. «Finché lo tengo occupato, Lilligant potrà lavorare
in pace a Giornodisole. Ho un piano, non ti preoccupare!»
In realtà, il suo non era tanto un
piano quanto una scommessa. La scommessa che Lilligant sarebbe stata più veloce
del Deerling a completare la sua mossa.
L’aria si stava facendo sempre più
calda e l’ambiente luminoso. Il sole picchiava come non mai. La sfera di
energia di Deerling si faceva man mano più consistente.
Quando ebbe l’impressione che il
calore fosse ormai insopportabile, Kim inspirò e lanciò la sua ultraball.
«Victini, Lanciafiamme!» gridò, prima ancora che il pokémon si materializzasse.
Nello stesso istante, l’Energipalla prese il volo.
Il resto fu confuso.
Kim si sentì sbalzare lontano da
un’energia più grande di lei e d’un tratto non ci vide più. I suoni si fecero
ovattati. C’erano solo il crepitio delle fiamme, una voce e un dolore pulsante.
Si ritrovò ad oscillare tra realtà e incoscienza, come in una strana altalena,
finché, dopo chissà quanto, trovò la forza di riaprire gli occhi.
«Kim!» La voce di Lee le rimbombò
nelle orecchie, un frastuono assordante e innaturale. «Kim, stai bene?»
Lei dovette battere le palpebre
diverse volte, prima di recuperare del tutto la vista. Il mondo aveva assunto
una sfumatura bluastra. Compresa la mano di Lee, che, nel panico, gliela stava
sventolando davanti alla faccia. La dovette afferrare, prima che le facesse
girare la testa. «Sto bene... credo.» biascicò, rauca, e si puntellò sui gomiti
per raddrizzarsi un po’. «Il Deerling?»
«Ti sei fatta colpire in pieno da
un’Energipalla! Sei completamente impazzita, per caso?»
Kim sospirò e ripeté, insistente:
«Il Deerling?»
Lee fece una smorfia, ma poi le
mostrò una megaball, con un sorrisetto soddisfatto.
«Sì!» esclamò Kim, gettandogli le
braccia al collo. Quel semplice gesto le provocò una dolorosa fitta alla testa,
ma non le importava. «Ce l’abbiamo fatta, finalmente! Questa sarà una storia da
raccontare ai figli dei figli dei miei figli!»
Lee rise e le diede una mano ad
alzarsi. Era un po’ malferma sulle gambe, ma ce la faceva a stare in piedi. «Come
lo chiamiamo?» continuò, eccitata. «Ci vuole per forza un nome!»
«Ah, basta che non lo chiami
“Bistecca” e per me fa lo stesso.» disse Lee.
«E perché mai dovrei? “Lombata”,
magari...»
«KIM!»
«“Bocconcino”...?»
«Piantala di dare ai pokémon nomi
di roba da mangiare!»
Kim rise e quasi perse
l’equilibrio, rischiando di cadere. Per fortuna, qualcuno l’afferrò per il
gomito prima che questo accadesse.
Ma non era Lee. Era un ragazzo dai
lunghi capelli verdi, che sorrise loro amichevolmente. «Ma guarda un po’ chi si
rivede!»
Kim strillò per lo spavento e si
liberò dalla sua presa all’istante. «AH! È di nuovo quel maniaco!» esclamò,
tentando di nascondersi dietro a Lee, il quale a sua volta stava tentando di
nascondersi dietro di lei, così finirono per darsi una testata e rimanere
entrambi completamente visibili. Il ragazzo misterioso ne approfittò per
circondare le spalle di entrambi con le braccia.
«Che cosa vuoi, N?» chiese Lee,
scontroso.
«Ma come? Solo abbracciarvi un po’
come ai vecchi tempi, no?»
«Beh, grazie, ma no grazie.»
replicarono all’unisono Lee e Kim, scivolando fuori dalla sua stretta.
«Abbiamo da fare. Siamo dei
professionisti, sai.» disse Kim.
N parve molto deluso. «E questi
impegni...» ragionò, vago. «Potrebbero avere a che fare con questa?» Mostrò loro una megaball molto
familiare.
Lee si guardò le mani, incredulo.
«Ehi!» esclamò. «È nostra, ridaccela!»
«Ah-ah.» fece N, scuotendo la
testa. «Sarebbe così facile liberare questo piccolino, non l’avete ancora
addestrato...» Il suo indice indugiò sul pulsante di apertura della pokéball.
«Provaci soltanto e ti meno a
sangue.» ringhiò Kim, che evidentemente non si era fatta colpire da
un’Energipalla per divertimento.
«Ma come siamo focose, oggi.» la prese
in giro N, con un che di accondiscendete, e le abbassò la visiera del
cappellino fino al naso. «Ma oggi non mi sembri in grado di farlo, non credi,
peperoncino?» Ridacchiò. «Davvero non siete disposti ad ascoltare la semplice
richiesta di un vecchio amico?»
Lee gli lanciò un’occhiataccia.
«Ovvero? Che cosa vuoi?»
«È davvero una sciocchezza.»
sorrise N. «Un appuntamento.»
«CHE CO-»
«Aspetta, Kim. Con chi dei due?»
«Beh, uno vale l’altro. Anzi,
perché non tutti e due?»
«E ci restituirai Deerling?»
«Certamente.»
«Non provarci.» sibilò Kim. «Se
solo ci provi, io...»
«Va bene, accettiamo.»
«LEE!»
«Ottimo, allora.» concordò N, tutto
contento. «Verrò a prendervi io. Sarà divertente, promesso!»
E, con un ultimo, inquietante
occhiolino, sparì nuovamente nella foresta.
«Io lo uccido.» disse Kim, nera di
rabbia. «Vado a quello stupido appuntamento, recupero Deerling e lo UCCIDO.»
«Vattene!» urlò la voce di Kim, da
dietro la porta. «Avevo detto a mamma di dirti che ero morta!»
«In realtà mi ha detto che sei partita
per Sinnoh, a caccia di Pachirisu.» la corresse Lee, senza poter trattenere un
sorriso. Kim era sempre stata fissata con quei piccoli pokémon elettrici, tanto
che uno dei suoi viaggi mentali preferiti (condiviso con chiunque fosse
abbastanza paziente o sordo da starla ancora ad ascoltare) era il suo futuro
viaggio verso la regione montuosa di Sinnoh per catturarne uno. La sua
testardaggine faceva quasi tenerezza.
«Era nelle mie intenzioni.»
borbottò Kim. «Ma poi ho pensato che tanto quel dannato stalker riuscirebbe a
trovarmi perfino lì. Deve avermi piazzato un GPS nel cappello.»
«È appunto di lui che volevo
parlarti.» sospirò Lee, tamburellando nuovamente le nocche sulla porta. «Mi fai
entrare?»
«NO! È tutta colpa tua, se sono in
questa situazione. Sarò arrabbiata con te, tipo, per sempre.»
Tipo,
per sempre. Altre parole che aveva sentito uscire dalle sue
labbra più di una volta – e che lei si era prontamente rimangiata cinque minuti
dopo. Niente di cui preoccuparsi.
«Avanti, non fare così.» disse il
ragazzo, con una smorfia. «Era l’unico modo di farci restituire Deerling, lo
sai.»
«Ecco, lo vedi? Mi stai dando in
pasto a quel maniaco e non te ne importa niente!»
«Guarda che ci vengo anch’io, con
te...»
«Come se volesse dire qualcosa!»
commentò Kim, stizzita. «Tu sei un ragazzo, non devi difendere la tua virtù o
altro...»
Lee roteò gli occhi. Quella ragazza
l’avrebbe fatto uscire matto, prima o poi. «Non ricominciare con la storia
della virtù. Nessuno ti farà niente, quindi fammi entrare. Abbiamo bisogno di
un piano.» Ovvio che ne avevano bisogno. N poteva anche aver promesso di
restituire Deerling, ma non c’era garanzia che non ne avrebbe approfittato
per... altro.
«Neanche per idea. Me lo troverò da
sola, un piano.»
Razza
di piccola, ingrata testarda! pensò Lee, pur avendo
il buon senso di non dirlo ad alta voce. In quel momento, solo due cose
potevano smuovere Kim: le lusinghe, oppure...
«Bene. Allora posso anche
restarmene a casa, tanto N ha detto che gli vai bene anche tu da sola. Con il
tuo piano geniale andrà tutto a meraviglia.»
...i
ricatti.
La porta si aprì in meno di un
nanosecondo. «Entra immediatamente, o tiro fuori Emolga.» ordinò Kim,
squadrandolo in modo alquanto tetro.
Farle cambiare idea non era mai
stato particolarmente difficile.
Entrarono nella camera, che era
ridotta in condizioni pietose: il letto era sfatto, l’armadio aperto, i vestiti
sembravano ricoprire ogni centimetro quadrato delle superfici piane e le tende
erano chiuse, avvolgendo il tutto nella penombra. La stessa Kim pareva
piuttosto sciupata, con i capelli sciolti e spettinati, un alone di grigio
sotto gli occhi e l’espressione funerea di chi fosse appena venuto a sapere di
un’improvvisa carenza di Pachirisu nel mondo.
«Hai fondato una setta satanica,
per caso?» chiese Lee, impressionato. Kim non era esattamente un tipo ordinato,
ma nemmeno le piaceva vivere nel caos; era sempre molto attenta ad avere a
portata di mano tutto quello che le potesse servire e cercava, nei limiti del
possibile, di non abbandonare calzini sporchi sotto il letto o vestiti freschi
di lavanderia fuori dai cassetti. Per questo, vedere tutta quella confusione
era sintomo di qualcosa di molto più grave di quello che si era aspettato.
«Uhm.» fece Kim, assente,
mettendosi a rovistare in un cumulo di camicette. «Potrei anche farlo. Chissà
che non esista un qualche patto col diavolo che mi permetta di liberarmi di N
una volta per tutte.» Tra i vestiti, trovò una pokéball e ne premette il
pulsante di apertura. Un piccolo Litwick uscì dalla sfera e iniziò a scivolare
in giro, per i fatti suoi, diffondendo un tenue bagliore violetto nella stanza.
Lee deglutì a vuoto. Se la
situazione avesse continuato a degenerare in quel modo, presto si sarebbe
trovato anche lui in una stanza buia, sommerso da una montagna di vestiti. O
peggio.
«Non ti sembra un po’... spettrale,
l’ambiente?»
Kim alzò le spalle e si lasciò
cadere sul letto, sollevando una piccola onda di vestiti. «Credevo che quel
maniaco se ne fosse andato per sempre. Credevo di poter riprendere a vivere una
vita felice, né troppo monotona né troppo spericolata, a caccia di pokémon un
giorno e sulla spiaggia a prendere il sole l’altro. E invece...» sospirò e
rotolò su un fianco, mordendosi un labbro. «E invece è tornato a tormentarmi.»
Lee alzò un sopracciglio, dubbioso.
Eccola che ricominciava a fare la melodrammatica, come sempre. «Lo so, essere
perseguitati da N non è esattamente piacevole.» tentò di rassicurarla. «Ci sono
passato anch’io. Ma non mi sembra il caso di buttarsi giù così, no? Perché non
incominciamo ad aprire la finestra e...»
«No!» Kim tuffò la testa in un
cuscino, ottenendo come effetto collaterale di ritrovarsi coperta di calzini.
«Sento che, quando in questa stanza entrerà un raggio di luce, accadrà qualcosa
di terribile. Non voglio.»
Ancora con quei capricci assurdi.
Era ora di finirla. Lee si avvicinò comunque alla finestra e ne tirò le tende,
deciso a tirare fuori l’amica da quella malsana depressione. «Avanti, non
succederà nulla. È solo un po’ di so-».
Un Archeops gli sorrise dall’altra
parte del vetro.
«Ma che caz-...!» Il ragazzo
indietreggiò e quasi cadde per la sorpresa, Kim urlò e il pokémon sbatté la
testa contro la finestra, nel tentativo di aprirla. Dopo un paio di testate che
non produssero risultati, l’Archeops decise di andarci di zampe, ottenendo
finalmente di trasformare la finestra in una miriade di schegge di vetro
volanti. Dopodiché, soddisfatto del suo operato, si appollaiò sul davanzale.
Kim, abbracciata stretta al suo
cuscino, rivolse a Lee uno sguardo spaventato. «È l’Archeops di N.» disse, con
un filo di voce.
«...già.» concordò Lee, cercando
ancora di riprendersi dallo shock di trovarsi a venti centimetri di distanza da
un pokémon nemico – di quel nemico,
in particolare – che, nelle giuste condizioni, l’avrebbe volentieri
sgranocchiato. «Ha qualcosa in bocca.» notò poi, stupito.
Come se quelle parole l’avessero
chiamato, l’Archeops allungò il collo verso di lui, porgendogli ciò che
trasportava. Non vedendo alternative, il ragazzo lo prese in mano.
Era una busta. Una busta verde,
sigillata con un cuoricino a mo’ di ceralacca. Già quello bastò a dargli i
brividi.
Avendo compiuto la sua missione,
l’Archeops spiegò le ali e, infischiandosene bellamente di aver appena fatto a
pezzi una finestra e spaventato a morte gli oggetti dell’amore del suo padrone,
se ne volò via.
Senza dire una parola, Lee andò a
sedersi sul letto accanto a Kim, facendosi spazio tra gonne e pantaloncini.
Esaminò la busta centimetro per centimetro, ma sembrava non esserci scritto
nulla; né il mittente, né il destinatario.
Intanto, Kim non sembrava
intenzionata a lasciar andare il suo cuscino. «E se facessimo finta di non
averla mai ricevuta...?» propose, esitante.
Lee alzò le spalle, ancora senza
distogliere lo sguardo dalla busta misteriosa. «In ogni caso, sarà meglio
sapere cosa c’è scritto.»
«Uhm.»
In realtà, anche Lee non sapeva se
aprire veramente la busta o no. Era stato facile, tutto sommato, fare quella
promessa a N, ma averci a che fare lo metteva come sempre a disagio. Le sue
dita indugiarono sul sigillo a forma di cuore.
Kim gli prese la busta dalle mani.
«Lascia fare a me.» disse piano, accompagnandosi con il primo, debole sorriso
della giornata. «So che rapporto hai con i cuoricini rosa.» lo prese in giro,
nonostante continuasse ad essere la più spaventata dei due.
Prima che lui potesse ribattere,
Kim strappò il sigillo della busta e ne tirò fuori un sottile cartoncino verde
prato, scritto in caratteri sottili e raffinati.
Passerò a prendervi oggi, appena avrò completato i preparativi per
il nostro ap-pun-ta-men-to ♥
Fatevi trovare pronti, mi raccomando!
Sempre vostro,
N.
Seguiva uno scarabocchio di una
faccina sorridente, che probabilmente doveva rappresentare N stesso.
Kim e Lee rabbrividirono.
«Io muoio.» piagnucolò Kim. «Non ce
la posso fare.»
«Invece puoi.» disse Lee, anche se
il suo tono non era deciso quanto avrebbe voluto. «Hai detto che l’avresti
ucciso, no? Concentrati su quello che provavi in quel momento.»
«Nausea e un fortissimo mal di
testa...?»
«No! Intendevo il sentimento!»
Kim parve pensarci su per qualche
istante e illuminarsi, ma poi scosse la testa. «Ero appena stata colpita da
un’Energipalla. Non ero in me.»
«Eri più che in te. Puoi farcela.» ribadì Lee, mettendole una mano sulla
spalla. «E poi...»
Kim alzò un sopracciglio. «E poi,
cosa?»
Lee sospirò, con un che di
rassegnato. «E poi, ammettilo: senza quel Deerling non sopravviveremo a lungo.
I soldi che ci ha promesso il Laboratorio di Ricerca in cambio sono tutto
quello su cui possiamo contare per il prossimo mese. E tu non puoi rimanere da
tua madre per sempre.»
Kim parve ancora più scoraggiata.
«Lo so.» si lamentò. «Scommetto che, quando sei arrivato, mamma aveva già la
faccia da “Portala-via-tu-o-la-butto-fuori-io”.»
«Precisamente.» annuì Lee. «E
nemmeno io ci tengo a morire di fame. Preferirei qualcosa di più eroico, tipo
morire per salvare il mondo o...»
L’amica gli lanciò un’occhiataccia.
«Non dirlo nemmeno per scherzo. Però, anche se Nardo sembra aver avuto una
pessima influenza su di te, hai ragione. Dobbiamo riavere Deerling indietro ad
ogni costo.»
Strette, scomode, sempre troppo
corte o troppo lunghe, necessitavano di un’attenzione costante ed erano delle
infide traditrici, perennemente pronte a rivelare al mondo intero il tuo modello
di mutandine.
Le
odiava, le gonne.
Per anni, sua madre aveva cercato
di convincerla a vestirsi in modo più femminile, regalandole ad ogni occasione
gonne piene di balze e vestitini che sarebbero stati un amore indosso a una
bambola di ceramica, ma Kim non aveva mai ceduto. Si era sempre opposta, aveva
sempre trovato una scusa per non abbandonare i suoi pantaloncini, aveva sempre
scalciato e urlato, pur di fare come pareva a lei.
Fino ad ora.
«Sei sicuro che non si veda nulla?» chiese, per la ventisettesima volta.
«Assolutamente sicuro.» rispose
Lee, dimostrando una pazienza tale da poterlo fare Santo lì e subito. «Perfino
N, con l’occhio lungo che si ritrova, dovrebbe praticamente mettersi a testa in
giù, per sbirciare. Rilassati.»
Ma Kim non sembrava ancora molto
convinta. Per sicurezza, tirò l’orlo della gonna un po’ più in basso, ottenendo
solo che le spalline dell’abito scavassero un solco ancora più profondo nelle
sue spalle, ormai arrossate e doloranti. «Dici?» chiese, ma qualunque risposta
l’avrebbe lasciata insoddisfatta. «Continua a sembrarmi troppo corto.»
«È il più lungo che hai, Kim.
Avanti, ti arriva al ginocchio, non è così scandaloso.»
Lei fece una smorfia. «Quasi al ginocchio. E poi, c’è sempre
quello della nonna...»
«Quello è orribile. Non posso permetterti di indossarlo, non solo in quanto
tuo migliore amico, ma in quanto essere
umano.»
«Meglio! Se sarò troppo brutta per
essere guardata, anche N mi lascerà in pace!»
Lee gonfiò una guancia. «Hai già
dimenticato il nostro patto? Non puoi barare. E poi, per quello che vale,
stiamo parlando di un maniaco: non gli importa dei tuoi vestiti, tanto vuole
togl- »
«Non provare nemmeno a pensarlo! Mi
farai andare nel panico!»
«Tanto lo sei già...»
«Allora non peggiorare le cose! Ho
bisogno di uno specchio.»
Lee, con un punto interrogativo
sulla testa, la guardò fiondarsi su per le scale, verso la sua camera.
Dannazione,
pensò
la ragazza, chiudendosi la porta alle spalle. Dannazione, dannazione, dannazione!
Li odiava tutti. N, sua madre,
l’appuntamento, le gonne, tutta quella situazione. Non ce la poteva fare. Non
sarebbe sopravvissuta a quella serata, non ce n’era alcuna possibilità.
Qualcosa di umido, morbido e caldo
le si sfregò delicatamente sulla caviglia, facendola sobbalzare.
«Oh, Porchetta.» sospirò Kim,
chinandosi ad accarezzare il suo dolce starter. «Vorrei tanto che bastasse il
tuo nasino a consolarmi...»
Il pokémon le leccò la mano e poi
vi spinse dentro la testa, forse per incoraggiarla, forse solo per richiedere
un altro po’ di coccole.
Kim l’adorava.
Certo, avevano avuto le loro
incomprensioni (più di una volta, Kim si era ritrovata ustionata malamente dopo
qualche scaramuccia e, altrettante, Porchetta era stato lasciato per giorni “a
riflettere” nella sua pokéball), ma le avevano sempre superate. Erano amici,
compagni, ormai incapaci di vivere l’uno senza l’altra. Kim si sentiva legata a
quel pokémon più che a qualsiasi essere umano. Era l’unico che, in qualunque
situazione, rimaneva sempre dalla sua parte.
Lo prese in braccio, intenerita da
quella dimostrazione d’affetto, e, nel girarsi, scorse con la coda dell’occhio
la sua immagine riflessa nello specchio. Rimase di stucco.
La ragazza che rispondeva al suo
sguardo sbigottito non era lei.
Certo, le assomigliava: i lineamenti,
la costituzione, il colore dei capelli erano gli stessi, ma tutto il resto le
era completamente estraneo.
La ragazza sciupata, impaurita e
fragile, avvolta troppo stretta da un vestito rosa pastello, incerta nel
reggersi su un paio di tacchi di pochi centimetri, non era lei.
Non poteva essere lei.
Sbatté un paio di volte le
palpebre, cercando di cancellare quell’immagine irreale dalla sua retina, ma
essa rimase lì dov’era, a fissarla con orrore.
Tenendo Porchetta stretto a sé con
un braccio, sfiorò la superficie dello specchio con la mano libera.
Che cosa le stava succedendo?
Perché era così spaventata?
Perché, questa volta, non riusciva
a trasformare la sua paura in determinazione, progettando come al solito mille
modi di mandare N al camposanto?
«Sai, Porchetta, io e Lee abbiamo
fatto un patto, per quanto riguarda stasera.» disse piano, grattando il piccolo
Tepig tra le orecchie, per rimetterlo poi a terra. «Uno di noi dovrà tenere
occupato N, mentre l’altro cercherà di scoprire cos’ha in mente questa volta.
Solo che nessuno dei due vuole stare troppo vicino a quello lì, capisci?»
Mentre parlava, Kim si liberò
dell’abitino rosa e lo buttò per terra. Lo calpestò addirittura, mentre si
affrettava ad aprire l’armadio ed iniziare a frugarci dentro.
«Quindi, vedi, non riuscivamo a
trovare una soluzione. E anche lasciare la scelta al caso sarebbe stato troppo
complicato: avremmo solo finito per lanciare una moneta in aria un centinaio di
volte, senza arrivare a niente.»
Porchetta osservò la sua migliore
amica umana infilarsi un paio di shorts
neri e una maglietta senza maniche, dello stesso colore, fatta eccezione per le
macchie di arancione che erano il disegno di un Tepig addormentato e la scritta
sottostante: “Porchetta ♥”. Kim se l’era fatta fare qualche anno
addietro, quando Lee aveva per la prima volta insinuato l’inutilità del suo
pokémon, se lei non si fosse decisa a farlo evolvere.
Quando tornò davanti allo specchio,
Porchetta emise un versetto di approvazione, a cui Kim rispose con un breve
sorriso.
«Perciò, abbiamo deciso che ci
affideremo alla fonte stessa del problema.» continuò la ragazza, anche se fu
evidente nella sua voce una nota di nervosismo, mentre si legava i capelli
nella solita coda di cavallo. «Ovvero N. Abbiamo concordato che il...»
Un ansioso bussare alla porta la
interruppe.
«Kim, sei morta?» la chiamò Lee,
dal corridoio. «Guarda che non vale chiuderti qui finché N non arriva, lo
considererò forfait.»
Lei fece una smorfia. «Il pensiero
non mi aveva nemmeno sfiorata. Arrivo tra un minuto.» mentì. Aveva pensato a
quello e ad almeno altri ventiquattro modi di fuggire, nelle ultime due ore.
Decisa a dire un altro paio di bugie, per farsi coraggio, stava anche per
aggiungere che “lei, la parola forfait
nemmeno la conosceva” e che “di certo, non si lasciava impaurire da un clown
coi capelli verdi”, ma qualcosa la distrasse.
Il rumore come di un sospiro e una
strana corrente d’aria, che le scompigliò un poco i capelli. Per un attimo si
convinse che non era stato nulla. Dopo la visita di Archeops, tutto quello che
era rimasto della finestra erano lo stipite e le tenda, perciò era normale che
il vento s’insinuasse anche all’interno della stanza, di tanto in tanto.
Ma la sua tranquillità durò solo
quell’instante che le servì a voltarsi, dopodiché svanì di botto, come una
bolla di sapone scoppiata. Le sembrò quasi di sentirlo, quel ‘pop’ sbigottito.
In piedi sul davanzale della
finestra, illuminato solo dalla pallida luce della luna. Con il suo solito
sorriso, innocente solo all’apparenza. Il cappello, che teneva con la visiera
così bassa. E quella spugna di Menger, che come sempre gli dondolava dalla
cintura.
N.
Il cuore di Kim saltò un battito.
Il ragazzo si raddrizzò e rivolse
lo sguardo verso di lei. «Ehi.» disse soltanto, entrando con un piccolo salto
nella camera.
La prima reazione di Kim fu anche
la più banale possibile. «Da... da... da quanto sei qui?» chiese, pregando che
quella preoccupante semioscurità nascondesse almeno il rossore delle sue
guance.
«Di certo troppo poco.» rispose N, dirigendosi
tranquillamente verso di lei. «Perché, hai fatto qualcosa che non dovrei
vedere?» aggiunse con malizia, un attimo prima di rischiare di inciampare nel
vestito che Kim aveva abbandonato a terra. Lo raccolse, piacevolmente sorpreso.
«Oh, questo sarebbe stato interessante.» commentò, fermando momentaneamente la
sua avanzata.
Kim incrociò le braccia al petto,
sulla difensiva. Il patto, pensò,
sentendo la paura riemergere. Non è così
che dovevano andare le cose. Sto praticamente perdendo a tavolino. Serrò
ancora di più le braccia, cercando di contenere il nervosismo. Non voglio. Non è giusto.
«Sai, la gente normale entra dalla
porta, di solito.» disse, ostentando una sicurezza che non aveva. «Anche se
sembra un’abitudine che non avete né tu né i tuoi pokémon.»
«Ah, già.» disse N, rigirandosi tra
le mani il vestito, come a volerlo esaminare. «Mi dispiace per l’incidente con
Archeops. Gli avevo raccomandato di essere gentile, ma è ancora un po’
selvatico, che vuoi farci.»
Devo
uscire di qui. Se riesco a tornare da Lee, ho ancora una possibilità.
«Beh, la prossima volta mandami un
pokémon un po’ meno “selvatico”, grazie.» replicò, acida.
«Come desidera, mademoiselle.» acconsentì N, nonostante
sembrasse ancora molto più interessato all’abito che non alla conversazione.
Poi portò la stoffa rosata al viso ed inspirò.
Kim sentì un brivido percorrerla da
capo a piedi. Forse non si trattava più solo del patto. Forse era davvero in
pericolo, trovandosi da sola, in una stanza semibuia e chiusa a chiave, insieme
al suo stalker personale.
Indietreggiò.
Con un sorriso soddisfatto, N
lasciò l’abito e riprese ad avvicinarsi a lei, lentamente e con una
tranquillità inquietante. «Sei nervosa, eh? Che dolce.»
«Non vedo proprio perché dovrei
esserlo.» mentì nuovamente Kim, continuando tuttavia ad allontanarsi tanto
quanto lui avanzava.
N ridacchiò. «E anche il fatto che
lo neghi è così... adorabile. Sai, » aggiunse, tornando serio. «C’è una cosa
buona dell’essere cresciuto con i pokémon.» Kim sentì il freddo della parete
contro la schiena. Ma la porta, alla sua sinistra, sembrava ancora
tremendamente lontana. N le si avvicinò sempre di più, fino a trovarsi a meno
di un metro da lei. «Ho imparato a percepire le emozioni di chi mi sta
intorno.»
Kim lanciò un’occhiata alla porta,
pronta a scattare verso di essa qualora si fosse reso necessario, ma N appoggiò
una mano contro il muro, frapponendosi tra lei e la sua via di fuga. «Il tuo
odore, il tuo respiro, il modo in cui ti muovi... tutto di te mi dice che mi
temi.»
Il rumore dei battiti del suo cuore
le riempiva le orecchie, rendendole ancora più difficile pensare. Non si
disturbò neanche a contraddirlo; la sua stessa voce l’avrebbe tradita. Cercò
allora di schiacciarsi il più possibile contro il muro, come se avesse sperato
che questo potesse inghiottirla e farla passare dall’altra parte. Ma era e
rimaneva fatto di solidi mattoni, impossibili da penetrare.
È
troppo vicino. Troppo. Di questo passo...
«Ma ho l’impressione che si tratti
di un timore positivo.» continuò N, prendendole il mento tra pollice ed indice
e costringendola a sostenere il suo sguardo. «Oserei dire che tu sia...
emozionata.»
Cazzo, no che non lo era. Aveva
solo paura da morire.
E aveva perso.
La voce di Lee le riecheggiò nella
mente, distante ed irreale. «Allora,
facciamo così.» aveva detto, appena poche ore prima. «Il primo che viene toccato da N, perde.»
«Allora,
mi porti a conoscere la tua cara e dolce mammina?»
Dopo più di mezz’ora, Kim se ne
stava ancora a rimuginare, cercando di dare un senso a quelle parole.
Erano arrivate così, da un momento
all’altro, inaspettate, assolutamente fuori posto. E le avevano lasciato in
fondo alla gola il sapore amaro della risposta che non aveva saputo dare.
Così, rimuginava, cercando di
ignorare la nausea da movimento e il continuo chiacchiericcio di N, seduto di
fronte a lei.
Quest’ultimo aveva attualmente
concentrato tutte le sue attenzioni su Lee (che ormai non si disturbava più
nemmeno a sorridere e annuire) e ora sembrava intento a leggergli la mano,
operazione per la quale gli si era completamente avviluppato attorno al
braccio, come una specie di tenaglia. O un Laccioerboso, per metterla in
termini più comprensibili a un allenatore.
«...e dunque, misurando la distanza
tra la base del palmo e la punta del dito medio, possiamo dire che sei un
ragazzo molto fortunato!» ridacchiò N, con una punta di malizia.
Lee avvampò. «C-c-che cosa stai- -?
Anzi, no, non voglio saperlo. Ti dispiacerebbe soltanto lasciarmi il braccio?»
«Ma devo ancora analizzare la linea
dell’a-mo-re! Non sei curioso?»
«Per niente.»
Lee sprofondò nel sedile e rivolse
a Kim un’occhiata supplichevole, ma lei non c’era. Fissava il paesaggio al di
fuori del finestrino, cercando di ricomporre un puzzle di cui, evidentemente,
non aveva tutti i pezzi.
«Che
cosa ti ha fatto?» le aveva chiesto Lee, quando l’aveva
vista uscire dalla sua stanza, rossa e affannata, in compagnia di N.
E lei aveva dovuto scuotere la
testa, confusa. Perché non le aveva fatto niente. Kim si era aspettata che,
maniaco patentato qual’era, N avrebbe approfittato della situazione per baciarla,
o fare chissà quale porcheria delle sue, ma, proprio quando le era arrivato
tanto vicino da farle temere il peggio, lui si era tirato indietro.
E le aveva chiesto di conoscere sua
madre.
Che
cosa cavolo avrebbe dovuto significare?
«Oooh, questa sì che è bella
complicata... lineare fino a qui, vedi, ma poi diventa intrecciata ed
irregolare.» N fece scorrere con attenzione la punta dell’indice sul palmo di
Lee. «Problemi di cuore con una signorina, forse? Oppure...»
«Davvero: non lo voglio sapere.
Perché non te la leggi da solo, la mano?»
Kim aggrottò le sopracciglia,
pensierosa.
Doveva esserci sotto qualcosa. Per
forza. N non si sarebbe mai fatto scappare un’occasione del genere, non senza
motivo. Non senza la certezza di ottenere qualcosa di meglio.
...l’illuminazione arrivò
improvvisa.
Forse era proprio così.
Ciò che era successo non aveva un
senso, semplicemente perché non era
necessario che lo avesse. Era stato un semplice pretesto per spaventarla e
confonderla, farle credere di aver frainteso qualcosa. Era stata una mossa
studiata e messa a punto, come al solito.
Perché per lui era tutto un gioco.
Per lui era sempre stato tutto un gioco, fatto di mosse, tattiche, infrazioni
alle regole e una malsana ossessione per la vittoria.
E questo la faceva imbestialire.
«Anche se è complicata, però, è
davvero molto lunga... quindi può darsi che, nonostante numerose delusioni
d’amore, tu sia legato da sempre a un’anima gemella di cui non ti sei mai
accorto...»
«Credimi: ma anche no.» protestò Lee, il cui colorito era ormai arrivato a
un’imbarazzante tonalità di rosso carminio.
«Oh, ma che sciocchino, non è mica
di me che...» N s’interruppe, improvvisamente distratto da qualcosa di più
importante della mano di Lee, e si fece pallido come un cencio. «K-kim... cos’è
quell’aura minacciosa...?»
La ragazza sorrise tranquillamente,
ma nessuno avrebbe potuto negare di avvertire delle oscure vibrazioni omicide
provenire dalla sua direzione. «Io? Ma che sciocchezza. Sono tranquillissima.»
Sia N che Lee deglutirono.
«Ahia... non so come, ma l’hai
proprio fatta arrabbiare.» disse Lee, con un filo di voce.
«Ma davvero? Non l’avevo notato.»
sussurrò N in risposta, sarcastico quanto a disagio.
Kim appoggiò i gomiti sulle
ginocchia e si sporse in avanti. «Quindi, N.»
disse, guardandolo dritto negli occhi, mentre si soffermava sul suo nome più di
quanto fosse necessario. Se gli sguardi avessero potuto uccidere, qualcuno
sarebbe stato in grave pericolo, lì dentro. «Che ne dici di piantarla con le
idiozie e iniziare a spiegarci che cosa ci facciamo in una carrozza?»
Sì, questa era un’altra delle cose
che l’avevano sconcertata: quando era arrivato il momento di recarsi al
fatidico appuntamento, una sfarzosa, elegante carrozza verde, che pareva
assolutamente fuori posto all’esterno di una favola, era venuta a prenderli
davanti a casa. Loro non avevano avuto altra scelta che salirci, ma tutto quel
ballonzolare stava iniziando a dare allo stomaco (oltre che sui nervi) a Kim.
N si strinse ancora di più al
braccio di Lee, intimorito. «Ho pensato che sarebbe stata... carina.» squittì,
in tono di scuse.
«Carina? Non farmi ridere. È disgustosa.» sputò Kim, stizzita.
Lee sembrò iniziare davvero a
preoccuparsi. «Seriamente, qualunque cosa tu le abbia fatto, scusati prima che
sia troppo tardi.» suggerì a N, probabilmente in pensiero per la propria
incolumità. «E, soprattutto, mollami il braccio. Ancora un po’ e me lo stacchi,
non mi sento più le dita!»
«Bene. Seconda domanda: dove
accidenti stiamo andando?»
N sorrise, sempre più pallido.
«Beh, questo però non posso dirvelo... dovrebbe essere una sorpresa...»
Ignorando i frequenti sobbalzi
della carrozza, Kim si alzò in piedi. «Dove. Stiamo. Andando.» ripeté, facendo
schioccare una nocca del pugno chiuso a ogni parola.
N sembrò sul punto di scoppiare a
piangere e vuotare il sacco, ma, proprio in quel momento, la carrozza frenò
bruscamente e si fermò.
Colta alla sprovvista, Kim perse
l’equilibrio e cadde in avanti, andando a cozzare dritta contro la parete della
carrozza, per poi ricadere all’indietro per il contraccolpo.
Gli Zebstrika che tiravano il
cocchio nitrirono e scalpitarono, e Kim si ritrovò con dei grossi lucciconi
negli occhi.
«Ahia...» gemette, portandosi una
mano alla fronte. Sbatté le palpebre un paio di volte, ma la sua vista si fece
man mano più offuscata.
«Kim? Ehi, Kim, tutto bene?»
«Accidenti, non è mai andata molto
d’accordo con le testate, lei... ha il cranio sottile...»
«Dobbiamo trovare del ghiaccio o
qualcosa del genere. Kim! Mi senti?»
Non
proprio, pensò Kim, confusa. Considerando che non capisco neanche più chi stia parlando.
«Figurati, ormai è partita per il
mondo dei sogni. Da piccola le succedeva sempre, dobbiamo solo...»
Il buio e la sensazione di
ovattamento che precedevano lo svenimento l’accolsero come un morbido cuscino.
Si lasciò andare.
********
Quando riprese conoscenza, intorno a
lei c’era un gran vociare e decisamente troppa, troppa luce. Richiuse
immediatamente gli occhi, confusa e irritata.
«Poverina, sembra che uno Zebstrika
le abbia dato una zoccolata in faccia...» stava dicendo una concitata voce
femminile, poco lontano.
«A me hanno detto che è stata
un’Energipalla delle più grosse mai viste, che l’ha sbalzata lontaaaaaana
così!» obiettò un’altra, più infantile ed eccitata.
«Io sapevo di una carrozza che si è
capottata a causa del passaggio di un branco di Deerling selvatici...» s’inserì
qualcun altro, forse un ragazzo.
«Dovete lasciarle aria!»
«Secondo me basterebbe un piccolo
Invertivolt a farla riprendere...»
Quelle voci le erano familiari...
tutte incredibilmente familiari... ma
fu qualcos’altro a farle realizzare chi aveva intorno.
«E tu cosa ne pensi?» chiese una
voce roca e un po’ burbera. «Non sembra niente di particolarmente grave, ma
forse del ghiaccio potrebbe essere utile... no?»
«...»
Un silenzio.
«Silvestro?» biascicò Kim,
riaprendo finalmente gli occhi.
Undici paia di pupille si fissarono
allora su di lei.
Esatto, proprio loro: i
capipalestra di Unima.
Kim provò l’irresistibile impulso
di prendere un’altra botta in testa e perdere di nuovo conoscenza.
Non
ha senso, pensò, frustrata. Non c’è una sola cosa che abbia il minimo senso, stasera!
Mentre si sollevava una nuova
ondata di chiacchiericcio («Oh, guardate, si è ripresa!», «Forse dovremmo
chiamare i suoi amici...»), Kim provò a fatica a fare il punto della
situazione.
Era svenuta. Quando era successo,
era ancora in quell’orrenda carrozza verde. Insieme a N e Lee. Si stavano
recando al luogo dell’appuntamento, o quello che era.
Quindi: cosa c’entravano i
capipalestra in tutto questo?
Una manina scura le sventolò
davanti alla faccia.
«Ehi, ehi, Kim! È davvero taaaaanto
tempo che non ci vediamo!»
La ragazza si raddrizzò,
combattendo con la confusione che le vorticava in testa, e si mise a sedere.
«Sì, sì, Iris... un sacco di tempo. Però cerca di stare un po’ calmina, eh?»
La più giovane dei capipalestra le
rivolse uno smagliante sorriso a trentadue denti. «Ma sono così contenta! Non
passi quasi mai a trovarci...»
Chissà
perché. commentò Kim, mentalmente.
Non aveva mai amato particolarmente
i capipalestra della sua Regione: tra stupidi, incapaci, deboli e complessati,
molti li aveva archiviati come meri incidenti di percorso, sulla sua strada per
diventare Campionessa della Lega.
E poi, in fondo, anche loro non
avevano mai dimostrato particolare benevolenza nei suoi confronti: l’avevano
sempre accolta come una seccatura, la ragazzina a cui “oh, accidenti!” dovevano
consegnare la loro medaglia. E anche adesso, una volta constatato che era viva
e parlava, se ne erano tornati tutti tranquillamente a farsi gli affari loro.
«Allooooora, dov’è il tuo vestito?
Dov’è?»
Beh, a parte quell’esagitata di
Iris.
«Vestito?»
«Sì, il vestito! Guarda, anche a me
il nonno ne ha comprato uno bellissimo!» esultò la bambina, facendo una
giravolta.
Solo allora Kim ebbe il buon senso
di guardarsi intorno.
Era seduta su un divano rosa antico,
di stile ottocentesco.
Il soffitto era alto, altissimo, e
l’illuminazione proveniva da degli enormi lampadari di cristallo.
Tutti intorno a lei erano vestiti a
festa, con degli abiti degni di un ballo di gala.
Nell’aria si diffondeva la melodia
lenta e dolce di un’orchestra.
«Iris...» disse Kim, esitante.
«Senti... sai dirmi dove siamo?»
«Ma certamente!» esclamò lei.
«Siamo nel...»
«Nel Castello del Team Plasma,
rimesso a nuovo per l’occasione.» la interruppe qualcuno, facendosi strada in
mezzo al gruppo di capipalestra.
Kim sbarrò gli occhi, esterrefatta.
Pian piano, tutti i nodi stavano
venendo al pettine. Mancava ancora qualcosa, un pezzo fondamentale di quel
puzzle insolubile, ma ogni frammento d’insensatezza stava volgendo verso una
sola spiegazione: quello non era un appuntamento. Non lo era mai stato. Era
qualcosa di molto, molto più grande e spaventoso. E lei c’era cascata come un
idiota.
«Perché, per caso non ti piace?»
chiese N, con quel sorriso particolare di chi è assai compiaciuto di se stesso.
«È tutto in tuo onore, in fondo.»
Kim si sentì sprofondare, vittima
della sua stessa stupidità. Solo tre parole dominavano la sua mente, ormai:
«Oh, porca vacca.»
********
«Siamo stati fregati.»
«Completamente.»
«Su tutta la linea.»
«Raggirati, senza alcuno scrupolo.»
«Crudelmente.»
«Atrocemente.»
«Assolutamente.»
«Sto iniziando ad esaurire la mia
scorta di sinonimi.»
Kim rivolse lo sguardo a Lee. «Che
cosa ci succederà?» chiese, con una nota di disperazione nella voce.
Lui le mise una mano sulla spalla e
la guardò dritta negli occhi, serio. «Non ne ho la minima idea. Ma, se sono
servite tutte queste macchinazioni a portarci qui, immagino che non possiamo
aspettarci niente di bello.»
«E allora che facciamo?»
«Aspettiamo.»
«Sì, ma p- »
«Punch?»
I due sobbalzarono per la sorpresa,
quando N s’intromise nella conversazione con due calici di liquido rosso
chiaro.
«Non accetto offerte dagli
sconosciuti.» gli rispose Kim, gelida.
N arricciò le labbra, deluso. «Come
sei crudele. Ormai ci conosciamo da secoli... e tu, Lee?»
Il ragazzo sorrise ed accettò
l’offerta, per la felicità di N, che tornò giocondo ad intrattenere gli altri
ospiti.
Kim gli lanciò un’occhiata
sottecchi. «Non dovresti bere. Specialmente stasera.»
«Io, a differenza di qualcuno che si atteggia tanto, reggo bene
l’alcool. Non preoccuparti.»
«Non importa, mi preoccupo lo
stesso. E poi, metti caso che N ci abbia mischiato qualcosa dentro... la cosa
non ti tocca minimamente?»
«Nah, l’obiettivo di N di oggi
sembra qualcosa di superiore. Non credo abbia intenzione di drogarci e
violentarci nel sonno.»
Kim gonfiò una guancia e si
appoggiò al muro, scocciata. «Scemo.» borbottò.
In effetti, fino a quel momento la
festa (o ballo di gala o cerimonia o appuntamento che dir si voglia) si era
svolta in modo piuttosto tranquillo. L’orchestra suonava, la gente ballava,
chiacchierava, mangiava... si divertiva. Un sacco di volti le erano noti: oltre
ai capipalestra, erano presenti anche moltissimi allenatori, esponenti del
mondo della Ricerca sui Pokémon, membri dell’ex Team Plasma e addirittura gli
stessi Superquattro, che Kim era stata attentissima ad evitare fin da quando li
aveva adocchiati.
