The Holiday di MeMedesima (/viewuser.php?uid=48515)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - 18 dicembre ***
Capitolo 2: *** 19 dicembre - 20 dicembre ***
Capitolo 3: *** 21 dicembre - 22 dicembre ***
Capitolo 4: *** 23 dicembre - 24 dicembre ***
Capitolo 5: *** 25 dicembre ***
Capitolo 6: *** 26 dicembre - 27 dicembre ***
Capitolo 7: *** 28 dicembre ***
Capitolo 8: *** 29 dicembre ***
Capitolo 9: *** 31 dicembre ***
Capitolo 10: *** 1 gennaio, 31 dicembre ***
Capitolo 1 *** Prologo - 18 dicembre ***
The
Holiday
18 dicembre 2017, Upper
West Side, New York
Rachel Berry
aprì la porta del suo appartamento con un sospiro di
sollievo. Casa dolce casa.
«Tesoro?»,
esclamò mentre poggiava le chiavi di casa in un piccolo
svuota tasche. «Sono a
ca-». Le parole le morirono in gola quando svoltò
l’angolo e si trovò di fronte
il suo attuale ragazzo stravaccato sul divano. Nudo. Insieme ad una
persona che
non era lei.
«È
uno
scherzo vero?», riuscì a mormorare, un misto di
rabbia e nausea che iniziava a
salirle alla bocca dello stomaco.
«Ra-rachel».
Lo sfortunato si puntellò sui gomiti,
un’espressione estremamente colpevole sul
volto. «Tesoro, non è come se-».
«Non
provarci nemmeno, Jessie», sibilò Rachel,
grondando veleno. «Non provare
nemmeno a farmi credere che tu non sia appena andato a letto con una
delle mie
comparse, o ti sbatterò fuori di qui senza lasciarti nemmeno
la cortesia di
rivestirti».
Jessie
impallidì vistosamente di fronte alla furia di Rachel
– l’aveva provata su di
sé svariate volte e sapeva che quando la ragazza si
arrabbiava la situazione
diventava dannatamente seria.
«Ma
visto
che sono buona ti darò due minuti per metterti addosso
qualcosa e altri cinque
per fare le valigie. Dopodiché ti voglio fuori
da casa mia. In quanto a te», si girò
verso l’altro occupante del divano,
che fino a quel momento era stato immobile, un’espressione
assolutamente
terrorizzata sul volto. Strinse gli occhi nella sua direzione.
L’aveva notato
di sfuggita alle prove del giorno prima, quando Tina l’aveva
chiamato per
prendere le misure del suo costume. Brad… no, Brody.
«Sei
licenziato. Vattene più in fretta che puoi e
considererò di non rovinare per
sempre la tua carriera, ci siamo capiti?».
Brody
annuì,
recuperando i suoi vestiti a velocità record e uscendo
dall’appartamento ancora
senza maglietta.
«Non
c’era
bisogno di essere così crudele, Rachel. Non conduci tu lo
spettacolo e-».
«Tic
toc,
Jessie», replicò lei nel tono freddo che usava
esclusivamente per interpretare
Madame Giry.
«Dai
Rachel,
fai sul serio?», sbottò il ragazzo in tono
esasperato, per poi dileguarsi in
camera quando Rachel si tolse una delle scarpe che aveva addosso e fece
per
tirargliela dietro.
La ragazza
sospirò scoraggiata, rimettendosi la scarpa. Credere che
avrebbe lanciato per
aria una Louboutin tacco dodici? Sul serio?
“Ma
d’altronde Jessie non mi ha mai conosciuta
davvero”, considerò fra sé e
sé
mentre strappava le federe del divano e dei cuscini e le buttava fuori
dalla
porta. “Usciamo - uscivamo
insieme
solo per la pubblicità e per il sesso fantastico, e questo
è tutto. Non si è
mai preso il disturbo di conoscermi, figurarsi poi di innamorarsi di
me”. Smise
per un attimo di scaraventare i vinili di Jessie sul pavimento
– a pensarci
bene forse si sarebbe tenuta Il Mago di
Oz, era originale.
“Sarà
per
questo che fa così poco male? Perché non era
amore?”, considerò fra sé e
sé.
Rachel Berry
non poteva saperlo, visto che non era mai stata innamorata. Dalla
tenera età di
diciassette anni, cioè da quando aveva debuttato a Broadway
come una
giovanissima Anita in West Side Story,
aveva incontrato esclusivamente ragazzi egocentrici, competitivi in
modo
malsano o interessati solo alla pubblicità che forniva il
suo nome. O gay.
Jessie
riapparve sulla soglia della camera, strabuzzando gli occhi alla vista
dei suoi
dischi in quelle misere condizioni. Aprì la bocca come per
protestare, ma alla
fine scelse di tacere e scuotere leggermente la testa, dirigendosi
verso
l’uscita.
Aveva
indossato una t-shirt ed un maglione – scelta saggia visto
che Rachel aveva già
buttato la sua camicia nella spazzatura - ed aveva in spalla un borsone
leggero.
«Passerò
a
prendere il resto delle mie cose mentre non ci sei. Ho gli orari delle
tue
prove in agenda», borbottò mentre apriva la porta.
«Come
sei
organizzato, Jessie. Mi dispiace di aver interrotto tu ed il tuo
amichetto
tornando un’ora prima!», ribatté Rachel
sarcastica.
Jessie si
girò, sbuffando di esasperazione. «Sai, Rachel, se
non fossi una tale arpia-».
«Io
un’arpia!
Jessie, ti ho appena trovato sul nostro divano con un UOMO,
diavolo!», sbraitò
lei avvicinandosi pericolosamente al ragazzo. «Come dovevo
reagire? Offrendovi
un the?!».
«Prima
di
tutto, ti ho avvertito fin da quando ci siamo conosciuti che ero
bi-curioso».
Rachel considerò seriamente di usare la statuetta del
proprio Tony per colpirlo
in testa. «Secondo, non mi riferivo a quello. Non mi
infastidisce il tuo
comportamento di oggi, Rachel, ma quello di tutti
gli altri giorni. Sei fredda. Distaccata. Dopo otto mesi di
relazione non
ti conosco. Non mi lasci entrare nella tua corazza, non mi lasci
nemmeno
provare, diamine!».
«Forse
perché non ti amo», sibilò lei di
rimando. Jessie rise amaramente.
«Forse
potresti, se non fossi prevenuta nei confronti di tutti gli uomini di
New York!
Per te siamo tutti stronzi che aspettano solo di spezzarti il cuore, ma
se tu
provassi ad aprirti con qualcuno, se ti levassi quel cartello
“Vai a farti
fottere” dalla fronte-».
«Jessie,
ti
avverto!».
«-forse
saresti capace di amare, invece di costringere tutti ad
odiarti-».
La ragazza
gli sbatté la porta in faccia. Letteralmente: poteva sentire
i gemiti di dolore
attraverso i muri sottili e le strilla di Jessie a proposito del suo
naso. Scalciò
via le scarpe e corse in camera, dove si buttò sul suo
letto, coprendosi la
faccia con il cuscino. Non
voleva più
sentire la voce di Jessie.
Soprattutto,
non voleva sentirgli pronunciare ad alta voce gli stessi dubbi che la
affliggevano ogni giorno: che non meritava né amore,
né affetto, né relazioni.
Strinse i
denti e premette il viso contro il copriletto, sforzandosi di non
piangere.
Un’ora
dopo
aveva fatto una doccia bollente e si era spalmata una maschera
all’avocado sui
capelli, avvolta nel suo asciugamano più morbido e
più caldo. Fece un sospiro e
poi decise di prendere un barattolo di Nutella dalla credenza
– la sua agente
l’avrebbe uccisa se
avesse saputo che
teneva una cosa del genere in casa, ma tutti hanno bisogno di
cioccolato prima
o poi.
Piazzò
il
suo laptop sul tavolo della cucina, affondando un cucchiaino nella
Nutella
mentre aspettava che si accendesse.
Doveva
staccare la spina. Andarsene da New York per qualche giorno.
Amava
Broadway, e amava il suo lavoro di attrice, ma quel mondo era a dir
poco
sfiancante.
Si era
sempre ripetuta che era inevitabile che un mondo di attori fosse pieno
di falsità
e finzione, ma non aveva mai creduto di trovarne così tanta.
La maggior parte
degli individui che aveva incontrato nei suoi sette anni di carriera le
facevano venire voglia di vomitare. Solo l’amore per il suo
lavoro la teneva
sana di mente in quel covo di pazzia.
Tamburellò
le dita sulla tastiera.
Aveva
bisogno di un posto isolato, ma non troppo; rilassante ma non noioso, e
soprattutto dove non rischiasse di
incontrare nessuno che potesse conoscere. Aprì Google Maps e
diede un’occhiata
pensierosa alla carina degli Stati Uniti.
Gli stati
confinanti con New York erano esclusi a priori, e certo non poteva
andare in
California, né in Florida, troppo rischiose…
Lasciò vagare lo sguardo sulla
cartina per qualche secondo prima di avere un’illuminazione.
Ma certo,
Ohio! Chi andava in Ohio?
Avviò
velocemente una ricerca su Apartments.com cercando appartamenti
disponibili per
essere affittati nel periodo di Natale. Storse il naso. Erano quasi
tutti
occupati… A parte…
Cliccò
su
uno dei link che lampeggiava “Disponibile” in verde
acido sopra una piccola
fotografia.
«“Prairie
Oaks Cottage”», lesse ad alta voce dalla
descrizione che ne dava il sito. «“Una
tradizionale casa di campagna immersa nella tranquillità del
parco di Prairie
Oaks e nell’incantevole quartiere di Prairie
Oaks”», si interruppe per alzare
un sopracciglio. «Beh, di certo
l’originalità non è il loro forte.
“A soli
dieci minuti di cammino dal sentiero dei laghi e a trenta minuti dal
centro di
Columbus”».
Si
rilassò
contro lo schienale della sedia. Cosa c’era di meglio di una
casa in campagna
per rilassarsi e staccare la spina? Cliccò sul profilo
dell’utente, un certo
k-hummel, e scrisse velocemente un messaggio.
Sarei
interessata ad affittare la casa di Prairie Oaks per il
periodo di Natale. Spero sia disponibile. Potrebbe contattarmi al
più presto?
Quando
premette invio fu come se un peso le si fosse sollevato dal petto.
Fece partire
una delle sue playlist preferite e volteggiò verso la camera
da letto per
cambiarsi.
18
dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio
Kurt Hummel
aprì la porta del cottage di Prairie Oaks sospirando di
sollievo.
«Casa
dolce
casa», commentò, rivolto al silenzio.
Appese il
cappotto ad un gancio sul retro della porta e posò la borsa
su di un tavolino
prima di affrettarsi ad accendere il riscaldamento centralizzato.
L’inverno era
rigido in Ohio, e dentro quella casa si gelava.
Era stata
una buona scelta, decidere di trasferirsi nel cottage durante le
vacanze di Natale,
rifletté fra sé e sé. Adorava Finn, il suo
fratellastro e attuale coinquilino, ma condividere una casa con lui dal
venti
dicembre in poi era come convivere con un cucciolo iperattivo: era
talmente
felice che fosse finalmente Natale che voleva assolutamente coinvolgere
il
fratello nei suoi festeggiamenti, e ora come ora Kurt non era
dell’umore giusto
per assecondarlo.
Le prove
erano state sfiancanti e la sua ultima audizione non sarebbe potuta
andare
peggio. Aveva bisogno di calma e solitudine.
Beh, forse
non sarebbe stato esattamente solo,
si corresse, mentre recuperava l’iPhone dalla tasca della
tracolla e lo
accedeva. Subito un avviso gli segnalò che c’erano
due messaggi nella
segreteria telefonica.
Si
buttò sul
divano mentre metteva il telefono in vivavoce e attendeva.
Clic. «Ehi
ragazzino, come stai?». Kurt sorrise fra sé e
sé, mentre la
voce allegra di suo padre riempiva il silenzio del salotto.
«Nassau è stupenda,
e Carole continua a dire che vi è debitrice a vita per
questa vacanza. Fallo
sapere anche a Finn per favore, non sono sicuro che abbia capito bene
come
funziona la segreteria telefonica».
Kurt
alzò
gli occhi. “Tipico di Finn”, pensò,
continuando ad ascoltare il messaggio di
suo padre.
«Comunque,
volevo solo farti sapere che va tutto bene. Il clima è
fantastico – sì, ci
stiamo mettendo la protezione solare, non provare nemmeno a
ricordarmelo. Siamo
solo dispiaciuti di non poter essere con voi, ma ovviamente saremmo
stati
stupidi a rifiutare un regalo del genere, vero tesoro?... Come? Ah,
Carole dice
che quando tornerà a casa farà a Finn una pila di
pancakes al cioccolato alta
quanto lui come ringraziamento. Il che è tutto dire, non
credi?». Kurt chiuse
gli occhi, ascoltandola risata burbera di suo padre.
«Beh,
Kurt,
questo è tutto. Ci mancate moltissimo ma ci stiamo
divertendo e vi pensiamo
molto. Stai attento a non sovraccaricarti di lavoro e passa un buon
Natale,
ragazzo. Ti voglio bene».
Clic.
«Kurt». Il ragazzo strizzò gli occhi
riconoscendo la voce. Non
era mai un buon segno quando c’era la sua
voce in segreteria, significava sempre imprevisti e inoltre faceva
tornare in
mente vecchi ricordi che avrebbero dovuto essere stati sepolti e
dimenticati da
un pezzo… «Mi dispiace, credimi, mi dispiace
tanto… non riuscirò a venire
stasera. I ragazzi del team di football mi hanno chiesto di uscire e-
beh, è
già qualche volta che gli do buca e potrebbero
insospettirsi, sai come sono
fatti i-».
Kurt spense
il vivavoce e cercò di non lanciare violentemente il
telefono contro la parete.
Si
rigirò
lentamente sulla schiena, premendo una mano sulle labbra.
Era la terza volta quella settimana. La terza
volta che Dave gli dava buca per uscire con i suoi amici. Amici che se
avessero
notato che Dave era più assente del solito avrebbero potuto
iniziare a
sospettare che avesse una ragazza, e avrebbero scoperto che invece
aveva un
ragazzo. Perché Dave non aveva ancora fatto coming out.
Kurt si
mordicchiò la nocca dell’indice, ripensando a
quando, un anno prima, aveva
rivisto David Karofsky per la prima volta dopo il liceo.
Era appena
uscito dalla lezione di tecnica vocale e stava chiacchierando con
alcuni
compagni, quando Dave aveva attraversato il corridoio, una felpa con il
logo
OSU e uno sguardo incerto sul volto.
Kurt era
impallidito, ritornando improvvisamente un sedicenne spaventato in uno
spogliatoio semibuio. Fosse stato per lui, non avrebbe nemmeno
riconosciuto la
presenza di Karofsky, ma si dava il caso che il ragazzo si stesse
dirigendo
proprio verso di lui.
«Kurt?»,
aveva chiesto in tono incerto. Non aveva risposto, non fidandosi della
stabilità
della propria voce in quel momento.
«Kurt».
Chandler,
uno dei primi ragazzi che aveva conosciuto a Columbus, gli aveva
poggiato una
mano sulla spalla con aria protettiva, lanciando un’occhiata
sospettosa a
Karofsky. «Tutto okay?».
“Calmati”,
si era ripetuto Kurt ignorando entrambi. “Non è
né il momento né il luogo per
farsi venire un attacco di panico”.
«Kurt,
posso
parlarti?», aveva insistito Karofsky cercando di incrociare
il suo sguardo.
Il ragazzo
aveva fatto un respiro profondo. «Io…»,
la sua voce era uscita più debole di
quanto avrebbe voluto.
«Te lo
chiedo per favore». Solo a quel punto Kurt aveva alzato gli
occhi su David, ed
era riuscito a vedere l’espressione triste e piuttosto
colpevole che aveva sul
viso.
«O-Okay»,
aveva acconsentito, rassicurando velocemente Chandler e facendo cenno a
Karofsky di seguirlo.
Si erano
ritrovati seduti davanti ad un caffè, Kurt che ascoltava
attonito una valanga
di scuse tardive e David che tratteneva a stento le lacrime.
Dopo quella
chiacchierata si erano incrociati qualche altra volta
all’interno del campus,
prima di riuscire a salutarsi e a parlare come persone civili; e ora
era da
qualche mese che si frequentavano.
Kurt
sbuffò
ad alta voce. Frequentarsi.
Durante
tutto il liceo aveva fantasticato di incontrare qualcuno che non si
sarebbe
vergognato di chiamarlo il suo ragazzo, che l’avrebbe
orgogliosamente tenuto
per mano in pubblico… qualcuno che non fosse niente di meno
che “out and
proud”.
