The Holiday

di MeMedesima
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - 18 dicembre ***
Capitolo 2: *** 19 dicembre - 20 dicembre ***
Capitolo 3: *** 21 dicembre - 22 dicembre ***
Capitolo 4: *** 23 dicembre - 24 dicembre ***
Capitolo 5: *** 25 dicembre ***
Capitolo 6: *** 26 dicembre - 27 dicembre ***
Capitolo 7: *** 28 dicembre ***
Capitolo 8: *** 29 dicembre ***
Capitolo 9: *** 31 dicembre ***
Capitolo 10: *** 1 gennaio, 31 dicembre ***



Capitolo 1
*** Prologo - 18 dicembre ***


The Holiday

 

18 dicembre 2017, Upper West Side, New York

 

Rachel Berry aprì la porta del suo appartamento con un sospiro di sollievo. Casa dolce casa.

«Tesoro?», esclamò mentre poggiava le chiavi di casa in un piccolo svuota tasche. «Sono a ca-». Le parole le morirono in gola quando svoltò l’angolo e si trovò di fronte il suo attuale ragazzo stravaccato sul divano. Nudo. Insieme ad una persona che non era lei.

«È uno scherzo vero?», riuscì a mormorare, un misto di rabbia e nausea che iniziava a salirle alla bocca dello stomaco.

«Ra-rachel». Lo sfortunato si puntellò sui gomiti, un’espressione estremamente colpevole sul volto. «Tesoro, non è come se-».

«Non provarci nemmeno, Jessie», sibilò Rachel, grondando veleno. «Non provare nemmeno a farmi credere che tu non sia appena andato a letto con una delle mie comparse, o ti sbatterò fuori di qui senza lasciarti nemmeno la cortesia di rivestirti».

Jessie impallidì vistosamente di fronte alla furia di Rachel – l’aveva provata su di sé svariate volte e sapeva che quando la ragazza si arrabbiava la situazione diventava dannatamente seria.

«Ma visto che sono buona ti darò due minuti per metterti addosso qualcosa e altri cinque per fare le valigie. Dopodiché ti voglio fuori da casa mia. In quanto a te», si girò verso l’altro occupante del divano, che fino a quel momento era stato immobile, un’espressione assolutamente terrorizzata sul volto. Strinse gli occhi nella sua direzione. L’aveva notato di sfuggita alle prove del giorno prima, quando Tina l’aveva chiamato per prendere le misure del suo costume. Brad… no, Brody.

«Sei licenziato. Vattene più in fretta che puoi e considererò di non rovinare per sempre la tua carriera, ci siamo capiti?».

Brody annuì, recuperando i suoi vestiti a velocità record e uscendo dall’appartamento ancora senza maglietta.

«Non c’era bisogno di essere così crudele, Rachel. Non conduci tu lo spettacolo e-».

«Tic toc, Jessie», replicò lei nel tono freddo che usava esclusivamente per interpretare Madame Giry.

«Dai Rachel, fai sul serio?», sbottò il ragazzo in tono esasperato, per poi dileguarsi in camera quando Rachel si tolse una delle scarpe che aveva addosso e fece per tirargliela dietro.

La ragazza sospirò scoraggiata, rimettendosi la scarpa. Credere che avrebbe lanciato per aria una Louboutin tacco dodici? Sul serio?

“Ma d’altronde Jessie non mi ha mai conosciuta davvero”, considerò fra sé e sé mentre strappava le federe del divano e dei cuscini e le buttava fuori dalla porta. “Usciamo - uscivamo insieme solo per la pubblicità e per il sesso fantastico, e questo è tutto. Non si è mai preso il disturbo di conoscermi, figurarsi poi di innamorarsi di me”. Smise per un attimo di scaraventare i vinili di Jessie sul pavimento – a pensarci bene forse si sarebbe tenuta Il Mago di Oz, era originale.

“Sarà per questo che fa così poco male? Perché non era amore?”, considerò fra sé e sé.

Rachel Berry non poteva saperlo, visto che non era mai stata innamorata. Dalla tenera età di diciassette anni, cioè da quando aveva debuttato a Broadway come una giovanissima Anita in West Side Story, aveva incontrato esclusivamente ragazzi egocentrici, competitivi in modo malsano o interessati solo alla pubblicità che forniva il suo nome. O gay. 

Jessie riapparve sulla soglia della camera, strabuzzando gli occhi alla vista dei suoi dischi in quelle misere condizioni. Aprì la bocca come per protestare, ma alla fine scelse di tacere e scuotere leggermente la testa, dirigendosi verso l’uscita.

Aveva indossato una t-shirt ed un maglione – scelta saggia visto che Rachel aveva già buttato la sua camicia nella spazzatura - ed aveva in spalla un borsone leggero.

«Passerò a prendere il resto delle mie cose mentre non ci sei. Ho gli orari delle tue prove in agenda», borbottò mentre apriva la porta.

«Come sei organizzato, Jessie. Mi dispiace di aver interrotto tu ed il tuo amichetto tornando un’ora prima!», ribatté Rachel sarcastica.

Jessie si girò, sbuffando di esasperazione. «Sai, Rachel, se non fossi una tale arpia-».

«Io un’arpia! Jessie, ti ho appena trovato sul nostro divano con un UOMO, diavolo!», sbraitò lei avvicinandosi pericolosamente al ragazzo. «Come dovevo reagire? Offrendovi un the?!».

«Prima di tutto, ti ho avvertito fin da quando ci siamo conosciuti che ero bi-curioso». Rachel considerò seriamente di usare la statuetta del proprio Tony per colpirlo in testa. «Secondo, non mi riferivo a quello. Non mi infastidisce il tuo comportamento di oggi, Rachel, ma quello di tutti gli altri giorni. Sei fredda. Distaccata. Dopo otto mesi di relazione non ti conosco. Non mi lasci entrare nella tua corazza, non mi lasci nemmeno provare, diamine!».

«Forse perché non ti amo», sibilò lei di rimando. Jessie rise amaramente.

«Forse potresti, se non fossi prevenuta nei confronti di tutti gli uomini di New York! Per te siamo tutti stronzi che aspettano solo di spezzarti il cuore, ma se tu provassi ad aprirti con qualcuno, se ti levassi quel cartello “Vai a farti fottere” dalla fronte-».

«Jessie, ti avverto!».

«-forse saresti capace di amare, invece di costringere tutti ad odiarti-».

La ragazza gli sbatté la porta in faccia. Letteralmente: poteva sentire i gemiti di dolore attraverso i muri sottili e le strilla di Jessie a proposito del suo naso. Scalciò via le scarpe e corse in camera, dove si buttò sul suo letto, coprendosi la faccia con il cuscino.  Non voleva più sentire la voce di Jessie.

Soprattutto, non voleva sentirgli pronunciare ad alta voce gli stessi dubbi che la affliggevano ogni giorno: che non meritava né amore, né affetto, né relazioni.

Strinse i denti e premette il viso contro il copriletto, sforzandosi di non piangere.

 

Un’ora dopo aveva fatto una doccia bollente e si era spalmata una maschera all’avocado sui capelli, avvolta nel suo asciugamano più morbido e più caldo. Fece un sospiro e poi decise di prendere un barattolo di Nutella dalla credenza – la sua agente l’avrebbe uccisa se avesse saputo che teneva una cosa del genere in casa, ma tutti hanno bisogno di cioccolato prima o poi.

Piazzò il suo laptop sul tavolo della cucina, affondando un cucchiaino nella Nutella mentre aspettava che si accendesse.

Doveva staccare la spina. Andarsene da New York per qualche giorno.

Amava Broadway, e amava il suo lavoro di attrice, ma quel mondo era a dir poco sfiancante.

Si era sempre ripetuta che era inevitabile che un mondo di attori fosse pieno di falsità e finzione, ma non aveva mai creduto di trovarne così tanta. La maggior parte degli individui che aveva incontrato nei suoi sette anni di carriera le facevano venire voglia di vomitare. Solo l’amore per il suo lavoro la teneva sana di mente in quel covo di pazzia.

Tamburellò le dita sulla tastiera.

Aveva bisogno di un posto isolato, ma non troppo; rilassante ma non noioso, e soprattutto dove non rischiasse di incontrare nessuno che potesse conoscere. Aprì Google Maps e diede un’occhiata pensierosa alla carina degli Stati Uniti.

Gli stati confinanti con New York erano esclusi a priori, e certo non poteva andare in California, né in Florida, troppo rischiose… Lasciò vagare lo sguardo sulla cartina per qualche secondo prima di avere un’illuminazione.

Ma certo, Ohio! Chi andava in Ohio?

Avviò velocemente una ricerca su Apartments.com cercando appartamenti disponibili per essere affittati nel periodo di Natale. Storse il naso. Erano quasi tutti occupati… A parte…

Cliccò su uno dei link che lampeggiava “Disponibile” in verde acido sopra una piccola fotografia.

«“Prairie Oaks Cottage”», lesse ad alta voce dalla descrizione che ne dava il sito. «“Una tradizionale casa di campagna immersa nella tranquillità del parco di Prairie Oaks e nell’incantevole quartiere di Prairie Oaks”», si interruppe per alzare un sopracciglio. «Beh, di certo l’originalità non è il loro forte. “A soli dieci minuti di cammino dal sentiero dei laghi e a trenta minuti dal centro di Columbus”».

Si rilassò contro lo schienale della sedia. Cosa c’era di meglio di una casa in campagna per rilassarsi e staccare la spina? Cliccò sul profilo dell’utente, un certo k-hummel, e scrisse velocemente un messaggio.

Sarei interessata ad affittare la casa di Prairie Oaks per il periodo di Natale. Spero sia disponibile. Potrebbe contattarmi al più presto?

Quando premette invio fu come se un peso le si fosse sollevato dal petto.

Fece partire una delle sue playlist preferite e volteggiò verso la camera da letto per cambiarsi.

 

18 dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio

 

Kurt Hummel aprì la porta del cottage di Prairie Oaks sospirando di sollievo.

«Casa dolce casa», commentò, rivolto al silenzio.

Appese il cappotto ad un gancio sul retro della porta e posò la borsa su di un tavolino prima di affrettarsi ad accendere il riscaldamento centralizzato. L’inverno era rigido in Ohio, e dentro quella casa si gelava.

Era stata una buona scelta, decidere di trasferirsi nel cottage durante le vacanze di Natale, rifletté fra sé e sé.  Adorava Finn, il suo fratellastro e attuale coinquilino, ma condividere una casa con lui dal venti dicembre in poi era come convivere con un cucciolo iperattivo: era talmente felice che fosse finalmente Natale che voleva assolutamente coinvolgere il fratello nei suoi festeggiamenti, e ora come ora Kurt non era dell’umore giusto per assecondarlo.

Le prove erano state sfiancanti e la sua ultima audizione non sarebbe potuta andare peggio. Aveva bisogno di calma e solitudine.

Beh, forse non sarebbe stato esattamente solo, si corresse, mentre recuperava l’iPhone dalla tasca della tracolla e lo accedeva. Subito un avviso gli segnalò che c’erano due messaggi nella segreteria telefonica.

Si buttò sul divano mentre metteva il telefono in vivavoce e attendeva.

Clic. «Ehi ragazzino, come stai?». Kurt sorrise fra sé e sé, mentre la voce allegra di suo padre riempiva il silenzio del salotto. «Nassau è stupenda, e Carole continua a dire che vi è debitrice a vita per questa vacanza. Fallo sapere anche a Finn per favore, non sono sicuro che abbia capito bene come funziona la segreteria telefonica».

Kurt alzò gli occhi. “Tipico di Finn”, pensò, continuando ad ascoltare il messaggio di suo padre.

«Comunque, volevo solo farti sapere che va tutto bene. Il clima è fantastico – sì, ci stiamo mettendo la protezione solare, non provare nemmeno a ricordarmelo. Siamo solo dispiaciuti di non poter essere con voi, ma ovviamente saremmo stati stupidi a rifiutare un regalo del genere, vero tesoro?... Come? Ah, Carole dice che quando tornerà a casa farà a Finn una pila di pancakes al cioccolato alta quanto lui come ringraziamento. Il che è tutto dire, non credi?». Kurt chiuse gli occhi, ascoltandola risata burbera di suo padre.

«Beh, Kurt, questo è tutto. Ci mancate moltissimo ma ci stiamo divertendo e vi pensiamo molto. Stai attento a non sovraccaricarti di lavoro e passa un buon Natale, ragazzo. Ti voglio bene».

Clic. «Kurt». Il ragazzo strizzò gli occhi riconoscendo la voce. Non era mai un buon segno quando c’era la sua voce in segreteria, significava sempre imprevisti e inoltre faceva tornare in mente vecchi ricordi che avrebbero dovuto essere stati sepolti e dimenticati da un pezzo… «Mi dispiace, credimi, mi dispiace tanto… non riuscirò a venire stasera. I ragazzi del team di football mi hanno chiesto di uscire e- beh, è già qualche volta che gli do buca e potrebbero insospettirsi, sai come sono fatti i-».

Kurt spense il vivavoce e cercò di non lanciare violentemente il telefono contro la parete.

Si rigirò lentamente sulla schiena, premendo una mano sulle labbra.

Era la terza volta quella settimana. La terza volta che Dave gli dava buca per uscire con i suoi amici. Amici che se avessero notato che Dave era più assente del solito avrebbero potuto iniziare a sospettare che avesse una ragazza, e avrebbero scoperto che invece aveva un ragazzo. Perché Dave non aveva ancora fatto coming out.

Kurt si mordicchiò la nocca dell’indice, ripensando a quando, un anno prima, aveva rivisto David Karofsky per la prima volta dopo il liceo.

Era appena uscito dalla lezione di tecnica vocale e stava chiacchierando con alcuni compagni, quando Dave aveva attraversato il corridoio, una felpa con il logo OSU e uno sguardo incerto sul volto.

Kurt era impallidito, ritornando improvvisamente un sedicenne spaventato in uno spogliatoio semibuio. Fosse stato per lui, non avrebbe nemmeno riconosciuto la presenza di Karofsky, ma si dava il caso che il ragazzo si stesse dirigendo proprio verso di lui.

«Kurt?», aveva chiesto in tono incerto. Non aveva risposto, non fidandosi della stabilità della propria voce in quel momento.

«Kurt». Chandler, uno dei primi ragazzi che aveva conosciuto a Columbus, gli aveva poggiato una mano sulla spalla con aria protettiva, lanciando un’occhiata sospettosa a Karofsky. «Tutto okay?».

“Calmati”, si era ripetuto Kurt ignorando entrambi. “Non è né il momento né il luogo per farsi venire un attacco di panico”.

«Kurt, posso parlarti?», aveva insistito Karofsky cercando di incrociare il suo sguardo.

Il ragazzo aveva fatto un respiro profondo. «Io…», la sua voce era uscita più debole di quanto avrebbe voluto.

«Te lo chiedo per favore». Solo a quel punto Kurt aveva alzato gli occhi su David, ed era riuscito a vedere l’espressione triste e piuttosto colpevole che aveva sul viso.

«O-Okay», aveva acconsentito, rassicurando velocemente Chandler e facendo cenno a Karofsky di seguirlo.

Si erano ritrovati seduti davanti ad un caffè, Kurt che ascoltava attonito una valanga di scuse tardive e David che tratteneva a stento le lacrime.

Dopo quella chiacchierata si erano incrociati qualche altra volta all’interno del campus, prima di riuscire a salutarsi e a parlare come persone civili; e ora era da qualche mese che si frequentavano.

Kurt sbuffò ad alta voce. Frequentarsi.

Durante tutto il liceo aveva fantasticato di incontrare qualcuno che non si sarebbe vergognato di chiamarlo il suo ragazzo, che l’avrebbe orgogliosamente tenuto per mano in pubblico… qualcuno che non fosse niente di meno che “out and proud”.

Ma dopo decine di appuntamenti finiti disastrosamente e altrettante avventure di una notte sola che poi mancavano puntualmente di farsi risentire, Kurt aveva iniziato a rassegnarsi all’idea che forse non era destinato ad avere nulla di tutto ciò.

David era gentile, premuroso, e anche se non era quello che Kurt aveva sempre sognato per sé, teneva davvero a lui – e molto probabilmente era il massimo in cui Kurt poteva sperare in amore, visto come si erano concluse le sue esperienze precedenti. 

Accese il laptop, rassegnandosi ad una serata di alimenti poco salutari e solitudine.

Una spia lampeggiante al lato del desktop gli segnalò due nuove e-mail. Cliccò sopra la spia e le aprì, sperando in qualche buona notizia.

Sarei interessata ad affittare la casa di Prairie Oaks per il periodo di Natale. Spero sia disponibile. Potrebbe contattarmi al più presto?

So che è tardi per affittare durante il periodo natalizio, ma la prego di contattarmi se è interessato.

“Beh”, pensò Kurt, asciugandosi gli occhi leggermente umidi. “Questo sì che è tempismo…”.

Diede un’occhiata ai dettagli delle mail. Entrambe erano state spedite all’incirca un’ora prima. Forse…

Sono molto interessato all’offerta, ma a dir la verità questa casa è disponibile solo per il servizio di home exchange. Tu affitti la mia casa ed io la tua. Ci scambiamo macchine, città, tutto per due settimane. Io non l’ho mai fatto ma delle mie conoscenze dicono sia molto divertente.

Premette Invio, pregando qualsiasi forza superiore esistente nell’universo che l’altra persona fosse ancora al computer e che fosse interessata. L’idea di andarsene per due settimane…

Sobbalzò sul divano quando sentì il suono di una nuova mail.

Mi sembra un’idea fantastica! Io abito a New York, nell’Upper West Side. Cosa ne pensi, potrebbe andare bene per te? Mi chiamo Rachel, a proposito.

“New York!”. Kurt aveva perso il conto delle ore che aveva sprecato a fantasticare su quella fantastica città mentre era al liceo. Avrebbe voluto trasferirsi lì per il college, ma purtroppo le rette e l’affitto degli appartamenti erano un costo troppo alto, e Columbus era stato tutto ciò che aveva potuto permettersi.

Mi chiedi se va bene? Ho sempre sognato di vivere a NY. Senza contare che potrei incontrare una certa Miss Bradshaw ed implorarla di fare shopping insieme. Io sono Kurt.

Il messaggio successivo arrivò dopo pochi secondi.

Buona fortuna, è da vent’anni che la cerco e non si è mai fatta vedere! È un piacere conoscerti Kurt. E lasciamelo dire, sei davvero fortunato ad avere un cottage in campagna. Dev’essere un balsamo per i tuoi nervi.

“Tesoro, abiti a New York, diamine”, pensò Kurt scuotendo la testa. “Non la chiamano la città che non dorme mai per niente”.

È molto tranquillo, rispose invece. Allora, Rachel, abbiamo un accordo?

Spedì il messaggio, incrociando le dita.

Prima posso farti una domanda?

Kurt imprecò a bassa voce.

Ma certo.

Ci sono uomini nella tua città?

Il ragazzo rise amaramente, pensando a tutti gli appuntamenti orribili che aveva dovuto sorbirsi negli ultimi quattro anni, e al ragazzo tutt’altro che perfetto che stava frequentando ora.

Assolutamente nessuno, rispose velocemente.

«Ti prego… ti prego», sussurrò incrociando le dita. «Dopo anni di questo schifo due settimane a New York me le sono meritate, no?».

Il leggero segnale di una mail in arrivo interruppe le sue preghiere. Aprì il messaggio.

Domani è troppo presto?

 

 

A/N:

Buonasera a tutti :)

Vi presento con orgoglio la mia prima long Klaine!

Come si capisce dal titolo è ispirata al film L’amore non va in vacanza, uno dei miei film preferiti, ed è a tema natalizio – perché adoro il Natale, yay :)

Spero davvero che possa piacervi – per quelli che sono interessati raccomando di inserirla fra le seguite perché non so ancora bene quando/ quante volte alla settimana sarò in grado di aggiornare, quindi vi sarà più facile tenerla d’occhio :)

Complessivamente avrà nove capitoli (prologo ed epilogo compresi) quindi con un po’ di fortuna entro la prima settimana di gennaio avrò finito di pubblicarla.

Baci a tutti quanti, e grazie per aver letto!

MM

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Capitolo 2
*** 19 dicembre - 20 dicembre ***


19 dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio

 

Rachel era arrivata in quella casa da appena sei ore, e già si annoiava. Forse l’Ohio non era stata una così buona scelta.

In quel momento era seduta sul divano con una tazza di cioccolata calda – la seconda della giornata, santi numi – e meditava sul da farsi.

Eppure quella mattina la situazione non le era sembrata così disperata. Era arrivata nel primo pomeriggio, ed era rimasta subito incantata dalla casa. Era un piccolo cottage dipinto di bianco, con un grande giardino ed una ghirlanda di agrifoglio appesa alla porta d’entrata. Era entrata ed aveva immediatamente disfatto le valigie, scoprendo con piacere che l’armadio di Kurt era di dimensioni circa uguali a quelle del suo – occupava un’intera parete.

Dopo aver sistemato i suoi vestiti, si era finalmente preparata a godersi il più che meritato relax.

Per prima cosa aveva preparato un bagno caldo con sali profumati alla lavanda, e mentre stava in ammollo si era passata uno strato di smalto color lampone alle unghie di mani e piedi.

Aveva acceso lo stereo a tutto volume – scoprendo con piacere una collezione impressionante di soundtrack di musical – e aveva cantato a squarciagola per circa trenta secondi prima di ricordarsi che le sue corde vocali erano assicurate per svariate migliaia di dollari. Aveva iniziato ed abbandonato due libri, ed aveva guardato tre puntate di Gossip Girl, sospirando per la bellezza dell’Upper West Side a Natale. Si era preparata la prima tazza di cioccolata ed aveva acceso il fuoco nel piccolo caminetto. Aveva addirittura considerato l’idea di avventurarsi per un’oretta di trekking fino al lago, ma le era bastato fare due passi fuori dal cancello del cottage per decidere che i suoi stivali non meritavano quel fangoso trattamento.

Ed ora era seduta a gambe incrociate davanti al focolare, sentendosi incredibilmente stupida per aver pensato che un’idea del genere potesse funzionare. Lei era una newyorker, e che cavolo.

Non era abituata a starsene in campagna con le mani in mano.

Sospirò fra sé e sé. “Che faccio adesso?”.

Proprio nel momento in cui iniziava a considerare l’idea di prenotare un biglietto aereo di sola andata per New York un rumoroso bussare alla porta la distrasse dai suoi pensieri. Balzò in piedi, improvvisamente all’erta.

E se fosse stato un ladro? Erano le nove di sera, certo, ma fuori era buio pesto e che ne sapeva lei delle abitudini dei criminali dell’Ohio?

«Chi è?», chiese con voce incerta.

«Kurt, sono io!», esclamò una voce dall’esterno. «Fammi entrare, si gela qua fuori».

Rachel si avvicinò alla porta e sbirciò dallo spioncino. Tutto quello che riuscì a vedere furono un enorme paio di spalle coperte da un giubbotto blu scuro.

«Un-un attimo!», strillò prima di recuperare il cellulare dal divano, digitando velocemente il numero di cellulare di Kurt.

«Pronto?», le rispose una voce sconosciuta dopo qualche squillo. Era parzialmente coperta dal suono di altre voci e dall’inconfondibile rumore del traffico di Manhattan. Rachel sospirò brevemente di nostalgia prima di rispondere.

«Kurt! Sono Rachel!».

«Chi-Oh, Rachel! Come va in Ohio?», rispose cordialmente il ragazzo.

La ragazza abbassò la voce man mano che si riavvicinava alla porta. «C’è uno sconosciuto che sta bussando alla tua porta e io non ho idea di chi sia ed è buio pesto fuori, se fosse un ladro o un rapinatore io-».

«Rachel», il ragazzo la interruppe con tono deciso. «Prima di tutto, non ci sono rapinatori a Prairie Oaks. A meno che non cerchino camicie di flanella e pentole di rame». Rachel si lasciò scappare una risatina suo malgrado. «E secondo, puoi descrivermi l’aspetto di questo sconosciuto, per favore?».

«Ah-ah». Rachel si avvicinò nuovamente allo spioncino. «Moro, carino, alto come la tua porta d’entrata».

Dall’altro capo del telefono arrivò una risata soffocata. «Dev’essere mio fratello, sapevo che si sarebbe scordato che ero partito. Lascialo pure entrare, avrà dimenticato a casa qualcosa, come al suo solito».

«Oh». Le spalle di Rachel si rilassarono, mentre la ragazza tirava un sospiro di sollievo. «Bene allora. Spero davvero che tu ti stia divertendo nella Grane Mela…».

«Puoi dirlo forte!», rispose Kurt in tono allegro. «È il sogno di una vita. Ora devo riattaccare, Rachel! Ci sentiamo presto!».

Rachel premette il bottone di fine chiamata, si diede una veloce sistemata ai capelli, ed aprì la porta.

Il ragazzo ora era fermo davanti alla soglia, tenendo fra le mani un cappello di lana rosa e osservandolo con aria confusa. «Ora, Kurt, lo so che dici sempre che nel mondo della moda non esistono generi ma questo cappello-», alzò lo sguardo, incontrando gli occhi della ragazza. «Oh!».

Rachel sorrise appena. “Questo Kurt doveva essere davvero interessante a giudicare dalle sue idee sulla moda. E anche carino, se ha ereditato gli stessi geni di suo fratello”.

«Oh», ripeté il ragazzo, spalancando gli occhi color nocciola. «Tu devi essere la ragazza di New York, giusto? Kurt mi aveva detto che sarebbe partito, ma-».

«Te ne sei scordato?», lo interruppe lei. Il ragazzo la guardò confuso. «Kurt mi aveva avvertito che sarebbe potuto succedere».

«Lui è sempre un passo avanti a tutti», commentò il ragazzo con un sorriso. Poi lo sguardo gli cadde sul cappello che aveva in mano. «Credo che questo sia tuo», disse tendendole l’indumento.

Rachel lo prese, sorridendogli di rimando. «Dev’essermi caduto mentre entravo in casa».

Finn annuì con aria comprensiva. «Capita sempre anche a me». Tese una mano verso Rachel. «In ogni caso è un piacere fare la tua conoscenza…?».

«Rachel», rispose lei, deliziata di poter finalmente presentarsi a qualcuno che non sapesse già il suo nome. «È un piacere anche per me, fratello di Kurt».

«Finn, Finn Hudson», rispose lui, senza smettere di sorridere.

Rachel alzò un sopracciglio. Non aveva intenzione di ficcare il naso, ma… «Credevo che il vostro cognome fosse Hummel?».

«Io e Kurt siamo fratellastri», spiegò Finn mentre entrava in casa ed appendeva il suo cappotto all’appendiabiti. «Ma per noi non è molto differente dall’essere fratelli di sangue. Mia madre e suo padre si sono sposati quando eravamo al liceo, e l’ho considerato il mio fratellino da quel momento in poi».

Rachel annuì, spiazzata dalla naturalezza di quel commento.

«Ah, giusto», disse Finn all’improvviso, sbattendosi una mano sulla fronte. «Sono venuto qui per recuperare una cosa- ti dispiace se salgo al piano di sopra? Entrerò solo nello studio, prometto di non frugare fra le tue cose».

«Ma certo», rispose Rachel con una scrollata di spalle. «Nessun disturbo».

«Grande». Finn le lanciò un ultimo sorriso e salì le scale a due a due.

Non appena fu sparito al piano di sopra, Rachel si fiondò in cucina. Attenta a non fare il minimo rumore, alzò il coperchio di un pentolino che riposava sulla credenza.

Esultò fra sé e sé, notando che conteneva cioccolata calda in abbondanza. Accese velocemente uno dei fornelli e ci posò sopra il pentolino.

Se c’era qualcosa che i suoi papà le avevano insegnato era che il cioccolato era sempre un’ottima scusa. Si complimentò con sé stessa per la magnifica idea.

Finn Hudson era carino, simpatico e normale, ed era una vita che lei non aveva una conversazione con una persona normale. L’avrebbe fatto restare almeno una mezz’ora, costasse quel che costasse.

Probabilmente non sarebbe stato facile, perché un tipo così carino sarebbe stato sicuramente impegnato con i suoi amici di sabato sera. O forse con la sua ragazza.

«Ecco qua!», la voce di Finn e il suono dei suoi passi sulle scale la strapparono dalle sue fantasticherie. «Rachel?».

Rachel si affrettò a spegnere il gas, mentre i passi si dirigevano in cucina.

«Cosa ci fai qui?», sorrise Finn, affacciandosi all’entrata. A Rachel venne quasi da ridere notando che la cima della sua testa sfiorava appena l’architrave della porta. Quel ragazzo era davvero alto.

«Hai- hai trovato quello che cercavi?».

Finn alzò una scatola di pennarelli colorati con aria trionfante. «Sì! Sarei stato perso senza questi».

Rachel alzò un sopracciglio e decise di non indagare. «Sai, stavo pensando…», tolse il coperchio al pentolino, lasciando che l’odore di cioccolato si diffondesse per tutta la cucina. «Stavo bevendo una tazza di cioccolata calda, e per caso me n’è avanzata un po’. Ti andrebbe di unirti a me?».

Contrariamente a tutte le sue aspettative, Finn sorrise ed annuì.

«Certo, perché no?».

 

Passò poco tempo prima che Rachel dovesse ammettere con sé stessa di essersi sbagliata sul conto di Finn. Non sulla parte che riguardava l’essere carino, gentile ed anche normale, fortunatamente.

Ma se prima pensava che la loro conversazione sarebbe durata quei miseri venti minuti necessari ad esaurire tutti gli argomenti di conversazione, ora si trovava costretta a riconoscere che era da più di un’ora che parlavano senza interruzione, scambiandosi pensieri ed opinioni su tutto.

Entrambi avevano adorato l’ultimo romanzo di J. K. Rowling ed amavano segretamente i libri per adolescenti. Ad entrambi piaceva la musica dei Journey, nonostante la band avesse praticamente il doppio dei loro anni. Ed entrambi condividevano una malsana ed inspiegabile passione per i film di Bruce Willis. Parlarono e risero per ore.

Quando la cioccolata finì Rachel preparò un thè. E quando il thè finì Finn recuperò una vecchia bottiglia di vino.

Fu così che si trovarono alle undici e mezza di notte stesi sul tappeto del salotto a discutere i pregi di Edward Cullen contro quelli di Jacob Black.

«Jacob era realista», constatò Finn, trascinando appena le parole. «Edward invece era troppo mellifluo, non mi piaceva. E poi la spiava dalla finestra. Mentre dormiva». Scosse la testa, bevendo un altro sorso di vino.

«Io lo trovo romantico», disse Rachel in tono sognante, riempiendosi di nuovo il bicchiere.

«Io lo trovo inquietante», ribatté Finn, facendo una smorfia nella sua direzione. «Di certo mi spaventerei se qualcuno mi guardasse mentre dormo».

«Me lo segnerò», ridacchiò Rachel, prima di rendersi conto di aver detto una cosa piuttosto sciocca. «Ehi, aspetta. Ma noi non dobbiamo mica dormire insieme».

Finn la guardò, aggrottando le sopracciglia. «No! Me lo ricorderei se avessi dormito con una carina come te». Subito dopo aver pronunciato quelle parole si sbatté una mano sulla bocca. «Oh Dio, scusa, sono stato davvero-».

«Lo trovo molto lusinghiero», mormorò Rachel, avvicinandosi di più a lui. Una parte della sua mente era cosciente di essere piuttosto ubriaca, ma in fondo che male c’era? Il fuoco era ormai un cumulo di braci, la stanza era gelida e Finn era così caldo.

«Sai», disse all’improvviso bevendo un sorso di vino, «Non ci sono ragazzi come te a New York».

Finn scosse la testa. «Lo so, dovrò sembrarti un ragazzo di campagna al confronto».

«Tu sei più simpatico», lo contraddisse Rachel. «E meno gay».

«Sono molto più gay ora di quanto lo fossi al liceo», commentò Finn con aria pensierosa.

Rachel lo fissò. Cercò di concentrarsi sul suo viso, ma lo sguardo le scivolò suo malgrado sulle sue labbra, sulle spalle larghe e muscolose, sulle braccia e no, era una brutta idea vero?

Una pessima, pessima idea-

«Sai», ragionò ad alta voce, per zittire l’ultima parte coscienziosa del suo cervello. «Forse dovremmo farlo».

«Uh? Cosa?».

«Dormire insieme».

Finn la guardò con espressione sorpresa. «Intendi…», deglutì mentre arrossiva leggermente. «Dormire o dormire dormire?».

Rachel colmò quei pochi centimetri che separavano i loro corpi e gli prese il viso fra le mani.

«Non ti fisserò mentre dormi, te lo prometto», sussurrò prima di baciarlo con passione.

 

20 dicembre 2017, Upper West Side, New York

 

Kurt Hummel si stiracchiò e fece una smorfia mentre i ricordi del giorno precedente gli tornavano in mente. Era stato tutto un sogno, giusto? Cose del genere non succedevano davvero, tanto meno a lui.

Sospirò amaramente e cercò a tentoni l’interruttore per accendere la luce di camera sua. Nulla.

Aggrottò le sopracciglia, passando la mano di nuovo la mano sul muro. Nulla di nulla.

Possibile che…?

Sbatté le palpebre, mettendo a fuoco una stanza che, poco ma sicuro, non era la sua.

«Oh mio Dio», sussurrò nel silenzio della camera di Rachel. La camera di Rachel che si trovava a New York. «Allora è successo davvero».

Scalciò via le coperte e corse a spalancare una delle finestre, il cuore che gli martellava nel petto.

La vista gli bloccò quasi il fiato. Metri e metri di case che si sovrapponevano l’un l’altra, cisterne d’acqua che facevano capolino fra i tetti e un angolo di Central Park appena visibile tra le pareti degli edifici. Senza perdere altro tempo corse dalla parte opposta della casa, finendo in cucina, e aprì un’altra finestra. L’Hudson River illuminato dalla debole luce del mattino, un’altra distesa di case e se si sporgeva solo un pochino…

«Oh, al diavolo», esclamò ad alta voce, salendo sul pianerottolo della scala antincendio in calzini e pigiama. Si aggrappò ai pioli e salì qualche scalino, finché non riuscì a scorgere un pezzetto di Broadway Avenue.

«Non posso crederci», mormorò fra sé e sé, aumentando la stretta sulla scala. Due giorni prima era assolutamente convinto che avrebbe passato le vacanze da solo, ignorato dal proprio quasi-ragazzo e molestato dal proprio fratello. E invece era a New York, a dieci minuti da Broadway.