Ciò che più la preoccupava,
tuttavia, era il piccolo palco allestito in fondo alla sala, che finora era
rimasto vuoto e buio. Qualcosa le diceva che non avrebbe portato a nulla di
buono.
«C’è davvero mezza Unima, qui
dentro.» commentò Lee, sorseggiando il suo punch.
«Anche di più. Ma ho l’impressione
che manchi qualcuno... qualcuno di importante, intendo.»
«Beh, Arceus non voglia che Ghecis
spunti fuori a metà serata.»
«Per carità! No, piuttosto, non mi
sembra di avere visto in giro... anzi, lascia perdere. Meglio non dirlo ad alta
voce, per scaramanzia.»
«Ah, lei? Hai ragione, meglio non nominarla nemmeno.»
«Lei? In realtà, io mi riferivo a
un “lui”...»
La conversazione fu interrotta dal
fastidiosissimo fischio di un microfono, che zittì tutti i presenti e richiamò
l’attenzione sul palco in fondo alla sala.
«Uno, due, prova...» N si schiarì
la voce e batté un paio di volte sul microfono. «Bene. Buona sera a tutti,
signore e signori! Vi ringrazio per essere intervenuti a questa serata
speciale.»
Kim storse il naso. «Spero solo che
non annunci il matrimonio con uno di noi due, perché questa volta lo pesto sul
serio.»
Lee ridacchiò, ma probabilmente fu
solo per scacciare il crescente nervosismo. «Ho come l’impressione che ci
andrebbe anche bene, se si trattasse solo di questo.»
«Tanto per cominciare, lasciate che
vi racconti una storia.» continuò N, sfoderando un piacevole tono da narratore.
Le luci nella sala si abbassarono, lasciando solo un riflettore puntato su di
lui. «C’erano una volta, al principio dei tempi, tre bambini e tre pokémon
Drago, che vivevano nell’armonia della natura. Nonostante fossero tutti e sei
molto amici, avevano modi di vedere il mondo diversi tra loro, così ogni
bambino finì per stringere un legame speciale con uno dei pokémon. In
particolare, una coppia perseguiva gli ideali; un’altra, la verità. Lo scontro
fra le due, come tutti ricorderete, fu inevitabile. Nessuno voleva ammettere di
essere in torto, così chiesero un’opinione al terzo bambino. O, per meglio
dire, la terza bambina, dato che si
trattava dell’unica femmina del gruppo.» N fece una pausa, sorrise al pubblico
e poi riprese: «Lei non perseguiva né la verità né gli ideali: era una creatura
mite e gentile, il cui unico interesse era vivere in pace con i suoi amici.
Disse loro che la ragione non stava da nessuna delle due parti e che non aveva
senso litigare a causa di una semplice divergenza di pensiero. Ma essi,
accecati dall’orgoglio e dal desiderio di prevalere l’uno sull’altro, non ne
vollero sapere di riappacificarsi. E quell’epico litigio finì come tutti
sappiamo.
«La bambina e il suo pokémon
rimasero amareggiate da ciò che era avvenuto e decisero che niente del genere
sarebbe più dovuto succedere. Così, lanciarono una maledizione.»
La sala d’un tratto parve gelare.
Alcuni iniziarono a bisbigliare, agitati.
«Non promette nulla di buono...»
sussurrò Lee, con un velo di preoccupazione. «E non ti sembra parecchio diversa dalla leggenda
classica di Zekrom e Reshiram?»
Kim annuì. «Qualcosa non va. Non mi
piace.»
«La maledizione diceva che, se mai
i due pokémon che avevano causato tanta distruzione fossero tornati alla loro
forma originale, una terribile catastrofe si sarebbe abbattuta sull’intera
regione di Unima. Una catastrofe a cui nemmeno i leggendari pokémon Drago
sarebbero sopravvissuti.
«Dopodiché, come prezzo in cambio
quella maledizione, le due si tramutarono in una pietra nera come la più
profonda oscurità, a simboleggiare lo strazio e la delusioneche le avevano portate a compiere quel gesto
tremendo.»
A quel punto, il pubblico parve
davvero agitarsi. Il volume delle voci si alzò, molti iniziarono a correre da
una parte all’altra della sala per conferire coi conoscenti, causando una
confusione generale.
«Che cosa significa?»
«Ma Zekrom e Reshiram si sono risvegliati...»
«Non ho mai sentito una leggenda
del genere!»
«Moriremo tutti?»
N batté un dito sul microfono,
producendo di nuovo un irritante fischio che ebbe il potere di zittire tutti.
«Calma, signori, calma.» disse, mantenendo un amabile sorriso. «Vi prego di
lasciarmi concludere il racconto. Ovviamente, la maledizione lascia una via di
scampo. La bambina e il suo pokémon Drago avevano caro il valore dell’amicizia,
perciò decisero che se tre Eroi, come lo erano stati loro, avessero trovato la
Pietra Nera, Unima sarebbe stata salva.»
Alcuni sospirarono di sollievo, ma
molti altri sembravano ancora dubbiosi.
Kim rabbrividì e strinse le braccia
al petto, nervosa. «I nodi vengono al pettine.» disse, più a se stessa che
altro. «Tutti i nodi vengono al pettine... ecco perché N è arrivato a
ricattarci, pur di trascinarci qui. Ecco perché oggi non sembrava interessato
ad approfittarsi di noi, non più di tanto.»
«“Ecco perché Nardo sta salendo sul
palco”?» aggiunse Lee, con una nota di panico nella voce.
Kim sbarrò gli occhi, sorpresa. Era
vero. Dopo aver detto qualcosa sul non essere adatto a continuare il discorso,
N stava ora cedendo il microfono al Campione della Lega Pokémon di Unima.
«Ecco, lo sapevo che non poteva non
esserci anche lui.» sospirò Kim, abbattuta. «E ho come l’impressione di sapere
già cosa sta per dire. Siamo morti.»
«Concordo e sottoscrivo.» confermò
Lee.
«Signore e signori.» incominciò
Nardo, che con i suoi capelli infuocati pareva minacciare di appiccare un
incendio da cui nessuno sarebbe uscito vivo. «Vi prego di rimanere sereni.
Perché, come ben saprete, Unima ha già da tempo scelto i suoi tre eroi. Tre
figure che sono spiccate per talento, audacia, forza, tenacia...»
«...abilità a Ragnarok Online...»
gli fece il verso Kim, alzando gli occhi al cielo.
«...ma soprattutto gentilezza, buon
cuore e correttezza. Tre eroi che abbiamo l’onore di ospitare qui, stasera.
Chiedo un caloroso applauso per accogliere...»
«Ed, Edd e Eddy?» suggerì Lee,
quasi speranzoso.
«Leeroy
McFaid, Kimberly Anne Stewart e N Harmonia!»
Lee si slacciò un bottone della
camicia, cercando un’aria che non c’era, incerto nell’atto stesso del
respirare. I riflettori gli gettavano addosso una luce calda e asfissiante, che
gli rendeva difficile guardare davanti a sé, verso la platea in subbuglio.
Non che ce ne fosse bisogno: sapeva
già perfettamente cosa stava accandendo, là sotto. La gente, agitata come non
mai, discuteva, litigava, si faceva avanti per fare domande, si mordeva le
mani, sorseggiava nervosamente da bicchieri quasi vuoti. Ma, soprattutto, Lee
riusciva distintamente a percepire tutti quegli sguardi sulla pelle, quasi lo
stessero bruciando. Sguardi pieni di aspettativa, perché lui era l’Eroe e li
avrebbe salvati. Perché lui era l’Eroe e avrebbe sistemato tutto.
Perché
lui era l’eroe, ma quel senso di notorietà gli dava la nausea.
Alcuni flash scattarono,
costringendolo a distogliere gli occhi per non rimanerne accecato. Incontrò lo
sguardo di Kim, che gli era accanto, non meno nervosa e sudata. Le prese la
mano, sperando che potessero farsi forza a vicenda.
«Un quarto d’ora.» disse, in un
sussurro. «Se resistiamo ancora un quarto d’ora, poi potremo tornare a casa e
fingere che non sia mai accaduto.»
Kim annuì, visibilmente tesa. «Lo
so. Dobbiamo solo farli contenti.»
Esatto,
pensò Lee. È solo per farli contenti.
Come animali da circo, siamo esposti per compiacere il pubblico e distrarlo
dalle sue preoccupazioni. Perché chi tira i fili non può permettersi un’Unima che
si preoccupa.
Nel frattempo, Nardo stava
continuando il suo discorso, con grande trasporto: «Così come è stato nove mesi
fa, questi ragazzi hanno in mano le sorti di Unima e, forse, anche del mondo
intero. E, proprio come nove mesi fa, noi dobbiamo avere fiducia in loro.»
Kim schioccò la lingua. «Ma non nel
nostro Campione, sembra.» sibilò, stizzita.
«Ehi.» l’ammonì Lee, con
un’occhiataccia. «Non sono passati neanche trenta secondi.»
«Ma non lo sopporto! Deve sempre –»
«Sorridi e annuisci. Fammi solo questo
favore: sorridi e annuisci.»
Lee lo disse come se fosse stata la
cosa più semplice del mondo, ma sapeva anche lui che non reagire alla quantità
allucinante di idiozie che Nardo sparava abitualmente era tutt’altro che
facile. Lui stesso stava facendo parecchia fatica a sopportarlo; figurarsi Kim,
con il temperamento che si ritrovava.
Sul palco sembrava fare sempre più
caldo ogni secondo che passava. Lee si chiese come facesse N a rimanere
tranquillo e sorridente accanto a Nardo, senza neanche una goccia di sudore a
imperlargli il viso. Ma, dopo tutto, N era una cosa a parte. Probabilmente non
era neanche un essere umano, ma una qualche specie di Ditto geneticamente
modificato.
«Queste tre anime saranno la nostra
salvezza!» ruggì Nardo in quel momento, con tale veemenza da far ammutolire
(oltre che sobbalzare violentemente) tutti i presenti. «Ci salveranno e faranno
rinascere una nuova Unima! E io ho fiducia in loro, ho fiducia in chi ha sempre
avuto la forza di...»
Lee sentì Kim stringergli forte la
mano, all’improvviso.
«Cos’ha appena detto?» chiese la
ragazza, con una nota di preoccupazione.
Lui le rivolse uno sguardo
interrogativo. «Le solite cose, no? Che ha fiducia in noi e...»
«No, intendo – »
«Una dichiarazione!» urlò una
reporter, tra la folla. «Vogliamo una dichiarazione da parte degli Eroi!»
Kim e Lee non ebbero neanche il
tempo di sorprendersi: N li aveva già presi a braccetto entrambi e trascinati
davanti al microfono insieme a lui, nel giro di un nanosecondo.
«Se avete domande da fare, saremo ben
lieti di rispondervi.» disse, accompagnandosi con un sorriso così puro da
sembrare scintillante. O forse erano solo i faretti a temperatura solare che
gli avevano appena puntato in faccia.
In mezzo al pubblico, alcune
ragazzine srotolarono uno striscione su cui era dipinta la scritta “N ti
amiamo! ♥”, accompagnandosi con urletti striduli e salutando con la mano.
Ex reclute del Team Plasma. pensò
Lee, trattenendosi a stento dallo storcere il naso. Bah.
«È la seconda volta che vi viene
affidato un compito tanto importante.» chiese nel frattempo una reporter.
«Pensate di esserne all’altezza?»
La risposta di N fu immediata:
«Ovviamente, per noi è un grande onore essere stati scel-»
Ma quella risposta perfettamente
studiata fu inaspettatamente interrotta da Kim, che si sporse a sua volta verso
il microfono. «Beh, però non dimentichiamoci che N era dalla parte dei cattivi,
l’ultima volta.» disse, suscitando alcune risatine tra il pubblico e chiari
segni d’indignazione da parte dell’ex Team Plasma. Dovevano averla presa come
una battuta, e lei sembrava assolutamente intenzionata a lasciare che lo
credessero. «Quanto all’esserne all’altezza... beh, tutti e tre abbiamo battuto
l’attuale Campione della Lega senza problemi, quindi vi sfido a trovare
qualcuno di più qualificato. Vero, Nardo?» aggiunse, con un tono di voce così
zuccheroso da non poter non apparire falso a chiunque la conoscesse.
Il suddetto Campione incassò la
frecciatina e rispose con un sorriso benevolo.
«Non siete un po’ troppo giovani
per caricarvi sulle spalle il destino di un’intera Regione?» chiese un altro
reporter.
N provò a riprendere cautamente
possesso del microfono, ma Kim non glielo permise. «Sì.» disse, semplicemente.
«Sì, lo siamo.»
Quest’affermazione colse un po’ di
sorpresa anche i giornalisti, ma le domande ripresero quasi subito:
«Cosa ne pensano i vostri
genitori?»
«Non lo so, l’unico desiderio di
mia madre è buttarmi fuori di casa, quindi credo che pensi: “Evviva, è la volta
buona!”»
«Come pensate di trovare la Pietra
Nera?»
«Chissà, forse le bacchette da
rabdomante funzionano anche per le pietre maledette. Ci inventeremo qualcosa.»
Lee osservò Kim rispondere a una
domanda dopo l’altra, con quella sua solita sincerità disarmante, così tanto da
sembrare che scherzasse. Che cos’aveva in mente? Una parola di troppo e non
avrebbero più potuto farsi vedere in pubblico. E Kim era famosa per essere un
tipo molto poco discreto.
Sorprendentemente, però, le cose
andarono lisce come l’olio: la gente rise e si tranquillizzò sempre di più,
ignara di come l’Eroina che ammirava stesse approfittando dell’occasione per
lamentarsi di tutto ciò che non le era mai andato giù.
«Abbiamo capito che siete degli
allenatori di talento,» disse, a un certo punto, uno dei giornalisti. «Ma,
secondo la leggenda, non è il talento ciò che serve a trovare la Pietra. È
l’amicizia.»
Per la prima volta, Kim esitò un
attimo a rispondere e N ne approfittò per anticiparla. «Vi assicuro che su
questo punto non c’è nulla di cui preoccuparsi.» disse, circondando con le
braccia sia Lee che Kim. «Perché il nostro legame è forte ai limiti
dell’indistruttibilità; non è vero, ragazzi?»
E Kim gli diede una ginocchiata.
Dritta nello stomaco, con tutta la
forza che aveva.
N cadde a terra e Unima andò nel
panico.
**********
«Lee, lasciami. Lasciami, ho detto!
Lo devo picchiare.»
«Calmati. Ci sono cose più
importanti da...»
«NO! Ha osato palparmi e ora deve
morire. Non sarò soddisfatta finché non gli avrò spezzato tutte le ossa, cavato
gli occhi e...»
«Kim. Ti darò una mano anch’io a pestarlo, ma dopo. Ora dobbiamo pensare a come sistemare le cose.»
Lei sbuffò e smise di fare
resistenza. Dopo essersi assicurato che non avesse intenzione di fare gesti
inconsulti, Lee rilasciò la presa che aveva sulle sue braccia.
Quando Kim aveva steso N con quella
fatale ginocchiata, che era già pronta a finire in prima pagina e con grandi
probabilità sarebbe passata alla storia,Lee era immediatamente scattato ad afferrarla, impedendole di peggiorare
la situazione. Si era visto passare tutta la vita davanti: tutti i loro sforzi,
le lacrime, la pazienza che avevano dovuto avere di fronte a un mondo che
pretendeva troppo; tutto era andato in fumo, nel momento in cui Unima aveva
scoperto che i suoi “Eroi” non andavano affatto
d’amore e d’accordo come avevano fatto credere.
Dopo un iniziale silenzio
scioccato, il pubblico era esploso e la confusione aveva iniziato a regnare
sovrana. Nardo era immediatamente corso ai ripari e aveva condotto Lee e Kim
(che aveva continuato a scalciare e urlare ogni insulto o imprecazione le
venisse in mente) in una delle stanze vuote del castello, dove li aveva chiusi
a chiave “per sicurezza”.
Kim si massaggiò i polsi con un’espressione
amareggiata. «Tu... proprio non sai cosa vuol dire.» mormorò. «Delle dita
estranee che ti tastano il reggiseno... non sai cosa vuol dire.»
Lee trattenne a stento uno sbuffo e
alzò gli occhi al cielo. D’accordo, Kim era una ragazza e, per questo,
possedeva una sensibilità diversa a quel tipo di cose, ma perché doveva essere
sempre così melodrammatica? Si trattenne però dal lamentarsi: lei si sarebbe
sicuramente offesa, e una Kim offesa era l’ultima cosa di cui aveva bisogno, al
momento. «Va bene, non lo so e mi dispiace che tu abbia dovuto sperimentarlo.
Ma ciò non cambia che hai combinato un bel casino e dobbiamo porvi rimedio.»
«Io ho combinato un casino? Dillo a quel maniaco, cazzo!»
«Non ho detto che è stata colpa
tua.»
«E allora che cosa vuoi?»
«Non lo so!»
Senza volerlo, Lee finì per alzare
la voce. Si rese conto di averlo fatto quando vide Kim mordersi un labbro e
abbassare lo sguardo.
Scrollò le spalle e fece un respiro
profondo, riacquistando così un po’ di calma. «Scusa.» disse piano. «Non è
stata colpa tua e non hai fatto niente di sbagliato. Solo... non so neanch’io
cosa potrebbe succederci, adesso.»
La testa infuocata di Nardo fece
capolino da dietro la porta. «Buonasera, ragazzi!»
Entrambi sobbalzarono, colti alla
sprovvista, e il Campione entrò nella stanza. Al suo seguito c’era N, che
sembrava ancora incerto nel reggersi in piedi.
«Com’è andata?» chiese Lee, teso.
Nardo si sforzò di sorridere con
tutte le sue forze, ma ne venne fuori solo una smorfia inquietante. «Beh,»
disse. «Abbiamo provato a raccontare che Kim si era accorta di un riflettore
sul punto di cadere e ha salvato N da morte certa, ma non se la sono bevuta.»
Beh,
gli abitanti di Unima sono stupidi, ma non fino a questo punto.
pensò Lee. Anche se da Nardo non ci si
potevano aspettare idee migliori, suppongo.
«Allora,» continuò il Campione.
«Abbiamo provato a ritrattare, dicendo che in effetti N era scivolato da solo,
cadendo per pura coincidenza sul ginocchio di Kim, che lo stava alzando per
sgranchirsi... ma non si sono bevuti neanche questa.»
Lo sbuffo esasperato di Kim valse
più di mille parole.
«Infine...»
«E questa è stata una mia idea.» precisò N, con una punta di
orgoglio.
«...abbiamo giustificato la
reazione violenta e assolutamente involontaria di Kim con panico da
palcoscenico combinato a sindrome premestruale.»
«Che forse avrebbe anche
funzionato, se fosse stata proposta per prima.» lo interruppe di nuovo N,
scocciato. «Ma qualcuno ha dovuto
fare a modo suo.»
«Sindrome premestruale? Ora te la
do io una bella sin-»
«Kim. Tra dieci minuti potrai avere
tutta la violenza che vuoi, ok?»
Nardo scoccò ad N un’occhiata di
fuoco. «Ho l’impressione che tu stia dimenticando che è stata la tua mancanza
di criterio a scatenare questa confusione, ragazzo. Ma qualcuno non lo dimenticherà.»
N gonfiò una guancia e distolse lo
sguardo. «Sono un maschio adolescente in piena salute.» bofonchiò, con una
punta di rossore sulle guance.
«Ancora per poco.» gli assicurò Kim
in un sibilo, facendo schioccare minacciosamente le nocche.
«In ogni caso, » riprese Nardo,
cercando di evitare ulteriori danni. «Alla fine abbiamo dovuto dire la verità,
ovvero che gli Eroi hanno avuto qualche controversia, ma ci stanno lavorando.»
«Sarà manna per i giornalisti.»
sospirò Lee, scoraggiato. «Cosa possiamo fare?»
Sempre tentando di ignorare lo
sguardo truce di Kim, N sorrise. «Beh, è semplice.» disse. «Se salviamo davvero
il mondo, nessun avrà da ridire, no?»
Sia Lee che Kim lo guardarono come
se fosse stato stupido.
Poi, dopo qualche secondo di
sgomento, Lee si lasciò scappare una risatina. «Credo che qui ci sia stato un
piccolo fraintendimento.» spiegò. «Noi non abbiamo alcuna intenzione di “salvare il mondo”. Ma neanche per scherzo!»
A quel punto, fu la volta di Nardo
e N di guardarli come se fossero stati pazzi.
«Ma... voi siete gli Eroi del
Chiarolite!» esclamò il Campione, basito. «Avete delle responsabilità!»
Kim sbuffò, ma, in qualche modo,
sembrava anche lei abbastanza divertita dalle assurde aspettative di quei due.
«Per la trentaseiesima, sacrosantissima volta, Nardo: io quel Chiarolite non lo
volevo neanche accettare! Avete finito di rompere le scatole, tutti quanti?»
«Ma...!»
«Ci siamo già fatti incastrare una
volta, non ci pensiamo neanche a ripetere l’esperienza.» disse Lee, categorico.
«E poi, avanti, “la Pietra Nera”? Da dove l’avete tirata fuori?»
«Ma...!»
«Esatto, è completamente
insensata.» concordò Kim. «La leggenda classica parla di due pokémon Leggendari, quale sarebbe il terzo? E perché avrebbe
dovuto prendersela con l’intera Regione?»
«Ma!»
«E, in ogni caso, davvero non se ne
parla. Abbiamo finito di correre avanti e indietro per Unima solo per i vostri
comodi, aiutare ogni deficiente che passa e tirare giù i gattini dagli alberi,
senza neanche uno straccio di ricompensa o riconoscimento di alcun tipo,
continuam-»
«Un attimo!» riuscì finalmente ad
interromperli N, rivolgendo teatralmente il palmo aperto ai ragazzi per
esortarli a tacere. «Non abbiamo mai detto che non ci sarebbe stata una
ricompensa per i vostri sforzi.»
Kim alzò un sopracciglio. «Ovvero?
Continua.»
Felice di aver ottenuto la loro
attenzione, N tirò fuori dalle tasche due sfere poké. «Tanto per cominciare,»
disse, lanciando a Lee quella che aveva nella mano destra, una megaball.
«Questa ve l’avevo promessa in ogni caso.»
«Ah! Guarda, Lee, è Lombat-»
«Il Deerling. Sì, Kim, è lui.»
«Questa, invece...» continuò N,
lanciando in aria la premier ball che teneva nella sinistra, per poi
riafferrarla. «L’ho pensata appositamente per te, peperino.»
Rivolse lo sguardo e un dolce
sorriso a Kim, che ricambiò con un’occhiata diffidente, e premette il pulsante
di apertura della sfera.
Oh,
merda. pensò Lee, nell’istante in cui identificò il pokémon
che si era appena materializzato nella stanza. Quell’affare significa guai. Guai molto grossi.
Il volto di Kim s’illuminò e i suoi
occhi si fecero grandi come tazzine da caffè. «Pa... pa...» balbettò, di colpo
rossa per l’emozione. «Pa... pa... pachi... pa...»
«Kim... cerca di stare cal-»
«PACHIRISU!» esclamò infine la
ragazza, gettandosi a prendere tra le braccia quell’adorabile scoiattolo
elettrico. Letteralmente in brodo di giuggiole, strofinò le guance contro le
sue, profondendosi in versetti dal significato recondito.
N cercò di nascondere dietro alla
mano una risatina intenerita e soddisfatta. «Immaginavo che avresti
apprezzato.» disse, un attimo prima di riaprire la premier ball. Kim si vide
scomparire da sotto il naso il pokémon dei suoi sogni e le si stampò in viso la
classica espressione da bambina-a-cui-hanno-rubato-la-caramella. Si voltò verso
N, gli occhi che dicevano solo: “Ridammelo, ridammelo, farò qualunque cosa, ma
ridammelo”.
«È tuo, se lo desideri.» continuò
N. «A condizione che accetti di tornare ad essere l’Eroina di Unima.»
Kim si morse un labbro. Era facile
capire cosa le stesse passando per la testa: voleva quel Pachirisu, lo voleva
davvero tanto, ma non sapeva se era disposta a sacrificare addirittura i suoi
ideali, per quel semplice e adorabile frugoletto peloso.
Ma alla fine cedette, e Lee vide
con orrore quel cedimento sul suo viso, mentre allungava la mano verso N. Lui
sorrise con soddisfazione e le porse la sfera.
Ma le dita di Kim non arrivarono
mai a toccarla, perché Lee le afferrò il polso e la costrinse a riabbassare il
braccio. «Non ci provare nemmeno, a venderti così.» disse, fissandola con
disappunto.
«Ma... è un Pachirisu...»
piagnucolò lei, combattuta.
Lee sospirò. Ogni tanto, più che il
suo migliore amico, aveva l’impressione di essere il suo baby sitter. «Senti.»
disse, battendole due nocche sulla fronte. «Un giorno ce ne andremo a Sinnoh e
cattureremo tutti i Pachirisu che vorrai, te lo prometto.»
«Ma servono il passaporto
interregionale e un sacco di soldi e la firma del Presidente della Game
Freak...»
«E noi ci andremo lo stesso, anche
a costo di farlo illegalmente. Ma ora cerca di tornare lucida, ok?»
Kim annuì, poco convinta.
«E poi...» aggiunse Lee, sottovoce.
«Fossi in te, io non accetterei offerte da uno che ha cercato di palparmi,
sai.»
Lei, a quel punto, parve
risvegliarsi di botto. «Ah, è vero!» esclamò, battendosi una mano sulla fronte.
«Devo ancora cavargli –»
N si schiarì la voce, forse per
salvaguardare la sua sopravvivenza. «Se è così che stanno le cose, allora...»
disse, con un che di dispiaciuto. «Ci rimane un solo modo per sistemare la
questione.»
Lee si irrigidì e strinse un poco
il polso di Kim. «E cioè?»
La palestra era vuota, gli spalti
silenziosi e deserti.
Erano sempre così, le lotte contro
N: qualcosa di segreto, clandestino, attimi rubati alle loro vite. Nessuno
spettatore indesiderato, solo gli allenatori e i loro pokémon.
Quell’ennesimo, ufficioso scontro
non era ancora incominciato, ma, divisi solo da un metro d’aria e dalla sottile
linea di metà campo, due allenatori erano già nel mezzo di una singolare
battaglia.
«Wrestling.»
«No.»
«Karate.»
«No.»
«Lotta libera.»
«No.»
«Wrestling.»
«No!»
«Pugilato.»
«No.»
«Risiko.»
«Che cosa c’entra?»
«È per distruggerti almeno
emotivamente. Qwanki do.»
«No.»
«Wrestling.»
«Kim, senti.» rise N, trattenendosi
a stento dal darle un buffetto sulla guancia (gesto per il quale avrebbe dovuto
pagare con la vita, probabilmente). «Siamo allenatori, tra di noi le cose si
regolano con le lotte pokémon. E poi, siamo già qui.»
Lei s’imbronciò, palesemente
scocciata. «Ma io voglio picchiarti.
Per una volta nella vita, sii uomo e accetta la mia sfida.»
N le fece un breve inchino, in
parte volto a schernirla. «Mi dispiace, ma non sono solito azzuffarmi con le
signorine.»
Dietro di loro, Lee tossicchiò: «Ma
quale signorina?», guadagnandosi un’occhiataccia da parte di quest’ultima.
Il sorriso di N si fece ancora più
marcato. Quella situazione lo divertiva: non solo aveva nuovamente l’occasione
di sfidare gli unici due allenatori di Unima contro cui valesse la pena
combattere, ma questi si rivelavano, come al solito, le creature più adorabili
del pianeta.
Kim e Lee. Lee e Kim. Che lo
detestavano da sempre, ma che gli avevano smosso qualcosa nel cuore.
Quanto volentieri li avrebbe...
«Lee. Ehi, Lee.» sussurrò Kim,
dando una gomitata all’amico. «Il maniaco ci sta guardando in modo strano.»
N si portò un pugno alle labbra e
si schiarì la voce. «Dunque,» disse, alzando gli occhi a contemplare una
meravigliosa quanto inesistente macchia sul soffitto. «Io ho qui due pokémon e
voi uno ciascuno. Niente Leggendari, niente strumenti, se riuscite entrambi a
sconfiggermi vincete. Chi si fa avanti per primo?»
Non si stupì affatto di vedere Kim
raddrizzarsi e fare un passo verso di lui.
«Io, naturalmente.» disse la
ragazza, senza esitazione, per poi puntargli un dito contro. «Abbiamo un conto
in sospeso e non vedo l’ora di regolarlo.»
N sorrise. Era esattamente quello
che si era aspettato: Kim, arrabbiata e poco lucida, impulsiva, fin troppo
facile da battere. Dopodiché, avrebbe avuto lei e Lee tutti per sé fino al
compimento della loro nuova missione. Forse era valsa la pena di prendersi
quella ginocchiata...
«No.»
Suscitando lo stupore condiviso di
Kim e N, Lee mise una mano sulla spalla di lei e scosse la testa. «Vado io per
primo, oggi.»
Kim corrugò la fronte e girò la
testa verso di lui. «Sei sicuro?» chiese, incerta. «Guarda che lo faccio
volentieri. Tu sei già dovuto stare dietro a questo pazzo per tutta la sera...»
Lee le rispose con un ghigno e le
pizzicò una guancia. «E tu hai preso una testata epica, siamo pari. Per una
volta, lascia a me le luci della ribalta, ok?»
«Ok.» sospirò lei, con una punta di
delusione. «Buona fortuna, allora.»
N la osservò avviarsi verso gli
spalti, poi tornò a voltarsi verso Lee. Si era fatto avanti perché si era
accorto delle sue intenzioni? O soltanto perché voleva battersi contro di lui?
Beh, poco male. Se li conosceva come credeva, aveva già pronte le strategie
perfette per battere sia lui che Kim, a prescindere da chi avesse aperto le
danze.
«Allora,» disse, tirando fuori
dalle tasche due sfere poké. «Sfera A o sfera B?»
«La prima, senza dubbio.»
«D’accordo...»
Mentre si dirigevano agli estremi
opposti della palestra, N sorrise tra sé. Aveva previsto il contrario, in
verità: che Lee, più propenso al ragionamento che non all’impulsività, avrebbe
scelto la seconda sfera.Ma andava bene
anche così. Sarebbe stata una lotta interessante.
*******
«Lee! Lee!»
La voce di Kim, nell’auricolare
dell’interpoké, per poco non lo assordò.
«Ehi, ti sento! Non trasformarti in
un’Aralia numero due, per piacere.» sbottò il ragazzo, sistemandosi la visiera
del cappellino.
«Sì, ok, però mi è appena venuta in
mente una cosa.»
«Cioè?»
«Che sei un bugiardo. Tu odi le luci della ribalta, stare al
centro dell’attenzione. Scemo.»
C’era una nota di irritazione in
quelle parole, ma Lee sapeva che il suo gesto le aveva fatto piacere. Almeno,
nella misura in cui non le dispiaceva aver perso l’occasione di fare nero N per
prima.
«Non sempre.» mentì il ragazzo,
restio ad ammettere di aver agito solo per evitare che lei si buttasse alla
cieca nella battaglia. Era esattamente il tipo di affermazione che l’avrebbe
fatta arrabbiare; mancanza di fiducia, o qualcosa del genere. «Non abbiamo
nemmeno degli spettatori, sono sicuro al 90% di sopravvivere.»
Kim probabilmente sbuffò, perché
l’auricolare emise un orribile suono scricchiolante, simile a un crackle crackle. «Ah, guarda, sta per
cominciare. Vedi almeno di fargli il culo, ok? Il pubblico vuole vedere il
saaaangue.»
Lee rise, puntando ora lo sguardo
su N, che stava lanciando la sua sfera. «Contaci. Saaaangue.»
Dalla chic ball di N uscì un getto
di aria gelida, che arrivò in un istante a permeare l’intera palestra, subito
seguito da due riccioli di gelato alla panna.
Vanilluxe tintinnò in direzione del
suo padrone.
Interessante.
pensò
Lee, con un mezzo sorriso, mentre faceva ruotare la sua pokéball sul palmo
della mano. Un piccolo vizio, nato quando per la prima volta aveva lanciato in
campo il suo starter e mai dimenticato.
«Samurott, vai!»
Accompagnato da un tonfo che fece
tremare il campo di battaglia, il fiero pokémon d’acqua si materializzò di
fronte a lui. Come d’abitudine, dopo nemmeno un secondo, un ruggito gli riempì
le orecchie e gli fece vibrare i timpani, in quel modo per lui familiare e
rassicurante, nonostante fosse volto a spaventare i nemici.
«Ma come, non hai scelto Lilly?!»
la voce di Kim rischiò di nuovo di assordarlo. «Cavolo, con lei sarebbe stato
così facile! Un Foglielama e bam!,
addio Vanilluxe.»
Lee si massaggiò un orecchio,
leggermente stordito. «Kim, se non la smetti di urlare chiudo la comunicazione,
giuro.» borbottò. «Lilligant è alla Pensione, è la sua Settimana
Relax&Divertimento.»
«La sua cosa?»
«“Settimana Relax&Divertimento
di Nonnina – e con il pacchetto ‘Fango Per Tutti’ il secondo pokémon entra
gratis!”. Non hai visto la pubblicità?»
«Ma... ma perché?» chiese Kim, ai
limiti della disperazione. «Ok, immagino che Lilly abbia una pelle delicata,
ma...»
«È stata brava, durante la nostra
battuta di caccia a Deerling, ho pensato di ricompensarla con una piccola
pausa.»
Kim sospirò. «Sarà... e intanto ci
troviamo con quel bestione di Samurott.»
«Fidati di me. Lilligant non è il
mio unico asso nella manica.» sorrise Lee. «Tu sei riuscita a vincere battaglie
in condizioni molto più sfavorevoli, solo con quella pulce di Porchetta, no?»
«Beh, ma io sono io.»
Lee fece finta di non averla
sentita. «Il succo è: abbi fiducia nel mio starter. Siamo anche in leggero
vantaggio, contro il ghiaccio.»
«Sì, però...»
«Ehi, pensi di startene lì a
chiacchierare ancora per molto?» urlò N, in tono di sfida. «Perché la lotta è
iniziata da un pezzo. Vanilluxe, usa Grandine!»
Accompagnandosi con un tintinnio di
cristalli, Vanilluxe eseguì gli ordini del suo allenatore. Dalla cannuccia
sulla punta di una delle due teste, iniziò a uscire sempre più vapore
ghiacciato, che andò a condensarsi sopra al campo di battaglia, fino a formare
una vera e propria nuvola.
Dopo pochi secondi, dalla nuvola
incominciarono a piovere grossi chicchi di grandine. Samurott sbuffò, ma non ne
sembrò particolarmente infastidito.
«E questo lo chiami un attacco?»
chiese Lee, in un insolito attacco di sbruffoneria, forse causato
dall’incredulità.
N non rispose alla provocazione; si
limitò a un sorrisetto dei suoi, quelli che potevano voler dire tutto e niente.
Era soddisfatto? Divertito, addirittura? O stava solo bluffando?
Di
certo ha un piano. pensò Lee, all’erta. Se scopro qual è, posso smontarlo.
La cosa migliore, per cominciare a
sondare il terreno, era partire con un’offensiva decisa e scoprire le carte
nemiche.
«Idropompa, Samurott!»
Il
potente getto d’acqua colpì in pieno Vanilluxe, costringendolo ad arretrare di
diversi metri e rendendolo instabile nel suo fluttuare in aria.
Lee
non perse tempo a compiangerlo e approfittò di quell’attimo di stordimento per attaccare
di nuovo.
«Conchilama!»
Fu
incredibilmente facile, per Samurott, scagliarsi contro Vanilluxe e ferirlo con
le sue lame affilate.
Troppo
facile.
«Megacorno!»
Samurott
ruggì e si avventò nuovamente su Vanilluxe, riuscendo a colpirlo in pieno. Un
pezzo del cono del pokémon nemico cadde a terra con un sonoro crack.
Allora
Lee iniziò a capire. Non erano gli attacchi di Samurott ad andare perfettamente
a segno: era Vanilluxe a non fare il minimo tentativo di schivarli.
Smise
di ordinare al suo starter di attaccare. Se la strategia di N, qualsiasi essa
fosse, prevedeva il subire passivamente ogni mossa avversaria, l’unica cosa da
fare era cambiare immediatamente tattica.
Non
ha senso, però. È il suo unico pokémon, perché dovrebbe sacrificarlo?
«C’è
qualcosa che non va.» mormorò Kim all’auricolare, evidentemente preoccupata.
«Ma
dai?» commentò Lee, nervosamente.
«Non
fare il sarcastico.» lo rimproverò Kim. «N è un pervertito, ma non uno stupido.
Deve avere uno dei suoi piani malati in mente... vuole che attacchi Vanilluxe, anche se non capisco perché.»
«E
fin lì c’ero arrivato anch’io.» sbuffò Lee. «Solo che nemmeno io ho la minima
idea di cosa passi per la testa di quel tipo, e lui non accenna a
contrattaccare. Cosa vuoi che faccia, che lo prenda a pugni?»
«Sarebbe
un’idea!» ridacchiò Kim, ma tornò seria in un attimo. «Questa strategia non mi
torna, non con Vanilluxe. Sicuramente sta prendendo tempo e punta a indebolire
Samurott con Grandine, ma... non lo so, non ha senso.» sbuffò, producendo di
nuovo quell’odioso crackle crackle.
«Infatti.
Vanilluxe è un pokémon Ghiaccio, non dovrebbe conoscere mosse come Vendetta o
Pazienza...»
«Però
non si sa mai. Dammi un minuto, controllo sul pokéd-»
«Spiacente!»
trillò la voce di N, sostituendo a un tratto quella di Kim nell’auricolare.
«L’aiuto del pubblico non è contemplato. I tuo destino è solo nelle tue mani,
Lee~»
Il
ragazzo digrignò i denti. «Tu, piuttosto, hai anche in programma di attaccare,
o vogliamo guardarci negli occhi per tutto il giorno?»
«Preferirei
di gran lunga restare a guardarti negli occhi, se devo dirlo...» mormorò allora
N, con voce bassa e suadente.
Lee
rabbrividì, disgustato, e si strappò dall’orecchio l’auricolare. Se Kim era
stata tagliata fuori, era inutile trasformare l’interpoké nell’hotline di N.
Sospirò,
stirò le braccia verso l’alto. Se l’offensiva diretta non era servita, adesso
era il momento di pensare con calma e razionalità a una nuova strategia.
La
grandine continuava a scendere fitta e Vanilluxe era ancora in aria, gli
occhietti puntati nel vuoto, come se fosse stato inconsapevole di ciò che gli
accadeva intorno.
Perché
N si sta facendo attaccare? Perché non... no, un momento. Non è questo il
problema. Semmai, è un vantaggio temporaneo. Finché non reagisce, significa che
non pensa che i miei attacchi costituiscano un vero pericolo. Non crede che
riuscirò a mandare Vanilluxe K.O. prima che lui sfoderi il suo asso nella
manica.
...ma
un asso nella manica ce l’ho anch’io. Posso farcela. Dopo avergli inflitto
tutti quei danni... posso farcela in un solo colpo.
«Samurott!
Usa...»
«Lee,
no!»
Questa
volta, la voce di Kim non proveniva dall’interpoké.
Lee
si voltò, sorpreso, e la vide sporgersi dalla barriera che divideva il campo
dagli spalti, in equilibrio precario.
«È
Specchiovelo!» urlò la ragazza, a pieni polmoni. «Sta aspettando un attacco
potente per potertelo ritorcere contro! Non attaccarlo!»
Lee
sorrise. Aveva immaginato che si trattasse di una cosa del genere, ma aveva
piena fiducia in Samurott. Avrebbe smontato la subdola strategia di N con una
prova di forza.
Alzò
un pollice verso Kim, per farle capire di aver ricevuto il messaggio e farla
così smettere di strillare. Poi fece un profondo respiro.
Uno...
due...
«Samurott,
usa Idrovampata!»
«Vanilluxe, Specchiovelo!» ordinò N, quasi
nello stesso istante.
Il pokémon-gelato s’illuminò di un
tenue bagliore viola, tipico degli attacchi Psico, producendo un rumore
cristallino ed irritante, simile a una risata.
Un attimo prima di venire investito
da un feroce getto d’acqua bollente.
Nessuno parlò.
Lee era convinto che Samurott
avrebbe avuto la meglio.
N era convinto che Vanilluxe
avrebbe resistito.
Il vapore copriva tutto,
lasciandoli in un’attesa sospesa nel tempo.
Si diradò piano, a poco a poco,
disvelando dapprima solo le sagome e infine le intere figure dei due pokémon.
Samurott era in piedi, pur
ansimando pesantemente. A terra, il cono mezzo sciolto e la cannuccia piegata
in un angolo innaturale, giaceva Vanilluxe.
Non era più in grado di combattere.
Lee aveva vinto.
*******
«Sei un deficiente, deficiente,
deficiente, deficiente!» lo
rimproverò Kim, tirandogli le guance.
Appena la battaglia era finita e N
si era dichiarato sconfitto, la ragazza gli era corsa incontro e, anziché
congratularsi, aveva tentato di dargli una testata. Evitata per miracolo,
bisognerebbe aggiungere.
«Pehò he ho hatta.»
cercò di replicare Lee, a stento.
«Pensa se Vanilluxe avesse
resistito. Pensa se Samurott fosse stato danneggiato dalla grandine più di
quanto pensavi e non fosse stato in grado di mettere a segno un attacco
abbastanza potente!»
«Him... hi htaihahendomahe...»
Lei lo lasciò andare, ma continuò a
fissarlo imbronciata.
«Avanti, tu fai continuamente cose
del genere, ai limiti dell’autolesionismo.» cercò di difendersi Lee, massaggiandosi
le guance doloranti. «Ti giochi il tutto per tutto senza pensare alle
conseguenze, è questa una parte della tua forza.»
«E, infatti, tu mi sgridi sempre.»
ribatté Kim, testarda. «Però, avanti, “autolesionismo”...»
«Chi si è fatta colpire da un’Energipalla,
l’altro giorno?»
Kim arricciò il naso. «Touché.» borbottò. «Ma io sono io.»
Di nuovo, Lee fece orecchie da
mercante. Le spinse scherzosamente la punta del naso con l’indice e le sorrise.
«Te l’ho detto, oggi volevo le luci della ribalta. Ma adesso il palco è tutto
tuo, miss Centro dell’Universo.»
Lei rispose al sorriso, per nulla
offesa dal soprannome. «Ehggià. E, credimi, questa volta vedremo davvero il
sangue.»
«Guarda che sarò lassù a fare il
tifo, quindi ci conto. Vogliamo il saaangue.»
Kim stava fissando dritto negli
occhi il Galvantula nemico, che fece schioccare le piccole tenaglie con
impazienza.
«Un ragno. Uno schifo di ragno
elettrico. Un ragno elettrico, schifoso ed enorme.» borbottò, a fior di labbra.
Ecco, quello poteva essere un
problema. Perché, tra tutti i pokémon che N aveva a disposizione, proprio un
Galvantula?
Dall’altra parte del campo, lo
sfidante cercò di richiamare la sua attenzione: «Kim... sai com’è, dovremmo
cominciare...»