Ma dopo
decine di appuntamenti finiti disastrosamente e altrettante avventure
di una
notte sola che poi mancavano puntualmente di farsi risentire, Kurt
aveva
iniziato a rassegnarsi all’idea che forse non era destinato
ad avere nulla di
tutto ciò.
David era
gentile, premuroso, e anche se non era quello che Kurt aveva sempre
sognato per
sé, teneva davvero a lui – e molto probabilmente
era il massimo in cui Kurt
poteva sperare in amore, visto come si erano concluse le sue esperienze
precedenti.
Accese il
laptop, rassegnandosi ad una serata di alimenti poco salutari e
solitudine.
Una spia
lampeggiante
al lato del desktop gli segnalò due nuove e-mail.
Cliccò sopra la spia e le
aprì, sperando in qualche buona notizia.
Sarei
interessata ad affittare la casa di Prairie Oaks per il
periodo di Natale. Spero sia disponibile. Potrebbe contattarmi al
più presto?
So
che è tardi per affittare durante il periodo natalizio, ma
la
prego di contattarmi se è interessato.
“Beh”,
pensò
Kurt, asciugandosi gli occhi leggermente umidi. “Questo
sì che è tempismo…”.
Diede
un’occhiata ai dettagli delle mail. Entrambe erano state
spedite all’incirca
un’ora prima. Forse…
Sono
molto interessato all’offerta, ma a dir la verità
questa casa
è disponibile solo per il servizio di home exchange. Tu
affitti la mia casa ed
io la tua. Ci scambiamo macchine, città, tutto per due
settimane. Io non l’ho
mai fatto ma delle mie conoscenze dicono sia molto divertente.
Premette
Invio, pregando qualsiasi forza superiore esistente
nell’universo che l’altra
persona fosse ancora al computer e che fosse interessata.
L’idea di andarsene
per due settimane…
Sobbalzò
sul
divano quando sentì il suono di una nuova mail.
Mi
sembra un’idea fantastica! Io abito a New York,
nell’Upper West
Side. Cosa ne pensi, potrebbe andare bene per te? Mi chiamo Rachel, a
proposito.
“New
York!”.
Kurt aveva perso il conto delle ore che aveva sprecato a fantasticare
su quella
fantastica città mentre era al liceo. Avrebbe voluto
trasferirsi lì per il
college, ma purtroppo le rette e l’affitto degli appartamenti
erano un costo
troppo alto, e Columbus era stato tutto ciò che aveva potuto
permettersi.
Mi
chiedi se va bene? Ho sempre sognato di vivere a NY. Senza
contare che potrei incontrare una certa Miss Bradshaw ed implorarla di
fare
shopping insieme. Io sono Kurt.
Il messaggio
successivo arrivò dopo pochi secondi.
Buona
fortuna, è da vent’anni che la cerco e non si
è mai fatta
vedere! È un piacere conoscerti Kurt. E lasciamelo dire, sei
davvero fortunato
ad avere un cottage in campagna. Dev’essere un balsamo per i
tuoi nervi.
“Tesoro,
abiti a New York, diamine”, pensò Kurt scuotendo
la testa. “Non la chiamano la
città che non dorme mai per niente”.
È
molto tranquillo, rispose invece. Allora, Rachel, abbiamo un accordo?
Spedì
il
messaggio, incrociando le dita.
Prima
posso farti una domanda?
Kurt
imprecò
a bassa voce.
Ma
certo.
Ci
sono uomini nella tua città?
Il ragazzo
rise amaramente, pensando a tutti gli appuntamenti orribili che aveva
dovuto
sorbirsi negli ultimi quattro anni, e al ragazzo tutt’altro
che perfetto che
stava frequentando ora.
Assolutamente
nessuno, rispose
velocemente.
«Ti
prego…
ti prego», sussurrò incrociando le dita.
«Dopo anni di questo schifo due
settimane a New York me le sono meritate, no?».
Il leggero
segnale di una mail in arrivo interruppe le sue preghiere.
Aprì il messaggio.
Domani
è troppo presto?
A/N:
Buonasera a
tutti :)
Vi presento
con orgoglio la mia prima long Klaine!
Come si
capisce dal titolo è ispirata al film L’amore
non va in vacanza, uno dei miei film preferiti, ed
è a tema natalizio – perché
adoro il Natale, yay :)
Spero
davvero che possa piacervi – per quelli che sono interessati
raccomando di
inserirla fra le seguite perché non so ancora bene quando/
quante volte alla settimana
sarò in grado di aggiornare, quindi vi sarà
più facile tenerla d’occhio :)
Complessivamente
avrà nove capitoli (prologo ed epilogo compresi) quindi con
un po’ di fortuna entro
la prima settimana di gennaio avrò finito di pubblicarla.
Baci a tutti
quanti, e grazie per aver letto!
MM
|
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Capitolo 2 *** 19 dicembre - 20 dicembre ***
19
dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio
Rachel era
arrivata in quella casa da appena sei ore, e già si
annoiava. Forse l’Ohio non
era stata una così buona scelta.
In quel
momento era seduta sul divano con una tazza di cioccolata calda
– la seconda
della giornata, santi numi – e meditava sul da farsi.
Eppure quella
mattina la situazione non le era sembrata così disperata.
Era arrivata nel primo
pomeriggio, ed era rimasta subito incantata dalla casa. Era un piccolo
cottage
dipinto di bianco, con un grande giardino ed una ghirlanda di
agrifoglio appesa
alla porta d’entrata. Era entrata ed aveva immediatamente
disfatto le valigie,
scoprendo con piacere che l’armadio di Kurt era di dimensioni
circa uguali a
quelle del suo – occupava un’intera parete.
Dopo aver
sistemato i suoi vestiti, si era finalmente preparata a godersi il
più che
meritato relax.
Per prima
cosa aveva preparato un bagno caldo con sali profumati alla lavanda, e
mentre
stava in ammollo si era passata uno strato di smalto color lampone alle
unghie
di mani e piedi.
Aveva acceso
lo stereo a tutto volume – scoprendo con piacere una
collezione impressionante
di soundtrack di musical – e aveva cantato a squarciagola per
circa trenta
secondi prima di ricordarsi che le sue corde vocali erano assicurate
per svariate
migliaia di dollari. Aveva iniziato ed abbandonato due libri, ed aveva
guardato
tre puntate di Gossip Girl,
sospirando per la bellezza dell’Upper West Side a Natale. Si
era preparata la
prima tazza di cioccolata ed aveva acceso il fuoco nel piccolo
caminetto. Aveva
addirittura considerato l’idea di avventurarsi per
un’oretta di trekking fino
al lago, ma le era bastato fare due passi fuori dal cancello del
cottage per
decidere che i suoi stivali non meritavano quel fangoso trattamento.
Ed ora era
seduta a gambe incrociate davanti al focolare, sentendosi
incredibilmente
stupida per aver pensato che un’idea del genere potesse
funzionare. Lei era una
newyorker, e che cavolo.
Non era
abituata a starsene in campagna con le mani in mano.
Sospirò
fra
sé e sé. “Che faccio adesso?”.
Proprio nel
momento in cui iniziava a considerare l’idea di prenotare un
biglietto aereo di
sola andata per New York un rumoroso bussare alla porta la distrasse
dai suoi
pensieri. Balzò in piedi, improvvisamente all’erta.
E se fosse
stato un ladro? Erano le nove di sera, certo, ma fuori era buio pesto e
che ne
sapeva lei delle abitudini dei criminali dell’Ohio?
«Chi
è?»,
chiese con voce incerta.
«Kurt,
sono
io!», esclamò una voce dall’esterno.
«Fammi entrare, si gela qua fuori».
Rachel si
avvicinò
alla porta e sbirciò dallo spioncino. Tutto quello che
riuscì a vedere furono
un enorme paio di spalle coperte da un giubbotto blu scuro.
«Un-un
attimo!», strillò prima di recuperare il cellulare
dal divano, digitando velocemente
il numero di cellulare di Kurt.
«Pronto?»,
le rispose una voce sconosciuta dopo qualche squillo. Era parzialmente
coperta
dal suono di altre voci e dall’inconfondibile rumore del
traffico di Manhattan.
Rachel sospirò brevemente di nostalgia prima di rispondere.
«Kurt!
Sono
Rachel!».
«Chi-Oh,
Rachel! Come va in Ohio?», rispose cordialmente il ragazzo.
La ragazza
abbassò la voce man mano che si riavvicinava alla porta.
«C’è uno sconosciuto
che sta bussando alla tua porta e io non ho idea di chi sia ed
è buio pesto
fuori, se fosse un ladro o un rapinatore io-».
«Rachel»,
il
ragazzo la interruppe con tono deciso. «Prima di tutto, non
ci sono rapinatori
a Prairie Oaks. A meno che non cerchino camicie di flanella e pentole
di rame».
Rachel si lasciò scappare una risatina suo malgrado.
«E secondo, puoi
descrivermi l’aspetto di questo sconosciuto, per
favore?».
«Ah-ah».
Rachel si avvicinò nuovamente allo spioncino.
«Moro, carino, alto come la tua
porta d’entrata».
Dall’altro
capo del telefono arrivò una risata soffocata.
«Dev’essere mio fratello, sapevo
che si sarebbe scordato che ero
partito. Lascialo pure entrare, avrà dimenticato a casa
qualcosa, come al suo
solito».
«Oh».
Le
spalle di Rachel si rilassarono, mentre la ragazza tirava un sospiro di
sollievo.
«Bene allora. Spero davvero che tu ti stia divertendo nella
Grane Mela…».
«Puoi
dirlo
forte!», rispose Kurt in tono allegro.
«È il sogno di una vita. Ora devo
riattaccare, Rachel! Ci sentiamo presto!».
Rachel
premette il bottone di fine chiamata, si diede una veloce sistemata ai
capelli,
ed aprì la porta.
Il ragazzo
ora era fermo davanti alla soglia, tenendo fra le mani un cappello di
lana rosa
e osservandolo con aria confusa. «Ora, Kurt, lo so che dici
sempre che nel
mondo della moda non esistono generi ma questo cappello-»,
alzò lo sguardo,
incontrando gli occhi della ragazza. «Oh!».
Rachel
sorrise appena. “Questo Kurt doveva essere davvero
interessante a giudicare
dalle sue idee sulla moda. E anche carino, se ha ereditato gli stessi
geni di
suo fratello”.
«Oh»,
ripeté
il ragazzo, spalancando gli occhi color nocciola. «Tu devi
essere la ragazza di
New York, giusto? Kurt mi aveva detto che sarebbe partito,
ma-».
«Te ne
sei
scordato?», lo interruppe lei. Il ragazzo la
guardò confuso. «Kurt mi aveva
avvertito che sarebbe potuto succedere».
«Lui
è
sempre un passo avanti a tutti», commentò il
ragazzo con un sorriso. Poi lo
sguardo gli cadde sul cappello che aveva in mano. «Credo che
questo sia tuo»,
disse tendendole l’indumento.
Rachel lo
prese, sorridendogli di rimando. «Dev’essermi
caduto mentre entravo in casa».
Finn
annuì
con aria comprensiva. «Capita sempre anche a me».
Tese una mano verso Rachel. «In
ogni caso è un piacere fare la tua
conoscenza…?».
«Rachel»,
rispose lei, deliziata di poter finalmente presentarsi a qualcuno che
non
sapesse già il suo nome. «È un piacere
anche per me, fratello di Kurt».
«Finn,
Finn
Hudson», rispose lui, senza smettere di sorridere.
Rachel
alzò
un sopracciglio. Non aveva intenzione di ficcare il naso,
ma… «Credevo che il
vostro cognome fosse Hummel?».
«Io e
Kurt
siamo fratellastri», spiegò Finn mentre entrava in
casa ed appendeva il suo
cappotto all’appendiabiti. «Ma per noi non
è molto differente dall’essere
fratelli di sangue. Mia madre e suo padre si sono sposati quando
eravamo al
liceo, e l’ho considerato il mio fratellino da quel momento
in poi».
Rachel
annuì, spiazzata dalla naturalezza di quel commento.
«Ah,
giusto», disse Finn all’improvviso, sbattendosi una
mano sulla fronte. «Sono
venuto qui per recuperare una cosa- ti dispiace se salgo al piano di
sopra?
Entrerò solo nello studio, prometto di non frugare fra le
tue cose».
«Ma
certo»,
rispose Rachel con una scrollata di spalle. «Nessun
disturbo».
«Grande».
Finn le lanciò un ultimo sorriso e salì le scale
a due a due.
Non appena
fu sparito al piano di sopra, Rachel si fiondò in cucina.
Attenta a non fare il
minimo rumore, alzò il coperchio di un pentolino che
riposava sulla credenza.
Esultò
fra
sé e sé, notando che conteneva cioccolata calda
in abbondanza. Accese
velocemente uno dei fornelli e ci posò sopra il pentolino.
Se
c’era
qualcosa che i suoi papà le avevano insegnato era che il
cioccolato era sempre
un’ottima scusa. Si complimentò
con sé stessa per la magnifica idea.
Finn Hudson
era carino, simpatico e normale, ed era una vita che lei non aveva una
conversazione con una persona normale.
L’avrebbe fatto restare almeno una mezz’ora,
costasse quel che costasse.
Probabilmente
non sarebbe stato facile, perché un tipo così
carino sarebbe stato sicuramente
impegnato con i suoi amici di sabato sera. O forse con la sua ragazza.
«Ecco
qua!»,
la voce di Finn e il suono dei suoi passi sulle scale la strapparono
dalle sue
fantasticherie. «Rachel?».
Rachel si
affrettò a spegnere il gas, mentre i passi si dirigevano in
cucina.
«Cosa
ci fai
qui?», sorrise Finn, affacciandosi all’entrata. A
Rachel venne quasi da ridere
notando che la cima della sua testa sfiorava appena
l’architrave della porta.
Quel ragazzo era davvero alto.
«Hai-
hai
trovato quello che cercavi?».
Finn
alzò
una scatola di pennarelli colorati con aria trionfante.
«Sì! Sarei stato perso
senza questi».
Rachel
alzò
un sopracciglio e decise di non indagare. «Sai, stavo
pensando…», tolse il
coperchio al pentolino, lasciando che l’odore di cioccolato
si diffondesse per
tutta la cucina. «Stavo bevendo una tazza di cioccolata
calda, e per caso me
n’è avanzata un po’. Ti andrebbe di
unirti a me?».
Contrariamente
a tutte le sue aspettative, Finn sorrise ed annuì.
«Certo,
perché no?».
Passò
poco
tempo prima che Rachel dovesse ammettere con sé stessa di
essersi sbagliata sul
conto di Finn. Non sulla parte che riguardava l’essere
carino, gentile ed anche
normale, fortunatamente.
Ma se prima
pensava che la loro conversazione sarebbe durata quei miseri venti
minuti
necessari ad esaurire tutti gli argomenti di conversazione, ora si
trovava
costretta a riconoscere che era da più di un’ora
che parlavano senza interruzione,
scambiandosi pensieri ed opinioni su tutto.
Entrambi
avevano adorato l’ultimo romanzo di J. K. Rowling ed amavano
segretamente i
libri per adolescenti. Ad entrambi piaceva la musica dei Journey,
nonostante la
band avesse praticamente il doppio dei loro anni. Ed entrambi
condividevano una
malsana ed inspiegabile passione per i film di Bruce Willis. Parlarono
e risero
per ore.
Quando la
cioccolata finì Rachel preparò un thè.
E quando il thè finì Finn recuperò una
vecchia bottiglia di vino.
Fu
così che
si trovarono alle undici e mezza di notte stesi sul tappeto del salotto
a
discutere i pregi di Edward Cullen contro quelli di Jacob Black.
«Jacob
era
realista», constatò Finn, trascinando appena le
parole. «Edward invece era
troppo mellifluo, non mi piaceva. E poi la spiava dalla finestra.
Mentre
dormiva». Scosse la testa, bevendo un altro sorso di vino.
«Io lo
trovo
romantico», disse Rachel in tono sognante, riempiendosi di
nuovo il bicchiere.
«Io lo
trovo
inquietante», ribatté Finn, facendo una smorfia
nella sua direzione. «Di certo
mi spaventerei se qualcuno mi guardasse mentre dormo».
«Me lo
segnerò», ridacchiò Rachel, prima di
rendersi conto di aver detto una cosa
piuttosto sciocca. «Ehi, aspetta. Ma noi non dobbiamo mica
dormire insieme».
Finn la
guardò, aggrottando le sopracciglia. «No! Me lo
ricorderei se avessi dormito
con una carina come te». Subito dopo aver pronunciato quelle
parole si sbatté
una mano sulla bocca. «Oh Dio,
scusa,
sono stato davvero-».
«Lo
trovo
molto lusinghiero», mormorò Rachel, avvicinandosi
di più a lui. Una parte della
sua mente era cosciente di essere piuttosto ubriaca, ma in fondo che
male
c’era? Il fuoco era ormai un cumulo di braci, la stanza era
gelida e Finn era
così caldo.