Sentì l’euforia del giorno prima risalirgli la schiena mentre scendeva la scala e rientrava in cucina – una delle cucine più sofisticate in cui fosse mai entrato.

Chiuse la finestra e si diede un’occhiata intorno. Doveva ancora familiarizzare con l’appartamento – il giorno prima vi era rimasto il minimo indispensabile, catapultandosi a prendere la metropolitana verso Times Square appena finito di disfare i bagagli – ma doveva ammettere che era una casa davvero fantastica, soprattutto per gli standard di New York.

«Dovrei chiederle chi è il suo designer…», si disse mentre osservava i quadri del soggiorno, perfettamente abbinati con l’arredamento.

Una volta trovata la porta del bagno fece una doccia calda, programmando l’itinerario per quel giorno. Il pomeriggio prima aveva semplicemente camminato per le strade di Manhattan, ammirando i grattacieli e le decorazioni natalizie appese per le strade, ma aveva una lista pressoché infinita di cose da vedere e posti da visitare.

Si asciugò velocemente, decidendo di testare la cucina di Rachel e di preparare dei pancakes per colazione, lasciando a dopo la scelta del suo outfit. Infilò velocemente un paio di jeans ed una canottiera e si mise al lavoro, riempiendo una caffettiera e posandola su uno dei fornelli prima di iniziare a preparare i pancakes. Stava proprio per aggiungere le gocce di cioccolato all’impasto quando qualcuno bussò alla porta.

«Rachel!», esclamò una voce maschile dal pianerottolo. «Rachel, sono io, aprimi!».

Kurt si bloccò con il cucchiaio a mezz’aria e si diede una rapida occhiata. I capelli erano a posto. I pantaloni pure…

«Rachel non provarci nemmeno. Non voglio stare qui impalato per venti minuti come l’ultima volta!».

“Maglietta, dannazione, mi serve una maglietta”. Corse il più velocemente possibile in camera, iniziando a cercare una t-shirt o una camicia che si abbinasse ai jeans che portava in quel momento.

«Rachel andiamo», continuò la voce, alzando il volume. «Non puoi semplicemente saltare le prove ogni volta che hai delle crisi esistenziali. Mercedes sta già spadroneggiando sul cast e sai che tutti la lasciano fare. Non hai rispetto per i nervi di Adam? È vecchio, Rachel».

Kurt estrasse una maglietta blu scuro dall’armadio e cercò di infilarla mentre correva verso l’entrata. La voce intanto continuava a sproloquiare.

«Senza contare che per arrivare qui ho fatto dieci isolati a piedi e non è che sia molto caldo in questo periodo dell’a-».

Kurt aprì la porta, interrompendo il monologo. Il ragazzo piantato davanti alla soglia fece un verso sorpreso, mentre arrossiva leggermente.

«Io- scusi devo aver sbagliato appartamento», balbettò in tono imbarazzato.

«Non hai sbagliato», replicò Kurt facendo un cenno verso la targhetta di fianco alla porta. «Rachel e io ci siamo scambiati le case per le vacanze. Lei è in Ohio ora, quindi non credo ce la farà a venire alle prove», aggiunse, cercando di trattenere una risata.

Il ragazzo sospirò con aria scoraggiata. «Oh, non importa, mi ero già rassegnato a dover parlare a vuoto con la porta. Lavorare con lei è un vero incubo, a volte», si passò una mano fra i riccioli scuri, poi parve ricordare che anche Kurt era lì. «Oh, io- mi dispiace moltissimo di averti svegliato. Rachel è sempre in piedi alle sei, quindi non mi sono fatto problemi a-».

«Ero già sveglio», lo interruppe Kurt. Esitò un momento poi scrollò le spalle. «Anzi, a dire la verità stavo preparando la colazione. Dopo dieci isolati a piedi sarai affamato, ti andrebbe di…?», indicò la porta aperta dietro di lui con un cenno della testa.

Il ragazzo gli rivolse un enorme sorriso, annuendo. «Sarebbe fantastico. Mi chiamo Blaine, comunque». Tese la mano verso di lui.

«Kurt», il ragazzo gliela strinse con un piccolo sorriso e si spostò per farlo entrare in casa.

Ignorò l’istinto che gli ripeteva di non far entrare in casa uno sconosciuto – Quel ragazzo aveva l’aspetto di chi non avrebbe fatto del male ad una mosca. E anche se Rachel non aveva nominato nessun Blaine, per mettersi ad urlare davanti alla sua porta dovevano essere piuttosto in confidenza, quindi-

Un momento. In effetti Rachel aveva nominato un ex ragazzo durante il loro scambio di e-mail.

“Ma non puoi essere tu vero? Sei davvero troppo carino per essere etero”.

Riproponendosi di scoprirlo al più presto – il suo gayradar non era mai stato particolarmente recettivo – tornò in cucina, seguito a ruota da Blaine.

«Come ti sembrano i pancakes con le gocce di cioccolato?», chiese mentre riprendeva a mescolare l’impasto.

«Divini», rispose l’altro sedendosi su uno sgabello di fronte a Kurt.

Il ragazzo annuì, mentre versava la prima cucchiaiata di impasto in una padella.

«Allora», iniziò mentre regolava il fornello a fiamma bassa. «Parlami di Rachel. È così strano abitare in casa di una persona che non conosco affatto».

Blaine rise, poggiando il mento su una mano. «Da dove iniziare?», disse in tono divertito. «Non la conosco da molto, quindi non sono la persona più adatta a discutere di questa cosa. Posso dirti che è innamorata del suo lavoro, però. È un’attrice», aggiunse all’occhiata interrogativa di Kurt.

Il ragazzo sentì una fitta di gelosia mentre faceva scivolare su un piatto il primo pancake.

«Dev’essere molto brava per riuscire a mantenersi qui a New York», commentò mestamente. «E non se la passa nemmeno male», aggiunse, agitando il cucchiaio ad indicare l’enorme cucina e l’appartamento in generale.

«È determinata, su questo non c’è dubbio», concordò Blaine. «E anche competitiva. Lascia, faccio io», disse, quando Kurt fece per togliere dal fuoco la moca del caffè. Aprì uno degli armadietti e ne tirò fuori due tazze. «Dicono che la sua furia quando le hanno rifiutato la parte di Elphaba sia stata leggendaria, ma grazie al cielo ho iniziato a frequentarla quando l’avevano appena presa nel cast di Evita», aggiunse, versando lentamente il caffè.

Kurt lo guardò con tanto d’occhi. «È stata nel cast di Evita? E chi interpretava?».

«Evita, ovviamente», Blaine scosse la testa e recuperò la zuccheriera. «Non voleva accontentarsi di meno».

Il cervello di Kurt fece qualche rapido collegamento. “Evita. Rachel? Oh mio Dio”.

«Blaine. Come hai detto che fa Rachel di cognome?», chiese in tono incerto.

Il ragazzo ci mise un attimo a rispondere, impegnato a zuccherare il suo caffè.

«Berry. Rachel Berry», disse infine.

Kurt respirò profondamente e cercò di apparire assolutamente calmo. A giudicare dall’occhiata di Blaine stava fallendo miseramente.

«Immagino che tu non abbia osservato bene il tavolino del soggiorno», aggiunse Blaine con un’occhiata divertita.

«Io- potresti…?», fece un cenno verso il pancake che si stava cuocendo e Blaine annuì, afferrando il manico della padella mentre Kurt si fiondava in soggiorno.

“Cosa può esserci di tanto sconvolgente in quel tavolino? È solo un normalissimo tavo-”.

Il suo cuore mancò un battito quando lo vide.

«Blaine?», chiese a voce alta. «Non sarà mica un Tony Award, questo?».

«Lo è!», gli rispose la voce del ragazzo dall’altra stanza.

«Dio», borbottò Kurt, incapace di pronunciare altro. Tornò in cucina appena in tempo per vedere Blaine che girava un pancake facendogli fare una perfetta giravolta.

«Non ci posso credere!», borbottò Kurt mentre si sedeva su uno degli sgabelli della cucina.

«Ma niente commenti sull’aver dormito nel letto di Rachel Berry quando tornerai a casa», scherzò Blaine agitando il cucchiai nella sua direzione.

Kurt sbuffò. «Credo sarebbero più sorpresi che abbia dormito con una donna per concentrarsi su chi sia la fortunata», commentò mentre aggiungeva dello zucchero al suo caffè e tornava a sedersi sul suo sgabello.

«Quindi», iniziò Blaine dopo un attimo di silenzio. «Devi essere un appassionato di Broadway per conoscere il nome di Rachel. Non è così famosa…».

«Puoi dirlo forte», commentò Kurt, osservandolo mentre faceva scivolare altri due pancake sopra ai primi. «Ho frequentato un corso di musical al college».

«Oh, davvero?», chiese Blaine, sinceramente interessato. «Ho sentito dire che il corso dell’OSU è fantastico».

«Per l’Ohio forse, ma non per New York», replicò Kurt scuotendo la testa.

Per un attimo sembrò che Blaine volesse dire qualcosa, poi scosse leggermente la testa e sorrise di nuovo. «Beh, ora che sei qui a Broadway…», fece cadere nella padella l’ultima cucchiaiata di impasto. «…c’è qualche musical in particolare che ti piacerebbe vedere?».

«Chicago», rispose immediatamente Kurt. «So il film a memoria e al terzo anno delle superiori il nostro Glee Club ha fatto anche una produzione scolastica».

«E che ruolo interpretavi?».

Il ragazzo fece una smorfia. «Amos Hart. Non esattamente la parte dei miei sogni, ma almeno ho avuto un assolo».

«Sei davvero sprecato come Amos», commentò Blaine prima di lanciargli un’occhiata maliziosa. «I tuoi professori dovevano essere pazzi».

Kurt deglutì, pregando di non arrossire. “Decisamente non etero, allora”.

I ragazzi rimasero in silenzio mentre Blaine divideva i pancake in due piatti e ne posava uno davanti a Kurt.

«Grazie di aver finito di cucinare», commentò il ragazzo prendendo la forchetta che Blaine gli porgeva.

«Non c’è problema. Anzi ti dirò di più». Gli puntò contro la forchetta, dove aveva infilzato un pezzetto di pancake. «Oggi è il nostro giorno libero, quindi niente prove, ma se domani pomeriggio hai un’ora di tempo, passa al Nederlander Theatre, e chiedi di Blaine Anderson. Al cast farebbe piacere conoscere il ragazzo che gli ha tolto dai piedi Rachel per due settimane, e riuscirei anche a procurarti i biglietti per Chicago ad un prezzo stracciato».

Kurt spalancò la bocca mentre Blaine gli faceva un occhiolino.

«Ti sarei debitore per l’eternità».

Il ragazzo scosse la testa, infilzando un altro pezzetto di pancake.

«Credimi, per questi pancakes non è nemmeno abbastanza».

 

Prima che uno dei due finisse i suoi pancakes Kurt aveva scoperto che Blaine non solo adorava i musical, ma aveva anche un abbonamento mensile a Vogue e un cassetto pieno di papillon.

“Cento per cento gay”, si disse Kurt mentre lo accompagnava alla porta. “E il suo ragazzo dev’essere anche fortunato”, aggiunse mentre lo sguardo gli scivolava per un attimo sul suo sedere.

Blaine recuperò il proprio cappotto ed uscì, girandosi per salutare il ragazzo.

«A domani pomeriggio allora», lo salutò Kurt cercando di non sorridere troppo.

«Ci conto», rispose Blaine con un cenno della testa.

Kurt stava per chiudere la porta quando la voce di Blaine risuonò per le scale.

«Kurt!».

Il ragazzo tornò sulla soglia. Blaine gli stava sorridendo dal pianerottolo più in basso.

«Goditi New York».

Kurt annuì, guardandolo scendere il resto delle scale e scomparire con un ultimo cenno di saluto.

Sospirò profondamente, chiudendo la porta e appoggiandosi contro di essa con la schiena.

Solo allora si ricordò di non aver chiamato David da due giorni.

 

20 dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio

Rachel Berry aprì lentamente gli occhi, riconoscendo immediatamente il mal di testa e le fitte allo stomaco come postumi di una leggera sbronza.

Oh beh. C’erano modi peggiori di iniziare le vacanze.

Si rigirò fra le lenzuola, stiracchiando le braccia- e solo allora si rese conto di non avere niente addosso, e di non essere sola nel letto.

Premette il viso nel cuscino per non imprecare ad alta voce, e richiuse gli occhi.

“Fantastico”.

 

A/N:

Eeeeed ecco il primo capitolo, gente ;)

La Klaine e la Finchel si sono incontrate *gasp*, Rachel è intrappolata in un fangoso sobborgo dell’Ohio (l’ha detto lei, non io) e Kurtie sta danzando per le strade di New York.

Cosa succederà ai nostri eroi??

Ringrazio le persone che mi hanno lasciato una recensione – fate meraviglie per la mia autostima! – e che hanno inserito la mia storia fra le seguite.

Il prossimo capitolo sarà pubblicato in una data indefinita fra lunedì e mercoledì della settimana prossima.

Meno dieci giorni a Natale! <3

MM

Ps: Qualcuno ha pianto guardando l’ultimo episodio di Glee?? ç_____ç

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Capitolo 3
*** 21 dicembre - 22 dicembre ***


20 dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio

 

Rachel sospirò mentre poggiava la moca su uno dei fornelli, pregando che il caffè non ci mettesse troppo a salire – non avrebbe resistito dieci minuti di più con quel mal di testa. Poggiò la fronte contro il frigorifero, resistendo all’impulso di sbattercela contro.

Doveva davvero smetterla di bere. L’ultima volta che si era ubriacata si era risvegliata nel New Jersey – senza contare che il mattino dopo la sua faccia era finita su tutte le prime pagine dei giornali scandalistici di New York. E ora questo.

“Ma perché non imparo mai?”.

Non poteva avere una normale conversazione con un ragazzo normale, no, lei doveva ubriacarsi e rovinare tutto con il sesso. E ora ci sarebbe stata un’imbarazzante conversazione seguita da una rapida tazza di caffè e dalla promessa di richiamarla – senza che Finn si accorgesse che non aveva fatto nemmeno finta di chiederle il suo numero di telefono. Perché era così che era sempre andata.

Fece una smorfia sentendo un rumore di passi lungo le scale

Sentì la voce di Finn alle sue spalle pochi secondi dopo. «Buongiorno».

Rachel si costrinse a mettere insieme almeno una parvenza di sorriso prima di girarsi. «Buongiorno», rispose. «Il caffè è quasi pronto».

Finn storse il naso. «Non sono esattamente un amante del caffè», commentò, recuperando una scatola di biscotti dalla credenza.

Rachel si voltò di nuovo, mentre Finn soffocava uno sbadiglio, e notò che la moca stava fumando. Si allungò verso lo sportello più alto della credenza per recuperare una tazza-

«Lascia, faccio io». Finn la raggiunse e aprì l’anta con estrema facilità, passandole una tazza color azzurro chiaro. «Ecco qui».

«Grazie». Rachel abbassò velocemente lo sguardo mentre versava il caffè.

Si sentiva quasi… a suo agio. Strano- credeva che aspettare il discorso imbarazzante piuttosto che sentirselo propinare immediatamente sarebbe stato quasi peggio.

«Io…», iniziò Finn in tono incerto. «Ieri sera è stato davvero..».

Rachel sentì una fitta di umiliazione attanagliarle il petto. Finn non sarebbe stato certo il primo a fare commenti acidi su ciò che era successo fra le lenzuola.

«Non andare oltre. Ti chiedo scusa in anticipo per le mie scarse doti da amante», commentò con la voce più atona che riuscì a tirare fuori.

“Almeno stavolta sono preparata”.

«Non era quello che volevo dire», protestò il ragazzo dopo qualche secondo di silenzio.

Rachel non credeva alle sue orecchie. Si girò lentamente, guardandolo negli occhi. «Ah no?».

«No. Volevo dire che è stato fantastico, ecco tutto».

La ragazza sospirò. Le cose non stavano andando come sperava. Ed era ora di prendere il controllo della situazione.

«Rachel, io-».

«Senti, lo so quello che stai per dire», lo interruppe. “Via il dente via il dolore, giusto?”.

«Da-davvero?», balbettò Finn, prendendo un altro biscotto.

«Sì, e credimi, rimanere a dormire qui è stato molto carino da parte tua, ma d’ora in poi sentiti sollevato dai tuoi doveri di “bravo ragazzo”», mimò le virgolette con le dita. «Non sei né obbligato a richiamarmi, né a restare, né a promettere cose che poi non succederanno. Intesi?».

Finn restò in silenzio per qualche secondo. «È davvero così che vuoi che vadano le cose?», chiese con uno sguardo serio.

Rachel deglutì. «Sì», rispose in tono fermo.

Il ragazzo annuì e abbassò lo sguardo, prendendo un altro biscotto. «Okay, allora».

Rachel non riuscì a togliersi di dosso la sensazione di aver appena fatto un enorme sbaglio.

 

21 dicembre 2017, Theatre District, New York

 

Kurt si fermò davanti al Nederlander Theatre, scrutando la piccola porta d’entrata ed i manifesti che annunciavano l’apertura di Work, Love, Dance. “Allora dev’essere questo il musical a cui sta lavorando Rachel”.

Si fece coraggio ed entrò nella hall, adocchiando una receptionist dall’aria annoiata.

«Scusi». Si incamminò velocemente verso la donna, pregando che non lo cacciasse via in malo modo. Invece lei si limitò a fissarlo con espressione interrogativa.

«Dovrei vedere Blaine Anderson-».

«Nella sala principale», borbottò la donna, facendo cenno con una mano alle sue spalle.

Kurt si allontanò in fretta, prima che gli venisse voglia di tirarle dietro una scarpa.

Posò una mano sulla porta che separava la sala centrale dal teatro e, dopo un attimo di esitazione, spinse, ritrovandosi nel retro dell’auditorium, fra file e file di poltroncine scarlatte.

Si incamminò lentamente verso il palco – che in quel momento era un caos di persone ed oggetti di scena – cercando una faccia familiare. Dopo pochi secondi finalmente riuscì a vederlo, chinato su alcuni spartiti poggiati su di un pianoforte. Si avvicinò velocemente, finché non fu a portata d’orecchio.

«Blaine!».

Il ragazzo si raddrizzò e si guardò intorno. Appena lo vide gli sorrise e sventolò la mano. Aveva i capelli un po’ scompigliati ed un paio di occhiali da vista, ed era ancora più carino del giorno prima.

«Kurt, buongiorno», esclamò appena l’ebbe raggiunto. Si tolse gli occhiali e li infilò nello scollo della maglietta, facendo scendere l’orlo di un paio di centimetri.

Lo sguardo di Kurt scivolò suo malgrado sulla linea del suo collo prima di ritornare a livelli più appropriati.

«Sono felice che tu sia venuto», il suo tono sincero lo fece sorridere. «Questi sarebbero andati sprecati altrimenti», disse, tirando fuori da una tasca due biglietti e usandoli a mo’ di ventaglio.

Kurt spalancò gli occhi. «Sono per…».

«Chicago, sì. E prima che tu me lo chieda, non mi devi nulla. Ringrazia Mike, è lui che ha gli attacchi giusti», commentò Blaine.

Prima che Kurt potesse chiedere chi diavolo fosse Mike, un ragazzo asiatico apparve dal nulla e gettò un braccio attorno alle spalle di Blaine, scompigliandogli i riccioli.

«Non c’è di che, piccolo hobbit».

Blaine imprecò, passandosi una mano fra i capelli mentre Mike rideva e rivolgeva il suo sguardo verso Kurt. «E così tu sei il famoso Kurt», esclamò Mike, ignorando la gomitata di Blaine. «Sai, non riesco a procurarmi nulla così velocemente di solito, ma Blaine mi ha praticamente implorato di trovargli un biglietto per Chicago e-».

«Mike!», chiamò una ragazza mora dalla parte opposta della stanza. «Prova costume! Porta qui il tuo sedere ossuto e smettila di molestare Blaine!».

«Arrivo!», urlò Mike per tutta risposta. «Ci vediamo dopo, voi due. Mademoiselle mi chiama».

Corse via, lasciando Blaine in uno stato di profondo imbarazzo.

«Non ascoltarlo, è un idiota», commentò dopo un attimo di silenzio. «Onestamente non so come faccia Tina ad averlo attorno tutto il giorno – credo abbiano una tresca o qualcosa del genere».

«Mi sembra simpatico», commentò Kurt debolmente mentre nella sua testa tirava un grande sospiro di sollievo. “Non è il suo ragazzo allora!”.

«Ti andrebbe di conoscere il resto del cast? Non sono tutti qui oggi, ma potrei presentarti qualche persona, se ti va».

«Sarebbe fantastico», rispose Kurt in tutta sincerità.

Blaine sorrise, afferrando un plico di spartiti e avviandosi dietro le quinte. «Vieni con me».

Kurt si affiancò a lui, cercando di schivare strumenti e scenografie finché non oltrepassarono una porta laterale trovandosi in un corridoio leggermene più tranquillo.

«Sai», iniziò Kurt. «Mi sono accorto di non avertelo nemmeno chiesto, ieri mattina: sei anche tu un attore?».

Blaine scosse la testa con aria sorpresa. «No, no, figurati. Faccio assolutamente schifo a recitare. Mia madre diceva sempre che sono un libro aperto».

«Umh… coreografo?», ritentò Kurt.

«No. Il musical che stanno provando?», agitò la mano a indicare lo spazio attorno a loro prima di sorridere. «L’ho scritto io».

Il ragazzo lo guardò con tanto d’occhi. «Adam Stewart ha detto che sarà il prossimo Wicked».

«Adam è il direttore», Blaine scosse la testa fermandosi davanti ad una porta. «Ed esagera spesso e volentieri». Spalancò la porta, rivelando una grande sala prove, e si fece da parte per far passare Kurt.

Il ragazzo aveva appena iniziato a guardarsi intorno quando la sua visuale venne bloccata da una ragazza avvolta in un tubino anni 60 color blu elettrico che puntava dritta verso di loro.

«Blaine! Tina mi ha chiesto di chiederti come si sposa il colore di questo vestito con la mia carnagione», disse la ragazza, facendo un cenno alla sua pelle scura.

Blaine scrollò le spalle. «E che ne so, non sono io la costumista».

«Lo sai quanto ci tiene alla tua opinione», ribatté la ragazza. Solo dopo quel commento parve accorgersi della presenza di Kurt. «Sei un nuovo tirocinante?», chiese in tono curioso.

«No, sono Kurt Hummel, un amico di Blaine». Da come il sopracciglio della ragazza si sollevò capì che aveva già sentito parlare di lui. «E, se posso, questo colore è un po’ troppo acceso. Staresti molto meglio con un azzurro pastello».

«Trovi?». La ragazza fece una piroetta su se stessa, facendo sfoggio delle lunghe gambe.

«Kurt, questa è la sostituta di Rachel», spiegò Blaine con un sorriso.

«Dottie Hart», aggiunse lei, tendendo la mano verso il ragazzo.

«Mercedes questa è violazione di copyright, Dottie è un mio personaggio».

«Chi è Mercedes? Sono Mercedes solo fuori da questa stanza», esclamò la ragazza mentre Kurt rideva dell’espressione esasperata di Blaine.

«Non so se esserti grato per aver allontanato Rachel per un po’ oppure se incolparti di questo disastro», commentò il ragazzo indicando Mercedes.

«Io invece non potrò mai ringraziarti abbastanza. Anzi, facciamo che se riuscirai a relegare Rachel in Ohio per altre due settimane ti darò il mio primogenito? Lo show apre il nove gennaio e-».

«Mercedes, goditi questo momento di gloria. Rachel non perderà mai la serata di apertura del suo primo musical originale», capitolò Blaine lanciandole uno sguardo eloquente.

«Una ragazza può sempre sognare», sbuffò lei. In quella la stessa ragazza asiatica che aveva richiamato Mike entrò nella sala prove, mettendosi una mano sul fianco.

«Mercedes! Quanto ci stai mettendo? Non ho tempo da perdere, io».

«Ma Tina, io stavo facendo conoscenza con Kurt», rispose l’altra.

A Kurt non sfuggì l’enfasi che aveva messo sul suo nome, né l’espressione sorpresa di Tina.

«Mi ha consigliato un azzurro pastello», aggiunse Mercedes, gesticolando verso il suo vestito.

«Chi, Blaine?».

«No, il nostro Kurt, qui».

Tina guardò il tubino di Mercedes con aria pensierosa. «Beh è… si potrebbe fare. Ci penserò».

Poi prese Mercedes per un braccio, trascinandola fuori dalla stanza. Prima di uscire scrutò attentamente Kurt, dalla cima dei suoi capelli perfettamente pettinati in un ciuffo alla punta dei suoi mocassini Ferragamo.

«Magari chiamaci finché sei a New York. Noi tre dovremmo assolutamente andare a fare shopping».

Mercedes ebbe appena il tempo di sventolare la mano a mo’ di saluto prima di venire trascinata fuori dalla stanza.

«Wow. Sono…». Kurt esitò, a corto di parole.

«Sono speciali», disse Blaine, scuotendo la testa.

Prima che Kurt potesse aggiungere altro, una donna bionda fece il suo ingresso nella sala, invitando tutti i ballerini ad iniziare le prove. Sempre che “tutti voi incompetenti con degli slittini al posto dei piedi” significasse ballerini.

«Cassandra July», sussurrò Blaine, facendogli cenno verso la porta. «Meglio uscire, vieni…».

Si richiusero la porta alle spalle proprio mentre partiva un pezzo ritmato e allegro. Kurt si fermò qualche secondo, ascoltando attentamente.

«L’hai scritto tu?».

Blaine annuì con aria fiera. «Sì, ma non ce l’avrei mai fatta senza Adam. Sai, tutti qui hanno così tanto talento. Ad esempio Mercedes si meriterebbe di più di una parte da sostituta. Qui ha avuto una chance, ma la maggior parte dei direttori non le ha concesso nemmeno quella in passato. Mi ha detto che le è costato molto arrivare fin qui. Tina invece viene dall’Ohio, ma è nata a Cleveland ed è riuscita a prendere una borsa di studio alla Parsons per- Artie!».

Blaine sventolò una mano verso un ragazzo in sedia a rotelle che aveva appena girato l’angolo.

«Ehi Blaine, come butta?». Il ragazzo si sistemò gli occhiali sul naso prima di far scontrare il pugno con quello di Blaine. «E chi è il tuo amico?».

«Kurt Hummel», ripeté Kurt per quella che sembrava essere la centesima volta in due giorni.

«Piacere mio», disse il ragazzo. «Scusatemi ragazzi, ma Adam mi aspetta al piano di sopra e ci metterò una vita per arrivarci perciò-».

«Portagli questi, visto che ci sei», Blaine gli passò il plico di spartiti.

«Coso, non sono il tuo fattorino». Artie gli lanciò un’occhiataccia prima di andarsene velocemente.

«Lui è l’aiuto direttore. Ha frequentato la Tisch, se riesci a crederci, e si è anche mantenuto da solo! Ha fatto una fatica assurda a trovare lavoro – ovviamente nessuno assumerebbe un ragazzo disabile…».

Kurt aggrottò le sopracciglia, estraniandosi per un attimo dal monologo di Blaine. Qualcosa non tornava. Il giorno prima non gli era sembrato così logorroico ed ora invece… Gli ci volle qualche secondo per capire ciò che stava succedendo.

«Blaine». Il ragazzo interruppe di colpo il fiume di parole e lo guardò con aria interrogativa. «Non sei obbligato a farlo».

«A fare… cosa, esattamente?».

«Guarda», iniziò in tono deciso. «Probabilmente ieri ti sarò sembrato un po’ drammatico mentre parlavo di Columbus e del mio lavoro, ma non è così male, e ti assicuro che-».

«Ma il tuo sogno è stare qui», lo interruppe Blaine. «Non è vero?».

«Questo non fa differenza», disse Kurt in tono piatto, sperando che il discorso fosse finito.

«Certo che fa differenza!», scattò Blaine. «Non starai mai bene con te stesso se non farai almeno un tentativo di seguire i tuoi sogni».

«Non è così facile».

«I sogni non sono mai facili, ma-»,

«No Blaine, tu non capisci!». Si accorse di aver alzato la voce, anche se fortunatamente la musica proveniente dalla sala prove lo aveva coperto.

«Quando mi sono diplomato-». Kurt si bloccò, non fidandosi della sua voce. Diventava sempre estremamente emotivo quando tirava fuori quel discorso.

Una ragazza in camicia e collant sbucò dietro l’angolo, lanciando un sorriso in direzione di Blaine. Il ragazzo ricambiò il saluto, seguendola con gli occhi mentre entrava nella sala prove e si richiudeva la porta alle spalle.

«Kurt», disse piano, incrociando il suo sguardo. «Io… Non pensavo di… Ovviamente non sei obbligato a parlare con me di queste cose, ci siamo appena conosciuti, ma volevo solo-».

«No, tu non hai fatto nulla di sbagliato. È solo un argomento piuttosto difficile per me». Kurt prese un respiro profondo prima di iniziare a parlare.

«Quando mi sono diplomato, sono uscito da una scuola formata per la maggior parte da giocatori di football omofobi e cheerleader idiote. Volevo frequentare il college a New York, qualsiasi scuola sarebbe andata bene. Ma la mia famiglia non è mai stata molto ricca, e anche se mio padre provò a convincermi che i soldi sarebbero bastati, io sapevo che servivano per le sue cure mediche. Ha avuto un infarto quando ero in terza superiore», spiegò, in risposta allo sguardo confuso di Blaine. «E io sono orfano di madre. Ora ho un lavoro, frequento un ragazzo che non è perfetto ma mi vuole bene e mi sono ritagliato un posto a Columbus».

Sospirò, passandosi una mano sul viso. «Ho lottato per anni per essere riconosciuto, per far sentire la mia voce, per non essere maltrattato. Iniziare tutto daccapo… avrei paura di non farcela, stavolta».

Chiuse gli occhi. Davvero aveva appena aperto il suo cuore ad un quasi sconosciuto? “Grande Kurt, bel modo di fare una buona impressione un ragazzo, non c’è che dire”.

«Io… scusa, è stato davvero inappropriato-».

«No, ascolta Kurt». Blaine posò la propria mano su quella di Kurt, sfiorandola appena. «Capisco quello che vuoi dire».

Kurt fece un verso sarcastico.

«Mio padre mi ha buttato fuori di casa a diciassette anni, quando gli detto di essere gay», disse l’altro. Kurt alzò lo sguardo su di lui. Era mortalmente serio. «Dopo tre anni di scuola privata ho dovuto passare il mio ultimo anno al liceo pubblico, vivendo nei sobborghi di Los Angeles nel monolocale di mio fratello. Quando mi sono trasferito a New York mi sono pagato l’università da solo, lavorando. Il primo anno dormivo quattro ore a notte. Per nessuno di noi è stato facile. Ma nessuno qui ti dirà che non ne è valsa la pena».

Strinse appena la stretta sulla sua mano. «Tu hai così tanta passione, e potresti fare grandi cose dovunque tu vada, ma… si vede lontano un miglio che il tuo posto è qui. Dovresti provarci. Quello che ti serve è solo… coraggio».

Sorrise e lasciò la sua mano. Restarono in silenzio per qualche minuto, mentre Kurt contemplava quello che Blaine gli aveva appena detto.

Si riscosse quando sentì il suo cellulare vibrare, segno di una chiamata in arrivo. Tirò fuori l’iPhone, notando che aveva due chiamate perse, entrambe da parte di David Karofsky. Sospirò profondamente. Un altro problema da risolvere appena fosse tornato a casa.

Rivolse lo sguardo verso Blaine, che lo stava osservando di sottecchi.

«Posso offrirti un caffè?», chiese in tono incerto.

Kurt esitò un momento prima di scuotere la testa. «No. È stato un pomeriggio piuttosto… intenso, e credo di aver raggiunto il limite per oggi».

Blaine annuì con aria comprensiva. «Scusa-».

«Non scusarti. Tutto quello che hai detto è vero e…». Kurt scosse la testa, a corto di parole. «Devo solo riflettere e sistemare qualche problema».

«Spero davvero che tu possa risolverli, Kurt».

Il ragazzo sorrise. «Anche io. Nel frattempo…». Tirò fuori i due biglietti per Chicago dalla tasca della giacca. «Ti… ti andrebbe di vedere Chicago con me?».

 

Nei trenta minuti che impiegò per tornare nell’Upper West Side, Karofsky chiamò Kurt altre due volte. Il ragazzo digitò il suo numero appena entrò nell’appartamento di Rachel, poggiando giacca e sciarpa sul divano.

Karofsky gli rispose dopo appena uno squillo. «Kurt?».

«Ciao Dave», borbottò Kurt. Si accorse con una morsa allo stomaco che la sua voce non gli era mancata affatto.

«Kurt si può sapere che succede?». Il ragazzo sembrava seccato. «Sparisco per uno o due giorni e Finn inizia a blaterare che sei partito e sei andato a New York, si può sapere dove sei veramente?».

«A New York».

David restò in silenzio per qualche secondo. «… dici sul serio?».

«Certo!».

«E dove hai trovato tutti quei soldi?».

Kurt aggrottò le sopracciglia. «Papà e Carole avevano registrato il cottage di Prairie Oaks in un sito di Home Exchange e questa settimana una ragazza mi ha contattato e-».

«E tu hai accettato?».

«Certo che ho accettato», sbottò Kurt. «Quando mi ricapiterebbe un’altra occasione simile? E David la città, è davvero stupenda, dovresti vederla! L’Empire State Building era persino migliore di come me l’ero immaginato, Broadway è fantastica e ho incontrato persone così interessanti-».

«Hai conosciuto qualche ragazzo?», lo interruppe David in tono brusco.

Kurt aggrottò le sopracciglia. «Non c’è bisogno di fare il possessivo. Sì, qualcuno. Perché me lo chiedi?».

«Non sto facendo il ragazzo possessivo». Una pausa. «Qualche gay?».

«Certo, David», sbottò Kurt, irritato. «Nessuno qui si è fatto problemi a mostrarlo-».

Si interruppe di colpo, desiderando di poter rimangiarsi quello che aveva appena detto. Non aveva chiamato David per due giorni e ora gli rinfacciava anche il fatto di non aver ancora fatto coming out. “Ma cos’ho di sbagliato in questo periodo?”.