Kim alzò lo sguardo su di lui, solo
per un secondo e solo per scoccargli un’occhiata feroce. «Zitto, clown. Sto
pensando.»
Non che ci fosse molto da pensare.
Nella mano destra stringeva nervosamente un’ultraball, l’unica che le fosse
concesso usare, dato che i pokémon andavano scelti prima della lotta.
Scegliendo lui, pensava di essere andata sul sicuro. E invece...
L’auricolare dell’interpoké ronzò,
destandola dai suoi pensieri. «Kim? Tutto bene?» chiese la voce di Lee.
Lei ci mise un po’ a rispondere.
Guardò la sfera, guardò Galvantula, si guardò i piedi. «Forse.» disse, infine.
«Non dirmi che stai esitando perché
ti fanno schifo i ragni!» rise Lee, forse cercando di allentare la tensione.
«Non preoccuparti, Porchetta dovrebbe -»
«Non ho scelto Porchetta.»
«Ah.»
Silenzio. Lee doveva aver fatto due
più due e capito quale pokémon Kim stesse per mandare in campo.
Lei sospirò. «Se perdo, puoi
picchiarmi.»
«Ma non perderai.» disse Lee, con
una sicurezza che la sorprese. «Perché tu sei tu. E mi hai promesso del sangue
verde.»
Quell’affermazione riuscì a
strapparle un mezzo sorriso. «D’accordo. Farò del mio meglio.»
«Io credo in te: vai e stendilo.»
Dopo quell’ultimo incoraggiamento,
Lee chiuse la comunicazione. A differenza di Kim, lui non era solito
intromettersi, nei momenti delicati.
Galvantula fece schioccare di nuovo
le tenaglie. “Voglio mangiarti”,
sembrava dire, in trepida attesa. “Avvolgerti
nella mia rete e succhiare via la tua essenza...”
Kim rabbrividì un poco; quel
pokémon le ricordava fin troppo il modo di fare del suo allenatore.
Prese un respiro e strinse forte la
sua ultraball. Lo avrebbe schiacciato. Lo avrebbe fatto pentire di averla
nuovamente invischiata in una delle sue storie sugli Eroi di Unima. E di averla
palpata. Soprattutto di averla
palpata.
Distese il braccio destro
all’indietro e si concentrò. Sollevò un ginocchio, per darsi lo slancio – e
anche perché le sembrava una posa coreograficamente adatta al momento. Sorrise.
Erano anni che non giocava a fare la pitcher,
durante una lotta pokémon.
Mise in quel lancio tutta la forza
che aveva.
La sfera prese il volo, saettò
attraverso la palestra, sorvolò Galvantula e colpì N dritto in fronte.
«Emolga, usa Aeroassalto!»
Nonostante si fosse appena materializzato
in campo, il pokémon fu estremamente reattivo agli ordini dell’allenatrice e si
scagliò contro Galvantula, colpendolo senza problemi.
«Continua con Aeroassalto, non
lasciargli il tempo di reagire!» ordinò Kim. N, stordito e colto di sorpresa
dal colpo in testa, non stava dando nessuna indicazione a Galvantula, che
continuò a incassare i colpi del piccolo Emolga, senza riuscire ad evitarli.
Perfetto.
pensò Kim. Contro l’elettricità sono in
svantaggio, ma, se continua così, ho la vittoria in tasca.
«Galvantula, Elettrotela!»
Kim si era aspettata che N ci
avrebbe messo di più a riprendersi, ma non si lasciò cogliere impreparata. «Usa
Doppioteam e schivalo!»
Così, d’un tratto non c’era più un
Emolga, in campo, ma due, che giravano intorno a Galvantula a velocità folle.
Il pokémon ragno parve confuso,
rimase diversi secondi a seguire Emolga con le sue otto pupille.
Kim sorrise, soddisfatta, e rivolse
lo sguardo verso N... che rispose con un sorriso altrettando soddisfatto.
Merda.
Lo squittio di dolore di Emolga le
disse che era stato colpito ancora prima che lo vedesse, a terra, imprigionato
dalla tela elettrica di Galvantula.
«E poi ero io, quello dei
trucchetti sporchi...» disse N, massaggiandosi la fronte. «Ma, purtroppo per
te, è difficile che i pokémon insetto manchino il bersaglio. Sai com’è, con
otto occhi a disposizione...»
Kim strinse i pugni. N pensava che
bastasse così poco, per metterla in crisi?
«Emolga, usa Taglio!»
Le unghiette del piccolo scoiattolo
volante lacerarono di netto l’Elettrotela, permettendogli di uscirne quasi
indenne.
Ma N non era rimasto a guardare,
nel frattempo.
«Segnoraggio, ora!»
Questa volta, dalla bocca di
Galvantula non uscì una ragnatela, ma un raggio di luce verde. Emolga si mosse
quasi immediatamente per evitarlo, riprendendo il volo, ma venne comunque
colpito di striscio.
Per Kim, il suo lamento fu come il
graffiare di un unghia su una lavagna. Non lo sopportava.
«Non mollare, usa Scin-»
«Ragnatela!»
Leggermente intontito dall’attacco
appena subito, Emolga non fu abbastanza veloce da evitare l’attacco e venne
preso in pieno dalla tela sputata da Galvantula. Finì nuovamente a terra,
impotente.
«Bene! E ora vai con Sanguisuga,
Galvantula!»
«Nei tuoi sogni!»
Non gliel’avrebbe permesso. Non gli
avrebbe permesso di vincere, né, tantomeno, di alzare un dito sui suoi pokémon.
Non più. E non quel giorno.
Per questo era corsa dal suo
Emolga, frapponendosi tra lui e Galvantula.
«Non oggi, ragno schifoso.»
*******
N era senza parole.
Kim era sempre stata il tipo che dava
tutto, per i suoi pokémon, questo lo sapeva; ma addirittura entrare in campo,
nel mezzo di una lotta tra allenatori?
«Galvantula, fermo.» ordinò al suo
pokémon, prima che rischiasse di farle del male. «Kim, non puoi stare in campo.
Torna al tuo posto.»
Lei non sembrò nemmeno ascoltarlo.
Si era chinata sul suo Emolga e, attenta a non toccare la ragnatela, gli stava
sussurrando qualcosa.
«Kim...» insisté N, a disagio.
Vedendola così, preoccupata per il suo pokémon al punto da mettere se stessa in
pericolo, aveva l’impressione di essere davvero il cattivo della situazione. Di
avere un qualche torto. «Dico sul serio, devi -»
«È solo una convenzione.» lo
interruppe Kim, rialzandosi in piedi. «Gli allenatori non entrano in campo
perché non vogliono rischiare di ferirsi. Non è scritto da nessuna parte che nonpossono.»
N arricciò le labbra: aveva
ragione. Ma questo rendeva solo la situazione più complicata.
Non
può pensare seriamente di rimanere in campo. Finirà male.
«Tutto a posto?» chiese Kim,
rivolgendosi nuovamente ad Emolga. «Ok, allora puoi uscire.»
Il pokémon si fece di nuovo strada
nell’intrico di fili appiccicosi con le unghiette aguzze e, quando fu di nuovo
in volo accanto a Kim, sembrava molto più in forma di prima.
Ah,
ovvio. realizzò N. Ha
approfittato del momento in cui Emolga era a terra, per fargli usare Trespolo.
Ha davvero deciso di giocare sporco.
«Kim, lo ripeterò un’ultima volta.»
disse, serio. «Esci dal campo. Non voglio farti del male.»
«Problema tuo.» dichiarò lei, al
momento impegnata a strofinare il naso contro quello del suo adorato Emolga.
Poi spostò gli occhi su di lui: il suo sguardo non ammetteva repliche. «Non ho
paura di farmi male.»
N dovette abbassare la visiera del
cappellino ancora più di quanto non lo fosse già, per nascondere il rossore che
gli aveva rapidamente colorato le guance.
Quella ragazza lo destabilizzava.
La sicurezza che aveva, nel fare le
cose più stupide, l’affetto incondizionato nei confronti dei suoi pokémon, la
luce che le si accendeva negli occhi, ogni volta che smetteva di pensare e
agiva basandosi unicamente sull’istinto.
Doveva essere sua.
Anche
a costo di farle un po’ male.
«Bene.» disse, più a se stesso che
a lei. «Se è così che te la vuoi giocare...»
Sospirò. Non era quello, il suo
modo di combattere. Ma, questa volta, c’era in gioco qualcosa di troppo
importante.
«Galvantula, usa Scarica.»
Anche
a costo di romperla.
*******
La scossa l’attraversò da capo a
piedi; non era particolarmente potente, per gli standard dei pokémon, ma lo fu abbastanza
da toglierle il fiato e farle cedere le ginocchia.
Cadde a terra, con la sensazione
che mille spilli le avessero trapassato la pelle. Lo sforzo che fece per
riprendere a respirare le sembrò enorme.
Il primo pensiero razionale che le
passò per la mente fu che era stata una stupida. Aveva messo in conto la
possibilità di venire colpita da qualche attacco, stando in mezzo al campo di
battaglia, ma aveva totalmente escluso che N potesse farle del male di
proposito. Era una sicurezza su cui aveva contato.
La testa le faceva un male atroce e
il suo respiro non voleva saperne di regolarizzarsi; il cuore le batteva
all’impazzata, per la scossa ricevuta. Ma, intorno a lei, la lotta stava
continuando: non poteva permettersi di rimanere a terra oltre.
Glielo confermò lo squittio di
Emolga, che la sorvolò nel tentativo di evitare un’altra delle ragnatele di
Galvantula.
Kim si rialzò in piedi a fatica,
ordinando alle sue tempie di smetterla di pulsare e ai suoi occhi di riprendere
a mettere a fuoco le cose decentemente.
Solo allora si rese conto dello
strano ronzare che percepiva nell’orecchio sinistro: Lee stava urlando qualcosa
nell’interpoké. Kim riuscì a distinguere chiaramente solo qualche parola, come
“stupida” e “immediatamente”, ma rinunciò subito a capire oltre. Si staccò
l’auricolare e cercò di riprendere il filo di ciò che stava succedendo.
Emolga era stato colpito? O era
riuscito a cavarsela?
Lo scoprì a terra, a meno di un
metro da lei, totalmente invischiato in almeno due Elettrotele.
Kim fece per dirgli qualcosa, ma lo
dimenticò all’istante, quando sentì N ordinare: «E ora Sanguisuga, avanti!»
L’istinto fu più forte di qualunque
pensiero logico: si buttò a terra, davanti al suo pokémon.
Un dolore lancinante al polpaccio
le tolse nuovamente il fiato: non aspettandosi quell’insolita intromissione,
Galvantula aveva affondato le tenaglie nella sua gamba.
Kim dovette stringere forte i
denti, per ricacciare indietro le lacrime. «Non te lo lascerò... toccare...
ragno schifoso.» sibilò, a fatica. «Non il mio Emolga... non oggi.»
Resosi conto dell’errore,
Galvantula si ritrasse immediatamente e due rivoli di sangue iniziarono a
scendere lungo la gamba di Kim, che non poté fare a meno di gemere per il
dolore.
Non capiva più nulla. Quella lotta
stava andando male, troppo male, e lei non l’aveva previsto.
«Galvantula, spostati.»
In un battito di palpebre, N fu
davanti a lei. Le prese la mano, la sostenne in vita con l’altro braccio e la
tirò su di peso, per farla rialzare.
Kim era così confusa e instabile
sulle sue stesse gambe che dovette aggrapparsi alla maglietta di N, per non
ricadere a terra.
La testa le faceva male. La gamba
perfino di più.
«Sembra che tu abbia perso su tutta
la linea, questa volta.» le disse N, per poi baciare la mano che teneva nella
sua.
Il suo respiro era ancora
affannato, il cuore minacciava di esploderle da un momento all’altro. Ed era
tra le braccia del nemico. Peggio di così non poteva andare.
«Già...» disse soltanto, confusa,
con il poco fiato che aveva. Strinse la stoffa che aveva tra le dita, cercando
di riacquistare un po’ di calma, o almeno una corretta respirazione.
Esercitando la messa a fuoco, Kim
si ritrovò a percorrere con lo sguardo la linea delle spalle di N, fino a dove
s’intersecava con quella del collo. Lo sfiorò con l’indice, dal basso verso
l’alto, come a voler tracciare un percorso segreto fino al suo viso.
La testa le faceva male. Male da
morire.
N s’irrigidì un poco, probabilmente
preso in contropiede da quel gesto insolito, ma non disse nulla. Lasciò che
l’indice di Kim salisse a tracciare il contorno del suo mento, fino ad arrivare
alle sue labbra.
«Su tutta... la linea... eh?» disse
piano la ragazza, tra un faticoso respiro e l’altro.
Il dolore era continuo, pulsante e
insopportabile. Voleva solo che smettesse.
Quando incontrò lo sguardo di N,
lui tentò di avvicinare il viso al suo, ma i rispettivi cappellini cozzarono
l’uno contro l’altro, lasciandoli a una distanza ridicola.
Kim sorrise tra sé. «Questo è di
troppo.» sussurrò, prendendo tra pollice ed indice la visiera del cappello di
Ne sfilandoglielo. Cautamente, ma con
uno sguardo negli occhi che sottointendeva una certa fretta, lui fece lo stesso
col suo. Ora non c’erano più impedimenti.
Quel dolore tremendo doveva
smettere.
Gli diede una testata.
Una testata forte come non ne aveva
mai data una in tutta la sua vita.
Kim dovette ricorrere a tutta la
sua forza di volontà, o forse a una riserva nascosta di adrenalina, per
costringere le sue gambe a non cedere, mentre N cadde a terra, completamente
steso dal colpo. Anche se, con tutta probabilità, era stata la botta morale a
stenderlo, più che quella fisica.
«N non è più in grado di
combattere.» dichiarò Kim, con un filo di voce. «La vittoria va a Kim.»
Dopodiché, cadde a terra a sua
volta.
*******
«Sei una deficiente. Una completa
deficiente. Sei così incredibilmente deficiente che, se istituissero un premio
per la ragazza, ma che dico, per l’essere
umano più deficiente del pianeta, tu vinceresti a tavolino!»
«E ho un déja vu...» aggiunse Kim, con una tranquillità dettata unicamente
dalla tremenda emicrania che l’aveva assalita.
Erano sul bordo del campo e Lee
stava cercando di medicarle il morso di Galvantula sulla gamba. Operazione che,
per altro, si stava rivelando alquanto dolorosa: il ragazzo era troppo impegnato
a sgridarla, per lavorare delicatamente.
«E dire che ne hai fatte, di cose
stupide, da quando ti conosco.» stava appunto dicendo. «Ma questa le batte
tutte, hai superato ogni mia aspettativa. Inizio a dubitare che tu possieda un qualunque istinto di conservazione!»
esclamò, strattonando la garza con cui le stava fasciando la gamba.
«Ahia! Fa’ piano!» si lamentò Kim.
«Lo sai come sono fatta. Nei momenti di crisi non penso, non -»
«Esatto: tu non pensi!»
«AHIA! E chi è che mezz’ora fa ha
detto che è proprio questa la mia forza?»
Lee rimase interdetto, perciò
decise di sorvolare il discorso. «Non hai il minimo criterio.» continuò. «E la
sai un’altra cosa? Le scemenze peggiori le fai sempre quando c’è di mezzo N.
Quel maniaco ha un brutto ascendente su di te.»
Kim fu sorpresa da
quell’affermazione. Se era vero, non se n’era assolutamente accorta. «Ma
che...? E perché mai dovrebbe essere così?»
«La prima volta che abbiamo
combattuto insieme contro N, a Zefiropoli: hai mandato a fuoco l’intero campo,
rischiando di ucciderci tutti.»
Kim si morse un labbro. Vero.
Assolutamente vero.
«La seconda volta, a Ponentopoli:
hai usato uno dei cannoni di Anemone per sparare Porchetta in aria; quella
volta, per un pelo non hai ucciso lui.»
Di nuovo, stramaledettamente vero.
«Terza volta, a Bo-»
«Ok, ok, ho afferrato il concetto!»
sbottò Kim, rossa come un peperone. «Ma io sono io. Posso fare queste cose.»
«E, per l’amor di Dio, smettila di nasconderti dietro a quella
frase!»
Lee si alzò in piedi e d’istinto Kim
chiuse gli occhi, temendo che volesse darle uno schiaffo. Invece, le arrivò un
secco, forte pizzicotto alla guancia, che le fece venire voglia di piangere.
«È il tuo modo di svalutarti. E mi
fa davvero, davvero incavolare.»
Kim abbassò lo sguardo. Quello era
un discorso che avevano già fatto tante volte, ma che non portava mai a nulla.
Era un discorso che non voleva affrontare.
«Scusa.» disse soltanto,
abbracciandosi le ginocchia.
Lee sospirò. «Scema.» disse,
mettendole una mano sulla testa. «Ho creduto davvero che saresti morta, questa
volta.»
«Scusa.»
«Poi, ho creduto che fossi
completamente impazzita, che forse sarebbe stato anche peggio.»
«Scusa.»
«E poi, di nuovo che saresti morta.
Mi hai fatto perdere vent’anni di vita.»
«...scusa.»
«Scema.» ripeté Lee, un po’ meno
duramente della prima volta. «E hai pure perso, alla fine.»
Kim alzò la testa, d’un tratto più
combattiva. «Su questo punto, ci terrei a richiedere il parere di un avvocato.»
sbuffò, serissima. «Dopo tutto, N ha detto: “Se riuscite a sconfiggermi”...»
«Ma Emolga era già K.O., quando hai
steso N. Se anche il mettere fuori combattimento un allenatore fosse legale –
e, credimi, non lo è – la tua posizione sarebbe in ogni caso indifendibile.»
«Ma...!»
«Sei una scema e basta, inutile
discutere oltre.» capitolò Lee, tornando a sedersi di fronte a lei. «E ora,
vediamo di finire questo bendaggio. Abbiamo un mondo da salvare, a quanto
sembra.»
Tornare a casa era, come sempre, la
cosa più bella del mondo.
“Casa” significava tranquillità.
“Casa” significava protezione.
“Casa” significava una doccia
calda, una partita a carte e una pausa dal solito, frenetico tran-tran.
E, per l’amor di Arceus, “casa”
significava qualche ora in assenza di clienti abituali dello stesso
parrucchiere ubriaco, maniaci impenitenti e presunti futuri dominatori del
mondo.
Kim si fermò per qualche istante in
mezzo all’erba, assaporando la leggera pioggerella estiva che aveva appena
incominciato a scendere. Sorrise.
Ciò che aveva di fronte non era
niente di spettacolare: un piccolo cottage in mattoni, seminascosto dalle
fronde degli alberi che lo circondavano. Un solo piano in cui era stato
difficile sistemarsi, dove lo spazio sembrava sempre troppo poco e i mobili
troppo grandi, ma che fin da subito era riuscita a chiamare “casa”.
Perché era lì che si sentiva
davvero serena e protetta, più di quanto non lo fosse stata nei quindici anni
vissuti insieme a sua madre.
Socchiuse gli occhi, congiunse le
dita e recitò: «Non c’è posto più bello di casa propria, non c’è posto più
bello di casa propria, non c’è posto più bello di casa propria.»
La risata di Lee spezzò
quell’atmosfera magica. «Ehi, Dorothy!» la chiamò il ragazzo, che era già sulla
porta. «Se non ti sbrighi, finirai per prenderti un accidente.»
Kim arricciò il naso. Lee poteva
anche essere il suo migliore amico, ma aveva davvero bisogno di capire
quand’era il momento di preoccuparsi della sua salute e quando farlo rovinava
soltanto le migliori scene teatrali. «Sì, sì.» sbuffò, raggiungendolo. Ogni
passo le provocava un intenso dolore alla gamba destra, facendola zoppicare, ma
la ferita andava guarendo abbastanza velocemente, a sentire i medici dell’(ex)
Team Plasma. «Non sia mai che mi prenda, che ne so, una broncopolmopeste,
stando più di trenta secondi sotto la pioggia. Quale tremenda sfida di
sopravvivenza.»
«Spiritosa. Con le difese
immunitarie ubriache che ti ritrovi, anche un...»
«“Anche un raffreddore potrebbe
uccidermi”, bla bla bla. Stai diventando monotono, sai.»
Lee fece una smorfia e tirò fuori
un mazzo di chiavi, tra le quali iniziò a cercare quella dell’ingresso. «Cerca
di capirmi: se tu morissi, chi pagherebbe la tua parte dell’affitto? Finirei
nei casi-AHIA! Che bisogno c’era di prendermi a calci?»
«Ops. Scuuuusa.» fece lei, per
niente dispiaciuta. «Mi è scappato.»
Lee scosse la testa, con un mezzo
sorriso, e fece scivolare la chiave nella serratura, ma il meccanismo non
scattò.
Stranita, Kim lo guardò provare a
girare la chiave fino in fondo, ma non ci fu traccia del familiare “clac”
dell’apertura.
I due si scambiarono un’occhiata
preoccupata. La porta era aperta. E, se la porta era aperta, voleva dire che
qualcuno era entrato. Qualcuno che poteva essere ancora là dentro.
Kim alzò gli occhi al cielo,
esasperata. Quand’è che il mondo si sarebbe deciso a lasciarle tirare il fiato?
Erano quattro giorni che quasi non dormiva e veniva sottoposta a continue fonti
di stress, aveva dovuto sopportare i postumi di un’Energipalla, le avances di N, i fotografi, la folla,
quell’invasato di Nardo e un morso di Galvantula; adesso doveva mettercisi
anche uno scassinatore-o-chissà-quale-altro-rompiballe? Ne aveva veramente
abbastanza.
«Cazzo.» sentì sussurrare Lee tra i
denti, non meno provato di lei. Lui la guardò, sul punto di dire qualcosa, ma
ci ripensò subito. Invece, alzò verso di lei una mano aperta e, dopo un attimo,
ne abbassò il dito mignolo. Kim ci mise un istante a comprendere quel gesto:
era un conto alla rovescia, prima di aprire la porta e sorprendere chiunque
fosse in casa.
Lee, che aveva già la mano sulla
maniglia, incespicò e per poco non cadde ai piedi della persona che aveva
appena aperto bruscamente la porta.
Kim si sentì morire. «Dimmi che è
un sogno.» pregò Lee, aggrappandosi al suo braccio. «Dimmi che il veleno di
Galvantula mi è entrato in circolazione e che questo è solo un incubo dovuto al
coma.»
Lee esitò appena un attimo, prima
di rispondere. «...i morsi di Galvantula non sono velenosi.»
«Oh, ma porca vacca.»
In piedi sulla soglia, con indosso
un grazioso grembiule arancione (Il mio grembiule arancione, constatò Kim,
seccata), N sorrideva loro amabilmente. «Siete arrivati giusto in tempo.
Entrate, su, o si fredderà tutto.»
*******
Kim osservò il piatto che aveva
davanti con diffidenza.
Una brodaglia verde, dentro alla
quale galleggiavano pezzi più o meno cubici di materiali diversi e non meglio
identificati. La cosa certa era che puzzava da morire.
«Guarda che la minestra non si
mangia da sola, se la fissi.» la redarguì Lee, che, chissà come e con quale
forza di volontà, aveva già svuotato metà del suo piatto. «Per di più, è
ottima. E non sembra nemmeno avvelenata.»
Kim non riuscì a trattenere una
smorfia disgustata. «È verdura.»
disse, con bieco disprezzo. «Lo sai che odio la verdura. E lo sa anche lui.» aggiunse, scoccando un’occhiataccia
all’artefice di quell’intruglio malefico.
N le sorrise innocentemente. «Ma no
che non lo sapevo. Avrei preparato qualcosa di diverso, altrimenti.»
«E comunque, ti farebbe bene
mangiare un po’ di verdura, ogni tanto.» puntualizzò Lee.
«Neanche avessi cinque anni.»
borbottò Kim, scocciata. Poi scosse la testa. «In ogni caso, non è questo il
problema!» esclamò, puntando il cucchiaio contro N. «Questa si chiama... si
chiama effrazione! E anche appropriazione indebita di fornelli. E di grembiule.
E...» s’interruppe un istante, inorridita. «Per l’amor di Arceus, N, quelle
sono le mie forcine per capelli?»
«Mi serviva qualcosa per tenerli
indietro mentre cucinavo...»
«Questo è il colmo!»
«Beh, è abbastanza disgustoso, sì.»
concordò Lee, con una smorfia.
N sembrò farsi piccolo piccolo
nella sua sedia e abbassò lo sguardo.
«Se pensi che con quell’espressione
ferita mi farai pena, ti sbagli di grosso.»
«Disse lei, distogliendo
fulmineamente lo sguardo.» la rimbeccò Lee.
«Z-zitto, tu. Un essere del genere
non lo si può nemmeno guardare.»
N aprì la bocca un paio di volte,
indeciso, e si girò i pollici, lo sguardo sempre fisso sulle proprie ginocchia.
«Ecco... allora, forse è meglio che dica subito che ho preso in prestito anche
le tue pantofole a forma di Munna...»
Sempre brandendo il cucchiaio come
se fosse stato un’arma letale, Kim schizzò in piedi, fece il giro del tavolo e
prese N per il collo della maglietta. «Io ti ammazzo.» sibilò, furente.
«Kim.» l’ammonì Lee, che, nel
frattempo, si era dedicato a finire la sua minestra. «Ricordi qual è stata
l’unica cosa utile che ci ha insegnato Lei?
C’è un tempo e un luogo per ogni cosa. Ma non qui e non ora.»
«Ma... le mie Munnofole!»
«Kim.» ripeté lui, più duramente. «A chi è vietato scatenare risse a
tempo indeterminato?»
Lei gonfiò una guancia. «...a me.»
«Chi deve stare buona e imparare a
controllare i propri impulsi violenti?»
«Io.»
«Quale squadra di pokémon è sotto
sequestro finché questo non accadrà?»
«La mia.»
«Brava bambina.» si complimentò Lee.
«E ora, torna a sederti.»
Kim sbuffò il più rumorosamente
possibile, ma lasciò andare N e fece nuovamente il giro del tavolo. Si lasciò
quindi cadere di peso sulla sua sedia, imbronciata e silenziosa.
Con due enormi lucciconi negli
occhi, N alzò la testa e abbozzò un sorriso. «Grazie.» disse a Lee, con
ammirazione, neanche lo avesse salvato da un branco di Krookodile inferociti.
«Non farti strane idee, non l’ho
fatto per te.» disse Lee, storcendo appena il naso. «È lei ad essere in
punizione per aver cercato di farsi uccidere. Se non impara a comportarsi come
una persona normale, finirà per riuscirci davvero, uno di questi giorni.»
«Sei un mostro.» piagnucolò Kim,
girando di scatto la testa verso di lui. «Restituiscimi almeno Porchetta!»
«Neanche per idea. Ti basta lui,
per moltiplicare la tua potenza distruttiva per cento.»
«Ma...!»
«Non si discute.» capitolò Lee.
«Quando dimostrerai di aver ricominciato a comprendere i termini della
convivenza civile, riavrai Porchetta e tutti gli altri.»
«Ti odio.»
«No, non è vero.»
Kim incrociò le braccia al petto e
borbottò qualcosa di incomprensibile, ma che non suonava per niente carino.
Era stata privata del suo spazio
vitale, del suo grembiule, delle sue Munnofole e dei suoi pokémon... nonché
delle sue forcine per capelli – il che la disgustava non poco. Mancava solo che
le togliessero il cappello, per calpestare definitivamente il suo onore.
«D’accordo.» sbuffò, appoggiando i
gomiti sul tavolo. «Avresti almeno la compiacenza di spiegarci cosa sei venuto
a fare qui, caro ospite?»
«E a me interesserebbe anche sapere
come ci hai trovati.» aggiunse Lee.
«Abbiamo fatto una fatica inimmaginabile a trovare un posto tranquillo,
nascosto e il più lontano possibile da Sciroccopoli... eppure, sei riuscito a
scoprirlo. È piuttosto inquietante, sai.»
«Non è stato niente di che,
davvero.» sorrise N, che forse non aveva ben chiaro il significato del termine
“inquietante”. «Certo, vi ho dovuti cercare un bel po’... ero quasi certo che
vi sareste nascosti in un bosco, lontano dalle città, ma Unima ne ha tanti. E
le pendici di Via Vittoria, beh, sono state una scelta originale. Ma, una volta
arrivato qui...» inspirò, estasiato. «Tutto qui intorno profuma di voi,
capite?»
No,
pensò
Kim, con un brivido. La parola
“inquietante” non inizia nemmeno a descrivere questo ragazzo.
«Per rispondere alla prima domanda,
comunque,» continuò N, ignorando il silenzio imbarazzato dei suoi beniamini.
«Che venissi qui è stata un’idea di Nardo.»
«E ti pareva.» sospirarono Lee e
Kim, praticamente in coro.
«L’unico ostacolo tra noi e la
Pietra Nera, al momento, è che dobbiamo riuscire ad andare d’accordo. E quale
maniera migliore di stringere veramente amicizia, se non vivere gomito a gomito
per qualche settimana?» spiegò N, evidentemente entusiasta dell’idea.
«Settimana? Ti puoi scordare anche
un solo giorno!» esclamò Kim.
«Non so se hai notato,» aggiunse
Lee. «Ma stiamo già abbastanza stretti così, non abbiamo neanche lo spazio fisico per ospitare qualcuno.»
N continuò a sorridere
tranquillamente. «Anche Nardo aveva immaginato che avreste avuto da ridire. Per
questo...» mentre parlava, si chinò ad aprire uno dei cassetti della cucina e
ne tirò fuori quello che aveva tutta l’aria di un rotolo di pergamena. «...ha
scritto una lista dei motivi per cui dovete tenermi con voi.»
Detto ciò, srotolò di fronte ai
loro occhi la pergamena, che scoprirono arrivare fino a terra.
Lista
dei Motivi per cui DOVETE prendere N in casa
1.
Siete gli Eroi di Unima.
2.
Ho promesso ai giornalisti che avreste lavorato sul vostro rapporto.
3.
Avete perso la sfida e ora dovete impegnarvi per trovare la Pietra Nera.
4.
È il vostro Destino.
5.
N in fondo è un bravo ragazzo.
6.
I paparazzi andranno in brodo di giuggiole.
7.
Volemose bene!
8.
Dovete riabilitare la vostra immagine, o non potrete più mostrarvi in pubblico.
9.
Ho già venduto i diritti del film che faranno su di voi.
10.
Sono il Campione e posso ritirare tutte le vostre medaglie all’istante.
...............
Lee
deglutì. «Questo è un ricatto.» disse, a disagio.
«Ha
venduto i diritti del nostro film?!»
esclamò Kim, esterrefatta.
«Io
sono più preoccupato di dovermi rifare il giro delle palestre di Unima, se non
facciamo come dice lui...»
«Beh,
non è che ci sia voluto tanto, a battere quegli sfigati. Piuttosto, guarda il
punto 26: è in programma anche una serie animata!»
«Può
anche darsi, ma non è stato affatto diver-una
serie animata?» Lee le tolse di mano il rotolo, basito.
«Pazzesco,
vero? Dev’esserci qualcosa di seriamente illegale, in tutto questo.»
«Suvvia,
ragazzi.» li interruppe N, il cui sorriso non aveva ancora accennato a
vacillare. «In fondo, nemmeno voi potete avere intenzione di abbandonare Unima
al proprio destino, no?»
Kim
non era esattamente della stessa idea. «Qui non si tratta del destino di
Unima.» disse. «Si tratta di avere te
a meno di dieci chilometri dal mio cassetto della biancheria.»
N
inclinò un poco la testa. «Oh, ma di quello non devi preoccuparti. Tanto l’ho
già cont-»
«LEE!
E tu insisti col dire che non lo dovrei picchiare? Sul serio?»
Lui
esitò un attimo, soppesando le alternative che aveva di fronte. «...non ho
proprio voglia di combattere contro gli Emolga di Camelia un’altra volta.»
disse, infine, rassegnato. «Quindi... cerchiamo di andare d’accordo?»
«Ma
bene!» Kim si alzò in piedi di scatto, facendo tintinnare tutte le posate che
c’erano sul tavolo. «Tu.» indicò Lee con l’indice puntato. «Quando saranno i
tuoi boxer a sparire, non venire da me a piangere. E tu.» spostò il dito verso
N. «Ora andrò a fare il censimento dei miei vestiti e, se manca anche solo un
calzino, ti uccido.»
Detto
ciò, con un ultimo, esasperato «Sgrunt!», uscì dalla cucina. Lee la sentì
sbattere la porta della sua camera e girare la chiave nella serratura con
altrettanta forza.
Il
ragazzo sospirò. Erano decisamente nei casini: avevano di nuovo il peso del
mondo sulle spalle, dovevano trovare un’ignota Pietra magica (e non sapevano
nemmeno da dove cominciare a cercare), un maniaco si era appena autoinvitato a
pernottare a casa loro e, peggio di tutto, Kim era estremamente poco
collaborativa. Lee iniziava ad avere seri dubbi sulle loro chances di sopravvivenza.
«Ehi,»
disse N, cercando con scarso successo di soffocare una risatina. «Sbaglio, o
Kim ha detto proprio “sgrunt”?»
Nonostante
non fosse davvero il momento adatto, Lee non poté trattenere un sorriso. «Sì.»
confermò. «Ha letteralmente detto
“sgrunt”.»
Più
tardi, entrambi pregarono che Kim non li avesse sentiti rischiare di soffocare
dal ridere, perché la sua reazione non sarebbe stata per niente divertente.
*******
Lee
ripose nello scolapiatti le ultime posate e chiuse l’acqua; un gesto che,
normalmente, rappresentava la fine di una tranquilla giornata passata in casa a
riposare. A leggere un libro, magari a fare un po’ di zapping o, più
probabilmente, a dormire il più possibile.
Ma
il ragazzo dai lunghi capelli verdi, che guardava trasognato fuori dalla
finestra della cucina, gli ricordò che, quel giorno, le cose non erano andate
esattamente così.
Avendo
ancora le mani bagnate, Lee non poté fare a meno di schizzargli un po’ d’acqua
in faccia, facendolo sobbalzare. «Ehi.» disse, abbozzando anche un mezzo
sorriso, giusto per cortesia. «So che quell’espressione malinconica fa
impazzire le tue fan, però, finché sei qui, puoi anche fare una faccia
normale.»
N
spostò lo sguardo su di lui, ma, stranamente, non ricambiò il sorriso. «Sì...»
disse piano. «Sì, hai ragione. Solo che... vabbé, non importa.»
Lee
alzò un sopracciglio. Dopo tutti gli anni passati con Kim, era abituato a
quelle teatrali e indirette richieste di attenzione, ma la curiosità finiva
sempre per avere la meglio. «Che cosa?» chiese.
N
si strinse nelle spalle. «Niente, davvero. E poi... tanto saresti dalla sua
parte.»
Oh,
pensò Lee, divertito. Allora si tratta di
Kim.
«Avanti,
sputa il rospo.» lo incoraggiò, schizzandogli nuovamente un po’ d’acqua in
faccia. «Magari posso darti una mano.»
N
gli rivolse uno sguardo sinceramente stupito. «E... perché dovresti?»
«Quattro
parole.» ghignò Lee. «“Meglio lei che io.”»
N
finalmente ricambiò il sorriso, con uno sguardo un po’ triste, e non disse
nulla.
Ma
Lee ormai si era troppo incuriosito, per lasciarlo perdere. «Sei stato
veramente terribile con lei, stasera.» buttò lì, cercando di invogliarlo a
parlare. «Sapevi benissimo che detesta la verdura.»
«E
i crostacei, nonché qualunque cosa abbia la stessa forma di quando era ancora
viva.» sospirò N, forse d’istinto. «Odia toccare la carne cruda e, in generale,
non mangia quella rossa, ragion per cui ha serie carenze di ferro; ama le
patate, cotte in qualunque modo, se potesse metterebbe la maionese perfino
sulla pasta e non potrebbe vivere senza cioccolato. Della maggior parte della
frutta ama il sapore, ma non la consistenza, quindi in linea di massima non
mangia neanche quella; un’eccezione sono le pere, che adora, ma non le piace
ritrovarsi le mani appiccicose, quindi le mangia solo quando qualcuno gliele
sbuccia.»
Lee
rimase a fissarlo, letteralmente a bocca aperta, mentre elencava una dopo
l’altra ogni singola schizzinoseria di Kim; dettagli ridicoli, di cui lui
stesso era venuto a conoscenza solo col passare degli anni.
Era
assurdo. Era spaventoso. Aveva un che di malato.
«...il
cibo dietetico le fa venire i brividi, non sa resistere ai biscotti, si
taglierebbe una mano per un bigné; quando è depressa mischia in una tazza un
po’ di mascarpone e una valanga di zucchero, anche se sa che non-»
«Da
quanto la osservi?» lo interruppe Lee, tra il disgustato e – doveva ammetterlo
– l’affascinato.
N
sorrise di nuovo, tristemente. «Da un po’.»
Lee
strinse le spalle e si appoggiò al muro. «È proprio questo, di te, che lei non
sopporta.» non riuscì a trattenersi dal dire.
«No,
non è vero.»
Non
fu tanto quell’affermazione, a cogliere Lee di sorpresa, quanto il fatto che,
di punto in bianco, N si era avvicinato a lui e l’aveva abbracciato. Il che gli
causò un improvviso e intenso rossore sulle guance.
«E-ehi,
cosa...? Lasc- »
N
nascose la testa nell’incavo del suo collo. «Non è vero.» ripeté, piano.
Lee
deglutì, a disagio. «D’accordo, convinto tu.» disse, un po’ irritato. «Ma ora
potresti lasciarmi?»
«No.»
N lo strinse un po’ più forte. «Ho bisogno di te, adesso. Solo per un minuto.»
Lee
sentì un brivido freddo corrergli su per la schiena. «Penso di avertelo già
detto diverse volte...» sbuffò. «Ma io sono completamente, assolutamente,
irreversibilmente etero.»
«Lo
so.» disse N, la voce soffocata dalla sua maglietta. «Ma sei anche una persona
gentile, quindi mi concederai almeno un abbraccio.» spiegò, con una certa
sicurezza. «Mi sento proprio giù.»
Lee
alzò gli occhi al cielo. Era vero: per quanto l’avere N a meno di un metro di
distanza lo mettesse a disagio, gli era difficile respingerlo duramente. Specie
ora che gli parlava con quel tono da bambino smarrito. «Hai detto un minuto,
giusto?» sospirò.
N
fece sì con la testa, lentamente. «Sai, sono sempre stato abituato a venire
respinto da te.» confessò. «Sai, per questo dettaglio che siamo entrambi
maschi.»
«Chiamalo
dettaglio...»
«Ma
Kim... lei, all’inizio, era diversa.» continuò N. «Mi ascoltava, mi parlava...
mi sorrideva, addirittura. E, quando dovevo andarmene, sembrava sempre un po’
triste.»
«Sicuro
di non essertelo sognato?» chiese Lee, scettico. Da che mondo era mondo, Kim
aveva sempre disdegnato qualunque attenzione maschile, specialmente quelle
troppo ossessive. Non riusciva proprio a immaginarla, a fare la carina con N o
a sospirare, pensando a quando l’avrebbe rivisto. Non era da lei. Senza contare
che...
«Non
l’ho sognato!» lo assicurò N, alzando la testa. «Forse non le piacevo in quel senso, ma non mi odiava. E... non
era mai stata così cattiva con me, prima. Mai.»
Lee
diede un lieve colpo di tosse. «Non dico che prenderti a testate sia stato
proprio un gesto carino, da parte sua...» disse. «Ma anche tu sei piuttosto pesante,
renditene conto. L’hai stressata fino all’esasperazione.»
«Pesante...?»
«Vogliamo
parlare del fatto che l’hai palpata? Era completamente sconvolta.»
«Quello
è stato...!» N arrossì di colpo. «Non l’ho fatto apposta. Cioè, la mia mano è
capitata lì per sbaglio e poi... insomma, era così... morbida...» mormorò,
distogliendo lo sguardo. «Capisci... soffice. Ecco, sì, soffice. E un po’...»
«In ogni caso.» lo interruppe Lee,
cercando di cambiare argomento. «Se per un po’ farai il bravo, sicuramente le
passerà. Kim è fatta così, non devi preoccuparti.»
La
consistenza del seno della sua migliore amica poteva anche essere un discorso
“da uomini”, ma sicuramente non era una cosa di cui voleva parlare.
N
rimase in silenzio per qualche secondo, come se stesse considerando le
probabilità di riuscire a “fare il bravo” – o cercando di carpire il
significato stesso dell’espressione –, ma alla fine annuì. «Grazie. Mi ha fatto
bene, parlare con te.» disse, con un sorriso.
Ma
non era il sorriso malinconico di poco prima. Era il solito, inconfondibile
sorriso “alla N”.
Solo
allora Lee si accorse, con orrore, della mano che gli era lentamente scesa giù
per la schiena e che gli si stava ora insinuando sotto la maglietta. «C-che
cosa stai...?!»
«Sei
un così bravo ragazzo, Lee...» gli sussurrò all’orecchio N, mentre con le dita
gli risaliva la spina dorsale. «Lascia che ti ringrazi come si deve. Che ti
corrompa almeno un po’...»
Merda.
Se c’era una cosa alla quale Lee era totalmente impreparato, era l’attacco
diretto da parte di un altro ragazzo. Senza contare che aveva ingenuamente
abbassato la guardia, pensando che i problemi di cuore di N girassero ormai
soltanto intorno a Kim.
«Senti,
N, non è divertente, pian-ah!»
N
l’aveva leccato dietro l’orecchio, per poi morderlo piano.
«Sei
completamente impazzito?» esclamò Lee, purpureo, cercando di spingerlo via.
Ma
N sembrava inamovibile e quell’angolo della cucina lasciava ben poche vie di
scampo.
Senza
tenere in considerazione le sue proteste, N gli soffiò nell’orecchio, facendolo
rabbrividire da capo a piedi. «Permettimi di insegnarti i vantaggi di una
relazione tra soli uomini, dai.» disse, in un sussurro basso e delicato quanto
il fruscio del vento.
«Ti
giuro che non mi interessano.» rifiutò Lee, cercando spasmodicamente di liberarsi
da quella stretta. «Ho già detto che sono completamente et-ahia! Hai finito di mordere in giro, accidenti?!»
Ne
aveva davvero abbastanza. Si maledisse per non aver dato retta a Kim e cercò
nuovamente di spingere via il molestatore, ma lui gli afferrò il polso con la
mano libera e se lo portò alle labbra, palesemente divertito.
«Giuro
che, se non la pianti subito, ti picchio. Non sto scherzando.»
«Ma
che paura...» lo prese in giro N, per poi incominciare, senza troppi
complimenti, a succhiargli l’interno del polso.
Mai più.
si disse Lee. Mai più sarò gentile con un
maniaco. Da depresso, era molto più gestibile.
N
si leccò le labbra e osservò, compiaciuto, il segno rosso che gli aveva
lasciato sul polso. «Prova a negare che ti sia piaciuto.» disse, guardandolo
negli occhi con aspettativa.
Lee
fece una smorfia. «Mi sarebbe piaciuto, se tu fossi stato una ragazza carina e
con la terza di reggiseno.» ribadì, esasperato, pur non potendo nascondere di
essere ancora rosso come un pomodoro.