«Sai»,
disse
all’improvviso bevendo un sorso di vino, «Non ci
sono ragazzi come te a New
York».
Finn scosse
la testa. «Lo so, dovrò sembrarti un ragazzo di
campagna al confronto».
«Tu
sei più
simpatico», lo contraddisse Rachel. «E meno
gay».
«Sono
molto
più gay ora di quanto lo fossi al liceo»,
commentò Finn con aria pensierosa.
Rachel lo
fissò. Cercò di concentrarsi sul suo viso, ma lo
sguardo le scivolò suo
malgrado sulle sue labbra, sulle spalle larghe e muscolose, sulle
braccia e no,
era una brutta idea vero?
Una pessima,
pessima idea-
«Sai»,
ragionò ad alta voce, per zittire l’ultima parte
coscienziosa del suo cervello.
«Forse dovremmo farlo».
«Uh?
Cosa?».
«Dormire
insieme».
Finn la
guardò con espressione sorpresa.
«Intendi…», deglutì mentre
arrossiva
leggermente. «Dormire o dormire
dormire?».
Rachel
colmò
quei pochi centimetri che separavano i loro corpi e gli prese il viso
fra le
mani.
«Non
ti
fisserò mentre dormi, te lo prometto»,
sussurrò prima di baciarlo con passione.
20 dicembre 2017,
Upper West Side, New York
Kurt Hummel si
stiracchiò e fece una smorfia mentre i ricordi del giorno
precedente gli
tornavano in mente. Era stato tutto un sogno, giusto? Cose del genere
non
succedevano davvero, tanto meno a lui.
Sospirò
amaramente e cercò a tentoni l’interruttore per
accendere la luce di camera
sua. Nulla.
Aggrottò
le
sopracciglia, passando la mano di nuovo la mano sul muro. Nulla di
nulla.
Possibile
che…?
Sbatté
le
palpebre, mettendo a fuoco una stanza che, poco ma sicuro, non era la sua.
«Oh
mio Dio»,
sussurrò nel silenzio della camera di Rachel. La camera di
Rachel che si
trovava a New York.
«Allora è
successo davvero».
Scalciò
via
le coperte e corse a spalancare una delle finestre, il cuore che gli
martellava
nel petto.
La vista gli
bloccò quasi il fiato. Metri e metri di case che si
sovrapponevano l’un
l’altra, cisterne d’acqua che facevano capolino fra
i tetti e un angolo di
Central Park appena visibile tra le pareti degli edifici. Senza perdere
altro tempo
corse dalla parte opposta della casa, finendo in cucina, e
aprì un’altra
finestra. L’Hudson River illuminato dalla debole luce del
mattino, un’altra
distesa di case e se si sporgeva solo un pochino…
«Oh,
al
diavolo», esclamò ad alta voce, salendo sul
pianerottolo della scala
antincendio in calzini e pigiama. Si aggrappò ai pioli e
salì qualche scalino,
finché non riuscì a scorgere un pezzetto di
Broadway Avenue.
«Non
posso
crederci», mormorò fra sé e
sé, aumentando la stretta sulla scala. Due giorni
prima era assolutamente convinto che avrebbe passato le vacanze da
solo,
ignorato dal proprio quasi-ragazzo e molestato dal proprio fratello. E
invece
era a New York, a dieci minuti da Broadway.
Sentì
l’euforia del giorno prima risalirgli la schiena mentre
scendeva la scala e
rientrava in cucina – una delle cucine più
sofisticate in cui fosse mai
entrato.
Chiuse la
finestra e si diede un’occhiata intorno. Doveva ancora
familiarizzare con
l’appartamento – il giorno prima vi era rimasto il
minimo indispensabile, catapultandosi
a prendere la metropolitana verso Times Square appena finito di disfare
i
bagagli – ma doveva ammettere che era una casa davvero
fantastica, soprattutto
per gli standard di New York.
«Dovrei
chiederle chi è il suo designer…», si
disse mentre osservava i quadri del
soggiorno, perfettamente abbinati con l’arredamento.
Una volta
trovata la porta del bagno fece una doccia calda, programmando
l’itinerario per
quel giorno. Il pomeriggio prima aveva semplicemente camminato per le
strade di
Manhattan, ammirando i grattacieli e le decorazioni natalizie appese
per le
strade, ma aveva una lista pressoché infinita di cose da
vedere e posti da
visitare.
Si
asciugò
velocemente, decidendo di testare la cucina di Rachel e di preparare
dei
pancakes per colazione, lasciando a dopo la scelta del suo outfit.
Infilò
velocemente un paio di jeans ed una canottiera e si mise al lavoro,
riempiendo
una caffettiera e posandola su uno dei fornelli prima di iniziare a
preparare i
pancakes. Stava proprio per aggiungere le gocce di cioccolato
all’impasto
quando qualcuno bussò alla porta.
«Rachel!»,
esclamò una voce maschile dal pianerottolo.
«Rachel, sono io, aprimi!».
Kurt si
bloccò con il cucchiaio a mezz’aria e si diede una
rapida occhiata. I capelli
erano a posto. I pantaloni pure…
«Rachel
non
provarci nemmeno. Non voglio stare qui impalato per venti minuti come
l’ultima
volta!».
“Maglietta,
dannazione, mi serve una maglietta”. Corse il più
velocemente possibile in
camera, iniziando a cercare una t-shirt o una camicia che si abbinasse
ai jeans
che portava in quel momento.
«Rachel
andiamo», continuò la voce, alzando il volume.
«Non puoi semplicemente saltare
le prove ogni volta che hai delle crisi esistenziali. Mercedes sta
già
spadroneggiando sul cast e sai che tutti la lasciano fare. Non hai
rispetto per
i nervi di Adam? È vecchio,
Rachel».
Kurt
estrasse una maglietta blu scuro dall’armadio e
cercò di infilarla mentre
correva verso l’entrata. La voce intanto continuava a
sproloquiare.
«Senza
contare che per arrivare qui ho fatto dieci isolati a piedi e non
è che sia molto
caldo in questo periodo dell’a-».
Kurt
aprì la
porta, interrompendo il monologo. Il ragazzo piantato davanti alla
soglia fece
un verso sorpreso, mentre arrossiva leggermente.
«Io-
scusi
devo aver sbagliato appartamento», balbettò in
tono imbarazzato.
«Non
hai
sbagliato», replicò Kurt facendo un cenno verso la
targhetta di fianco alla
porta. «Rachel e io ci siamo scambiati le case per le
vacanze. Lei è in Ohio
ora, quindi non credo ce la farà a venire alle
prove», aggiunse, cercando di
trattenere una risata.
Il ragazzo
sospirò con aria scoraggiata. «Oh, non importa, mi
ero già rassegnato a dover
parlare a vuoto con la porta. Lavorare con lei è un vero
incubo, a volte», si
passò una mano fra i riccioli scuri, poi parve ricordare che
anche Kurt era lì.
«Oh, io- mi dispiace moltissimo di averti svegliato. Rachel
è sempre in piedi
alle sei, quindi non mi sono fatto problemi a-».
«Ero
già
sveglio», lo interruppe Kurt. Esitò un momento poi
scrollò le spalle. «Anzi, a
dire la verità stavo preparando la colazione. Dopo dieci
isolati a piedi sarai
affamato, ti andrebbe di…?», indicò la
porta aperta dietro di lui con un cenno
della testa.
Il ragazzo
gli rivolse un enorme sorriso, annuendo. «Sarebbe fantastico.
Mi chiamo Blaine,
comunque». Tese la mano verso di lui.
«Kurt»,
il
ragazzo gliela strinse con un piccolo sorriso e si spostò
per farlo entrare in
casa.
Ignorò
l’istinto che gli ripeteva di non far entrare in casa uno
sconosciuto – Quel ragazzo
aveva l’aspetto di chi non avrebbe fatto del male ad una
mosca. E anche se
Rachel non aveva nominato nessun Blaine, per mettersi ad urlare davanti
alla
sua porta dovevano essere piuttosto in confidenza, quindi-
Un momento. In
effetti Rachel aveva nominato un ex ragazzo durante il loro scambio di
e-mail.
“Ma
non puoi
essere tu vero? Sei davvero troppo carino per essere etero”.
Riproponendosi
di scoprirlo al più presto – il suo gayradar non
era mai stato particolarmente recettivo
– tornò in cucina, seguito a ruota da Blaine.
«Come
ti
sembrano i pancakes con le gocce di cioccolato?», chiese
mentre riprendeva a
mescolare l’impasto.
«Divini»,
rispose l’altro sedendosi su uno sgabello di fronte a Kurt.
Il ragazzo
annuì, mentre versava la prima cucchiaiata di impasto in una
padella.
«Allora»,
iniziò mentre regolava il fornello a fiamma bassa.
«Parlami di Rachel. È così
strano abitare in casa di una persona che non conosco
affatto».
Blaine rise,
poggiando il mento su una mano. «Da dove
iniziare?», disse in tono divertito. «Non
la conosco da molto, quindi non sono la persona più adatta a
discutere di
questa cosa. Posso dirti che è innamorata del suo lavoro,
però. È un’attrice»,
aggiunse all’occhiata interrogativa di Kurt.
Il ragazzo
sentì una fitta di gelosia mentre faceva scivolare su un
piatto il primo
pancake.
«Dev’essere
molto brava per riuscire a mantenersi qui a New York»,
commentò mestamente. «E
non se la passa nemmeno male», aggiunse, agitando il
cucchiaio ad indicare
l’enorme cucina e l’appartamento in generale.
«È
determinata, su questo non c’è dubbio»,
concordò Blaine. «E anche competitiva.
Lascia, faccio io», disse, quando Kurt fece per togliere dal
fuoco la moca del
caffè. Aprì uno degli armadietti e ne
tirò fuori due tazze. «Dicono che la sua
furia quando le hanno rifiutato la parte di Elphaba sia stata
leggendaria, ma
grazie al cielo ho iniziato a frequentarla quando l’avevano
appena presa nel
cast di Evita», aggiunse,
versando
lentamente il caffè.
Kurt lo
guardò con tanto d’occhi. «È
stata nel cast di Evita? E chi
interpretava?».
«Evita,
ovviamente», Blaine scosse la testa e recuperò la
zuccheriera. «Non voleva
accontentarsi di meno».
Il cervello
di Kurt fece qualche rapido collegamento. “Evita. Rachel? Oh
mio Dio”.
«Blaine.
Come hai detto che fa Rachel di cognome?», chiese in tono
incerto.
Il ragazzo
ci mise un attimo a rispondere, impegnato a zuccherare il suo
caffè.
«Berry.
Rachel Berry», disse infine.
Kurt
respirò
profondamente e cercò di apparire assolutamente calmo. A
giudicare
dall’occhiata di Blaine stava fallendo miseramente.
«Immagino
che tu non abbia osservato bene il tavolino del soggiorno»,
aggiunse Blaine con
un’occhiata divertita.
«Io-
potresti…?», fece un cenno verso il pancake che si
stava cuocendo e Blaine
annuì, afferrando il manico della padella mentre Kurt si
fiondava in soggiorno.
“Cosa
può
esserci di tanto sconvolgente in quel tavolino? È solo un
normalissimo tavo-”.
Il suo cuore
mancò un battito quando lo vide.
«Blaine?»,
chiese a voce alta. «Non sarà mica un Tony Award,
questo?».
«Lo
è!», gli
rispose la voce del ragazzo dall’altra stanza.
«Dio»,
borbottò Kurt, incapace di pronunciare altro.
Tornò in cucina appena in tempo
per vedere Blaine che girava un pancake facendogli fare una perfetta
giravolta.
«Non
ci
posso credere!», borbottò Kurt mentre si sedeva su
uno degli sgabelli della
cucina.
«Ma
niente
commenti sull’aver dormito nel letto di Rachel Berry quando
tornerai a casa»,
scherzò Blaine agitando il cucchiai nella sua direzione.
Kurt
sbuffò.
«Credo sarebbero più sorpresi che abbia dormito
con una donna per concentrarsi
su chi sia la fortunata», commentò mentre
aggiungeva dello zucchero al suo
caffè e tornava a sedersi sul suo sgabello.
«Quindi»,
iniziò Blaine dopo un attimo di silenzio. «Devi
essere un appassionato di
Broadway per conoscere il nome di Rachel. Non è così famosa…».
«Puoi
dirlo
forte», commentò Kurt, osservandolo mentre faceva
scivolare altri due pancake sopra
ai primi. «Ho frequentato un corso di musical al
college».
«Oh,
davvero?», chiese Blaine, sinceramente interessato.
«Ho sentito dire che il
corso dell’OSU è fantastico».
«Per
l’Ohio
forse, ma non per New York», replicò Kurt
scuotendo la testa.
Per un
attimo sembrò che Blaine volesse dire qualcosa, poi scosse
leggermente la testa
e sorrise di nuovo. «Beh, ora che sei qui a
Broadway…», fece cadere nella
padella l’ultima cucchiaiata di impasto.
«…c’è qualche musical in
particolare che
ti piacerebbe vedere?».
«Chicago», rispose
immediatamente Kurt.
«So il film a memoria e al terzo anno delle superiori il
nostro Glee Club ha fatto
anche una produzione scolastica».
«E che
ruolo
interpretavi?».
Il ragazzo
fece una smorfia. «Amos Hart. Non esattamente la parte dei
miei sogni, ma
almeno ho avuto un assolo».
«Sei davvero sprecato come Amos»,
commentò
Blaine prima di lanciargli un’occhiata maliziosa.
«I tuoi professori dovevano
essere pazzi».
Kurt
deglutì, pregando di non arrossire. “Decisamente
non etero, allora”.
I ragazzi
rimasero in silenzio mentre Blaine divideva i pancake in due piatti e
ne posava
uno davanti a Kurt.
«Grazie
di
aver finito di cucinare», commentò il ragazzo
prendendo la forchetta che Blaine
gli porgeva.
«Non
c’è
problema. Anzi ti dirò di più». Gli
puntò contro la forchetta, dove aveva
infilzato un pezzetto di pancake. «Oggi è il
nostro giorno libero, quindi
niente prove, ma se domani pomeriggio hai un’ora di tempo,
passa al Nederlander
Theatre, e chiedi di Blaine Anderson. Al cast farebbe piacere conoscere
il
ragazzo che gli ha tolto dai piedi Rachel per due settimane, e
riuscirei anche
a procurarti i biglietti per Chicago
ad un prezzo stracciato».
Kurt
spalancò la bocca mentre Blaine gli faceva un occhiolino.
«Ti
sarei
debitore per l’eternità».
Il ragazzo
scosse la testa, infilzando un altro pezzetto di pancake.
«Credimi,
per questi pancakes non è nemmeno abbastanza».
Prima che
uno dei due finisse i suoi pancakes Kurt aveva scoperto che Blaine non
solo adorava
i musical, ma aveva anche un abbonamento mensile a Vogue
e un cassetto pieno di papillon.
“Cento
per
cento gay”, si disse Kurt mentre lo accompagnava alla porta.
“E il suo ragazzo
dev’essere anche fortunato”, aggiunse mentre lo
sguardo gli scivolava per un
attimo sul suo sedere.
Blaine
recuperò il proprio cappotto ed uscì, girandosi
per salutare il ragazzo.
«A
domani
pomeriggio allora», lo salutò Kurt cercando di non
sorridere troppo.
«Ci
conto»,
rispose Blaine con un cenno della testa.
Kurt stava
per chiudere la porta quando la voce di Blaine risuonò per
le scale.
«Kurt!».
Il ragazzo
tornò sulla soglia. Blaine gli stava sorridendo dal
pianerottolo più in basso.
«Goditi
New
York».
Kurt
annuì,
guardandolo scendere il resto delle scale e scomparire con un ultimo
cenno di
saluto.
Sospirò
profondamente, chiudendo la porta e appoggiandosi contro di essa con la
schiena.
Solo allora
si ricordò di non aver chiamato David da due giorni.
20
dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio
Rachel Berry
aprì lentamente gli occhi, riconoscendo immediatamente il
mal di testa e le
fitte allo stomaco come postumi di una leggera sbronza.
Oh beh.
C’erano modi peggiori di iniziare le vacanze.
Si
rigirò
fra le lenzuola, stiracchiando le braccia- e solo allora si rese conto
di non
avere niente addosso, e di non essere sola nel letto.
Premette il
viso nel cuscino per non imprecare ad alta voce, e richiuse gli occhi.
“Fantastico”.
A/N:
Eeeeed ecco
il primo capitolo, gente ;)
La Klaine e
la Finchel si sono incontrate *gasp*, Rachel è intrappolata
in un fangoso
sobborgo dell’Ohio (l’ha detto lei, non io) e
Kurtie sta danzando per le strade
di New York.
Cosa
succederà ai nostri eroi??