«Scusa», disse piano, ascoltando il silenzio dall’altro capo del telefono.

«Mi avevi promesso che non me l’avresti rinfacciato», disse David dopo qualche secondo.

Kurt sospirò. «Lo so, e mi dispiace. Sono solo…», esitò, senza riuscire a trovare le parole.

«Kurt?», disse l’altro con tono preoccupato. «È tutto a posto, vero? Ti perdono. Siamo a posto».

Kurt si appoggiò alla credenza della cucina, guardando fuori dalla finestra. «Non credo lo siamo più ormai, Dave».

«Cosa vuoi dire?».

«David, abbiamo funzionato per qualche tempo, ma questo rapporto sta danneggiando entrambi. Mi sto accorgendo di volere qualcosa di diverso e- e mi dispiace dirti di tutto questo al telefono, ma credo dovremmo parlarne seriamente quando tornerò a casa». Prese un respiro, attendendo la risposta dell’altro. «Dave?».

«Io-». Il cuore di Kurt sprofondò nel sentire il tono di David. «Certo, Kurt. Ne parleremo, okay? Ora… ora devo andare però. Sto uscendo con Azimio e Johnson».

«Divertiti», borbottò Kurt.

«Anche tu».

Senza dire altro, David riattaccò il telefono. Kurt terminò la chiamata e si premette il telefono contro le labbra. Non poteva quasi crederci, ma stava succedendo.

La sua vita stava prendendo una svolta inaspettata.

 

22 dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio

 

Rachel alzò il volume della televisione quando Keira Knightley aprì la porta di casa per trovarsi davanti un Andrew Lincoln infreddolito e sorridente.

«Benedetta ragazza, come hai fatto a non accorgertene prima?», borbottò nella sua tazza di the mentre Mark confessava il suo amore a Juliet. «E io avrei saputo interpretare questa scena molto meglio di te».

Bevande calde e ipercriticismo erano la migliore cura che conoscesse per i suoi problemi di cuore – e in quel momento era nel bel mezzo di un problema grande come una casa. Letteralmente.

Le mancava Finn. E non solo in quel momento, le era mancato dal momento in cui era uscito dalla porta della casa di Kurt.

Passare un’intera giornata in giro per Columbus non aveva aiutato per niente – nemmeno lo shopping. Quella era una situazione senza precedenti.

«E sei anche troppo magra», borbottò la ragazza verso Keira Knightley, affondando ancora di più nei cuscini del divano. Fece un verso di protesta quando un rapido bussare alla porta d’entrata la costrinse ad alzarsi dal bozzolo di cuscini e coperte.

«Un attimo!». Si prese qualche secondo per sistemarsi i capelli e controllare com’era vestita, nel caso dei giornalisti fossero venuti a sapere dove si era rintanata per le vacanze.

“Non si sa mai…”. Corse alla porta, aprendola con uno dei suoi scintillanti sorrisi da palcoscenico.

«Buonasera, chi-».

Le parole le morirono in gola quando vide una ventina di bambini sovraeccitati fermi davanti all’entrata.

«Buon Natale!», strillò una di loro, una piccoletta con una treccia bionda e un cappellino rosso calcato in testa.

«Io- grazie».

Rachel alzò appena lo sguardo per vedere quattro o cinque adulti dietro il gruppo di bambini, e dietro a tutti quanti, in un penoso tentativo di nascondersi… Finn.

Abbassò subito gli occhi. Aveva già incasinato abbastanza la loro situazione. Ignorarlo era la migliore scelta che aveva… giusto?

«Ci piacerebbe cantarle qualche canzone di Natale, signora», esclamò un altro bambino.

«Ma certo», rispose Rachel nel suo tono più gentile, mentre cercava di trattenere una smorfia.

“Signora? Ho solo ventiquattro anni, per l’amor del cielo”.

I bambini sussurrarono per qualche minuto fra loro, prima di iniziare a cantare in coro Joy to The World.

Rachel sorrise suo malgrado. Era abituata ai cori di Broadway e non a un manipolo di bimbi, ma questi erano particolarmente intonati per la loro età.

“Mi domando chi sia il loro insegnante. Un tizio così potrebbe fare meraviglie con Mike”.

Applaudì gentilmente quando i bambini finirono. Alcuni accennarono degli inchini esagerati, mentre gli altri si limitavano a ridere o a chiacchierare fra loro.

«Siete stati davvero bravissimi». Alcuni accennarono degli inchini esagerati al complimento di Rachel. «Mi piacerebbe sentirne un’altra».

«Facciamo quella del tipo con gli occhiali!», esclamò uno di loro, seguito dall’assenso di tutti gli altri.

«Signor Hudson devi cantare anche tu per questa». Rachel imprecò fra sé e sé. Aveva sperato di ignorare la presenza di Finn per altri due minuti e mezzo, ma la bambina che si era girata verso di lui e aveva iniziato a tirargli la manica non era della stessa opinione, evidentemente.

«Ashley», borbottò Finn con espressione mortificata. «Credo che la signorina abbia voglia di sentir cantare voi, non me-».

«Ma canteremo anche noi, non ti ricordi? E hai detto che era una delle tue canzoni preferite». La bambina fece un broncio così marcato che il labbro superiore toccò quasi la punta del naso.

«Va bene, va bene. Canteremo tutti insieme».

Finn lanciò una breve occhiata di scuse a Rachel prima di iniziare a cantare.

«So this is Christmas, and what have you done? Another year’s over…».

Rachel si trattenne a stento dal sollevare entrambe le sopracciglia in un’espressione di sorpresa. L’ultima cosa che si sarebbe aspettata era che Finn avesse una così bella voce. O una tecnica affinata.

“Il suo tenore suonerebbe davvero bene con il mio soprano”, pensò distrattamente, mentre i bambini iniziavano a cantare il coro di “War is over, if you want it”.

Ascoltò pazientemente tutta la canzone, applaudendo di nuovo quando fu finita.

Finn si chinò verso uno degli altri adulti, sussurrando qualcosa al suo orecchio. L’uomo lanciò una veloce occhiata a Rachel e annuì, battendogli una mano sulla spalla.

«Forza bambini, andiamo avanti».

Il gruppo tornò in strada e si mosse verso un’altra casa, mentre Finn rimase sul vialetto del cottage, avvicinandosi lentamente all’entrata. «Ciao Rachel».

La ragazza si appoggiò allo stipite della porta. «Ciao Finn».

«Io-», il ragazzo si grattò la nuca con una mano, palesemente a disagio. «Mi dispiace molto di essere tornato qui. Ho provato a convincerli a non suonare il campanello, ma i bambini non volevano saltare nessuna casa e così…».

«Non ti preoccupare». Rachel affondò le mani nelle tasche del cardigan. «È stato… molto carino, a dir la verità».

Finn sembrò sorpreso. «Davvero?».

«Certo. E non c’era affatto bisogno che cercassi di nasconderti dietro quei bambini, Finn».

Il ragazzo ebbe la decenza di mostrarsi imbarazzato. «Oh, io- non ha funzionato, vero?».

Rachel scosse la testa, cercando di non ridere. «Ah-ah. Ma c’era da aspettarselo, visto che sei più alto del mio albero di Natale».

Finn fece un mezzo sorriso, mentre Rachel si obbligava a non fissarlo troppo. Dio, era normale che le fosse mancata così tanto il suo viso? “Sono proprio una ragazzina…”.

La voce di Finn la distrasse dai suoi pensieri. «Sai, sono felice di esser passato di qui. Avevo voglia di parlarti, ma non penso avrei avuto il coraggio di venire qui a bussare alla tua porta». Finn incrociò le braccia, guardandola negli occhi. «Tu… mi piaci, Rachel. Sei molto più interessante delle ragazze che incontro di solito e non hai riso di me quando ti ho confessato quanto mi piacciano Robert Pattinson e le Spice Girls-».

«Questo perché chiunque non apprezzi le Spice Girls è davvero un barbaro», lo interruppe Rachel in tono deciso. Si scambiarono una breve occhiata prima di mettersi a ridere.

«È di questo che stavo parlando», commentò Finn sorridendo. «Rachel, mi piacerebbe molto frequentarti, finché resterai qui in Ohio. Fuori dalla… camera da letto, intendo», aggiunse arrossendo leggermente.

Rachel abbassò lo sguardo. “Allora è così che si sentono le ragazze normali quando un ragazzo chiede loro di uscire? Sono a un passo dall’iperventilazione”.

Si prese un altro secondo per calmarsi prima di tendere la mano verso Finn.

«Dammi il tuo cellulare». Il ragazzo le lanciò uno sguardo confuso prima di passarle un piccolo telefono nero che doveva aver visto giorni migliori.

Rachel digitò velocemente il suo numero, per poi girare lo schermo verso Finn.

«Chiamami appena hai un momento libero».

Il ragazzo lo riprese con uno sbuffo, ma invece di allontanarsi si chinò verso di lei, baciandola su una guancia.

«Buonanotte Rachel», disse prima di allontanarsi lungo la strada.

Rachel si posò una mano sulla guancia, sentendosi come una ragazzina appena tornata a casa dopo il primo appuntamento.

«Sogni d'oro».

 

A/N:

Eeeeet voilà :)

Perdonate il leggero ritardo ;)

Ummmmmh, cos’ho da dire su questo capitolo? Il film di cui parla Rachel è Love, Actually – la scena dei cartelli… <3

Ovviamente la seconda canzone che cantano i bambini è Happy Xmas (War is Over), di John Lennon.

E ummmh… le vacanze per me sono ufficialmente iniziate! Yay! Posso scrivere fino a svenire sulla tastiera (anche perché dopo inizieranno gli esami e dovrò seppellirmi fra i libri, uggghh…).

Che altro? Il prossimo capitolo sarà pubblicato venerdì/sabato :)

Grazie mille a tutti quelli che hanno recensito (<3), a quelli che hanno inserito la mia fic fra i preferiti, e a yu-gin che si sorbisce i miei errori grammaticali e i miei dubbi amletici sulla trama :)

A presto!

MM

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Capitolo 4
*** 23 dicembre - 24 dicembre ***


23 dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio

 

«Sono una donna matura ed indipendente», dichiarò Rachel al silenzio del salotto. «E sono perfettamente in grado di chiedere ad un ragazzo di uscire con me- okay, Rachel questa non va bene, avresti sempre potuto chiamarlo prima». Sistemò meglio la testa sul cuscino del divano.

Erano passate esattamente diciannove ore da quando aveva ricevuto un sms da parte di un numero sconosciuto che diceva solo Grazie ancora per avermi dato il tuo numero, Rachel. Ci sentiamo presto. Finn xoxo.

Rachel si era affrettata a salvare il numero fra i suoi contatti e a ricaricare la batteria del cellulare al massimo. Ma Finn non aveva ancora chiamato.

Perché non aveva chiamato? La ragazza cambiò posizione per la decima volta in mezz’ora, stendendosi con la schiena sul tappeto del soggiorno e le gambe sui cuscini del divano.

«In fondo ha chiesto lui il mio numero. Perché disturbarsi se poi non mi chiama? Uomini».

Recuperò un altro cioccolatino dalla scatola che aveva comprato il giorno prima come regalo per la sua agente, e che aveva aperto in uno scatto di disperazione.

«E tutto quel discorso su quanto gli piacessi? Non poteva essere tutta una messa in scena, no?», si chiese mentre una pralina si scioglieva sulla sua lingua. «Oh, chissenefrega, io lo chiamo».

Recuperò il cellulare, selezionò rapidamente il numero di Finn e premette il tasto chiama prima di poter cambiare idea.

“Forse faccio ancora in tempo a riattaccare…”, pensò mentre il telefono squillava.

«Pronto?». La voce del ragazzo risuonò dall’altro capo del telefono, prendendola di sorpresa.

«P-pronto!».

Un secondo di silenzio, poi… «Rachel?».

«Sì, sì sono io. Io-», Rachel sentì un rumore soffocato e aggrottò le sopracciglia. «Sei occupato?».

«Emh… a dire la verità sì. Mi dispiace di non averti chiamato subito, ma oggi è un giorno un po’ impegnativo e-». Finn si fermò, poi allontanò la cornetta e disse qualche parola che Rachel non riuscì a capire. «Scusa, dicevamo?».

«Io…». La ragazza si spremette le meningi. “Forza, inventa, inventa”. «Ecco, a dir la verità volevo solo ringraziarti per ieri sera. Quel coro di bambini è stato davvero adorabile».

«Ti è piaciuto davvero?». Si poteva sentire che stava sorridendo mentre parlava.

Rachel fece un verso affermativo. Ed era sincera. «Di solito odio i cori di bambini, ma questi sono stati molto bravi».

Finn rise. «Io…», iniziò, esitando. «Se ti è piaciuto davvero dovresti prendere un taxi e raggiungermi».

Rachel raddrizzò la schiena all’improvviso. Questo era inaspettato. «Dove ti trovi?».

«Scuola elementare Cranbrook. Non credo sarà quello che normalmente chiameresti un appuntamento romantico, ma almeno non dovremmo aspettare un altro giorno per vederci. Che ne dici?».

La ragazza sorrise. «Dico che è una splendida idea. Dammi mezz’ora!».

Riattaccò il telefono senza nemmeno aspettare la risposta di Finn e corse in camera per cambiarsi più in fretta possibile.

 

“Forse sono un po’ troppo elegante”, si disse Rachel mentre camminava lungo il vialetto della Cranbrook Elementary School. “Sciocchezze”, si corresse qualche minuto dopo adocchiando il suo riflesso sul vetro della porta d’entrata. “Queste calze mi fanno delle gambe lunghe chilometri”.

Entrò nella scuola, trovandosi nel bel mezzo di un corridoio dipinto di verde.

«E… ora?».

Stava già considerando di chiamare Finn per farsi dare qualche dritta – o anche per chiedergli che diavolo avesse in mente – quando il suo cellulare squillò.

Aula 2B, diceva solamente il messaggio di Finn. Rachel era ancora piuttosto confusa, ma decise di cercare l’aula e riservare le domande per un secondo momento. Per ora le bastava vedere il ragazzo.

Il suono dei suoi tacchi echeggiò nella scuola deserta, mentre vagava per i corridoi controllando i cartelli appesi sulla porta di ogni aula.

Dopo dieci minuti di ricerca vide una stanza un po’ più isolata dalle altre, con una targhetta che annunciava “2B”, e, appena più sotto, “Musica”. Dall’aula proveniva un brusio di voci che parlavano l’una sull’altra e a tratti cantavano. Rachel si avvicinò, incuriosita, e si avvicinò trovando la porta socchiusa. La scena che le si presentò davanti decisamente non era quella che si era aspettata.

La stanza era piena di bambini in svariati costumi di Natale che si rincorrevano strillando. In tutta quella baraonda Finn era accovacciato vicino ad una bambina bionda vestita da angelo tenendo in mano una ciocca di capelli ondulati e fallendo miseramente nel tentativo di fare una treccia.

«Mi dispiace Beth, non ci riesco», stava dicendo proprio in quel momento. Sembrava sinceramente dispiaciuto. «Credo dovremo scioglierli».

Senza pensarci due volte, Rachel entrò nella stanza e si avvicinò ai due.

«Posso provarci io, se vuoi». Finn alzò lo sguardo. Aveva delle ombre scure sotto gli occhi e un po’ di glitter appiccicato sul mento. “Oh Dio, è adorabile”.

«Sei la signora di ieri sera, vero?», chiese la bambina con aria sospettosa.

Finn si alzò e le mise una mano sulla spalla. «Lei è Rachel, una mia amica».

«Ti prometto che farò un buon lavoro. Il mio papà mi ha insegnato a farmi le trecce quand’ero più piccola di te».

La bambina la studiò per un altro momento prima di annuire e girare leggermente la testa.

Rachel prese in mano una ciocca dei suoi capelli e li intrecciò in pochi secondi, legandoli con l’elastico che la bambina le stava porgendo.

Quando ebbe finito, Beth si passò le dita sulla treccia, con aria entusiasta.

«Grazie, signora», esclamò mentre si catapultava dalla parte opposta della stanza.

«Rachel», precisò lei, trattenendosi a stento dal fare una smorfia.

Finn ridacchiò, aiutandola a mettersi in piedi.

«Tuo padre dev’essere un uomo fantastico!».

Rachel sorrise, pensando ai suoi due papà nella loro casa da pensionati a Miami.

«Lo è». Si girò verso Finn con un sorriso divertito. «Allora, vuoi spiegarmi cose ci fai in una stanza piena di bambini? Ti hanno ricattato per caso?».

Il ragazzo scosse la testa con aria divertita, un po’ rosso in viso. «Questo è il mio lavoro. Sono un insegnante. Musica», aggiunse, prima che Rachel potesse chiederlo.

«Io… beh, mi sembra piuttosto adatto a te», mormorò la ragazza.

«Grazie», rispose lui con un sorriso a trentadue denti. «Non era quello che immaginavo di fare durante il liceo, ma sono davvero felice di come sono andate le cose. Non pensavo di essere tanto bravo con i bambini».

Rachel annuì, chiedendosi distrattamente come avesse fatto a sospettare il contrario – Finn aveva probabilmente il carattere più mite di tutto l’Ohio.

«E sono tutti vestiti da angeli perché…?».

«La recita di Natale!», annunciò Finn illuminandosi. «Devono andare sul palco fra dieci minuti, e a questo proposito… ti andrebbe di… umh… restare? Dura pochissimo, giuro. Poi potremmo andare a prendere una cioccolata calda, o a fare una passeggiata, o qualunque cosa tu abbia voglia di fare, giuro».

Rachel guardò la sua espressione speranzosa e semplicemente non seppe dire di no.

 

Fu così che un’ora dopo si ritrovò seduta nel minuscolo appartamento di Finn, una coperta sulle ginocchia e l’ennesima tazza di cioccolata calda in mano.

«Credo di aver bevuto tanta cioccolata calda da averne abbastanza per il resto della mia vita», commentò mentre Finn lasciava cadere qualche marshmallow all’interno della sua tazza.

Sparì in cucina per qualche secondo, mentre Rachel beveva il primo sorso.

La recita di Natale, se così si poteva chiamare – grazie a Dio ne aveva visto solo la fine – era stata sorprendentemente piacevole. Anche se si era ritrovata seduta in una sedia di plastica in mezzo ad una marea di genitori e parenti, davanti ad un palco con scenografie fatte di stoffa e di cartone. Ben diverso dai suoi soliti standard.

I bambini avevano cantato un medley di Chestnuts Roasting On An Open Fire e Let it snow senza stonare nemmeno una nota, mentre Finn stava in piedi sotto il palco – per dirigerli o per incoraggiamento morale, non aveva ancora capito quale delle due.

Era stato dolce, carino e… normale. Stranamente, non le era dispiaciuto nemmeno un po’.

Finn uscì dalla cucina e le porse un bastoncino di zucchero, distraendola dai suoi pensieri.

Lo accettò e iniziò a mescolare la cioccolata, mentre il ragazzo si sedeva accanto a lei, abbastanza vicino da sfiorarle una gamba con la sua. Rimasero in silenzio per qualche secondo, mentre il profumo di cioccolato e cannella riempiva la stanza.

Poi… «Cosa fai a Natale?», chiese Finn in tono pensieroso.

Rachel soffiò sulla sua tazza, pensando ad una risposta non troppo patetica. «Credo rimarrò a casa di Kurt, e guarderò per l’ennesima volta Una poltrona per due. Un Natale fra me e me, sai».

«Che ne dici di venire a casa di alcuni miei amici per pranzo? Una persona in più non farà la differenza, per loro».

«Dici sul serio? Non passerai Natale con la tua famiglia?».

Finn scosse la testa. «Mia madre e il mio patrigno sono alle Bahamas. Un viaggio regalo da parte mia e di Kurt – lui non sarebbe mai andato via se Burt non fosse partito, adora suo padre ». Il ragazzo bevve un sorso di cioccolata prima di continuare. «Credo programmasse di trascorrere le feste con il suo ragazzo, ma a quanto pare anche quel piano è saltato».

Rachel lo guardò inarcando un sopracciglio. Quelle sì che erano notizie. «Kurt ha un ragazzo?».

«Sì. Lui crede che nessuno lo sappia, ovviamente, ma sono più sveglio di quanto creda. Non ero il più intelligente della mia classe, al liceo e lui mi immagina ancora così».

Rachel gli diede una gomitata scherzosa. «Beh, questo non può essere vero. Sei finito a fare l’insegnante, dopo tutto».

Finn arrossì leggermente. «Fidati, non ero uno sveglio. È soltanto merito di uno dei miei professori se sono diventato un insegnante. Dirigeva il nostro Glee Club e tutti dicevano che era un po’ strano, ma ha davvero cambiato la mia vita. Mi ha mostrato che non dovevo essere per forza quello che gli altri volevano che io fossi, ma chi desideravo veramente essere», sorrise fra sé e sé, prendendo un altro sorso di cioccolata. Rachel non poté fare altro che guardarlo in silenzio, pregando di non sembrare troppo in adorazione. Dopo pochi secondi Finn incrociò il suo sguardo, continuando a sorridere e facendo scivolare una mano nella sua. «Scusa, sto straparlando», commentò stringendole leggermente le dita. «Dimmi di te, invece. Cosa fai a New York?».

«L’attrice di musical», riuscì a dire Rachel «Nulla di che, davvero».

Finn spalancò gli occhi. «Musical? Cavolo, mio fratello ti invidierebbe. Sai, fa anche lui l’attore».

«Che coincidenza».

Finn scosse la testa con aria sprezzante. «Coincidenza? Pff, dev’essere destino».

La ragazza trattenne il respiro, osservando il suo profilo illuminato dalle luci intermittenti dell’albero di Natale. «Forse».

 

24 dicembre 2017, Theatre District, New York

 

«Non molte persone saprebbero come abbinare un papillon», commentò Kurt osservando Blaine al di sopra del menu.

L’altro ragazzo gli lanciò un’occhiata divertita, sistemandosi il cravattino attorno al collo. «Fortunatamente per te io sono una di quelle poche persone».

Kurt sorrise, prima che un orribile dubbio gli sfiorasse la mente. «Non è uno di quelli già annodati, vero?».

Blaine si portò una mano al petto, con un’espressione offesa. «Mi ferisci nell’orgoglio, Kurt».

Kurt si rilassò sulla sedia, tornando a guardare il suo menu. «E poi sostieni di non essere un bravo attore».

Blaine sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «Infatti adesso sto solo facendo lo scemo».

Un cameriere si avvicinò al loro tavolo, chiedendo se erano pronti per ordinare. Mentre Blaine discuteva della scelta del vino, Kurt si diede un’occhiata intorno. Erano seduti uno di fronte all’altro nell’angolo più riservato di un piccolo ristorante a cinque minuti dall’Ambassador Theatre, dove sarebbero andati a vedere Chicago. Assomigliava troppo ad un appuntamento, per i suoi gusti – sarebbe stato felice di uscire con Blaine, in circostanze più normali, ma tecnicamente usciva ancora con David e non poteva fare a meno di sentirsi un po’ in colpa… “Da quand’è che la mia vita amorosa è diventata così complicata?”.

Dopo aver preso i loro ordini il cameriere si volatilizzò, lasciandoli di nuovo soli.

«Allora», Blaine si risistemò nella sua sedia, incrociando lo sguardo con quello di Kurt. «Ho una domanda che mi tormenta da due giorni, e devo assolutamente chiedertelo…».

Kurt alzò un sopracciglio, con aria interrogativa. «Dimmi pure».

 «Su una scala da uno a dieci, quanto ti ho messo a disagio con la conversazione di qualche giorno fa?».

«E io che credevo che volessi chiedermi qualcosa di intelligente», commentò Kurt, sarcastico. Quando Blaine non rispose lo guardò più attentamente. «Aspetta, sei serio?».

Il ragazzo aveva un’espressione vagamente colpevole. «Io- rispettare gli spazi degli altri non è esattamente il mio forte. Quando vedo che qualcuno ha un problema lo voglio aiutare, capisci? E mi dimentico totalmente di sciocchezze come la privacy». Poggiò i gomiti sul tavolo, chinandosi verso Kurt. «E se non volessi più vedere la mia faccia ti capirei, veramente».

«Blaine», Kurt si chinò verso i lui, resistendo all’impulso di poggiare una mano sulle sue. «Se non volessi più vederti non ti avrei chiesto di vedere Chicago con me, ti pare?».

«Quindi non…?».

«Beh, magari all’inizio mi hai preso un po’ in contropiede», ammise il ragazzo. «Ma mi ha fatto davvero bene. Dio solo sa quanto avevo bisogno di parlare di questo con qualcuno che volesse starmi ad ascoltare…».

Blaine lo guardò con espressione sorpresa. «Non ne avevi mai parlato con umh… con il tuo ragazzo?».

Kurt aggrottò le sopracciglia. La sola idea di parlare a David di cose così personali…

«Dave non è il mio ragazzo. Non abbiamo mai ufficializzato nulla, senza contare che nessuno sa di noi. Non ha ancora fatto coming out perché i suoi amici sono… umh…».

«Di strette vedute?», consigliò Blaine.

Kurt fece un piccolo sorriso. «Prova “idioti”. Ma parlare con te mi ha fatto rendere conto che non posso continuare ad accontentarmi di mezzi successi solo perché ho troppa paura di non riuscire a farcela».

Si interruppe vedendo il cameriere che veniva verso di loro con le loro ordinazioni.

Quando se ne fu andato Kurt iniziò di nuovo, scegliendo le parole con cura. «Usciamo insieme da otto mesi e… mi sto rendendo conto che è troppo complicato. Abbiamo una lunga storia alle spalle», aggiunse all’occhiata di Blaine. «Complicata e… dolorosa».

Per un attimo sembrò che Blaine volesse chiedere qualcosa, ma poi dovette ripensarci, scuotendo leggermente la testa e prendendo in mano la sua forchetta.

Kurt iniziò a mangiare a sua volta, decidendo di cambiare discorso.

«Ora basta parlare di argomenti deprimenti. Sono felice. Ho realizzato che voglio di più dalla mia vita, e che se altri ce l’hanno fatta posso farcela anche io. Mi trasferirò a New York e proverò a realizzare i miei sogni, dovessi vivere di ramen istantaneo e crema idratante economica per il prossimo anno».

Blaine gli rivolse un sorriso luminoso. «Così si parla. Anche se dubito che sia il tuo caso. Hai già fatto il college e hai anche esperienza. Dove hai detto che lavori?».

«American Contemporary Theatre Company», disse Kurt con orgoglio. Sapeva che era conosciuta anche fuori dall’Ohio – anche se non era esattamente il suo lavoro ideale. «Da quando mi sono diplomato».

«Non male. Danno delle buone referenze?».

«Non ne ho idea. Un'altra voce da aggiungere alla lista infinita delle cose da controllare», si picchiettò il mento con il manico della forchetta, pensieroso. «Non so ancora come farò a trasferirmi senza impazzire. E da solo, tra l’altro».

«Felice di sapere che non conto», esclamò Blaine.

«Non potrò certo starti attaccato tutto il tempo Blaine, devi lavorare-».

«E Mercedes e Tina? Ho sentito che ti hanno rapito ieri».

«Era solo un pomeriggio di shopping», commentò Kurt, prima di guardarlo con aria sospettosa. «Non ti avranno raccontato anche di quello che è successo da Abercrombie, spero».

Blaine sembrava confuso. «No? Qualcosa di interessante?».

Kurt scosse la testa. «Qualcosa che rimarrà fra noi tre».

Blaine rise della sua espressine seria. «Umh, okay? Parlami di New York, allora. Hai visitato il Museo Di Storia Naturale, spero».

Kurt alzò un sopracciglio. «Per chi mi hai preso?».

Per il resto della cena parlarono di tutti i luoghi che Kurt aveva visto, e di quelli che ancora gli rimanevano da vedere. E una volta esaurito l’argomento, continuarono a parlare. E quando si sedettero fianco a fianco sulle poltroncine dell’Ambassador Theatre, e le luci calarono nella sala, Kurt si accorse con sorpresa che aveva parlato di più con Blaine in una serata sola che con Dave in un mese intero.

Scosse la testa. “Niente pensieri negativi. Non stasera”.

Scambiò un ultimo sguardo con Blaine prima di girarsi verso il palco.

Le note di apertura di All That Jazz riempirono improvvisamente la sala.

“Non può andare meglio di così”, pensò Kurt con un sorriso.

 

A/N:

Miei cari lettori, siamo sopravvissuti alla fine del calendario Maya! (gasp)

Dovrei dire che il 21 dicembre ho guardato il film “2012” e me la sono fatta sotto lo stesso? No?

Okay.

Informazione di servizio: sto partendo per andare dai miei parenti e ci starò fino all’uno dicembre.

Quindi il prossimo capitolo verrà pubblicato la sera dell’uno o la mattina del due (ebbene sì, la connessione a casa di mia cugina è lentissima. Non esagero).

Nota positiva: Mi porterò dietro il portatile e avrò molto tempo per scrivere, yay :)

Grazie ancora a tutti quelli che mi lasciano commenti, recensioni e seguono la mia storia!

Buon Natale e buon anno nuovo a tutti!

Ci risentiamo nel 2013 ;)

MM

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Capitolo 5
*** 25 dicembre ***


25 dicembre 2017, Upper West Side, New York

 

Kurt non era mai stato un amante delle alzatacce.

Era davvero un mistero perché la gente attorno a lui credesse che fosse una persona mattiniera – ma forse il fatto che i suoi capelli fossero perfetti anche alle otto di mattina c’entrava qualcosa.

La verità era che Kurt odiava svegliarsi. E ancora di più essere svegliato – specie nelle rare occasioni in cui si concedeva di dormire quelle due ore in più…

Fu per questo che quando la suoneria del suo cellulare lo destò da un sogno particolarmente bello la mattina di Natale giurò vendetta istantanea a chiunque l’avesse chiamato. Allungò di malavoglia un braccio fuori dalle coperte e afferrò il telefono, senza preoccuparsi di controllare chi fosse.

«Pronto?», grugnì con una voce tutt’altro che amichevole.

«Buon Natale, Kurt!».

«Blaine?». Oops. Forse avrebbe dovuto riconsiderare quella faccenda della vendetta sanguinosa. Si strofinò una mano sugli occhi, cercando di non sbadigliare – davvero poco sexy.

«Stavi dormendo vero?», chiese Blaine in tono divertito.

«È Natale, nessuno si alza presto», protestò l’altro. «E ieri sera siamo tornati tardissimo».

Affondò di  nuovo sotto il piumone, sorridendo suo malgrado. Chicago era stato stupendo, e Blaine il perfetto gentiluomo – porte aperte, scorta fino a casa, gli avrebbe addirittura offerto la cena se non avesse ricevuto una delle famose occhiatacce marcate Kurt Hummel prima ancora di provarci.

Peccato che Kurt continuasse a ricordarsi che stava con Dave – e anche se le cose fra loro non erano così serie, non era riuscito ad evitare che i sensi di colpa lo tormentassero.

D’altronde cercare di non flirtare con Blaine era stato frustrante, se non inutile. Il suo sorriso e i suoi occhi, e quel viso-

Kurt soffocò un gemito di frustrazione nel cuscino mentre ascoltava la risata del ragazzo all’altro capo del telefono. «Chissà perché ti facevo un tipo mattiniero».

«Chissà perché non sei il primo che si sbaglia», borbottò il ragazzo contro il copriletto.

«In ogni caso, ti ho svegliato per sapere cosa farai oggi».

«Mmmh…», Kurt aggrottò le sopracciglia. «Credo che mi limiterò a chiamare mio padre e a dormire per altre diciannove ore. Non ho molta scelta, i musei sono chiusi e gli unici DVD che Rachel sembra possedere sono Twilight e ogni stagione esistente di Gossip Girl».

«Ami New York e non ti piace Gossip Girl?». La voce di Blaine era a dir poco scandalizzata.

L’altro ragazzo sbuffò. Aveva avuto la stessa conversazione con Tina qualche giorno fa. «Serena è una stronza e Nate è lamentoso. E odio Chuck Bass».

«Un riassunto ammirevole, ma sono costretto a contraddirti: nessuno odia Chuck Bass».

«Io sì», capitolò Kurt, tirando anche le coperte sopra la testa. «E preferisco Sex and the City, in ogni caso. I vestiti sono migliori».

Per un attimo credette che Blaine si fosse soffocato, a giudicare dai rumori provenienti dalla cornetta. «I vestiti- okay, ritorniamo al motivo per cui ti ho chiamato e facciamo finta che questa conversazione non sia mai avvenuta, altrimenti sarò costretto a non rivolgerti più la parola». Kurt rise suo malgrado. «Mercedes sta organizzando un piccolo pranzo di Natale per noi orfani qui a Soho».

«Orfani?».

«Non tutti i ragazzi del cast sono potuti tornare a casa per le vacanze. Le prove sono davvero devastanti in questo periodo. Quindi stiamo organizzando un pranzo di Natale, e visto che anche tu sei lontano dalla tua famiglia-».

«Siete stati molto carini…», lo interruppe Kurt.

«Ma?», ribatté Blaine, senza perdere un colpo.

Kurt si rigirò fra le lenzuola. Uscire con Blaine era un conto – si erano trovati in sincronia da subito, dopo i primi dieci secondi di disagio – e adorava Tina e Mercedes, ma intromettersi nella festa di Natale di un gruppo di sconosciuti…

«Non vorrei essere di troppo», ammise di malavoglia.

«Kurt», disse Blaine con lo stesso tono che lui aveva usato con Finn quando aveva dovuto spiegargli per la sesta volta come funzionava il videoregistratore. «Mercedes mi ha minacciato di lasciarmi senza dolce se non ti avessi convinto a venire. Vuoi davvero farmi questo?».

Kurt sentì un groppo in gola. “Vogliono che io ci sia?”. «Potresti decisamente vivere senza una fetta di pudding», riuscì a borbottare per tutta risposta.

«Potrei, ma sarebbe il Natale più triste della mia vita», precisò l’altro. «Andiamo, Kurt. Non ci sarà solo il cast. Verranno anche alcuni amici, conoscenti… parenti stretti che sono in città».

«Io-», iniziò Kurt, ancora riluttante.

«Ci saranno montagne di cibo», aggiunse Blaine. «E Mercedes ha un pianoforte, quindi potremmo suonare e cantare! So a memoria tutte le canzoni di A Christmas Story». Blaine fece una pausa, mentre Kurt cercava con tutte le sue forze di trovare una qualsiasi scusa. «Per favore».