N
sospirò, deluso. «Sei un pessimo bugiardo, ma d’accordo.» disse. «Per stasera
hai vinto tu. Solo un’ultima cosa e ti lascio andare.»
Avvicinò
il viso al suo e Lee tentò di scansarlo, ma N fu più veloce.
Gli
schioccò un bacio in fronte, lasciandolo con un’espressione assolutamente
stralunata.
«Sceeemo.»
disse, ammiccando. Dopodiché, lo lasciò e si allontanò in direzione della
porta. «Sai, tu e Kim vi assomigliate tantissimo, ma siete anche completamente
diversi. Per questo, credo che non riuscirò mai ad accontentarmi di uno solo di
voi due.» aggiunse, prima di defilarsi.
Lee
si massaggiò piano il polso, che non voleva smettere di pizzicargli.
Io lo ammazzo.
Pensò, sentendo montare un misto di disgusto, rabbia e vergogna. Trovo quella stupida Pietra Nera, salvo
Unima e poi lo ammazzo.
Kim venne svegliata dal tepore dei
raggi del sole, che avevano ormai completamente illuminato la stanza.
Le era sempre piaciuta, quella
sensazione. Era come se qualcuno la stesse abbracciando, coccolandola dolcemente,
nei cinque minuti in cui lei ancora non voleva saperne di aprire gli occhi.
Solo per cinque minuti al giorno,
poteva sorridere e immaginare di essere tra le braccia di qualcuno. Salvare il
mondo veniva dopo.
Mosse pigramente le dita dei piedi,
troppo assonnata per fare qualunque altro movimento, e sospirò piano.
Normalmente, appena capiva che era
sveglia, Porchetta trotterellava fuori dalla sua cuccia e si piazzava davanti
al letto, tutto scondinzolante, attendendo che lei si alzasse e preparasse la
colazione. Ma non oggi.
Kim sollevò di appena un millimetro
una palpebra, per sbirciare se per miracolo il suo piccolo Tepig fosse lì ad
aspettarla, ma tutto ciò che vide fu una macchia verde. Niente Porchetta. Oh,
Lee l’avrebbe pagata, per aver osato sequestrare il suo starter. Appena quella
storia fosse finita, lo avrebbe preso per le orecchie e...
Un
attimo. Kim interruppe la sua stessa linea di pensiero e
riavvolse. Una macchia verde?
Sconcertata, si costrinse ad aprire
completamente gli occhi.
A meno di dieci centimetri dal suo
viso, c’era quello di N, beatamente immerso in un sonno profondo.
Il cuore di Kim saltò un battito,
mentre le sue guance si coloravano rapidamente di rosso.
Lo shock fu tale che la sua mente
ci mise diversi secondi a fare il punto della situazione.
N. N era in camera sua. Nel suo
letto. Insieme a lei. La porta della stanza era sicuramente chiusa a chiave, la
sera prima. Una delle sue braccia le circondava la vita. Dormiva. N dormiva. Da
quanto era lì? Aveva una ciocca di capelli che gli sfiorava il naso. Era lì, a
un palmo di distanza da lei. Com’era entrato? Quell’espressione pacifica e
rilassata lo faceva sembrare un bambino. Il letto era troppo piccolo per starci
in due. Faceva caldo. Sentiva il suo respiro solleticarle il collo. Che cosa
stava succedendo?
C’è
un fottuto stalker nel mio letto.
Appena la realizzazione la colpì,
Kim si raddrizzò di scatto, andando a picchiare la testa contro la mensola
soprastante, e strillò così forte da sentire poi male ai polmoni.
N doveva essere un tipo dal sonno
pesante, perché la sua reazione consisté in un semplice sbadiglio. «Che hai da
urlare tanto di prima mattina?» chiese, strofinandosi gli occhi col dorso della
mano.
Kim stava ancora cercando di
riprendersi dallo spavento. «Tu... tu...» Affannata e col cuore a mille, non
riusciva nemmeno a trovare le parole per esprimersi.
«Kim, tutto bene?» gridò Lee, dalla
stanza accanto, la voce impastata dal sonno e da un chiaro sbadiglio verso la
fine. «Hai di nuovo dato una testata alla mensola?»
Beh,
anche quello. pensò Kim, chiedendosi se le capitasse
poi così spesso. Evidentemente sì.
N si tirò a sedere, lo sguardo
vacuo di chi è ancora per metà nel mondo dei sogni. «Devi stare più attenta.»
le disse. «Se ti facessi male, io e Lee...»
Per tutta risposta, Kim lo spinse
giù dal letto e lo calpestò mentre si catapultava ad aprire la porta. Quando lo
fece, andò a sbattere dritta contro Lee, che era uscito dalla sua stanza nello
stesso momento.
«Ehi.» le disse, prendendola per le
spalle prima che perdesse l’equilibrio. «È tutto a posto? Che cosa... oh.»
s’interruppe, notando il ragazzo steso sul pavimento della camera di Kim.
«Era nel mio letto. Nel mio letto, capisci?» esclamò lei, quasi
istericamente. «E ora levati, devo andare a controllare se sono ancora
vergine.» Lo scostò bruscamente, liberandosi dalla sua presa per fiondarsi in
bagno.
Lee si grattò la testa, ancora un
po’ intontito. «...è ancora vergine,
vero?» chiese, con il massimo della minacciosità che il suo tono assonnato
potesse conferirgli.
Massaggiandosi il petto, su cui Kim
aveva avuto la grazia di passare sopra, N si mise in piedi. «Chissà...» disse,
pensieroso.
Proprio in quel momento, dal bagno
giunse un urlo straziato.
«Kim!» esclamò Lee, temendo il
peggio.
Per qualche secondo non ci fu
risposta, ma Lee ebbe l’impressione di sentirla imprecare sottovoce.
«Ho sbattuto il ginocchio contro lo
spigolo della doccia.» disse alla fine Kim, il dolore ancora chiaro nella sua
voce. «Tutto regolare.»
Lee sospirò di sollievo. Kim era
una calamita naturale per gli spigoli, lo sapeva, ma la sua abitudine di urlare
ogni volta che si scontrava con uno di questi l’avrebbe fatto morire giovane.
*******
«Kim... sono ore che camminiamo,
vuoi deciderti a fermarti?» supplicò Lee, scavalcando l’ennesima radice.
«O almeno... a rallentare il
passo...» aggiunse N, ansimante.
Lei neanche li stava ascoltando:
continuava ad avanzare, convinta, verso il folto della foresta. Ogni tanto
borbottava qualcosa tra sé, spesso inciampava e almeno ogni cinque minuti
sbuffava rumorosamente, ma non accennava a fermarsi.
«L'abbiamo persa...» disse Lee,
scoraggiato. «Certo che potevi evitare di farla arrabbiare così...»
N si mise sulla difensiva. «Non
l'ho fatta arrabbiare. È lei che si è arrabbiata.»
«È la stessa cosa.»
«No, non lo è.»
Lee sospirò, esasperato. Tra l'uno
e l'altra, non sapeva dire chi fosse più infantile ed irritante. «Avanti, Kim,
solo cinque minuti!» la chiamò nuovamente. «Questa cosa non ha senso.»
N annuì, concorde. «Non possiamo trovare
la Pietra Nera, finché non diventiamo veramente amici. È così che dice la
Leggenda.»
«In culo la Leggenda.» disse Kim,
le prime parole che uscivano dalle sue labbra da almeno due ore. «I sassi sono
sassi. Non appaiono perché sentono chissà quale potere dell'amicizia
avvicinarsi. Quindi la troverò e mi toglierò N dai piedi una volta per tutte.»
Lee non sembrava molto soddisfatto
della spiegazione. «E stiamo vagando in questo bosco, senza una meta,
perché...?»
«Perché era il posto più vicino a
casa e mi sembrava un buon punto di partenza.»
«Mi sembra logico.» sospirò Lee,
poco convinto. Personalmente, pensava che la storia della Pietra fosse una gran
baggianata e che non l'avrebbero trovata proprio da nessuna parte, Grande
Potere dell'Amicizia o meno. «Ma rimane una perdita di tempo.»
«Forse non del tutto.» obiettò N,
nonostante avesse il fiatone per il tanto camminare. «In fondo, dobbiamo
lavorare sul nostro rapporto. Finché stiamo insieme, ci sono sempre possibilità
di miglioramento.»
Lee alzò un sopracciglio. «Sei
sempre troppo ottimista, tu.»
«Ma è per questo che mi volete
bene.» trillò N, improvvisamente più allegro.
Sia Lee che Kim fecero una smorfia.
«No, per niente.» dissero, perfettamente all'unisono.
N gonfiò una guancia, deluso. «E dire
che sei stato così carino con me, ieri sera.» borbottò.
Al solo ricordo, Lee si sentì
arrossire. «Non tirare mai più fuori
quella storia. Voglio solo dimenticarmene.»
«Bugiardo. Hai detto che mi avresti
aiutato.»
«A rendere Kim meno stressata, non
a soddisfare i tuoi bisogni di maniaco sessuale.» sbottò Lee. «E, credimi, dopo
quello che è successo ieri, è già tanto se ti parlo. Non sfidare la tua
fortuna.»
«Ooooh, questa sì che era una
minaccia.» ridacchiò N. «Sto tremando tutto.»
Lee gli lanciò un'occhiataccia, ma
non rispose alla provocazione. «Allora, Kim, vuoi per piacere fer-... Kim?» Il
ragazzo si fermò di scatto e N, che gli era dietro di qualche passo, andò a
sbattere contro di lui.
«Ahi...» si lamentò l'ex leader del
Team Plasma. «Non fermarti così all'improvviso. Mi hai...»
«L'abbiamo persa.» disse Lee, la
voce che tradiva un certo shock.
«Sì, sì, è completamente partita...
l'hai già detto.»
«No.» Lee si voltò verso di lui.
«No, intendo dire che Kim non c'è più.»
«...oh.»
*******
«Bleah!»
Kim quasi saltò per lo spavento,
quando una ragnatela le si appiccicò alla faccia.
«Schifo, schifo, schifo, schifo!»
esclamò, cercando di togliersela di dosso, nel panico. «Lee, dammi una mano, ho
preso in pieno una... bleah...» sputacchiò un filo che le era rimasto incollato
sulle labbra. «Che schifezza. Lee?»
Si voltò, intenzionata a
rimproverare l'amico per non essere venuto immediatamente in suo soccorso, ma
dietro di lei c'erano solo alberi. Girò su se stessa un paio di volte,
sconcertata, ma lo scenario era sempre lo stesso: alberi, alberi, alberi.
Nessuna traccia né di Lee né di N.
Rabbrividì.
«Beh, non ho mica cinque anni.»
disse tra sé, scuotendo la testa. «Posso trovare quella stupida pietra anche da
sola. Anzi, poi dovranno essermene grati!»
Ma le foglie e il muschio
iniziavano a tingersi di un colore rossastro, col calare del sole, e la sua
voce non aveva tutta la sicurezza che avrebbe voluto.
Inspirò ed espirò profondamente,
cercando di tranquillizzarsi. «Va tutto bene.» si disse. «È tutto assolutamente
a posto. Sono un'allenatrice. La migliore di tutta Unima, senza dubbio.»
Ma
che cos'è un'allenatrice, senza i suoi pokémon?
«Ho tutto sotto controllo.»
Ne
sei sicura?
«Non è la prima volta che passo la
notte fuori.»
Non
senza Porchetta.
«Il bosco non mi spaventa.»
Dovrebbe.
«IL BOSCO NON MI SPAVENTA!»
Un frullare di ali e il fruscio
delle foglie rivelarono la fuga di alcuni uccelli dagli alberi vicini.
Kim inspirò nuovamente. «Non
tornerò indietro. Ho deciso di fare questa cosa e arriverò fino in fondo. Con o
senza i miei pokémon, con o senza Lee. Io sono io. Ce la posso fare.»
Un'improvviso senso di calma la
pervase. Ecco, erano quelle le parole magiche. Quelle che riuscivano a
scacciare la paura, ogni volta. A renderla più forte. A fare di lei... lei. Non era niente, senza quella cieca
determinazione.
Ce l'avrebbe fatta. Di sicuro.
Riprese a camminare e d'un tratto
si rese conto che non stava più vagabondando. Aveva una meta, non proprio
precisa, ma presente; come se qualcuno gliel'avesse infilata in fondo al
cervello, vicino alla nuca. Gli alberi non erano più tutti uguali. Le radici
non la facevano più inciampare nell'incertezza dei suoi passi. Perfino il
diverso colore del muschio sulle rocce aveva un senso.
Iniziò ad accelerare, eccitata. Era
vicina. Doveva esserlo. Nardo e le sue teorie sull'amicizia potevano
tranquillamente andare a quel paese: il bosco stava guidando lei, lei sola,
verso la Pietra. Lo sentiva nello stomaco.
A
destra dopo le baccarance. Seguo il corso del ruscello. Arrivata alla roccia a
forma di Boldore, a sinistra.
Più sentiva di starsi avvicinando
alla sua meta, più l'eccitazione saliva. Forse la chiave era sempre stata
l'essere da sola, ma non ne aveva mai avuto l'occasione. Gira che ti rigira,
erano mesi che aveva sempre intorno qualcuno: sua madre, Nardo, il Team Plasma,
i Capipalestra, Lee...
Di colpo, Kim si fermò.
Lee.
Sarebbe stato fiero di lei, quando
fosse tornata con la Pietra? Gli sarebbe dispiaciuto non esserci? Avevano
sempre fatto tutto insieme, da quando era iniziata quella faccenda degli Eroi.
In un certo senso, non sembrava giusto che la storia finisse con lei sola.
Scosse la testa, lievemente confusa
da quei pensieri. No, non era il momento di avere dubbi. Lee sarebbe stato
certamente felice di poter tornare alla sua vita di tutti i giorni, esattamente
come lo sarebbe stata lei. Ma ora era sicuramente preoccupato da morire, quindi
era meglio fare in fretta e tornare da lui.
E
da N,
aggiunse, ripensandoci. Starà sicuramente
piagnucolando come un bambino. Arceus non voglia che io debba avere sulla
coscienza tutte quelle lacrime.
Mosse un passo avanti a sé e poi un
altro. Lo sconcerto le salì su per la spina dorsale, facendola rabbrividire, e
le si insinuò nella gola, seccandola. Arrivò poi al cuore, che iniziò a battere
all'impazzata.
La foresta era buia e silenziosa.
Faceva particolarmente freddo, per essere una notte estiva. E lei non aveva più
la minima idea di dove dovesse andare.
*******
«Quella... quella dannata scema!»
esclamò Lee, dando un calcio a una roccia lì vicino. «Ma si può?»
«Sì, è proprio una sconsiderata.»
confermò N.
«Gliel'ho detto mille volte, di
avere più coscienza di ciò che le accade intorno...»
«Infatti, esatto.»
«E lei cosa fa? Si separa dal gruppo!
Questa va nella Top 10 delle cose più stupide che abbia mai fatto.»
«Insieme allo sparare Porchetta da
un cannone?»
Lee sembrò valutare la cosa
abbastanza seriamente. «Beh, ok, forse nella Top 15. Comunque. Scommetto che
non si è neanche accorta di averci perso. Sarà ancora tutta immersa nel suo
"Devo trovare la Pietra per evitare che N mi molesti nel sonno". Sai,
in sostanza tutta questa situazione è colpa tua.»
«Mia? Non le ho mica detto di
andare a perdersi nel bosco! Cosa sono, la matrigna di Hansel e Gretel?»
«È un paragone più azzeccato di
quanto credi.» disse Lee, sorpreso lui stesso. Dopo tutto, era Hansel quello
che si inventava di lasciarsi dietro le briciole di pane. Senza di lui, Gretel
sarebbe stata mangiata dalla strega già la prima volta.
«Non la prenderò come un'offesa, ma
solo perché sei chiaramente agitato e poco lucido.»
Lee continuava a camminare avanti e
indietro, cercando di capire cosa fare. «Ormai è buio. Non ha nemmeno i suoi
pokémon dietro. Finirà per farsi uccidere!» Tirò un altro calcio all'aria,
frustrato. «Avrei dovuto stare più attento, accidenti.»
«Hai ragione. Hai assolutamente
ragione.» concordò N, in tono condiscendente, come se non lo stesse nemmeno
veramente ascoltando.
«E tu, come fai a essere così calmo
anche in un momento del genere?» esclamò Lee, al limite della sopportazione.
«Kim è sparita - conoscendo il suo senso dell'orientamento, si è completamente
persa-, è praticamente notte, il bosco è pieno di pokémon selvatici e non
sappiamo come trovarla. Se tieni a lei quanto dici, come fai a non essere
agitato?»
N sbatté un paio di volte le
palpebre, come se non avesse capito esattamente il senso di quelle parole. «Chi
ha detto che non sappiamo come trovarla?» chiese, semplicemente.
Lee lo fissò con uno sguardo stralunato.
«Cosa? Non dirmi che stai per tirare fuori un altro dei tuoi strani poteri da
ragazzo selvatico, tipo "posso fiutare la sua pista", perché sarebbe ridicolo.»
Per rendersi più chiaro, N tirò
fuori da una tasca dei pantaloni un aggeggio simile a un piccolo cellulare e
fece cenno a Lee di avvicinarsi.
Lui sbirciò lo schermo,
riconoscendovi lo sfondo verde quadrettato caratteristico dei radar.
«Vedi questo puntino blu? Siamo
noi.» spiegò N, indicandolo col dito. «Mentre quello rosa, qui sopra...è Kim.»
Lee era completamente sconcertato.
«Come fai a...? Da quanto...? Cosa?»
N diede un lieve colpo di tosse,
imbarazzato. «Ho messo un GPS nel suo cappello. Beh, è una lunga storia.
Andiamo a prenderla.»
«E che cosa stavi aspettando per
dirmi che avevi un affare del genere? Ero in ansia!»
«Beh, è che sei carino quando vai
nel panico. E non ti succede tanto spesso.» spiegò N, innocentemente. «Volevo
godermi il momento.»
Lee si sentì nuovamente arrossire,
ma lo ignorò. «Sbrighiamoci a trovare quella generatrice di sventure e torniamo
a casa, per favore.»
Tra un commento di N su
"quanto Lee fosse assolutamente adorabile quand'era in ansia" e
l'altro, ci misero più o meno mezz'ora a trovare il punto indicato dal
Kim-radar.
Quando Lee scorse la familiare
sagoma della sua migliore amica, in piedi al centro di una piccola radura, non
poté trattenere un sospiro di sollievo. «Kim!» la chiamò, andandole incontro.
Lei si voltò, sorpresa. «Lee!»
esclamò, un attimo prima di essere soffocata in un abbraccio. «Che cosa ci fate
qui? Credevo che ormai ve ne foste tornati indietro.»
«Lasciandoti da sola nella foresta,
pronta ad essere mangiata dal primo Garbodor che passa? Sì, come no.» soffiò
Lee, lasciandola andare per darle un buffetto sulla guancia. «A proposito, sei
tutta intera?»
Kim gli rispose con un mezzo
sorriso. «Beh, diciamo così.» disse. «Ma penso comunque che dovreste tornare a
casa. E in fretta.»
Lee aggrottò le sopracciglia. «Eh?»
«Beh, ecco... credo di aver fatto
arrabbiare il Dio della Foresta.» ridacchiò Kim, senza traccia di allegria.
«Oppure gli alberi. O la Pietra. Non saprei esattamente.»
«Di che stai parlando?» Lee proprio
non riusciva a capire che le fosse preso. Era la prima volta che la sentiva
dire tante cose strane tutte insieme. «Sei sicura di non essere stata morsa da
qualcosa di velenoso? Ti fa male la testa?»
Kim scosse forte il capo e si
allontanò di un passo. «Sto bene. Ma dovete
andarvene.»
Lee fece per aprir bocca, ma N gli
toccò una spalla. «I pokémon... sono agitati.» disse, piano. «Qualcosa di brutto
si sta avvicinando. Qualcosa di pericoloso.»
«Cercano me.» disse Kim,
stringendosi nelle spalle. «Chiunque sia, è arrabbiato con me.»
«E allora doppiamente col cavolo
che ti lasciamo qui!» esclamò Lee, afferrandole il braccio. «Ti è completamente
partito il cervello? Non ricominciare con quelle stronzate del "io sono
io".»
Kim si morse un labbro. «Ti ho
detto di andartene. Non voglio più coinvolgerti nelle stupidaggini che faccio.»
«Sono io che mi coinvolgo, razza di scema!» Le strinse più forte il braccio,
finché non capì dalla sua espressione che le stava facendo male. «E ti
riporterò a casa con la forza, se necessario, quindi spiegami cosa accidenti
sta succedendo!»
Gli occhi di Kim si abbassarono e
vagarono sul terreno, da una parte all'altra. «Non c'è tempo...» disse tra i
denti, probabilmente più a se stessa che non a Lee.
«Kim.»
«Non lo so neanch'io, ok?» disse la
ragazza, spazientita. «C'era... questa cosa,
questa sensazione, che mi ha guidata per la foresta. Pensavo che fosse la
Pietra, così l'ho seguita, ma poi... poi ho pensato a te e la sensazione è
scomparsa e all'improvviso non sapevo più dov'ero. Ma da quel momento ho
iniziato a sentire come... delle vibrazioni negative, come quando mangio il tuo
tiramisù e qualche ora dopo tu apri il frigo e io so che stai per venire a sgridarmi...»
«Tu hai decisamente inalato il veleno di qualche pianta velenosa.»
disse Lee, attonito.
«Ascoltami!» insisté Kim, una nota
di paura nella voce. «Lo so che è assurdo, non lo capisco per niente nemmeno
io. Ma devi credermi, se ti dico che non sta per accadere nulla di buono.»
«Sono d'accordo con Kim.»
s'intromise N, nervoso. «Anche perché ormai siamo circondati.»
«Eh?!»
«Cazzo.» imprecò Kim, tra i denti.
Anche senza strane sensazioni
pseudo-magiche a rivelarne la presenza, ormai era evidente un fastidioso
gracchiare proveniente dal limitare degli alberi, così come il luccicare di
molte pupille nell'oscurità. L'aria incominciò a farsi pesante.
«Che cosa sono?» chiese Lee,
sottovoce, cercando nel frattempo di capire quanto fossero superiori
numericamente.
«Pokémon Uccello, questo è sicuro.»
disse N.
«Vullaby.» rispose Kim, d'istinto.
«E anche qualche Mandibuzz, sicuramente. Non lasciano i piccoli andare a caccia
da soli.»
«Yuppie.» fece N, sarcastico.
Lee ridacchiò nervosamente. «Beh,
forse non sono tanto arrabbiati con te... voglio dire, i Vullaby non sono
questa gran cosa...»
«Sono almeno trenta.» lo informò Kim. «Ma, se vuoi, puoi anche andare di persona
a dirgli che "non sono questa gran cosa".»
I tre deglutirono all'unisono. La
situazione non volgeva affatto a loro favore: Kim non aveva dietro nessuno dei
suoi pokémon, il che la rendeva essenzialmente inutile (a meno che non avesse
deciso di battersi lei stessa, ma non era proprio il caso), N, conoscendolo,
era uscito con l'idea che qualunque "caro e dolce pokémon selvatico"
avessero incontrato sarebbe stato docile di fronte a qualche bacca e Lee...
beh, Lilligant era alla Pensione insieme a Simisear, il che lasciava ben poche
possibilità. Se ricordava bene, aveva infilato nello zaino solo un paio di
pokémon, giusto per sicurezza.
«Siamo nella merda.» dichiarò,
abbattuto.
«Fino al collo.» confermò Kim.
«Beh, cerchiamo di tirarcene
fuori.»
Lee tirò fuori le sue due pokéball,
pregando nel suo cuore che potessero bastare. Dovevano bastare.
Aspettò in silenzio, col fiato
sospeso, che tra gli alberi ci fosse qualche movimento sospetto. I Vullaby
stavano evidentemente aspettando il momento propizio per attaccare.
Un frullio d'ali fu il segnale. E,
nonostante la sua discrezione, Lee ne sentì chiaramente il significato, come un
urlo: "Scatenate l'inferno!"
«Zebstrika, Unfezant! Andate!»
I Vullaby si riversarono nella
radura, simili al dilagarsi di una nera macchia d'olio nell'oscurità. Gracchiavano,
affrettandosi in quella loro sgraziata e così poco minacciosa andatura da
pinguini, fissando le loro prede con uno sguardo decisamente cattivo.
Diverse saette partirono da
Zebstrika, mandandone a tappeto parecchi alla volta, mentre Unfezant si
scagliava sugli altri, ferendoli con becco, artigli e tutto quello che poteva.
Ma non era abbastanza. Erano veramente troppi.
«Dannati uccellacci!» esclamò Kim,
rispedendo indietro con un calcio uno di quelli che erano riusciti ad
avvicinarsi. «Non finiscono mai!»
«Faccio quello che posso.» si scusò
Lee, concentrato a dare indicazioni ai suoi pokémon. «Non so per quan-Zebstrika, Superfulmine!»
Le cose andavano di male in peggio.
I Vullaby prima o poi avrebbero trovato un'apertura e li avrebbero massacrati,
a dir poco.
Lee strinse i denti. Non poteva
finire così. Non avrebbe permesso che finisse così. Non dopo aver detto che
l'avrebbe riportata a casa.
D'improvviso, un vento fortissimo
li investì, sconcertando i pokémon selvatici tutt'intorno.
«Vorticerba!» urlò una voce, dal
limitare della foresta.
I Vullaby ebbero quindi la loro
prima esperienza di volo, perché vennero tutti sollevati dal terreno e feriti
da un turbinio di foglie affilate.
Lee alzò lo sguardo e strizzò gli
occhi, cercando di capire da dove fosse provenuto l'attacco.
Ma nulla aveva una grande
importanza, se non che le sue preghiere erano state ascoltate.
«Dunque, alla luce dei recenti
avvenimenti,» disse Lee, con una certa solennità, «ho deciso, dopo una lunga ed
attenta considerazione dei pro e dei contro...»
«Durata tre ore.» tossicchiò Kim, per
poi distogliere innocentemente lo sguardo.
Lee la ignorò. «...e dopo una
votazione che è risultata favorevole all’unanimità...»
«Ci credo, il voto era solo il
tuo...»
«...di restituire Porchetta alla
sua legittima proprietaria.»
Gli occhi di Kim si illuminarono.
«Era ora!» esclamò, tendendo una mano verso il ragazzo. Ma lui, anziché darle
la pokéball, la alzò sopra la testa.
«Ovviamente, ci sono delle
condizioni.»
Scocciata, Kim sbuffò e tornò a
sprofondare nello schienale del divano.
«Tanto per cominciare, questo non è
un premio, ma una gentile concessione che ti faccio. Giusto per sicurezza.»
«Giusto perché per poco non ci
rimettevo la pelle, vorrai dire.» puntualizzò la ragazza. «Ma non starò a
ricordare di chi è stata la colpa.»
«Così come io non starò a ricordare
chi abbia avuto la bellissima idea di perdersi nel bosco.» la rimbeccò Lee.
«Comunque, dicevo. Ti restituisco Porchetta, ma ti è assolutamente vietato
usarlo per fini violenti. Specie nei confronti di esseri umani. Specie in quelli dei maniaci dai capelli
verdi che dobbiamo farci amici per riavere indietro la nostra vita.»
Kim fischiò tra i denti. «Contaci.»
«Dico sul serio, Kim.»
«E io ho detto “contaci”. Non ti
fidi? O sei diventato sordo?»
Lee alzò gli occhi al cielo.
«D’accordo.» si arrese, lanciandole la pokéball. «Rieccoti la pulce.»
Kim l’afferrò al volo, con un
sorriso che le andava da un orecchio all’altro. Appena la ebbe in mano, ne
premette il pulsante d’apertura e il suo Tepig le si materializzò in braccio.
«Oh, il mio piccolino!» gorgogliò,
abbracciandolo. «Non hai idea di quanto mi sei mancato. Troppo, troppo,
troppo.»
Anche Porchetta doveva aver avuto
nostaglia della sua allenatrice, perché iniziò a leccarle la faccia,
scondinzolando come un matto.
Lee sorrise, intenerito dalla
scena. Sì, aveva fatto la cosa giusta. Certo, a volte Kim poteva essere
irritabile e un tantino pericolosa, ma, da quando erano partiti per il loro
viaggio come allenatori di pokémon, Porchetta era diventato un vero punto di
riferimento per lei. Separarli era stata una crudeltà. A pensarci
razionalmente, quali disastri avrebbe potuto combinare Kim, solo con quel
piccolo, inutile e sottosviluppato Te-
«Bene, bene, frugoletto. E ora, usa
Lanciafiamme.» ordinò Kim candidamente, direzionando il muso di Porchetta verso
Lee.
Il ragazzo sbiancò completamente.
«Ehi, che cosa– no! Fermo, Porchetta, fermati!»
Il pokémon, che aveva già aperto la
bocca per eseguire l’attacco, scosse la testa confusamente e ringoiò le fiamme.
Alzò lo sguardo sulla sua allenatrice, in cerca di qualche indicazione.
Lei arricciò le labbra. «Non sono
stata abbastanza chiara? Ho detto...»
«Kim!» la interruppe Lee, lanciando
poi un’occhiata spaventata al Tepig tra le sue braccia. «Si può sapere perché
ce l’hai con me? Ti ho anche ridato il tuo stupido maiale.»
Kim strinse le palpebre fino
ridurre gli occhi a due fessure. Quello sguardo valeva più di mille parole.
Lee distolse gli occhi, a disagio,
e si schiarì la voce. «E va bene, ti ho lasciata da sola per un po’, ma non mi
sembra così gra- »
«No, Lee.» disse Kim, alzandosi in
piedi. Il ragazzo indietreggiò d’istinto. «Tu non mi hai semplicemente
“lasciata da sola”. Tu mi hai lasciata da sola. In un bosco. Al buio. Con N.»
elencò, alzando un dito per ogni punto. «Dopo questa, giuro che non ti parlerò
mai più.»
«Lo stai facendo proprio ora.»
«Dettagli. Sempre ad aggrapparti ai
dettagli, tu.» borbottò Kim, distogliendo lo sguardo.
Lee sospirò e si grattò
nervosamente la nuca. «Senti, ti ho già detto che mi dispiace, l’ho fatto per
un buon motivo...»
«Ah, già!» Kim si batté un pugno
sul palmo della mano, simulando l’espressione di chi si fosse appena ricordato
qualcosa. «Il tuo Valido ed Incontestabile Super Motivo: inseguire una
gonnella! Come ho potuto dimenticarlo?» ogni sua parola era impregnata di puro
veleno.
«Ehi!» protestò Lee. «Tanto per
cominciare, non sapevo che si trattasse di una ragazza...»
«Come no. E io sono il Coniglietto di Pasqua.»
Lee la ignorò e continuò: «In
secondo luogo, si è data alla fuga subito dopo averci salvato da un branco di
Vullaby inferociti. Era troppo sospetta per non inseguirla!»
«Si sarà semplicemente pentita di
averlo fatto, dopo averti visto in faccia!»
«Dici? Non sarà stato il tuo
intento omicida a spaventarla?» ribatté Lee, acido.
«Se avessi emanato un decimo del mio intento omicida, non
saresti vivo per raccontarlo.»
«Peccato che, senza di me, nemmeno
tu saresti viva, in questo momento.»
«Per poco non rischiavo la vita di
nuovo, ieri sera!» ribatté Kim, facendo un altro passo avanti. «Sei almeno in
grado di capire i tuoi errori?»
Lee deglutì, ma non si fece
indietro. Aveva un onore da difendere. «Non ho fatto niente di così terribile,
si può sapere perché ti scaldi tanto?»
Kim digrignò i denti. «Forse non mi
sono spiegata bene. Da sola. In un bosco. Al buio. Con N. Hai anche solo una vaga idea di cosa sia stato?»
Soffermandosi un po’ di più
sull’ultimo dettaglio, Lee capì improvvisamente il nocciolo del problema e
raggelò. No, non doveva essere stata un’esperienza affatto piacevole.
«Ma no, ovvio che non ce l’hai.»
continuò Kim, adirata. «Soltanto a ricordarlo mi vengono i brividi... avrò gli
incubi per settimane!»
La conversazione fu interrotta da
un forte starnuto e dal rumore di una chiave che girava nella porta d’ingresso.
I ragazzi si voltarono, solo per
inorridire alla vista di N che entrava in casa, con un grosso sacchetto di
carta marrone tra le braccia.
«Sono tornato!» trillò
allegramente, per poi tirare su col naso. «Per caso stavate parlando di me?»
«Per prima cosa,» sibilò Kim,
stizzita, «è da dieci minuti che sei dietro la porta, in attesa di fare
un’entrata ad effetto. Non credere di fregarci.»
«Secondo,» aggiunse Lee, «è inutile
che fingi di aver fatto la fatica di portare a casa la spesa da solo, sappiamo
benissimo che hai sempre dietro qualche ex-Recluta adorante a fare il lavoro
sporco per te.»
«E
terzo... si può sapere chi cavolo ti ha dato le nostre chiavi di casa?!»
«Sempre avute.» sorrise N,
candidamente, mentre si chiudeva la porta alle spalle. «Piuttosto, oggi vi vedo
alquanto ostili, cari. È successo qualcosa?»
«Chiamalo “qualcosa”.» sospirarono
loro, in coro, per poi lanciarsi una vicendevole occhiataccia.
«Non sarà ancora per la storia di
ieri sera, voglio sperare.» disse N, un po’ preoccupato.
Lee inarcò un sopracciglio. «Intendi
la parte in cui uno stormo di Vullaby selvatici attenta alla nostra vita...»
«...o quella in cui un certo
maniaco di cui non farò il nome attenta alla mia virtù?» concluse Kim.
Lee parve disorientato. «Beh, io
avrei proseguito con la parte in cui un’allenatrice misteriosa ci salva e poi
si dà alla fuga, ma comunque...»
«E dai, Kim,» disse N, in tono di
scuse. «Non ho fatto mica niente di male...»
Il che, nel linguaggio di N,
significava certamente che aveva fatto qualche porcata.
«Sì, come no.» sibilò la ragazza.
Dopodiché, mise Porchetta all’altezza del suo viso e gli accarezzò una
guanciotta paffuta, guardandolo negli occhi con sguardo sognante. «Non ti
preoccupare, Kim, ci sono qui io... non permetterò a nessuno di farti del
male.» recitò, in un tono vellutato che, in effetti, assomigliava molto a
quello di N.
Porchetta la guardò con
un’espressione sul muso che senz’altro voleva dire: “Che cosa ti sei fumata,
dolce padroncina?”
Kim, confidente nelle sue abilità
recitative (sviluppate in anni e anni di scenate melodrammatiche a cui chi le
stava intorno si sarebbe volentieri risparmiato di assistere), prese tra le
dita una delle zampine del suo Tepig e continuò: «Avanti, dammi la mano; non
vorrei mai che la Luna invidiosa ti portasse via da me...»
Lee tossicchiò, ma alla fine non
riuscì a trattenere una sonora risata. «Ha davvero detto così? Sul serio?»
«Te
lo giuro!» disse Kim, imitando il gesto di infilarsi due dita in gola. «Per
poco non ho incominciato a vomitare miele, e solo perché ero troppo preoccupata
per la mia incolumità. Certo, avrei potuto aizzargli contro Zebstrika, ma...»
Le guance tinte di un bel rosso
papavero, N si avvicinò ai ragazzi e mollò il sacchetto della spesa in mano a
Lee, sostituendolo con Porchetta, che prelevò di sorpresa dalle braccia di Kim.
«Beh, ma dimentichi la parte del: “Dove sarà Lee?”» disse in falsetto, muovendo
le zampe di Porchetta come se fosse stato un burattino. Il piccolino era
talmente confuso da quello che stava accadendo che non riuscì a ribellarsi in alcun
modo. «“Starà bene? Si sarà perso? E se un Lillipup selvatico l’avesse
mangiato?”» N si schiarì la voce, tornando al suo tono normale. «“Ha il suo
Unfezant, vedrai che andrà tutto bene.” “Come se quel tacchino avesse una
qualche utilità!”»
Kim osservò la ricostruzione della
scena con un che di meravigliato. Dovette ammettere con se stessa – ma mai
l’avrebbero potuta costringere a ripeterlo ad alta voce – che le abilità
recitative di N superavano di gran lunga le sue... nonostante il ragazzo si
prendesse delle licenze poetiche sul contenuto alquanto disprezzabili.
«”Non ti preoccupare, peperino.»
stava continuando lui, molto preso, «Lee è uno che sa cavarsela. E, se non
torna tra qualche ora, possiamo sempre andare a cercarlo.” “Uhm, ok.” “Brava. E
ora, a casa.”» N accarezzò Porchetta sulla testa, dopodiché gli schioccò un
bacino sul naso.
Questo fu uno degli sbagli più
grossi che avrebbe potuto commettere.
Nel giro di mezzo secondo, Kim
abbandonò lo stupore per strappargli Porchetta dalle braccia. Gli diede dunque
un calcio negli stinchi, seguito da una ginocchiata tra le scapole, e lo
costrinse di peso a terra.
«C’è una cosa su cui dobbiamo
chiarirci, N.» ringhiò la ragazza. «Finché molesti me, è un discorso. È
fastidioso, irritante ed imbarazzante, ma è quasi
sopportabile. Però prova un’altra volta ad alzare un dito sui miei pokémon e ti
farò rimpiangere di essere stato messo al mondo. Chiaro?»
«Non capisco perché tu debba essere
sempre così violenta...»
«Chiaro?» ripeté Kim, spazientita.
«Chiaro.» sospirò N. «E poi, tanto
con te è più divertente.» aggiunse, sottovoce.
Kim provò l’irresistibile impulso
di prenderlo a calci da lì all’Isola Libertà, ma lo sguardo di pura
disapprovazione che le rivolse Lee la dissuase.
Si alzò dalla schiena di N con
malagrazia e accarezzò Porchetta sulla testa, cercando di non fargli pesare il
trauma che doveva aver appena subito. Solo allora si rese conto che il
piccolino, a furia di venire sballottolato da una parte all’altra, aveva
assunto un colorito pericolosamente verdognolo.
Fu il turno di Kim di sbiancare.
«No, Porchetta, ti prego, non- »
Il pancino del Tepig emise un
gorgolio poco rassicurante, dopodiché dalla sua bocca partì una fiammata.
*******
L’avevano buttata immediatamente sotto
la doccia, dirigendole addosso un getto d’acqua fredda, ma il danno ormai era
fatto. La maglietta di Kim, bianca fino a cinque minuti prima, era adesso
annerita su tutta la spalla sinistra, la pelle visibile arrossata fino alla
base del collo. Per fortuna la fiamma di Porchetta l’aveva presa soltanto di
striscio, ma sempre di fuoco si trattava.
N osservò, allucinato, mentre Lee
faceva ruotare la testa della doccia per settarla sul getto a pressione più
bassa, in modo che il contatto con l’acqua non fosse troppo doloroso.
Kim piangeva.
Il suo corpo era scosso da violenti
singhiozzi, mentre lacrime su lacrime le scorrevano lungo il viso, senza
accennare a fermarsi. Per N, era uno spettacolo senza precedenti. Non l’aveva
nemmeno mai sfiorato l’idea che Kim potesse piangere in quel modo. Aveva un che
di surreale, come se si fosse trattato di un sogno, ma allo stesso tempo era
così reale da togliergli il respiro. Rimase a fissarla, incantato, finché la
voce di Lee non lo riscosse: «N, passami le forbici.»
Ancora un po’ intontito, N lo
guardò come se gli avesse chiesto la radice cubica di 113.
N sentì gli ingranaggi del suo
cervello, bloccati dallo shock, riprendere lentamente a girare. Forbici. Il suo
sguardo vagò da un lato all’altro del lavandino, finché non individuò un paio
di piccole forbici argentate. Le prese e si chinò per passarle a Lee.
«Grazie.» disse lui,
distrattamente, e gli mise in mano la doccia. «Tieni il getto puntato sulla sua
spalla e, qualunque cosa succeda, non muoverti di un millimetro. Ne sei in
grado?»
N sbatté le palpebre un paio di
volte, ancora stralunato. «...sì.» disse. «Sì, ok.»
Lee annuì e si mise all’opera. Con
velocità e metodo invidiabili, quasi lo facesse tutti i giorni, tagliò via
tutta la manica sinistra della maglietta di Kim, fino al collo. Quando ebbe
finito di rimuovere la stoffa, l’acqua poté entrare in contatto con la pelle
ustionata e Kim urlò per il dolore.
Cercò di sottrarsi al getto della
doccia, ma Lee l’afferrò per la spalla sana e cercò di costringerla a stare
ferma.
«Fa male... fa male...» si lamentò
la ragazza, con la voce rotta dalle lacrime.
«Lo so. Ehi, lo so.» insisté Lee, quando lei provò nuovamente a spostarsi. Le
prese le mani e intrecciò le dita con le sue. «Ma so anche che puoi farcela a
sopportarlo. Avanti, chi è la ragazza più tosta di Unima?»
«Non io.» ribatté Kim, in un
singhiozzo, continuando a dimenarsi per cercare di allontanarsi dall’acqua.
«Non sono abbastanza forte. Preferisco che tu chiuda l’acqua e mi lasci
morire.»
«Non dire stupidaggini... tra poco
passerà tutto, lo sai.»
«Ma intanto... intanto...»
«Puoi sopportarlo. So che lo puoi
fare.»
Kim scosse forte la testa. «No, non
posso, non questa volta...» Cercò di spingerlo via, ma senza successo.
«Non fare la scema, lo sai che devi resistere. Se non raffreddiamo la
pelle come si deve, dopo sarà molto peggio.»
«Non m’importa, non m’importa... fa
troppo male...»
Lee allora appoggiò la fronte sulla
sua. «Kim.»
«Per favore, ti prego... lasciami...»
«Kim. Kim. Kim. Kim...» mormorò
lui, come un mantra. Ripeté il suo nome, soltanto il suo nome, così tante volte
da perderne il conto.
Lentamente, i singhiozzi della
ragazza sfumarono in un pianto silenzioso, e lei smise di agitarsi.
«Bravissima.» si complimentò Lee,
con un sorriso. «Ora ho bisogno che tu stia tranquilla, mentre vado a prendere
le garze e il resto. Puoi farlo?»
Kim annuì debolmente e tirò su col
naso.
«Ottimo.» Lee le accarezzò la testa
e si alzò in piedi. «La affido a te, N. Fa’ in modo di mantenere bagnata tutta
la zona rossa. Cercherà di toccarsi la ferita, ma tu non lasciarglielo fare. E,
soprattutto, tienila tranquilla. È ancora sotto shock.»
«Sotto shock tua nonna.» borbottò
Kim. «Fa solo un male cane. E, Lee?»
«Sì?»
«Ti odio.»
Le labbra di lui s’incurvarono in
un ghigno. «No, non è vero.» disse soltanto, e uscì in fretta dal bagno.
N ascoltò i suoi passi
allontanarsi, alcuni cassetti aprirsi, degli oggetti metallici sbattere l’uno
contro l’altro. Ma non riusciva a distogliere lo sguardo dalla spalla di Kim,
su cui continuava a dirigere con precisione il getto della doccia.