Ringrazio le
persone che mi hanno lasciato una recensione – fate
meraviglie per la mia autostima!
– e che hanno inserito la mia storia fra le seguite.
Il prossimo
capitolo sarà pubblicato in una data indefinita fra
lunedì e mercoledì della
settimana prossima.
Meno dieci
giorni a Natale! <3
MM
Ps:
Qualcuno
ha pianto guardando l’ultimo episodio di Glee?? ç_____ç
|
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Capitolo 3 *** 21 dicembre - 22 dicembre ***
20
dicembre 2017, Prairie Oaks,
Columbus, Ohio
Rachel
sospirò mentre poggiava la moca su uno dei fornelli,
pregando che il caffè non
ci mettesse troppo a salire – non avrebbe resistito dieci
minuti di più con
quel mal di testa. Poggiò la fronte contro il frigorifero,
resistendo
all’impulso di sbattercela contro.
Doveva
davvero smetterla di bere. L’ultima volta che si era
ubriacata si era
risvegliata nel New Jersey – senza contare che il mattino
dopo la sua faccia
era finita su tutte le prime pagine dei giornali scandalistici di New
York. E
ora questo.
“Ma
perché non imparo mai?”.
Non
poteva avere una normale conversazione con un ragazzo normale, no, lei doveva ubriacarsi e rovinare
tutto con il sesso. E ora ci sarebbe stata un’imbarazzante
conversazione
seguita da una rapida tazza di caffè e dalla promessa di
richiamarla – senza
che Finn si accorgesse che non aveva fatto nemmeno finta di chiederle
il suo
numero di telefono. Perché era così che era
sempre andata.
Fece
una smorfia sentendo un rumore di passi lungo le scale
Sentì
la voce di Finn alle sue spalle pochi secondi dopo.
«Buongiorno».
Rachel
si costrinse a mettere insieme almeno una parvenza di sorriso prima di
girarsi.
«Buongiorno», rispose. «Il
caffè è quasi pronto».
Finn
storse il naso. «Non sono esattamente un amante del
caffè», commentò,
recuperando una scatola di biscotti dalla credenza.
Rachel
si voltò di nuovo, mentre Finn soffocava uno sbadiglio, e
notò che la moca
stava fumando. Si allungò verso lo sportello più
alto della credenza per
recuperare una tazza-
«Lascia,
faccio io». Finn la raggiunse e aprì
l’anta con estrema facilità, passandole
una tazza color azzurro chiaro. «Ecco qui».
«Grazie».
Rachel abbassò velocemente lo sguardo mentre versava il
caffè.
Si
sentiva quasi… a suo agio. Strano- credeva che aspettare il
discorso
imbarazzante piuttosto che sentirselo propinare immediatamente sarebbe
stato
quasi peggio.
«Io…»,
iniziò Finn in tono incerto. «Ieri sera
è stato davvero..».
Rachel
sentì una fitta di umiliazione attanagliarle il petto. Finn
non sarebbe stato
certo il primo a fare commenti acidi su ciò che era successo
fra le lenzuola.
«Non
andare oltre. Ti chiedo scusa in anticipo per le mie scarse doti da
amante»,
commentò con la voce più atona che
riuscì a tirare fuori.
“Almeno
stavolta sono preparata”.
«Non
era quello che volevo dire», protestò il ragazzo
dopo qualche secondo di
silenzio.
Rachel
non credeva alle sue orecchie. Si girò lentamente,
guardandolo negli occhi. «Ah
no?».
«No.
Volevo dire che è stato fantastico, ecco tutto».
La
ragazza sospirò. Le cose non stavano andando come sperava.
Ed era ora di
prendere il controllo della situazione.
«Rachel,
io-».
«Senti,
lo so quello che stai per dire», lo interruppe.
“Via il dente via il dolore,
giusto?”.
«Da-davvero?»,
balbettò Finn, prendendo un altro biscotto.
«Sì,
e credimi, rimanere a dormire qui è stato molto carino da
parte tua, ma d’ora
in poi sentiti sollevato dai tuoi doveri di “bravo
ragazzo”», mimò le
virgolette con le dita. «Non sei né obbligato a
richiamarmi, né a restare, né a
promettere cose che poi non succederanno. Intesi?».
Finn
restò in silenzio per qualche secondo.
«È davvero così che vuoi che vadano le
cose?», chiese con uno sguardo serio.
Rachel
deglutì. «Sì», rispose in
tono fermo.
Il
ragazzo annuì e abbassò lo sguardo, prendendo un
altro biscotto. «Okay,
allora».
Rachel
non riuscì a togliersi di dosso la sensazione di aver appena
fatto un enorme
sbaglio.
21
dicembre 2017, Theatre
District, New York
Kurt
si fermò davanti al Nederlander Theatre, scrutando la
piccola porta d’entrata
ed i manifesti che annunciavano l’apertura di Work,
Love, Dance. “Allora dev’essere questo
il musical a cui sta
lavorando Rachel”.
Si
fece coraggio ed entrò nella hall, adocchiando una
receptionist dall’aria
annoiata.
«Scusi».
Si incamminò velocemente verso la donna, pregando che non lo
cacciasse via in
malo modo. Invece lei si limitò a fissarlo con espressione
interrogativa.
«Dovrei
vedere Blaine Anderson-».
«Nella
sala principale», borbottò la donna, facendo cenno
con una mano alle sue spalle.
Kurt
si allontanò in fretta, prima che gli venisse voglia di
tirarle dietro una
scarpa.
Posò
una mano sulla porta che separava la sala centrale dal teatro e, dopo
un attimo
di esitazione, spinse, ritrovandosi nel retro
dell’auditorium, fra file e file
di poltroncine scarlatte.
Si
incamminò lentamente verso il palco – che in quel
momento era un caos di
persone ed oggetti di scena – cercando una faccia familiare.
Dopo pochi secondi
finalmente riuscì a vederlo, chinato su alcuni spartiti
poggiati su di un
pianoforte. Si avvicinò velocemente, finché non
fu a portata d’orecchio.
«Blaine!».
Il
ragazzo si raddrizzò e si guardò intorno. Appena
lo vide gli sorrise e sventolò
la mano. Aveva i capelli un po’ scompigliati ed un paio di
occhiali da vista,
ed era ancora più carino del giorno prima.
«Kurt,
buongiorno», esclamò appena l’ebbe
raggiunto. Si tolse gli occhiali e li infilò
nello scollo della maglietta, facendo scendere l’orlo di un
paio di centimetri.
Lo
sguardo di Kurt scivolò suo malgrado sulla linea del suo
collo prima di
ritornare a livelli più appropriati.
«Sono
felice che tu sia venuto», il suo tono sincero lo fece
sorridere. «Questi
sarebbero andati sprecati altrimenti», disse, tirando fuori
da una tasca due
biglietti e usandoli a mo’ di ventaglio.
Kurt
spalancò gli occhi. «Sono
per…».
«Chicago, sì. E prima che tu me
lo
chieda, non mi devi nulla. Ringrazia Mike, è lui che ha gli
attacchi giusti»,
commentò Blaine.
Prima
che Kurt potesse chiedere chi diavolo fosse Mike, un ragazzo asiatico
apparve
dal nulla e gettò un braccio attorno alle spalle di Blaine,
scompigliandogli i
riccioli.
«Non
c’è di che, piccolo hobbit».
Blaine
imprecò, passandosi una mano fra i capelli mentre Mike
rideva e rivolgeva il
suo sguardo verso Kurt. «E così tu sei il famoso
Kurt», esclamò Mike, ignorando
la gomitata di Blaine. «Sai, non riesco a procurarmi nulla
così velocemente di
solito, ma Blaine mi ha praticamente implorato
di trovargli un biglietto per Chicago
e-».
«Mike!»,
chiamò una ragazza mora dalla parte opposta della stanza.
«Prova costume! Porta
qui il tuo sedere ossuto e smettila di molestare Blaine!».
«Arrivo!»,
urlò Mike per tutta risposta. «Ci vediamo dopo,
voi due. Mademoiselle mi
chiama».
Corse
via, lasciando Blaine in uno stato di profondo imbarazzo.
«Non
ascoltarlo, è un idiota», commentò dopo
un attimo di silenzio. «Onestamente non
so come faccia Tina ad averlo attorno tutto il giorno – credo
abbiano una
tresca o qualcosa del genere».
«Mi
sembra simpatico», commentò Kurt debolmente mentre
nella sua testa tirava un
grande sospiro di sollievo. “Non
è il
suo ragazzo allora!”.
«Ti
andrebbe di conoscere il resto del cast? Non sono tutti qui oggi, ma
potrei
presentarti qualche persona, se ti va».
«Sarebbe
fantastico», rispose Kurt in tutta sincerità.
Blaine
sorrise, afferrando un plico di spartiti e avviandosi dietro le quinte.
«Vieni
con me».
Kurt
si affiancò a lui, cercando di schivare strumenti e
scenografie finché non
oltrepassarono una porta laterale trovandosi in un corridoio leggermene
più
tranquillo.
«Sai»,
iniziò Kurt. «Mi sono accorto di non avertelo
nemmeno chiesto, ieri mattina:
sei anche tu un attore?».
Blaine
scosse la testa con aria sorpresa. «No, no, figurati. Faccio
assolutamente
schifo a recitare. Mia madre diceva sempre che sono un libro
aperto».
«Umh…
coreografo?», ritentò Kurt.
«No.
Il musical che stanno provando?», agitò la mano a
indicare lo spazio attorno a
loro prima di sorridere. «L’ho scritto
io».
Il
ragazzo lo guardò con tanto d’occhi.
«Adam Stewart ha detto che sarà il
prossimo Wicked».
«Adam
è il direttore», Blaine scosse la testa fermandosi
davanti ad una porta. «Ed
esagera spesso e volentieri». Spalancò la porta,
rivelando una grande sala
prove, e si fece da parte per far passare Kurt.
Il
ragazzo aveva appena iniziato a guardarsi intorno quando la sua visuale
venne
bloccata da una ragazza avvolta in un tubino anni 60 color blu
elettrico che
puntava dritta verso di loro.
«Blaine!
Tina mi ha chiesto di chiederti come si sposa il colore di questo
vestito con
la mia carnagione», disse la ragazza, facendo un cenno alla
sua pelle scura.
Blaine
scrollò le spalle. «E che ne so, non sono io la
costumista».
«Lo
sai quanto ci tiene alla tua opinione», ribatté la
ragazza. Solo dopo quel
commento parve accorgersi della presenza di Kurt. «Sei un
nuovo tirocinante?»,
chiese in tono curioso.
«No,
sono Kurt Hummel, un amico di Blaine». Da come il
sopracciglio della ragazza si
sollevò capì che aveva già sentito
parlare di lui. «E, se posso, questo colore
è un po’ troppo acceso. Staresti molto meglio con
un azzurro pastello».
«Trovi?».
La ragazza fece una piroetta su se stessa, facendo sfoggio delle lunghe
gambe.
«Kurt,
questa è la sostituta di Rachel»,
spiegò Blaine con un sorriso.
«Dottie
Hart», aggiunse lei, tendendo la mano verso il ragazzo.
«Mercedes
questa è violazione di copyright, Dottie è un mio
personaggio».
«Chi
è Mercedes? Sono Mercedes solo fuori da questa
stanza», esclamò la ragazza
mentre Kurt rideva dell’espressione esasperata di Blaine.
«Non
so se esserti grato per aver allontanato Rachel per un po’
oppure se incolparti
di questo disastro», commentò il ragazzo indicando
Mercedes.
«Io
invece non potrò mai ringraziarti abbastanza. Anzi, facciamo
che se riuscirai a
relegare Rachel in Ohio per altre due settimane ti darò il
mio primogenito? Lo
show apre il nove gennaio e-».
«Mercedes,
goditi questo momento di gloria. Rachel non perderà mai la serata di apertura del suo primo
musical originale»,
capitolò Blaine lanciandole uno sguardo eloquente.
«Una
ragazza può sempre sognare», sbuffò
lei. In quella la stessa ragazza asiatica
che aveva richiamato Mike entrò nella sala prove, mettendosi
una mano sul
fianco.
«Mercedes!
Quanto ci stai mettendo? Non ho tempo da perdere, io».
«Ma
Tina, io stavo facendo conoscenza con Kurt»,
rispose l’altra.
A
Kurt non sfuggì l’enfasi che aveva messo sul suo
nome, né l’espressione
sorpresa di Tina.
«Mi
ha consigliato un azzurro pastello», aggiunse Mercedes,
gesticolando verso il
suo vestito.
«Chi,
Blaine?».
«No,
il nostro Kurt, qui».
Tina
guardò il tubino di Mercedes con aria pensierosa.
«Beh è… si potrebbe fare. Ci
penserò».
Poi
prese Mercedes per un braccio, trascinandola fuori dalla stanza. Prima
di uscire
scrutò attentamente Kurt, dalla cima dei suoi capelli
perfettamente pettinati
in un ciuffo alla punta dei suoi mocassini Ferragamo.
«Magari
chiamaci finché sei a New York. Noi tre dovremmo
assolutamente andare a fare
shopping».
Mercedes
ebbe appena il tempo di sventolare la mano a mo’ di saluto
prima di venire
trascinata fuori dalla stanza.
«Wow.
Sono…». Kurt esitò, a corto di parole.
«Sono
speciali», disse Blaine, scuotendo la testa.
Prima
che Kurt potesse aggiungere altro, una donna bionda fece il suo
ingresso nella
sala, invitando tutti i ballerini ad iniziare le prove. Sempre che
“tutti voi
incompetenti con degli slittini al posto dei piedi”
significasse ballerini.
«Cassandra
July», sussurrò Blaine, facendogli cenno verso la
porta. «Meglio uscire,
vieni…».
Si
richiusero la porta alle spalle proprio mentre partiva un pezzo ritmato
e
allegro. Kurt si fermò qualche secondo, ascoltando
attentamente.
«L’hai
scritto tu?».
Blaine
annuì con aria fiera. «Sì, ma non ce
l’avrei mai fatta senza Adam. Sai, tutti
qui hanno così tanto talento. Ad esempio Mercedes si
meriterebbe di più di una
parte da sostituta. Qui ha avuto una chance, ma la maggior parte dei
direttori
non le ha concesso nemmeno quella in passato. Mi ha detto che le
è costato
molto arrivare fin qui. Tina invece viene dall’Ohio, ma
è nata a Cleveland ed è
riuscita a prendere una borsa di studio alla Parsons per-
Artie!».
Blaine
sventolò una mano verso un ragazzo in sedia a rotelle che
aveva appena girato
l’angolo.
«Ehi
Blaine, come butta?». Il ragazzo si sistemò gli
occhiali sul naso prima di far
scontrare il pugno con quello di Blaine. «E chi è
il tuo amico?».
«Kurt
Hummel», ripeté Kurt per quella che sembrava
essere la centesima volta in due
giorni.
«Piacere
mio», disse il ragazzo. «Scusatemi ragazzi, ma Adam
mi aspetta al piano di
sopra e ci metterò una vita per arrivarci
perciò-».
«Portagli
questi, visto che ci sei», Blaine gli passò il
plico di spartiti.
«Coso,
non sono il tuo fattorino». Artie gli lanciò
un’occhiataccia prima di andarsene
velocemente.
«Lui
è l’aiuto direttore. Ha frequentato la Tisch, se
riesci a crederci, e si è
anche mantenuto da solo! Ha fatto una fatica assurda a trovare lavoro
–
ovviamente nessuno assumerebbe un ragazzo
disabile…».
Kurt
aggrottò le sopracciglia, estraniandosi per un attimo dal
monologo di Blaine.
Qualcosa non tornava. Il giorno prima non gli era sembrato
così logorroico ed
ora invece… Gli ci volle qualche secondo per capire
ciò che stava succedendo.
«Blaine».
Il ragazzo interruppe di colpo il fiume di parole e lo
guardò con aria
interrogativa. «Non sei obbligato a farlo».
«A
fare… cosa, esattamente?».
«Guarda»,
iniziò in tono deciso. «Probabilmente ieri ti
sarò sembrato un po’ drammatico
mentre parlavo di Columbus e del mio lavoro, ma non è
così male, e ti assicuro
che-».
«Ma
il tuo sogno è stare qui», lo interruppe Blaine.
«Non è vero?».
«Questo
non fa differenza», disse Kurt in tono piatto, sperando che
il discorso fosse
finito.
«Certo
che fa differenza!», scattò Blaine. «Non
starai mai bene con te stesso se non
farai almeno un tentativo di seguire i tuoi sogni».
«Non
è così facile».
«I
sogni non sono mai facili, ma-»,
«No
Blaine, tu non capisci!». Si accorse di aver alzato la voce,
anche se
fortunatamente la musica proveniente dalla sala prove lo aveva coperto.
«Quando
mi sono diplomato-». Kurt si bloccò, non fidandosi
della sua voce. Diventava
sempre estremamente emotivo quando tirava fuori quel
discorso.