«Okay», capitolò il ragazzo. «Dimmi che metropolitana devo prendere. E che dolce devo portare».

 

25 dicembre 2017, Greater Hilltop, Columbus, Ohio

 

Rachel sbatté le palpebre, svegliandosi lentamente.

Davanti agli occhi aveva una federa rossa – divano? –, un cuscino con un ricamo a filo d’oro che le premeva sulla guancia e una coperta di lana che a quanto pareva era avvolta attorno al suo corpo. Sospirò e infilò i piedi gelati sotto il bracciolo del divano prima di realizzare che non era a casa sua.

Spalancò di nuovo gli occhi. “Dio, non sarò finita ancora in New Jersey”, fu il suo primo pensiero.

“Oh no, ho sbavato sul cuscino. Di nuovo”, fu il secondo.

Si girò su sé stessa, ispezionando la stanza attorno a sé: un piccolo salotto arredato sui toni del rosso, un minuscolo albero di Natale nell’angolo e un grande tappeto caldo steso sul pavimento.

“Ah già. Sono a casa di Finn”.

Sbadigliò, decisamente più rilassata, e lanciò un’occhiata assonnata all’orologio sopra al caminetto: erano le otto e mezza  e aveva ancora un sacco di tempo per dormire.

Non aveva la minima idea del perché fosse lì, ma quella era l’ultima delle sue preoccupazioni: assonnata, calda e stranamente circondata dal profumo di Finn le ci vollero solo pochi minuti per riaddormentarsi.

 

Si risvegliò qualche ora più tardi, mentre una voce gentile sussurrava al suo orecchio.

«Rachel, sveglia».

La ragazza mugugnò. «Lasciami stare, Sugar».

«Come?». Una mano si posò leggermente sulla sua spalla. Cercò di scrollarla via, girandosi di nuovo.

«Devi smetterla di entrare nel mio appartamento mentre sto dormendo», borbottò Rachel in dormiveglia. Solo pochi secondi dopo si accorse che la voce che le stava parlando era troppo profonda per essere femminile, e la mano sulla sua spalla era priva di artigli ricoperti di smalto.

Spalancò gli occhi, trovando il viso confuso di Finn a pochi centimetri dalla faccia.

«Rachel, non ho idea di cosa tu stia parlando».

«Oh… Io- buongiorno», balbettò la ragazza sentendo le guance bruciare dall’imbarazzo.

“Rachel Berry non arrossisce!”, ricordò con furia al suo corpo, che però sembrava non voler collaborare.

«Buongiorno», rispose Finn con un mezzo sorriso che le fece venire voglia di avvolgergli le braccia al collo e trascinarlo sul divano con lei. Invece si mise a sedere e si guardò intorno con aria confusa.

«Potresti ricordarmi perché sono qui?».

«La nostra maratona di The O. C. si è protratta troppo a lungo, credo», disse il ragazzo con una smorfia.

«Summer e Seth si stavano baciando», annuì lei, ricordandosi di aver scovato la collezione di cofanetti di telefilm di Finn la sera prima. «Non potevo semplicemente spegnere la televisione».

Solo quando Finn rise sonoramente si rese conto di cosa aveva appena detto. «Oh Dio, siamo dei malati, non è vero?».

«Credo di sì». Finn le diede un colpetto sulla braccio prima di alzarsi. «La colazione è pronta e se vogliamo fare in tempo a pranzo dobbiamo iniziare a prepararci».

«Oh… già». La ragazza si stiracchiò prima di alzarsi dal divano e trascinare con sé la coperta fino in cucina. «Allora», iniziò mentre si sedeva, drappeggiando il plaid attorno a sé. «Chi sono questi tuoi fantomatici amici da cui mi stai portando?».

Finn alzò un dito mentre versava il caffè con aria particolarmente concentrata. «Ti ricordi la  bambina bionda con le trecce, Beth?», chiese quando ebbe finito. Rachel annuì. «Sono i suoi genitori», disse, passandole una tazza fumante. «Due vecchie conoscenze del liceo».

«Del liceo?». Rachel bevve un sorso di caffè e afferrò un biscotto mentre faceva alcuni calcoli mentali. «Dovevano essere molto giovani quando si sono sposati».

Finn sbuffò nella sua tazza di caffè.

«Puoi dirlo forte! Ma non è la mia storia da raccontare. Inoltre dovremmo sbrigarci se vogliamo arrivare in orario. Sono già le undici…».

Rachel finì il suo caffè in un paio di sorsi. «Dovremmo anche passare a casa di Kurt – devo assolutamente cambiarmi. Non posso uscire indossando…». Si fermò un attimo per ispezionare i vestiti che aveva addosso. “Pigiama a righe? Maglietta dell’OSU?”.

«Questi non sono i miei vestiti», commentò inutilmente.

«Sono miei- beh, in realtà i pantaloni sono di Kurt. Quando hai iniziato ad addormentarti sul divano ho pensato che dormire nei tuoi vestiti sarebbe stato scomodo e…». ci fu qualche momento di silenzio, e Rachel sospirò fra sé e sé.

«Senti, lo so che mi hai vista nuda e io ti ho visto nudo, ma…». “Avanti. Chiediglielo e basta”.

«Hai dovuto spogliarmi per mettermi questi vestiti?», chiese tutto d’un fiato.

«No!», esclamò Finn, le guance rosso fuoco ed un’espressione offesa. «Mi sono girato, e tu stavi praticamente dormendo e- non lo farei mai».

«Oh… okay», borbottò Rachel, guardando in cagnesco i fondi del suo caffè.

“Ma chi prendo in giro? È un gentleman”. Si schiarì la voce prima di parlare di nuovo. «In ogni caso, non credo riusciremmo mai ad essere puntuali quindi spero che i tuoi amici ci perdonino il ritardo».

Si alzò, mettendosi le mani sui fianchi e squadrando il ragazzo.

«Oh ci perdoneranno, vedrai», commentò Finn, alzandosi a sua volta. Poi sorrise. «Sempre che tu riesca a insegnarmi come fare un qualsiasi dolce in cinque minuti».

«Siamo completamente fregati, allora», sorrise Rachel, prendendolo sottobraccio. «Sono una totale inetta in cucina».

 

25 dicembre 2017, Soho, New York

 

Kurt arrivò davanti alla porta dell’appartamento 22b, soddisfatto di aver trovato la strada da solo – se si sarebbe davvero trasferito a New York doveva iniziare ad orientarsi nella città. Anche se a dir la verità non avrebbe fatto fatica a trovare l’appartamento di Mercedes: il chiasso proveniente dall’interno si riusciva a sentire fin dalla strada – un misto di risate, voci confuse e musica.

Il ragazzo bussò alla porta, bilanciando l’enorme vassoio di brownies su un braccio solo, mentre mandava un ringraziamento a Martha Stewart per aver pubblicato quel libro di ricette in cinque minuti.

«Kurt!», Mercedes gli aprì la porta, con un sorriso abbagliante – letteralmente.

«Wow», commentò sbattendo le palpebre per accertarsi che quello che la ragazza aveva addosso fosse un vestito di lustrini e non fili di luci intermittenti. «Sei… stupenda, Mercedes. Buon Natale».

La ragazza lo avvolse in un abbraccio, prima di spingerlo dentro casa. «Buon Natale anche a te, dolcezza». Sistemò il cappotto di Kurt su un attaccapanni e gli tolse di mano il vassoio di dolci prima di prenderlo sottobraccio e guidarlo verso il salotto – a quanto pareva la fonte di tutto quel baccano. «Blaine mi ha detto che non volevi venire», iniziò con tono minaccioso. «Sono quasi tentata di lasciarti senza dolce».

«È una minaccia che usi spesso?», chiese il ragazzo, sinceramente incuriosito.

Mercedes alzò un sopracciglio e scosse la testa. «Tesoro, non hai nemmeno idea. Faccio dei tartufi al cioccolato che sono la fine del mondo, quindi sì, ovviamente».

Il ragazzo le diede qualche colpetto sulla mano, sospirando. «Non hai ancora assaggiato i miei brownies, evidentemente».

Mercedes rise, facendogli l’occhiolino. «Vieni, ti presento il resto della ciurma».

Sorpassarono un grande arco decorato con ciuffetti di vischio ed entrarono in un salotto dipinto di rosso e decisamente stipato di persone. Mercedes lo trasportò immediatamente verso un ragazzo biondo.

«Questo è il mio ragazzo, Sam».

Kurt fece per stringergli la mano, quando il ragazzo gliela afferrò, stringendola con forza e guardandolo con espressione addolorata.

«Non volare via».

Kurt ritirò velocemente la mano, guardandolo con aria confusa. «Io… cosa?».

«Sta studiando per diventare doppiatore. Ignoralo», sbuffò Mercedes trascinandolo via. Kurt si girò verso il ragazzo, ricevendo una risatina ed un cenno di scuse.

«È strano, Mercedes».

La ragazza scosse la testa ma sorrise con affetto. «Fa così in continuazione. Ma è un ragazzo d’oro, credimi». Lo accompagnò verso un grande tavolo disposto lungo la parete della stanza, dove due ragazze stavano apparecchiando per il pranzo. «Loro sono Judy e Margaret, le mie sorelline».

Il ragazzo ebbe appena il tempo di fare un cenno di saluto che fu nuovamente trascinato via, questa volta verso un divano sovraffollato.

«Loro li conosci già», Mercedes sventolò la mano verso Tina, Artie e Mike. «Lei invece è Sugar, la manager di Rachel», indicò una ragazza mora con un gran sorriso. «E il suo ragazzo, Rory – è irlandese ma si rifiuta di portare la birra. È per questo che rimarrà senza dolce».

Il ragazzo con i capelli rossi seduto vicino a Sugar mise il broncio. «Andiamo Mercedes ne abbiamo già parlato», si lamentò con un accento cantilenante. «Farsi spedire dieci casse di birra dai propri genitori è-».

«Non sto nemmeno ad ascoltarti, piccolo lepricauno egoista». Mercedes si girò di scatto, trascinando Kurt con lei, dirigendosi verso il vecchio pianoforte a mezza coda sistemato davanti al divano.

«E Blaine ovviamente, che sta abusando delle nostre orecchie».

Blaine alzò lo sguardo dalla sua postazione sullo sgabello del pianoforte, sorridendo quando incrociò lo sguardo di Kurt. «Ciao, straniero».

Il ragazzo sorrise di rimando, sperando che Mercedes non lo trascinasse di nuovo via. Gli occhiali di Blaine erano ritornati e sì, gli piacevano davvero molto.

«Buongiorno».

Mercedes mollò il braccio di Kurt e batté le mani, sospirando. «Bene, siamo tutti qui, mi pare». Lanciò un’occhiata attorno alla stanza. «Manca solo Cooper. Blaine-».

«Dovrebbe essere qui a momenti», la precedette il ragazzo lanciando un’occhiata distratta all’orologio. «Il volo da Los Angeles è partito in ritardo».

«Chi è Coo-». L’ovvia domanda di Kurt fu interrotta da qualcuno che bussava alla porta.

«Parli del diavolo», borbottò Mercedes correndo verso l’entrata. Pochi secondi dopo uno degli uomini più belli che Kurt avesse mai visto si catapultò nel soggiorno, senza degnare nessuno di uno sguardo e correndo ad abbracciare Blaine.

«Blainey!». L’uomo strofinò la guancia contro i riccioli del ragazzo, mentre questo cercava senza successo di sfuggire alla sua stretta.

«Coop, sto soffoca-». L’uomo si staccò e gli affibbiò un sonoro bacio sulla guancia.

«Buon Natale, piccoletto». Si girò verso il resto della compagnia, sorridendo e sventolando la mano. «Sono Cooper, il fratello di Blaine, se non l’aveste capito. Le presentazioni dopo che avrò stritolato il mio fratellino».

«Non credo proprio», commentò Blaine. «Non ti ho insegnato le buone maniere?».

«Oh, okay, nonnino». Cooper diede un ultima scompigliata ai capelli del fratello prima di girarsi verso la persona più vicina – Kurt, che sussultò.

«Piacere di conoscerti…», alzò un sopracciglio con aria sorpresa. «Kurt? Sei tu Kurt vero? Ehi Blaine, è lui?».

Blaine borbottò qualcosa mentre si affaccendava a pulire le lenti degli occhiali, la testa chinata verso terra. Cooper ridacchiò prima di girarsi di nuovo verso il ragazzo.

«Cooper, fratello maggiore di Blaine, e in quanto tale mi sento autorizzato a raccontarti una quantità vergognosa di storie imbarazzanti su di lui. Buon Natale!».

Per la prima volta da quando Cooper era entrato nella stanza Kurt sorrise.

«Penso lo sarà davvero».

 

25 dicembre 2017, Clintonville, Columbus, Ohio

 

«Finn, era davvero buonissimo, ma mi rifiuto di credere che l’abbia preparato tu».

Rachel cercò disperatamente di non ridere. Ci avevano provato, ci avevano provato davvero a cucinare un dolce che fosse anche solo vagamente commestibile. Ma dopo due tentativi miseramente bruciati erano stati costretti ad ammettere la loro sconfitta.

Finn aveva trovato nei meandri del freezer dei brownies che Kurt aveva preparato la settimana prima e li avevano scongelati, sperando di poter dare a bere che fossero opera loro.

Ma la fama di Finn come cuoco sembrava averli preceduti.

La ragazza distolse lo sguardo mentre Finn arrossiva vivacemente sotto lo sguardo della madre di Beth.

«Smettila di prendermi in giro, Quinn!», esclamò. «Non sono più il ragazzino imbranato del liceo, sai?».

Quinn lo guardo, mettendosi una mano su un fianco. «Oh, allora non è vera quella storia che mia figlia mi ha raccontato, di quando hai sostituito la maestra di economia domestica?».

Incrociò lo sguardo incuriosito di Rachel e le lanciò un sorriso, portando una mano accanto alla bocca.

«Ha incendiato la cucina», disse in un sussurro perfettamente udibile.

Finn aveva le guance in fiamme. «Ho bruciato solo un canovaccio!».

«Ehi, che succede qui?». Il marito di Quinn, un ragazzo alto quasi quanto Finn e con muscoli pronunciati entrò nella stanza, lanciando un’occhiataccia all’altro ragazzo. «Smettila di urlare, Hudson. La mia bambina sta dormendo».

«È la tua signora che ha iniziato».

«Non provare ad incolpare la mia donna». Quinn cercò senza successo di trattenere una risata mentre il marito le passava un braccio sulla spalle e la tirava a sé.

«Buono, Noah». Il ragazzo si chinò a darle un bacio sulla guancia, e Rachel li fissò incantata.

Non avrebbe mai immaginato che due persone così poco simili potessero stare insieme – lei sembrava la figlia di una first lady e lui la versione moderna di Bernardo da West Side Story.

«Ho bisogno di una sigaretta», annunciò Quinn liberandosi dall’abbraccio del marito e recuperando il suo cappotto da un attaccapanni. «Rachel ti va di accompagnarmi?».

«Certo». Rachel si infilò velocemente il giubbotto e seguì Quinn sulla veranda adiacente alla cucina. Cercò di osservare il paesaggio coperto di neve ma il suo sguardo continuava a tornare sulla ragazza di fianco a lei. Quinn accese la sigaretta e diede un tiro, prima di accorgersi di essere osservata.

«Che c’è?», chiese con uno sguardo divertito.

«Nulla, solo che-», Rachel si schiarì la voce. Era letteralmente la prima volta in anni che si sentiva messa in soggezione. «Non… sembri la tipa che fuma».

Quinn alzò le spalle. «Ne prendo solo un pacchetto al mese, e sono al mentolo. È una brutta abitudine che mi sono portata dietro dal liceo». Fece un altro tiro prima di porgere il pacchetto verso Rachel. «Ne vuoi una?».

La ragazza scosse la testa. «No, non posso davvero…  i miei polmoni sono fondamentali per la mia carriera».

L’altra rimise il pacchetto dentro la tasca del cappotto, prima di appoggiare la schiena alla parete, guardando Rachel con vivo interesse.

«Allora…», iniziò, lanciandole un sorrisetto. «Tu e Finn».

Rachel sentì un calore ormai familiare invaderle il viso. «Io e…?».

Lanciò uno sguardo alla porta finestra, domandandosi se ce l’avrebbe fatta a rientrare abbastanza in fretta da sfuggire a quella conversazione. L’altra ragazza inarcò un sopracciglio prima di spostarsi rapidamente, appoggiando la schiena contro la porta e bloccandole ogni via d’uscita.

«Non provarci nemmeno! Andiamo, si vede lontano un miglio che siete cotti come due pere».

«Tu.. dici?». Il cuore di Rachel fece una capriola nel petto quando Quinn annuì con aria sicura.

«Lo conosco da una vita, e quando ti guarda ha quella sua espressione da cucciolo innamorato. E tu ragazza mia sei piuttosto evidente, lasciatelo dire».

Rachel abbassò lo sguardo, resistendo all’impulso di coprirsi il viso con le mani. «È un ragazzo davvero stupendo», ammise. «Ma non credo che le cose potrebbero funzionare», dire quella frase le costò uno sforzo quasi fisico.

“Forse se le cose fossero state normali saremmo potuti stare insieme”.

Quinn aspirò una lunga boccata di fumo prima di parlare di nuovo. «Lascia che ti dica una cosa, Rachel». Getto via la sigaretta, lanciandola in mezzo alla neve, e si avvicinò di più alla ragazza.

«Beth? Sono rimasta incinta di lei al secondo anno di liceo. Stavo con Finn all’epoca, ma l’avevo tradito… con Noah, mio marito». Rachel si trattenne a stento dall’emettere un verso di sorpresa.

«L’ho ingannato, facendogli credere che la bambina fosse sua. Non vado fiera di come mi sono comportata, ma ero giovane e disperata, e la mia famiglia non mi ha mai supportato durante la gravidanza», scosse la testa, come per scacciare un brutto ricordo, per poi continuare. «Quando ha scoperto che l’avevo ingannato, Finn non mi ha rivolto la parola per due settimane. Passate quelle, è sempre stato disponibile per me. Mi ha aiutato al limite delle sue possibilità».

Rachel sorrise. Sì, sembrava decisamente una cosa che Finn avrebbe fatto.

«Se c’è una cosa che ho imparato di Finn è che è la persona più generosa del mondo. Ama chi lo accetta per quel che è, chi non gli pone limiti né restrizioni. Andrebbe in capo al mondo per una ragazza come te». Quinn posò una mano sulla spalla di Rachel, incrociando il suo sguardo. Sorrideva.

«Devi solo dargliene la possibilità».

 

25 dicembre 2017, Soho, New York

 

«Non sono mai stato così pieno in vita mia», annunciò Kurt passandosi una mano sullo stomaco.

«È l’effetto dei pranzi di Mercedes», commentò Tina, stiracchiandosi sulla sua sedia. «Tra dieci minuti starai dormendo sul divano, sempre che tu riesca ad accaparrartelo prima degli altri». Si girò per controllare. «Troppo tardi credo».

Kurt osservò Cooper e Blaine, seduti l’uno accanto all’altro sul divano, il braccio del più grande attorno alle spalle del più piccolo, le teste vicine e assorti in una conversazione.

Dal poco che sapeva i due dovevano essere molto legati.

“D’altronde hanno vissuto insieme da quando lui aveva diciassette anni”, pensò mestamente. “Un po’ come me e Finn”. Una fitta di nostalgia gli attraversò il petto. Si scusò rapidamente con Tina e uscì dal soggiorno, cercando una stanza dove non avrebbe disturbato nessuno.

Si infilò nel minuscolo bagno e digitò velocemente il numero di suo padre. Fece una smorfia quando gli rispose ancora una volta la segreteria telefonica.

Aveva lasciato un messaggio con gli auguri di buon Natale quella mattina, ma avrebbe voluto parlargli normalmente. Gli mancava la sua voce.

Uscì dal bagno riavviandosi i capelli, solo per scontrarsi contro qualcuno in corridoio.

«Oh, scu-».

Si bloccò a metà della frase. In mezzo al corridoio, stretti l’uno all’altra e con l’espressione inequivocabile di chi è stato preso nel sacco c’erano Mike e Tina.

«Oh», disse solo Kurt, cercando di non morire dall’imbarazzo. «Scusatemi, io… penso tornerò…». Fece un cenno verso il salotto, scappando via dal corridoio il più in fretta possibile.

“Allora avevano davvero una tresca. Devo assolutamente dirlo a-”.

Tutti i pensieri riguardanti Mike e Tina svanirono all’istante quando la voce soffice di Blaine iniziò a cantare nel silenzio dell’appartamento, accompagnata solo dal suono leggero del pianoforte.

«Have yourself a merry little Christmas… let your heart be light».

Kurt si avvicinò alla porta del soggiorno, osservando la scena.

Blaine era dietro al pianoforte, gli occhiali dimenticati sul leggio al posto degli sparti. Mercedes lo stava filmando con il suo iPhone, un sorriso enorme sulle labbra e Sam addormentato sulla sua spalla. Sugar e Rory dividevano una poltrona accoccolati l’uno sull’altro. Cooper stava mangiando l’ennesima fetta di dolce.

«Faithful friends who are dear to us, gathered near to us… once more».

Si appoggiò allo stipite della porta, osservandoli. Non sembravano degli orfani. Sembravano una famiglia. “Potrei davvero vivere qui”, pensò Kurt mentre una sensazione di calore gli stringeva il petto. “Affezionarmi a queste persone”. Lo sguardo gli scivolò su Blaine.

«Through the years we all will be together, if the Fates allow…».

“Amare queste persone”.

Blaine finì con un arpeggio e tutti applaudirono vivacemente, svegliando Sam di soprassalto.

«Un’altra», chiese Sugar buttando le braccia al collo di Rory.

«Oh no, basta, ci siamo stufati di sentirlo», scherzò Mercedes.

Il ragazzo alzò gli occhi su di lei, accorgendosi di essere filmato. «Sciocchezze, solo i barbari si stancano della mia voce». Fece un piccolo saluto verso il cellulare. «Ma se qualcuno mi concedesse l’onore potrei cantare qualcosa di più interessante…», continuò, adocchiando Kurt. Tutti seguirono la direzione del suo sguardo e il ragazzo fu sicuro di essere arrossito.

«Non credo sia il caso-».

«Perché no?», lo interruppe Sam. «Non hai frequentato una scuola di musical all’OSU?».

Kurt lanciò un’occhiataccia a Blaine, che alzò le mani in segno di resa. «Non una parola».

«Sono stato io», esclamò Cooper con la bocca piena di cioccolato. «Ti ho googlato».

Kurt non ebbe nemmeno il tempo di protestare che Sugar rincarò la dose. «Avanti Kurt, non puoi essere peggio di Mike!».

Rory si guardò intorno con aria confusa. «A proposito di Mike dove- ahi!». Si massaggiò il fianco, dove il gomito appuntito della sua ragazza l’aveva colpito.

«Per favore?», chiese Blaine.

Il ragazzo sospirò. «Okay», acconsentì, avvicinandosi al pianoforte.

«Ma tuo fratello è inquietante», commentò mentre si sedeva sullo sgabello di fianco a Blaine.

«Ignoralo, e canta con me».

Il ragazzo stava per chiedere cosa volesse suonare quando Blaine iniziò a suonare le battute di apertura di uno dei suoi duetti preferiti in assoluto. Sorrise, mentre Blaine gli faceva un cenno con la testa, invitandolo ad iniziare.

«I really can’t stay…».

«But baby, it’s cold outside!».

 

25 dicembre 2017, Greater Hilltop, Columbus, Ohio

 

«È stato il miglior Natale che abbia mai avuto da molto tempo», annunciò Rachel sopra al ronzio della radio.

Finn sorrise, continuando a tenere gli occhi sulla strada. «Sono felice di sentirtelo dire».

Rimasero in silenzio per qualche minuto, ascoltando distrattamente la musica proveniente dall’autoradio.

«Sai, a volte New York è così… caotica», disse Rachel dopo qualche secondo. «So che sono fortunata ad avere la vita che ho sempre sognato, ma… è sbagliato desiderare un po’ di calma per sé stessi, una volta ogni tanto?».

Finn annuì, senza distogliere gli occhi dalla strada. «Ti capisco. Anche la vita di un’insegnante dell’Ohio è impegnativa, se puoi crederci», disse, con un mezzo sorriso. «Ore trascorse a preparare le lezioni, i colloqui con i genitori… e non hai idea di quanto sia difficile calmare quelle piccole pesti». Dopo averci passato insieme appena mezz’ora Rachel non esitava a credergli.

«Secondo me», continuò Finn, in tono più pensieroso. «L’importante è avere un qualcosa… una persona, un luogo… a cui aggrapparsi per mantenere la propria sanità mentale. Qualcosa che rimarrà sempre lì, qualcosa a cui stringersi quando tutto il resto del mondo impazzisce e tu non sai cosa fare».

La ragazza aggrottò le sopracciglia. «Intendi dire come un’ancora?».

«Esatto».

Ci fu una pausa, mentre la luce gialla dei lampioni sfilava rapida su entrambi i ragazzi.

«E qual è il tuo?», chiese infine Rachel.

«La mia casa. Mia madre. Anche i miei stupidi cofanetti di telefilm», rise il ragazzo. «E le persone con cui posso essere semplicemente me stesso… con cui mi sento al sicuro».

Restarono in silenzio finché non arrivarono davanti a casa di Kurt. Rachel sussultò quando Finn uscì dalla macchina per aprirle la porta e accompagnarla fino alla soglia.

La ragazza tirò fuori le chiavi ed aprì la porta. Si girò sulla soglia, sorridendo suo malgrado.

«Mi è piaciuto molto passare del tempo con te oggi».

«Anche a me».

«Potremmo… potremmo farlo di nuovo, se ti va. Ma stavolta solo io e te».

Finn sorrise, abbassando lo sguardo. «Mi piacerebbe moltissimo».

Si chinò verso di lei, e Rachel per un momento pensò che l’avrebbe baciata. Ma Finn si limitò soltanto a rivolgerle uno dei suoi mezzi sorrisi, passandole una mano sulla spalla.

«Ci vediamo domani sera».

 

A/N:

Ed eccoci di nuovo qua, con questo capitolo chilometrico :)

Vi consiglio di prepararvi perché dal prossimo le cose inizieranno a farsi serie ;)

Intanto vi auguro un buon 2013 e vi ringrazio per tutte le vostre recensioni!!!

MM

PS: Natale è passato ormai, ma se qualcuno volesse ascoltare la versione di Have Yourself A Merry Little Christmas che canta Blaine… ecco il link :)

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Capitolo 6
*** 26 dicembre - 27 dicembre ***


26 dicembre 2017, Columbus, Ohio

 

«Questo posto è adorabile», commentò Rachel guardandosi attorno. «Oh… grazie», aggiunse con un sorriso quando Finn spostò la sedia per farla accomodare.

«Non c’è di che».

La ragazza sistemò il tovagliolo in grembo, guardando il ragazzo di sottecchi e cercando di non aggrottare le sopracciglia all’abbinamento di camicia e pantaloni. Se quello fosse stato un appuntamento normale – o ancora peggio, se fosse uscita con Jessie – avrebbe sparato a zero, ma doveva ammettere che quella sera non le importava più di tanto. Nessuno dei ragazzi con cui era uscita era stato carino o dolce come Finn Hudson, poco ma sicuro.

«Allora». Finn sollevò lo sguardo dal menu al suono della voce di Rachel. «Sto ancora aspettando di sentire la storia della cucina incendiata».

Il ragazzo gemette, chiudendo gli occhi. «Ti prego, non mettertici anche tu. Sono anni che Quinn mi prende in giro con questa storia e come ho detto ieri, è stata solo una presina».

Rachel alzò un sopracciglio. «Veramente avevi detto un canovaccio».

Finn arrossì vivacemente. «E va bene, magari ho bruciato un canovaccio, una presina e qualche altra suppellettile, okay?». La ragazza si limitò a ridere, cercando di nascondersi dietro il proprio menu. «Spero che Quinn non ti abbia raccontato storie più imbarazzanti di questa, altrimenti questa serata non andrà nella direzione che speravo», commentò l’altro, una punta di preoccupazione nella voce.

«Nessuna, davvero», gli assicurò Rachel. «A parte…». Si bloccò a metà della frase, chiedendosi se avrebbe dovuto dirglielo. In fondo era successo parecchi anni fa, quando erano al liceo…

«A parte cosa?».

Furono interrotti dall’arrivo del cameriere che posò una bottiglia di vino sul tavolo e chiese le loro ordinazioni. Rachel si limitò a ordinare il primo piatto sul listino – sapeva già che non avrebbe prestato la minima attenzione al cibo, quella sera.

Una volta che il cameriere si fu allontanato Finn la guardò alzando un sopracciglio.

«Allora?».

«Beh, mi ha detto che voi due stavate insieme quando eravate al liceo», disse Rachel tutto d’un fiato.

«Oh». Finn si rilassò sullo schienale della sua sedia, sorridendo. «Credevo fosse qualcosa di peggio. Sì, siamo durati la bellezza di quattro mesi prima del disastro della gravidanza. Immagino ti abbia raccontato anche quello».

«In… in parte», borbottò Rachel, agitandosi sulla sua sedia.

«Ehi», il ragazzo si sporse vero di lei, posando una mano sulla sua. «Non devi farti problemi a parlare con me, okay? Abbiamo discusso i pregi e i difetti di Edward Cullen, ricordi?».

Rachel scoppiò a ridere suo malgrado. «Una delle migliori discussioni che abbia mai avuto in tutta la mia vita».

Finn sorrise, allontanandosi e lasciando andare la sua mano. «Vuoi sapere com’è andata?».

«Io-», esitò Rachel.

«Sì, sono completamente a mio agio con questo discorso», la interruppe lui con aria divertita.

Rachel rise di nuovo. «Credo soccomberò alla spinta della mia curiosità, allora», capitolò con una scrollata di spalle. «Prego», continuò, versandogli una generosa quantità di vino.

«Ci siamo messi insieme all’inizio dell’estate fra la prima e la seconda liceo. Io ero il quarterback della squadra di football e lei il capo delle cheerleader». Rachel sbuffò mentre versava del vino anche nel proprio bicchiere. «Ehi, eravamo praticamente una coppia obbligata!», protestò Finn. «E tu non avevi smesso di bere?».

«Mi serve un bicchiere per affrontare questa conversazione. Ma continua».

«Quinn era anche la presidentessa del club della castità – sì, ridi pure», disse quando Rachel quasi soffocò nel disperato tentativo di contenersi. «Scommetto che non c’erano club della castità nei licei di New York».

«Solo gruppi LGBT», rispose lei con un gran sorriso.

«Comunque, era tutto molto innocente fra di noi», ricominciò Finn. «Facevamo passeggiate nel parco, uscivamo a cena e andavamo al luna park mano nella mano. Ma, emh… io ero un adolescente e…».

«Non riuscivi a toglierle le mani di dosso», concluse Rachel con un ghigno. «Comprensibile. Doveva essere la ragazza più carina della scuola, a giudicare dallo schianto di donna che è ora».

«Era stupenda. Ed io ero molto molto ignorante in materia di sesso, e così quando lei mi disse di aspettare un bambino e attribuì la colpa alla nostra pomiciata nell’idromassaggio dei suoi…», Finn esitò, bevendo un sorso di vino mentre Rachel cercava di non ridere per l’ennesima volta.

«Non dirmi che ci hai creduto!».

Finn sbuffò, un’espressione a metà fra il divertito e l’imbarazzato. «Ehi, aveva detto che l’acqua calda favoriva la diffusione degli spermatozoi e-».

Fu costretto a bloccarsi, adocchiando il cameriere che ritornava al loro tavolo. Le spalle di Rachel tremavano dallo sforzo di reprimere le risate. Tirò le gambe sotto la sedia quando Finn provò a darle un calcetto che scosse tutto il tavolo. Il cameriere gli lanciò un’occhiata stranita prima di dileguarsi.

«Non è divertente», borbottò Finn mentre Rachel lasciava andare una risata liberatoria.

«Hai ragione, scusa, scusami».

Afferrò la forchetta e cercò disperatamente di concentrarsi sul cibo. Dopo il primo morso lanciò un’occhiata curiosa al suo piatto. “Salmone ai ferri? Che diavolo di ristorante mette i secondi sulla prima pagina del menu?”.

Le sfuggì quasi il borbottio di Finn. «Scommetto che a te non è mai capitato, vero?».

«Come?».

«Insomma…», Finn giocherellò con uno dei ravioli nel suo piatto. «New York è una città molto più… aperta di Lima, Ohio. Scommetto che tu eri già molto esperta da-». Si bloccò immediatamente quando realizzò quello che aveva appena detto. «Non-non intendevo in quel senso! Intendevo in… teoria. Oh, Dio», si lasciò andare contro lo schienale della sedia, mentre Rachel si sforzava di non scoppiare a ridere di nuovo.

«Guardarti mentre cerchi di salvarti la faccia sta diventando la parte migliore delle nostre serate», commentò mentre Finn si copriva il viso con una mano.

«Ti prego dimmi che non ho detto quello che ho appena detto», mormorò con aria mortificata.

«Vuoi che dimentichi la tua allusione che al liceo fossi una facile-».

«Rachel». Finn sprofondò nella sua sedia mentre gli altri avventori lanciavano delle occhiate stranite nella loro direzione.

«È più forte di me», sghignazzò la ragazza con aria divertita, prima di darsi un contegno. «E comunque no, i miei papà mi hanno fatto “il discorso” quando avevo dieci anni. Ero precoce… e non in quel senso», scherzò mentre il rossore divampava sulle guance di Finn.

«Ti manderei a quel paese, ma sei una signora».

«Il mio cavaliere», scherzò lei facendogli l’occhiolino.

Lo osservò mentre abbassava lo sguardo e iniziava a mangiare. Non era bello come Jessie, o muscoloso come i ballerini di Broadway che erano spesso finiti nel suo letto. Ma era diverso da qualunque ragazzo avesse mai conosciuto.

Andrebbe in capo al mondo per una come te. Devi solo dargliene la possibilità.

Fece un respiro profondo prima di iniziare di nuovo a parlare. «In ogni caso, l’essere precoce non mi ha impedito di finire in situazioni… umh…», esitò, incerta su come finire la frase.

«Cosa intendi dire?».