Era una ferita dolorosa anche solo
a guardarla: per una lunghezza di almeno venti centimetri la pelle era rossa,
tendente al violaceo, e quasi tutta la spalla era ricoperta da bolle
bianchicce. Ogni volta che l’acqua ne sfiorava una, Kim sobbalzava e cercava
inutilmente di ingoiare le lacrime.
N quasi non sopportava di
guardarla, ma se avesse distolto lo sguardo si sarebbe sentito perfino peggio.
«Porchetta ha detto che gli
dispiace.» mormorò, stringendo un poco la doccia. «Che sei l’ultima persona a
cui avrebbe voluto fare del male.»
Kim scosse la testa. «Non è stata
colpa sua.» disse, debolmente. «Ha sempre avuto lo stomaco delicato, avrei
dovuto pensarci... ah!»
Nel momento in cui N deviò un poco
il getto della doccia, per bagnarle il collo, Kim sobbalzò violentemente.
«Cazzo, cazzo, cazzo...» disse a denti stretti, sollevando di riflesso la mano
destra in direzione della spalla. N, ricordandosi l’avvertimento ricevuto poco
prima da Lee, gliela prese prima che potesse toccarsi la ferita.
«Ehi.» disse piano, sperando che
l’incertezza non trasparisse nella sua voce. «È... è tutto a posto, d’accordo?»
Kim scosse forte il capo, tenendo
gli occhi ben chiusi, mentre nuove lacrime andavano a bagnarle le guance. «Con
che coraggio mi vieni a dire che è tutto a posto? È tutta...» s’interruppe in
un singhiozzo. «È tutta colpa tua, dall’inizio alla fine!»
N sentì il suo stomaco
attorcigliarsi su se stesso.
Era vero.
Non si trattava solo di
quell’incidente, quello era perfino trascurabile. Era lui il problema. Lui aveva imposto la propria presenza nella sua
vita, lui l’aveva trascinata in un circolo vizioso di disavventure, lui aveva
fatto di lei l’ultima cosa che avrebbe voluto diventare – l’Eroina di Unima.
Lui le aveva messo negli occhi
tutte quelle lacrime.
«Kim.» Le strinse la mano e lei,
forse di riflesso, la strinse a sua volta. «Kim, guardami.»
Seppur riluttante, Kim alzò piano
lo sguardo. Il suo respiro si era fatto pesante e sembrava fare fatica a tenere
gli occhi aperti.
«Bene, brava.» si complimentò N,
tenendo gli occhi fissi sui suoi, mentre muoveva delicatamente il getto della
doccia verso l’esterno della spalla. Sentì Kim stringergli forte la mano, le
sue unghie affondargli nella carne. «Ora ascolta attentamente quello che sto
per dirti, ok?»
I loro occhi si specchiavano
perfettamente gli uni negli altri. Se non fosse stato così concentrato su
quello che doveva fare, di certo N avrebbe indugiato qualche secondo di più nel
lieve batticuore che una tale vicinanza gli stava provocando. Si passò la
lingua sulle labbra e si schiarì la voce.
«Un Magikarp entra in un caffè,
splash.»
Kim sbatté un paio di volte le
palpebre, come se avesse creduto di non aver sentito bene. Poi emise un suono a
metà tra un singhiozzo e uno starnuto. «...splash.» mormorò tra sé, le labbra
leggermente incurvate. Infine, incredibilmente, scoppiò a ridere. «È tipo... la
battuta più triste... che io abbia mai sentito!»
N sorrise, soddisfatto. Poteva
anche essere stata una battuta scadente, che gli sarebbe stata rinfacciata
mille e mille volte nei giorni a seguire, ma Kim stava ridendo. Aveva ancora il
viso bagnato dalle lacrime ed era pallida come un fantasma, ma non piangeva
più.
«Davvero, ma dove le vai a pescare,
certe cose?»
«I Magikarp? In qualunque specchio
d’acqua al di fuori di Unima. Qui muoiono.»
«Ma no, scemo!» ridacchiò Kim,
cercando senza successo di riprendere fiato. «“Un Magikarp entra in un
caffè”... maddai... non ha neppure senso, perché un Magikarp dovrebbe entrare
in... ehi, che è quella faccia da ebete?»
N si riscosse e abbassò lo sguardo.
«No, niente.» mormorò, imbarazzato. «È... è una cosa banale.»
«Tu sei una cosa banale.» ghignò Kim, a cui apparentemente bastava
la distrazione dal dolore per tornare pungente come al solito. «Sputa.»
«Pensavo solo...» N strinse il
manico della doccia e si decise a guardarla negli occhi. «...che sei carina
quando piangi, ma ti preferisco di gran lunga quando sorridi.»
Le guance di Kim si tinsero
istantaneamente di un rosso infuocato. Aprì e chiuse la bocca qualche volta,
come se fosse stata in procinto di dire qualcosa, ma non emise suono. «Sei...»
riuscì a mettere insieme, dopo qualche tentativo. «Sei davvero la cosa più banale che esis-»
«Le garze alla baccafragola sono
finite!»
La porta del bagno si aprì di colpo
e Lee entrò, trafelato, con l’intero cassetto dei medicinali tra le braccia.
«Mi ero ripromesso di farne scorta il prima possibile, ma ultimamente era già
tanto riuscire a sbarcare il lunario... dovremo arrangiarci col fai-da-te,
accidenti.»
Sia N che Kim lo guardarono con un
che di allucinato. Lee aggrottò le sopracciglia. «Si può sapere che avete? Qui
siamo nel bel mezzo di una crisi! Con l’acqua può bastare, ho bisogno che vi
spostiate in salotto e... Dio, che c’è ora?» sbuffò, sentendo il suono del
campanello provenire dall’ingresso.
«Vado io ad aprire!» si offrì
frettolosamente N. Senza aspettare una risposta, spense l’acqua, riappese la
doccia al suo supporto e corse fuori dal bagno.
Dopo un attimo di esitazione, Lee
porse la mano a Kim – non tanto per aiutarla ad alzarsi, dato che lei lo ignorò
completamente e provò a tirarsi su da sola, quanto per afferrarla prontamente
per il gomito quando scivolò sul bagnato, rischiando di autoledersi
ulteriormente.
«Non sarai ancora arrabbiata con
me, spero.» disse, dubbioso.
«Non lo so.» borbottò lei,
scostandosi e abbassando lo sguardo. «Devo ancora decidere.»
Lee sorrise. Era sempre la solita.
«Allora rimarrò in fervente attesa del vostro responso, signorina.»
«Antipatico.»
«Ha parlato lei.»
Kim arricciò il naso e aprì bocca
per rispondere qualcosa – sicuramente nulla di particolarmente carino – ma si
interruppe prima ancora di iniziare, assumendo un’espressione scioccata.
«Che c’è?» chiese Lee, perplesso.
«Ti fa male da qualche parte? O... ho qualcosa in faccia, per caso?»
Ma poi si rese conto che Kim non
stava guardando lui. Stava guardando dietro
di lui. Lee fece per voltarsi, ma lei lo fermò: «Non. Ti. Girare.»
«Che cosa...?»
«Dama Munna.» dichiarò Kim, tenendo
lo sguardo fisso verso l’ingresso. «C’è Dama Munna sulla porta.»
«Se stessi ferma, forse riuscirei
ad evitare di farti male.» sbottò Lee, sollevando solo per un secondo lo
sguardo dall’ago che teneva in mano, per lanciare a Kim un’occhiataccia.
Lei incrociò le braccia al petto,
imbronciata. «Sei sicuro che quell’affare sia sterile? Ogni volta che una bolla
scoppia, fa un male cane...»
«Non le sto scoppiando, le sto solo
bucando per far uscire il pus.» puntualizzò Lee, pazientemente. «E ci ho
passato sopra la fiamma dell’accendino, più sterile di così si muore.»
«Ecco, evidentemente le esalazioni
di benzina mi uccideranno. Tu e il tuo zippo del cavolo.»
«Davvero quando non stai bene non
puoi fare a meno di sparare idiozie a raffica? E stai ferma, accidenti! N, a che punto sei con le bacche?»
N sobbalzò violentemente. Dovendo
occuparsi di Kim, Lee aveva deciso di ottimizzare i tempi, mettendo in mano
all’ospite indesiderato mortaio e pestello. Così, erano dieci minuti buoni che
N combatteva con una manciata di baccafragole. Il punteggio era attualmente 1 a
7... per le bacche.
«Q-quasi pronte!» esclamò il
ragazzo, frettolosamente. Aveva una grossa macchia bluastra sul naso e l’aria
di chi non ha la più pallida idea di cosa fare per sopravvivere altri cinque
minuti. «Credo.»
Lee annuì. «Ok. Appena eliminato
quel “credo”, aggiungi un cucchiaio e mezzo di olio di Bellossom. Uno e mezzo, non di più.»
«R-ricevuto.» balbettò N,
nervosamente. «Un cucchiaio e mezzo, un cucchiaio e mezzo...» ripeté fra sé,
continuando a pestare le baccafragole.
Seduta sul divano, accanto a lui,
una donna dai lunghi capelli neri ridacchiò. «Oh, come siete carini!» disse, portandosi le mani al
viso in adorazione. Da dietro le lenti degli occhiali, i suoi occhi parevano
luccicare. «Un po’ mi dispiace avervi colto in un momento inopportuno, ma
vedervi così... mi scalda il cuore.»
Kim e Lee la fulminarono con lo
sguardo. Dama Munna era di certo una delle persone più irritanti che fosse
capitato loro di incontrare, durante l’anno maledetto in cui erano partiti alla
volta della Lega Pokémon di Unima. Costantemente con la testa tra le nuvole,
inutile quando c’era bisogno di lei e perenne fonte di guai, il sospetto
generale era che si sballasse di Fumonirico un giorno sì e l’altro pure. Beh,
fin qui non è che fosse molto diversa da qualunque altro abitante di Unima. Ciò
che la rendeva veramente insopportabile era...
«Sì, è decisamente un momento inopportuno.» sbottò Lee, riprendendo il suo
lavoro con l’ago («Ahia!»). «Quindi vediamo di arrivare al punto in fretta. Che
cosa ci fai qui, Zania?»
«Oh, è una storia un po’ buffa, a
pensarci.» cinguettò lei. «Vedete, Vincenzo, del Laboratorio di Analisi –
sapete, quello coi capelli neri e gli occhiali – non aveva tempo, quindi ha
chiesto a Domitilla, quella simpatica di Ricerca e Sviluppo, quella che tempo
fa si era quasi sposata con Emiliano di PokéNeurologia, ecco, a lei, di
portarvi i risultati del test che avete richiesto l’altro giorno, ma pare che
lei si sia presa un tremendo raffreddore, così ha chiesto di farlo ad Annibale,
l’ex ragazzo di Annunziata, quella un po’ strana che ogni tanto vende fiori sul
Percorso 6, solo che Annibale era veramente tanto impegnato, ma sua sorella è
in buoni rapporti con la cugina del fratello minore di quella che fino a tre
anni fa stava con – mi sfugge il nome, Ughetto? -, beh, insomma, Arianna, una
mia collega, solo che lei oggi aveva una così importante partita di–»
«Ma ci arrivi al punto?!» la interruppero
Kim e Lee, esasperati.
«Insomma, sì, Arianna ha passato i
risultati a me e io ero libera, così sono venuta a portarveli.» concluse Zania,
con un sorriso.
«La voglia di lavorare dei
ricercatori mi commuove.» commentò Lee. «Sono dei tali scaricabarile... che
cosa fanno tutto il giorno, raccolgono margherite?»
Zania frugò nel suo camice da
laboratorio fino a tirarne fuori una sottile scatola rettangolare. Un tempo
doveva essere stata lucida e bianca, ma ora, forse a causa dei numerosi
passamano,era grigiastra, sbeccata e
decorata da quella che aveva tutta l’aria di essere una macchia di caffè. «Ecco
qui.» disse Zania, aprendola.
All’interno c’era un pezzo di
stoffa nera e arancione, che sembrava essere stato strappato da qualcosa di più
grande.
«Dai test risulta che si tratta di
una microfibra elastica ed impermeabile, leggermente antiurto. In altre parole,
proviene senz’ombra di dubbio dalla divisa di un fantallenatore.»
«Ah!» esclamò Kim, soddisfatta,
puntandole un dito contro.
«Kim, se non stai ferma...»
«L’avevo detto! L’avevo detto, io,
ma nessuno mi ha dato ascolto. “Non
si sa mai”, “Meglio verificare”... un cavolo, e adesso ci ritroviamo con Dama
Munna che attenta alla nostra sanità mentale con le sue chiacchiere! Pretendo
delle scuse ufficiali, sia da te...» indicò Lee, «...che da te.» concluse,
spostando l’indice in direzione di N.
Quest’ultimo, che fino a quel
momento era stato troppo impegnato a valutare quanto fosse esattamente “mezzo
cucchiaio” d’olio per prestare attenzione, alzò lo sguardo e le rivolse
un’espressione confusa. «C-credo che Annibale non avrebbe dovuto dire ad
Annunziata che assomigliava a un Conkeldurr...»
«Ascolta quando la gente parla!» lo
sgridò Kim. «Abbiamo appena concluso, com’era sempre stato chiaro, ovvio ed
incontestabile, che avevo ragione io: quella che Lee ha inseguito nella foresta
era una fantallenatrice.»
«Evviva la modestia...» commentò
Lee, alzando gli occhi al cielo.
«Senti, quando ci vuole ci vuole.»
lo rimbeccò Kim. «Nel momento esatto in cui Unfezant è tornato con quel pezzo
di stoffa, già sapevo di che cosa si trattava. Non avrai mai più il diritto di dubitare di me.»
«Ehm...» Zania alzò una mano per
richiamare l’attenzione, come una scolaretta. «A dire il vero, non ci è stato
possibile determinare il sesso di chi indossava questi abiti. Non c’erano
tracce di DNA e...»
«Era una ragazza.» ripeté Kim,
categorica. «Tanto per cominciare, Lee ha reagito istantaneamente quando l’ha
vista scapp- ahia!»
«Scuuuusa.»
Kim storse il naso e continuò: «E
poi, lo vedi quel bordino arancione? È chiaramente un orlo. E solo le gonne
delle fantallenatrici hanno gli orli fatti così.» dichiarò, assumendo
un’espressione completamente soddisfatta, alla “ho ragione, ho ragione, lo so che ho ragione.”
«Ooooh.» fece Zania, ammirata.
«Com’è che sai così tante cose sulle fantallenatrici, Kim?»
La ragazza sembrò cadere
istantaneamente dal suo piedistallo, colta alla sprovvista da quella domanda.
Arrossì e balbettò qualcosa di simile a: «P-per nes... nessun... uhm...»
Lee ridacchiò. «Kim voleva
diventare una fantallenatrice, da piccola.» spiegò, divertito.
«Zitto!» scattò lei, con le guance
di un bel rosso cremisi. «È una storia vecchia, avevi promesso di non parlarne
più!»
«Di cosa? Di come fossi
incredibilmente determinata, solo finché non hai scoperto che avresti dovuto
tingerti i capelli di blu?»
Kim lo guardò con un che di
disgustato. «Questo è un colpo basso, Lee. Davvero un colpo basso.» borbottò.
«Spero che il prossimo minestrone di N ti vada di traverso.»
«Cosa?» chiese il sopracitato, come
cadendo dalle nuvole. «Non sono stato io, non ho fatto nien–»
«Ti vuoi decidere ad ascoltare?!»
gli abbaiò contro Kim, ormai completamente esasperata dalla situazione.
«Senti, queste bacche mi stanno
facendo impazzire!» piagnucolò N, disperato. «Me ne è finita una nell’occhio un
minuto fa e brucia da morire, praticamente sembrano avere vita propria e
davvero non ne vogliono sapere di...»
Con un sospiro, Lee si alzò in
piedi e andò verso di lui. Gli porse la mano. «Dammi, ci penso io, altrimenti
qui rischiamo una crisi isterica collettiva. Tu va’ a finire con Kim, mancano
solo un paio di bolle.»
N rimase incantato a guardarlo,
come se fosse stato una sorta di angelo disceso dal cielo per salvarlo.
«Grazie... però...»
«Non preoccuparti.» sogghignò Lee.
«Per quanto malvagie, le terribili baccafragole non hanno alcun potere su di
me.»
L’espressione densa di gratitudine,
N sembrava ora fisicamente impossibilitato a smettere di fissarlo, tale era il
suo stato di adorazione.
«Allora, me lo dai il mortaio o no?
Non abbiamo tutta la giornata, sai.»
«Posso baciarti?» chiese N, come in
trance.
Lee diventò istantaneamente color
porpora, si sbilanciò e per poco non cadde all’indietro. «Ma anche no!» urlò,
terrorizzato alla sola idea.
«Oooooh, come siete carini!»
*******
«Che hai fatto alla mano?» chiese
Kim, quando N le si avvicinò con l’ago che Lee per poco non gli aveva
conficcato nel palmo.
N sbatté le palpebre, perplesso,
come se si fosse accorto solo allora del sottile rivolo di sangue che gli
scorreva lungo il dorso della mano. «Ah...» fece, a disagio. «Non è niente, non
c’è bisogno che ti preoccupi.»
«E chi si preoccupa? È solo che
è...» uno strano presentimento la fece esitare. «...strano...». Strinse le
labbra fino a farle sbiancare, rendendosi conto da sola di che cosa si
trattava. A colpo d’occhio non era facilissimo notarlo, ma il sangue sgorgava
da quattro piccoli tagli a forma di mezzaluna.
Unghie.
Le sue.
Kim abbassò frettolosamente il
capo, costringendosi a tacere.
«Oh, ne era passato di tempo,
dall’ultima volta che avevo assistito a una scena del genere!» stava
ridacchiando nel frattempo Zania, in brodo di giuggiole. «Non cambi mai, eh,
N?»
Lui alzò le spalle, lievemente
rosso in viso. «Sai com’è, sono “la cosa più banale che esista”.» disse,
tranquillamente. «È normale che sia anche piuttosto prevedibile.»
Kim si morse la lingua. Col senno
di poi, non è che avesse voluto davvero dirgli quelle parole. Era stato... come
un riflesso condizionato.
Se
mi dai un pugno, te lo restituisco. Se mi fai il solletico, rido. Se mi batti
le mani davanti agli occhi, li chiudo. Ma se mi fai un complimento...
Nessuno le faceva complimenti. Beh,
a parte Lee, ma lui non contava. I suoi erano come i complimenti dei genitori,
non ci si poteva fare affidamento. Quindi, non c’era abituata. Che cos’era
giusto rispondere, in situazioni del genere? “Grazie”? “Mi fa piacere”? “Va’ a
quel paese” sembrava un’opzione molto più ragionevole.
D’accordo, N non le piaceva. Era
strano, fastidioso, ambiguo, da un certo punto di vista addirittura
terrificante. Ma questo non le dava il diritto di ferirlo gratuitamente.
«Ti
preferisco di gran lunga quando sorridi.»
Si sentì sprofondare.
Letteralmente. Il soffitto sembrò farsi sempre più lontano e le pareti sempre
più alte, mentre una voragine lentamente la inghiot–
«Kim!»
N la prese per un braccio, evitando
per un pelo che la sua spalla ustionata andasse a sfregare contro lo schienale
della sedia su cui era appollaiata. «Sta’ attenta... rischi di farti male.»
Kim alzò lo sguardo su quegli occhi
verdi, così pieni di preoccupazione nei suoi confronti.
Pensò alla sua mano sanguinante, al
conforto che le aveva dato stringerla mentre piangeva.
«Un
Magikarp entra in un caffè, splash.»
«Sei...» cercò invano le parole per
esprimersi. Erano lì, un’accozzaglia di lettere che le turbinavano in testa, ma
che non ne volevano sapere di unirsi a formare qualcosa di senso compiuto. Ce
la mise tutta. «Sei un idiota.» disse infine, senza alzare lo sguardo. «E un
maniaco. E un lacché di Nardo e... e un idiota. E ti odio.»
N aggrottò le sopracciglia. Per un
attimo, i suoi occhi parvero farsi lucidi.
«...ok.» disse soltanto, alzandosi.
Si mise una mano sulla nuca, a disagio. «Ah, probabilmente avrai sete. Vado a
prenderti un bicchiere d’acqua.»
Allibita, Kim lo osservò sparire in
tutta fretta dietro la porta della cucina. Si diede poi uno sguardo alla
spalla: non c’erano più bolle gonfie, e lei non se n’era nemmeno accorta. Tirò
un calcio all’aria, frustrata, senza capire perché.
«Ed eccone un’altra che non cambia
mai.» sorrise Zania, che sembrava starsi divertendo come mai nella sua vita.
«Quando ti deciderai ad essere un po’ più onesta con te stessa?»
«Quando ti deciderai a levarti dai
piedi, Zania?» replicò Kim, acida. «Hai fatto quello che dovevi fare, perché
non torni a raccogliere margherite?»
«A dire il vero...» la donna si
sistemò gli occhiali, assumendo d’un tratto un’aria quasi professionale. «Comunicarvi
i risultati del test non era l’unica ragione della mia visita.»
«Oh, eccola.» sbottò Kim. «Mi
dispiace, ma non abbiamo soldi da destinare alla ricerca, né pokémon su cui
lasciarti fare esperimenti, né tantomeno zucchero per la tua torta. Va’ a fare
l’elemosina a chi non fa già fatica ad arrivare a fine mese.»
«Sottoscrivo.» concordò Lee,
dall’altra parte della stanza. Dopo lo shock subito a causa della “proposta
indecente” di N, si era rintanato in un angolo a trucidare le baccafragole,
senza spiccicare parola.
«No, il fatto è che al Laboratorio
abbiamo una piccola urgenza e... ci farebbe piacere se trovaste il tempo di
occuparvene.»
Gli occhi di Lee s’illuminarono,
nel buio del suo angolino. «Un’urgenza retribuita?» chiese, con cautela.
«Naturalmente.»
«Contaci, allora!» sorrisero Kim e
Lee, scambiandosi un’occhiata complice. «Di cosa si tratta?»
«Oh, non è nulla di particolarmente
complicato.» spiegò Zania. «Avete presente Emiliana, quella di Pokémonologia
Avanzata che fino all’anno scorso stava con Ruggero di–»
«Vieni al punto!»
«Beh, sì, sono successe un po’ di
cose ed è finita che un Elgyem ci è scappato via. Ma dobbiamo consegnare i
risultati di un importante esperimento sui poteri psichici dei pokémon entro
dopodomani...»
«Quindi ve ne serve un altro?»
riassunse Kim, sbrigativa.
«Esatto. Entro domattina,
possibilmente.»
Lee alzò gli occhi al cielo.
«Fantastico.» disse, il tono impregnato di sarcasmo. «Ora abbiamo un titolo
perfetto per il film di Nardo. Gli Eroi di Unima in: “Alla Ricerca dell’Inutile
Elgyem Perduto: Corsa Contro il Tempo per un Pugno di Noccioline”!»
«Sul serio volete farvi pagare in
noccioline?»
*******
«Non dire sciocchezze, è ovvio che vengo anch’io.»
«Non dire sciocchezze, è ovvio che resti a casa.»
«Non sarebbe meglio se non ci
andasse proprio nessuno?»
«Sta’ zitto, N!» esclamarono Lee e
Kim, lanciandogli una comune occhiataccia.
«Io vengo e basta. Non posso certo
lasciarti andare da solo!» riprese Kim, testarda.
«No, tu non puoi andartene in giro nelle condizioni in cui sei, punto.» si
oppose Lee, con decisione. «Ho già perso il conto delle volte in cui hai
cercato di farti ammazzare, solo nell’ultima settimana.»
Kim sbuffò. Poteva anche essere
vero... ma non aveva importanza! Lei era lei. Una piccola serie di incidenti
non poteva bastare a fermarla. «Quanto la fai lunga, per un paio di graffi...»
«Una scossa elettrica, un morso di
Galvantula e un’ustione di secondo grado tu li chiami “graffi”? Ma ti si deve
staccare un arto per farti considerare l’idea di passare un paio di giorni a
riposo?»
«Gli esseri umani ne hanno quattro
appunto per l’eventualità.»
Lee si passò una mano sulla faccia e
inspirò profondamente per calmarsi. «Senti, ho detto di no e la questione è
chiusa. Tu e N rimarrete qui, mentre io andrò a occuparmi di Zania e del suo
psicoaffare volante.»
«No!» esclamarono gli altri due,
per una volta sulla stessa lunghezza d’onda.
«Non puoi andare da solo, chissà
mai cosa potrebbe succederti!» disse N, sinceramente preoccupato.
«Kim ha appena avuto la stupenda
idea di darsi fuoco, è lei che deve
essere tenuta sotto stretta sorveglianza.»
«Preferisco morire, piuttosto che
rimanere di nuovo sola col maniaco verde.» obiettò Kim. «E ripeto che lasciarti
andare senza nessuno che ti copra le spalle è follia.»
«Non ho mica cinque anni! Sono
anch’io un allenatore, esattamente come te.»
«Sì, ma...» Kim si morse un labbro,
combattuta. Non voleva lasciarlo andare da solo, punto e basta. Non era così
che andavano fatte le cose. Probabilmente con la sua testardaggine stava
ferendo l’orgoglio di Lee, ma non le importava.
Dietro di loro, qualcuno
tossicchiò.
«Ehm...» disse Zania, timidamente.
«Se volete, posso restare io con Kim. Al Laboratorio non c’è comunque molto da
fare, in questi giorni...»
Kim le lanciò un’occhiata di
sbieco. «Di’ la verità, voi ricercatori passate sul serio tutto il giorno a raccogliere fiori, eh?»
«Ma allora è perfetto!» trillò N,
che pareva estasiato dall’idea. «Quindi io andrò insieme a Lee e Zania
controllerà che Kim sopravviva nel frattempo. Siamo a posto, no?»
Lee e Kim si scambiarono uno
sguardo indecifrabile, che sottointendeva incertezza, preoccupazione, leggera
ansia, “Io con questo/a non ci voglio stare”, “È tutta colpa tua” e “Ma in
fondo che alternative abbiamo?”.
Alla fine, abbassarono la testa e
sospirarono.
«E va bene, facciamolo.»
*******
«Le bende vanno cambiate ogni due
ore, l’unguento alla baccafragola dovrebbe bastare fino al nostro ritorno, ma
se dovesse finire...»
«La ricetta per farne dell’altro è
sul tavolo della cucina, lo so.» sorrise Zania, con l’aria di chi ha tutto
perfettamente sotto controllo - anche se le probabilità che fosse davvero così
erano infinitesimali. «Non ti preoccupare, ho memorizzato tutte le indicazioni
e ho il numero del tuo Interpoké, per ogni evenienza.»
Lee arricciò le labbra, poco
convinto. «Assicurati che beva tanto. E se le dovesse venire la febbre...»
«...morirò tra atroci sofferenze e
le mie ultime parole saranno “gliel’avevo detto”, sì.» lo interruppe Kim, annoiata.
«E sulla tua tomba farò scrivere:
“Kimberly Anne Stewart, figlia scapestrata, amica inaffidabile e allenatrice
suicida”.» ribatté Lee, piccato. «“Gli psicologi dei suoi conoscenti e gli
avvocati dei suoi avversari ne piangono sentitamente la scomparsa.”»
«Molto divertente.» fece lei,
sarcastica.
Lee le mise una mano sulla testa
con fare paternale. «Vedi solo di comportarti bene. Ti lascio qui con due gambe
e due braccia, preferirei ritrovarle tutte quante al mio ritorno.»
«Va beeeeene, mammina.»
«Ecco. Noi faremo del nostro meglio
e torneremo a casa il prima possibile. Giusto, N?»
«Giusto!» confermò lui, scattando
sull’attenti.
«Uhm.» Kim, un po’ incerta, guardò
Lee, N ed infine Zania, che pareva aver impostato come screensaver facciale un
sorriso tanto largo quanto inquietante. «D’accordo. Fate... fate attenzione.»
borbottò, senza guardarli in faccia. «...tutti e due.»
N congiunse le mani al petto come
in preghiera, d’un tratto sinceramente commosso. «Oh, è la prima cosa vagamente
carina che mi dici da mesi!»
«Non farti strane idee! Sei incluso
solo perché se ti facessi male diventeresti un peso per Lee, e Arceus non
voglia che gli debba accadere qualcosa per colpa tua!»
«A-ah, certo.» l’assecondò N, tutto
contento. «Allora andiamo?» chiese a Lee, avviandosi fuori dalla porta aperta.
Il ragazzo annuì. «Prima partiamo e
prima ce la sbrighiamo, giusto?»
Stava per uscire anche lui, ma Kim
lo fermò: «Lee, aspetta un secondo.»
Lui si voltò e alzò un
sopracciglio. «Sì? Cosa c’è?»
«Hai il cappello storto, scemo.
Ecco, sta’ fermo un attimo...» disse Kim, allungando una mano per
sistemarglielo.
Lee ridacchiò. «Com’era? “Tieni
sempre con cura...”»
«“Il cappello di un allenatore
rappresenta il suo onore. Trattalo sempre con cura e rispetto.”» lo corresse
Kim, abbassandogli un filo la visiera per completare l’opera. Il suo sguardo
vagò per qualche secondo da destra a sinistra, incerto su dove soffermarsi.
«Non ho ancora deciso se perdonarti o no. Però... grazie. Se non fosse stato
per te, ora sarei ridotta a un colabrodo.»
«Ehi, dovere.» sorrise Lee. «Sai,
Kim, occuparsi di te è un lavoro a tempo pieno. E io sono così bravo che, se
iniziassi a pagarmi, potrei anche farne la mia professione per la vita.»
Kim fece per sorridere e dirgli
qualcosa sulle righe di “Sì, aspetta e spera, il giorno in cui riuscirò a
mantenerti non arriverà mai!”, ma dopo neanche un istante un paio dei suoi
neuroni si collegarono e lei scoprì le sue guance diventare purpuree. «N-n-non
dire scemenze!» esclamò, spingendolo fuori dalla porta. «Avanti, sbrigati e va’
a farti violentare da N, che è meglio!»
Lee rabbrividì. «N-non dirlo
neanche per scherzo! Che ho detto di sbagliato?»
«Fila! Non dar aria alla bocca più
di quanto non devi.»
«Ma io... e va bene, e va bene...
Dio, se ti capirò mai...»
Kim chiuse la porta di botto,
ritrovandosi leggermente affannata. Quella giornata sembrava essere un
susseguirsi di situazioni decisamente stressanti.
A riconferma di questo fatto, due
dita le picchiettarono sulla spalla sana. Dama Munna le sorrise.
Lee strizzò gli occhi, infastidito
dalla penombra che lo circondava. Anemone
deve decidersi a far installare l’illuminazione elettrica in questo posto.
pensò, evitando per un pelo di inciampare in un vasetto di fiori. Con i candelabri si vede così poco che è
come non averli.
L’aria era umida e odorava
leggermente d’incenso. Aveva un che di pesante, dava l’impressione di non star
respirando abbastanza ossigeno.
Ma niente di tutto questo
preoccupava davvero Lee, al momento. Quelli erano solo comuni fastidi, cose a
cui dovevi per forza abituarti, se ti eri messo in testa la stupida idea di
fare l’allenatore di pokémon.
No, la cosa più inquietante, la
cosa più innaturale, la cosa che gli stava facendo venire i brividi su per la
schiena era...
«N, ti ho detto di lasciarmi il
braccio.»
L’ex leader del Team Plasma, il
ragazzo che per poco non aveva distrutto il mondo per ricrearlo a suo
piacimento, gli rispose con uno sguardo disperato, adornato da due enormi
lucciconi. «Ma questo posto mi fa paura!» piagnucolò. «I-insomma, è il cimitero
dei pokémon uccisi dagli abusi che gli esseri umani li hanno costretti a
subire...»
Lee alzò gli occhi al cielo. Il
cimitero di cosa? «Quelli sepolti qui
sono perlopiù pokémon da compagnia, che hanno vissuto comodamente nella
bambagia finché una pokémella di troppo non li ha soffocati. Perfino adesso
saranno tutti troppo grassi e pigri per farti alcun male.»
«Ma... ma comunque...» insisté N,
guardandosi intorno nervosamente. «È sempre un... un cimitero e... ci sono...
c-ci sono...»
«I pokémon Spettro.» completò Lee,
annoiato.
N gli bloccò la circolazione dal
gomito in giù, irrigidendosi di colpo e strizzando gli occhi. «Hhhhnnnggg...»
mugolò, terrorizzato. «Non lo dire, non lo dire! Ci sentiranno, ci troveranno,
ci mangeranno!»
«Ne dubito fortemente.»
In effetti, proprio a questo
proposito, c’era un’altra cosa che preoccupava Lee in modo non indifferente.
Da quando erano entrati nella Torre
Cielo, non avevano visto neanche un pokémon.
Nessun Litwick strisciava sul
pavimento, nessun Joltick era impegnato a tessere ragnatele sul soffitto,
nessun Patrat sgattaiolava di tomba in tomba per sgraffignare qualche offerta.
L’intera Torre era avvolta nel silenzio. In un certo senso, N aveva ragione a
non essere tranquillo: era una situazione del tutto innaturale.
«Ma porc-»
Lee si fermò un attimo prima di
andare a sbattere contro una lapide, scoprendosi di fronte all’ennesimo vicolo
cieco. Si trattenne dal prendere a calci l’epigrafe (“Puffolo, Cottonee morbidoso
fino alla fine”) e fece dietrofront.
«Uno si aspetterebbe un minimo di
ordine, almeno in un cimitero.» bofonchiò, irritato. «E invece no, noi siamo a
Unima, dove perfino le tombe devono essere sistemate come un fottuto
labirinto!»
«Ci sentiranno, ci troveranno, ci
mangeranno...» si lagnò nuovamente N, a bassa voce, come a pregarlo di fare
silenzio.
«E tu, poi.» sibilò Lee, scocciato. «Non si suppone che tu sia
“l’amico di tutti i pokémon” o qualcosa del genere? Da quando hai cambiato
filosofia?»
«È che... i p-pokémon S-s-s-...»
«Spettro.»
Nuovamente, Lee si chiese se
sarebbe tornato a casa con entrambe le braccia.
«E-ecco, sì... non l’hai notato?
Non ne ho mai avuto nemmeno uno in squadra. Perché
mi fanno paura.»
«Ma sono Pokémon!»
N arricciò le labbra, testardo. «No
che non sono pokémon! Sono f-f-fantasmi. Sono morti. E m-mangiano i bambini.»
Lee lo guardò di sbieco, stranito.
«E questa da dove ti è uscita?»
«Nnnf.» N nascose la testa dietro
la sua spalla, forse per mitigare l’imbarazzo. «Ti dico che è così! Non sono
affatto pokémon. Non più.»
«Si catturano con le pokéball, si
allenano, si riproducono: fidati, sono pokémon.»
«Ma sono malvagi!»
Lee perse ogni speranza di
sostenere una discussione sensata con quello strano stalker verde.
Avanzavano tra le lapidi
lentamente; Lee semplicemente per precauzione, N perché trascinava i piedi per
terra come se lo stessero conducendo alla forca.
Ho
davvero una bruttissima sensazione. pensò Lee, guardandosi
intorno, nella speranza di scorgere un qualsiasi segno di vita. Ultimamente nulla va come dovrebbe andare. I
pokémon, le leggende, la gente, sembra che l’intera Unima abbia incominciato a
girare a rovescio. A partire da Kim. È sempre stata una testona, ma da qualche
giorno è veramente intrattabile. Se la prende per ogni minima cosa, alza la
voce, fa stupidaggini perfino peggiori del solito... e non è proprio il momento
di cedere alle crisi isteriche, questo.
«Non preoccuparti, a Kim stanno
solo per venire le mestruazioni.» disse N, facendolo sobbalzare.
«Co... come facevi a sapere che
stavo...?»
N sorrise, per la prima volta da
quando erano entrati nel cimitero. «Sensazione.» rispose soltanto, alzando le
spalle.
Lee rabbrividì. «Sei inquietante.
Dannatamente inquietante. E che cos’è questa storia delle mestruazioni?»
«Non ci hai mai fatto caso? Le
arrivano sempre verso fine mese, tra il 20 e il...»
«Ok, no, non voglio saperlo. Brr.»
In che modo N riuscisse a reperire
certe informazioni riguardo Kim – e probabilmente anche su di lui, ma preferiva
non pensarci – gli era assolutamente oscuro. Doveva trattarsi di metodi
scandalosamente immorali, insegnatigli dalla Setta degli Stalker in anni e anni
di durissimi allenamenti. O forse esistevano delle scuole con dei corsi
appositamente studiati: “Pedinamento”, “Osservazione Assidua”, “Mimetismo”,
“Corso Accelerato per Sopravvivere Due Settimane in un Cespuglio”...
«Eeeeeeek!» Lo strillo di N non
solo spezzò di netto il filo dei suoi pensieri, ma per poco non gli lacerò un
timpano.
«Si è mosso, qualcosa si è mosso!
Là dietro!»
*******
«E va bene, e va bene: Verità!»
Kim alzò gli occhi al cielo,
esasperata. Per due ore intere aveva cercato di ignorare Zania e la sua
continua serie di «Obbligo o Verità? Obbligo o Verità?», ripetendosi che Lee e
N sarebbero tornati presto e lei sarebbe stata salva, ma alla fine non ce
l’aveva fatta: i suoi timpani stavano piangendo e supplicando pietà. Arceus
solo sapeva come diamine una persona potesse avere un tale fiato, abbinato a
una così feroce persistenza.
Il volto di Zania s’illuminò.
«Evviva!» esultò, tutta contenta. «Allora... direi di iniziare con qualcosa di
abbastanza semplice. Chi è che ti è più caro al mondo?»
E
se questa è la domanda semplice... si lagnò mentalmente
Kim, chiedendosi se avrebbe continuato a resistere alla tentazione di stendere
quella donna odiosa e sotterrarla in giardino. «Porchetta.» rispose, senza
alcuna esitazione.
Zania sbatté le palpebre un paio di
volte. «Kim... Porchetta non è una persona.»
«Non hai specificato.» ribatté lei,
testarda. «Tocca a te. Obbligo o Verità?»
«Obbligo.»
Kim fece schioccare la lingua.
C’era una domanda che le ronzava per la testa da un po’ e che avrebbe proprio
voluto cogliere l’occasione per farle... beh, niente di grave. Prima o poi, il
momento sarebbe arrivato.
«Fai la Danza della Gallina
Ubriaca.»
«...eh?»
Nel frattempo, tanto valeva
divertirsi un po’.
*******
Lee prese N per le spalle e lo
guardò dritto negli occhi.
«N, ascoltami. Non possiamo
continuare così. Siamo venuti qui per catturare un pokémon, e la cosa è già
abbastanza difficile senza che tu ti
metta a urlare come una ragazzina ogni volta che vedi un’ombra muoversi. Ok?»
«Ma ti giuro che c’era qualcosa!»
piagnucolò lui. «Devi credermi!»
«Dietro a quella lapide non c’era
niente. A dire la verità,» aggiunse Lee, con un certo fastidio. «in questa intera torre sembra non
esserci niente. Piantala di fare il paranoico.»
«Ma...!»
«Niente “ma”. Saliamo al piano di
sopra e speriamo che ci sia qualche dannato Elgyem ad aspettarci. Voglio andare
a casa.»
N sembrava ormai sull’orlo delle
lacrime, ma annuì e fece per agguantargli nuovamente il braccio.
Aspettandoselo, Lee si scostò di un passo e lo evitò. «Piantala. Di molestare.
Il mio. Braccio.»
«Ma ho paura!»
«Allora esci!»
«Non posso!»
«Perché no?»
N abbassò lo sguardo e strinse le
labbra. «Ho promesso a Kim che non ti sarebbe successo niente.» mormorò.
Lee si passò una mano sulla faccia,
esasperato. Era possibile che avesse sempre a che fare con adolescenti la cui
età cerebrale si era bloccata a cinque anni? «E va bene.» si arrese. «Se
proprio non ce la fai, puoi tenermi la mano. Ma solo se prometti di piantarla di strillare per ogni minima cosa.»
N fece di sì con la testa,
nonostante la tensione fosse evidente sul suo viso. «Farò del mio meglio.»
E
speriamo che questo “meglio” sia abbastanza. pensò
stancamente Lee, iniziando a salire le scale che portavano al secondo piano
della Torre, con una nuova zavorra appesa alla mano sinistra.
«Quindi...» disse, cercando di
spezzare il silenzio, che iniziava a inquietare un po’ anche lui. «Non hai
intenzione di raccontarmi questo tuo trauma dei pokémon Spettro?»
«Shhhh!» Lee sentì due nocche
schioccargli dolorosamente. «Sto cercando di dimenticare la loro esistenza.
Smettila di parlarne!»
«Ok, ok...» fece Lee, in disappunto.
«Ma il primo passo per superare i traumi è parlarne, tienilo a mente.»
N mugolò qualcosa che assomigliava
a un «Grazie.» e abbassò la testa.
Lee pensò a quanto si sarebbe
divertita Kim, se avesse scoperto quella sua impensabile debolezza. Conoscendola,
avrebbe passato giorni, se non settimane, a tormentarlo con allusioni, storie
dell’orrore e scherzetti a tema. Magari si sarebbe vestita da strega e avrebbe
riempito la casa di Chandelure.
Lee stava giusto ridacchiando
all’idea, quando una folata di vento attraversò la sala e li investì, spegnendo
quasi all’istante ogni candela. N emise un suono strozzato, indefinibile ma
tremendamente acuto, forse cercando di soffocare l’ennesimo urlo.
«N, ti prego, sii un po’ uomo...»
gli disse Lee, allungando la mano libera dietro la schiena per cercare la
torcia che aveva nella tracolla.
«C’è qualcosa, Lee... c’è
qualcosa...» pigolò N, con voce tremante.
«Non c’è assolutamente nien-» Lee
s’interruppe bruscamente. In effetti... in effetti, qualcosa c’era. «La senti anche tu?» chiese, un
po’ sul chi vive.
«C-che cosa?»
«La musica.»
La mano di N tremò. «...dai, Lee,
n-non è divertente. Non mi spaventare.»
Lui si voltò a guardare la cima
delle scale. Era tutto avvolto nel buio, ma dal secondo piano pareva arrivare
una fioca luce azzurrina. Era da lì che proveniva la musica.
«Andiamo.»
«Cosa?!» protestò N, nel panico,
piantando saldamente i piedi a terra e tirandogli la mano perché non si muovesse
di un passo. «No, no, no! Neanche per idea, non se ne parla! È anche andata via
la luce, è troppo peri- ehi!»
Lee aveva fatto scattare
l’interruttore della torcia, abbagliandolo per un istante. «Hai ragione, c’è
qualcosa al piano di sopra. E probabilmente sarà pericoloso.» disse, cercando
di non far trasparire la tensione nella sua voce. «Ma non sarei un allenatore
di pokémon, se non volessi scoprire cos’è.»
Il viso di N, pallido alla luce
della torcia, si colorò di un tenue rosa. Arricciò le labbra, combattuto.
«...ok.»
Man mano che il numero di gradini
che li separavano dal piano superiore diminuiva, la musica si faceva sempre più
chiara. Era costituita da suoni acuti e dalla frequenza fastidiosa, che
mandavano istintivamente dei lunghi brividi su per la schiena.