Una
ragazza in camicia e collant sbucò dietro
l’angolo, lanciando un sorriso in
direzione di Blaine. Il ragazzo ricambiò il saluto,
seguendola con gli occhi
mentre entrava nella sala prove e si richiudeva la porta alle spalle.
«Kurt»,
disse piano, incrociando il suo sguardo. «Io… Non
pensavo di… Ovviamente non
sei obbligato a parlare con me di queste cose, ci siamo appena
conosciuti, ma
volevo solo-».
«No,
tu non hai fatto nulla di sbagliato. È solo un argomento
piuttosto difficile
per me». Kurt prese un respiro profondo prima di iniziare a
parlare.
«Quando
mi sono diplomato, sono uscito da una scuola formata per la maggior
parte da
giocatori di football omofobi e cheerleader idiote. Volevo frequentare
il
college a New York, qualsiasi scuola sarebbe andata bene. Ma la mia
famiglia
non è mai stata molto ricca, e anche se mio padre
provò a convincermi che i
soldi sarebbero bastati, io sapevo che servivano per le sue cure
mediche. Ha
avuto un infarto quando ero in terza superiore»,
spiegò, in risposta allo
sguardo confuso di Blaine. «E io sono orfano di madre. Ora ho
un lavoro,
frequento un ragazzo che non è perfetto ma mi vuole bene e
mi sono ritagliato
un posto a Columbus».
Sospirò,
passandosi una mano sul viso. «Ho lottato per anni per essere
riconosciuto, per
far sentire la mia voce, per non essere maltrattato. Iniziare tutto
daccapo…
avrei paura di non farcela, stavolta».
Chiuse
gli occhi. Davvero aveva appena aperto il suo cuore ad un quasi
sconosciuto?
“Grande Kurt, bel modo di fare una buona impressione un
ragazzo, non c’è che
dire”.
«Io…
scusa, è stato davvero inappropriato-».
«No,
ascolta Kurt». Blaine posò la propria mano su
quella di Kurt, sfiorandola
appena. «Capisco quello che vuoi dire».
Kurt
fece un verso sarcastico.
«Mio
padre mi ha buttato fuori di casa a diciassette anni, quando gli detto
di
essere gay», disse l’altro. Kurt alzò lo
sguardo su di lui. Era mortalmente
serio. «Dopo tre anni di scuola privata ho dovuto passare il
mio ultimo anno al
liceo pubblico, vivendo nei sobborghi di Los Angeles nel monolocale di
mio
fratello. Quando mi sono trasferito a New York mi sono pagato
l’università da
solo, lavorando. Il primo anno dormivo quattro ore a notte. Per nessuno
di noi
è stato facile. Ma nessuno qui ti dirà che non ne
è valsa la pena».
Strinse
appena la stretta sulla sua mano. «Tu hai così
tanta passione, e potresti fare
grandi cose dovunque tu vada, ma… si vede lontano un miglio
che il tuo posto è qui.
Dovresti provarci. Quello che ti
serve è solo… coraggio».
Sorrise
e lasciò la sua mano. Restarono in silenzio per qualche
minuto, mentre Kurt
contemplava quello che Blaine gli aveva appena detto.
Si
riscosse quando sentì il suo cellulare vibrare, segno di una
chiamata in
arrivo. Tirò fuori l’iPhone, notando che aveva due
chiamate perse, entrambe da
parte di David Karofsky. Sospirò profondamente. Un altro
problema da risolvere
appena fosse tornato a casa.
Rivolse
lo sguardo verso Blaine, che lo stava osservando di sottecchi.
«Posso
offrirti un caffè?», chiese in tono incerto.
Kurt
esitò un momento prima di scuotere la testa. «No.
È stato un pomeriggio
piuttosto… intenso, e credo di aver raggiunto il limite per
oggi».
Blaine
annuì con aria comprensiva. «Scusa-».
«Non
scusarti. Tutto quello che hai detto è vero
e…». Kurt scosse la testa, a corto
di parole. «Devo solo riflettere e sistemare qualche
problema».
«Spero
davvero che tu possa risolverli, Kurt».
Il
ragazzo sorrise. «Anche io. Nel
frattempo…». Tirò fuori i due biglietti
per
Chicago dalla tasca della giacca. «Ti… ti andrebbe
di vedere Chicago con
me?».
Nei
trenta minuti che impiegò per tornare nell’Upper
West Side, Karofsky chiamò
Kurt altre due volte. Il ragazzo digitò il suo numero appena
entrò
nell’appartamento di Rachel, poggiando giacca e sciarpa sul
divano.
Karofsky
gli rispose dopo appena uno squillo. «Kurt?».
«Ciao
Dave», borbottò Kurt. Si accorse
con una morsa allo stomaco che la sua voce non gli era mancata affatto.
«Kurt
si può sapere che succede?». Il ragazzo sembrava
seccato. «Sparisco per uno o
due giorni e Finn inizia a blaterare che sei partito e sei andato a New
York,
si può sapere dove sei veramente?».
«A
New York».
David
restò in silenzio per qualche secondo.
«… dici sul serio?».
«Certo!».
«E
dove hai trovato tutti quei soldi?».
Kurt
aggrottò le sopracciglia. «Papà e
Carole avevano registrato il cottage di
Prairie Oaks in un sito di Home Exchange e questa settimana una ragazza
mi ha
contattato e-».
«E
tu hai accettato?».
«Certo
che ho accettato», sbottò Kurt. «Quando
mi ricapiterebbe un’altra occasione
simile? E David la città, è davvero stupenda,
dovresti vederla! L’Empire State
Building era persino migliore di come me l’ero immaginato,
Broadway è
fantastica e ho incontrato persone così
interessanti-».
«Hai
conosciuto qualche ragazzo?», lo interruppe David in tono
brusco.
Kurt
aggrottò le sopracciglia. «Non
c’è bisogno di fare il possessivo. Sì,
qualcuno.
Perché me lo chiedi?».
«Non
sto facendo il ragazzo possessivo». Una pausa.
«Qualche gay?».
«Certo,
David», sbottò Kurt, irritato. «Nessuno
qui si è fatto problemi a mostrarlo-».
Si
interruppe di colpo, desiderando di poter rimangiarsi quello che aveva
appena
detto. Non aveva chiamato David per due giorni e ora gli rinfacciava
anche il
fatto di non aver ancora fatto coming out. “Ma
cos’ho di sbagliato in questo
periodo?”.
«Scusa»,
disse piano, ascoltando il silenzio dall’altro capo del
telefono.
«Mi
avevi promesso che non me l’avresti rinfacciato»,
disse David dopo qualche
secondo.
Kurt
sospirò. «Lo so, e mi dispiace. Sono
solo…», esitò, senza riuscire a trovare
le
parole.
«Kurt?»,
disse l’altro con tono preoccupato. «È
tutto a posto, vero? Ti perdono. Siamo a
posto».
Kurt
si appoggiò alla credenza della cucina, guardando fuori
dalla finestra. «Non
credo lo siamo più ormai, Dave».
«Cosa
vuoi dire?».
«David,
abbiamo funzionato per qualche tempo, ma questo rapporto sta
danneggiando
entrambi. Mi sto accorgendo di volere qualcosa di diverso e- e mi
dispiace
dirti di tutto questo al telefono, ma credo dovremmo parlarne
seriamente quando
tornerò a casa». Prese un respiro, attendendo la
risposta dell’altro. «Dave?».
«Io-».
Il cuore di Kurt sprofondò nel sentire il tono di David.
«Certo, Kurt. Ne
parleremo, okay? Ora… ora devo andare però. Sto
uscendo con Azimio e Johnson».
«Divertiti»,
borbottò Kurt.
«Anche
tu».
Senza
dire altro, David riattaccò il telefono. Kurt
terminò la chiamata e si premette
il telefono contro le labbra. Non poteva quasi crederci, ma stava
succedendo.
La
sua vita stava prendendo una svolta inaspettata.
22
dicembre 2017, Prairie Oaks,
Columbus, Ohio
Rachel
alzò il volume della televisione quando Keira Knightley
aprì la porta di casa
per trovarsi davanti un Andrew Lincoln infreddolito e sorridente.
«Benedetta
ragazza, come hai fatto a non accorgertene prima?»,
borbottò nella sua tazza di
the mentre Mark confessava il suo amore a Juliet. «E io avrei
saputo
interpretare questa scena molto meglio di te».
Bevande
calde e ipercriticismo erano la migliore cura che conoscesse per i suoi
problemi di cuore – e in quel momento era nel bel mezzo di un
problema grande
come una casa. Letteralmente.
Le
mancava Finn. E non solo in quel momento, le era mancato dal momento in
cui era
uscito dalla porta della casa di Kurt.
Passare
un’intera giornata in giro per Columbus non aveva aiutato per
niente – nemmeno
lo shopping. Quella era una situazione senza precedenti.
«E
sei anche troppo magra», borbottò la ragazza verso
Keira Knightley, affondando
ancora di più nei cuscini del divano. Fece un verso di
protesta quando un
rapido bussare alla porta d’entrata la costrinse ad alzarsi
dal bozzolo di
cuscini e coperte.
«Un
attimo!». Si prese qualche secondo per sistemarsi i capelli e
controllare
com’era vestita, nel caso dei giornalisti fossero venuti a
sapere dove si era
rintanata per le vacanze.
“Non
si sa mai…”. Corse alla porta, aprendola con uno
dei suoi scintillanti sorrisi
da palcoscenico.
«Buonasera,
chi-».
Le
parole le morirono in gola quando vide una ventina di bambini
sovraeccitati
fermi davanti all’entrata.
«Buon
Natale!», strillò una di loro, una piccoletta con
una treccia bionda e un
cappellino rosso calcato in testa.
«Io-
grazie».
Rachel
alzò appena lo sguardo per vedere quattro o cinque adulti
dietro il gruppo di
bambini, e dietro a tutti quanti, in un penoso tentativo di
nascondersi… Finn.
Abbassò
subito gli occhi. Aveva già incasinato abbastanza la loro
situazione. Ignorarlo
era la migliore scelta che aveva… giusto?
«Ci
piacerebbe cantarle qualche canzone di Natale, signora»,
esclamò un altro
bambino.
«Ma
certo», rispose Rachel nel suo tono più gentile,
mentre cercava di trattenere
una smorfia.
“Signora?
Ho solo ventiquattro anni, per l’amor del cielo”.
I
bambini sussurrarono per qualche minuto fra loro, prima di iniziare a
cantare
in coro Joy to The World.
Rachel
sorrise suo malgrado. Era abituata ai cori di Broadway e non a un
manipolo di
bimbi, ma questi erano particolarmente intonati per la loro
età.
“Mi
domando chi sia il loro insegnante. Un tizio così potrebbe
fare meraviglie con
Mike”.
Applaudì
gentilmente quando i bambini finirono. Alcuni accennarono degli inchini
esagerati, mentre gli altri si limitavano a ridere o a chiacchierare
fra loro.
«Siete
stati davvero bravissimi». Alcuni accennarono degli inchini
esagerati al
complimento di Rachel. «Mi piacerebbe sentirne
un’altra».
«Facciamo
quella del tipo con gli occhiali!», esclamò uno di
loro, seguito dall’assenso
di tutti gli altri.
«Signor
Hudson devi cantare anche tu per questa». Rachel
imprecò fra sé e sé. Aveva
sperato di ignorare la presenza di Finn per altri due minuti e mezzo,
ma la
bambina che si era girata verso di lui e aveva iniziato a tirargli la
manica
non era della stessa opinione, evidentemente.
«Ashley»,
borbottò Finn con espressione mortificata. «Credo
che la signorina abbia voglia
di sentir cantare voi, non me-».
«Ma
canteremo anche noi, non ti ricordi? E hai detto che era una delle tue
canzoni
preferite». La bambina fece un broncio così
marcato che il labbro superiore toccò
quasi la punta del naso.
«Va
bene, va bene. Canteremo tutti insieme».
Finn
lanciò una breve occhiata di scuse a Rachel prima di
iniziare a cantare.
«So this is Christmas, and what
have you done? Another
year’s over…».
Rachel si
trattenne a stento dal sollevare entrambe le
sopracciglia in un’espressione di sorpresa.
L’ultima cosa che si sarebbe
aspettata era che Finn avesse una così bella voce. O una
tecnica affinata.
“Il
suo tenore suonerebbe davvero bene con il mio
soprano”, pensò distrattamente, mentre i bambini
iniziavano a cantare il coro
di “War is over, if you want it”.
Ascoltò
pazientemente tutta la canzone,
applaudendo di nuovo quando fu finita.
Finn si
chinò verso uno degli altri
adulti, sussurrando qualcosa al suo orecchio. L’uomo
lanciò una veloce occhiata
a Rachel e annuì, battendogli una mano sulla spalla.
«Forza
bambini, andiamo avanti».
Il gruppo
tornò in strada e si mosse verso
un’altra casa, mentre Finn rimase sul vialetto del cottage,
avvicinandosi
lentamente all’entrata. «Ciao
Rachel».
La
ragazza si appoggiò allo stipite della porta.
«Ciao Finn».
«Io-»,
il ragazzo si grattò la nuca con una mano, palesemente a
disagio. «Mi dispiace
molto di essere tornato qui. Ho provato a convincerli a non suonare il
campanello, ma i bambini non volevano saltare nessuna casa e
così…».
«Non
ti preoccupare». Rachel affondò le mani nelle
tasche del cardigan. «È stato…
molto carino, a dir la verità».
Finn
sembrò sorpreso. «Davvero?».
«Certo.
E non c’era affatto bisogno che cercassi di nasconderti
dietro quei bambini,
Finn».
Il
ragazzo ebbe la decenza di mostrarsi imbarazzato. «Oh, io-
non ha funzionato,
vero?».
Rachel
scosse la testa, cercando di non ridere. «Ah-ah. Ma
c’era da aspettarselo,
visto che sei più alto del mio albero di Natale».
Finn
fece un mezzo sorriso, mentre Rachel si obbligava a non fissarlo
troppo. Dio,
era normale che le fosse mancata così tanto il suo viso?
“Sono proprio una
ragazzina…”.
La
voce di Finn la distrasse dai suoi pensieri. «Sai, sono
felice di esser passato
di qui. Avevo voglia di parlarti, ma non penso avrei avuto il coraggio
di
venire qui a bussare alla tua porta». Finn
incrociò le braccia, guardandola
negli occhi. «Tu… mi piaci, Rachel. Sei molto
più interessante delle ragazze
che incontro di solito e non hai riso di me quando ti ho confessato
quanto mi
piacciano Robert Pattinson e le Spice Girls-».
«Questo
perché chiunque non apprezzi le Spice Girls è
davvero un barbaro», lo
interruppe Rachel in tono deciso. Si scambiarono una breve occhiata
prima di
mettersi a ridere.
«È
di questo che stavo parlando», commentò Finn
sorridendo. «Rachel, mi piacerebbe
molto frequentarti, finché resterai qui in Ohio. Fuori
dalla… camera da letto,
intendo», aggiunse arrossendo leggermente.
Rachel
abbassò lo sguardo. “Allora è
così che si sentono le ragazze normali quando un
ragazzo chiede loro di uscire? Sono a un passo
dall’iperventilazione”.
Si
prese un altro secondo per calmarsi prima di tendere la mano verso Finn.
«Dammi
il tuo cellulare». Il ragazzo le lanciò uno
sguardo confuso prima di passarle
un piccolo telefono nero che doveva aver visto giorni migliori.
Rachel
digitò velocemente il suo numero, per poi girare lo schermo
verso Finn.
«Chiamami
appena hai un momento libero».
Il
ragazzo lo riprese con uno sbuffo, ma invece di allontanarsi si
chinò verso di
lei, baciandola su una guancia.
«Buonanotte
Rachel», disse prima di allontanarsi lungo la strada.
Rachel
si posò una mano sulla guancia, sentendosi come una
ragazzina appena tornata a
casa dopo il primo appuntamento.
«Sogni
d'oro».
A/N:
Eeeeet
voilà :)
Perdonate
il leggero ritardo ;)
Ummmmmh,
cos’ho da dire su questo capitolo? Il film di cui parla
Rachel è Love, Actually
– la scena dei cartelli…
<3
Ovviamente
la seconda canzone che cantano i bambini è Happy Xmas (War
is Over), di John
Lennon.
E
ummmh… le vacanze per me sono ufficialmente iniziate! Yay!
Posso scrivere fino
a svenire sulla tastiera (anche perché dopo inizieranno gli
esami e dovrò
seppellirmi fra i libri, uggghh…).
Che
altro? Il prossimo capitolo sarà pubblicato
venerdì/sabato :)
Grazie
mille a tutti quelli che hanno recensito (<3), a quelli che
hanno inserito
la mia fic fra i preferiti, e a yu-gin che si sorbisce i miei errori
grammaticali e i miei dubbi amletici sulla trama :)
A
presto!