«Credevo di essere rimasta incinta di Jessie… il mio- il mio ex», precisò – avevano già parlato di lui, ma non gli aveva mai detto il suo nome.

«Oh». Rimasero in silenzio per qualche secondo, evitando lo sguardo l’uno dell’altra.

«E questa… non era una buona cosa?», chiese Finn in tono esitante. «Mi pareva di aver capito che eravate insieme da molto».

Rachel sbuffò, scuotendo la testa. «No, assolutamente no».

Giocherellò con un pezzo del salmone nel suo piatto, cercando le parole adatte per spiegargli tutto ciò che aveva pensato, seduta da sola nel suo bagno con un test di gravidanza in mano. «Jessie non è il tipo di persona che avrei visto al mio fianco, né tanto meno come padre dei miei figli. Mi ci è voluto molto per capirlo ma l’unica cosa che ci teneva legati era il sesso. E questa non è il tipo di relazione che cerco con un uomo».

«Ma tutte le volte che me ne hai parlato mi hai sempre detto che eravate molto simili».

«Lo siamo», rispose lei. «È ambizioso, e determinato… ma non mi ha mai fatta sentire… sicura. Non era la mia ancora». Si scambiarono un sorriso quando Rachel menzionò la conversazione della sera prima. «No, il mio tipo ideale è una persona più gentile. Sensibile. Come te», azzardò incrociando il suo sguardo.

Mentre Finn abbassava gli occhi, sorridendo verso il proprio piatto, Rachel sentì che la serata sarebbe decisamente andata nella direzione che lui sperava. Che speravano entrambi.

 

27 dicembre 2017, Upper West Side, New York

 

Kurt si infilò i pantaloni del pigiama con un sospiro di soddisfazione.

Non lo avrebbe ammesso ad anima viva, ma i jeans che aveva comprato assieme a Tina e a Mercedes erano una vera tortura – i commenti delle ragazze sul suo sedere tuttavia erano stati più che positivi, quindi aveva deciso di prenderli… anche se non aveva nessuno su cui fare colpo, a New York, si ricordò cocciutamente. Nessuno.

Si accoccolò sul divano, recuperando il suo iPhone. Ormai aveva preso la sua decisione: in primavera avrebbe lasciato Columbus e si sarebbe trasferito a New York. Sapeva ci sarebbe voluto almeno un mese per organizzare il trasloco, ma dare un’occhiata in anticipo agli appartamenti non poteva far male, giusto?

“Avrei dovuto portare il pc”, si disse con un sospiro mentre Google si caricava sul minuscolo schermo del suo cellulare. Avviò una ricerca su Apartments.com mentre rimuginava fra sé e sé.

«Un quartiere che sia abbastanza vicino a Broadway ma meno costoso dell’Upper West Side… magari Yorkville. Forse dovrei chiedere a-».

Nemmeno a farlo apposta, sullo schermo iniziò a lampeggiare una foto di Blaine – una smorfia assurda, occhiali e ricci scompigliati – mentre il cellulare squillava.

«Ehi Blaine», esclamò Kurt nella cornetta. «Ti volevo giusto chiedere-».

«Kurt!». Anche attraverso il telefono Kurt riuscì a sentire il tono eccitato del ragazzo.

«Che succede?».

«Ho delle notizie fantastiche! Devi dirmi subito dove sei, così ti raggiungo e festeggiamo insieme!».

«Hai fatto overdose di zucchero per caso? Lo sapevo che non dovevo lasciarti il resto dei brownies…».

«Ignorerò il tuo commento e ripeterò la mia domanda. Dove sei?».

«A casa di Rachel. Ma vuoi spiegarmi che succede?».

«No no no Kurt, non posso dirtelo al telefono. Rovinerebbe la sorpresa e, soprattutto, non potrei vedere la tua faccia».

Il ragazzo sospirò. «Blaine».

«Sì?».

«Hai cinque anni?».

Dall’altro capo del telefono arrivò una risata. «Per favore, cinque e mezzo. Resta dove sei, ti raggiungerò fra mezz’ora. Perché l’Upper West Side dev’essere così lontano?».

Riattaccò il telefono prima che Kurt potesse dire qualcos’altro.

Il ragazzo sbuffò dando una rapida occhiata al salotto – presentabile. Lo stessa cosa purtroppo non si poteva dire di sé stesso, pensò amaramente mentre si sottraeva al calore del divano per andarsi a dare una sistemata.

Aveva appena messo a posto i capelli ed infilato un paio di leggins quando bussarono alla porta.

«Così presto?», borbottò mentre apriva l’armadio in cerca di un maglione – diavolo, non era poggiato proprio quella mattina? Finalmente lo trovò e lo infilò rapidamente, mentre alla porta risuonavano un altro paio di colpi.

«Eccomi!», esclamò di nuovo mentre correva all’entrata, aprendo il più in fretta possibile.

«Ehi Blaine, non avevi detto che l’Upper West Side-».

Il resto della frase gli morì in gola quando lo sguardo gli cadde sul ragazzo fermo davanti alla porta di Rachel. Non era Blaine.

«David?», sussurrò, incredulo. Ci fu una pausa di silenzio teso. «Cosa ci fai-».

«Blaine?», lo interruppe il ragazzo. Kurt ebbe l’impulso improvviso di chiudere la porta. Prima che potesse farlo David fece un passo avanti, entrando in casa di Rachel. «Chi è Blaine?».

Kurt lo osservò: aveva delle enormi borse sotto agli occhi e uno sguardo cupo.

«David ma come diamine-».

«Come sono arrivato a New York?», lo interruppe l’altro. «Ho guidato otto ore di fila, Kurt. Per vederti. E avere delle risposte».

Kurt aggrottò le sopracciglia. Non gli piaceva il verso che stava prendendo quella conversazione.

«Risposte a cosa, di grazia?».

«A questo, tanto per cominciare». Sollevò il braccio.

Kurt indietreggiò di scatto, sospirando di sollievo quando vide che David gli stava mostrando il proprio cellulare. Dopo un’occhiata circospetta al ragazzo abbassò lo sguardo, osservando lo schermo del telefonino – dove lui e Blaine cantavano Baby It’s Cold Outside seduti fianco a fianco davanti al piano di Mercedes. Rimase a bocca aperta per qualche secondo, prima di ricordare.

“Mercedes. Mercedes lo stava filmando”. Osservò la propria immagine mentre Blaine gli dava una spallata scherzosa e lui rideva.

«Io…».

«Kurt». David fece un altro passo verso di lui e Kurt ebbe l’orribile sensazione di avere le spalle al muro. «Chi è questo tizio?».

Il cuore di Kurt iniziò a battere all’impazzata, mentre il ragazzo si sforzava di rimanere calmo. Almeno uno dei due doveva esserlo. «Parlerò con te solo quando ti sarai calmato».

«No, noi parleremo adesso!», sbottò l’altro. «Lo sai che tutta la squadra di football ha visto questo video? Che continuano a dire che finalmente hai trovato un tizio gay quanto te?».

A quelle parole Kurt scattò. «Non sarà per questo che sarai venuto qua, vero David?», sibilò. «Per fare il ragazzo geloso?».

«Io non…», l’altro sbuffò di frustrazione, preso in contropiede. «Non è questo il punto!».

«Allora è così?». Kurt incrociò le braccia con una risata sarcastica. «Ti rode che ci sia qualcuno che ha le palle di ammettere che gli piacciono gli uomini? Che gli piaccio io? Mentre tu non hai nemmeno il coraggio di farti vedere vicino a me nel campus». Rise di nuovo. Dopo così tanto tempo passato a dubitare di sé stesso, rovesciare addosso a Dave tutte le cose che aveva taciuto era fantastico – liberatorio.

«Smettila, Kurt», sibilò David, furioso.

Il ragazzo lo ignorò. «Perché, non ho ragione, forse? Noi non stiamo nemmeno insieme, non hai nessun diritto di-».

«Smettila!», sbottò David prendendolo per una spalla.

Kurt si ritrasse come se si fosse scottato, inciampando nei propri piedi. Si rimise dritto appoggiandosi allo schienale del divano, il cuore che batteva a mille.

“Respira”, si disse, mentre cercava di ricordarsi che non aveva più sedici anni, che non era da solo in uno spogliatoio maleodorante, che nessun ragazzo l’avrebbe costretto a baciarlo…

«Kurt». La voce di David era mortificata. «Mi dispiace, ti giuro, non volevo-».

«No». Il ragazzo alzò una mano per bloccarlo quando provò ad avvicinarsi.

«Mi dispiace, davvero».

«Lo so che ti dispiace». Kurt alzò lo sguardo, sforzandosi di guardarlo negli occhi e respirare normalmente al tempo stesso. «Ma sta succedendo da molto tempo ormai».

«Cosa?».

«Ci stiamo facendo del male a vicenda». Le sue parole rimasero sospese tra loro nel silenzio del salotto. Sapevano entrambi che era vero. «Le cose non sono… normali fra noi, ed è inutile illudersi che potranno mai esserlo», continuò Kurt. «Mi ci è voluto un mese per non cambiare strada ogni volta che ti vedevo. Un mese. E rischio un attacco di panico quando sei anche solo nervoso. Non siamo fatti l’uno per l’altro», concluse, incrociando un’altra volta lo sguardo di Dave. «E anche se lo fossimo… beh, dubito potremmo stare insieme, dopo tutto quello che è successo». Respirò profondamente prima di continuare. «Mi dispiace doverlo fare Dave… non possiamo più stare insieme».

L’altro ragazzo si limitò ad annuire.

«E credo che dovresti tornare in Ohio».

David annuì nuovamente, facendo per avvicinarsi a lui. Si immobilizzò sul posto quando Kurt scosse la testa con decisione.

«Non ho mai voluto farti del male», disse con voce stranamente ferma. «Mai. Lo sai questo, vero?».

«Sì», sussurrò l’altro.

«Bene. È abbastanza».

Kurt riabbassò lo sguardo mentre David si girava e usciva da casa di Rachel senza un’altra parola. Quando la porta si richiuse dietro di lui il ragazzo si lasciò scivolare per terra. La tensione lasciò il suo corpo all’improvviso, facendogli tremare le gambe e chiudere gli occhi.

Resto seduto contro lo schienale del divano, cercando di cacciare indietro le lacrime, finché, pochi minuti dopo, non bussarono di nuovo alla porta.

Kurt si diresse verso l’entrata, ma controllò prima lo spioncino – non se la sentiva di vedere Dave, non subito. Tirò un sospiro di sollievo quando riconobbe gli occhiali e i riccioli scompigliati di Blaine. Aprì la porta.

Blaine aveva un sorriso raggiante. «Ehi Kurt, devi assolutamente-». Si bloccò immediatamente quando vide l’espressione sul volto del ragazzo. Entrò in casa, chiudendo velocemente la porta dietro di sé. Lanciò la borsa verso un punto imprecisato dell’entrata e condusse Kurt fino al divano, facendolo sedere.

«Kurt, cos’è successo?».

Il ragazzo scosse la testa. «David», disse con voce soffocata.

Blaine gli passò una mano sulla guancia. «David?».

«È venuto qui e…». Smise di trattenere le lacrime quando sentì le braccia di Blaine che lo stringevano, singhiozzando contro il suo maglione mentre il ragazzo gli sussurrava parole confuse all’orecchio.

 

Qualche ora dopo erano entrambi stesi sul divano, in assoluto silenzio.

Kurt si stava sforzando con tutto sé stesso di non addormentarsi. La testa gli pulsava e probabilmente l’unica cosa che stava impedendo al mal di testa di esplodere era la mano di Blaine che gli accarezzava delicatamente i capelli.

Il ragazzo premette il viso nel cuscino umido, sentendo una fitta di senso di colpa. «Scusa». Sospirò al suono roco della propria voce. Singhiozzare non faceva bene alle corde vocali.

Blaine attese qualche secondo prima di parlare. «Non c’è nulla di cui scusarsi. Non ti fa bene tenerti tutto dentro, sai. Non c’è niente di male nel piangere, qualche volta».

Kurt spostò il volto più vicino al suo. «Ti devo delle spiegazioni, io-».

«Ssh», lo zittì Blaine. «Non mi devi proprio un bel niente. Ora come ora hai solo bisogno di andare a dormire, okay?». Kurt annuì, ripromettendosi di giurare eterna gratitudine a quel ragazzo, appena si fosse sentito di nuovo un essere umano.

Blaine lo aiutò ad alzarsi, facendogli un cenno verso la camera. «Vai a cambiarti, arrivo fra un secondo».

Quando Blaine entrò in camera da letto con un bicchiere d’acqua stava già dormendo.

Poggio il bicchiere sul comodino e coprì il ragazzo con il piumone prima di stendersi accanto a lui, sopra le coperte. Esitò un momento prima di passargli un braccio attorno alla vita – “Solo per sentire se si muove nel sonno”, si ricordò. Poi chiuse gli occhi e si addormentò a sua volta.

 

Il mattino dopo Blaine fu svegliato ad un’ora indecente dalle note di I’m the Greatest Star, provenienti dal suo cellulare. Si cacciò la mano in tasca e rispose il più velocemente possibile, ansioso di zittire quell’affare.

«Pronto?», sussurrò, mentre si alzava dal letto.

Dall’altro capo del telefono gli rispose una voce familiare. «Blaine?».

«Rachel, ti ho detto mille volte di non cambiarmi la suoneria del cellulare!». Lanciò un’occhiata verso Kurt. Si era girato su di un fianco, ma stava ancora dormendo.

«È solo per il mio numero!», rispose la ragazza in tono petulante. «Non tutti meritano Barbra. Ma perché stai sussurrando? Dove sei?».

Blaine fece una smorfia. «Io… a casa tua».

«A casa mia? Ma come-».

«Rachel non è il momento, davvero», la interruppe. «Ora dimmi perché hai chiamato. Vuoi sapere quante comparse sono già passate al lato oscuro di Mercedes?». Uscì dalla camera cercando di fare il meno rumore possibile.

«Cosa? Dici sul serio?», la voce di Rachel tradiva vero panico e Blaine trattenne una risata.

«Scherzo, Rachel». Si sedette sul divano, strofinandosi gli occhi. «Ora dimmi cosa c’è».

«Io…». Rachel esitò. «Potrei aver incontrato un ragazzo interessante».

«In Ohio?».

«Sconvolgente, vero?».

Blaine borbottò un assenso. «E quindi?».

«Quindi… potrei essermelo portato a letto tre ore dopo averlo conosciuto».

«Rachel».

«Non è stata colpa mia!», esclamò la ragazza con tono estremamente colpevole.

Blaine sbuffò, appoggiando la fronte allo schienale del divano. «E ora?».

«Beh… diciamo che abbiamo iniziato a frequentarci… da amici», spiegò la ragazza. «Anche se lui ha ammesso che gli piaccio e Blaine, è così carino e così dolce e-».

«Rachel», la interruppe lui. Non poteva affrontare una conversazione del genere senza un minimo di caffeina. «Non vorrei sembrarti scortese ma sono le sei e mezza e vorrei tornare a dormire il prima possibile. Qual è il problema?».

«Non vuole baciarmi!», ammise Rachel in tono mortificato.

«Nel senso che…?».

«Ha avuto la perfetta occasione ieri sera – eravamo appena tornati da un appuntamento molto romantico – e non mi ha baciato!».

Blaine sbuffò. «Per caso… dopo che siete andati a letto gli hai fatto il tuo solito discorsetto da sveltina?».

«Beh, sì… è quello che faccio sempre».

«Con i ragazzi di cui non ti frega nulla», precisò Blaine. «Rachel, se è un ragazzo normale… avrà voluto darti i tuoi spazi dopo quello che gli hai detto».

«Quindi credi che… dovrei provarci prima io?», chiese Rachel meravigliata.

«Credo sia quello che lui sta aspettando».

«Ma certo!», lo strillo di gioia della ragazza gli trapanò l’orecchio, ma non poté fare a meno di sorridere. «Blaine, sei grande! Appena torno a New York ti devo un favore, di’ a Sugar di ricordarmelo. Ciao!».

«No no Rachel aspetta!».

Nemmeno a dirlo, la ragazza aveva già attaccato.

Pregando che Rachel non combinasse un altro dei suoi disastri Blaine terminò la chiamata e tornò in camera il più silenziosamente possibile. Solo dopo aver poggiato il cellulare sulla cassettiera si accorse che Kurt era sveglio.

«Che succede?», chiese il ragazzo con voce roca.

«Nulla», sussurrò Blaine. «Torna a dormire».

Kurt poggiò la testa sul cuscino, guardandolo con occhi assonnati. «Vieni anche tu?».

Blaine non se lo fece ripetere due volte. Scivolò sotto le coperte, stando attento a lasciare un po’ di spazio fra sé e Kurt. Il ragazzo mormorò qualcosa di incomprensibile prima di richiudere gli occhi.

Blaine lo osservò per qualche secondo, sentendo le palpebre farsi rapidamente pesanti.

Un attimo prima di addormentarsi sentì un’ondata di calore, e una mano tiepida che stringeva la sua.

 

A/N:

Eeeeeed ecco anche questo capitolo – puff, che ci crediate o no è stato devastante da scrivere.

Ma c’è un bel po’ di fluff, eh sì i nostri stupidi idio- emh, cari personaggi se lo sono meritato, direi.

Alla prossima settimana con il prossimo capitolo!

Spero che vi stiate divertendo a leggere questa storia – io mi sto divertendo un sacco a scriverla :)

MM

 

PS: Non so se qualcuno ho letto gli spoiler più recenti di Ryan Murphy e sull’episodio 3x11 in generale… Holy shit… Una povera klainer non sa nemmeno più cosa pensare :(

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Capitolo 7
*** 28 dicembre ***


28 dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio

 

Rachel si mise al lavoro subito dopo aver messo giù il telefono.

Se c’era qualcuno che se ne intendeva di relazioni quello era Blaine Anderson, e se Blaine Anderson diceva che Rachel Berry doveva fare il primo passo, Rachel Berry avrebbe fatto il primo passo.

Prese un bel respiro e fece mente locale. Doveva fare la sua ginnastica mattutina, chiamare Finn, preparare la colazione e mettersi addosso qualcosa di decente… sarebbe stata una mattinata impegnativa, ma se c’era qualcuno che poteva farcela era lei.

Non era certo la prima volta che prendeva l’iniziativa, con un uomo. Era intraprendente, questo non si poteva negare, e spesso flirtare con uno degli uomini che lanciavano lunghe occhiate alle sue gambe nei bar newyorkesi la aiutava a staccare dai giorni di lavoro troppo stressanti e dai drammi di Broadway… un vero sollievo.

Ma con Finn era diverso. E non strettamente in senso positivo…

Solo nel breve tragitto dal salotto al bagno il suo cervello riuscì ad elaborare svariate decine di scenari in cui il suo piano poteva finire catastroficamente. E se lui le avesse riso in faccia? Se le avesse detto che la considerava un’amica?

Scosse bruscamente la testa. Che diavolo le stava succedendo?

«Smettila», disse fermamente al suo riflesso nello specchio. «Tu sei Rachel Berry, e Rachel Berry non si fa le paranoie. Rachel Berry ha smesso di farsi le paranoie da quando ha infilato il suo primo costume di scena ed è salita sul palco del Gershwin. Concentrati».

Fece qualche respiro profondo prima di afferrare il cellulare e chiamare Finn.

Il telefono squillò a vuoto per svariati secondi. “Sarà in doccia”, si disse mentre aspettava. “Starà facendo colazione. O forse non mi vuole rispondere...?».

Dall’altro capo del telefono arrivo un debole clic.

«Rachel?», le rispose una voce confusa.

La ragazza lasciò andare un sospiro di sollievo. «Finn, buongiorno!».

Sentì il rumore di uno sbadiglio. «Cavolo, non ti facevo una persona così mattutina. Non sono nemmeno le sette!».

Rachel si sforzò di non imprecare contro sé stessa e la sua sbadataggine. «Sì, emh, mi piace svegliarmi presto. Scusa, non ho fatto caso all’ora…».

«Non ti preoccupare», fece l’altro, la voce un po’ più presente. «Dimmi tutto».

«Beh…», Rachel esitò per qualche secondo, incrociando le dita. «Mi chiedevo se ti piacerebbe venire a fare colazione qui, stamattina».

«Certo!», rispose Finn senza un attimo di esitazione. Rachel si concesse un saltino di gioia. Almeno finché il ragazzo non aggiunse, «A una sola condizione».

“Lo sapevo. Troppo bello per essere vero”. «Sì?», chiese cautamente.

«Né io né te dobbiamo preparare nulla. Tu fai il caffè e io passerò a prendere un paio di muffin»

La ragazza sghignazzò. «Possiamo sempre provare la ricetta dei brownies di tuo fratello…».

«Rachel. Abbiamo bruciato due crostate la mattina di Natale. Due. Sto seriamente considerando la possibilità che l’universo stia cercando di darci un segno».

Rachel non poté fare a meno di sorridere. «Hai ragione. Beh, l’idea mi sembra ottima, comunque. Per le otto e mezza qui?».

«È un appuntamento».

Il sorriso di Rachel si allargò ancora. «Fantastico. Potresti farmi un ultimo favore?».

«Certo».

«Se passi da un’edicola potresti prendermi il New York Times? La connessione qui è un po’ lenta e ci metto secoli a leggerlo online…».

«Non preoccuparti, ci penso io. Ci vediamo dopo, allora».

«Otto e mezza», ripeté Rachel.

«Otto e mezza. Non vedo l’ora. A dopo, Rachel».

«A dopo».

La ragazza poggiò il telefono vicino al lavandino, per poi alzare lo sguardo sulla propria immagine riflessa. L’unico aggettivo con cui avrebbe descritto il proprio sorriso era raggiante.

«Molto meglio, Berry», si disse, prima di dirigersi verso la doccia.

 

28 dicembre 2017, Upper West Side, New York

 

Un leggero profumo di caffè aleggiava nella camera da letto di Rachel quando Kurt aprì gli occhi, quella mattina. Il ragazzo si rigirò su di un lato e aggrottò le sopracciglia, scrutando la porta.

Questo era… strano, considerò prima di sbadigliare di nuovo e ficcare il mento sotto le coperte.

Ormai si era abituato all’odore pungente di dopobarba alla menta, e anche alla puzza di bruciato – conseguenze inevitabili della sua convivenza con Finn – e in casa di Rachel erano sempre stati i rumori del traffico di New York e i propri piedi gelati a svegliarlo. Nessuno strano odore di caffè.

Forse stava sognando. O avendo un’allucinazione olfattiva.

“O forse una banda di ladri è entrata durante la notte”, pensò rigirandosi nuovamente fra le coperte. “E ora si stanno preparando la colazione”. Premette la guancia contro il cuscino. Beh, che facessero pure. Aveva troppo sonno per preoccuparsene.

Sbadigliò un’ultima volta, decidendo di dormire per un altro po’, e non si accorse dei passi che si avvicinavano alla camera, né del materasso che si abbassava leggermente sotto il peso di un’altra persona.

«Buongiorno, bella addormentata».

Kurt si sedette di scatto, tirando coperte e lenzuola con sé. «Blaine!», esclamò senza fiato, mentre l’altro ragazzo si appoggiava alla testiera del letto e rideva.

«Mi hai spaventato», protestò Kurt, tirandogli una gomitata nelle costole e poi cercando di coprirsi quando si accorse di essere in pigiama.

“Ma che…?”. Lanciò un’occhiata furtiva a Blaine, adocchiando la t-shirt stropicciata e i capelli scompigliati. “Okay… Che diavolo è successo ieri sera?”.

«Scusa», fece l’altro alzando le mani, ma ancora rideva. «Ti dispiace?», gesticolò verso le coperte. Kurt lasciò la presa, riluttante, e Blaine infilò braccia e gambe sotto il piumone, sospirando di sollievo. «Molto meglio. In cucina si gelava». Gli lanciò un altro sorriso prima di passargli una tazza fumante. «Caffè?».

Kurt trattenne un gemito di gioia quando adocchiò il vassoio che Blaine aveva poggiato sul comodino – una moca ancora fumante ed un piatto di biscotti.

«Grazie». Dopo il primo sorso gli sfuggì un sospiro di sollievo. «Fantastico».

Blaine annuì, portando la propria tazza alle labbra. Kurt si impose di aspettare che avesse bevuto almeno un sorso di caffè prima di porre la domanda che gli ronzava in testa da una lunghissima manciata di secondi.

«Blaine». Il ragazzo alzò le sopracciglia con aria interrogativa. «Cosa ci fai qui… in pigiama?».

Il ragazzo soffocò a metà del suo sorso di caffè.

«Non sto… insinuando nulla», si affrettò a precisare Kurt mentre Blaine tossiva rumorosamente. «È solo che-»

«Dubbio più che legittimo», lo interruppe Blaine con voce roca. A giudicare dalla sua faccia stava trattenendo a stento una risata. «Ma ti posso assicurare che le mie intenzioni sono onorevoli».

«Non ne dubito», borbottò l’altro, cercando di evitare il suo sguardo per non scoppiare a ridere a sua volta. «Ma perché esattamente…?».

«Volevo solo assicurarmi che stessi bene dopo ieri sera-».

«Oh, no». Kurt strinse la tazza in una stretta mortale mentre i ricordi di quello che era successo la sera prima lo colpivano con la forza di uno tsunami. «No». A malapena si accorse della mano di Blaine che gli stringeva piano una spalla.

«Non ti preoccupare». Il ragazzo gli tolse la tazza dalle mani e la poggiò sul vassoio. «Vedrai, basterà che tu ci dorma sopra un altro po’ e-».

«Mi dispiace», lo interruppe Kurt, senza dare segno di averlo sentito. Si premette le mani sul viso, desiderando che le lenzuola lo inghiottissero in quel preciso istante. «Sono davvero mortificato, credimi, io-».

«Kurt». Blaine gli tolse gentilmente le mani dagli occhi, costringendolo a guardarlo. «Per cosa saresti dispiaciuto, di grazia?».

Kurt abbandonò la testa contro la testiera del letto con un suono sordo. «Ho passato metà della serata a piangerti addosso», borbottò fra i denti. «Non è una cosa che faccio – intendo», fece una smorfia. «Piangere. Quando c’è… qualcun altro».

Blaine gli strinse le mani fra le sue. «Beh, sembrava ne avessi bisogno».

Kurt sospirò, desiderando che il suo cuore si desse una calmata, visto che al momento stava facendo una serie di capriole nel suo petto. Gli sarebbe anche piaciuto avere un commento coerente con cui rispondere, ma al momento tutti i pensieri vagamente coerenti erano spariti dalla sua testa, dato che il suo cervello si ostinava a volersi concentrare sulla sensazione delle dita di Blaine che gli accarezzavano delicatamente il polso.

«Ma Blaine, ti avrò riempito il maglione di moccio», riuscì a commentare infine.

«Che schifo!», rise l’altro dandogli una spinta. «Okay, hai perso il tuo diritto alla parola, smettila di scusarti. Zitto e mangia».

Kurt afferrò il biscotto che Blaine gli stava porgendo. «Ma devo spiegarti-», provò ancora.

«Come ti ho detto ieri sera», lo interruppe Blaine. «Non devi spiegarmi proprio un bel niente». Finì in un sorso il suo caffè mentre Kurt lo guardava incuriosito.

«Sei strano», commentò dopo alcuni secondi.

«Sono perfettamente normale. Forse sei tu a non aver incontrato molti gentlemen nella tua vita».

Kurt scosse la testa, ignorando il suo sorriso. «Forse», concesse infine.

«A pensarci bene, puoi dirmi qualcosa. Una cosa sola». Kurt sollevò un sopracciglio. «Non ti ha fatto del male, vero?».

Kurt scosse la testa e Blaine lasciò andare un sospiro di sollievo. «No, non ne sarebbe stato capace», bevve un altro sorso di caffè, prima di precisare. «Non ieri sera, almeno».

L’altro ragazzo boccheggiò, con l’espressione di chi è stato preso completamente in contropiede.

«Vecchi compagni di liceo», spiegò Kurt con amarezza. «Io ero il tipico ragazzino gay come il quattro di luglio. Lui era nella squadra di football». Alzò le spalle. «Prevedibile, no? Ed è peggiorato dopo che sono entrato nel glee club, al secondo anno. Ma non c’è di che stupirsi, davvero, e non è mai stato niente di così terribile, solo le granitate e qualche spinta contro gli armadietti, e se ci pensi è quasi normale e così tipico per una città minuscola come-».

«Kurt». Il ragazzo sussultò quando Blaine gli passò una mano sulla guancia. Si accorse solo in quel momento che era bagnata. «Cos’è successo veramente?».

Deglutì, cercando di trattenere un singhiozzo. Kurt sentì la mano di Blaine scivolare nella sua, ma il ragazzo restò in silenzio. «Non l’ho mai detto a nessuno», sussurrò infine.

«Non sei costretto-».

«Ma devo farlo. Voglio farlo». La stretta sulla sua mano si rafforzò. «Durante il terzo anno di liceo lui…», si bloccò, prendendo un respiro. «Di solito non era così, ma quell’anno non mi dava un attimo di tregua. Era sempre lui. Un giorno ero negli spogliatoi maschili, da solo. Avevamo fatto un concerto di beneficienza, con il glee club, era appena finito», fece una pausa, osservando distrattamente le dita di Blaine intrecciate con le sue. «Mi stavo cambiando, credevo la scuola fosse vuota. Finché non entrò David. All’inizio era… normale. Credevo che se l’avessi ignorato mi avrebbe lasciato stare. Ma prima che potessi andarmene mi spinse contro un armadietto e… e mi baciò». Respirò profondamente e cercò di restare calmo, evitando lo sguardo di Blaine. «Era il mio primo bacio», commentò con rammarico. Rivivere quel ricordo, anche a distanza di anni, gli dava i brividi, ma il bisogno di sfogarsi era stato troppo forte dopo ciò che era successo la notte precedente.

«Cosa… cosa è successo dopo?».

«Non molto. Io non sono andato a scuola per una settimana. David ha cambiato liceo. Non ci siamo più rivisti… fino al college». Giocherellò con l’orlo del lenzuolo mentre ripensava a quanto fosse stato stressante quel periodo. «Si è scusato per tutte le cose che mi aveva fatto. E se ci puoi credere la sua scusante era che io gli piacevo… perché lui era gay». Scosse la testa. «È stato uno shock all’inizio. All’epoca non l’avrei minimamente immaginato. Non sono riuscito a perdonarlo subito, ma con il tempo…», lasciò la presa sul lenzuolo, senza rialzare lo sguardo. «Era cambiato, davvero cambiato. E gli piacevo ancora. E avere qualcuno seriamente interessato a me dopo anni di ragazzi da una notte e via… Oh, Dio, sembro patetico», si interruppe improvvisamente. Scivolò di nuovo dentro al letto, portandosi le mani al viso. «Patetico», borbottò fra sé e sé.

Ci fu qualche secondo di silenzio prima che Blaine scivolasse accanto a lui, poggiando la testa sul suo stesso cuscino.

«Non c’è niente di patetico nel voler esser amati», disse in tono calmo. Kurt allargò leggermente le dita per osservarlo. «Hai solo cercato nel posto sbagliato», continuò Blaine, rivolgendogli un mezzo sorriso. «Quando una persona ti ferisce, intendo fisicamente… beh, non c’è più nulla da fare. È una sensazione che non può sparire, che resta sottopelle. Sei riuscito a perdonarlo… non tutti l’avrebbero fatto. Ma non potrai mai sentirti completamente al sicuro… o fidarti di lui, per quel che vale».

Kurt annuì. Era la perfetta descrizione di come si era sentito in presenza di David…

Aggrottò le sopracciglia. Fin troppo perfetta effettivamente.

Tolse completamente le mani dal volto, notando solo in quel momento lo sguardo amaro dell’altro ragazzo, che stava fissando un punto poco sopra la sua spalla.

«Blaine…», chiese esitante.

Il ragazzo sorrise leggermente e scosse la testa. « È una storia terribilmente lunga e terribilmente deprimente. E oggi abbiamo avuto abbastanza discorsi deprimenti, non credi?».

Kurt cercò la sua mano e la strinse. «Sono assolutamente d’accordo. E mi pareva che tu fossi venuto qui per darmi una bella notizia?».

Blaine si illuminò come un albero di Natale alle sue parole.

«Non ci crederai quando te lo dirò».

 

28 dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio

 

Rachel diede gli ultimi tocchi al suo rossetto, per poi ammirare il suo viso nello specchio del bagno.

Perfetto. Non eccessivamente pesante ma nemmeno troppo acqua e sapone. Semplicemente perfetto.

Afferrò la spazzola e mentre si pettinava i lunghi capelli iniziò a ripassare per l’ennesima volta il suo piano di battaglia.

Avrebbero fatto colazione a casa di Kurt – caffè e muffin, semplice e domestico – e poi lei gli avrebbe chiesto di accompagnarla per una passeggiata fino al lago – attrezzata di scarpe adatte all’occasione, stavolta. Una volta davanti al lago avrebbe trovato qualche scusa per creare un’atmosfera romantica, e l’avrebbe baciato.

Sorrise fra sé e sé al pensiero. E poi…

Si bloccò con la spazzola a mezz’aria.

“E poi…”.

Si accorse di non averci ancora pensato. Si era così concentrata sul suo obiettivo da non aver pensato a cosa sarebbe successo dopo.

Si appoggiò al bordo del lavabo. “Sei incorreggibile, Rachel Berry. Finn non è uno dei tuoi soliti uomini da una botta e via. Hai già fatto questo errore una volta con lui, non farlo di nuovo”.

No, lui era diverso da tutti gli altri. Non voleva solo un bacio, o una notte insieme, o un piccolo flirt. Voleva qualcosa di serio con lui, qualcosa di…

“Ma come potrebbe funzionare?”, si chiese. “Potremmo vederci? Io di certo non rinuncerei a Broadway. Ho sacrificato vent’anni della mia vita per arrivare dove sono ora. E lui non lascerebbe l’Ohio. Tiene troppo a questo posto”. Si guardò nello specchio, senza soffermarsi sulla piega dei capelli o sul trucco perfetto, ma solamente sui propri occhi tristi. “Tipico. La prima volta che mi interessa un uomo non ho nemmeno l’occasione di costruirci un rapporto normale”.

Rimise la spazzola nel beauty case, passandosi un’ultima volta la mano fra i capelli.

«Non posso baciarlo», disse fra sé e sé nella solitudine del bagno di Kurt Hummel. Appena le parole lasciarono le sue labbra seppe immediatamente che erano vere.