Lee aveva l’impressione di averla
già sentita da qualche parte... ma era un ricordo lontano, risalente a molti
anni prima. Se ci si soffermava, sapeva di lacrime e freddo intenso.
Scosse la testa, cercando di
accantonare quel pensiero, e salì l’ultimo scalino.
Accanto a una delle prime lapidi in
vista, l’antenna tesa e la manopola del volume al massimo, era abbandonata una
buffa radiolina arancione.
Lee ridacchiò, sentendo la tensione
alleviarsi tutta d’un colpo. Una radiolina. Che stupido era stato: si era
lasciato condizionare dalle paure di N e dalla banale mancanza di luce, quando
la soluzione era così semplice. Probabilmente qualcuno l’aveva dimenticata lì,
accesa, e quella aveva finito per captare qualche segnale un po’ distorto.
«Hai visto?» disse, mentre si
chinava a raccoglierla, per mettere così fine a quell’orrenda litania. «Niente
fantasmi o mostri spaventosi.»
«Hmm.» N non sembrava affatto
convinto. «Non lo so, Lee. Continuo ad avere un orribile presentimento... non
dovremmo restare qui.»
«Ti ricordo che abbiamo un Elgyem
da catturare.»
«Ma tanto non ci sono Elgyem qui,
no? Ormai è evidente!» puntualizzò N, nervosamente. «Il Percorso 14 è pieno di
nidi di Beheeyem, in questa stagione. Magari ne possiamo trovare qualcuno anche
là...»
Lee scosse la testa. «No, è questo
il loro habitat. Probabilmente... non lo so, può darsi che i pokémon si siano
spostati ai piani superiori per qualche motivo.»
Il ragionamento suonava poco
convincente perfino alle sue orecchie... ma non riusciva a pensare, non con
quell’orribile musichetta che continuava a martellargli le sinapsi. Girò la
manopola del volume un’altra volta, irritato. «E spegniti...» disse, tra i
denti.
La radiolina che teneva in mano
aprì gli occhi e gli sorrise.
*******
«La
cosa più imbarazzante che ti sia capitata in tutta la vita.»
Kim
storse il naso. «Questo gioco.»
«Eddai!»
si lamentò Zania, gonfiando le guance. «Il gioco non vale, dev’essere
qualcos’altro. Ad esempio... quando N ti ha portata sulla ruota panoramica di
Sciroccopoli, non è stato imbarazzante?»
«No,
è stato terrorizzante.» rabbrividì Kim. Mai aveva temuto che qualcuno usasse
violenza su di lei più che durante quel giorno al Luna Park. «E come sai della
ruota?»
Zania
sorrise in maniera molto simile a quella di N. Innocente e terribile. «Ho le
mie fonti.» rispose, semplicemente. «Allora?»
Kim
sbuffò. «Se proprio vuoi qualcosa... l’anno scorso, mamma si era messa in testa
di farmi andare al Ballo delle Debuttanti. Le dissi subito che non avevo alcuna
intenzione di partecipare a una tale pagliacciata, ma... che fai, prendi appunti?»
Zania
alzò gli occhi dal suo taccuino e sventolò la mano, come per dirle di non
badare a lei. «Giusto un paio di noticine, tu vai pure avanti.»
La
ragazza arricciò le labbra, incerta, ma continuò: «Diciamo che in qualche modo
mi convinse a provare il vestito, dicendo che se l’avessi fatto non mi avrebbe
più rotto le scatole con la storia del Ballo. Penso che fosse convinta che
l’abito mi sarebbe piaciuto tanto da farmi cambiare idea, ma non fu così. Era
un affare orribile, quando lo misi addosso sembravo una specie di confetto. Uno
schifo, ti giuro. E mamma era lì che mi girava intorno, cinguettando
allegramente cose come “In fondo sei addirittura graziosa quando ti sistemi un
po’... se solo i ragazzi ti vedessero così, magari riusciresti anche a trovarti
un partito di ceto medio...»
«Non
mi sembra esattamente una cosa carina da dire alla propria figlia.» commentò
Zania, masticando pensierosa la matita con cui stava scrivendo.
«Vero?»
sospirò Kim, irritata. «Ma fin qui si trattava di ordinaria amministrazione.
Quella donna è sempre stata fissata con pizzi, merletti e quant’altro. La parte
imbarazzante arriva qui: Lee decise che quella era un’ottima giornata per
venirmi a trovare.»
«Oooooh...»
«No,
niente “ooooh”. Fu orribile. Lee entrò in casa e appena mi vide incominciò a
ridere come un dannato, gli ci vollero diversi minuti per smettere. L’avrei
picchiato, se avessi potuto... ok, sembravo una bomboniera, ma avrei avuto
bisogno di supporto morale, non di uno che mi ridesse dietro!»
«Oh,
ma poverina. E poi?»
«E
poi niente.» sbottò Kim. «Era tutto qui. Obbligo o Verità?»
«Veeerità.»
Kim
esultò silenziosamente. Dopo cinque turni di Obbligo, finalmente era arrivata
la sua occasione.
«Idiozie
pettegole a parte,» disse, assumendo un tono più freddo. «Che cosa ci fai
veramente qui, Zania?»
La
donna inclinò la testa di lato. «Eh?»
«Domitilla
di Ricerca e Sviluppo è in viaggio di nozze dalla settimana scorsa. Vincenzo ha
passato due ore a parlarcene, quando siamo andati a portargli il tessuto da
analizzare.»
Zania
parve impallidire. «Oh, ma che sciocca...» ridacchiò, dopo appena un secondo.
«Devo essermi confusa. Probabilmente intendevo dire...»
«Mancando
lei dalla catena, sicuramente anche il resto è tutta una balla, non è vero?»
insisté Kim. «Quindi te lo ripeto: che cosa ci fai qui?»
«Volevo...
volevo solo...» lo sguardo di Zania saettò da una parte all’altra, senza
decidersi su dove soffermarsi. «E va bene, mi sono inventata il telefono senza
fili. Ma ultimamente si è fatto un gran parlare di voi e... volevo vedervi. Non
c’è niente di male, no?»
E
invece il male c’era. Kim se lo sentiva nello stomaco, per come il tono di
Zania era nervoso e altalenante, per come non la stava guardando negli occhi,
per come il suo sorriso era tirato: nascondeva qualcosa, e non era niente di
buono.
Sospirò.
«Per
quanto possa sembrare il contrario...» disse. «Non sono poi così stupida. È da
quando sei arrivata che qualcosa non mi torna... solo, non capisco quale possa
essere il tuo secondo fine.»
«Ti
ripeto che non ne ho nessuno, davvero.»
Kim
si accigliò. Pensando che dovesse trattarsi di qualcosa di essenzialmente
idiota, stile “vi stiamo organizzando una festa a sorpresa e dovevo tenervi
occupati” o “N mi ha chiesto il via libera per appartarsi con Lee”, non si era
aspettata tanta resistenza. Incominciò a preoccuparsi.
Zania ottiene in qualche modo i
risultati del nostro test, ce li porta fingendo che si tratti di una
coincidenza. ricapitolò, cercando di fare mente
locale. Ci confonde con un po’ di chiacchiere
inutili e ci offre un lavoro urgente. Rimane qui, mentre Lee e N...
La
realizzazione la colpì con la forza e la precisione di una freccia,
trapassandole il cranio in modo quasi doloroso.
«Non
c’è nessun Elgyem, vero?» disse, portandosi una mano alla fronte, la voce che
tradiva un certo shock.
«Come?»
«È
una balla anche quella. Ed è il motivo per cui sei qui, vero?»
«Non
capisco che cosa...»
«VERO?»
Kim
si alzò in piedi, colta da un’improvvisa e inaspettata sensazione di panico.
Era stata troppo stupida, troppo ingenua, come al solito. E probabilmente Lee
era stato troppo concentrato su di lei e la sua ustione, per accorgersi di
qualcosa. Perché lui se ne sarebbe accorto. Era lui quello col tacito compito
di accorgersi delle cose.
Nervosa,
iniziò a mordicchiarsi la punta del pollice.
«Kim...
non ti fa bene agitarti in questo modo, cerca di...»
«Piantala
di prendermi per il culo!» scattò la ragazza, e Zania parve di colpo
rimpicciolire. «Perché? Cosa c’è veramente sotto? Dove hai mandato i miei...» inciampò
con la lingua e si bloccò. Stava per dire “amici”, ma non suonava del tutto
corretto. Forse perché c’era N di mezzo... scosse la testa, non era il momento
di pensarci. «Hai scelto Verità ed è la verità che voglio da te. Avanti.»
Ogni
secondo che passava, l’ansia le costringeva maggiormente le vie respiratorie,
mandandole il cuore a mille. Era una trappola. Lee si stava gettando a braccia
aperte in una trappola, e lei non era al suo fianco. L’aveva lasciato andare
via, con la sola protezione di uno stalker piagnucoloso e inutile. Avrei dovuto insistere. Sarei dovuta andare
con loro.
«Io...
io non...» la voce di Zania parve rompersi del tutto. «Io non volevo farlo, te
lo giuro.»
Capitolo 13 *** Un Momento per Riprendere Fiato ***
Capitolo 13
Un
Momento per Riprendere Fiato
Lee sentì il piede destro perdere
presa sul pavimento, annaspò, fece leva sulla mano di N per riprendere
l’equilibrio. Continuò correre.
La pelle gli bruciava in diversi punti,
soprattutto in corrispondenza del taglio che aveva sulla guancia e da cui
sentiva scendere alcuni rivoli di sangue. Meglio concentrarsi su quello,
piuttosto che sul dolore pulsante che gli stava torturando il braccio.
Il rombo del motore gli riempiva le
orecchie, insieme al rumore del suo stesso sangue, che gli pulsava nelle vene a
un ritmo forsennato. Gli impediva di pensare.
«Che cos’è quell’affare?» chiese N,
la voce di un’ottava più alta del normale a causa del panico.
«Non so, perché non ti fermi a
chiederglielo?» sbottò Lee, senza voltarsi.
Eppure, pensò, non era affatto una
domanda stupida. Che cosa, esattamente, li stava inseguendo? Aveva avuto appena
il tempo di dargli un’occhiata, prima di essere attaccato e costretto a darsela
a gambe, e non poteva dire di aver capito di cosa si trattasse. Per questo, non
era in grado di combatterlo.
“Conosci il tuo nemico” era sempre
stato il suo motto e la sua debolezza: se non sapeva chi andava ad affrontare,
non era nemmeno in grado di scegliere una pokéball qualsiasi da tirare fuori.
Gli venne un’idea.
«N, ho bisogno che ti giri e
osservi attentamente ciò che ci sta inseguendo.»
«Eh?!» fece lui, salendo di
un’altra ottava. «Sei impazzito? In questi casi la strategia è “corri e
salvati”, non “girati verso il nemico e salutalo”!»
«Ti sto tenendo per mano e giuro
che non ti farò andare a sbattere da nessuna parte, parola.»
«Non è questo il pun-»
«N, per favore. È importante.»
Lui si morse un labbro, combattuto.
«Mph.» acconsentì, voltandosi. «Però tu non farmi cadere.»
Lee sorrise. «Stampatelo bene in
mente, d’accordo? Ogni dettaglio che riesci a cogliere.»
Stabilizzò la presa sulla mano di
N, in modo da non perderlo alla prima curva un po’ troppo stretta, e continuò a
correre.
Stringeva ancora fermamente nell’altra
mano la radiolina che aveva raccolto, ma questa non era più dell’arancione
brillante di poco prima: era diventata una semplice, anonima radiolina grigia e
mezza scassata. Se la ficcò in tasca e staccò la torcia dalla cintura, per
vedere meglio dove stava andando.
Destra, sinistra, destra, destra.
Correre in quel labirinto di lapidi era tutto fuorché facile: aveva fatto
strage di vasi di fiori, i bastoncini d’incenso attentavano alle sue caviglie
ogni due per tre ed era un miracolo che non fosse ancora caduto o andato a
sbattere da qualche parte. Il fiato cominciava a mancargli.
«Credo... credo che lo stiamo
seminando.» ansimò N. «Non riesco più a tenerlo... bene d’occhio. Vedo solo...
la sua luce.»
«Giù!» sibilò Lee, abbassandosi di
colpo e tirando giù con sé anche N. Lui fece per dire qualcosa, ma Lee lo zittì
e spense la torcia.
«Shhh. Dici che ci ha persi?»
chiese piano.
«Era abbastanza lontano. Credo che
abbia qualche difficoltà a muoversi tra le tombe.»
«Uhm.» Lee sperò con tutto se
stesso che fosse davvero così.
Chiuse per un istante gli occhi, si
concentrò sui rumori che sentiva. C’erano il suo cuore, che pompava ancora a piena
potenza, e il respiro affannato di N accanto a lui. E poi c’era il motore.
Brutale, rabbioso, ma non troppo vicino.
Tirò un sospiro di sollievo ed aprì
gli occhi. Questi si stavano abituando in fretta al buio e ciò che aveva
intorno iniziava a prendere forma, grazie alla poca luce di luna che filtrava
dalle finestre della torre. In particolare, riusciva perfettamente a
distinguere gli occhi di N, di un verde così acceso da riuscire a splendere
perfino in quell’oscurità poco meno che totale.
«Allora, raccontami cos’hai visto.»
gli disse, tornando in un istante coi piedi per terra. «E non tralasciare
dettagli, per quanto stupidi possano sembrarti.»
N annuì appena. «È una specie di...
non saprei come descriverlo esattamente. È arancione, circondato da una strana
luce verdognola...»
«Fin lì c’ero anch’io. Altro?»
«Sembra fatto di metallo, e si
muove su delle ruote. Ha qualcosa di terribilmente... non lo so, non sembra un
pokémon, non sembra nemmeno vivo!»
«Una macchina, quindi?»
N abbassò lo sguardo e scosse la
testa. Pareva estremamente confuso e scoraggiato. «No, nonostante tutto... ha
qualcosa di vivo. Lo sento.»
Lee evitò di commentare: in
situazioni del genere, ci si poteva aggrappare anche agli istinti da
ragazzo-del-bosco di N, pur di salvarsi la pelle.
«E ha questo strano... sorriso.»
continuò lui. «Fa paura.»
«So a cosa stai pensando.» disse
Lee. «Ma non è un fantasma.»
«Come fai a dirlo?»
«Lo dico. Fidati di me.»
Semplice, efficace, diplomatico.
Molto più di “Perché i fantasmi non esistono”.
N arricciò le labbra. «Beh,
comunque.» proseguì. «Ha l’aria di essere molto ben corazzato ed è piuttosto
veloce, ma ha difficoltà a muoversi tra le lapidi, forse perché con due sole
ruote non riesce a gestire bene le curve. E... non lo so, non credo di aver notato
altro.»
«Uhm.» Lee appoggiò il mento a una
mano, pensoso.
Non era molto su cui lavorare,
certo, ma era già qualcosa. Poteva iniziare a pensare a una strategia, a quali
pokémon utilizzare e come minimizzare i danni...
«D’accordo, credo di essermi fatto
un’idea. Che pokémon hai dietro?»
«Uno Zorua.»
«E...?»
«Uno Zorua. Le uova del mio Zoroark si sono
schiuse un paio di mesi fa, quindi-»
«Ok, ok.» lo interruppe Lee.
«Vedremo di farci qualcosa. Siamo comunque in superiorità numerica, ce la
possiamo fare. Okay?»
N annuì, teso. Gli teneva ancora la
mano, stringendola come se si fosse trattato della sua ancora di salvezza, come
se lasciarla potesse significare morte certa. Per quanto Lee fosse abituato ad
avere Kim sempre appresso, che cercava in lui un costante sostegno, il modo in
cui N gli si aggrappava e riponeva in lui una fiducia che non sentiva di
meritare... lo metteva in soggezione.
Forse perché Kim era logica, in
qualche modo: da sola era insicura, ma presa per mano poteva fare di tutto. Al
contrario, N era instabile, oscillava costantemente tra la superbia e
l’insicurezza, e se cedeva a quest’ultima rimaneva completamente indifeso.
Quest’immagine di debolezza e
dipendenza infinite erano accentuate dai numerosi tagli che aveva riportato
anche lui: in particolare, da sopra il suo occhio sinistro stava colando una
quantità di sangue piuttosto abbondante.
«Tutto bene?» non poté trattenersi
dal chiedergli, pur sapendo che nella sua mente malata ogni gentilezza si
trasformava in una nuova idea sbagliata.
«Hmm. Ho solo... un po’ paura,
credo.» sussurrò N. «E vedo rosso da un occhio, ma non importa, perché tanto ci
era già finita una baccafragola prima e ci vedevo male comunque. Per il resto,
sì, credo che vada tutto bene.»
Lee non era del tutto convinto. Crescere
con una come Kim, che “Sto benissimo, ho solo perso due litri di sangue e una
falange”, gli aveva insegnato a non fidarsi di un semplice “tutto bene”.
«Niente giramenti di testa,
debolezza, tachicardia...?»
Gli occhi di N brillarono nel buio.
«Ti piace proprio giocare al dottore, eh?» chiese, con voce melliflua.
Lee si sentì mancare il fiato per
un istante. «Piantala.» gli soffiò contro. «È una situazione seria, e se mi
stai per svenire addosso devo saperlo.»
«E chi è che non ti sverrebbe
addosso?»
«N!»
Il sorriso del ragazzo si spense.
«Va bene, scusa.» sospirò stancamente. «È che... non mi piace questa
situazione.»
«Figurati a me.» sbuffò Lee,
appoggiandosi alla lapide dietro di lui. «Pensavo di venire a catturare uno
stupido Elgyem, lavoretto di venti minuti a voler esagerare, e tornarmene a
casa; invece mi ritrovo braccato da uno strano pokémon mai visto prima. Non
proprio la mia idea di serata rilassante.»
Si concentrò di nuovo un momento
sui suoni intorno a lui: il rombo del motore, basso e simile a un ruggito, e un
occasionale “clang!” quando il loro inseguitore andava a sbattere contro una
lapide. Sembrava ancora abbastanza lontano.
«Credo che stia avendo problemi a
trovarci, con questo buio.» sussurrò, sollevato.
«Quindi...» chiese N, dopo un
attimo di esitazione. «Credi davvero che sia un pokémon?»
«I fantasmi non lanciano Foglielama
del genere.»
«Uhm.»
«Però è una cosa positiva, sai?»
disse Lee, con un sorriso. «Un pokémon, per quanto strano, posso gestirlo. È il
mio lavoro.»
N si abbracciò le ginocchia e
borbottò qualcosa che Lee non riuscì a cogliere.
«Cosa?»
«Riusciresti a gestire benissimo
anche un fantasma.» ripeté N. Al buio non si vedeva un granché, ma Lee avrebbe
potuto giurare che fosse arrossito. «In effetti, faccio fatica ad immaginare
qualcosa che tu non sia in grado di gestire.»
«In... in che senso?» Non era
sicuro di capire ciò che N stava dicendo.
«Quanti sensi ci sono?» disse lui,
senza guardarlo. «Non so come fai, ma... sei sempre in grado di risolvere
tutto. Per quanto la situazione sia critica, per quanto le probabilità di
successo siano minime, non ti fai prendere dal panico, riesci a ragionare e a
mantenere il sangue freddo...» sospirò piano. «E io, io ti ammiro molto per
questo.»
Lee si sentì spontaneamente
arrossire, lusingato e imbarazzato. Di che cosa stava parlando? Lui non era
niente del genere. Era solo... solo...
«Basta pensare a quello che è
successo oggi.» continuò N, con una certa amarezza nella voce. «Quando Kim si è
fatta male, ho ceduto completamente al panico, non sapevo cosa fare, mi è
sembrato di vedermi crollare il mondo addosso. Tu, invece, hai reagito in un
attimo e hai trovato subito il modo di sistemare le cose. Non avevo neanche
riaperto del tutto gli occhi, che già tu avevi tirato fuori un Tympole per
spegnere i principi d’incendio e preso Kim per un polso, dicendole che andava
tutto bene. C’erano lei che urlava, Porchetta terrorizzato e il divano che
aveva preso fuoco, ma tu non ti sei lasciato toccare da nulla di tutto ciò, hai
solo capito cosa c’era da fare e... l’hai fatto. Io... io sono riuscito a
malapena a calmarla mentre piangeva.»
Lee si sentiva come allucinato, non
riusciva a trovare qualcosa da dire. Era come se N stesse parlando di qualcun
altro, non fosse stato per quegli sporadici “tu” che indicavano il contrario.
«Non l’avevo mai vista piangere.»
disse N, che sembrava essersi fatto incredibilmente piccolo mentre parlava.
«Ormai è un anno che ci conosciamo, ma non c’è stata una volta, una sola, in
cui abbia visto una lacrima scenderle sul viso. In qualche modo, avevo iniziato
a credere che non ne fosse capace...»
Finalmente, Lee trovò qualcosa a
cui aggrapparsi per deviare il discorso.
«Un anno...» mormorò, con un
sorrisetto spontaneo. «La vuoi sapere una cosa interessante?»
«Uh?»
«Quando era piccola, Kim piangeva
sempre. E non sto scherzando: aveva davvero
le lacrime in tasca, bastava un nonnulla e incominciava a singhiozzare come se
le avessero staccato un braccio a morsi.»
N sembrò genuinamente affascinato
da quella rivelazione, e Lee sorrise tra sé. All’inizio non capì perché, ma
dopo qualche secondo ci arrivò: c’era qualcosa di Kim che lui sapeva e N no.
Per quanto fosse statisticamente probabile, dato che la conosceva da molto più
tempo, la cosa gli diede comunque una sorta di soddisfazione.
«Se non me lo stessi dicendo tu,
penserei che è una bugia.»
«Invece è proprio così. E non è una
gran prova per dimostrarlo, ma...» Frugò per qualche istante in una tasca dei
pantaloni. «Ecco. È da quando la conosco che ho preso l’abitudine di portarmi sempre
dietro un pacchetto di fazzoletti. Ormai sono passati anni da quando quella
testona ha deciso che non avrebbe più aperto i rubinetti per ogni cosa, ma non
riesco comunque a sentirmi tranquillo senza questi in tasca.»
N sorrise. «È una cosa carina.»
«La trovi carina perché non hai
passato anni ad asciugare moccio. Non è stato uno dei periodi migliori della
mia vita, credimi.»
«È una cosa carina comunque.»
«Pensala come v-»
Una luce gialla. Un ronzio. Una
lieve risata metallica.
Lee non ebbe tempo di pensare, né
di dannarsi per essere stato così stupido da fermarsi a chiacchierare in un
momento del genere: lasciò che il puro istinto avesse la meglio.
Si buttò a terra e rotolò su un
fianco, masentì comunque un potente
getto d’aria sferzargli la spalla, aprendogli un nuovo taglio nella carne. Si
costrinse a non gemere. Si costrinse a non chiudere gli occhi, a non perdere
tempo. Ficcò una mano nella tracolla, afferrò la prima cosa che riuscì a
raggiungere e la lanciò contro l’aggressore.
Un ronzio acuto gli disse che aveva
centrato il bersaglio, ma non era ancora il momento di riprendere fiato.
Si rimise in piedi con uno scatto
che gli fece girare la testa, inchiodò gli occhi sul nermico. Aveva una forma
strana: ben lontano da ciò che li aveva inseguiti fino a quel momento, aveva
l’aria di essere una specie di ventilatore volante arancione. L’unica cosa che
lo distingueva da qualunque altro ventilatore – a parte l’essere, beh, volante – era il piccolo viso sorridente
che spuntava da sotto la ventola.
Oh,
cazzo, cazzo, cazzo: si trasforma! realizzò Lee,
incominciando a unire i puntini. Come ho
fatto a non capirlo prima?
Ciononostante, qualcosa non
tornava. I pokémon in grado di mutare aspetto erano pochi, e Lee era sicuro di
conoscere tutti quelli di Unima, nonché alcuni delle altre regioni. Che cos’era
quell’affare?
Il ventilatore volante si scrollò a
mezz’aria, leggermente stordito dal colpo. Il suo ronzio si fece più forte.
Non era il momento di chiedersi i
perché e i percome: se non avesse fatto subito
qualcosa, si sarebbe ritrovato tagliato a fettine da un’Aerasoio o qualcosa
del genere.
Pokéball,
pokéball, mi serve una pokéball...
Aveva di nuovo la mano nella borsa,
riconobbe sulle dita la forma familiare di una megaball. Ottimo. Probabilmente
si trattava di Lilligant: se la sarebbe fatta andar bene.
La lanciò davanti a sé.
Erba-Volante
non è affatto uno scontro ad armi pari, Lilligant rischia di farsi parecchio
male, ma comunque, vediamo... Potrei giocare d’astuzia: confondere quell’affare
con una Strampadanza, cercare di paralizzarlo e poi finirlo con Iper Rag-
«Mi stai prendendo in giro, un
Cubchoo?» la voce sbigottita di N fece eco ai suoi pensieri, quando vide un
piccolo orsetto dal naso gocciolante materializzarsi sul pavimento. E gli
ricordò che aveva anche lo stalker di cui occuparsi. Che casino, che casino.
La sua mente fece un po’ di fatica
stavolta, ma riorganizzò le priorità. «Cubchoo, usa... non lo so, usa Polneve!»
ordinò, per poi voltarsi verso N e controllare velocemente le sue condizioni.
Il ragazzo non sembrava messo
peggio di prima – probabilmente era riuscito ad evitare completamente l’attacco
della ventola – e pareva reggersi in piedi senza troppi problemi. Bene.
Si girò giusto in tempo per vedere
Cubchoo starnutire in faccia al ventilatore volante, ricoprendolo di muco
gelato. Oook, se quello era un Polneve
decente io sono la Fatina dei Denti. Se non altro, lo pseudo-attacco aveva
lasciato lo stesso nemico interdetto, o forse disgustato, perché quello iniziò
a cercare di scrollarsi di dosso il liquido viscoso, scuotendosi da una parte
all’altra.
«Beh, ok, piccolo... continua
così?»
«Vedo che sei molto convinto di
quello che fai.» sopraggiunse dubbioso N, da dietro la sua spalla. Lee
sobbalzò.
«Zitto, sto pensando. E quel...
quel coso non è neanche mio, è di
Kim. Sono andato a ritirarlo alla Pensione qualche giorno fa e ho dimenticato
di toglierlo dalla borsa.»
«Quindi?»
«Quindi. Stai. Zitto.»
Ci fu un altro forte starnuto, che
coprì il ventilatore con un nuovo strato di muco. Lee notò che questo,
gelandosi, stava rallentando le pale del ventilatore. Forse avevano davvero
qualche possibilità. Avrebbe potuto...
«Pokémon non riconosciuto.» disse
in quel momento una gracchiante voce metallica. «Pokémon non riconosciuto.
Errore. Eseguire download dati dall’Archivio Nazionale?»
Solo
allora Lee si rese conto che ciò che poco prima aveva lanciato contro il nemico
era nientemeno che il suo pokédex.
Oh,
non andava bene, non andava per niente bene. Perché quel pokémon non era
schedato? Che avesse ragione N, che si trattasse davvero di un fantasma? No,
non poteva essere. Magari il pokédex si era semplicemente rotto per la forza
dell'impatto. Ma quella, se possibile, era un'idea ancora più spaventosa. Se il
prezioso oggetto fosse stato in qualche modo danneggiato, Lei lo avrebbe scannato. Ucciso brutalmente, con un pugnale, un
fucile, un lanciafiamme, qualcosa. Oppure lo avrebbe semplicemente tormentato
fino alla morte, senza dargli nemmeno un momento di tregua. La sua era una
perseveranza da ricercatrice, dopo tutto...
In
quella confusione di veloci e impanicatissimi ragionamenti, un pensiero lo
colpì.
«Oh,
cazzo, ma certo!» esclamò, battendosi una mano sulla fronte. «Domitilla!»
N
gli rivolse uno sguardo stranito. «Eh?»
«Domitilla!»
ripeté Lee, come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo. «Domitilla di
Ricerca e Sviluppo è...»
«...in
viaggio di nozze!»realizzò N, incredulo
anche lui.
«Come
ho fatto a non pensarci prima?»
«No,
come ho fatto io a non pensarci
prima. Ma questo significa che...»
«Zania
ci ha mentito e non c'è proprio nessun Elgyem da catturare.»
«E
noi ci siamo cascati come degli idioti.»
«Parla
per te, io ero troppo in pensiero per...»
Lee e N si guardarono negli occhi,
d'un tratto entrambi enormemente preoccupati. «Kim.»
Di nuovo, la mente di Lee dovette
fare uno sforzo considerevole e riorganizzare completamente le priorità. Numero
uno: uscire da quel posto il più in fretta possibile.
N era nuovamente caduto nel panico:
«Dobbiamo... dobbiamo...!»
«Dobbiamo recuperare il mio
pokédex.» dichiarò Lee, secco. «Capire cos’è quell’affare, liberarcene e
tornare a casa di corsa. Molto di
corsa.»
Un terzo, potente starnuto fece
vibrare l’aria. Il pokéventilatore, o quello che era, non ne fu particolarmente
contento: crollò a terra e il suo bagliore giallo si spense, lasciandoli di
nuovo completamente al buio.
«Cazzo, cazzo, cazzo.» imprecò Lee,
ricordandosi in quel momento di aver lasciato la torcia elettrica a terra da
qualche parte.
«Non... non l’abbiamo sconfitto?»
chiese la voce di N, da un punto imprecisato vicino a lui.
Lee cacciò di nuovo una mano nella
tracolla, pregando di trovarci qualcosa di utile. «Col cavolo che l’abbiamo
fatto. È esattamente come la radiolina, se il mio ragionamento è giusto si è
solo... senti, vedi qualche luce qui intorno? Potrebbe tornare ad attaccarci da
un momento all’altro.»
Le sue dita tastavano alla cieca il
contenuto della borsa: pozioni, pokémelle, qualche bacca, pokéball... pokéball!
Sì, quella sarebbe potuta andare.
«Esci, Simisear!»
E fu fatta di nuovo luce. La
scimmia di fuoco gli fece un gran sorriso, probabilmente contenta di essere
stata tirata fuori dalla sfera dopo tanto tempo.
«Riesci a far arrivare qualche
Bracere ai candelabri lassù?» chiese Lee, senza perdersi in convenevoli.
Simisear si batté i pugni sul petto
e saltò in cima a una lapide. Gonfiata la cassa toracica più che poteva, soffiò
un potente getto di fiamme verso l’alto e girò su se stesso, accendendo
parecchi dei lampadari appesi al soffitto. Terminò con un «Eeew» soddisfatto e
fece una capriola, per poi atterrare sulle mani e fare un paio di piegamenti.
Era sempre stato un gran esibizionista.
«Bravissimo.» si complimentò Lee,
sorridendo. Gettò immediatamente lo sguardo a terra, cercando il rosso del
pokédex sul pavimento di pietra. Per fortuna, riuscì a trovarlo in pochi
secondi e corse a raccoglierlo; non sembrava particolarmente danneggiato.
«Bene.» disse, in un sospiro. «Ora
che abbiamo un po’ di luce, possiamo-»
Una palla di fuoco gli passò
accanto a un orecchio, per andarsi a schiantare contro la statua monumentale di
un Jellycent, a pochi metri di distanza. Il cuore di Lee parve fermarsi per un
istante. Portò istintivamente una mano al lato destro della testa, constatando
di non aver preso fuoco per un pelo, e si voltò di scatto: qualche lapide più
in là, un piccolo forno a microonde saltellante gli stava sorridendo.
«Lee! Stai be-»
Zittì N con un gesto brusco della
mano. «Ok, adesso mi sto davvero seccando.»
Aprì il doppio schermo del pokédex,
che subito gracchiò: «Errore. Eseguire down-»
«Sì. Subito.»
Un paio di veloci bzz-bzz, e di nuovo la voce metallica:
«Rotom, pokémon Plasma. Il suo corpo elettrico può introdursi in alcuni apparecchi,
prendendone il controllo e creando il caos. Varia tipo a seconda della forma
che assume. In forma Normale tutte le sue-»
«Lee!»
Senza particolare fretta, Lee
scostò la testa, appena in tempo da non venire colpito in faccia da una seconda
palla di fuoco. Probabilmente il pokémon nemico stava avendo qualche difficoltà
a saltare ed attaccare contemporaneamente, o sarebbe stato molto più preciso.
Meglio così.
«Puoi staccare un attimo gli occhi
da quell’affare e tornare al “qui e ora”, per favore?» disse N, agitato.
«È quello che sto facendo, N:
cercando di salvarci la pelle.» sbuffò Lee, chiudendo il pokédex. «Smettila di
fare la ragazzina isterica, Kim ci riesce meglio.»
Per qualche motivo, che Lee non
provò nemmeno ad immaginare, N arrossì un poco e tacque, rivolgendo lo sguardo
alle sue scarpe.
«Tanto per cominciare, liberiamoci
di quel distributore di ustioni ambulante.» dichiarò Lee, tirando fuori
un’altra pokéball. La fece ruotare sul palmo della mano, fino ad avere l’indice
sul pulsante di apertura. Sarebbe stato un lavoro delicato.
«A-aspetta, Lee, non vorrai...!»
«Samurott, Idropompa!»
Il pokémon si materializzò a
mezz’aria ed effettuò immediatamente l’attacco, colpendo in pieno il Rotom con
un potente getto d’acqua. Neanche il tempo che toccasse terra, e già Lee lo
aveva richiamato nella pokéball.
Preciso, pulito, e aveva evitato di
dover pagare ad Anemone degli eventuali danni subiti dal cimitero.
«...chiamalo attacco rapido.» disse
N, sbalordito.
«Dobbiamo riuscire a farlo tornare
alla sua forma di base, quando si trasforma ha delle statistiche troppo alte.»
spiegò Lee. Si mise due dita in bocca e fece un fischio, per chiamare Simisear
da lui. «Usa Breccia su quell’affare.» ordinò, indicando il forno a microonde,
tornato grigio dopo l’attacco di Samurott.
Simisear saltò da una lapide
all’altra e, con un ghigno soddisfatto, diede un secco colpo di karate
all’elettrodomestico. Questo si spaccò in due di netto.
«Perfetto. Fa’ lo stesso con il
ventilatore là dietro... e dovrebbe esserci una specie di tosaerba in giro:
cerca anche quello e distruggilo.»
Il pokémon si batté nuovamente i
pugni sul petto e si diresse immediatamente ad eseguire gli ordini.
N stava fissando Lee come se fosse
stato un alieno. «Cosa... sta succedendo tutto troppo in fretta, cosa stai facendo?»
«Distruggo tutto quello in cui
quell’affare può infilarsi.» disse Lee, sbrigativo, guardandosi attorno con
attenzione. «A proposito, vedi qualche altro elettrodomestico o roba del genere
tra le lapidi?»
N si diede un’occhiata intorno, ma
subito i suoi occhi tornarono a fissare quelli di Lee. «Non capisco, che ci
fanno degli oggetti del genere in un cimitero?»
«E che ci fa un pokémon originario
di Sinnoh qui a Torre Cielo?» ribatté Lee, senza un vero tono interrogativo.
«Dove sono i pokémon selvatici, perché non abbiamo incontrato nemmeno un
Elgyem? Sono tutte delle ottime domande, ma non abbiamo tempo di trovare una
risposta.»
Continuò a perlustrare la stanza
con lo sguardo, sentendo una certa apprensione stringergli il petto. Non riusciva
a vedere Rotom da nessuna parte, ma dubitava che avesse semplicemente battuto
in ritirata. Si stava solo riorganizzando.
«Beh, non staremo ad aspettare che
lo faccia.» disse tra sé. «N, dividiamoci. Cerchiamo tra le tombe: se trovi un
apparecchio elettrico distruggilo, se trovi Rotom... non lo so, urla.»
N gonfiò una guancia. «So che ti
piace fare l’eroe, ma non sono una ragazzina.»
Lee ridacchiò. «Non mi piace affatto fare l’eroe.» disse, passandogli
accanto per dargli un buffetto sulla spalla. «Quindi tu cerca di non
comportarti da ragazzina.»
«Ricevuto.» sospirò N, avviandosi
nella direzione opposta. «Cercherò di urlare nel modo più virile possibile.»
«È già un inizio.»
Lee si stropicciò gli occhi, un po’
provati da quei continui sbalzi luce-buio, e si mise a perlustrare il piano.
In quel cimitero erano sepolti
pokémon di ogni tipo: dai Pidove ai Gigalith, dai Liepard ai Seismitoad, tutti
ricordati con affetto e nostalgia dai loro padroni. C’erano perfino alcune
epigrafi dedicate a dei Pikachu, probabilmente importati da oltremare per
qualche riccone. Andavano molto di moda, i Pikachu: Lee stesso aveva sognato di
averne uno, quando era più piccolo.
«Bah,
i Pikachu sono solo topi elettrici.» risuonò la voce di Kim,
nei suoi ricordi. «Cioè, sono più o meno
carini, ma non capisco tutta questa smania.»
«Anche
i Pachirisu sono “solo” scoiattoli elettrici.»
aveva ribattuto lui, contrito.
«Non
dire scemenze, i Pachirisu sono tutta un’altra cosa. Sono i pokémon prediletti
di Arceus: stupendi, potenti, adorabili. Non si può immaginare qualcosa di
meglio.»
Accelerò istintivamente il passo.
Zania non era pericolosa, in condizioni normali Kim sarebbe stata in grado di
occuparsi di lei e di qualunque cosa avesse in mente senza problemi... ma
quella non era una situazione normale. Kim era ferita, stanca e sotto
antidolorifici. Doveva tornare da lei, subito.
Immerso in questi pensieri, si rese
conto di aver già finito di attraversare il piano e di essere arrivato alle
scale. Di Rotom nessuna traccia.
Plic.
Sospirò. Era il caso di salire? O
di scendere, piuttosto?
Plic.
Plic.
Le probabilità che il nemico si
fosse nascosto ai piani superiori erano alte; Lee avrebbe potuto recuperare
velocemente N e approfittare dell’occasione per scappare.
Plic.
Plic. Plic.
No, la fretta di tornare da Kim era
equamente bilanciata dal desiderio di saperne di più. Se fosse riuscito a
sconfiggere e, nella migliore delle ipotesi, catturare Rotom, sarebbe stato un
grosso passo avanti per capire qualcosa di tutta quella storia.
Plic.
Plic. Plic. Plic.
«Dio, questo sgocciolio mi farà
diventare pazzo.» borbottò tra sé, passandosi una mano sulla fronte.
Un
attimo. Sgocciolio?
Un brivido gli risalì la schiena e
gli fece drizzare i peli sulla nuca. Guardò a terra: il pavimento era bagnato.
«Ma che...?»
Ricercò con lo sguardo la fonte di
tutta quell’acqua, e vide che stava scendendo dalle scale a piccole cascatelle,
che stavano man mano aumentando di volume. Se non altro, le sue supposizioni
erano esatte: Rotom era fuggito al piano di sopra.
Si vide costretto a riconsiderare
l’idea di poco prima: se aveva capito quello che il pokémon nemico aveva
intenzione di fare, era il caso di darsela a gambe il più in fretta possibile e
rimandare la soluzione dei misteri a dopo.
«N!» urlò, alzando un braccio per
essere sicuro che lo vedesse. «Le scale, presto!»
Avvertito il compagno (non c’era
realmente bisogno di verificare che lo avesse sentito, vero?), Lee affrontò una
pericolosa serpentina di lapidi per fiondarsi anche lui verso le scale che portavano
al piano inferiore.
Fa’
che ci sia ancora tempo, fa’ che ci sia ancora tempo, fa’ che-
Mise a terra un piede nel modo
sbagliato e per un attimo si ritrovò in aria. Cadde in due centimetri buoni
d’acqua.
«Oh, ma vaff-»
Davanti a lui c’erano le scale, ed
erano già completamente allagate. Arrivederci al piano B.
«Lee, che cosa sta...?»
Lee tirò un pugno a terra,
frustrato. «Dannazione!» disse, sentendo N trattenere il respiro dietro di lui.
«Siamo in trappola.»
«Ma... è solo acqua...»
«Dio, N, quand’è che sei diventato
così stupido?» disse Lee, rialzandosi in piedi. Lo prese bruscamente per un
polso e cominciò a tirarselo dietro. «Quello che ci insegue è un pokémon
Elettro, e noi siamo nell’acqua fino alle caviglie. Che dici, ti suona un
campanello?»
Sentì chiaramente N irrigidirsi.
«Dici che...?»
«Esatto. Vuole farci
l’elettroshock.»
«Ma... ma sarebbe una sorta di...
piano, strategia, è qualcosa di troppo complesso per un pokémon selvatico!»
«E credi davvero che siamo contro
un semplice pokémon selvatico?»
Ormai era ovvio: c’era qualcuno
dietro a tutta quella storia. Molto probabilmente lo stesso qualcuno che aveva
organizzato l’attacco dei Vullaby; qualcuno che voleva togliere di mezzo gli
Eroi di Unima.
«E cosa facciamo?»
«Ci arrampichiamo.»
*******
Da
sempre,quando era particolarmente in
ansia o spaventato, Lee tendeva a pensare a tutt’altro e perdere in parte il
contatto con la realtà.
Adesso,
per esempio, gli era tornato in mente il mare.
La
sua idea di mare non era mai stata quella tradizionale di sole, spiaggia e
ombrelloni: quella era quasi roba da film, e pochi a Unima erano abbastanza
fortunati da sperimentarla spesso.
No...
per lui, il mare era il porto. Era la banchina di Austropoli, l’odore di sale,
il fumo delle navi, Kim che rischiava di cadere da un parapetto.
«Prima o poi ti ammazzerai.»
«Prima o poi prenderò una nave e me
ne andrò via da qui.»
Negli
occhi di Kim c’era sempre stato il mare. Quando aveva otto anni e gli parlava
dei Pachirisu, quando ne aveva quattordici e sognava con lui le meraviglie di
Hoenn; e anche ora, ogni volta che il suo sguardo si perdeva in un orizzonte,
in un tramonto, in una nuvola carica di pioggia.
C’era
la folle agitazione del mare in tempesta, e anche lui ne era rimasto
trascinato, senza poterci fare nulla.
Se
non fosse stato per lei...
«Lee!»
La voce di N lo riportò alla realtà. «Parli tanto dei tempi stretti che abbiamo
e poi ti incanti?»
«Scusa.»
disse lui, scuotendo la testa. «La stanchezza inizia a farsi sentire. Arrivo.»
N
passò un braccio attorno al collo del Gardevoir di marmo che stavano scalando e
tese una mano verso di lui.
«Vieni,
dai. Qui sopra ci si regge meglio.»
Lee
avrebbe volentieri declinato l’offerta, ma stava iniziando a girargli la testa.
Meglio accettare l’aiuto di N che cadere in acqua.
Gli
prese la mano e riuscì a tirarsi su, fino alla spalla del Gardevoir.
Era
stata una fortuna trovare quella statua: era piuttosto alta e il pokémon aveva
le braccia spalancate, che costituivano un appoggio perfetto per sedersi,
seppur in equilibrio precario, e rimanere a distanza di sicurezza dall’acqua.
«E
ora?» chiese N, per niente tranquillo.