MM
|
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Capitolo 4 *** 23 dicembre - 24 dicembre ***
23
dicembre 2017,
Prairie Oaks, Columbus, Ohio
«Sono
una donna matura ed indipendente»,
dichiarò Rachel al silenzio del salotto. «E sono
perfettamente in grado di
chiedere ad un ragazzo di uscire con me- okay, Rachel questa non va
bene,
avresti sempre potuto chiamarlo prima». Sistemò
meglio la testa sul cuscino del
divano.
Erano passate
esattamente diciannove ore
da quando aveva ricevuto un sms da parte di un numero sconosciuto che
diceva
solo Grazie ancora per avermi dato il tuo
numero, Rachel. Ci sentiamo presto. Finn xoxo.
Rachel si era
affrettata a salvare il
numero fra i suoi contatti e a ricaricare la batteria del cellulare al
massimo.
Ma Finn non aveva ancora chiamato.
Perché
non aveva chiamato? La ragazza
cambiò posizione per la decima volta in mezz’ora,
stendendosi con la schiena
sul tappeto del soggiorno e le gambe sui cuscini del divano.
«In
fondo ha chiesto lui il mio numero.
Perché disturbarsi se poi non mi chiama? Uomini».
Recuperò
un altro cioccolatino dalla
scatola che aveva comprato il giorno prima come regalo per la sua
agente, e che
aveva aperto in uno scatto di disperazione.
«E
tutto quel discorso su quanto gli
piacessi? Non poteva essere tutta una messa in scena, no?»,
si chiese mentre
una pralina si scioglieva sulla sua lingua. «Oh,
chissenefrega, io lo chiamo».
Recuperò
il cellulare, selezionò
rapidamente il numero di Finn e premette il tasto chiama prima di poter
cambiare idea.
“Forse
faccio ancora in tempo a
riattaccare…”, pensò mentre il telefono
squillava.
«Pronto?».
La voce del ragazzo risuonò
dall’altro capo del telefono, prendendola di sorpresa.
«P-pronto!».
Un secondo di
silenzio, poi… «Rachel?».
«Sì,
sì sono io. Io-», Rachel sentì un
rumore soffocato e aggrottò le sopracciglia. «Sei
occupato?».
«Emh…
a dire la verità sì. Mi dispiace di
non averti chiamato subito, ma oggi è un giorno un
po’ impegnativo e-». Finn si
fermò, poi allontanò la cornetta e disse qualche
parola che Rachel non riuscì a
capire. «Scusa, dicevamo?».
«Io…».
La ragazza si spremette le
meningi. “Forza, inventa, inventa”.
«Ecco, a dir la verità volevo solo ringraziarti
per ieri sera. Quel coro di
bambini è stato davvero adorabile».
«Ti
è piaciuto davvero?». Si poteva
sentire che stava sorridendo mentre parlava.
Rachel fece un
verso affermativo. Ed era
sincera. «Di solito odio i cori di bambini, ma questi sono
stati molto bravi».
Finn rise.
«Io…», iniziò, esitando.
«Se
ti è piaciuto davvero dovresti prendere un taxi e
raggiungermi».
Rachel
raddrizzò la schiena
all’improvviso. Questo
era
inaspettato. «Dove ti trovi?».
«Scuola
elementare Cranbrook. Non credo
sarà quello che normalmente chiameresti un appuntamento
romantico, ma almeno
non dovremmo aspettare un altro giorno per vederci. Che ne
dici?».
La ragazza
sorrise. «Dico che è una
splendida idea. Dammi mezz’ora!».
Riattaccò
il telefono senza nemmeno
aspettare la risposta di Finn e corse in camera per cambiarsi
più in fretta
possibile.
“Forse
sono un po’ troppo elegante”, si
disse Rachel mentre camminava lungo il vialetto della Cranbrook
Elementary
School. “Sciocchezze”, si corresse qualche minuto
dopo adocchiando il suo
riflesso sul vetro della porta d’entrata. “Queste
calze mi fanno delle gambe
lunghe chilometri”.
Entrò
nella scuola, trovandosi nel bel
mezzo di un corridoio dipinto di verde.
«E…
ora?».
Stava
già considerando di chiamare Finn
per farsi dare qualche dritta – o anche per chiedergli che
diavolo avesse in
mente – quando il suo cellulare squillò.
Aula
2B, diceva
solamente
il messaggio di Finn. Rachel era ancora piuttosto confusa, ma decise di
cercare
l’aula e riservare le domande per un secondo momento. Per ora
le bastava vedere
il ragazzo.
Il suono dei
suoi tacchi echeggiò nella
scuola deserta, mentre vagava per i corridoi controllando i cartelli
appesi
sulla porta di ogni aula.
Dopo dieci
minuti di ricerca vide una
stanza un po’ più isolata dalle altre, con una
targhetta che annunciava “2B”,
e, appena più sotto, “Musica”.
Dall’aula proveniva un brusio di voci che
parlavano l’una sull’altra e a tratti cantavano.
Rachel si avvicinò,
incuriosita, e si avvicinò trovando la porta socchiusa. La
scena che le si
presentò davanti decisamente non era quella che si era
aspettata.
La stanza era
piena di bambini in
svariati costumi di Natale che si rincorrevano strillando. In tutta
quella
baraonda Finn era accovacciato vicino ad una bambina bionda vestita da
angelo
tenendo in mano una ciocca di capelli ondulati e fallendo miseramente
nel
tentativo di fare una treccia.
«Mi
dispiace Beth, non ci riesco», stava
dicendo proprio in quel momento. Sembrava sinceramente dispiaciuto.
«Credo
dovremo scioglierli».
Senza pensarci
due volte, Rachel entrò
nella stanza e si avvicinò ai due.
«Posso
provarci io, se vuoi». Finn alzò
lo sguardo. Aveva delle ombre scure sotto gli occhi e un po’
di glitter
appiccicato sul mento. “Oh Dio, è adorabile”.
«Sei
la signora di ieri sera, vero?»,
chiese la bambina con aria sospettosa.
Finn si
alzò e le mise una mano sulla
spalla. «Lei è Rachel, una mia amica».
«Ti
prometto che farò un buon lavoro. Il
mio papà mi ha insegnato a farmi le trecce
quand’ero più piccola di te».
La bambina la
studiò per un altro momento
prima di annuire e girare leggermente la testa.
Rachel prese in
mano una ciocca dei suoi
capelli e li intrecciò in pochi secondi, legandoli con
l’elastico che la
bambina le stava porgendo.
Quando ebbe
finito, Beth si passò le dita
sulla treccia, con aria entusiasta.
«Grazie,
signora», esclamò mentre si
catapultava dalla parte opposta della stanza.
«Rachel»,
precisò lei, trattenendosi a
stento dal fare una smorfia.
Finn
ridacchiò, aiutandola a mettersi in
piedi.
«Tuo
padre dev’essere un uomo
fantastico!».
Rachel sorrise,
pensando ai suoi due papà
nella loro casa da pensionati a Miami.
«Lo
è». Si girò verso Finn con un sorriso
divertito. «Allora, vuoi spiegarmi cose ci fai in una stanza
piena di bambini?
Ti hanno ricattato per caso?».
Il ragazzo
scosse la testa con aria
divertita, un po’ rosso in viso. «Questo
è il mio lavoro. Sono un insegnante.
Musica», aggiunse, prima che Rachel potesse chiederlo.
«Io…
beh, mi sembra piuttosto adatto a
te», mormorò la ragazza.
«Grazie»,
rispose lui con un sorriso a
trentadue denti. «Non era quello che immaginavo di fare
durante il liceo, ma
sono davvero felice di come sono andate le cose. Non pensavo di essere
tanto
bravo con i bambini».
Rachel
annuì, chiedendosi distrattamente
come avesse fatto a sospettare il contrario – Finn aveva
probabilmente il
carattere più mite di tutto l’Ohio.
«E
sono tutti vestiti da angeli
perché…?».
«La
recita di Natale!», annunciò Finn
illuminandosi. «Devono andare sul palco fra dieci minuti, e a
questo proposito…
ti andrebbe di… umh… restare? Dura pochissimo,
giuro. Poi potremmo andare a
prendere una cioccolata calda, o a fare una passeggiata, o qualunque
cosa tu
abbia voglia di fare, giuro».
Rachel
guardò la sua espressione speranzosa
e semplicemente non seppe dire di no.
Fu
così che un’ora dopo si ritrovò seduta
nel minuscolo appartamento di Finn, una coperta sulle ginocchia e
l’ennesima
tazza di cioccolata calda in mano.
«Credo
di aver bevuto tanta cioccolata
calda da averne abbastanza per il resto della mia vita»,
commentò mentre Finn
lasciava cadere qualche marshmallow all’interno della sua
tazza.
Sparì
in cucina per qualche secondo,
mentre Rachel beveva il primo sorso.
La recita di
Natale, se così si poteva
chiamare – grazie a Dio ne aveva visto solo la fine
– era stata
sorprendentemente piacevole. Anche se si era ritrovata seduta in una
sedia di
plastica in mezzo ad una marea di genitori e parenti, davanti ad un
palco con
scenografie fatte di stoffa e di cartone. Ben diverso dai suoi soliti
standard.
I bambini
avevano cantato un medley di Chestnuts
Roasting On An Open Fire e Let it
snow senza stonare nemmeno una
nota, mentre Finn stava in piedi sotto il palco – per
dirigerli o per
incoraggiamento morale, non aveva ancora capito quale delle due.
Era stato dolce,
carino e… normale. Stranamente,
non le era dispiaciuto nemmeno un po’.
Finn
uscì dalla cucina e le porse un
bastoncino di zucchero, distraendola dai suoi pensieri.
Lo
accettò e iniziò a mescolare la
cioccolata, mentre il ragazzo si sedeva accanto a lei, abbastanza
vicino da
sfiorarle una gamba con la sua. Rimasero in silenzio per qualche
secondo,
mentre il profumo di cioccolato e cannella riempiva la stanza.
Poi…
«Cosa fai a Natale?», chiese Finn in
tono pensieroso.
Rachel
soffiò sulla sua tazza, pensando
ad una risposta non troppo patetica. «Credo
rimarrò a casa di Kurt, e guarderò
per l’ennesima volta Una poltrona
per due.
Un Natale fra me e me, sai».
«Che
ne dici di venire a casa di alcuni
miei amici per pranzo? Una persona in più non
farà la differenza, per loro».
«Dici
sul serio? Non passerai Natale con
la tua famiglia?».
Finn scosse la
testa. «Mia madre e il mio
patrigno sono alle Bahamas. Un viaggio regalo da parte mia e di Kurt
– lui non
sarebbe mai andato via se Burt non fosse partito, adora suo padre
». Il ragazzo
bevve un sorso di cioccolata prima di continuare. «Credo
programmasse di
trascorrere le feste con il suo ragazzo, ma a quanto pare anche quel
piano è
saltato».
Rachel lo
guardò inarcando un
sopracciglio. Quelle sì che erano notizie. «Kurt
ha un ragazzo?».
«Sì.
Lui crede che nessuno lo sappia,
ovviamente, ma sono più sveglio di quanto creda. Non ero il
più intelligente della
mia classe, al liceo e lui mi immagina ancora
così».
Rachel gli diede
una gomitata scherzosa.
«Beh, questo non può essere vero. Sei finito a
fare l’insegnante, dopo tutto».
Finn
arrossì leggermente. «Fidati, non
ero uno sveglio. È soltanto merito di uno dei miei
professori se sono diventato
un insegnante. Dirigeva il nostro Glee Club e tutti dicevano che era un
po’
strano, ma ha davvero cambiato la mia vita. Mi ha mostrato che non
dovevo
essere per forza quello che gli altri volevano che io fossi, ma chi
desideravo
veramente essere», sorrise fra sé e sé,
prendendo un altro sorso di cioccolata.
Rachel non poté fare altro che guardarlo in silenzio,
pregando di non sembrare
troppo in adorazione. Dopo pochi secondi Finn incrociò il
suo sguardo,
continuando a sorridere e facendo scivolare una mano nella sua.
«Scusa, sto
straparlando», commentò stringendole leggermente
le dita. «Dimmi di te, invece.
Cosa fai a New York?».
«L’attrice
di musical», riuscì a dire
Rachel «Nulla di che, davvero».
Finn
spalancò gli occhi. «Musical?
Cavolo, mio fratello ti invidierebbe. Sai, fa anche lui
l’attore».
«Che
coincidenza».
Finn scosse la
testa con aria sprezzante.
«Coincidenza? Pff, dev’essere destino».
La ragazza
trattenne il respiro,
osservando il suo profilo illuminato dalle luci intermittenti
dell’albero di
Natale. «Forse».
24
dicembre 2017,
Theatre District, New York
«Non
molte persone saprebbero come
abbinare un papillon», commentò Kurt osservando
Blaine al di sopra del menu.
L’altro
ragazzo gli lanciò un’occhiata
divertita, sistemandosi il cravattino attorno al collo.
«Fortunatamente per te
io sono una di quelle poche persone».
Kurt sorrise,
prima che un orribile
dubbio gli sfiorasse la mente. «Non è uno di
quelli già annodati, vero?».
Blaine si
portò una mano al petto, con
un’espressione offesa. «Mi ferisci
nell’orgoglio, Kurt».
Kurt si
rilassò sulla sedia, tornando a
guardare il suo menu. «E poi sostieni di non essere un bravo
attore».
Blaine
sbuffò, alzando gli occhi al
cielo. «Infatti adesso sto solo facendo lo scemo».
Un cameriere si
avvicinò al loro tavolo,
chiedendo se erano pronti per ordinare. Mentre Blaine discuteva della
scelta
del vino, Kurt si diede un’occhiata intorno. Erano seduti uno
di fronte
all’altro nell’angolo più riservato di
un piccolo ristorante a cinque minuti
dall’Ambassador Theatre, dove sarebbero andati a vedere Chicago. Assomigliava troppo ad un
appuntamento, per i suoi gusti –
sarebbe stato felice di uscire con Blaine, in circostanze
più normali, ma
tecnicamente usciva ancora con David e non poteva fare a meno di
sentirsi un
po’ in colpa… “Da
quand’è che la mia vita amorosa è
diventata così
complicata?”.
Dopo aver preso
i loro ordini il
cameriere si volatilizzò, lasciandoli di nuovo soli.
«Allora»,
Blaine si risistemò nella sua
sedia, incrociando lo sguardo con quello di Kurt. «Ho una
domanda che mi
tormenta da due giorni, e devo assolutamente
chiedertelo…».
Kurt
alzò un sopracciglio, con aria
interrogativa. «Dimmi pure».
«Su
una scala da uno a dieci, quanto ti ho
messo a disagio con la conversazione di qualche giorno fa?».
«E io
che credevo che volessi chiedermi
qualcosa di intelligente», commentò Kurt,
sarcastico. Quando Blaine non rispose
lo guardò più attentamente. «Aspetta,
sei serio?».
Il ragazzo aveva
un’espressione vagamente
colpevole. «Io- rispettare gli spazi degli altri non
è esattamente il mio
forte. Quando vedo che qualcuno ha un problema lo voglio aiutare,
capisci? E mi
dimentico totalmente di sciocchezze come la privacy».
Poggiò i gomiti sul
tavolo, chinandosi verso Kurt. «E se non volessi
più vedere la mia faccia ti capirei,
veramente».
«Blaine»,
Kurt si chinò verso i lui, resistendo all’impulso
di poggiare una mano sulle
sue. «Se non volessi più vederti non ti avrei
chiesto di vedere Chicago con me,
ti pare?».
«Quindi
non…?».
«Beh,
magari all’inizio mi hai preso un
po’ in contropiede», ammise il ragazzo.
«Ma mi ha fatto davvero bene. Dio solo
sa quanto avevo bisogno di parlare di questo con qualcuno che volesse
starmi ad
ascoltare…».
Blaine lo
guardò con espressione
sorpresa. «Non ne avevi mai parlato con umh… con
il tuo ragazzo?».
Kurt
aggrottò le sopracciglia. La sola
idea di parlare a David di cose così personali…
«Dave
non è il mio ragazzo. Non abbiamo
mai ufficializzato nulla, senza contare che nessuno sa di noi. Non ha
ancora
fatto coming out perché i suoi amici sono…
umh…».
«Di
strette vedute?», consigliò Blaine.
Kurt fece un
piccolo sorriso. «Prova “idioti”.
Ma parlare con te mi ha fatto rendere conto che non posso continuare ad
accontentarmi di mezzi successi solo perché ho troppa paura
di non riuscire a
farcela».
Si interruppe
vedendo il cameriere che
veniva verso di loro con le loro ordinazioni.