Non poteva spezzare di nuovo il cuore di Finn con promesse che poi non avrebbe potuto mantenere. Anche se il solo pensiero di arrendersi le faceva attorcigliare lo stomaco.

“Perché diavolo ci tieni così tanto?”, si chiese con stizza. “Sei proprio una ragazzina”

Il suono del campanello la fece sobbalzare. Si diede un’ultima occhiata allo specchio, annuendo verso il proprio riflesso perfetto. Poi corse al piano di sotto e spalancò la porta con un gran sorriso stampato sul volto. «Buongiorno!».

«Buongiorno», rispose Finn, sorridendo a sua volta. Sollevò un sacchetto da cui proveniva un profumo invitante. «Mirtilli e cioccolato va bene per te?».

«Perfetto», commentò lei, facendosi da parte per farlo entrare.

«E questo», aggiunse Finn porgendole un giornale arrotolato. «E sappi che il signor Simmons della cartoleria mi ha guardato malissimo, quindi mi devi un favore».

«Vedrò di non scordarmelo», sghignazzò Rachel, colpendolo su un fianco con il giornale. «Anche se non vedo perché potesse avercela con te solo perché hai comprato questo giornale», commentò dirigendosi in cucina.

«Crederà che mi sto montando la testa», sospirò Finn, seguendola a ruota. «Che voglio trasferirmi nella grande città».

Rachel si girò a guardarlo, incredula. «E Columbus non è una città?».

Finn rise. «Una citta in Ohio, Rachel».

La ragazza scosse la testa. «Pardon. Tendo a dimenticarmene».

Recuperò un piatto dalla credenza e lo passò a Finn. Il ragazzo tirò fuori dal suo sacchetto quattro muffin ancora tiepidi e ve li sistemò. Un profumo celestiale invase la stanza, facendo borbottare rumorosamente il suo stomaco.

Finn si buttò su una sedia. «Allora», cominciò mentre Rachel accendeva uno dei fornelli e vi posava sopra una moca. «Cosa devi sapere di tanto urgente da non poter aspettare dopo le vacanze di Natale?».

La ragazza lo raggiunse al tavolo. «Ho telefonato ad un mio amico stamattina…».

«Spero che tu non abbia buttato anche lui giù dal letto», la interruppe Finn.

«Non è colpa mia se siete tutti un branco di pigroni!», protestò lei tirandogli un calcio da sotto il tavolo.

«Scusa, scusa!», esclamò Finn, massaggiandosi la gamba. «Ci stai prendendo la mano, eh?».

Rachel alzò un sopracciglio con aria compiaciuta, afferrando uno dei muffin e dandogli un piccolo morso. Mugolò di piacere mandando giù il boccone.

Erano divini. «Devi assolutamente dirmi dove hai preso queste cose, così posso mandare un mazzo di fiori a chiunque li abbia preparati», prese un altro morso dal dolce. «Sono fantastici».

Finn si limitò a sorridere. «Una panetteria vicino a casa mia. Riusciamo a sopravvivere benissimo senza Starbucks, a Greater Hilltop, grazie tante».

«Ooh, non alzare la cresta ragazzino di campagna», commentò Rachel schioccando le dita.

Si scambiarono un sorriso prima che Rachel riprendesse il discorso precedente.

«Dicevo, stamattina ho chiamato Blaine e la sua telefonata mi ha messo una certa ansia», afferrò il giornale e iniziò a srotolarlo. «Ho pensato fosse meglio controllare come se la sta cavando la concorrenza mentre non ci sono».

Il caffè iniziò a gorgogliare dalla cucina.

«Vado io», esclamò Finn. «Tu controlla pure la tua concorrenza».

Rachel aprì il giornale e saltò automaticamente alla sezione dello spettacolo, scorrendo velocemente i primi titoli, per vedere se c’era qualche novità. Cinque articoli, e due parlavano del nuovo spettacolo diretto da Blaine Anderson ed Adam Stewart. Si rilassò sulla sedia, decisamente sollevata.

«Nulla di cui preoccuparsi, a quanto pare», commentò voltando pigramente la pagina.

«Buono a sapersi», osservò Finn alle sue spalle.

«Prevedibile, vorrai dire», rispose distrattamente lei, scorrendo gli articoli in cerca di qualcosa che la riguardasse.

«Mi stai incuriosendo Rachel». Finn rise fra sé e sé. «Mi piacerebbe sentirti cantare».

«La mia voce è assicurata», sospirò lei. Alzò per un attimo lo sguardo dal giornale. «Di solito faccio pagare il biglietto ma per te potrei fare un’eccezione».

Finn ridacchiò. «Sai, mio fratello è un appassionato di musical, te l’ho già detto? E anche io ne so parecchio, insegnando musica. Qual è stato l’ultimo spettacolo in cui hai recitato?».

«Evita», rispose automaticamente lei, girando un’altra pagina.

«Davvero? E in che ruolo?».

La ragazza non gli rispose.

«Rachel?». Finn si girò e le lanciò un’occhiata. Stava fissando a bocca aperta la pagina del giornale. «Tutto bene?», chiese cautamente.

«Oh, no», mormorò Rachel. «Oh no, no, no, no».

Abbandonò il giornale e si precipitò in salotto, ignorando completamente il ragazzo.

Finn poggiò la caffettiera sul tavolo, esterrefatto. «Ma cosa…?».

Lo sguardo gli cadde sul giornale di Rachel, e rimase anche a bocca aperta a sua volta. Una foto a due colonne ritraeva lui e Rachel in giro per le strade di Columbus. Per mano. E con due espressioni inequivocabili sulla faccia.

«Sugar!», Rachel riapparve in cucina, il cellulare attaccato all’orecchio. «Sugar chiamami appena ti svegli. È urgente!».

Scaraventò il cellulare sulla credenza e tolse il giornale da sotto il naso di un Finn ancora sconvolto, portandoselo a due centimetri dal naso.

«Ne ho abbastanza di queste iene», disse a denti stretti, mentre il suo sguardo saltava da un lato all’altro della pagina. «Giuro che il bastardo che mi ha seguito anche in vacanza, e per di più in Ohio-». I suoi occhi si spalancarono in un espressione quasi comica. «Jacob Ben Israel? Ancora?». Scaraventò il giornale sul tavolo, furente. «Quel maledetto pazzo mi segue ovunque. Oh, ma stavolta si beccherà un’ordinanza restrittiva, poco ma sicuro».

Si fermò per riprendere fiato, un’espressione infuriata sul volto. Finn approfittò al volo di una delle pause nella conversazione. «Quindi», chiese, ancora leggermente stordito. «I paparazzi ti inseguono? Questo vuol dire che sei… famosa?».

«Beh, osserva ciò che è successo e fai una deduzione», commentò Rachel sarcastica. Si passò una mano sulla fronte. «Questa proprio non ci voleva, dopo essere riuscita a sopportare Jessie per tutti quei mesi…».

Fece un paio di respiri profondi, cercando di calmarsi, mentre Finn la guardava con un’espressione confusa sul volto. «Cosa significa… “sopportare”? Non mi avevi detto che stavate insieme solo per il sesso?».

«E per la pubblicità, ovviamente. Aumentare la mia visibilità facendomi vedere insieme con una delle star di Wicked anche se è un enorme stronzo. Grande idea, Sugar». Recuperò il cellulare e digitò di nuovo il numero di Sugar, senza notare l’espressione che Finn aveva sul volto.

«Dannazione Sugar, vuoi svegliarti!», esclamò quando ancora una volta le rispose la segreteria.

«Rachel», disse Fin con voce pacata. «Ho bisogno che tu mi dica una cosa».

«Non so se l’hai notato, Finn, ma sono piuttosto presa al momento!», sbottò Rachel.

«Solo una cosa». La ragazza appoggiò una mano alla fronte e gli fece un cenno con il capo. «Sei… uscita con me per farti pubblicità?».

«Dio, Finn, certo che no», sbottò, la voce più acida di quanto avrebbe voluto. «Nessuno sapeva ancora che io e Jesse ci siamo lasciati, ed inoltre essere vista in giro con uno come te mi-».

«Uno come me?», la interruppe Finn. Per la prima volta da quando aveva visto la loro foto sul giornale, Rachel lo guardò in faccia. Sul suo volto c’era la stessa espressione mortalmente seria che aveva quando lei gli aveva fatto il suo discorso da “una notte e via”. «Cosa vorresti dire?», chiese il ragazzo.

«Lo sai perfettamente cosa voglio dire!». Rachel cercò di suonare sicura di sé ma la sua stessa convinzione stava iniziando a vacillare. «Jessie… Jessie è un attore famoso e tu-».

«Un maestro di scuola elementare che va fiero del suo lavoro», la interruppe nuovamente Finn. Una punta di rammarico si fece strada nella sua espressione impassibile. «E mi pareva che fino a ieri Jessie fosse uno stronzo con cui saresti solo andata a letto e io…». Si interruppe, e la sua espressione di pietra cadde a pezzi davanti a Rachel. La ragazza non seppe fare altro che stare ferma a guardare, mentre il senso di colpa per essere stata lei a provocare il dolore sul suo viso scorreva dentro di lei come fuoco nelle vene.

«Quand’è che questo è cambiato?», disse Finn a mezza voce,

«Ascolta, nulla di tutto questo è cambiato», mormorò Rachel, facendo un altro tentativo disperato di spiegarsi. «Solo che non posso farmi vedere con te in pubblico. I paparazzi mi staranno alle calcagna dopo questo».

«Stai dicendo che ti vergogni di farti vedere in pubblico me?».

«Sto dicendo che ho lavorato per anni alla mia immagine e che è dannatamente importante per il mio lavoro», scattò la ragazza.

«Più importante del rapporto con un’altra persona?», replicò Finn, facendo un passo verso di lei. Rachel distolse lo sguardo.

Fu Finn a parlare per primo, dopo qualche secondo. «Stai dicendo che non vuoi più vedermi?».

La ragazza chiuse gli occhi, facendo un respiro profondo e cercando la forza per dire quello che sapeva di dover dire.

«No», disse infine. «Non voglio più vederti».

Finn la guardò per una manciata di secondi, impassibile, poi se ne andò senza un’altra parola.

Rachel si sforzò di rimanere perfettamente immobile, ascoltando i rumori di un cappotto infilato velocemente e della porta d’entrata che sbatteva. Poi aprì gli occhi, guardando la cucina terribilmente vuota e cercando di convincersi che aveva fatto la cosa giusta.

 

28 dicembre 2017, Theatre District, New York

 

«Dimmi che tutto questo è reale», chiese Kurt artigliando i braccioli della propria sedia.

Blaine lo guardò con espressione divertita. «Mi crederesti?».

«Probabilmente no», ammise l’altro ridendo appena. «Ma potresti sempre provarci».

«Sfida accettata».

Kurt si rilassò sullo schienale della sua poltrona, accavallando le gambe e chiudendo gli occhi. «Fa’ del tuo meglio, Barney Stinson».

«Sei a New York».

«E fin qua ti seguo».

«A Broadway per la seconda volta in pochi giorni».

Kurt sentì un tuffo al cuore. «Continua…».

«Siamo seduti davanti al palco del Gershwin Theatre, e tra cinque minuti vedremo Wicked».

«Dio».

«Interpretato dal cast originale».

«Oh Dio». Il ragazzo alzò lo sguardo, fissando il palco davanti a sé come se non potesse ancora credere ai suoi occhi. «Blaine, quanto mi giudicherebbe questa gente se mi mettessi ad urlare?».

Il ragazzo sbuffò. «Poco, visto che fino a cinque minuti fa stavi facendo il revival della scena del bar, Sally Albright».

Kurt gli tirò una gomitata. «Sta’ zitto, Anderson», sibilò. «Per te potrà anche essere normale, essere a New York, vedere i musical che ho sognato di vedere da una vita, ma per me-».

­«Di solito non sono seduto nel Golden Circle», commentò Blaine con un sorriso. «Mike si  è davvero superato, stavolta…», commentò mentre Kurt sprofondava di qualche centimetro nella sua sedia.

«Vi devo un favore. Vi devo un favore enorme», mugugnò Kurt, tenendo le mani davanti al viso. «Un migliaio di favori. Vi farò la biancheria per un mese intero».

«Ce la faccio benissimo da solo, grazie, e credo sia lo stesso per Mike. E in ogni caso, non ti ricatterei mai. Anche se forse, per quei pancakes-».

Furono interrotti dalla suoneria del cellulare di Kurt.

­«Avrei dovuto metterlo in silenzioso…», borbottò il ragazzo mentre armeggiava con le tasche dei pantaloni.

Chiedendosi distrattamente chi potesse essere a quell’ora della sera, si alzò dal suo posto e si diresse verso il corridoio.

«Fai presto o  ti perderai l’inizio», esclamò Blaine mentre si allontanava.

Kurt gli fece un cenno prima di uscire dalla sala e controllare lo schermo del cellulare. Sollevando le sopracciglia in un’espressione sorpresa, rispose al telefono.

«Rachel?», chiese esitante.

«Ciao Kurt», la voce della ragazza gli arrivò leggermente ovattata. «Sei a casa mia? Sento un po’ di rumore…».

Kurt lanciò un’occhiata alla porta, oltre la quale c’era una sala piena di gente che mormorava e parlava a voce sommessa. «No, sono… fuori», disse, ricordandosi all’ultimo momento di quando Blaine gli aveva raccontato che le avevano rifiutato la parte di Elphaba. Meglio non dirle che stava guardando lo spettacolo della concorrenza. «Dimmi, c’è qualche problema?».

«Beh, sì. A dir la verità volevo tornare a casa in anticipo».

«Davvero? Prima di capodanno?».

«Sì. Domani pomeriggio, a dir la verità. Non ti sto cacciando fuori di casa, ovviamente, possiamo sempre convivere, c’è moltissimo spazio ed ho una stanza degli ospiti in perfetto stato, come avrai notato».

Kurt tirò un sospiro di sollievo. Per un momento aveva creduto di dover tornare a Columbus prima del tempo. «Già stanca dell’Ohio, vero? Ti capisco». La ragazza non rispose. «Rachel?». Kurt allontanò il cellulare dall’orecchio, controllando che ci fosse campo. «Rachel, tutto bene?».

Dall’altro capo del telefono arrivò un rumore che suonava sospettosamente simile a qualcuno che tirava su con il naso. «Sì, sì, tutto okay, non ti preoccupare. Ci vediamo domani, allora?».

«A domani».

Il ragazzo terminò la chiamata, rientrando nella sala. Fortunatamente le luci erano ancora accese e lo spettacolo non era ancora iniziato. Si sedette vicino a Blaine mentre rimetteva il cellulare in tasca.

«Rachel sta tornando a casa», annunciò.

Blaine sembrò sorpreso. «Di già?».

«Dice che arriverà domani», rispose l’altro scrollando le spalle.

«Sarà preoccupata che Mercedes le rubi l’attenzione», commentò Blaine togliendosi gli occhiali. «È brava quanto lei e determinata il doppio. Anche se è strano. L’ho sentita stamattina, e mi sembrava a posto. Anzi, mi aveva addirittura detto che aveva conosciuto… qualcuno».

Kurt alzò un sopracciglio. «In Ohio? Una newyorkese che trova un ragazzo decente in Ohio?», sbuffò con aria incredula. «Una possibilità su due miliardi».

«Aspetta un secondo». Blaine si girò verso di lui. «Questo vuol dire che dovrai tornare in Ohio prima di Capodanno?».

Kurt trattenne una risata quando vide quelli che potevano essere definiti solo come “occhi da cucciolo”. «No, resterò qui. Rachel mi ha proposto di stare nella stanza degli ospiti e a me va più che bene se significa restare qualche giorno in più a New York…».

Blaine si rilassò contro lo schienale della sedia, con espressione soddisfatta.

«Ottimo. Bene. Sai, avevi promesso a Mercedes che ci saresti stato per Capodanno e non avrei voluto essere nei tuoi panni se-».

«Certo», lo interruppe Kurt ridendo. Si scambiarono un sorriso incerto. Sapevano entrambi il motivo per cui a Blaine importava che lui restasse a New York, e non era una festa di Capodanno.

«Sai…», iniziò Blaine dopo qualche secondo. «Se non avessi voglia di stare con Rachel… potresti sempre venire a stare da me. C’è anche mio fratello», aggiunse subito dopo. «Cooper starà a New York fino ai primi di gennaio, quindi la situazione sarà imbarazzante in parecchi casi, ma se vuoi…».

«Non sarebbe un po’ affollato?».

«Forse», ammise Blaine. «Però se finissimo bloccati in casa dalla neve non ti annoieresti un minuto».

Proprio in quel momento le luci si abbassarono e le persone dentro al teatro smisero di parlare.

«Mi piacerebbe molto», sussurrò Kurt. Nella penombra della sala riuscì a distinguere il sorriso dell’altro ragazzo.

«Bene».

Kurt sorrise a sua volta, girandosi verso il palco.

Quando la musica cominciò sentì un brivido corrergli lungo la schiena.

«Non riesco ancora a crederci…».

Blaine rise piano. «Ti conviene cominciare a farlo, perché quella è Kristin Chenoweth, poco ma sicuro».

 

Si stavano tenendo per mano da Defying Gravity – più precisamente da quando Idina Menzel aveva cantato il suo famoso fa alto e Kurt aveva visto Blaine cercare di asciugarsi gli occhi con discrezione.

Kurt osservò Fyiero ed Elphaba sul palco, sospirando e stringendo forte la mano di Blaine. Il ragazzo si girò verso di lui.

«Cosa c’è?», sussurrò.

«Nulla, questa scena mi ha sempre fatto diventare emotivo», lanciò un’occhiata di sottecchi a Blaine, che aveva un’espressione interrogativa. «Lei è verde, e tutto Oz crede che sia una strega, ma lui la ama lo stesso», sussurrò. «Avere qualcuno che ti faccia sentire così speciale… deve essere beh, fantastico», commentò on una punta di amarezza.

Proprio mentre l’orchestra cominciava a suonare As long as you’re mine, Blaine gli posò una mano sulla guancia, facendolo voltare verso di sé.

«Non hai bisogno di nessuno che ti faccia sentire così, Kurt», sussurrò, la voce appena udibile sopra all’orchestra. ­«Tu lo sei già».

Elphaba iniziò a cantare e Blaine si chinò verso il ragazzo, posando gentilmente le labbra sulle sue. Kurt batté le palpebre un paio di volte, la musica attorno a sé e la penombra della sala che rendevano la scena irreale. Quando Blaine si allontanò da lui prese un respiro brusco, prima di alzare gli occhi e guardarlo – aveva un’espressione incerta, e stava aprendo la bocca come per dire qualcosa… Cosa, Kurt non fece in tempo a scoprirlo. Prese il suo viso fra le mani e lo baciò di nuovo, dimenticandosi degli attori, del teatro, delle svariate centinaia di persone sedute attorno a loro. Lo tirò più vicino a sé, mentre Blaine approfondiva il bacio, facendo scivolare la lingua fra le sue labbra. Kurt gemette piano, passandogli un braccio attorno alla vita e maledicendo il bracciolo della poltrona che separava i loro corpi.

Si separarono bruscamente quando un colpo di tosse dalla fila dietro alla loro li riportò alla realtà. Si fissarono per qualche secondo, gli occhi annebbiati e i capelli in disordine. Fu Kurt a sorridere per primo, un sorriso raggiante, ancora più luminoso di quando Blaine gli aveva sventolato sotto il naso i biglietti per Wicked. L’altro ragazzo sorrise a sua volta, mentre Kurt si avvicinava a lui e gli premeva un ultimo bacio sulle labbra.

«Grazie», sussurrò mentre i loro nasi si sfioravano. «Fiyero».

Blaine trattenne una risata mentre si sedevano normalmente, tornando ad osservare il palco mentre le loro mani si trovavano e si intrecciavano sul bracciolo della poltrona.

Kurt sospirò sentendo le ultime battute della canzone, rendendosi conto di essersi perso una delle sue scene preferite. Una volta tornato a casa di Rachel avrebbe dovuto trovare un modo per farla pagare a Blaine, decisamente. Tuttavia sorrise ugualmente quando l’altro ragazzo portò le loro mani alle labbra, stampando un bacio sulle sue nocche.

«For the first time», disse Elphaba dal palco del teatro, mentre Kurt aveva la sensazione che il proprio petto fosse troppo piccolo per contenere tutte le emozioni che stava provando, «I feel… wicked».

 

A/N:

Buongiorno stelle del cielo! La terra vi saluta!

Fianlmente, e dico FINALMENTE sono riuscita a pubblicare un altro capitolo di TH!

Grazie a tutti quelli che stanno leggendo queste note per aver aspettato fino a settembre per leggere una storia che si svolge a Natale :)

La buona notizia è che ho tutto pronto ora, quindi pubblicherò regolarmente, e mancano altri cinque capitoli (uno in più del previsto perché l’ultimo è lunghissimo), il prossimo sarà online giovedì pomeriggio!

Cos’ho fatto mentre non pubblicavo? Beh, ho guardato Doctor Who… ho pianto per Glee (come al solito)… Ho studiato (TANTO)… Insomma un sacco di cose non importanti.

La canzone che viene menzionata alla fine del capitolo è As Long As You're Mine, dal musical Wicked, ascoltatela perchè è un vero capolavoro ;)

Spero che vi piacia questo capitolo… e soprattutto  questo bacio Klaine! Da qui in poi le cose iniziano a farsi interessanti e a spostarsi sempre di più verso NY ;)

Al prossimo capitolo, dearies!

MM

 

PS: non so a chi possa interessare ma mi sono accorta qualche mese fa che questa storia è seguita da Ginny_Potter?!?!?!??!?!?!?!?! IN QUALE UNIVERSO PARALLELO SONO FINITA?

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Capitolo 8
*** 29 dicembre ***


29 dicembre 2017, Upper West Side, New York

 

Per la seconda volta in due giorni, Kurt si svegliò con un vago profumo di caffè che invadeva la stanza.

Il ragazzo sbatté le palpebre mentre sorrideva contro il proprio cuscino. “Potrei fare l’abitudine anche a questo”.

Si prese qualche secondo per stiracchiare le gambe indolenzite, poi si alzò dal letto, recuperò i pantaloni del pigiama ed una maglietta e sgattaiolò in bagno. Dopo aver rinunciato a far stare giù i propri capelli si infilò un cardigan e si diresse in cucina, chiedendosi che fine avesse fatto Blaine.

Lo trovò seduto sulla credenza della cucina, il cellulare in una mano, un biscotto nell’altra, ed un’aria assonnata in volto.

«Ma certo che sono sicuro», stava borbottando a mezza voce nel cellulare.

Il ragazzo si schiarì rumorosamente la voce, sorridendo quando Blaine si illuminò come un albero di Natale. Lo ignorò mentre gesticolava verso il cellulare con uno sguardo di scusa e gli stampò un sonoro bacio sulle labbra. Blaine lo fissò, gli occhiali storti sul naso ed un sorriso adorante sul volto.

«No, no, non era nulla», disse nel ricevitore del cellulare. «Dicevi?».

Kurt smise di concentrarsi sulla sua voce mentre si versava una tazza di caffè da una moca ancora mezza piena – dio, quanto adorava quel ragazzo –, afferrava un biscotto al cioccolato e andava a sedersi sul balcone della cucina di Rachel.

Le strade sotto l’appartamento erano piene come quelle di Columbus nell’ora di punta nonostante il sole non avesse ancora fatto completamente capolino da dietro le sagome dei grattacieli e nell’aria aleggiasse un sottile velo di nebbia. L’Hudson era lontano, sfocato, e di un pesante color grigio piombo. Una vista mozzafiato.

Bevve un sorso di caffè, sorridendo fra sé e sé – una vista che presto avrebbe potuto vedere ogni mattina, aveva qualche idea su un appartamento a Chelsea…

­­«Okay, me ne occuperò io. Sì lo so che rimangono pochi giorni. Il due gennaio. Ci sentiamo».

A proposito di viste da togliere il fiato… Kurt si girò ed osservò Blaine mentre terminava la chiamata e smontava dalla credenza, stiracchiandosi le braccia e facendo sollevare la maglietta che indossava di parecchi centimetri. Kurt si affrettò a finire il suo caffè.

«Scusa, dovevo assolutamente rispondere a questa», iniziò a dire Blaine. «Adam ha iniziato a creare problemi con il produttore, e ovviamente sapevo che sarebbe successo, sono entrambi parecchio vecchi e parecchio ostinati e…». Kurt poggiò la propria tazza vuota sul balcone e percorse i pochi metri di distanza che lo separavano da Blaine. «… e se continua così saranno capaci di cancellare lo show, e chi immaginava che coordinare un manipolo di musicisti e di attori sarebbe stato così- mph! », il resto della frase venne soffocato dalle labbra di Kurt sulle sue. Il ragazzo sorrise mentre le mani di Blaine smettevano all’improvviso di gesticolare e si stringevano invece sui suoi fianchi.

«Buongiorno», mormorò infine contro la sua bocca quando si separarono.

«Già», esalò Blaine, gli occhiali storti – di nuovo – e le guance arrossate. «Improvvisamente, mi è passata la voglia di fare colazione».

«Penso che lei mi abbia letto nel pensiero, signor Anderson». Lo afferrò per la maglietta, baciandolo di nuovo mentre insieme barcollavano fuori dalla cucina, sbattendo contro ogni parete prima di centrare la porta giusta per arrivare in soggiorno. Fu Blaine a inciampare per primo contro il bordo del divano, finendo lungo disteso sui cuscini. Kurt si affrettò a togliersi il cardigan e si sedette a cavalcioni del ragazzo.

Blaine gli prese il viso fra le mani. «Kurt, ieri sera è stato-».

«Sssh», lo interruppe il ragazzo, interrompendolo con un bacio. «Non parlare».

Fece scivolare le mani sotto la maglietta di Blaine, sfilandogliela velocemente e lanciandola dietro di sé dove venne raggiunta poco dopo dalla sua. Blaine accarezzò la schiena nuda del ragazzo, facendo scivolare le mani sulle sue natiche. Kurt rabbrividì.

«Questo è- voglio dire, va bene per te? », chiese Blaine senza fiato.

«Fantastico», esalò l’altro. «Dopotutto, ieri sera l’onore è stato mio…».

Blaine sorrise, facendo scivolare la mano sotto i suoi boxer-

«Beh, questa sì che è una sorpresa».

Kurt sussultò violentemente, mentre Blaine stringeva la presa sulla sua vita. Una volta sicuro che il ragazzo non rischiasse di cadere dal divano, si sporse cautamente sopra la sua spalla.

«Jessie?».

L’ex ragazzo di Rachel si appoggiò allo stipite della porta, con le braccia incrociate ed un sorrisino sarcastico. «Buongiorno Anderson. Scena interessante, devo dire». Blaine si accorse improvvisamente di avere ancora una mano dentro ai boxer di Kurt e si affrettò a posarla invece sulle spalle del ragazzo, che al momento era impegnato a fissare Jessie nello stesso modo in cui di solito si fissano le persone appena scappate da un ospedale psichiatrico.

«Ma chi cavolo sei?», sbottò verso l’intruso.

Jessie ignorò la sua domanda, iniziando a passeggiare per il soggiorno di Rachel con assoluta nonchalance. «E io che mi aspettavo di trovare l’appartamento di Rachel vuoto come una tomba. Non che trovare due bei ragazzi intenti a pomiciare mi dispiaccia, ovviamente. E pensare che farlo su quel divano era una mia prerogativa una volta. Bei tempi».

Dopo aver fatto un sospiro teatrale marciò in direzione della camera da letto senza degnarli di una seconda occhiata.

Kurt guardò Blaine a bocca aperta. «Chi diavolo è quel maniaco?».

Il ragazzo grugnì, passandosi una mano sul viso. «Jessie, l’ex ragazzo di Rachel. Lui è-».

«Completamente fuori di testa!».

«Ti sento, tesoro!», esclamò Jessie dall’altra stanza.

«Ora capisco perché l’ha lasciato», commentò Kurt, prima di sussultare di nuovo.

«Non c’è bisogno di essere così scortesi!». Jessie rientrò mentre Kurt si chinava per raccogliere i propri vestiti. Si bloccò, lanciando un’occhiata ammirata al fondoschiena del ragazzo. Blaine si schiarì rumorosamente la voce.  «Scusate, dicevo? Ah già, perché mai vi trovate in questa casa ad amoreggiare? Blaine, la tua musica non è mai stata così brillante, ma non credevo saresti diventato un senzatetto. Non così presto, almeno».

Blaine alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Ti ringrazio, Jessie. Per tua informazione Kurt abiterà a casa di Rachel per il resto delle vacanze. Home Exchange», precisò all’occhiata confusa del ragazzo.

«Oooh, capisco. Beh, in questo caso vi lascio soli. Buona continuazione della vacanza e…». Lasciò correre lo sguardo sulle spalle di Blaine mentre quest’ultimo si alzava e si rimetteva la maglietta. «Siete sicuri di non aver bisogno di un terzo uomo perché io sarei più che-».

«Jessie». Il tono di Blaine era a metà fra l’incredulo e l’irritato. «Se non sei fuori di qui entro trenta secondi chiamerò Rachel e le ordinerò di bruciare la tua collezione di cravatte Valentino. Lo sai che non avrà bisogno di una motivazione valida».

Il ragazzo alzò le mani in segno di resa. «Va bene, va bene. Ora capisco perché tu vada tanto d’accordo con lei. Bacchettoni». Girò sui tacchi ed uscì dal soggiorno.

Kurt si voltò verso Blaine solo dopo aver sentito la porta d’entrata sbattere. «Sbaglio o ci ha appena proposto un menage à trois?», chiese a bocca aperta. «Ma non era il ragazzo di Rachel?».

Blaine si passò una mano fra i capelli. «È… complicato. Diciamo che lei l’ha trovato a letto con uno dei ballerini dello show e così…».

«Ouch», commentò Kurt con una smorfia. «Povera Rachel».

«In realtà non erano così… voglio dire, non c’era niente di serio nel loro rapporto», cercò di spiegare Blaine, appoggiandosi allo schienale del divano. «Lui è Boq nel cast di Wicked e lei sta per debuttare nel suo primo show originale, stavano insieme per pubblicità, credo. O per il sesso, non sono mai riuscito a capirlo. Ma anche così-».

«-non è un bel modo per lasciarsi», completò Kurt.

«Già», concordò Blaine con un sospiro. Ci fu un momento di silenzio.

Kurt incrociò le braccia. «Con uno dei ballerini», ripeté incredulo.

Blaine scosse la testa. «Lo so, è quasi troppo cliché per essere vero». Poi lanciò un’occhiata confusa al ragazzo. «Ricordami perché ci siamo rivestiti?».

Kurt sbuffò. «L’ ex ragazzo maniaco di Rachel ci ha interrotto ed irreparabilmente rovinato l’atmosfera?».

«Oh, già», annuì l’altro. «Irreparabilmente? »

«Già», ripeté Kurt. «Ma è meglio così, se non ricordo male ho una valigia da preparare e sono molto pignolo riguardo ai miei vestiti».

Blaine sorrise, seguendolo a ruota. «Non mi aspettavo di meno da te. Ma la valigia può aspettare, non credi?».

«Molto pignolo, Blaine», ripeté l’altro aprendo l’armadio.

«Ma stavolta ci sono io a darti una mano». Blaine lo abbracciò, poggiando il mento sulla sua spalla. «In due ci metteremo molto meno, e anche io sono un tipo preciso…», posò un bacio sulla sua scapola.

«Blaine Anderson». Kurt si girò fra le braccia di Blaine, fino a trovarsi di fronte al ragazzo. «Stai per caso barattando il tuo aiuto in cambio di favori sessuali?».

Blaine gli stampò un bacio sulle labbra. «Sta funzionando? ».

L’altro sorrise. «Sì».

«Allora decisamente sì».

 

29 dicembre 2017, Brooklyn, New York

 

Blaine si fermò sul pianerottolo delle scale, asciugandosi la fronte per quella che doveva essere la quarta volta in dieci minuti. «È ufficiale: ci hai messo dentro dei mattoni mentre non stavo guardando. Non è possibile che sia così pesante».

Kurt si fermò dietro di lui, scrollando le spalle con aria rassegnata. «Rinnego tutte le accuse. E se l’avessi lasciata a me come ti avevo chiesto di fare-».

«Sto cercando di fare il cavaliere».

«Preferirei il mio cavaliere vivo piuttosto che morto di stenti per aver trasportato le mie valigie su per le scale», sogghignò Kurt.

Blaine lo squadrò di traverso, prima di mettersi le mani sui fianchi e fare un passo indietro. «Oh e va bene, ma sappi che mi sento umiliato nel profondo».

«Vivrai», commentò Kurt sollevando la propria valigia e salendo l’ultima rampa di scale senza alcuno sforzo apparente, mentre Blaine lo seguiva a ruota.

«L’ascensore rotto non era nei piani, in ogni caso», puntualizzò mentre infilava le chiavi di casa nella toppa. Non fece nemmeno in tempo a mettere un piede dentro la porta che venne travolto da una sottospecie di tornado umano.

«DOVE HAI MESSO LE GOCCE DI CIOCCOLATO?», esclamò una voce ad un volume parecchi decibel sopra l’accettabile.

«COOPER!», strillò Blaine di rimando mentre il fratello lo afferrava per il colletto e lo tirava dentro casa, mentre Kurt guardava la scena, attonito.

«Ti ho chiesto dove sono. Le gocce. Di cioccolato», ripeté il ragazzo con voce minacciosa.

«Per il bene della mia cucina non lo saprai, né ora né mai», decretò Blaine con voce calma. «E ora togliti, abbiamo ospiti».

«Davvero?», Cooper si girò verso la porta, notando solo allora il ragazzo pietrificato sulla soglia. «Ciao Kurt!», esclamò allegramente mentre Blaine lo spingeva via da sé.

«Io…», iniziò Kurt.

«Non dire nulla, e per favore non scappare», lo interruppe Blaine, «Mio fratello diversamente da me, è fuori di testa».

«Non sono fuori di testa», protestò Cooper con voce petulante. «Voglio solo cucinare la colazione, e mi servono le gocce di cioccolato. Dove le hai nascoste?».

«Cooper, non abbiamo già avuto questa discussione?», sospirò l’altro. «Pensa a renderti utile e porta dentro la valigia di Kurt».

«Vuoi davvero soffocare sul nascere le mie doti culinarie?», protestò Cooper. «Se solo mi lasciassi-».