«Aspettiamo.»
rispose Lee, fissando le sue gambe penzolare nel vuoto. «Quando capirà che il
suo piano è fallito, Rotom tornerà quasi sicuramente qui per attaccarci. E
allora potremo cercare di metterlo KO.»
«Senza
cadere in acqua.»
«Senza
cadere in acqua.»
Calò
di nuovo il silenzio.
Ce la farò. pensò
Lee. Ce la farò, ce la farò, ce la farò.
Ma
ce l’avrebbe fatta davvero? La testa non voleva decidersi a smettere di girare,
e aveva perso il conto delle parti del corpo che gli facevano male. Quanto
sangue aveva perso? Non poteva essere troppo, non aveva riportato ferite
profonde.
...o
sì?
Rabbrividì,
ma si costrinse a non dirigere lo sguardo verso il braccio sinistro, quello che
era stato colpito dal getto d’aria tagliente di poco prima. Sapeva che se
avesse visto, come immaginava, la maglietta lacerata e impregnata di sangue,
non sarebbe stato in grado di andare avanti.
«Ehi.»
La
voce di N fu quasi un sussurro, mentre allungava la mano per sfiorargli la
guancia col pollice e asciugare quel poco sangue che ancora vi stava colando.
«Credevo
che essere spaventato fosse mio compito.»
Lee
non si disturbò neanche a scostare la sua mano: era già concentrato sul non
sprecare energie inutilmente.
«E
allora come mai sei così tranquillo?» chiese, stancamente.
N
sorrise. «Perché ci sei tu.»
«C’ero
anche prima, sai.»
«È
diverso.»
«Non
vedo come.»
«Uhm...»
N ritrasse la mano e portò lentamente il pollice alle labbra. «Non so bene come
spiegarlo, ma... quando prendi in mano la situazione, sono sempre certo che
andrà tutto bene.»
Lee
sbuffò. «Eccolo che ricomincia.» disse, strizzando un poco gli occhi. «Senti,
non so come tu sia arrivato ad avere questa assurda fiducia in me, ma ti sbagli.
Non sono io quello che sa sempre cosa fare, non sono io che salvo la gente.»
«Ti
sottovaluti.»
«No!»
strinse i pugni, spingendoli contro il marmo freddo della statua. «Finché le
cose vanno secondo i piani, riesco a comportarmi di conseguenza. Quante volte
credi che Kim si sia ustionata prima d’ora? Ormai è quasi routine. Ma quando
succede qualcosa di completamente inaspettato...» la sua vista si sfocò per un
momento, ma bastò sbattere le palpebre per farla tornare a posto. «Non sono
capace di capire subito cosa è meglio fare. Perdo il quadro completo della
situazione, vado nel panico... anche adesso, N, anche adesso non ho la più
pallida idea di che cosa farò.» sospirò, scosse la testa. «So che sembra
assurdo da dire, ma è Kim la più adatta a gestire questi momenti di crisi.
Certo, è poco logica, impulsiva e tendente all’autodistruzione, ma... lei ci
riesce. Riesce a salvare tutti, sempre e comunque.»
N
si sporse un po’ verso di lui e appoggiò il mento sulla testa della statua.
«Hai ragione.» disse piano. «Però ti sbagli.»
Lee
fece una smorfia. «Chiaro.»
«Non
so come spiegartelo...»
«Non
importa.»
«Ma
vorrei davvero che lo capissi.»
Lee
si passò una mano sulla faccia. Si sentiva sempre più debole, ma si convinse
che si trattava di un fattore psicologico piuttosto che fisico. «Facciamo che
adesso ci pensi e quando torniamo a casa provi a rispiegarmelo.»
Era
il momento di organizzarsi, e di farlo per bene. O quantomeno di provarci.
Aprì
la borsa e controllò i pokémon che gli erano rimasti: Samurott, Lilligant – oh,
ecco dov’era andata a cacciarsi la sua sfera! –, una megaball che Dio solo
sapeva cosa conteneva...
Oh, cazzo.
Si
era completamente dimenticato di Simisear e Cubchoo.
Voltò
la testa di scatto, movimento che rischiò seriamente di fargli perdere
l’equilibrio, e cercò con lo sguardo i pokémon.
Dove siete, dove siete, dove...?
Tacendo
di Simisear, che era uno dei suoi pokémon preferiti e comunque se l’era sempre
saputa cavare bene, se avesse perso Cubchoo Kim lo avrebbe sicuramente ucciso.
Prima di tutto gli avrebbe spaccato i timpani con un’esclamazione del tipo:
«Eeeeh? Hai perso il mio Cubchoo?!»,
dopodiché avrebbe passato i successivi cinque anni o giù di lì a lagnarsi di
quanto avesse amato il suo pokémon, di quanto fosse stato crudele da parte del
suo migliore amico perderlo nonostante tutta la fiducia riposta in lui,
eccetera, eccetera, eccetera. E poi lui si sarebbe buttato giù da un ponte per
non sentirla più.
Un
forte starnuto richiamò la sua attenzione: eccoli, Simisear e Cubchoo, entrambi
seduti sulla cima di una lapide a parecchi metri di distanza.
Grande, Simisear, hai pensato da
solo a salvare l’orsetto! lo ringraziò mentalmente Lee. Provò
a richiamarli, ma erano fuori dal raggio di ritorno delle pokéball. Beh, finché
ereano al sicuro, potevano anche rimanere lì.
D’un
tratto, uno strano rumore, come il ronzio di un apparecchio elettrico, e N lo
prese per la spalla. «Lee! Lee, è qui.»
E
Lee sperimentò qualcosa di strano. Si voltò, e nel farlo gli parve di vedere il
mondo intorno a sé rallentare, quasi cristallizzandosi in un’irreale slow motion. Allo stesso tempo, i suoi
pensieri si fecero più veloci.
Rotom. Rotom in forma base, che si
dirige verso di noi. Secondo il pokédex, in questa forma è di tipo
Elettro-Spettro. Mi serve qualcosa. Qualsiasi cosa. Nella borsa ho Lilligant,
Samurott e... Krokorok. Eccolo, è perfetto! Non si farà toccare
dall’elettricità, e con un attacco Buio potrebbe decidere le sorti della
battaglia. Basta che non cada in acqua, ma... si può fare. Si può fare. Posso
farcela.
Si
riscosse, e la scena riprese a scorrere come doveva. La sua mano era già nella
borsa, sulla pokéball che gli serviva.
«Krokorok,
usa Sgranocchio!»
Era
fatta. Il pokémon si lanciò direttamente verso il nemico, con le fauci
spalancate, capaci sicuramente di ingoiarlo intero, pronto a stringerlo in un
morso fatale.
E
lo mancò.
Con
agilità invidiabile, Rotom schivò l’attacco di Krokorok e continuò la sua
carica, mentre il pokémon coccodrillo andava a finire dritto nell’acqua, con un
sonoro splash!.
Lee
non poteva crederci. Sarebbero morti.
«Zorua,
Finta!»
Rotom
gli era praticamente addosso, quando venne colto di sorpresa da una piccola
palla di pelo nera, che lo prese in pieno con una testata e lo sbalzò via.
Lee
avrebbe voluto tirare un sospiro di sollievo e piangere, ma non era ancora il
momento. «Fangosberla, Krokorok: adesso!»
ordinò, pregando che il suo pokémon si fosse ripreso dalla caduta nell’acqua e non
ne fosse stato troppo danneggiato.
Quello
si alzò sulle zampe posteriori, sprecò giusto un secondo a scrollarsi l’acqua
di dosso ed eseguì l’attacco: grazie ad un potente colpo di coda, investì Rotom
con un’ondata di fango.
«E
ora Sgranocchio, vai!»
Approfittando
della lentezza dei movimenti di Krokodile nell’acqua, elemento che non gli era
per niente affine, Rotom fece per fuggire, ma il piccolo Zorua di N lo afferrò
coi denti e lo tenne dov’era, con tutta la tenacia di cui era capace.
Due
morsi ben assestati, e il piccolo essere arancione era stato messo
definitivamente fuori combattimento.
Per
completare l’opera, Lee prese da una tasca interna della tracolla una ultraball
vuota e la lanciò contro di lui. Rotom ne venne risucchiato immediatamente,
senza opporre alcuna resistenza.
Enormemente
sollevato, Lee si calò dalla statua e andò a raccogliere la sfera. Il tempo di
rigirarsela tra le mani un paio di volte, cercando di non farsi troppe domande
subito e accontentarsi del successo, edN era già dietro di lui.
«Complimenti,
signor Non So Che Ne Sarà Di Noi.» disse, dandogli una pacca sulla spalla.
«Com-»
Un
dolore intenso, indefinito. Il buio.
*******
Come
risvegliandosi da un brutto sogno, Lee aprì gli occhi di scatto, col cuore che
batteva a mille. Si ritrovò quasi accecato dal verde intenso del bosco.
Sono in... È... Il Rotom... l’avevo...
Alberi,
un sacco di alberi, ma lontani. Nelle immediate vicinanze, erba. Ed era
appoggiato a qualcosa di solido, forse roccia, mattone, cemento....
Dove... No, non... Calmati, Lee,
calmati.
Prese
un profondo respiro, seguito da un lungo brivido. Rimise insieme i suoi
pensieri, lentamente.
Non ci sono pericoli imminenti. Non
serve che mi sforzi di capire tutto e subito. Devo solo... stare... calmo.
A
giudicare dalla luce, doveva essere un po’ prima di mezzogiorno. Poteva essere
successo di tutto in quel lasso di tempo. Ma non doveva pensarci, avrebbe avuto
tutto il tempo di farlo dopo. Adesso
c’era qualcosa... c’era qualcosa di importante che doveva fare.
Ah!
Prima di tutto le ferite. Aveva riportato delle ferite, doveva assicurarsi che
non si fossero infettate e...
Controllò
il braccio sinistro, ma vide che non c’era più traccia di sanguinamento. La
maggior parte dei tagli superficiali si erano già rimarginati, mentre quello
più grave era coperto da un bendaggio candido. Ma che...? No, si disse di nuovo, basta
domande, devo riprendere in mano la situazione.
Dunque,
davanti a lui c’era un sacco di erba, e questo l’aveva già notato. Dietro,
invece... oh, ecco: era la Torre Cielo. Come ci era arrivato, fuori dalla
torre? Poco importava. E di fianco a lui...
«N.
Ehi, N.» lo scosse un poco per la spalla. «Svegliati.»
Il
ragazzo arricciò il naso e si strofinò gli occhi con una mano. «Eh...?»
«Ci
sei?»
Per
tutta risposta, N coprì con la mano un enorme sbadiglio. «Uhm, sì... credo. Che
cos’è successo?»
Lee
sospirò. «A dire il vero, speravo che sapessi dirmelo tu. Non ne ho la minima
idea. Ricordo che abbiamo catturato Rotom, siamo scesi dalla statua e...»
«Profumi
di donna.» lo interruppe N, avvicinandosi di scatto. Lee sobbalzò e si tirò
indietro.
«C-che...?»
«Profumi
di donna.» ripeté N, per poi fermarsi ad annusare l’aria. Sembrava piuttosto
urtato dall’idea. «Sì, decisamente.»
Senza
aggiungere altro, prese Lee per il collo della maglietta e lo avvicinò a sé.
«E-ehi,
che stai facendo? Fer-»
Lee
cercò di spingerlo via con un braccio, ma ormai N gli era completamente
addosso.
«Stai
tu fermo un attimo, non voglio farti
niente...»
«Come no, e io dovrei-»
«...ma
se continui ad agitarti potresti farmene venire voglia.»
La
sola idea fece sprofondare Lee in un panico talmente intenso e totale che quasi
non oppose resistenza, mentre N faceva i suoi comodi e gli tirava su la
maglietta.
Ecco. Adesso sì che sono morto.
«Aha!
Lo sapevo.» disse N, puntandogli un indice sul petto. «Di’ la verità, con chi
sei stato stanotte?»
Tecnicamente
parlando, con te. pensò Lee, rabbrividendo al solo
pensiero di quel tremendo doppio senso. «Con nessuno, si può sapere di che
parli?»
«Guarda qui.»
Lee dovette torcere il collo
parecchio, ma riuscì a mettere a fuoco ciò che N gli stava indicando. Sul suo
petto c’era una piccola macchia rossa.
«Sangue?» fu il suo primo pensiero.
«Rossetto.» rispose N. «È una
scritta.»
Lee era basito. Una scritta? «“Stai...”»
cercò di leggerla, nonostante la vedesse al contrario.
«“Stai attento”.» completò N per
lui. «Hai fatto arrabbiare qualche fanciulla, di recente?»
Lee lo guardò male. «No, certo che
no. Voglio dire, Kim non conta.»
Stai
attento. Che cos’era, un avvertimento, una minaccia...? Dio,
quante cose a cui pensare. Ma non doveva, non era il momento. Doveva...
«Kim.» ripeté, realizzando quello che gli era parso di aver
dimenticato fino a quel momento. «Oddio, Kim è insieme a quella pazza da almeno
dodici ore.»
Spinse via N, che stavolta non fece
nulla per resistergli, e si alzò in piedi. Il cambio di posizione improvviso
gli fece un po’ girare la testa, ma non importava.
«Forza, N, tirati su. Dobbiamo
tornare a casa.»
Le domande potevano aspettare.
Tutto il resto del mondo poteva aspettare.
Il
cuore di Kim batteva a mille, le scuoteva la cassa toracica così forte da farle
male, faceva rimbombare ogni colpo come se fosse stato l’ultimo che avrebbe mai
battuto.
Non
doveva fermarsi. Non poteva fermarsi: per quanto facesse male, per
quanto fosse inutile, doveva continuare a correre.
«Kiiiim...»
la chiamava una voce zuccherosa. «Non scappare, Kim...»
Non
si fermò. Non si voltò. Ne andava della sua vita.
Ma
correre le faceva male. Muoversi le faceva male, respirare le faceva male. I
suoi pensieri sembravano aver perso la capacità di mettersi uno in fila
all’altro, la sua mente era dominata dalla paura. La paura, soltanto la paura.
Devo
correre. Devo correre. Devo correre.
Aveva
bisogno d’aiuto. Aveva bisogno di una mano da stringere, di una schiena a cui
appoggiarsi. Ma non c’era nessuno con lei.
Era
sola.
Che
cosa sei, senza i tuoi pokémon? le sussurrò
all’orecchio una voce sibillina. Non sei niente. Niente.
«Io...
io...» Ogni parola era fuoco dentro la sua gola.
Una
ragazzina. Una sciocca.
«No...
no, non è...» Non poteva correre e parlare allo stesso tempo, non ce la faceva.
«Kim,
Kiiim...» la voce alle sue spalle si stava facendo gradualmente più vicina. La
terrorizzava, non voleva che la raggiungesse. «Non farà male, sai? Neanche un
po’.»
Avrebbe
fatto male, invece. Se si fosse lasciata prendere, il dolore l’avrebbe
distrutta, strappata in tanti piccoli pezzi di terrorizzata sofferenza e infine
sparsa al vento.
Non
sei una figlia, non sei un’amica, non sei un’amante...
Le
facevano male le gambe, la spalla le bruciava insopportabilmente.
Non
sei capace né di aiutare né di essere aiutata.
I
suoi muscoli ormai si rifiutavano di fare ciò che il cervello ordinava loro.
Inciampò e cadde a terra.
Non
c’era un singolo punto in tutto il suo corpo che non le trasmettesse dolore,
ormai. Provò a rialzarsi, ma non aveva più la forza di farlo.
La
tua esistenza non ha un senso.
«Non
è vero.» disse, scoprendo la sua voce annegare nelle lacrime. Si portò le mani
al viso, senza essere in grado di asciugarlo. «Non è...»
Qualcuno
le posò una mano sulla spalla. Bruciava, bruciava da morire.
Kim
si voltò. Era finita, non sarebbe riuscita a scappare.
Dama
Munna le sorrise. «Così non va bene, Kim.» disse, alzando la siringa
trasparente che aveva in mano. «Non si dicono... le bugie! »
*******
Kim
si svegliò di soprassalto e si tirò di scatto a sedere, col cuore che le
martellava in petto come se avesse voluto frantumarle le costole. La maglietta
fradicia di sudore era fresca contro la sua pelle, che invece sembrava andare a
fuoco.
Prese
a fatica dei veloci respiri a bocca aperta: le mancava l’aria, aveva
l’impressione che le avessero messo i polmoni sotto vuoto.
Una
mano fresca le si posò su un lato del collo, accarezzandola piano.
Lee
era seduto sul letto, di fronte a lei, e la guardava con l’espressione più
sollevata che gli avesse visto in volto da... probabilmente, da quella volta
che per miracolo erano usciti vivi da un nido di Volcarona.
«Va
tutto bene.» le disse, con l’aria di chi stava dicendo l’esatto contrario. «Va
tutto...»
«Sei
vivo!» Kim gli gettò le braccia al collo, combattendo contro una gran voglia di
piangere, e sentì subito quelle dell’amico stringerla. «Non hai idea di quanto
sono stata in ansia, credevo che-»
«Tu
sei stata in ansia? Quando ho capito che Zania ci aveva mentito-»
«Quella
dannata- e che cosa ti è successo? Sei bendato ovunque...»
«E
quando sono tornato non ti svegliavi, hai dormito quasi un giorno...»
«Lo
sapevo, lo sapevo che non avrei dovuto lasciarti andare da solo...»
«Ero
così preoccupato che ho pensato di portarti all’ospedale, ma...»
«So
che te la sai cavare, ma non sei mai andato d’accordo con le trappole, pensa
se...»
«...poi
mi sono ricordato che non ci sono ospedali per esseri umani qui, e sarebbe
stato difficile metterti in una pokéball...»
«Ti
prego, non lo fare più, mi sono spaventata da morire.»
Una
mano si posò sulla testa di Kim. «Ehi, ragazzi, calma.» disse N. «L’importante
è che stiamo tutti bene, no?»
«Disse
quello che aveva passato le ultime sei ore camminando avanti e indietro per la
stanza come un’anima in pena.» lo rimbeccò Lee.
N
arrossì. «Beh, adesso è sveglia, no?» bofonchiò, scompigliando un poco i capelli
di Kim.
Lei
incassò la testa nelle spalle, appoggiandosi a Lee. L’ultima volta che aveva
parlato con N, gli aveva detto delle cose piuttosto cattive. Eppure eccolo lì,
sempre preoccupato per lei, come se non fosse mai successo. Forse avrebbe
dovuto...
«A
proposito, come ti senti?» le chiese Lee, allentando un po’ l’abbraccio.
Kim
sbuffò. «Mi brucia la spalla. E poi mi fanno male le braccia, le gambe, i
piedi, la-»
«Tutto,
insomma.» sorrise Lee.
«E
mi gira anche un po’ la testa.»
«Ottimo.»
Lee le schioccò un bacio sopra l’orecchio. «Direi che sei in perfetta forma, a
giudicare da quanto ti lamenti.»
«Ehi!»
N
ridacchiò. «Guarda che era preoccupato anche lui.» disse, infilandosi una mano
in tasca. «Quando siamo tornati, abbiamo trovato questa.»
Le
porse un foglietto, che Kim prese in mano e lesse da dietro la spalla di Lee.
Spero
sul serio che tornerete a casa per leggere questo messaggio.
Vi
chiedo davvero scusa per quello che ho fatto, ma non avevo scelta. Perdonatemi,
se potete.
Zania
P.S:
A seguito di alcune... circostanze... ho dato a Kim un sedativo. Comunque
dovrebbe stare bene. Probabilmente. Una dialisi dovrebbe risolvere tutto in
ogni caso.
«Figlia
di una munnofola.» sbottò Kim. Ricordava ancora perfettamente il momento terrificante
in cui Zania le aveva ficcato l’ago della siringa nel braccio.
«Avevo
paura che ti avesse dato qualcosa di troppo forte, non ti svegliavi.» spiegò
Lee, con evidente sollievo.
«Un
sedativo troppo forte per me?» Kim si tirò indietro sorridendo e guardò Lee
negli occhi. «Ti preoccupi sempre troppo.»
Lui
le prese il naso con due dita. «Se non fosse stato un semplice sedativo o se
Zania avesse avuto altri piani, adesso non saresti qui.»
«E
sarebbe colpa mia?»
«No.»
disse Lee, con fin troppa tranquillità. «Avevi ragione, non avrei dovuto
lasciarti da sola. Ci ho messi entrambi in pericolo, senza pensare...»
Kim
alzò le spalle. «Sono cose che capitano.» Se non altro, a lei capitavano
spesso. «Ma quando imparerai ad ascoltarmi?»
Lee
storse il naso. «Mai. Rimango comunque la persona più assennata che vive in
questa casa.»
«Ehi.»
obiettò N. «E io?»
«Tu
non vivi in questa casa.» dissero Kim e Lee, in coro.
*******
«Quindi,
siete riusciti a catturare Rotom e siete tornati a casa di corsa.»
«Sì.»
«Senza
la benché minima idea di chi ci possa essere dietro l’attacco.»
«Esatto.»
«Non
vi siete fermati a cercare indizi di alcun tipo?»
«No.»
«Non
vi siete neanche, non lo so, guardati intorno per vedere se un losco figuro si
allontanava nella notte?»
«Nemmeno
quello.»
Kim
appoggiò la testa alla spalla di Lee. «Aaah, seriamente, e poi sono io quella
che non ragiona. Scemi.»
«Eravamo
messi piuttosto male, rimanere nei paraggi non sembrava una grande idea.»
«Sì,
sì.» fece Kim, accondiscendente, ma non riuscì a trattenere un sorrisetto. «A
proposito di grandi idee, sicuro che lasciare che N si occupi di Rotom lo sia?»
Lee
alzò le spalle, facendole sobbalzare la testa. «Per quel che ne so, è l’unico
tra noi che riesce a parlare con i pokémon.» disse. «Potrebbe davvero venire a
capo di qualcosa. E nel peggiore dei casi...»
«...avremo
uno stalker in meno.» completò Kim.
Chiuse
gli occhi. Niente le piaceva quanto quei momenti di tranquillità, in cui poteva
staccare i sensi e lasciarsi coccolare da un familiare e tiepido senso di
protezione. Un secondo passato così la rilassava più di otto ore di sonno.
Sentì
la mano di Lee prendere la sua, appoggiata al divano, e intrecciarvi le dita.
Aveva due nocche incerottate, così come, l’aveva visto, gran parte del resto del
corpo. La battaglia con Rotom era stata dura.
Kim
ricambiò la stretta, pensando che avrebbe voluto essere stata lì. Forse avrebbe
potuto essere utile in qualche modo. Forse avrebbe potuto risparmiargli qualche
livido, qualche spavento... qualcosa.
Un
grugnito richiamò la sua attenzione, facendole aprire gli occhi. Vicino ai suoi
piedi, Porchetta la stava fissando con un che di risentito.
Sorrise.
«Oh, ma guardatelo, il gelosone.» disse, divertita, lasciando la mano di Lee
per chinarsi a prendere in braccio il suo starter. «Cosa c’è? Carenza di
coccole?»
Porchetta
tirò fuori la lingua e le leccò il naso, facendole il solletico. Kim ridacchiò
e gli diede un bacino sulla testa. «Aaah, se penso che non ti ho avuto intorno
per giorni... non so neanche come ho fatto.»
Porchetta
fece un versetto di approvazione e accoccolò il muso sulla sua spalla non
fasciata, mentre lei continuava ad accarezzargli il dorso dolcemente.
Lee
sbuffò, ma così lievemente che Kim non se ne sarebbe neanche accorta, se non
fosse stato così vicino.
Non
gli chiese se qualcosa non andava, né tentò di indovinare. Se ci fosse stato
qualcosa di cui voleva parlarle, l’avrebbe fatto. E se non voleva, il suo
compito in quanto amica era solo quello di farlo sentire meglio.
«Lo
sai, Lee? Non stai affatto male, tutto bendato.» buttò lì. I complimenti
aiutavano sempre a scacciare i brutti pensieri.
«Dici?»
chiese lui, stranito. Si diede un’occhiata al braccio sinistro, girandolo da
una parte all’altra. Era di gran lunga quello messo peggio, su cui aveva
riportato la maggioranza dei tagli, nonché i più profondi.
«Sì.»
confermò Kim, con un sorriso. «Fa tanto “eroe di ritorno dalla battaglia”...
sarà meglio che Nardo non ti veda così, altrimenti potrebbe venirgli in mente
di vendere i diritti per un altro film.»
Lee
fece un mezzo sorriso, ma tornò serio un attimo dopo. «A proposito di
ferite...» disse, scostandole i capelli dalla fasciatura che aveva sulla
spalla. «La tua ustione come va?»
Kim
inclinò la testa, per permettergli di osservarla meglio. «Stanotte ha bruciato
da morire.»
«Bene,
vuol dire che le baccafragole hanno fatto effetto.»
«Credo
anch’io. Ora non mi fa più male, a parte quando la tocco, ma...»
«Quello
è normale.» sospirò Lee, socchiudendo gli occhi. Pareva sollevato. «Sai...»
Un
grugnito lo interruppe, e Kim tornò per un momento a rivolgere l’attenzione a
Porchetta, che aveva cominciato ad agitarsi. «Oh, ma insomma.» lo rimbrottò,
con una chiara nota d’affetto nella voce. «Sei appena salito e già vuoi
scendere, sei come un bambino.»
Rimise
il suo pokémon per terra e lo accompagnò con una lieve pacca sul di dietro.
«Vai, vai, che Arceus solo sa che cos’hai di importante da fare.»
Si
riaccomodò sul divano, ancora sorridente. «Scusa.» disse a Lee. «Dicevi?»
«Uh?
Niente.»
«Dai,
stavi dicendo qualcosa.»
«No,
affatto.»
«Sì,
invece. Hai detto: “Sai...”»
Lee
distolse lo sguardo con un movimento rotatorio degli occhi. «Era un “sai” tanto
per dire, non mi ricordo nemmeno...»
«Su,
dai, ti prego! Sono curiosa!»
Lee
cercò visibilmente di trattenere una risatina, ma non ci riuscì. «Oh, per
favore, non incominciare.» disse, coprendosi la bocca con una mano.
«Su,
dai, ti prego!» insisté Kim. Era sempre stata brava ad imitare il tono
implorante di Nardo, così come la sua irritante persistenza.
Lee
la guardò con la coda dell’occhio, incapace di sostenere il suo sguardo senza
ridere. «Davvero, Kim, non me lo ricor-»
«Suuu,
daaai, ti preeeegooo...» gli punzecchiò una guancia con l’indice. «Lo voglio
sa-pe-re.»
Lee
sbuffò, esasperato, ma senza smettere di sorridere. «E va bene. Stavo pensando
che...» un’altra risatina gli risalì la gola, ma la soppresse, cercando di
tornare più o meno serio. «Che se non fosse per te, ora avrei una vita molto
più tranquilla.»
Kim
alzò un sopracciglio, scettica. Si trattava solo di quello? «Più noiosa, vorrai
dire.»
«Più
ordinata.»
«Banale.»
«Meno
pericolosa.»
«Monotona.»
«E
anche in compagnia di qualcuno molto meno modesto di te, immagino.»
«Ovvio.»
«Ma
sentila.» sorrise Lee, pizzicandole scherzosamente la punta del naso. Kim fece
per mordergli le dita, ma lui le aveva già ritratte.
«Si
può sapere perché ce l’hai tanto col mio naso, oggi?»
«Perché
è divertente e dà un senso di soddisfazione.» rispose Lee. Dopo un attimo,
qualcosa lo fece sorridere. «Ti ricordi? Quand’eravamo piccoli, giocavamo
spesso a rubarci il naso.»
«Pff,
altro che giocare, noi ci facevamo la guerra.»
«Mi
ricorderò per sempre quella volta che mi sei corsa dietro per tutto il giorno,
e alla fine ho dovuto farti vincere solo perché altrimenti non saresti tornata
a casa.»
«Oh,
adesso facciamo gli sbruffoni, eh?» Kim lo guardò con aria di sfida e gli
mostrò un pugno chiuso, da cui spuntava appena la punta del pollice. «Ti
ricordo che il tuo naso ce l’ho ancora io, e da diversi anni.»
Lee
sogghignò. «Grazie per avermelo ricor-» Prima ancora che si muovesse, Kim
nascose la mano dietro la schiena, e il ragazzo si trovò ad agguantare l’aria.
«...dato.»
«Ah-ah.»
fece Kim, divertita. «Credi che sia disposta a cederlo così facilmente? Ormai è
mio.»
Ma
nemmeno Lee si sarebbe arreso senza combattere, non adesso che aveva stuzzicato
il suo orgoglio.
Kim
ne era ben cosciente: si affrettò a ritrarsi ed alzarsi in piedi, evitando di
nuovo di venire acchiappata dall’amico.
Gli
fece una linguaccia. «Buuu, ti ricordavo più svelto, Leeroy.»
«Ehi,
guarda che sono ferito!»
«Tuuutte
scuse.» lo prese in giro lei. «Ormai non sei più quello di una vol-»
Prima
che se ne rendesse conto, Lee si era alzato e l’aveva afferrata per un braccio.
Sì, quando ci si metteva, era decisamente più veloce di lei.
Kim,
però, non si era lasciata cogliere del tutto alla sprovvista. «Mano sbagliata.»
disse, mostrandogli il palmo aperto, mentre infilava l’altra mano nella tasca
posteriore dei pantaloncini. «Te l’ho detto, non ho alcuna intenzione di
restituirtelo.»
«Razza
di... barona!» fece Lee, sbigottito. Sempre tenendola saldamente per il
braccio, le girò intorno, fino a trovarsi dietro di lei.
«E
adesso voglio proprio vedere come fai.» rise Kim, pregustando la vittoria.
«Oh,
quindi credi davvero che non avrei il coraggio di spogliarti per riavere il mio
naso?» chiese Lee, con un che di provocatorio.
Kim
stava giusto per rispondere che no, non lo credeva proprio possibile, quando
sentì l’indice di Lee percorrerle un fianco, il polpastrello appena sotto
l’orlo dei pantaloncini.
«Puoi
sempre arrenderti ora.» le soffiò in un orecchio, facendola rabbrividire.
Ma
Kim sapeva bene con chi aveva a che fare: anziché lasciarsi intimidire, si
sporse rapidamente in avanti e fece schioccare i denti in direzione della mano
di Lee, che le teneva imprigionato il polso. Lui la lasciò andare prima che
riuscisse a morderlo, ma solo per posizionare entrambe le mani sui suoi fianchi.
Kim
sentì il corpo sobbalzare violentemente, come attraversato da una piccola
scarica elettrica, mentre una risata le risaliva con forza la gola. Lee le
stava facendo il solletico.
«Smet...
sme...» Cercò di divincolarsi, ma aveva già abbastanza difficoltà a respirare
per ottenere alcun risultato.
Lee,
dal canto suo, aveva l’aria di divertirsi un mondo. «Allora, ti arrendi?»
«Nean-
ah!» Kim sentì le ginocchia cederle e finì a terra.
Sperò
che almeno allora il suo amico le lasciasse un momento di respiro, ma lui
continuò impietosamente a torturarla.
«Ba...
ti... ti prego, bas...» Rideva troppo, il petto incominciava a farle male per
lo sforzo. «Va... va be... va bene, hai... hai vinto, ha-hai vinto!»
Finalmente,
Lee si fermò e Kim poté riprendere un po’ di fiato.
Ansimando
pesantemente, rotolò sulla schiena, solo per trovarsi bloccata da una parte e
dall’altra dalle braccia di Lee.
«Sei
fottutamente... sleale.» disse, stravolta.
«Lo
so. Il mio naso.» disse Lee, come se le stesse chiedendo indietro una preziosa
reliquia rubata.
«Sì,
sì...» rise Kim. Tirò fuori la mano da dietro la schiena e gli pizzicò il naso.
«Ecco, a posto. Un po’ storto, ma...»
Lee
fece per morderle le dita, come aveva fatto lei poco prima, e Kim si affrettò a
ritrarre la mano. «Ehi, attento a quel che fai.»
«Sei
tremenda.»
«Non
sono stata io a ucciderti di solletico.»
«Beh,
questo è vero.» le concesse Lee.
Kim
tornò a rilassare i muscoli. Il suo petto si alzava e si abbassava ancora
velocemente, cercando di ristabilire il corretto ingresso d’ossigeno... eppure,
si sentiva tranquilla, come se si fosse liberata di un peso che non si era resa
conto di aver avuto sulle spalle. Forse avrebbe dovuto tenersi quel naso ancora
per un po’.
«Quanto...»
la voce di Lee, calma e addolcita da un sorriso, la sorprese per quant’era
vicina. «Quanto tempo è passato dall’ultima volta che abbiamo giocato così?»
Kim
ci pensò su un attimo. «Parecchio.»
«Già...»
il sorriso di Lee si spense. «Chissà perché, immaginavo qualcosa del genere.»
Kim
aggrottò le sopracciglia. Eccolo di nuovo, un piccolo peso che minacciava di
gravare sulla sua felicità.
«Che
c’è?» chiese, con un velo di preoccupazione.
«Che
vuol dire, “che c’è”?»
«Voglio
dire che c’è a te.» Kim si puntellò sui gomiti, arrivando così a pochi
centimetri dal viso di Lee. Lo guardò dritto negli occhi, cercando qualche
indizio, qualche dettaglio che potesse esserle utile. «Hai qualcosa che non va,
qualche pensiero che ti gira per la testa.»
«E
tu hai appena ucciso la Signora Sintassi.»
«Lascia
stare quella roba. Davvero, che cosa c’è?»
Non
le piaceva vederlo così. Quando nemmeno una buona risata riusciva a scacciare
le sue preoccupazioni, non poteva semplicemente lasciar perdere. Gli voleva
troppo bene per farlo.
Lee
rimase a guardarla per qualche secondo, stupito. Poi sospirò. «È che mi stavo
chiedendo... per quanto continueremo così.» disse piano, abbassando lo sguardo.
«Così...
così come?»
«Per
quanto ancora dovremo correre contro il tempo, guardarci le spalle, essere
usati per i comodi altrui...» elencò Lee, con un’espressione triste che non gli
apparteneva. «...ferirci, non avere un attimo di respiro, fare i salti mortali
per perseguire cause che non ci appartengono...» Kim seguì il suo sguardo vagante,
incantata, finché non fu tornato sui suoi occhi. «Per quanto ancora dovrò aver
paura di perderti ogni volta che ti tolgo gli occhi di dosso.»
Per
un istante, solo un istante, Kim sentì il petto comprimersi, come se il suo
cuore avesse voluto implodere.
Quindi
era solo questo? Solo questo?
Incominciò
a ridere, incapace di trattenersi in alcun modo.
«Che
scemo...» gli allacciò le braccia intorno al collo e lo trascinò a terra con
sé. «Che scemo che sei, che scemo...»
Senza
smettere di ridere, spinse Lee sulla schiena e gli si mise a cavalcioni,
trovandosi nella posizione opposta a quella di prima. «Che scemo.» ripeté,
asciugandosi un occhio col dorso della mano. Lee la guardava come se fosse
impazzita, ma non importava.
«Senti
un po’. Sei stato tu ad accettare di infilarci in questo casino, quindi non
voglio sentire lamentele.» dichiarò, sforzandosi più che poteva di non ridere,
almeno mentre parlava. «E se è della nostra vita messa sottosopra che ti
preoccupi, ce ne possiamo sempre costruire un’altra.»
Lee
non sembrava del tutto convinto. «E se questa nuova vita non ci piacesse?»
«Beh,
se ci stufiamo, scappiamo a Sinnoh.»
Kim
sentì il pavimento sfuggirle da sotto le gambe, e in un secondo si ritrovò
ribaltata. Quando riaprì gli occhi, Lee sorrideva di nuovo. «E giuri che nel
frattempo non ti farai ammazzare?»
«Uhm...
farò del mio meglio.»
Lee
le pizzicò di nuovo il naso. «Allora d’accordo. Sopportiamo ancora un po’, e
quando ci stufiamo...»
«Fuga.»
«Fuga.»
Kim
socchiuse gli occhi, ricordando l’ultima volta che si erano detti quelle
parole.
«Senti,
noi ci andiamo.» aveva detto Lee, deciso. «Non ha comunque senso restare qui.»
«E
se... e se fosse un errore? E se...»
«Nessuno
ci costringe ad andare fino in fondo. Se ci stufiamo, possiamo sempre scappare
a Sinnoh.»
Era
stato un giorno importante, quello. Forse il più importante.
Il
rumore della porta d’ingresso che si apriva, seguito da un sospiro sconsolato,
interruppe il suo filo di pensieri.
«N!»
esclamò Kim, cercando in fretta di rialzarsi, col solo risultato di andare a
sbattere la fronte contro quella di Lee.
«Ahia!
Stai attenta!»
«Scusa...
ahi...»
Massaggiandosi
la fronte con una mano, Lee si alzò e porse l’altra a Kim, per aiutarla a
tirarsi su. «Ehi, N.» disse. «Com’è andata?»
In
risposta gli arrivò un altro sospiro. «Ho bisogno... ho bisogno di sedermi un
attimo.»
N
passò accanto a loro e si lasciò letteralmente cadere sul divano. Mise per
qualche istante la faccia tra le mani, si stropicciò gli occhi, leggermente
cerchiati di grigio. Kim pensò che non lo vedeva così stravolto da... beh, da
tempo. Non sembrava nemmeno lui, in un certo senso.
«Che
cos’è...?»
N
lasciò cadere le mani. «Ho appena...» scosse la testa, ricominciò: «Ci sono
cose... ci sono cose che...» Tamburellò le dita di una mano sul ginocchio,
forse in cerca delle parole giuste. Sembrava non riuscire a tenere lo sguardo
fisso, continuava a spostarlo da una parte all’altra, inquieto.
Kim
incominciò a preoccuparsi. Cosa poteva essere successo di tanto tremendo da
sconvolgerlo così? Gli si avvicinò di un passo, ma N la fermò, protendendo di
scatto la mano aperta verso di lei. «Solo... scusa, rimani lì ancora un
attimo.» disse, senza guardarla.
Turbata,
Kim cercò qualche rassicurazione girandosi verso Lee, ma lui non era più
accanto a lei. Lo scoprì dietro al divano, che porgeva ad N un bicchiere
d’acqua. Non si era neanche accorta che si fosse spostato.
«Grazie.»
disse N. Buttò giù l’intero bicchiere tutto d’un fiato e lo restituì a Lee.
«Non sono più... abituato a certe cose.»
«Quali
cose?» Kim dovette fare uno sforzo considerevole per rimanere dov’era.
N
strinse le labbra. Congiunse le mani, si sporse un poco in avanti, lo sguardo
diretto al pavimento. «Rotom... sta male.» disse, a fatica.
Kim
aggrottò le sopracciglia. «C’è bisogno che lo portiamo a un-»
«No,
non in quel senso.» la interruppe N. «È che... è incredibilmente aggressivo,
continua a ripetere che torneranno a prenderlo...» si morse la punta del
pollice, interrompendosi per un momento. «E piange, piange in continuazione.»
«Oh.»
Kim stava iniziando a capire.
N
strinse le mani tra loro, facendo sbiancare un poco le nocche. «Ho cercato di
parlargli. Ho cercato di... di fargli capire che non avevo intenzione di fargli
del male.» disse, il dolore chiaro nella sua voce. «E lui... mi ha raccontato
delle cose.» Prese un respiro, come a voler continuare, ma poi alzò lo sguardo
su Kim. I suoi occhi erano tristi, spenti. «No, non sono sicuro che tu le
voglia sentire.»
Cauta,
Kim si avvicinò e si sedette sul bracciolo del divano, dal lato opposto al suo.
Poteva già immaginare che tipo di cose avesse sentito N, e il solo pensiero le
dava i brividi. «Non preoccuparti per me. Va’ avanti.» disse, faticando un po’
a mantenere il suo normale tono di voce.
N
tornò a fissarsi le mani. «Esperimenti.» disse. «Mi ha raccontato di essere
stato sottoposto, per mesi, a... ad esperimenti di ogni genere. Di ogni
genere.» ripeté, con la voce che tremava. Si morse un labbro. «Più me ne
parlava e più... non... io non credevo che ci fossero ancora persone così,
credevo che... è così barbaro, orribile.»
Kim
sentì il cuore stringersi. Riusciva perfettamente a vederli: pokémon tremanti
ed impauriti, tenuti chiusi nelle loro pokéball anche per settimane intere, a
sperare solo di non dover più affrontare l’orrore esterno. Pokémon senza
pelliccia a causa di iniezioni ed operazioni chirurgiche, senza penne perché
non potessero volare via, senza scaglie, cadute per la denutrizione. Pokémon
costretti a ripetere lo stesso attacco ancora e ancora, senza sosta, finché non
perdevano i sensi per la stanchezza. Pokémon...
«Non
ha voluto dirmi niente del suo allenatore.» proseguì N, scuotendo la testa.
«Però, a quanto pare, è stato lui a tirarlo fuori da quell’inferno. Gli è
incredibilmente grato, ed è per questo...» inspirò profondamente. «È per questo
che è convinto che tornerà a prenderlo.»
Lee
gli mise una mano sulla spalla. «Sei stato bravo.» gli disse, in tono
rassicurante. «Sono più informazioni di quante me ne aspettassi.»
Kim
annuì. «Credi di aver capito qualcosa?»
«Non
ancora, ma ci sono diversi elementi su cui lavorare.» rispose Lee. «A
cominciare da questi esperimenti sui pokémon. Anch’io ero convinto che nessuno
ne facesse più.»
«Pensi...»
Kim esitò, sentendosi stupida a fare una domanda del genere. «Pensi che Zania
c’entri qualcosa? Lei lavora in laboratorio, potrebbe...»
Lee
ci pensò su un attimo. «No, non credo.» disse. «Non è quel tipo di persona...
ma qualche suo collega potrebbe averla immischiata nella questione, non è da
escludere.»
«Credo
comunque che sia lei la prima persona con cui dobbiamo parlare. Se vi ha
spediti nella trappola di ieri, saprà di certo chi c’è dietro.»
«Non
è detto.» la contraddisse Lee. «Nel biglietto che ha lasciato, ha scritto “Non
avevo scelta”. Probabilmente è stata ricattata da qualcuno, e non sempre i
ricattatori forniscono dettagli.»
«In
ogni caso,» aggiunse N, la voce ancora un po’ spenta, «abbiamo provato a
chiamare il suo laboratorio stamattina, e nessuno sa dove sia. È sparita.»
Kim
appoggiò il mento a una mano, pensosa. Tutto quello che stava accadendo in
quegli ultimi tempi era così... strano. Non riusciva a credere che
fossero state tutte coincidenze. «Forse è il caso di chiamare...»
Lei
e Lee si guardarono negli occhi per un istante, poi scossero entrambi la testa.
«No,
no.» disse Lee. «Saranno anche state compagne di università, ma non mi sembra
il caso di scomodare Lei.»
«Non
è mai il caso di farlo.»
N
li fissò per qualche secondo, perplesso, e sbatté un paio di volte le palpebre.
Poi scrollò le spalle. «Ah, a proposito.» disse. «Mentre rientravo, ho trovato
questa nella cassetta delle lettere.» Tirò fuori da una tasca dei pantaloni una
busta e la porse a Lee, che era il più vicino dei due. «Non so, ha l’aria di
essere importante.»
Kim
sentì il cuore saltare un battito. «Oh, cazzo.» disse, fissando la busta come
se fosse stata una bomba ad orologeria.