Quando se ne fu
andato Kurt iniziò di
nuovo, scegliendo le parole con cura. «Usciamo insieme da
otto mesi e… mi sto
rendendo conto che è troppo complicato. Abbiamo una lunga
storia alle spalle»,
aggiunse all’occhiata di Blaine. «Complicata
e… dolorosa».
Per un attimo
sembrò che Blaine volesse
chiedere qualcosa, ma poi dovette ripensarci, scuotendo leggermente la
testa e
prendendo in mano la sua forchetta.
Kurt
iniziò a mangiare a sua volta,
decidendo di cambiare discorso.
«Ora
basta parlare di argomenti
deprimenti. Sono felice. Ho realizzato che voglio di più
dalla mia vita, e che
se altri ce l’hanno fatta posso farcela anche io. Mi
trasferirò a New York e
proverò a realizzare i miei sogni, dovessi vivere di ramen
istantaneo e crema
idratante economica per il prossimo anno».
Blaine gli
rivolse un sorriso luminoso.
«Così si parla. Anche se dubito che sia il tuo
caso. Hai già fatto il college e
hai anche esperienza. Dove hai detto che lavori?».
«American
Contemporary Theatre Company»,
disse Kurt con orgoglio. Sapeva che era conosciuta anche fuori
dall’Ohio –
anche se non era esattamente il suo lavoro ideale. «Da quando
mi sono
diplomato».
«Non
male. Danno delle buone referenze?».
«Non
ne ho idea. Un'altra voce da
aggiungere alla lista infinita delle cose da controllare», si
picchiettò il
mento con il manico della forchetta, pensieroso. «Non so
ancora come farò a
trasferirmi senza impazzire. E da solo, tra
l’altro».
«Felice
di sapere che non conto», esclamò
Blaine.
«Non
potrò certo starti attaccato tutto
il tempo Blaine, devi lavorare-».
«E
Mercedes e Tina? Ho sentito che ti
hanno rapito ieri».
«Era
solo un pomeriggio di shopping»,
commentò Kurt, prima di guardarlo con aria sospettosa.
«Non ti avranno
raccontato anche di quello che è successo da Abercrombie,
spero».
Blaine sembrava
confuso. «No? Qualcosa di
interessante?».
Kurt scosse la
testa. «Qualcosa che
rimarrà fra noi tre».
Blaine rise
della sua espressine seria.
«Umh, okay? Parlami di New York, allora. Hai visitato il
Museo Di Storia
Naturale, spero».
Kurt
alzò un sopracciglio. «Per chi mi
hai preso?».
Per il resto
della cena parlarono di
tutti i luoghi che Kurt aveva visto, e di quelli che ancora gli
rimanevano da
vedere. E una volta esaurito l’argomento, continuarono a
parlare. E quando si
sedettero fianco a fianco sulle poltroncine dell’Ambassador
Theatre, e le luci
calarono nella sala, Kurt si accorse con sorpresa che aveva parlato di
più con
Blaine in una serata sola che con Dave in un mese intero.
Scosse la testa.
“Niente pensieri
negativi. Non stasera”.
Scambiò
un ultimo sguardo con Blaine
prima di girarsi verso il palco.
Le note di
apertura di All That Jazz riempirono
improvvisamente
la sala.
“Non
può andare meglio di così”,
pensò
Kurt con un sorriso.
A/N:
Miei cari
lettori, siamo sopravvissuti
alla fine del calendario Maya! (gasp)
Dovrei dire che
il 21 dicembre ho
guardato il film “2012” e me la sono fatta sotto lo
stesso? No?
Okay.
Informazione di
servizio: sto partendo
per andare dai miei parenti e ci starò fino
all’uno dicembre.
Quindi il
prossimo capitolo verrà
pubblicato la sera dell’uno o la mattina del due (ebbene
sì, la connessione a
casa di mia cugina è lentissima. Non esagero).
Nota positiva:
Mi porterò dietro il
portatile e avrò molto tempo per scrivere, yay :)
Grazie ancora a
tutti quelli che mi
lasciano commenti, recensioni e seguono la mia storia!
Buon Natale e
buon anno nuovo a tutti!
Ci risentiamo
nel 2013 ;)
MM
|
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Capitolo 5 *** 25 dicembre ***
25 dicembre 2017,
Upper West Side, New York
Kurt non era
mai stato un amante delle alzatacce.
Era davvero
un mistero perché la gente attorno a lui credesse che fosse
una persona
mattiniera – ma forse il fatto che i suoi capelli fossero
perfetti anche alle
otto di mattina c’entrava qualcosa.
La
verità
era che Kurt odiava svegliarsi. E
ancora di più essere svegliato – specie nelle rare
occasioni in cui si
concedeva di dormire quelle due ore in più…
Fu per
questo che quando la suoneria del suo cellulare lo destò da
un sogno
particolarmente bello la mattina di Natale giurò vendetta
istantanea a chiunque
l’avesse chiamato. Allungò di malavoglia un
braccio fuori dalle coperte e
afferrò il telefono, senza preoccuparsi di controllare chi
fosse.
«Pronto?»,
grugnì con una voce tutt’altro che amichevole.
«Buon
Natale, Kurt!».
«Blaine?».
Oops. Forse
avrebbe dovuto riconsiderare quella faccenda della vendetta
sanguinosa. Si strofinò una mano sugli occhi, cercando di
non sbadigliare – davvero
poco sexy.
«Stavi
dormendo vero?», chiese Blaine in tono divertito.
«È
Natale,
nessuno si alza presto», protestò
l’altro. «E ieri sera siamo tornati
tardissimo».
Affondò
di nuovo sotto il
piumone, sorridendo
suo malgrado. Chicago era stato
stupendo, e Blaine il perfetto gentiluomo – porte aperte,
scorta fino a casa,
gli avrebbe addirittura offerto la cena se non avesse ricevuto una
delle famose
occhiatacce marcate Kurt Hummel prima ancora di provarci.
Peccato che
Kurt continuasse a ricordarsi che stava con Dave – e anche se
le cose fra loro
non erano così serie,
non era
riuscito ad evitare che i sensi di colpa lo tormentassero.
D’altronde
cercare di non flirtare con Blaine era stato frustrante, se non
inutile. Il suo
sorriso e i suoi occhi, e quel viso-
Kurt
soffocò
un gemito di frustrazione nel cuscino mentre ascoltava la risata del
ragazzo
all’altro capo del telefono. «Chissà
perché ti facevo un tipo mattiniero».
«Chissà
perché non sei il primo che si sbaglia»,
borbottò il ragazzo contro il
copriletto.
«In
ogni
caso, ti ho svegliato per sapere cosa farai oggi».
«Mmmh…»,
Kurt aggrottò le sopracciglia. «Credo che mi
limiterò a chiamare mio padre e a
dormire per altre diciannove ore. Non ho molta scelta, i musei sono
chiusi e
gli unici DVD che Rachel sembra possedere sono Twilight
e ogni stagione esistente di Gossip
Girl».
«Ami
New
York e non ti piace Gossip Girl?».
La
voce di Blaine era a dir poco scandalizzata.
L’altro
ragazzo sbuffò. Aveva avuto la stessa
conversazione con Tina qualche giorno fa. «Serena
è una stronza e Nate è lamentoso.
E odio Chuck Bass».
«Un
riassunto ammirevole, ma sono costretto a contraddirti: nessuno odia
Chuck
Bass».
«Io
sì»,
capitolò Kurt, tirando anche le coperte sopra la testa.
«E preferisco Sex and the City,
in ogni caso. I
vestiti sono migliori».
Per un attimo
credette che Blaine si fosse soffocato, a giudicare dai rumori
provenienti
dalla cornetta. «I vestiti- okay, ritorniamo al motivo per
cui ti ho chiamato e
facciamo finta che questa conversazione non sia mai avvenuta,
altrimenti sarò
costretto a non rivolgerti più la parola». Kurt
rise suo malgrado. «Mercedes
sta organizzando un piccolo pranzo di Natale per noi orfani qui a
Soho».
«Orfani?».
«Non
tutti i
ragazzi del cast sono potuti tornare a casa per le vacanze. Le prove
sono
davvero devastanti in questo periodo. Quindi stiamo organizzando un
pranzo di
Natale, e visto che anche tu sei lontano dalla tua famiglia-».
«Siete
stati
molto carini…», lo interruppe Kurt.
«Ma?»,
ribatté Blaine, senza perdere un colpo.
Kurt si
rigirò fra le lenzuola. Uscire con Blaine era un conto
– si erano trovati in
sincronia da subito, dopo i primi dieci secondi di disagio –
e adorava Tina e Mercedes, ma
intromettersi nella festa di Natale di un gruppo di
sconosciuti…
«Non
vorrei
essere di troppo», ammise di malavoglia.
«Kurt»,
disse Blaine con lo stesso tono che lui aveva usato con Finn quando
aveva
dovuto spiegargli per la sesta volta come funzionava il
videoregistratore.
«Mercedes mi ha minacciato di lasciarmi senza dolce se non ti
avessi convinto a
venire. Vuoi davvero farmi
questo?».
Kurt
sentì
un groppo in gola. “Vogliono
che io
ci sia?”. «Potresti decisamente vivere senza una
fetta di pudding», riuscì a
borbottare per tutta risposta.
«Potrei,
ma
sarebbe il Natale più triste della mia vita»,
precisò l’altro. «Andiamo, Kurt.
Non ci sarà solo il cast. Verranno anche alcuni amici,
conoscenti… parenti
stretti che sono in città».
«Io-»,
iniziò Kurt, ancora riluttante.
«Ci
saranno
montagne di cibo», aggiunse Blaine. «E Mercedes ha
un pianoforte, quindi
potremmo suonare e cantare! So a memoria tutte le canzoni di A Christmas Story». Blaine fece
una
pausa, mentre Kurt cercava con tutte le sue forze di trovare una
qualsiasi
scusa. «Per favore».
«Okay»,
capitolò il ragazzo. «Dimmi che metropolitana devo
prendere. E che dolce devo
portare».
25
dicembre 2017, Greater Hilltop, Columbus, Ohio
Rachel
sbatté le palpebre, svegliandosi lentamente.
Davanti agli
occhi aveva una federa rossa – divano? –, un
cuscino con un ricamo a filo d’oro
che le premeva sulla guancia e una coperta di lana che a quanto pareva
era
avvolta attorno al suo corpo. Sospirò e infilò i
piedi gelati sotto il
bracciolo del divano prima di realizzare che non era a casa sua.
Spalancò
di
nuovo gli occhi. “Dio, non sarò finita ancora in
New Jersey”, fu il suo primo
pensiero.
“Oh no, ho sbavato sul cuscino. Di nuovo”, fu il secondo.
Si
girò su
sé stessa, ispezionando la stanza attorno a sé:
un piccolo salotto arredato sui
toni del rosso, un minuscolo albero di Natale nell’angolo e
un grande tappeto
caldo steso sul pavimento.
“Ah
già.
Sono a casa di Finn”.
Sbadigliò,
decisamente più rilassata, e lanciò
un’occhiata assonnata all’orologio sopra al
caminetto: erano le otto e mezza e
aveva
ancora un sacco di tempo per dormire.
Non aveva la
minima idea del perché fosse lì, ma quella era
l’ultima delle sue
preoccupazioni: assonnata, calda e stranamente circondata dal profumo
di Finn
le ci vollero solo pochi minuti per riaddormentarsi.
Si
risvegliò
qualche ora più tardi, mentre una voce gentile sussurrava al
suo orecchio.
«Rachel,
sveglia».
La ragazza
mugugnò. «Lasciami stare, Sugar».
«Come?».
Una
mano si posò leggermente sulla sua spalla. Cercò
di scrollarla via, girandosi
di nuovo.
«Devi
smetterla di entrare nel mio appartamento mentre sto
dormendo», borbottò Rachel
in dormiveglia. Solo pochi secondi dopo si accorse che la voce che le
stava
parlando era troppo profonda per essere femminile, e la mano sulla sua
spalla
era priva di artigli ricoperti di smalto.
Spalancò
gli
occhi, trovando il viso confuso di Finn a pochi centimetri dalla faccia.
«Rachel,
non
ho idea di cosa tu stia parlando».
«Oh…
Io-
buongiorno», balbettò la ragazza sentendo le
guance bruciare dall’imbarazzo.
“Rachel
Berry non arrossisce!”, ricordò con furia al suo
corpo, che però sembrava non
voler collaborare.
«Buongiorno»,
rispose Finn con un mezzo sorriso che le fece venire voglia di
avvolgergli le
braccia al collo e trascinarlo sul divano con lei. Invece si mise a
sedere e si
guardò intorno con aria confusa.
«Potresti
ricordarmi perché sono qui?».
«La
nostra maratona
di The O. C. si è
protratta troppo a
lungo, credo», disse il ragazzo con una smorfia.
«Summer
e
Seth si stavano baciando», annuì lei, ricordandosi
di aver scovato la
collezione di cofanetti di telefilm di Finn la sera prima.
«Non potevo
semplicemente spegnere la
televisione».
Solo quando
Finn rise sonoramente si rese conto di cosa aveva appena detto.
«Oh Dio, siamo
dei malati, non è vero?».
«Credo
di
sì». Finn le diede un colpetto sulla braccio prima
di alzarsi. «La colazione è
pronta e se vogliamo fare in tempo a pranzo dobbiamo iniziare a
prepararci».
«Oh…
già».
La ragazza si stiracchiò prima di alzarsi dal divano e
trascinare con sé la
coperta fino in cucina. «Allora», iniziò
mentre si sedeva, drappeggiando il
plaid attorno a sé. «Chi sono questi tuoi
fantomatici amici da cui mi stai
portando?».
Finn
alzò un
dito mentre versava il caffè con aria particolarmente
concentrata. «Ti ricordi
la bambina bionda
con le trecce, Beth?»,
chiese quando ebbe finito. Rachel annuì. «Sono i
suoi genitori», disse,
passandole una tazza fumante. «Due vecchie conoscenze del
liceo».
«Del
liceo?». Rachel bevve un sorso di caffè e
afferrò un biscotto mentre faceva
alcuni calcoli mentali. «Dovevano essere molto giovani quando
si sono sposati».
Finn
sbuffò
nella sua tazza di caffè.
«Puoi
dirlo
forte! Ma non è la mia storia da raccontare. Inoltre
dovremmo sbrigarci se
vogliamo arrivare in orario. Sono già le
undici…».
Rachel
finì
il suo caffè in un paio di sorsi. «Dovremmo anche
passare a casa di Kurt – devo
assolutamente cambiarmi. Non posso uscire
indossando…». Si fermò un attimo per
ispezionare i vestiti che aveva addosso. “Pigiama a righe?
Maglietta
dell’OSU?”.
«Questi
non
sono i miei vestiti», commentò inutilmente.
«Sono
miei-
beh, in realtà i pantaloni sono di Kurt. Quando hai iniziato
ad addormentarti
sul divano ho pensato che dormire nei tuoi vestiti sarebbe stato
scomodo e…».
ci fu qualche momento di silenzio, e Rachel sospirò fra
sé e sé.
«Senti,
lo
so che mi hai vista nuda e io ti ho visto nudo,
ma…». “Avanti. Chiediglielo e
basta”.
«Hai
dovuto
spogliarmi per mettermi questi vestiti?», chiese tutto
d’un fiato.
«No!»,
esclamò Finn, le guance rosso fuoco ed
un’espressione offesa. «Mi sono girato,
e tu stavi praticamente dormendo e- non lo farei mai».
«Oh…
okay»,
borbottò Rachel, guardando in cagnesco i fondi del suo
caffè.
“Ma
chi
prendo in giro? È un gentleman”. Si
schiarì la voce prima di parlare di nuovo.
«In ogni caso, non credo riusciremmo mai ad essere puntuali
quindi spero che i
tuoi amici ci perdonino il ritardo».
Si
alzò,
mettendosi le mani sui fianchi e squadrando il ragazzo.
«Oh ci
perdoneranno, vedrai», commentò Finn, alzandosi a
sua volta. Poi sorrise.
«Sempre che tu riesca a insegnarmi come fare un qualsiasi
dolce in cinque
minuti».
«Siamo
completamente fregati, allora», sorrise Rachel, prendendolo
sottobraccio. «Sono
una totale inetta in cucina».
25
dicembre 2017, Soho, New York
Kurt
arrivò
davanti alla porta dell’appartamento 22b, soddisfatto di aver
trovato la strada
da solo – se si sarebbe davvero trasferito a New York doveva
iniziare ad
orientarsi nella città. Anche se a dir la verità
non avrebbe fatto fatica a
trovare l’appartamento di Mercedes: il chiasso proveniente
dall’interno si
riusciva a sentire fin dalla strada – un misto di risate,
voci confuse e
musica.
Il ragazzo
bussò alla porta, bilanciando l’enorme vassoio di
brownies su un braccio solo,
mentre mandava un ringraziamento a Martha Stewart per aver pubblicato
quel
libro di ricette in cinque minuti.