«Forno rotto, ti ricorda qualcosa?», lo interruppe Blaine. Cooper aprì la bocca, poi la richiuse aggrottando le sopracciglia.

«Se continui a ragionare con questa filosofia è logico che-».

«Cucina incendiata nemmeno? Non ho i soldi per permettermi un nuovo appartamento», tagliò corto Blaine, posando una mano sulla schiena di Kurt ed invitandolo ad entrare.

«Piccolo principino ipercritico», borbottò Cooper alle sue spalle, afferrando il manico della valigia. Blaine alzò gli occhi al cielo e rivolse un sorriso al ragazzo accanto a sé.

«Ignoralo».

Kurt seguì il suo consiglio e decise invece di guardarsi attorno. L’appartamento di Blaine era decisamente più piccolo di quello di Rachel, e meno di classe, ma decisamente più vissuto. C’erano poster e manifesti di musical appesi alle pareti, e foto con le cornici spaiate, la federa del divano era sbiadita e un angolo della carta da parati si stava leggermente staccando. E c’erano spartiti poggiati su ogni singola superficie piana.

La voce di Cooper lo distolse dai suoi pensieri. «Dove devo portarla?», chiese il ragazzo appoggiandosi sulla valigia.

«In camera».

Il ragazzo alzò un sopracciglio. «Ma nella camera degli ospiti ci sono io e- oh!». Sul viso di Cooper comparve un ghigno che non prometteva nulla di buono mentre i suoi occhi passavano da un ragazzo all’altro. «Ooh». Kurt non poté fare a meno di arrossire.

Blaine sospirò, avvicinandosi a Kurt e prendendolo per mano. «Non iniziare, per favore», disse, senza riuscire a suonare completamente serio.

«Ma certo che no, caro Blainey», rispose il fratello in un tono che invece di calma prometteva infinite battutine a sfondo sessuale. «Stavo solo per commentare che quest’anno sembra essere la stagione degli amori, per voi newyorkesi».

Blaine alzò un sopracciglio. «A Los Angeles non ci sono coppiette che pomiciano in metropolitana?».

«Sto solo dicendo che anche la vostra amica Rachel sembra darsi da fare».

«Cosa?!», esclamò l’altro, allarmato.

Cooper fece un cenno alle proprie spalle, dove un giornale era mezzo aperto sul divano. Blaine si precipitò sul divano e lo squadrò con aria preoccupata.

«Era su tutti i giornali scandalistici di oggi», spiegò Cooper a Kurt con un’alzata di spalle. «A quanto pare Rachel Berry ha trovato una nuova fiamma mentre era in vacanza ad Altrove».

«Cavolo, questa non ci voleva…», gemette Blaine alle sue spalle.

«Perché ti preoccupi tanto?», commentò Cooper avvicinandosi a lui e mollandogli una pacca che gli fece scivolare gli occhiali sul naso. «Potrebbe non essere nemmeno vero! Prima o poi i giornali avrebbero trovato qualcosa di cui parlare… e anche se fosse, sembra più simpatico di quel St James, se non altro».

«Chiunque è più simpatico di quel maniaco pazzoide», commentò Kurt con tono fermo.

«Hai conosciuto Jessie?».

«Io-».

«Ma non è così che doveva andare», si lamentò Blaine, sfilandosi gli occhiali con aria abbattuta. «Rachel teneva a questo tizio, mi aveva addirittura telefonato per chiedermi consiglio… ed ora che è successo questo casino lei penserà solo alla sua immagine e…».

«E rispedirà quel tizio nei sobborghi di Columbus dai quali è sbucato?», ridacchiò Cooper.

«Non è divertente, è tragico», gemette Blaine buttandosi a sedere sul divano e lasciando cadere il giornale sul tavolino.

«Ascolta, Blaine, ecco cosa faremo…», Kurt smise di prestare attenzione ai discorsi dei due fratelli, riprendendo possesso della propria valigia e decidendo di fare come se fosse a casa sua. Si diresse verso il corridoio e sbirciò fra le stanze: bagno, cucina, una stanza molto piccola piena di libri e occupata per la maggior parte da un pianoforte da parete, una camera con i copriletti buttati all’aria e vestiti da tutte le parti – senza dubbio la stanza degli ospiti usurpata da Cooper – e, finalmente, la stanza di Blaine.

Entrò e poggiò la valigia contro una parete, notando con piacere che la stanza era parecchio spaziosa. Si concesse qualche momento per guardarsi intorno: tutto, dalle foto attaccate alle pareti, alla veduta su Brooklyn, ai libri poggiati sul comodino sapeva di Blaine. Sarebbe stato fantastico passare in quella casa gli ultimi giorni della sua vacanza, Cooper o non Cooper.

Tornò in soggiorno, solo per scoprire che il fratello in questione non aveva ancora finito di blaterare i suoi piani ridicoli, e che Blaine non si era ancora mosso dal divano, né la sua espressione era diventata meno disperata.

“Stessi geni, stessa attitudine da drama queen”, pensò divertito, dirigendosi verso il divano. Era davvero curioso di vedere che razza di ragazzo valeva la pena di tutta questa preoccupazione… Sbirciò dietro la spalla di Blaine e le sue sopracciglia andarono quasi a sparire sotto i capelli.

Di certo doveva aver visto male.

«Puoi passarmi il giornale?», chiese a Blaine.

«C’è… qualcosa che non va?», chiese il ragazzo notando la sua espressione stralunata.

«No, io…».

«Kurt?».

Il ragazzo deglutì. «Blaine», alzò gli occhi dal giornale. «Il tizio di questa foto… è mio fratello».

 

29 dicembre 2017, Upper West Side, New York

 

Rachel si lasciò cadere sul divano, sentendosi pronta a dormire per dodici ore filate. Naturalmente l’ascensore doveva smettere di funzionare proprio oggi.

Lanciò un’occhiata malevola alle sue valigie. E chi lo sapeva che vestiti e scarpe potessero pesare così tanto? Si lasciò sprofondare ancora più a fondo nei cuscini.

“Un ritorno da favola”, pensò fra sé e sé con un sospiro. Degno della partenza che aveva avuto, nulla da dire.

Lasciò vagare lo sguardo per il soggiorno. Era bello essere a casa, dopotutto. Prairie Oaks Cottage era delizioso, ma c’era una soddisfazione quasi irreale nello stendersi sul suo divano, con i suoi cuscini e il suo tappeto, e il suo Tony, ovviamente… Lanciò un’occhiata distratta alla statuetta poggiata sul tavolino da caffè. Avrebbe sofferto un po’ la solitudine, forse. Sugar sarebbe stata con Rory per tutte le vacanze, Blaine aveva la casa piena di ospiti, i suoi papà all’estero… Jessie ormai era una questione chiusa, e in Ohio aveva passato la maggior parte del tempo con-

Scosse violentemente la testa. “No. Non pensarci”.

“Chissà se Kurt sa di quel che è successo”, si chiese con uno sbadiglio. “F-lui è suo fratello, dopotutto”. Ma probabilmente Kurt doveva essere stato parecchio impegnato a New York. Con Blaine.

Le sfuggì un sorriso. Probabilmente quei due avevano già una tresca. Quel Kurt era carino, a giudicare dalle foto di famiglia appese in casa sua, e Blaine, beh, era davvero affascinante. Avrebbero formato una bella coppia, davvero, non ci aveva nemmeno pensato, ovviamente, era stata più concentrata su-

No, basta. Smettila. Trova una distrazione”.

Estrasse il cellulare dalla borsa e lo rimise in carica. Trovò due messaggi in segreteria.

Il primo era di Adam, che si lamentava della sua assenza alle prove. Lo cancellò dopo averne ascoltato tre secondi. Sapeva di essere infantile ma non aveva davvero voglia di sentire quanti progressi aveva fatto Mercedes mentre lei non c’era. “Provo quel musical da ben tre mesi, dannazione, posso permettermi di fare la diva e saltare qualche giorno di prove”.

Il secondo messaggio di Sugar, la cui voce iniziò a strillarle nell’orecchio in tono sovreccitato.

«Rachel non indovinerai mai a che party sei stata invitata per Capodanno! Lo so, è un po’ tardi per gli inviti, ma devi assolutamente andarci! James Cameron, Rachel! Ti dice niente Titanic? Solo io vedo “offerta di casting” scritto a lettere lampeggianti sulla tua testa?».

Rachel rise al suo tono sovreccitato e si rigirò sul divano.

Appena il messaggio finì, tagliando a metà uno strillo piuttosto acuto, premette il bottone di chiamata. Le rispose la segreteria telefonica – era piuttosto tardi – e la ragazza si schiarì la voce.

«L’Ohio deve avermi fatto più male del previsto, Sugar», disse nel ricevitore. «Ma non ho voglia di andarci».

29 dicembre 2017, Greater Hilltop, Columbus, Ohio

 

Finn Hudson era intento ad affogare le proprie pene nel cibo quando ricevette la chiamata.

Fissò il numero impresso sul display del cellulare e deglutì, lanciando un’occhiata colpevole al suo terzo cheeseburger. Kurt era sempre stato una persona sveglia, ma non poteva aver percepito anche quello, giusto?

Rispose con un pizzico di esitazione. «Pronto?».

«Finn», la voce di Kurt aveva quel misto di disperazione e di incredulità che di solito riservava ai momenti in quali gli chiedeva di spiegargli di nuovo a cosa serviva il balsamo per capelli. «Di tutte le ragazze di Columbus. Di tutte le ragazze che potevi portarti a letto, proprio Rachel Berry?».

Finn sbuffò nel telefono. «Ti aspetti delle scuse Kurt?».

«No, ma… Finn», fece un sospiro, come se anche lui stesso non sapesse bene quale fosse lo scopo di quella telefonata. «È su tutti i giornali! Pensa se papà e Carole…».

«Sarà già tutto finito quando saranno tornati», borbottò Finn. «Senti, Kurt, mi dispiace di averti rovinato la vacanza. Non pensavo Rachel sarebbe tornata a casa ma-».

«Non ti preoccupare», lo interruppe l’altro. «Mi ha offerto di stare con lei, veramente, ma Blaine mi ha proposto di stare da lui, e così-».

«Blaine?», chiese Finn confuso. «Chi è Blaine?».

«Blaine è, umh». Finn poteva quasi sentire il rumore delle guance di Kurt che arrossivano dall’altro capo del telefono. «Ho incontrato un po’ di gente nuova qui a New York e Blaine, beh, l’ho conosciuto quando è venuto a casa di Rachel perché-».

«Oh, per l’amor di Dio, sono il suo ragazzo», intervenne una voce divertita che Finn non riuscì a riconoscere.

«Blaine!», disse Kurt cercando di sembrare irritato e fallendo miseramente. «Sì, insomma, è il mio ragazzo. Da ben più di ventiquattro ore».

«Kurt, il tuo nuovo ragazzo abita a New York?».

«Il mio ragazzo abita nella mia nuova città», decretò Kurt con voce sicura. «Ho deciso di trasferirmi Finn. E non solo per Blaine… l’ho deciso da Natale, ormai. Avere te, Carole e papà vicino a casa è fantastico, ma… voglio di più. Devo almeno provarci.».

Finn sospirò e si rilassò sullo schienale della sedia. «Era ora fratellino», commentò sorridendo. «Mi chiedevo quanto tempo ci avresti ancora messo a renderti conto che ti meriti di più di Columbus, Ohio».

«Finn quante volte ancora dovrò ricordarti che sono io il più grande fra di noi», disse Kurt in tono esasperato, anche se Finn poteva sentire che stava sorridendo. «Grazie».

«Era solo questione di tempo», ripeté l’altro.

Kurt rise. «Cosa fai a Capodanno?».

Finn si passò una mano sugli occhi. «Non lo so ancora… pensavo di passarlo con Rachel, ma…», si fermò per deglutire a vuoto. Faceva male, più di quanto avesse immaginato. «Credo chiederò a Puck e ai ragazzi», riuscì a dire alla fine.

Ci fu un momento di silenzio all’altro capo del telefono. «Finn, cosa…».

«Non ho tanta voglia di parlarne al momento».

Sapeva che Kurt avrebbe capito. Si conoscevano da troppo tempo perché non capisse quando una cosa faceva male, troppo male anche solo per parlarne.

Un’altra pausa. « Vieni qui», disse Kurt.

Finn sospirò. Non era un’idea così cattiva, ma… «Kurt, lo sai che non posso permettermi il biglietto…».

«Sarà il mio regalo per il tuo prossimo compleanno, allora», insistette l’altro. «Avanti, Capodanno a New York, cosa può esserci di meglio?».

 

A/N:

Ed ecco anche il penultimo capitolo :)  Ci avviciniamo alla fineeeeee *canticchia*

Ah, già, dico penultimo perché dopo un consulto con la mia epica beta/assistente/comare yu_gin ho deciso di non dividere l’ultimo capitolo, dunque saranno otto più prologo ed epilogo come inizialmente previsto :)

Prossimamente: Finn arriva nella Grande Mela, Rachel incontra qualcuno che si meriterebbe una padellata in testa, Cooper vede qualcosa che non avrebbe voluto vedere e Kurt e Blaine… beh, Kurt e Blaine… <3

Il prossimo capitolo sarà pubblicato martedì pomeriggio :)

Fino ad allora, so long readers!

MM

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Capitolo 9
*** 31 dicembre ***


31 dicembre 2017, Brooklyn, New York

 

«Sorgi e brilla, bella Addormentata!».

Finn scattò bruscamente a sedere, cercando di liberarsi del peso che sembrava essergli crollato addosso durante la notte.

«Coop, quando ti ho detto “vai a svegliare Finn” non intendevo saltagli addosso e schiaccialo!».

Il ragazzo batté lentamente le palpebre e mise a fuoco due figure poco familiari che battibeccavano davanti al suo letto. “O meglio, divano”, si corresse, lanciando un’occhiata sotto il proprio sedere.

«Avanti Blaine, non c’è pericolo, questo ragazzo è un vero tronco di pino!».

Ah giusto. Cooper e Blaine. New York.

I fratelli si girarono verso di lui mentre sbadigliava sonoramente e scalciava via le coperte, facendo una quantità spropositata di rumore. «Che succede?», mugugnò.

Blaine scosse la testa con aria mortificata. «Scusa, si prende sempre troppa confidenza con le persone».

«Non credevo che vedere mio fratello torturato dal mio ragazzo e da suo fratello potesse piacermi», intervenne la voce di Kurt da un’altra stanza. «Ma devo ammettere che è piuttosto divertente».

Finn sbadigliò nuovamente, stavolta alzandosi in piedi e stiracchiando le membra indolenzite. «Sei crudele, fratellino».

La testa di Kurt fece capolino dalla cucina. «Quante volte devo ripeterti che sono io il maggiore? E comunque, considerala una vendetta per tutte le volte che mi hai svegliato alle sei di mattina con i tuoi piedoni per il corridoio. Lo sai che mi piace dormire la domenica mattina».

Per tutta risposta Finn gli fece la linguaccia.

«Molto maturo, Finn», Kurt cercò di assumere un’espressione sdegnata ma fu tradito dal proprio sorriso. «Forza, venite di là, la colazione è pronta».

I tre si lasciarono guidare dal profumo di caffè e muffin freschi, impilati in un piatto al centro della tavola.

«Allora!», disse Cooper entusiasta, piombando a sedere fra Finn e Blaine. «Che facciamo oggi?».

«Sta a Finn decidere», disse quest’ultimo, voltandosi verso il ragazzo. «Dove vorresti andare?».

«Non saprei», dichiarò Finn con la bocca piena di muffin. Kurt gli tirò un calcetto da sotto il tavolo e l’altro deglutì prima di parlare di nuovo. «L’Empire State? O Central Park. Un posto dove non possa incontrare Rachel», concluse, un po’ a disagio.

Kurt sospirò. «Finn, non siamo a Lima, questa è New York, le probabilità che tu possa vederla sono una su otto milioni».

«Non avrei saputo dirlo meglio», sovvenne Blaine, dandogli una pacca sulla spalla.

«Senza contare che la mia futura costar Rachel Berry sarà ad un faboulous party stasera, e molto probabilmente passerà tutta la giornata a prepararsi per essere semplicemente stupenda». Cooper osservò gli sguardi straniti che gli altri gli stavano rivolgendo. «Che c’è? Io lo farei se James Cameron mi invitasse al suo party di Capodanno!».

«A volte mi chiedo se tu sia veramente etero», borbottò Blaine.

«E non sai quanto mi diverta vedere quello sguardo confuso sul tuo viso, fratellino».

Finn si schiarì la voce. «A proposito, avete qualche programma per stasera? Non si va a Times Square, qui a New York? Per vedere quella cosa che fanno con la palla?».

Kurt scosse la testa. «No no no, non se ne parla, sarà strapieno di gente, tutti pigiati insieme, e poi fuori farà un freddo cane. Non ci tengo a prendermi la polmonite!».

«Mike ci ha invitato da lui», spiegò Blaine. «Abita a Chelsea e ha una casa davvero enorme per gli standard di New York. Ci saranno molte persone del cast e dei suoi amici, sarà divertente!».

«Va bene per me», acconsentì Finn. «Basta che-».

«Non ci sia Rachel, abbiamo capito!».

 

31 dicembre 2017, Upper West Side, New York

 

“Mi chiedo cosa abbia fatto nella mia vita precedente per meritarmi questa tortura”, si chiese Rachel, mentre la voce di Sugar le trapanava l’orecchio ed una ragazza sulla ventina le spalmava uno strato di cera bollente su una coscia.

«Quello che ti sto dicendo», stava cinguettando la voce di Sugar in quel momento. «È che l’Ohio ti è davvero entrato nelle vene più di quello che pensavo. Come fai a non essere eccitata all’idea della festa di James Cameron? Hai idea della gente che sarà presente?».

Il corpo di Rachel si irrigidì involontariamente mentre sentiva lo strofinare di una striscia di carta sulla sua pelle. «Sugar», cominciò, cercando disperatamente di concentrarsi su qualcos’altro. «Il punto non è questo, ma- ouch! Mi scusi, mi scusi!», strillò subito dopo. La ragazza – il nome sulla targhetta diceva Chloe – si strofinò il naso, che il suo piede aveva mancato di qualche centimetro. «Le mie gambe sono parecchio sensibili».

«Sei dall’estetista Rachel?», chiese Sugar con tono vagamente compiaciuto.

«Emh…», la ragazza si rimise sdraiata sul lettino mentre Chloe le lanciava un’occhiata malevola. «Sì?».

«Devo prenderlo come un buon segno?». La voce di Sugar traboccava di quella che sembrava gioia repressa. Rachel prese un respiro profondo.

«Ascolta, Sugar, dimentica quello che ho detto due giorni fa. È stato un momento di debolezza, va bene? Mi sono lasciata influenzare, come hai detto tu. Andrò a quella festa, sarò una visione e cercherò di capire se Mister Cameron ha intenzione di girare un musical nel prossimo futuro. E il due gennaio sarò in sala prove come nuova, okay?».

«Perfetto!», esclamò Sugar proprio mentre Chloe toglieva una striscia di cera dalla gamba di Rachel con uno strappo. «Questa è la Rachel Berry che conosco. Nessun uomo può anche solo scalfirti, giusto?».

«Giusto», borbottò Rachel, senza un attimo di esitazione.

 

31 dicembre 2017, Chelsea, New York

 

«Ditemi che questo significa quello che penso significhi», esclamò Mike appena la porta del suo appartamento si aprì abbastanza da vedere la scena che gli si presentava davanti. Il suo sguardo, notò distrattamente Kurt, era fisso sulla sua mano destra. Che al momento era intrecciata con la sinistra di Blaine.

«È strano come tutti i tuoi amici abbiano la stessa reazione», gli fece notare con voce pacata. «È come se si fossero messi d’accordo».

«Allora?», insistette Mike, senza dargli ascolto.

«Per quale motivo dovete essere così imbarazzanti?», sbottò Blaine in tono irritato.

L’espressione di Mike era a dir poco euforica. «È un sì?».

Blaine lo ignorò, facendosi strada oltre di lui per entrare in casa.

«Sì, Mike», fece appena in tempo a dire Kurt prima che Blaine lo trascinasse oltre la soglia.

Il ragazzo esultò. «Sono così felice, voi non ne avete idea!».

«Ti capisco, fratello!», esclamò Cooper dandogli un cinque e abbracciandolo.

Durante tutta questa scena Finn era rimasto sulla porta guardando il tutto con sguardo stranito. «Allora Blaine aveva ragione. Siete davvero imbarazzanti. E strani».

Mike si districò dalle braccia di Cooper dandogli qualche pacca sulla spalla, per poi girarsi verso Finn. «Tu devi essere il fratello di Kurt, giusto?».

«Finn», si presentò lui.

«Mike. Piacere», il ragazzo chiuse la porta e spinse gli altri due in casa, guidandoli verso Kurt e Blaine che parlavano animatamente con Tina. «E perdona il nostro comportamento infantile ma non vedevamo l’ora che questi due combinassero qualcosa! Questa storia va avanti da troppo tempo».

«Senti chi parla!», esclamò Blaine. «Kurt è qui da due settimane, a differenza di qualcuno che conosco», lanciò un’occhiata eloquente a Tina.

La ragazza si limitò a ridere, mentre Mike le passava un braccio attorno alla vita e le schioccava un bacio sulla guancia.

«Finalmente uscite allo scoperto, allora», commentò Kurt alzando un sopracciglio.

«Beh», disse lei stringendosi di più contro il fianco di Mike. «Diciamo solo che le volte che ci hanno sorpreso come hai fatto tu a Natale sono state…».

«Sorprendentemente frequenti negli ultimi mesi», concluse Mike. «Quindi abbiamo deciso che non ci sarebbe stato alcun male a rendere la cosa pubblica, anche se lavoriamo insieme e-».

«Lo sapevamo già tutti, scemi che non siete altro» esclamò la voce di Mercedes da qualche metro più in là.

«Mercedes!», esclamò Cooper, estasiato. «Vieni, devi assolutamente conoscerla…», disse trascinando Finn con sé.

Blaine sorrise e li seguì. Kurt fece per andargli dietro quando Tina lo trattenne per un braccio.

«Kurt, puoi dirci quando partirai? Non manca molto, vero?».

«Ripartirò tra qualche giorno, Tina».

«Non potresti fermarti un altro po’? Almeno fino alla serata di apertura del musical!».

«Ho già prenotato il biglietto aereo», disse il ragazzo scuotendo la testa. «Ma la buona notizia è che mi trasferirò a New York a febbraio».

«Dici sul serio?», esclamò lei, cambiando completamente espressione.

Kurt annuì mentre Tina gli buttava le braccia al collo e lo abbracciava stretto.

«Non so se Blaine ve l’ha detto», iniziò non appena si allontanarono. «Ma io-».

Mike sbuffò. «Non sai se non ce l’ha detto, vorrai dire. Se riesci a capire come farlo smettere di parlare te ti devo un favore».

Kurt arrossì, senza riuscire a non essere un po’ compiaciuto. «Beh, ho studiato musical a Columbus, ma fin dal liceo ho sempre sognato di lavorare a Broadway. Sono venuto qui e ho trovato un ragazzo… degli amici… sembra quasi surreale in così poco tempo». Tina gli passò un braccio attorno alla vita, sorridendo. «Forse è un segno che è il momento di lasciare l’Ohio».

«È una scelta molto coraggiosa, Kurt», disse Tina con un sorriso. «Hai già idea di cosa farai?».

«Credo che lavorerò come cameriere per mantenermi. Lo so è un clichè». Il ragazzo sospirò teatralmente, mentre i due ridevano. «Ma farò tutte le audizioni che posso nel frattempo».

«Ti informerò appena saremo a corto di comparse». Mike gli strizzò l’occhio.

Kurt sorrise. «Grazie. Il mio curriculum non è un granché, e so che non sarà così facile-»

«Emh, io non ne sarei così sicuro…», intervenne la voce di Blaine dietro di lui.

Kurt si girò: il ragazzo teneva in mano il cellulare di Mercedes e stava trattenendo a malapena un sorriso. «Perché ridi?».

Blaine gli porse il telefono. «Da’ un’occhiata qua».

Kurt prese il cellulare in mano: era aperto sul profilo twitter di Mercedes: riconobbe subito il video di Baby It’s Cold Outside. Per un momento il cuore gli salì in gola, ricordando Dave che gli chiedeva chi diavolo era quel ragazzo seduto accanto a lui. Poi lo sguardo gli scivolò sui numeri che erano segnati sotto di esso. Aggrottò le sopracciglia. Alzò lo sguardo dallo schermo per guardare il ragazzo.

«Cosa significa ventimila?».

Il sorriso di Blaine avrebbe potuto abbagliare un cieco. «Significa che ventimila persone si sono prese il disturbo di cliccare mi piace affianco a questo video, vedi-».

A Kurt sarebbe piaciuto ribattere che certo, lo sapeva cosa significava, e che non intendeva quello, ma  il resto del gruppo soffocò le sue parole e nonostante le sue proteste si accalcò alle spalle del ragazzo per dare un’occhiata.

«Che cosa?», strillò Mike.

«Impossibile!».

«Sei famoso, Kurt!», esclamò Cooper.

«Bel colpo fratellone!», aggiunse Finn con una gran pacca sulle spalle.

«Ed è passata solo una settimana!», aggiunse Mercedes con aria a dir poco trionfante. «Sono curiosa di vedere quale sarà il conto fra un mese…».

Il ragazzo si sentì girare la testa. Non stava succedendo davvero. Cose del genere non succedevano davvero, giusto? O almeno, non a Kurt Hummel.

«Fra un mese sarà febbraio e a nessuno importerà più di un paio di tizi su internet che cantano Baby It’s cold outside», commentò a mezza voce.

«Questo lo dici tu!».

«Io vi ascolterei anche in agosto, latticino», rise Mercedes con una strizzata d’occhio.

«Broadway ti adorerà, Kurt», disse Tina battendo le mani. «Ti adorano già».

«Ragazzi dobbiamo festeggiare!», esclamò Cooper. «Facciamo un brindisi! Dove sono gli alcoolici?».

Si spostarono in massa verso la cucina, mentre Kurt rimase a fissare lo schermo del cellulare, vagamente intontito. Solo quando sentì un braccio passargli attorno alla vita si accorse che Blaine era rimasto indietro con lui. «Sembra che non sarà così difficile, alla fin fine», disse, baciandolo su una guancia.

Kurt sorrise appena, rilassandosi nel suo abbraccio. «Così sembra».

 

31 dicembre 2017, East Broadway, New York

 

Rachel si ravviò un’ultima volta la frangetta prima di stamparsi sul volto il proprio sorriso da palcoscenico e uscire dall’auto. Non appena poggiò il tacco dodici sul tappeto rosso del Red Leaf i flash delle macchine fotografiche cominciarono a lampeggiare senza sosta su di lei.

«Rachel, qui!».

«Un sorriso, Rachel!».

La ragazza continuò a sorridere e camminò fino a trovarsi al centro della folla di fotografi.

“Grazie a Dio non sono così tanti”, pensò mentre posava e sorrideva verso di loro per qualche minuto, allontanandosi poi verso l’entrata del locale. Sospirò di sollievo quando vide che era priva di giornalisti: non aveva il coraggio di immaginare le domande che le avrebbero fatto dopo lo scandalo degli ultimi giorni.

Entrò nel locale a passo svelto. Consegnò il proprio cappotto ad un ragazzo fermo davanti all’entrata e si guardò intorno. Si trovava in una sala immersa nella penombra, illuminata da luci soffuse rosse e dorate – si permise di attenuare il sorriso smagliante, non l’avrebbero vista comunque. Una flotta di camerieri girava offrendo cibo e champagne, ma gli ospiti sembravano decisamente più impegnati a fare convenevoli o a ballare per preoccuparsi del rinfresco.

Oh, e la sala piena. Letteralmente.

“Dove le avrà trovate poi, tutte queste persone?”, pensò la ragazza mentre si guardava intorno con gli occhi sgranati. “E io dovrei trovare James Cameron in tutto questo casino? La serata si mette bene”.

 

31 dicembre 2017, Chelsea, New York

 

Finn si appoggiò al muro del soggiorno di Mike, il più lontano possibile dalla musica e con un bicchiere di vino rosso in mano. Era contento di avere un momento per sé: negli ultimi giorni le cose gli erano successe troppo velocemente e doveva schiarirsi le idee.

Era a New York. Fino a quel momento era stato assolutamente convinto che non avrebbe mai lasciato l’Ohio in tutta la sua vita, e ora era a più di settecento chilometri da casa sua. E stranamente gli piaceva.

Poi c’era Kurt. Era da qualche anno ormai che Finn aspettava che il fratello si decidesse a trasferirsi fuori dall’Ohio, e ora che aveva preso la sua decisione sembrava decisamente felice. Lo guardò di sottecchi mentre scherzava con Blaine. Sorrise. Più che felice.

Poggio la testa contro il muro alle sue spalle. Se solo non avesse avuto tutto quel caos in testa…

Si rigirò il bicchiere fra le mani. Non è che non volesse essere lì – Tina e Mike erano simpatici e Mercedes era decisamente fantastica, ma…

«È come se dovessi essere con un’altra persona».

Finn si girò di scatto: Cooper si era avvicinato furtivamente a lui e stava sorseggiando un drink con tutta la calma del mondo. Lo guardò, cerando di non far trapelare il terrore dalla sua espressione. «Non dirmi che sai anche leggere nel pensiero».

«Purtroppo no», rise Cooper. «Ma sono bravo a capire quando qualcuno si strugge d’amore per qualcun altro. Mi piace osservare le espressioni per riprodurle mentre recito, sai». Esibì una smorfia triste davanti alla faccia di Finn. «I bravi attori non smettono mai di lavorare».

«Certo», disse Finn cautamente. Dopo un incidente che aveva coinvolto lui, Cooper e un pacco di cereali glassati – e che avrebbe preferito dimenticare – aveva capito che il ragazzo non andava contraddetto. «È così che hai capito che Blaine era cotto di mio fratello?».

«Ah per quello non ci voleva un genio. Sono abbastanza sicuro che anche da Marte si riescano a vedere quegli occhi a cuoricino».

Finn guardò di nuovo i due ragazzi: avevano ricominciato a ballare, appiccicati l’uno all’altro e due identici sguardi adoranti. «Già», concordò in tono divertito.

Cooper sospirò di soddisfazione, passandogli un braccio sulle spalle. «Tu invece per chi ti struggi d’amore, eh?».

Finn sentì un pizzicorino sulle guance e pregò di non essere arrossito troppo vistosamente. «Come se non lo sapesse tutta New York».

«Errore!», esclamò l’altro. «Tutta New York sa che hai fatto una scappatella con Rachel Berry, non che sei innamorato di lei». Finn non rispose. «E scommetto che nemmeno lei lo sa, vero?», insistette Cooper.

Il ragazzo si schiarì la voce prima di parlare. «A lei non importa», disse in tono piatto. «Quando ha visto la nostra foto ha messo bene in chiaro che i suoi rapporti mirano principalmente alla pubblicità», allargò le braccia e fece un mezzo sorriso. «E io non sono certo buona pubblicità, giusto?».

«Ouch». Cooper fece una smorfia. «Perché ho la sensazione che abbiate fatto una litigata coi fiocchi?».

Finn si limitò a scuotere la testa.

Cooper bevve un sorso di vino con aria pensierosa. «Lascia che ti dica una cosa», disse dopo qualche secondo. «Il mondo dello spettacolo? È duro, e molto. Dobbiamo agire, apparire e parlare in un certo modo. Peggio, ci si aspetta che noi lo facciamo. E a volte qualcuno si attacca talmente tanto a queste bugie su sé stesso che si scorda cosa sta cercando veramente. O come avere un rapporto con una persona sincera».

«Cooper, non sono molto bravo con le allusioni. Stai cercando di dirmi qualcosa?».

Il ragazzo scrollò le spalle. «Solo che se io fossi un’attrice famosa avrei bisogno di una spintarella prima di creare uno scandalo». Gli tirò una gomitata leggera. «E magari di una spintarella dal ragazzo per cui mi sto struggendo d’amore».

Finn lo fissò per qualche secondo. Poi si raddrizzò improvvisamente, posando il suo bicchiere. «Io devo andare da lei».

Il ragazzo gli rivolse un sorriso raggiante. «Ottimo, è tutta la sera che aspetto di sentirti dire questa frase!». Tirò fuori un cartoncino dalla tasca dei jeans. «Tieni questo è il biglietto da visita del locale, prendi la metropolitana fino a East Broadway, il locale è a trecento metri dalla fermata!»

Finn lo guardò, incredulo. «Tu…?».

«Se hai qualche problema chiama me o i ragazzi… anche se effettivamente, io starò ballando come se non ci fosse un domani, quindi chiama i ragazzi. E mi raccomando, non perderti! Forza, sono le undici meno un quarto! Se vuoi arrivare per mezzanotte devi sbrigarti!»

Finn gli sorrise prima di allontanarsi velocemente. «Grazie amico. Ti devo un favore!»

 

31 dicembre 2017, East Broadway, New York

 

Rachel sorseggiò il suo cocktail. Era decisamente troppo leggero per la serata: la pista da ballo era affollata, la musica assordante, e come se non bastasse lei iniziava ad avere un principio di mal di testa. Poggiò i gomiti sul bancone, dando le spalle alla folla. Aveva rinunciato a trovare James Cameron già da un pezzo: poteva anche non essere alla festa per quel che valeva, in mezzo a tutta quella gente non l’avrebbe mai trovato comunque.

Prese un respiro profondo, socchiudendo gli occhi e massaggiandosi le tempie.

«L’Ohio ti ha fatto bene, vedo», disse qualcuno da sopra la sua spalla. «Sei splendida stasera».

Rachel si girò lentamente, sperando di non aver sentito bene. Purtroppo conosceva fin troppo bene quella voce. Erano settimane che voleva schiaffeggiare il suo proprietario. «Jessie», disse in tono gelido.

Il ragazzo si appoggiò al bancone, decisamente affascinante nel suo completo migliore. «Ciao Rachel».

La ragazza mise di nuovo i gomiti sul bancone finendo il suo drink in un sorso solo. «Diavolo, questa festa fa sempre più schifo».

Jessie ridacchiò, sedendosi sullo sgabello accanto al suo. «Un Cosmo per me e uno per la signorina!», esclamò verso il barista, aggiungendo anche un occhiolino per buona misura.