Lee
aveva in volto più o meno la sua stessa espressione terrorizzata, mentre con
cautela apriva la lettera. Ne tirò fuori un unico foglio, sottile e dall’aria
minacciosa. «Oh, cazzo.» disse anche lui, appena vi posò gli occhi.
Solo
una persona conosceva il loro indirizzo. Solo una persona.
Spalle
rilassate, respiro lieve, sguardo tranquillo. A volte inclinava un poco la
testa; altre, catturava con le labbra una ciocca di capelli.
Si
trattava di centesimi di secondo, ma erano momenti da fotografia, quelli.
Geometricamente perfetti.
E
dal nulla una scintilla, le fiamme, il fumo, pezzi di vetro e cemento
scaraventati in tutte le direzioni, il boato assordante della compressione
dell’aria.
«Come
sarebbe a dire?!»
Ogni
volta era come un’esplosione: improvvisa, violenta, spaventosa... affascinante.
N
si morse un labbro, sentendo i battiti del suo cuore accelerare.
«Che
siamo stati sfrattati.» ripeté Lee, sebbene avesse l’aria di non crederci
neanche lui.
«Credo
che quello fosse l’unico punto chiaro della questione.» disse N, spostando di
proposito l’attenzione su di lui.
«Esatto.»
Kim gli saettò davanti e strappò la lettera dalle mani di Lee. N allungò il
collo per sbirciarla, ma l’angolazione non era delle migliori. Vide invece
benissimo il leggero tremore che prese quasi impercettibilmente a scuotere le
mani di Kim, mentre il suo petto iniziava ad alzarsi e ad abbassarsi sempre più
in fretta. Il collo della ragazza si tese, le sue labbra si strinsero, i suoi
occhi si fecero grandi mentre scorrevano la lettera riga per riga. «Gli
inquilini si sono resi morosi...» lesse, a fior di labbra. «Obbligo di
abbandonare lo stabile entro ventiquattr’ore...»
N deglutì a forza. Se avesse trovato una bomba
ad orologeria sul punto di esplodere, avrebbe provato lo stesso, insano
desiderio di toccarla?
«Beh,
basterà pagare l’affitto e si sistemerà tutto, no?» disse, cercando di
alleggerire l’aria pesante che si era venuta a creare. «Quanto avete in
cassaforte?»
Lo
sguardo vacuo e un po’ triste che i ragazzi si scambiarono gli fece capire di
aver fatto la domanda sbagliata.
«Kim,
N crede che abbiamo una cassaforte.»
«Non
so se ridere o piangere.»
«Ci
costerebbe di più una cassaforte che non quello che potremmo metterci dentro.»
N
sbatté le palpebre un paio di volte. «Ma allora... dove mettete il denaro, le
cose preziose?»
«Il
denaro, dice!»
«Le
cose preziose, dice!»
La
loro risata sapeva di lacrime.
«Dev’essere
bello avere delle cose preziose da mettere in cassaforte...»
«Dev’essere
bello preoccuparsi di dove mettere le proprie cose preziose...»
«Dev’essere
bello poter pagare l’affitto con cose preziose...»
Stringendo
le labbra, N si chiese quale legge della fisica lo costringesse sempre a dire
la cosa più sbagliata possibile nei momenti di crisi. «Sì, beh, non è che sia,
insomma...» balbettò, incapace di trovare un qualsiasi argomento per distrarli
dall’annosa questione soldi-affitto-cassaforte. «Allora, sentite: un Petilil,
un Tympole e uno Scraggy entrano in un ba-»
«Per
l’amor di Arceus, tutto ma non le barzellette di N.» lo interruppe Kim, con
un’espressione poco meno che disgustata.
«Che
hanno che non va?»
«Fidati,
Lee, non lo vuoi sapere.» Kim sospirò. «Piuttosto... davvero, quanti soldi ci
sono rimasti?»
«Niente
di neanche lontanamente sufficiente a saldare sei mesi di affitto.»
«Sei mesi?» esclamò N, senza potersi
trattenere. Sapeva che erano messi male economicamente, ma fino a quel
punto...? Si fece un appunto mentale: raccomandare a Faustino di raccogliere e
registrare più accuratamente i dati della contabilità dei ragazzi.
«Sono
successe... cose.» lo liquidò Lee, con una scrollata di spalle. «Però,
pensandoci, se riuscissimo almeno a pagare un paio di mesi... forse...»
«Per
questo te lo sto chiedendo: quanto ci è rimasto?» chiese Kim, con una nota
d’ansia nella voce.
«Uhm...»
Lee alzò gli occhi, facendo dondolare un poco la testa. Probabilmente stava
facendo dei rapidi calcoli a mente. «Beh, abbiamo i guadagni del Deerling e...»
«E...?»
lo incoraggiò Kim, speranzosa.
Lee
riabbassò lo sguardo. «E... i guadagni del Deerling.»
«Nient’altro?»
N era a dir poco allibito. Lui e Faustino avrebbero dovuto fare una bella
chiacchierata, sì. Forse un paio di settimane a fare le pulizie nel Castello
gli avrebbero fatto riconsiderare l’importanza dei suoi doveri.
«È...
è assurdo!» esclamò Kim. «E i soldi dell’orecchino che abbiamo recuperato a
Camelia a inizio mese?»
«Sono
bastati a malapena per fare la spesa.»
«E
il Cinccino carnivoro di cui ci siamo sbarazzati a Ponentopoli?»
«Luce
e acqua.»
Kim
fece schioccare la lingua. «Cazzo.»
N
lo vide di nuovo: quel singolo, effimero istante di calma piatta.
«Un
momento, un momento!» esclamò, sperando di evitare un ritorno di fiamma. «E il
lavoretto di due settimane fa, quello a Sciroccopoli?»
«Quale...
ah.» Kim strinse tra le mani la lettera di sfratto. «Giusto. È stato appena due
settimane fa, vero?»
Calma.
Pura e semplice quiete. In lontananza, un Pidove cinguettò una melodia allegra
e piacevole.
«Io
quel pezzo di stronzo lo uccido!» In un impeto di rabbia, Kim gettò a terra la
lettera e rimase a fissarla per qualche secondo. «Dopo tutto quello che abbiamo
fatto per lui... quello che abbiamo fatto per
tutti quegli idioti...»
N
trattenne il fiato, si costrinse a rimanere fermo. Voleva toccarla. Voleva
sentire il battito accelerato sotto la sua pelle, la tensione improvvisa dei
suoi muscoli sottili. Voleva analizzare ogni sintomo di quella rabbia e
registrarlo nella memoria, al punto di conoscerla talmente bene da averne il controllo.
Ma non poteva. Avrebbe rovinato tutto.
«Non
ci possiamo fare niente.» disse Lee, toccando il braccio di Kim per cercare di
trasmetterle un po’ di tranquillità. «Ora dobbiamo solo pensare con calma ad
una soluzione.»
«Ce
l’ho io, la soluzione.» disse Kim, la voce che le tremava un poco. «Vado ad
ammazzarlo di botte.» Ciò dichiarato, scostò bruscamente Lee e si fiondò in
camera, veloce come una saetta. Così veloce che N fu certo di sentirla sbattere
contro lo stipite della porta e imprecare tra sé.
«Finirò
per impazzire.» sospirò Lee, passandosi una mano sulla faccia. «Quello che ci
sfratta da una parte, Kim che perde la testa dall’altra...»
N
riprese solo in quel momento a respirare, e gli sfuggì un mezzo sorriso.
«Dimentichi la signorina misteriosa di ieri.»
«Stavo
elencando solo i casini odierni, se dovessi prenderli in considerazione tutti
staremmo qui fino a domattina.»
Ciononostante,
Lee si portò una mano al petto, nel punto in cui fino a qualche ora prima c’era
stata una scritta rosso sangue.
N
si mordicchiò l’interno della guancia. Era il momento giusto per chiederlo?
Beh, aveva già fatto parecchie domande inopportune, quindi una in più non
avrebbe ucciso nessuno. Probabilmente. «Perché non hai voluto dirglielo?»
chiese, accennando con la testa alla camera di Kim.
«Non
è ovvio?»
«No,
non proprio.»
Lee
rise. «E poi vai in giro a dire di conoscerla come le tue tasche, eh?» disse,
divertito. «Kim sarebbe più che contenta di appendermi al collo un cartello “Non
Toccare”. Finché non abbiamo neanche una vaga idea di chi ci sia dietro a
questa storia, è meglio tenere la bocca chiusa. Non ti sembra che quella lì sia
già abbastanza soggetta a crisi isteriche così com’è?»
«Questo
lo posso capire, ma...»
«Lee!
Dov’è finito il mio sfollagente?» urlò Kim dall’altra stanza. L’irritazione
nella sua voce non prometteva nulla di buono.
Lee
roteò gli occhi. «E ora andiamo a scongiurare un omicidio.»
N
fece di sì con la testa e, cautamente, si avvicinò insieme a Lee alla porta
aperta della camera di Kim.
La
ragazza era impegnata a frugare nervosamente nel cassettone sotto al suo letto,
ed emanava una tremenda aura omicida.
«Lo
picchierò. Gli spezzerò tutte le ossa, una per una, finché non avrà più nemmeno
la forza di urlare e chiedere scusa.» mormorò tra sé, sgombrando il cassetto da
alcune sfere poké e un paio di calze. «E quando avrò finito, taglierò il suo
corpo in taaaanti piccoli pezzettini, che userò come esche per pokémon.»
Senza
potersi trattenere, N si aggrappò al braccio di Lee, terrorizzato. «È... è...»
«Spaventosa.»
completò Lee, anche lui abbastanza intimorito da non preoccuparsi neanche dello
stalker appeso al suo braccio.
N
deglutì. «Non dovresti... insomma... fare qualcosa?»
«Beh,
probabilmente... ehi, aspetta, che significa “dovrei”?»
«Prima
persona singolare del condizionale pres-»
«Dovremmo,
N, dovremmo. Renditi utile, una volta
tanto.»
«Ma
mi fa pa-ahia!» N si portò una mano
alla guancia, dove Lee gli aveva appena dato un pizzicotto. «E va bene... che
cosa devo fare?»
Lee
lo squadrò per qualche secondo, pensoso. «Sii te stesso.» disse alla fine.
«Solo, meno piagnucoloso, se puoi. Vieni.»
Cauti,
si spinsero oltre la soglia della camera. Per la cinquantunesima (o forse
cinquantaduesima?) volta, N si chiese come si potesse far entrare così tanto
rosa in così poco spazio: praticamente tutti gli oggetti e i mobili ne
presentavano una qualche sfumatura, un po’ come se la femminilità di Kim si
fosse concentrata interamente in quella stanza e da là non dovesse uscire.
Purtroppo,
in quel momento il rosa pareva scomparire dietro alla pesante oscurità che
vibrava nell’aria.
«Sì,
saranno proprio delle ottime esche...» ridacchiò Kim, sollevando un pokéflauto
per valutarne l’utilità come oggetto contundente.
Dimostrando
un coraggio che solo da lui ci si poteva aspettare, Lee le si chinò accanto e
le mise una mano sulla spalla. «Kim... credo che sarebbe meglio se ti calmassi,
adesso.»
Per
tutta risposta, lei gli puntò il pokéflauto alla gola. «Sono calmissima.» sibilò, stringendo gli
occhi.
Lee
non si lasciò impressionare e rimase fermo dov’era. «Oh, sì, più o meno quanto
io sono innamorato di N.»
Kim
roteò gli occhi. «Felicitazioni, allora. Mandatemi una cartolina dal viaggio di
nozze.» disse, tornando a frugare nel cassetto.
«Dico
sul serio. Senza considerare che l’omicidio va contro ogni regola etica del
mondo civilizzato...»
«E
ti sembra che me ne importi qualcosa?»
«...appunto, lasciando anche perdere
l’etica, credo che abbiamo parlato del fatto che uccidere le persone è illegale e...»
«Di
nuovo: ti sembra che me ne importi qualcosa?»
«...e
del fatto che la polizia di Unima è inutile quando si tratta di criminali veri,
ma sono diventati professionisti nel catturare noi.»
Kim
si irrigidì e smise di frugare nel cassetto. Per un istante, N si chiese se
avesse finalmente rivisto la ragione, ma poi notò che le sue spalle stavano
tremando.
Oh,
no.
«Lo
vedi? È tutto un problema di questa fottuta Regione!» esplose Kim, alzandosi in
piedi di scatto. «Eroi di qui, Eroi di là, e finché salviamo il culo a tutti va
bene, ma appena si tratta di questioni idiote come picchiare un maniaco o non
pagare qualche mese d’affitto ci danno tutti addosso, come se non avessimo già
abbastanza...»
Il
cuore di N batteva forte. Voleva che si fermasse, ma allo stesso tempo voleva
vedere quanto poteva avvicinarsi alle fiamme divampanti prima di scottarsi.
Decise
per una via di mezzo: prese Kim da sotto le ascelle e la sollevò da terra.
La
ragazza rimase come paralizzata, il respiro mozzato e le guance di un vivace
color porpora. «C-cos... che...» provò a dimenarsi, ma l’essere sospesa in aria
pareva averla messa in netto svantaggio. «Me-mettimi giù!»
«Sei.
Troppo. Agitata.» soffiò N, tenendola all’altezza del viso. Adesso che lo
notava, faceva un altro effetto guardarla senza dover abbassare la testa. I
suoi occhi sembravano più grandi e... gli facevano venire una voglia matta di
prenderla in giro. Fissò lo sguardo dritto nelle sue pupille, nel modo che
sapeva l’avrebbe imbarazzata di più. Sii
te stesso, aveva detto Lee. Niente di più facile. «Quando fai così...
vorrei baciarti.»
Kim
smise all’istante di cercare di divincolarsi. Il rossore delle sue guance si
diffuse su tutto il viso, fino a renderle purpuree perfino le orecchie. Era
così carina che quasi quasi l’avrebbe baciata davvero...
«Lee!»
piagnucolò lei. «Per favore, per favore,
almeno lui lo posso picchiare? È autodifesa!»
N
si morse un labbro. Doveva immaginarlo, che avrebbe finito per scottarsi.
*******
L’aria
di quella palestra era sempre leggermente umida, e sapeva di ferro. Per Kim,
che tra i suoi prediletti aveva i pokémon Fuoco ed Elettro, era un’aria che
puzzava di guai.
Fece
roteare il pokéflauto tra le dita un paio di volte, lo batté sul palmo della
mano. «Buongiorno, Brigida.» sorrise. «Vedo che non sei ancora riuscita a
fuggire da questo schifo di posto.»
La
receptionist deglutì e si sistemò nervosamente la giacchetta azzurra.
«B-buongiorno.»
«Dai,
Kim, piantala di spaventarla.» disse Lee, spingendo l’amica di lato.
«Non
la sto spaventando, sto facendo
conversazione.»
«Conversazione
terroristica.» Lee si voltò verso Brigida e le rivolse un sorriso rassicurante.
«Al solito, siamo qui per vedere Rafan. E Kim ha promesso di non picchiare
nessuno con quel flauto, quindi torna pure a respirare.»
Brigida
parve leggermente sollevata ed annuì. «Certamente. Devo annunciare due... no,
tre persone?» chiese, alzando la cornetta del telefono.
Kim
e Lee si voltarono di riflesso verso N, attualmente impegnato a sporgersi oltre
il bancone della reception per osservare quello che c’era dietro. Sembrava
particolarmente affascinato da un blocchetto di post-it colorati, che guardava
come se fossero stati un qualche tipo di reperto alieno.
«No,
solo due.» sospirò Lee. «La palestra è un posto pericoloso per i bambini.
Comunque...» si avvicinò leggermente a Brigida. «Detto fra noi... com’è l’umore
del capo, oggi?» sussurrò, in tono confidenziale.
Brigida
sbatté un paio di volte le palpebre, e Lee fece lo stesso. Kim roteò gli occhi
e appoggiò la schiena al bancone.
Dopo
qualche momento di esitazione, Brigida riagganciò con cura la cornetta. «Uhm,
oggi ha battuto tre allenatori...» mormorò, incerta. «Questo l’ha certamente
messo di buon umore, ma...»
«Ma...?»
«Circa
un’ora fa... gli ho passato una chiamata della signorina Camelia.»
«Oh.»
Mentre
l’estorsione di informazioni continuava, Kim si controllò distrattamente le
unghie. Era da un po’ che non le tagliava, forse avrebbero potuto fungere da
arma in caso di necessità.
«Non
ho idea di cosa si siano detti, mi dispiace.» disse Brigida, con un filo di
voce. «Spero per voi che sia stata una conversazione... piacevole. Il signor
Rafan ha...» abbassò ancora di più la voce. «...ha molto a cuore la signorina Camelia, ecco.»
«Già.»
sospirò Lee. «Speriamo in bene.» Rimase pensoso per un paio di secondi, poi
fece un mezzo sorriso. «Grazie, Bridge. Sei sempre gentilissima.»
«D-di
nulla!»
Mentre
la ragazza alzava frettolosamente la cornetta per annunciarli, Lee passò
davanti a Kim e le rivolse la mano aperta. Lei gli diede il cinque con un
sorrisetto. «Demonio.»
«Mi
disegnano così.» le strizzò l’occhio. «...N, mi dici che ci trovi di tanto
interessante in quei post-it?»
Il
ragazzo sobbalzò e fece cadere il blocchetto che aveva tra le mani. «Li- li
stavo solo guardando, giuro!»
«Attento,
potrebbero arrestarti.» ridacchiò Lee. «Beh, fai il bravo mentre mamma e papà
vanno a parlare di cose da grandi.»
«Se
non fai danni, ti compreremo dei post-it.» aggiunse Kim, divertita.
N
gonfiò le guance. «Io non faccio mai danni.»
«Ehm...»
Brigida richiamò timidamente la loro attenzione. «Ho avvisato il signor Rafan.
Potete prendere l’ascensore diretto per scendere da lui.»
Kim
si rigirò nuovamente il pokéfaluto tra le dita. «Se dobbiamo proprio andare a
morire, almeno andiamoci a testa alta.» dichiarò, con decisione.
Però,
appena la piattaforma di metallo che la gente di Libecciopoli chiamava
impropriamente “ascensore” iniziò la sua discesa, sentì un brivido risalirle la
schiena. «Dovevi lasciarmi portare lo sfollagente.» mormorò, stringendo il
pokéflauto.
Lee
le mise una mano sulla testa. «Se ti arrestassero, per me sarebbe un problema.»
A
Kim sfuggì un sorriso triste. «Fammi indovinare, perché non potrei pagare
l’affitto?»
«Giusto,
sì.»
Incredibile
come la loro solita battuta fosse diventata d’un tratto così deprimente.
L’ascensore
si fermò.
Il
fondo della palestra assomigliava a quello di una qualsiasi miniera durante lo
svolgimento degli scavi: nessuna pavimentazione se non la roccia naturale, polvere
e detriti ovunque, operai al lavoro. L’unica nota stonata era l’imponente
poltrona di pelle posta al centro esatto della grotta, su cui troneggiava un
uomo corpulento, con un cappello da cowboy in testa e l’aria imbronciata di chi
vuole tornare al più presto nella sua vasca da bagno piena di banconote.
Kim
si strinse nelle spalle, già sulla difensiva. Lasciò che fosse Lee a parlare
per primo.
«Buongiorno,
Rafan.» disse lui, con evidente tensione nella voce.
L’uomo
alzò lo sguardo dai fogli che aveva in mano. Sembrava già piuttosto irritato.
«Ah, siete voi.» disse, come se Brigida non avesse passato quasi un minuto al
telefono per dirgli che sì, erano gli inquilini del Cottage Vittoria, e no, non
sapeva di cosa volessero parlare esattamente, però sì, li avrebbe fatti
scendere immediatamente da lui. «Lasciate che ve lo dica subito: no, non
ritirerò l’ordine di sfratto.»
Kim
si era promessa di stare calma. Di ricorrere alla violenza solo se si fosse
rivelato strettamente necessario. Ma quell’uomo le stava già dando sui nervi.
Lee
dovette notare la sua inquietudine, perché le mise una mano sulla spalla e la
strinse leggermente. «Ne possiamo parlare.» disse, deciso.
«Non
c’è più spazio per le contrattazioni, solo sei mesi di affitto che mi dovete.»
Lee
si prese qualche secondo prima di replicare. Aveva preparato le sue
argomentazioni con cura, ma sapeva di non potersi permettere di sbagliare.
«Possiamo pagarti subito un mese. E gli altri arriveranno.»
L’uomo
alzò un sopracciglio. «Non basta. Nulla mi garantisce che ne sarete in grado;
ve ne chiedo almeno cinque.»
«Possiamo
pagartene al massimo due.»
«Meno
di quattro non avrebbero senso.»
Lee
strinse i pugni. «Ti giuro che te li pagheremo, ci serve solo un po’ di tempo!»
Rafan
rise. Kim non aveva mai sentito una risata tanto odiosa, e di allenatori
supponenti e pieni di sé ne aveva incontrati parecchi. «Avanti, Leeroy, non
prendiamoci in giro. Siamo tutte personcine adulte qui, o sbaglio?» Si alzò in
piedi, tirò fuori un sigaro e lo accese con la massima tranquillità. «Abbiamo
fatto questo discorso parecchie volte, e vi sono sempre venuto incontro.»
«Questo
lo so, ma se solo-»
«Il
tempo dei giochi è finito.» tagliò corto Rafan. «Sapevo fin dall’inizio che non
mi sarei dovuto mettere in affari con dei mocciosi. Se avete qualcosa da
ridire, andate pure a piangere dalla mamma.»
Kim
sentì qualcosa scattare. Prima di rendersene conto, era a pochi centimetri da
Rafan, che la guardava dall’alto in basso con aria di sfida.
«Stammi
bene a sentire, stupido cowboy tarchiato.» ringhiò, con una voglia tremenda di
mettergli le mani addosso. «Da quando siamo diventati allenatori, abbiamo fatto
più lavoretti sporchi per te che non per tutto il resto di Unima messo
insieme.»
Rafan
le soffiò in faccia uno sbuffo di fumo. «Ma davvero.» Kim sentì gli occhi
bruciare, ma il suo sguardo non vacillò.
«Sì,
davvero. E non mi costerebbe nulla
andare a raccontare a Camelia che fine hanno fatto le mutandine a strisce che
ha “perso” due settimane fa.»
Per
la prima volta dall’inizio di quella conversazione, Rafan parve finalmente
sorpreso. Forse perfino scosso. Si ritrasse di un passo e aspirò dal sigaro.
«Non avete prove.» borbottò, mordicchiandolo.
«E
credi che un sospetto non le basterebbe a tagliare definitivamente i ponti?»
sorrise Kim, spavalda. «Probabilmente non aspetta altro. Le cose tra voi non
vanno molto bene, ultimamente... o sbaglio?»
Rafan
prese un profondo respiro, dilatando le grosse narici. Evidentemente la
faccenda gli stava dando da pensare.
«In
fondo non ti stiamo chiedendo di darci la casa gratis.» disse Lee, tornando
accanto a Kim. «Vogliamo solo un po’ di... elasticità da parte tua. Non sembra
irragionevole, no?»
Il
capopalestra non rispose. Prese due boccate dal suo sigaro, espirò il fumo
lentamente. «No.» disse infine, deciso. «La questione è già chiusa. Non ho
intenzione di perdere altro tempo.»
«Oh,
ma insomma!» esclamò Kim, esasperata. «Siamo appena stati ri-nominati “Eroi di
Unima”, cosa che ci ha portato più oneri e doveri che diritti; possibile che
non conti nulla?»
L’uomo
storse il naso. «Il vostro titolo di Eroi è ciò che vi ha concesso di evitare
lo sfratto per sei mesi. Non venite a chiedere trattamenti di favore quando
tutta la Regione gira già intorno a voi.»
«Intorno a noi?» Kim strinse il
pokéflauto tra le mani, più che decisa a farne uso. «Ma ti ascolti quando
parli, razza di-»
Lee
la prese per un braccio e scosse la testa. Le stava dicendo di non andare
oltre. Che era una battaglia persa. Kim si voltò verso di lui, ancora restia a
rassegnarsi.
«È
casa nostra.» disse piano. Tutta la
tristezza che non aveva espresso da quando aveva preso in mano la lettera di
sfratto era concentrata in quelle parole.
Lee
le sorrise, senza allegria. «Lo so. Piaceva molto anche a me.»
♪If it hadn’t been for cotton-eye Joe, I’d been married
long time ago, where did you come from, where did you go, where did you come
from cott-beep.
«Pronto?»
Rafan rispose al telefono, ancora accigliato. «Frena la lingua, Brigida, non
capisco niente. Cosa? Non è possibile, è la terza volta questo mese! Sono
davvero persistenti. Certo, è ovvio che qualcuno deve fermarli. Piantala di
piagnucolare, Brigida, sto pensando.»
Kim
arricciò le labbra. Per qualche motivo, aveva l’impressione di sapere che cosa
stava succedendo all’altro capo del telefono. «La senti, Lee?» chiese,
inquieta.
«Che
cosa?»
«Quest’asfissiante
puzza di guai.»
Rafan
stava stringendo il telefono come se avesse voluto distruggerne ogni singolo
circuito, ma il suo tono era stranamente calmo. «Il Campione, dici? Ma loro
dovrebbero... no, certo. Sì, è la cosa più logica da fare. Grazie, Brigida,
richiamalo e digli che farò come ha consigliato.»
Nel
momento in cui Rafan chiuse la telefonata, Kim batté insieme le mani. «Aaaah,
come si è fatto tardi!» esclamò. «Dobbiamo trovarci un altro posto dove vivere,
quindi credo proprio che sia ora di and-»
«Fermi dove siete.»
Kim
deglutì a vuoto. Ecco, erano fregati.
«Ho
una proposta da farvi.» disse Rafan stancamente, stropicciandosi gli occhi con
una mano. «Posso darvi una piccola proroga per il pagamento dell’affitto. A
patto che risolviate il mio problema.»
«Che
tipo... di problema?» chiese Lee, cauto.
«Uno
di quelli a cui siete abituati.»
Kim
e Lee si guardarono. Nessuno dei due aveva la minima voglia di farsi incastrare
in uno dei soliti lavori che nessun altro a Unima voleva o era in grado di
fare. Allo stesso tempo, nessuno dei due voleva ritrovarsi senza un tetto sopra
la testa.
Tyranitar
si fece strada a passi pesanti su Levantopoli, travolse senza alcuna esitazione
il laboratorio di Dama Munna, ridusse la Scuola per Allenatori in un cumulo di macerie.
Dulcis in fundo, ignorò le urla disperate di Spighetto, Chicco e Maisello
mentre faceva a pezzi, mattone dopo mattone, la loro amata Palestra.
Una
nera colonna di fumo saliva da ciò che un tempo era stato il Centro Pokémon; le
fiamme divampavano in ogni angolo della città.
«Room, boom, kaboom!» disse Kim, sottovoce. Fece
avanzare il modellino sulla cartina 1:25.000 di Unima e immaginò anche il
Percorso 3 travolto da quell'ondata di distruzione.
Tutto
stava andando secondo i piani di Tyranitar: presto di Unima non sarebbe rimasta
traccia. Chi avrebbe potuto fermarlo, d’altronde? Nardo era già scappato verso
l’Oriente, i Capipalestra si erano dimostrati inutili come al solito e gli
Eroi... beh, loro avevano sicuramente di meglio da fare.
Ma
ecco spuntare dal Bosco Girandola un temibile avversario: la Pure Metal Special
Limited Precious Edition di Pachirisu Shiny! Tyranitar arrestò la sua avanzata,
colto dal più cieco terrore.
«Pachi-pachi-paaaaaa!»
squittì Kim, agitando il piccolo scoiattolo elettrico nella mano destra.
Tyranitar cadde steso su Zefiropoli, sconfitto in un sol colpo.
«Kim,
non solo non mi sei d'aiuto: sei controproducente.» si lamentò Lee, indicandola
col pennarello rosso che aveva in mano. Era seduto a terra accanto alla
cartina, che occupava buona parte del pavimento del soggiorno. «Puoi evitare di
sdraiarti su Sciroccopoli? È uno dei punti focali dell'indagine.»
Kim
gonfiò le guance. «Che noia che sei.» sbuffò, rotolando su un fianco per
spostarsi sulla zona boschiva sotto a Libecciopoli. «Non posso uscire, non
posso allenare Porchetta in casa, non posso guardare la TV... e ora non posso
nemmeno giocare un po' per svagarmi!»
«Scusa
se sto cercando di evitare lo sfratto e vorrei che tu non ti uccidessi nel
frattempo.» Lee si allungò sulla mappa per cerchiare di rosso Torre Cielo e
scriverci accanto un grosso punto di domanda. «Per una volta non potresti, che
ne so, startene tranquilla a leggere un libro?»
«I
libri che abbiamo in casa li conosco a memoria. Gli unici che non ho letto sono
i romanzetti rosa che tieni in fondo all'armadio.»
«Oppure
dormire. Perché non vai a dormire, Kim?»
«Perché
è quello che stavo facendo fino a mezz'ora fa.»
Lee
sospirò, lo sguardo ancora fermo sulla cartina. Si grattò la testa, sospirò di
nuovo, prese il fascicolo di fogli che aveva accanto e ne girò alcuni; anche
quelli erano sottolineati ed evidenziati in vari punti, come il libro di testo
di uno studente annoiato.
Kim
fece leva sul braccio per raddrizzarsi. Sbadigliò. Dire che si era ripresa del
tutto dagli effetti del sedativo da elefanti che le aveva dato Zania sarebbe
stata una bugia: aveva dormito per quattordici ore filate e si sentiva ancora
stanca, come se quelle ore le avesse passate a correre.
Scorse
la cartina con lo sguardo, leggendo distrattamente ciò che Lee ci aveva
scribacchiato sopra: "Iperpozioni x15", "notte", "3,
7, 12", "Revitaliz. Max x20", "perché?"... Per quanto
la riguardava potevano anche essere parole messe a caso, non sarebbe comunque
riuscita a comprendere la logica che le legava.
«Certo
che ne hanno rubate, di Iperpozioni.» buttò lì. Schioccò il collo da una parte
e dall'altra, sperando di costringere il suo corpo a svegliarsi.
«Molte
più Ultraball, in realtà.» disse Lee, quasi sovrappensiero. Finì di scrivere
sulla pagina del fascicolo su cui era concentrato e lo lasciò cadere, insieme
alle sue spalle. Sospirò. «Non ha davvero senso. Quasi un anno di completa
inattività, gli unici a farsi vedere ancora in giro erano quelli del Fan Club
di N, e ora ricompaiono per... rubare nei Pokémon Market?»
Kim
alzò le spalle. «Magari si annoiano. È plausibile, ad Unima non succede mai
nulla.»
«Hanno
qualcosa in mente. Richiamare l'attenzione su di sé in questo modo è troppo
stupido anche per loro, deve esserci un motivo.» Lee si rigirò il pennarello
tra le mani. Sfilò appena il cappuccio con il pollice, lo rimise a posto, lo
sfilò di nuovo. Sospirò. Se l’avesse fatto un’altra volta, qualcuno avrebbe
bussato alla porta per chiedere di piantare in giardino un cartello: “Valle dei
Sospiri”. «Se il loro vero obiettivo fosse ottenere un certo tipo di oggetti, li
ruberebbero in blocco. Svuoterebbero i Grandi Magazzini, non farebbero il giro
dei Pokémon Market di Unima.» Si sporse nuovamente sulla cartina ed indicò
alcune città col pennarello. «Mistralopoli, Ponentopoli, perfino Spiraria...
Tutti questi spostamenti sono un inutile spreco di tempo ed energie. In più,
fanno sempre lo stesso giro, come se non si preoccupassero di venire
catturati.»
Kim
si coprì la bocca con la mano, mentre un altro sbadiglio le allargava la cassa
toracica. «Non sarà proprio questo, allora?»
«Che
cosa?»
«Il
motivo.»
Lee
inarcò un sopracciglio, stranito. Probabilmente si stava chiedendo quale misterioso
effetto avesse avuto su di lei il connubio tra sedativo ed antidolorifici.
«Voglio
dire.» spiegò Kim, chinandosi anche lei sulla cartina. «La cosa è molto più
semplice di quello che sembra: se pensi che i furti non abbiano senso, allora
non ce l'hanno. Ma se invece i loro movimenti seguono una qualche sorta di
schema,» fece scorrere l'indice da Libecciopoli a Sciroccopoli, «è quella la
strada che devi seguire. Chi se ne frega delle loro motivazioni per fare questo
o quello? Il nostro compito è catturarli.»
Lee
rimase a fissarla per qualche secondo, come se si fosse incantato.
«Catturarli...» ripeté a fior di labbra. «Se fossero ladri normali non
vorrebbero farsi catturare... eppure...» spostò lo sguardo sulla mappa, da una
città all’altra. Aprì la bocca, la richiuse, morse il cappuccio del pennarello.
Se il suo cervello fosse stato una macchina, di sicuro in quel momento lo si
sarebbe sentito ronzare. «È una trappola.» disse, spalancando gli occhi. Lasciò
cadere a terra il pennarello, si alzò in piedi e guardò la cartina come se
avesse scoperto che si trattava di quella di Hoenn anziché di Unima. «Ma certo,
ma certo, come ho fatto a non arrivarci prima? Che idiota.»
Senza
aggiungere altro, si fiondò in camera sua.
Kim
sbatté le palpebre un paio di volte. «Eh?»
Qualcuno si è divertito
a fare casino con gli ingranaggi del mondo. pensò. Ormai niente funziona più come dovrebbe,
nemmeno le persone.
Lasciò
Pachirisu e Tyranitar nei pressi di Zefiropoli e seguì Lee in camera, dove lo
trovò intento a stipare magliette in un borsone da viaggio.
«Che
stai facendo?» chiese, allibita.
Lee
non si disturbò nemmeno a guardarla, troppo impegnato a decidere tra una polo
azzurra e una camicia. Vinse la polo. «Non vedi? Faccio i bagagli.» mise alcune
felpe nella borsa e le schiacciò con le mani in modo che ci entrassero. «E
adesso vai a scegliere i tuoi vestiti preferiti e lo fai anche tu, da brava.»
«Ba...»
Kim rimase qualche secondo a bocca aperta, incerta se chiedere spiegazioni o
cercare la cinepresa di Candid Camera tra i libri sulle mensole. «Bagagli,
bagagli per dove, perché?»
«Dobbiamo
andarcene, e possibilmente prima che torni N.» dichiarò Lee, continuando a fare
avanti e indietro tra l’armadio e il letto, su cui aveva appoggiato il borsone.
«Non ho voglia di dovermi liberare di lui, farà un sacco di storie.»
«Ma
che...?»
Kim
sentiva il cuore batterle forte in gola. Fino ad un minuto prima Lee stava
lavorando per fare in modo che non venissero sbattuti fuori da quella casa, e
ora voleva andarsene? Che storia era?
Confusa,
seguì con gli occhi il frenetico andirivieni dell’amico.
Tre
paia di jeans a caso, via nella borsa. Il pigiama verde e quello con il motivo
ad Oshawott che gli aveva regalato sua madre, via nella borsa. I calzoncini da
ginnastica, la maglietta con la scritta consumata “PkMn Trainer”...
Amava
quella casa almeno quanto lei. Non l’avrebbe mai lasciata così, non era da lui.
Lee
aprì un cassetto e prese tra le braccia più calzini che riuscì, pronto a
rovesciare anche quelli nella borsa quasi piena.
Era
la loro vita. Avevano appena concordato di continuare a viverla come avevano
sempre fatto. Non gliel’avrebbe lasciato rimangiare.
«Frena
frena frena, mettiti in standby per un secondo.» Kim
si frappose tra Lee e il borsone. Al suo tentativo di girarle comunque intorno,
gli prese il viso tra le mani. «Spiegami.» ordinò, perentoria.
I
calzini rotolarono a terra con dei tonfi leggeri.
Lee
la guardò negli occhi, strinse le labbra. Le prese le mani e le tenne tra le
sue per alcuni secondi, prima di lasciarle. «Kim, cerca di seguirmi, ti prego.»
Aveva uno sguardo cupo, preoccupato, stanco.
«Ormai non ci sono dubbi: qualcuno sta cercando di ucciderci.»
Kim
aveva già raccolto nei polmoni l’aria necessaria a rispondere, ma la lasciò
andare d’un fiato. Corrugò la fronte. «Come?»
«Se
c’e una cosa che ho imparato bene e a mie spese, è che quando troppe
coincidenze accadono tutte insieme vuol dire che non sonoaffatto coincidenze.»
disse Lee, chinandosi a raccogliere i calzini. «Pensaci: l’attacco dei Vullaby,
Zania che ci mente, il Rotom, e adesso il Team Plasma che saccheggia
allegramente Unima come a dire: “Venite a prenderci, non stiamo assolutamente
tramando qualcosa!”.» scosse la testa, si rialzò e lasciò cadere le calze nel
borsone. «È tutto collegato. Anche se sembrano eventi isolati, c’è qualcuno che
tira i fili; qualcuno che vuole liberarsi di noi.»
Quello
che stava dicendo Lee aveva senso. Beh, quasi tutto.
«Ed
è questa la tua soluzione, scappare via?»
«È
l’unica cosa che ci resta da fare. Possiamo accamparci nella foresta a
sud-ovest per qualche settimana, finché le acque non si saranno calmate.»
spiegò Lee, prendendo un altro paio di magliette dal letto per infilarle nella
borsa. Sorrideva, eppure Kim non trovò in quel sorriso la minima
rassicurazione. «Certo, sarà un po’ scomodo, ma ce la caveremo. Basterà-»
Ne
aveva abbastanza. Tutto quel blaterare era andato fuori tempo massimo.
«Leeroy
McFaid.» disse, prendendolo per il collo della maglietta. «Da quando sei
diventato un tale smidollato?»
Lui
rimase a fissarla con lo sguardo di un baccalà che osserva la rete da pesca
avvicinarsi: disorientato e vagamente stupido.
«Il
Lee che conosco io» continuò Kim, tagliente, «non direbbe mai che scappare dai
problemi è una maniera di risolverli. E sai perché?» lo lasciò andare, senza
però smettere di guardarlo negli occhi. «Perché è stato lui ad insegnarmelo.»
Lei
era sempre scappata dai problemi. Lei preferiva
raggomitolarsi in un angolo, piuttosto che affrontare ciò di cui aveva paura. Lei e sempre lei. Per questo Lee
esisteva: per ripeterle che ce l’avrebbe fatta, per assicurarle che le avrebbe
coperto le spalle, per prometterle che se un problema fosse stato davvero
troppo grande per lei, allora beh, l’avrebbero risolto insieme.
«D’accordo,
forse qualcuno sta cercando di farci fuori. E quindi?» disse, convinta. «Noi
siamo forti. Abbiamo fatto il giro di Unima partendo da casa con due soldi,
abbiamo battuto la Lega, abbiamo salvato
il mondo, accidenti...» sorrise. «Non ci chiamano Eroi per nulla, sai.»
Lee
si morse un labbro. «Sì, ma metti...» la prese per le spalle, stringendola come
se vi si stesse aggrappando per non cadere. «Metti che contro due eroi mandino
un esercito. Che faremmo in quel caso?»
«Un
esercito di quanti? Fino a un centinaio penso che-»
«Non
siamo onnipotenti, Kim.» Negli occhi di Lee c’era la preoccupazione di chi
conosce bene la forza della tempesta in arrivo e sa altrettanto bene cosa
rischia di perdere. «Non m’interessa se finirò per farmi male. Ma se andiamo
avanti per questa strada, non so per quanto ancora sarò in grado di...»
Kim
lo abbracciò. Strinse le braccia intorno a lui e spinse la fronte contro il suo
petto, impedendogli di dire un’altra parola. Sapeva dove voleva arrivare, e
quel discorso non le piaceva affatto.
«Dove
sono?» chiese, di punto in bianco.
«Eh?»
«Io.
Dove sono.»
«Beh,
così è troppo facile. Sei qui davanti a me.»
«E
come fai a dirlo?»
Lee
ridacchiò. «Ti vedo.»
«Banaaale.»
«Uhm...»
Lee sembrò rifletterci su per qualche secondo. Di solito era molto bravo a capire
che cosa voleva da lui, e infatti le mise una mano sulla testa. «Tanto per
cominciare, sei bassa come Kim.»
«Ehi!»
«Permalosa
come lei...» continuò, alzandole il mento con la mano. «...e, sì, con lo stesso
identico broncio.»
Kim
arricciò le labbra. «Te l’hanno mai detto che sei proprio antipatico?»
Lee
sorrise, per nulla toccato. «Hai i suoi stessi capelli, che non vedono un
parrucchiere da più di tre anni...» disse, guadagnandosi un’altra occhiataccia,
«le sue stesse guancette morbide, che non fa altro che gonfiare,» ne sfiorò una
con le nocche, «e per finire, direi che pesi proprio quanto lei!» concluse,
sollevandola per i fianchi. Kim sentì il fiato mancarle per un secondo, mentre
delle familiari vertigini le assalivano lo stomaco. Si aggrappò al collo di Lee
con un breve strillo, pregando di non cadere. Lui si sbilanciò – probabilmente
più per farle credere di essere pesante che per effettiva mancanza di
equilibrio – e finì seduto sul letto.
«Fiu...»
disse, sorridendo. «Eccome se pesi come
Kim, forse anche un paio di chili in più.»
Lei
gli strinse nuovamente il collo, questa volta con l’intento di fargli male.
«Beh,» disse, per riportare il discorso sul binario che le interessava, «direi
che abbiamo appurato che sono qui e sono io.»
Lee
annuì. «Senz’alcun dubbio.»
«Prossima
domanda: ho l’aria di volermene andare?»
«Da
come mi sei appiccicata, direi proprio di no.»
«Oh,
quindi sei un ragazzo perspicace.» rise Kim. «Ultima domanda. Non è facile,
quindi pensaci attentamente prima di rispondere.» appoggiò il mento alla sua
spalla. «Che cosa si può mettere tra me ed il posto in cui voglio stare?»
«Niente.»
Lee rispose senza la minima esitazione, come se avesse avuto la risposta sulla
punta della lingua prima ancora di sentire la domanda. La strinse piano a sé.
«E va bene, hai vinto. Restiamo.»
«Evviva!»
esclamò Kim, rischiando di strozzarlo.
«Ma
devi promettermi una cosa.» Lee la prese per le spalle e l’allontanò un poco,
per guardarla in faccia. «Okay?»
Kim
intrecciò le dita dietro al suo collo, restia a lasciarlo andare così presto. «Ti
ascolto.» sorrise.
Lo
sguardo di Lee era mortalmente serio. «Promettimi di non dirlo più.»
«Che
cosa?»
«“Io
sono io”.»
Il
sorriso di Kim vacillò. Quindi era quella la questione. Gira che ti rigira, era
sempre quella.
Deglutì.
«Lo...
lo prometto.» lo lasciò andare e si alzò in piedi in fretta, quasi rischiando
di cadere nel processo. Si ridipinse il sorriso in volto. «Quindi, dove si va a
combattere il Male stavolta?»
Lee
ricambiò il sorriso. La preoccupazione non aveva lasciato il suo volto, ma
sembrava un po’ più rilassato. «Si va al mare.»