Rachel alzò un sopracciglio. «Come ho fatto a non accorgermi che stavi diventando sempre più gay?».

«Sono bi e lo sai, Rachel, guarda che potrei anche offendermi», disse Jessie agitando un dito ammonitore verso di lei. «E poi noi ragazzi di teatro sembriamo tutti un po’ gay, ammettilo». La ragazza non riuscì a trattenere uno sbuffo che assomigliava parecchio ad una risata. «I campagnoli invece sono molto più macho, invece», aggiunse Jessie con un sorriso.

L’ilarità sparì all’istante dal volto di Rachel. «Non osare, Jessie».

Il barista poggiò i due drink davanti a loro e poi filò subito via percependo la tensione gelida che era scesa fra i due.

«Volevo chiedergli il numero», borbottò Jessie.

Rachel alzò gli occhi al cielo e prese il suo bicchiere. «Oh avanti, Rachel. So che la nostra storia era una trovata pubblicitaria fatta e finita, anche se il sesso era fantastico, te lo concedo-».

«Così gentile, da parte tua».

«Ma questo non mi ha impedito di affezionarmi a te, donna impossibile e testarda». Rachel lo guardò con tanto d’occhi. «È vero», continuò lui. «Avanti, non mi hai già perdonato? Di solito i rimpiazzi ti aiutano a perdonare».

«Finn non era un rimpiazzo», scattò Rachel. «Era molto meglio di te».

Jessie si sistemò il papillon viola sgargiante. «L’avevo intuito».

«Cosa vorresti dire?».

Per la prima volta durante quella serata il ragazzo la guardò con un’espressione seria. «Hai guardato bene quella foto, Rachel? Non hai mai avuto quello sguardo, con nessuno dei tuoi ragazzi precedenti». Lei alzò un sopracciglio «Oh, e va bene, forse ho stalkerato un po’ i tuoi servizi stampa prima che ci mettessimo insieme, okay?».

Rachel aprì la bocca per ribattere, poi scosse la testa e rinunciò. Aveva sempre saputo che Jessie era pazzo. «Il tuo argomento è comunque irrilevante Jessie. Non sapevamo che qualcuno ci stesse spiando e-».

«Oh avanti, ti è già successo di subire un’imboscata dai paparazzi, Rachel».

«E tu come-».

«Stalker, ricordi?». Jessie sospirò profondamente. «Ti ricordi cosa ti ho detto quando ci siamo- emh, lasciati?». Lo sguardo di Rachel rivaleggiava con quello delle sculture di ghiaccio presenti nella sala. «Okay, te lo ricordi. Nessuno è riuscito a entrare nella tua corazza prima d’ora, Rach». Poggiò un gomito sul bancone del bar, guardandola con aria assorta. «Quel Finn è il primo».

La ragazza distolse lo sguardo da Jessie e fissò invece l’interno del suo bicchiere, mescolando distrattamente con la cannuccia viola. «Lo è», sussurrò così piano che lui la sentì appena.

Jessie le mise una mano sulla spalla, solo una, solo per qualche secondo: sapeva bene che non era ancora stato perdonato.

I due restarono in silenzio, ascoltando il dj annunciare dagli altoparlanti che mancavano ancora trenta minuti alla mezzanotte.

«Non capisco», disse Jessie a mezza voce. Rachel dovette tendere le orecchie per sentirlo sopra le urla degli invitati. «Perché non te lo sei tenuto stretto, allora?».

«Nella mia posizione è…», Rachel faticò a trovare le parole. «Complicato, lo sai meglio di me».

Jessie alzò gli occhi al cielo. «Tesoro. A volte vale la pena di buttare all’aria qualcosa per amore. Altrimenti la vita sarebbe alquanto noiosa, non credi?».

Finalmente il ragazzo prese un sorso dal suo drink, mugugnando di piacere un attimo dopo. «Vale la pena di essere scambiati per gay per bere questa roba. Assolutamente divino!».

Per la prima volta durante quella serata, Rachel rise di gusto.

 

31 dicembre 2017, Chelsea, New York

                                                                                                                                                

Cooper rispose al cellulare, avvicinandoselo all’orecchio e tappandosi l’altro con una mano.

«Pronto?».

«Cooper, sono Finn!». Ovviamente Cooper non sentì questo, ma solo un paio di suoni indistinti.

«CHI?», urlò di rimando.

«FINN!», strillò l’altro a pieni polmoni.

«UN SECONDO!». Cooper sgattaiolò in bagno e chiuse a chiave la porta. «Scusa amico, la musica era alta! Che c’è? Perché non sei di già nelle braccia della tua bella? O forse hai già concluso tutto e-».

«Cooper, mi sono perso!», lo interruppe il ragazzo con voce disperata.

«Ma ti avevo detto di non perderti!».

«MA MI SONO PERSO!».

Cooper allontanò il cellulare dall’orecchio: il ragazzo aveva dei polmoni degni di nota. «Okay, okay, non urlare! Ma perché hai telefonato proprio a me, si può sapere? Sapevi che sarei stato in mezzo alla mischia!».

«Blaine e Kurt non rispondono al telefono!».

«Okay…». Il ragazzo sospirò. Come al solito, doveva salvare la situazione. «Puoi dirmi dove sei ora?».

«All’incrocio fra Hester Street e Orchard Street…».

«Dammi solo un minuto». Il ragazzo accese il vivavoce e digitò velocemente l’indirizzo su Google Maps. Scrutò con attenzione la cartina che gli era comparsa davanti. «Okay, vai lungo Orchard Street, poi gira a destra e arriva fino ad un parco. Il locale dovrebbe essere di fronte a te».

Il sospiro di Finn gli arrivò come una scarica di statica. «Grazie Coop».

«E sbrigati, sono già le undici e trentacinque!».

«Agli ordini! Ah, Coop! Potresti controllare che fine hanno fatto quei due? Non vorrei si fossero fatti del male! New York è una città pericolosa».

«Certo», esclamò Cooper trattenendo a stento una risata. «Ma ora vai!».

Terminò la chiamata con un respiro profondo. Sperava davvero che arrivasse prima della mezzanotte.

«Diavolo», borbottò fra sé e sé. Non gli aveva ricordato di puntare il dito ed urlare! Le due regole fondamentali per rendere un discorso teatrale e drammatico. Pazienza. Finn se la sarebbe dovuta cavare da solo.

C’era una cosa che poteva fare per lui, però. Uscì dal bagno e si diresse in cucina: se conosceva bene quel gruppo di spostati che lavorava con suo fratello li avrebbe trovati vicino agli alcoolici.

Sorrise quando li avvistò accampati sul tavolo della cucina, due bottiglie di vino aperte in mezzo a loro. Mercedes e Tina stavano ridacchiando incontrollabilmente, appoggiate l’una all’altra.

«Ehi ragazzi, qualcuno ha visto Kurt e Blaine?», esclamò Jessie sopra alla musica.

«Volevano andare in terrazzo, e Blaine stava accompagnando Kurt a prendere la giacca», strillò Tina di rimando. «Da quella parte! È la porta bianca», gli indicò un corridoio con un braccio.

«Grazie!».

Cooper si guardò intorno nel corridoio miracolosamente privo di gente, e individuò la porta del guardaroba. La aprì di scatto. «Ehi voi due, ma perché diavolo-».

Non appena i suoi occhi si abituarono alla penombra e riuscì a vedere l’interno dell’armadio richiuse la porta con violenza, appoggiandocisi contro con la schiena.

«Insomma ragazzi!», strillò, le guance che iniziavano a bruciargli per l’imbarazzo. «Questo davvero non volevo vederlo!».

 

31 dicembre 2017, East Broadway, New York

 

Quando Finn avvistò finalmente l’insegna del Red Leaf aveva il fiatone dal tanto correre. Adocchiando l’entrata ingombrata da fotografi e buttafuori decise di aggirare l’edificio: ci sarebbe stata sicuramente un’entrata secondaria da cui poteva sgattaiolare dentro il locale senza essere notato. Camminò velocemente, e non appena girò attorno all’isolato avvistò un vicoletto che sembrava promettente. Quando vide una porta con le iniziali RL ed un buttafuori dall’aria truce davanti ad essa capì di aver fatto centro.

Si avvicinò a passo svelto.

«Scusi potrebbe, umh, potrebbe lasciarmi passare?».

L’uomo lo guardò storto. «E tu saresti?».

«Sono… emh…», balbettò sperando non fosse troppo evidente che stava sudando freddo dentro alla giacca. «Sono il ragazzo delle consegne», inventò lì per lì.

Lui lo scrutò per qualche secondo. “Oddio questo non se la beve e mi picchia. Oddio, oddio…”.

Si irrigidì quando il buttafuori allungò una mano verso di lui, ma l’uomo si limitò a dargli una pacca sulla spalla. «È dura essere di turno a Capodanno, eh?», disse con aria comprensiva. «Lavora sodo ragazzino, vedrai che ce la farai a pagarti il college».

Si fece da parte, lasciando l’entrata libera.

«La ringrazio», disse Finn cercando di sembrare il meno colpevole possibile. Passò velocemente, trovandosi dentro le cucine. Cercando di non dare nell’occhio schivò cuochi e camerieri fino ad arrivare ad un paio di doppie porte che parevano fare al caso suo. Le spinse e si ritrovò in una sala decorata in rosso ed oro.

Il solo vederla bastò a farlo cadere nello sconforto: era inondata di gente, più gente di quanta Finn avesse mai visto in tutta la sua vita pigiata in una sola stanza. Non ce l’avrebbe mai fatta a trovare Rachel prima di mezzanotte, non con i pochi minuti che gli rimanevano…

Stava osservando attentamente la stanza, cercando di individuare un punto strategico dal quale iniziare a cercare, quando lo sguardo gli cadde sul bar a pochi metri di distanza.

Aggrottò le sopracciglia. No, non poteva essere… sarebbe stato troppo inverosimile, giusto? Si avvicinò velocemente, scrutando le persone sedute al bancone. E proprio lì, vicino ad un tizio con un papillon viola…

«Rachel?».

La ragazza si girò e Finn esultò internamente: era proprio lei!

«Finn!», esclamò, gli occhi sgranati in un’espressione di sorpresa. Il tipo seduto accanto a lei si raddrizzò, sembrando improvvisamente interessato alla faccenda.

Finn tornò a rivolgere la propria attenzione alla ragazza. Si rese improvvisamente conto di non avere preparato un discorso.

«Emh… ciao», iniziò.

«Che diavolo ci fai qui?», sibilò Rachel, scendendo dal proprio sgabello e avvicinandosi a lui.

«Io… avevo solo bisogno di parlarti e-».

«Ti sembra il luogo e il momento per-».

«Ma è fantastico!», li interruppe il ragazzo con il papillon viola. Entrambi si girarono a guardarlo: era a dir poco raggiante. «Vi serve un po’ di privacy, no?». Li prese entrambi per i polsi e li trascinò verso un’enorme pianta decorativa. «Ecco, mancano pochi minuti a mezzanotte ormai e nessuno vi noterà qui dietro! Voi parlate. Ci penserò io a fare il palo!».

Si allontanò strizzando loro l’occhio con aria complice.

Finn lo fissò a bocca aperta. «Ma chi è quel pazzo?».

«Jessie», sospirò Rachel.

«Vuoi dire… Jessie il tuo ex?», chiese Finn con aria sorpresa. «E come… No, lascia stare non lo voglio sapere. In questa città siete tutti fuori come un balcone».

«Finn», disse lei, visibilmente irritata. «Non dovresti essere qui. Ci sono un sacco di fotografi dentro questo locale, potrebbero-».

«Rachel ho letto la tua pagina su Wikipedia», la interruppe lui.

Lei alzò un sopracciglio. «E… con ciò?».

«Lasciami-», Finn si bloccò, con aria frustrata. Si passò una mano fra i capelli e poi tornò a guardarla. «Mi hai ferito Rachel, e sto cercando di rimangiarmi il mio orgoglio. Perché nonostante tutto non voglio lasciarti andare così».

Rachel lo guardò: era lì, nella notte di Capodanno, con un’espressione risoluta e la sua vecchia camicia a quadri in uno dei locali più esclusivi di New York.

E tutto per parlare con lei.

Se solo non fosse stato così dannatamente difficile

Finn rimase in silenzio, i pugni serrati, finché la ragazza non annuì. «Sei una delle attrici più quotate di Broadway», disse in tono sicuro. «E sei stata Evita per un anno e mezzo, e mio fratello ha detto che è un ruolo storico», prese un respiro. «Non sono un esperto di come vadano le cose nel mondo dello spettacolo, ma una cosa la so. Gli scandali vanno e vengono ma il talento rimane. Non ti ho mai sentito cantare, Rachel, ma in questi giorni ti ho conosciuto bene, e non ho alcun dubbio che tu sia nata per essere una stella». Le mise delicatamente una mano su una guancia. «E le stelle non si spengono per così poco».

La ragazza mise la sua mano sopra a quella di Finn, guardandolo con qualcosa di molto simile alla meraviglia sul volto. Poi disse l’ultima cosa che il ragazzo si sarebbe aspettato di sentire. «Non ho paura per la mia immagine».

Finn rimase in silenzio per alcuni secondi, completamente spiazzato, prima di riuscire a chiederle: «Qual è il problema, allora?».

La ragazza scosse la testa, allontanandosi da lui. «Non posso».

«Ma cosa-».

«La cosa buffa è che mi sono sempre chiesta perché non mi sono mai innamorata». La risata della ragazza suonò leggermente isterica. «Ma la ragione è che- no, non ce la faccio».

«Rachel-», provò di nuovo Finn.

«Vai via Finn, prima che arrivi qualche buttafuori».

Lui rimase immobile, incapace di credere alle sue parole. Niente di tutto ciò aveva un senso.

«Io-».

La frase fu interrotta dall’arrivo di Jessie. «Ragazzi brutte notizie», ansimò, raddrizzandosi il papillon. «Stanno cercando un ragazzo delle consegne che non è un ragazzo delle consegne».

Finn guardò Rachel, che tenne la testa bassa ed evitò il suo sguardo. ­Il loro silenzio era assordante anche fra il rumore delle centinaia di piedi che cercavano di avvicinarsi il più possibile alla pista da ballo.

«Sì», disse lentamente «Non dovrei essere qui». Ogni parola sembrava costargli uno sforzo immenso. «Uscirò dalla porta secondaria».

Jessie scosse la testa. «È fuori discussione, amico. È piena di buttafuori, e ti stanno cercando. Temo che dovrai uscire dall’entrata principale».

«Ma i paparazzi-».

«Non ti preoccupare», lo interruppe l’altro. «Mancano due minuti a mezzanotte, nessuno baderà a te».

«Certo». Gli mise una mano sulla spalla. ­«So che tecnicamente dovrei odiarti, ma grazie… e buon anno». Jessie annuì nella sua direzione. Finn si girò verso Rachel, che evitava ancora il suo sguardo. «Buon anno, Rachel».

Gli occhi della ragazza non si staccarono nemmeno per un attimo dal pavimento. «Buon anno, Finn».

Il ragazzo le lanciò un ultimo lungo sguardo prima di girarsi e camminare senza fretta verso l’uscita. Rachel si sforzò di non guardarlo mentre andava via, la sua testa un vortice di pensieri contrastanti.

Sentì Jessie che si avvicinava a lei, prendendole gentilmente la mano.

«Rachel. Vuoi davvero lasciarlo andare così?».

La ragazza emise un suono a metà fra una risata ed un singhiozzo. «Che scelta ho?». Le sembrava quasi di non riuscire a respirare. «Chi lo avrebbe mai pensato, Rachel Berry, una codarda…».

«Non tu», disse Jessie in tono deciso. «Puoi farcela Rachel, credo in te».

«Davvero?».

«Non ho mai avuto dubbi».

La ragazza strinse un’ultima volta la mano di Jessie prima di prendere un bel respiro, sollevarsi l’orlo del vestito in un modo decisamente poco da signora, e correre con quanta velocità le permettevano i tacchi verso l’uscita.

«Scusate, scusate, permesso!», strillò mentre schivava le persone che convergevano verso il centro della pista per il conto alla rovescia. Un paio di volte inciampò sulle scarpe di qualcuno rischiando di rompersi una caviglia, ma si limitò a continuare la sua corsa.

«Venti, diciannove, diciotto-», scandiva la folla tutto attorno.

Scansò una coppia piuttosto anziana – era Angela Lansbury, quella? – e finalmente si trovò davanti all’entrata. Spinse i pesanti pannelli di vetro e uscì, trovandosi all’esterno.

«Dieci, nove-»

L’aria di dicembre le pungeva il suo viso e le spalle scoperte, ma lei ignorò il freddo e sorrise, vedendo Finn. Poteva ancora raggiungerlo se solo…

Riprese a correre, mentre le voci della folla all’interno rimbombavano insieme a quelle di tutta New York, scandendo i suoi passi mentre correva lungo il tappeto rosso, verso quella schiena così familiare.

«Cinque, quattro, tre-».

«FINN!», urlò con quanta voce aveva in corpo.

«Due, uno…».

Fece appena in tempo a vedere la sua espressione sorpresa mentre si girava prima di buttargli le braccia al collo e baciarlo.

 

A/N:

Buonasera signori! :)

The Holiday è quasi finito, l’ultimo capitolo sarà pubblicato sabato pomeriggio ;)

Spero che vi siano piaciute le scene Finchel, li ho fatti penare un po’ più di Kurt e Blaine ma alla fine ne varrà la pena, avete la mia parola :)

Fatemi sapere cosa ne pensate!

MM

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Capitolo 10
*** 1 gennaio, 31 dicembre ***


1 gennaio 2018, Chelsea, New York

 

«Buon anno», mormorò Kurt contro le labbra di Blaine.

Il ragazzo sorrise. «L’inizio è decisamente  fantastico», rispose, prima di attirarlo di nuovo nel bacio che avevano interrotto. Kurt ricambiò, stringendolo più vicino a sé mentre le persone attorno a loro brindavano, festeggiavano e si scambiavano gli auguri di buon anno a pieni polmoni.

«Volete smetterla, voi due?», esclamò una voce molto vicina a loro.

Si separarono, scambiandosi uno sguardo divertito.

«Buon anno anche a te, Coop», esclamò Blaine rivolto alla schiena del fratello. «E comunque lo sai cosa dicono dei curiosi…». Kurt stava avendo seri problemi a trattenere le risate mentre ricordava la faccia che Cooper aveva fatto dopo aver aperto la porta del guardaroba.

«Io ero preoccupato che foste morti!», esclamò il ragazzo, voltandosi di scatto. «Non rispondevate al cellulare! Vi siete almeno lavati le mani dopo?». Kurt scoppiò in una risata incontrollabile. «Non c’è nulla da ridere!», si infervorò Cooper. «Vi costava così tanto aspettare fino a casa? O che io ripartissi?».

Le risate di Kurt raddoppiarono di volume, finendo per contagiare anche Blaine.

Le sue proteste furono interrotte da Mike, che barcollò verso di loro, evidentemente sulla buona strada per ubriacarsi. «Ehi bellezze, auguri!», esclamò mettendo un braccio sulle spalle di Cooper. «Ma che succede?», chiese, adocchiando i due ragazzi che si stavano appoggiando al muro per non inciampare sui loro stessi piedi dal tanto ridere. «Hanno bevuto troppo anche loro?».

Cooper sbuffò, senza riuscire ad essere veramente seccato. «No, sono solo due emeriti scemi. Forza, vai a fare gli auguri a Blaine e staccalo da Kurt, altrimenti finiranno per diventare due gemelli siamesi».

«Agli ordini!», esclamò Mike allegramente. «BLAINE!», urlò mentre si buttava a braccia aperte verso il ragazzo.

 

1 gennaio 2018, East Broadway, New York

 

Rachel si separò lentamente dalle labbra di Finn, posando i tacchi sul tappeto rosso e allontanandosi da lui. Attorno a loro New York festeggiava il nuovo anno, e i fotografi vociavano rumorosamente, ma lei non staccò gli occhi dal volto del ragazzo.

Finn prese un respiro profondo e aprì gli occhi, l’espressione sul suo volto più confusa che mai.

«… Rachel?», mormorò in tono incredulo.

«Io non mi sono mai innamorata, Finn».

L’espressione del ragazzo si fece, se possibile, ancora più confusa. «Lo so».

Rachel strinse i pugni, sforzandosi di dire ad alta voce la verità che non aveva ammesso con nessun altro se non con sé stessa.

«Mettere il mio cuore nelle mani di una persona che potrebbe spezzarlo e farmi soffrire è…», disse a mezza voce. «Prima di te non c’era stato nessuno di cui avrei potuto innamorarmi. Ma ora, con te, è tutto così naturale… e mi terrorizza», finì in un sussurro.

Finn restò in silenzio per qualche secondo, durante il quale Rachel avrebbe desiderato sprofondare nel terreno. “Lo cacci via e due minuti dopo lo baci e pretendi anche che cada ai tuoi piedi? Sei proprio una stupida Rachel, un’emerita-”.

«Rachel». La voce di Finn la distolse dai suoi pensieri. «Per favore, guardami».

Lei deglutì ed alzò gli occhi.

«Non posso dirti che non ti farò soffrire», disse Finn in tono calmo. «Non leggo nel pensiero e le persone si fraintendono continuamente. Non c’è nessuna possibilità che uno di noi non faccia del male all’altro». Fece un respiro profondo, durante il quale Rachel sentì il suo cuore spezzarsi «Ti dirò una cosa però», disse di nuovo lui. «Che, per quanto in mio potere, non ho intenzione di farlo. Non voglio che tu soffra per causa mia, Rachel, né ora né mai». La ragazza non riusciva a distogliere lo sguardo da lui. «Ma tu devi fidarti di me».

Rachel annuì, come ipnotizzata.

Il viso di Finn si illuminò, accennando un sorriso. «È un sì?».

«Non riesco ad immaginare persona migliore», disse lei, avvicinandosi a lui e posandogli una mano sulla guancia. Sentì i flash delle macchine fotografiche scatenarsi su di loro, ma si sforzò di ignorarli.

Finn mise una mano sopra la sua. «Sei sicura di voler… Qui?», chiese in tono esitante.

Rachel sorrise. «Mai stata più sicura», mormorò mentre si puntellava sulle scarpe pericolanti per baciarlo.

 

Epilogo

 

31 dicembre 2018, Prairie Oaks, Columbus, Ohio

 

«Kurt», sussurrò Cooper in tono preoccupato. «Di questo passo tuo fratello scaverà dei solchi nel parquet».

Kurt lanciò uno sguardo in cucina, dove Finn stava camminando avanti e indietro, fingendo di tirare fuori i piatti dalla lavastoviglie. Sospirò. «Lo so, ma ho già provato a fermarlo troppe volte e non ha funzionato. Lasciamolo stare».

Trascinò Cooper lontano dall’entrata e si diresse nel salotto, che al momento era decorato in occasione di Capodanno: un grande albero di Natale, pareti ricoperte di ghirlande argentate – opera di Cooper – e rami di agrifoglio sopra il caminetto acceso.

«Allora, gente», Kurt si rivolse alla piccola folla radunata nel suo salotto. Tutti si voltarono verso di lui, tranne Sam e Mercedes – stavano ballando abbracciati in un angolo della stanza e non sembravano avere la minima intenzione di staccarsi l’uno dall’altra. «Qualcuno ha notizie di Rachel?».

«L’ultimo messaggio diceva che le si stava scaricando il cellulare», disse Mike con aria preoccupata. «Ed erano le dieci… dubito che la sentiremo ancora prima che arrivi qui».

Sugar, che stava volteggiano da sola al ritmo della musica, si fermò e lanciò un’occhiata caustica al gruppo. «Ma certo che non la sentiremo più. Non ha risposto nemmeno a me, e sapete bene che a me si deve sempre rispondere», esclamò come se quello risolvesse il problema.

«Come sta Finn?», chiese Tina. Era seduta a gambe incrociate sul tappeto e teneva in grembo un grosso gatto rosso – Boq, il nuovo coinquilino di Finn da quando Kurt si era trasferito a New York.

«Non la smette di agitarsi», rispose Cooper, lasciandosi cadere accanto a lei. «Però potremmo andare di là e-».

«Cooper, lascia stare», lo interruppe Kurt. «Fidati, è meglio lasciarlo da solo e sperare che Rachel arrivi». Volse lo sguardo su tutto il gruppo. «Okay?».

Tutti annuirono, distogliendo lo sguardo dal ragazzo e tornando alle loro occupazioni.

«Ti arrabbieresti se ti dicessi che sei sexy quando fai il leader?», chiese una voce da sopra la spalla di Kurt.

Il ragazzo sbuffò mentre un paio di braccia familiari gli stringevano la vita. «Questa situazione è assurda».

Blaine annuì contro il suo collo. «Però quell’appuntamento era importante per lei».

L’altro sbuffò. «Dico solamente che quella primadonna di James Cameron poteva metterci meno di un anno a richiamarla. E di sicuro anche i suoi agenti sono in vacanza a Capodanno-».

Blaine rise. «Capito, capito, scusi capitano».

Kurt si liberò dalle sue braccia e si girò verso di lui. Sorrise quando vide la sua espressione buffa – quella che involontariamente gli spuntava sul volto quando Kurt diceva qualcosa di pungente e sarcastico che lo faceva ridere. Lo prese per mano e lo condusse verso la sua poltrona preferita sulla quale – miracolosamente – nessuno si era ancora seduto. Sprofondò nei cuscini e Blaine si accoccolò sulle sue gambe, in una posizione fin troppo familiare da quando avevano iniziato a trascorrere le serate troppo fredde nei reciproci appartamenti.

«Prima non mi riferivo solo alla faccenda di James Cameron…», disse Kurt a mezza voce mentre Blaine gli passava distrattamente una mano fra i capelli. «Avere una relazione con una persona che abita a settecento chilometri da te è assurdo».

L’altro scosse la testa. «Per te, forse. Mi pare che loro se la stiano cavando piuttosto bene, no?»

«Vero», concedette Kurt.

Si rilassò sotto il peso delle gambe di Blaine e lasciò vagare lo sguardo per la stanza. Avere i loro amici in Ohio era… strano. Gli era sembrato strano fin da ottobre, quando avevano proposto per la prima volta di prendere dei biglietti aerei scontati utilizzando la carta frequent flyer di Rachel per andare in Ohio. Tuttavia…

Sprofondò un po’ di più nei cuscini. «Mi piace quest’atmosfera», dichiarò a mezza voce.

Blaine annuì. «Io sono solo contento che non abbiano ancora attentato alla tua radio per mettere Kesha a tutto volume».

L’altro scosse la testa. «Dopo la sbronza che si è preso Mike l’anno scorso credo vogliano passare un Capodanno tranquillo prima di ripetere l’esperienza».

«Mmmh». Blaine poggiò la guancia contro la sua spalla. «Allora… buoni propositi per l’anno nuovo?».

Kurt pensò al suo appartamento a Chelsea, arredato con i mobili comprati al mercato delle pulci, ai due assoli che aveva in un rispettabile spettacolo off-Broadway, ai sabato mattina in un piccolo caffè vicino a Battery Park insieme a Blaine, alle notti insonni passate a rigirarsi fra le lenzuola…

Sorrise. «Solo che sia fantastico come questo».

Blaine sorrise di rimando e aprì la bocca per replicare, ma fu interrotto dal rumore di Finn che sbatteva la porta della cucina.

«Non arriva!­», esclamò qualche secondo dopo il ragazzo facendo capolino in salotto. Tutto il gruppo lo guardò, un misto di esasperazione e compassione sui loro volti. «Che facciamo se non arriva entro mezzanotte!».

«Finn, calmati, sono solamente le undici», provò Rory.

«Ma-», cominciò a ribattere lui.

«Il suo aereo dovrebbe essere appena atterrato», lo interruppe Mike. «Massimo mezz’ora e sarà qui, vedrai».

Proprio in quel momento si sentì bussare alla porta. Finn scattò verso l’entrata, rischiando di scivolare e spezzarsi il collo, e spalancò il portone il più velocemente possibile. Lo aprì, e dietro di esso vide la cosa migliore della sua serata.

«Buonasera Mister Hudson», disse Rachel con un sorriso a trentadue denti. «Mi perdona il ritardo?».

Gli porse un mazzo di fiori. Finn li prese in mano, e li guardò sorpreso. Erano stelle di Natale.

Si chinò su di lei per baciarla. «Sono bellissime».

Poggiò delicatamente i fiori sul tavolino dell’entrata, e non appena furono al sicuro tirò a sé la ragazza, abbracciandola con tutta la forza che aveva.

Rachel strofinò il naso contro la sua guancia e lui annusò il suo profumo. Non era quello dolce e un po’ troppo forte che metteva quando doveva uscire o incontrare la stampa, ma quello di sapone e shampoo alla cannella che gli ricordava le mattine passate a leggere sotto le lenzuola e i biscotti di Natale.

«Ehi», disse piano Rachel quando lui non diede segno di voler lasciarla andare. «Tutto okay?».

Finn prese un respiro profondo. «Certo, solo che… credevo non saresti più arrivata».

«Non sarei arrivata al rotto della cuffia anche quest’anno, tesoro», rise piano Rachel.

Finn annuì contro la sua spalla. «Mi sei mancata».

«Anche tu», disse lei prima di allontanarsi da lui. Gli accarezzò una guancia. «Un mese è troppo?».

«Un mese è troppo», la baciò di nuovo, questa volta più a lungo, prima di prenderla per mano e di condurla verso il salotto. «Forza, vieni di là, gli altri ti stanno aspettando».

Quando Rachel entrò nella stanza si alzò un coro di auguri e saluti. La ragazza sorrise.

«Devo dedurre che vi sono mancata?».

Sugar le corse incontro. «Non si ritarda a Capodanno!», la redarguì baciandola sulle guance.

Cooper si intromise, abbracciandola stretta. «Collega!».

Lei rise, dandogli qualche pacca sulle spalle. «Ti piacerebbe, Cooper».

«Spostati, scemo», disse Blaine da sopra la sua spalla, facendolo allontanare.

«Ciao Blaine», Rachel abbracciò anche lui.

Poi, per ultimo… «Kurt».

Il ragazzo sorrise. «Ben arrivata».

I due si strinsero in un abbraccio affettuoso. Blaine e Cooper si scambiarono un’occhiata e si allontanarono, lasciandoli soli per qualche minuto.

Da quando Kurt si era trasferito a New York  lui e Rachel avevano legato moltissimo, ed ora andavano regolarmente a fare colazione sbirciando le vetrine di Tiffany – una delle cose che non diventavano mai noiose, diceva lui.

«Com’è andato l’appuntamento?», chiese Kurt a mezza voce quando si furono separati.

Rachel si morse un labbro per trattenere un sorriso. «Non è ancora ufficiale», disse. «Ma pare che qualcuno sia interessato a vedermi nei panni di una certa Fanny Brice…».

Lui fece un verso sorpreso. «Un remake di Funny Girl?! Rachel, ma è stupendo!».

La ragazza rinunciò a contenere il suo entusiasmo e cominciò a saltellare su e giù. «Lo so! È il mio sogno da quando avevo cinque anni!». Kurt rise della sua espressione euforica e fece addirittura qualche saltello con lei.

«E non è tutto», continuò Rachel non appena si fu calmata. «Indovina quale uccellino mi ha detto che c’è stato un incidente con qualche scimmia volante al Gershwin?».

La bocca di Kurt si aprì in una piccola “o” incredula. «No!», esclamò, senza fiato.

Lei gli strinse le mani, sorridendo. «Jessie ha fatto il tuo nome e tesoro, ti consiglio di preparare il fazzoletto, perché puoi dire addio per sempre agli spettacoli off-Broadway».

Il ragazzo la fissò per qualche secondo prima di prendere un respiro. «È davvero possibile che questo sia vero? Da quand’è che le cose vanno così bene per noi due?».

Rachel si appoggiò al muro del salotto con espressione soddisfatta, e Kurt la imitò. Osservarono in silenzio la stanza, piena delle persone che amavano e a cui volevano bene.

«È probabile che sia solo un periodo passeggero», disse la ragazza dopo un po’. «Non può andare sempre così bene, no? Ma non ho intenzione di lamentarmi della cosa, per ora».

Kurt annuì, senza riuscire a smettere di sorridere. «Certo che no! E diciamocelo, ce lo siamo meritato».

«Io ho passato due settimane in Ohio», sbuffò Rachel. «E pensare che ero venuta qui con l’intenzione di non vedere un uomo per due settimane intere!».

Kurt rise. «Questo non fa altro che dimostrare quello che avevo sempre supposto», dichiarò Kurt, staccandosi dal muro e offrendole il braccio.

«Cioè?», chiese lei, prendendolo a braccetto.

Il ragazzo le sorrise, poi le fece l’occhiolino. «Che l’amore non si prende mai vacanze. Vieni».

Rachel si raddrizzò e i due si diressero verso i loro amici, e verso un anno che sarebbe stato ancora migliore di quello passato.

Insieme.

 

A/N:

Devo ammettere che spuntare la casellina “completo” a questa fanfiction è stato un bel regalo di compleanno per me stessa – sì, oggi compio gli anni e no, non dirò mai quanti sono perché inizio a sentirmi vecchia – e immagino che sia stato soddisfacente anche per voi leggere ka fine di questa benedetta storia.

C’è voluto molto ma alla fine eccoci qua :)

Spero con tutto il mio cuore che vi sia piaciuta! È la prima storia più lunga di tre capitoli che completo: ci ho messo sangue, e sudore, e tempo prezioso per scriverla, e condividerla con altre persone l’ha resa ancora più speciale :)

C’è da dire che questa fanfiction non sarebbe mai stata finita senza l’aiuto della fantastica yu_gin, che mi ha minaccia- emh incoraggiato a continuare a scrivere anche quando credevo che finire fosse ormai una causa persa!

A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi se continuerò a scrivere è la risposta è: oh, yes, non ci si libera di me così facilmente!

Per quanto riguarda Glee ho in programma una fanfiction divisa in tre parti – sempre Klaine – che scriverò da sola, e – attenzione attenzione – una storia a quattro mani ad opera mia e dell’adorabile yu_gin :)

Stay tuned, prometto che non sparirò ;)

Che altro… ringrazio tutti quelli che hanno letto, commentato, inserito la storia fra i preferiti e le seguite: la mia autostima sta lievitando grazie a voi, e di questo vi sono immensamente grata!

Un grazie di cuore e un bacio, a presto,

MM

<3

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