«Kurt!»,
Mercedes gli aprì la porta, con un sorriso abbagliante
– letteralmente.
«Wow»,
commentò sbattendo le palpebre per accertarsi che quello che
la ragazza aveva
addosso fosse un vestito di lustrini e non fili di luci intermittenti.
«Sei…
stupenda, Mercedes. Buon Natale».
La ragazza
lo avvolse in un abbraccio, prima di spingerlo dentro casa.
«Buon Natale anche
a te, dolcezza». Sistemò il cappotto di Kurt su un
attaccapanni e gli tolse di
mano il vassoio di dolci prima di prenderlo sottobraccio e guidarlo
verso il
salotto – a quanto pareva la fonte di tutto quel baccano.
«Blaine mi ha detto
che non volevi venire», iniziò con tono
minaccioso. «Sono quasi tentata di
lasciarti senza dolce».
«È
una
minaccia che usi spesso?», chiese il ragazzo, sinceramente
incuriosito.
Mercedes
alzò un sopracciglio e scosse la testa. «Tesoro,
non hai nemmeno idea. Faccio
dei tartufi al cioccolato che sono la fine del mondo, quindi
sì, ovviamente».
Il ragazzo
le diede qualche colpetto sulla mano, sospirando. «Non hai
ancora assaggiato i
miei brownies, evidentemente».
Mercedes
rise, facendogli l’occhiolino. «Vieni, ti presento
il resto della ciurma».
Sorpassarono
un grande arco decorato con ciuffetti di vischio ed entrarono in un
salotto
dipinto di rosso e decisamente stipato di persone. Mercedes lo
trasportò
immediatamente verso un ragazzo biondo.
«Questo
è il
mio ragazzo, Sam».
Kurt fece
per stringergli la mano, quando il ragazzo gliela afferrò,
stringendola con
forza e guardandolo con espressione addolorata.
«Non
volare
via».
Kurt
ritirò
velocemente la mano, guardandolo con aria confusa.
«Io… cosa?».
«Sta
studiando per diventare doppiatore. Ignoralo»,
sbuffò Mercedes trascinandolo
via. Kurt si girò verso il ragazzo, ricevendo una risatina
ed un cenno di
scuse.
«È
strano, Mercedes».
La ragazza
scosse la testa ma sorrise con affetto. «Fa così
in continuazione. Ma è un
ragazzo d’oro, credimi». Lo accompagnò
verso un grande tavolo disposto lungo la
parete della stanza, dove due ragazze stavano apparecchiando per il
pranzo.
«Loro sono Judy e Margaret, le mie sorelline».
Il ragazzo
ebbe appena il tempo di fare un cenno di saluto che fu nuovamente
trascinato
via, questa volta verso un divano sovraffollato.
«Loro
li
conosci già», Mercedes sventolò la mano
verso Tina, Artie e Mike. «Lei invece è
Sugar, la manager di Rachel», indicò una ragazza
mora con un gran sorriso. «E
il suo ragazzo, Rory – è irlandese ma si rifiuta
di portare la birra. È per
questo che rimarrà senza dolce».
Il ragazzo
con i capelli rossi seduto vicino a Sugar mise il broncio.
«Andiamo Mercedes ne
abbiamo già parlato», si lamentò con un
accento cantilenante. «Farsi spedire
dieci casse di birra dai propri genitori è-».
«Non
sto
nemmeno ad ascoltarti, piccolo lepricauno egoista». Mercedes
si girò di scatto,
trascinando Kurt con lei, dirigendosi verso il vecchio pianoforte a
mezza coda
sistemato davanti al divano.
«E
Blaine
ovviamente, che sta abusando delle nostre orecchie».
Blaine
alzò
lo sguardo dalla sua postazione sullo sgabello del pianoforte,
sorridendo
quando incrociò lo sguardo di Kurt. «Ciao,
straniero».
Il ragazzo
sorrise di rimando, sperando che Mercedes non lo trascinasse di nuovo
via. Gli
occhiali di Blaine erano ritornati e sì, gli piacevano
davvero molto.
«Buongiorno».
Mercedes
mollò il braccio di Kurt e batté le mani,
sospirando. «Bene, siamo tutti qui,
mi pare». Lanciò un’occhiata attorno
alla stanza. «Manca solo Cooper. Blaine-».
«Dovrebbe
essere qui a momenti», la precedette il ragazzo lanciando
un’occhiata distratta
all’orologio. «Il volo da Los Angeles è
partito in ritardo».
«Chi
è
Coo-». L’ovvia domanda di Kurt fu interrotta da
qualcuno che bussava alla
porta.
«Parli
del
diavolo», borbottò Mercedes correndo verso
l’entrata. Pochi secondi dopo uno
degli uomini più belli che Kurt avesse mai visto si
catapultò nel soggiorno,
senza degnare nessuno di uno sguardo e correndo ad abbracciare Blaine.
«Blainey!».
L’uomo strofinò la guancia contro i riccioli del
ragazzo, mentre questo cercava
senza successo di sfuggire alla sua stretta.
«Coop,
sto
soffoca-». L’uomo si staccò e gli
affibbiò un sonoro bacio sulla guancia.
«Buon
Natale, piccoletto». Si girò verso il resto della
compagnia, sorridendo e
sventolando la mano. «Sono Cooper, il fratello di Blaine, se
non l’aveste
capito. Le presentazioni dopo che avrò stritolato il mio
fratellino».
«Non
credo
proprio», commentò Blaine. «Non ti ho
insegnato le buone maniere?».
«Oh,
okay,
nonnino». Cooper diede un ultima scompigliata ai capelli del
fratello prima di
girarsi verso la persona più vicina – Kurt, che
sussultò.
«Piacere
di
conoscerti…», alzò un sopracciglio con
aria sorpresa. «Kurt? Sei tu Kurt vero?
Ehi Blaine, è lui?».
Blaine
borbottò qualcosa mentre si affaccendava a pulire le lenti
degli occhiali, la
testa chinata verso terra. Cooper ridacchiò prima di girarsi
di nuovo verso il
ragazzo.
«Cooper,
fratello maggiore di Blaine, e in quanto tale mi sento autorizzato a
raccontarti una quantità vergognosa di storie imbarazzanti
su di lui. Buon
Natale!».
Per la prima
volta da quando Cooper era entrato nella stanza Kurt sorrise.
«Penso
lo
sarà davvero».
25
dicembre 2017, Clintonville, Columbus, Ohio
«Finn,
era
davvero buonissimo, ma mi rifiuto di credere che l’abbia
preparato tu».
Rachel
cercò
disperatamente di non ridere. Ci avevano provato, ci avevano provato davvero a cucinare un dolce che fosse
anche solo vagamente commestibile. Ma dopo due tentativi miseramente
bruciati
erano stati costretti ad ammettere la loro sconfitta.
Finn aveva
trovato nei meandri del freezer dei brownies che Kurt aveva preparato
la
settimana prima e li avevano scongelati, sperando di poter dare a bere
che
fossero opera loro.
Ma la fama
di Finn come cuoco sembrava averli preceduti.
La ragazza
distolse lo sguardo mentre Finn arrossiva vivacemente sotto lo sguardo
della
madre di Beth.
«Smettila
di
prendermi in giro, Quinn!», esclamò.
«Non sono più il ragazzino imbranato del
liceo, sai?».
Quinn lo
guardo, mettendosi una mano su un fianco. «Oh, allora non
è vera quella storia
che mia figlia mi ha raccontato, di quando hai sostituito la maestra di
economia domestica?».
Incrociò
lo
sguardo incuriosito di Rachel e le lanciò un sorriso,
portando una mano accanto
alla bocca.
«Ha
incendiato la cucina», disse in un sussurro perfettamente
udibile.
Finn aveva
le guance in fiamme. «Ho bruciato solo
un canovaccio!».
«Ehi,
che
succede qui?». Il marito di Quinn, un ragazzo alto quasi
quanto Finn e con
muscoli pronunciati entrò nella stanza, lanciando
un’occhiataccia all’altro
ragazzo. «Smettila di urlare, Hudson. La mia bambina sta
dormendo».
«È
la tua
signora che ha iniziato».
«Non
provare
ad incolpare la mia donna». Quinn cercò senza
successo di trattenere una risata
mentre il marito le passava un braccio sulla spalle e la tirava a
sé.
«Buono,
Noah». Il ragazzo si chinò a darle un bacio sulla
guancia, e Rachel li fissò
incantata.
Non avrebbe
mai immaginato che due persone così poco simili potessero
stare insieme – lei
sembrava la figlia di una first lady e lui la versione moderna di
Bernardo da West Side Story.
«Ho
bisogno
di una sigaretta», annunciò Quinn liberandosi
dall’abbraccio del marito e
recuperando il suo cappotto da un attaccapanni. «Rachel ti va
di
accompagnarmi?».
«Certo».
Rachel si infilò velocemente il giubbotto e seguì
Quinn sulla veranda adiacente
alla cucina. Cercò di osservare il paesaggio coperto di neve
ma il suo sguardo
continuava a tornare sulla ragazza di fianco a lei. Quinn accese la
sigaretta e
diede un tiro, prima di accorgersi di essere osservata.
«Che
c’è?»,
chiese con uno sguardo divertito.
«Nulla,
solo
che-», Rachel si schiarì la voce. Era
letteralmente la prima volta in anni che
si sentiva messa in soggezione. «Non… sembri la
tipa che fuma».
Quinn
alzò
le spalle. «Ne prendo solo un pacchetto al mese, e sono al
mentolo. È una
brutta abitudine che mi sono portata dietro dal liceo». Fece
un altro tiro prima
di porgere il pacchetto verso Rachel. «Ne vuoi
una?».
La ragazza
scosse la testa. «No, non posso davvero…
i miei polmoni sono fondamentali per la mia
carriera».
L’altra
rimise il pacchetto dentro la tasca del cappotto, prima di appoggiare
la
schiena alla parete, guardando Rachel con vivo interesse.
«Allora…»,
iniziò, lanciandole un sorrisetto. «Tu e
Finn».
Rachel
sentì
un calore ormai familiare invaderle il viso. «Io
e…?».
Lanciò
uno
sguardo alla porta finestra, domandandosi se ce l’avrebbe
fatta a rientrare
abbastanza in fretta da sfuggire a quella conversazione.
L’altra ragazza inarcò
un sopracciglio prima di spostarsi rapidamente, appoggiando la schiena
contro
la porta e bloccandole ogni via d’uscita.
«Non
provarci nemmeno! Andiamo, si vede lontano un miglio che siete cotti
come due
pere».
«Tu..
dici?». Il cuore di Rachel fece una capriola nel petto quando
Quinn annuì con
aria sicura.
«Lo
conosco
da una vita, e quando ti guarda ha quella sua espressione da cucciolo
innamorato.
E tu ragazza mia sei piuttosto evidente, lasciatelo dire».
Rachel
abbassò lo sguardo, resistendo all’impulso di
coprirsi il viso con le mani. «È
un ragazzo davvero stupendo», ammise. «Ma non credo
che le cose potrebbero
funzionare», dire quella frase le costò uno sforzo
quasi fisico.
“Forse
se le
cose fossero state normali saremmo potuti stare insieme”.
Quinn
aspirò
una lunga boccata di fumo prima di parlare di nuovo. «Lascia
che ti dica una
cosa, Rachel». Getto via la sigaretta, lanciandola in mezzo
alla neve, e si
avvicinò di più alla ragazza.
«Beth?
Sono
rimasta incinta di lei al secondo anno di liceo. Stavo con Finn
all’epoca, ma
l’avevo tradito… con Noah, mio marito».
Rachel si trattenne a stento
dall’emettere un verso di sorpresa.
«L’ho
ingannato, facendogli credere che la bambina fosse sua. Non vado fiera
di come
mi sono comportata, ma ero giovane e disperata, e la mia famiglia non
mi ha mai
supportato durante la gravidanza», scosse la testa, come per
scacciare un
brutto ricordo, per poi continuare. «Quando ha scoperto che
l’avevo ingannato,
Finn non mi ha rivolto la parola per due settimane. Passate quelle,
è sempre
stato disponibile per me. Mi ha aiutato al limite delle sue
possibilità».
Rachel
sorrise. Sì, sembrava decisamente una cosa che Finn avrebbe
fatto.
«Se
c’è una
cosa che ho imparato di Finn è che è la persona
più generosa del mondo. Ama chi
lo accetta per quel che è, chi non gli pone limiti
né restrizioni. Andrebbe in
capo al mondo per una ragazza come te». Quinn posò
una mano sulla spalla di
Rachel, incrociando il suo sguardo. Sorrideva.
«Devi
solo
dargliene la possibilità».
25
dicembre 2017, Soho, New York
«Non
sono
mai stato così pieno in vita mia»,
annunciò Kurt passandosi una mano sullo
stomaco.
«È
l’effetto
dei pranzi di Mercedes», commentò Tina,
stiracchiandosi sulla sua sedia. «Tra
dieci minuti starai dormendo sul divano, sempre che tu riesca ad
accaparrartelo
prima degli altri». Si girò per controllare.
«Troppo tardi credo».
Kurt
osservò
Cooper e Blaine, seduti l’uno accanto all’altro sul
divano, il braccio del più
grande attorno alle spalle del più piccolo, le teste vicine
e assorti in una
conversazione.
Dal poco che
sapeva i due dovevano essere molto legati.
“D’altronde
hanno vissuto insieme da quando lui aveva diciassette anni”,
pensò mestamente.
“Un po’ come me e Finn”. Una fitta di
nostalgia gli attraversò il petto. Si
scusò rapidamente con Tina e uscì dal soggiorno,
cercando una stanza dove non
avrebbe disturbato nessuno.
Si
infilò
nel minuscolo bagno e digitò velocemente il numero di suo
padre. Fece una
smorfia quando gli rispose ancora una volta la segreteria telefonica.
Aveva
lasciato un messaggio con gli auguri di buon Natale quella mattina, ma
avrebbe
voluto parlargli normalmente. Gli mancava la sua voce.
Uscì
dal
bagno riavviandosi i capelli, solo per scontrarsi contro qualcuno in
corridoio.
«Oh,
scu-».
Si
bloccò a
metà della frase. In mezzo al corridoio, stretti
l’uno all’altra e con
l’espressione inequivocabile di chi è stato preso
nel sacco c’erano Mike e
Tina.
«Oh»,
disse
solo Kurt, cercando di non morire dall’imbarazzo.
«Scusatemi, io… penso
tornerò…». Fece un cenno verso il
salotto, scappando via dal corridoio il più
in fretta possibile.
“Allora
avevano davvero una tresca. Devo assolutamente dirlo a-”.
Tutti i
pensieri riguardanti Mike e Tina svanirono all’istante quando
la voce soffice
di Blaine iniziò a cantare nel silenzio
dell’appartamento, accompagnata solo
dal suono leggero del pianoforte.
«Have yourself a merry little
Christmas… let your heart be light».
Kurt si
avvicinò alla porta del soggiorno, osservando la scena.
Blaine era
dietro al pianoforte, gli occhiali dimenticati sul leggio al posto
degli
sparti. Mercedes lo stava filmando con il suo iPhone, un sorriso enorme
sulle
labbra e Sam addormentato sulla sua spalla. Sugar e Rory dividevano una
poltrona accoccolati l’uno sull’altro. Cooper stava
mangiando l’ennesima fetta
di dolce.
«Faithful friends who are dear to
us, gathered near to us… once more».
Si
appoggiò
allo stipite della porta, osservandoli. Non sembravano degli orfani.
Sembravano
una famiglia. “Potrei davvero vivere qui”,
pensò Kurt mentre una sensazione di
calore gli stringeva il petto. “Affezionarmi a queste
persone”. Lo sguardo gli
scivolò su Blaine.
«Through the years we all will be
together, if the Fates allow…».
“Amare
queste
persone”.
Blaine
finì
con un arpeggio e tutti applaudirono vivacemente, svegliando Sam di
soprassalto.
«Un’altra»,
chiese Sugar buttando le braccia al collo di Rory.
«Oh
no,
basta, ci siamo stufati di sentirlo», scherzò
Mercedes.
Il ragazzo
alzò gli occhi su di lei, accorgendosi di essere filmato.
«Sciocchezze, solo i
barbari si stancano della mia voce». Fece un piccolo saluto
verso il cellulare.
«Ma se qualcuno mi concedesse l’onore potrei
cantare qualcosa di più
interessante…», continuò, adocchiando
Kurt. Tutti seguirono la direzione del
suo sguardo e il ragazzo fu sicuro di essere arrossito.
«Non
credo
sia il caso-».
«Perché
no?», lo interruppe Sam. «Non hai frequentato una
scuola di musical all’OSU?».
Kurt
lanciò
un’occhiataccia a Blaine, che alzò le mani in
segno di resa. «Non una parola».
«Sono
stato
io», esclamò Cooper con la bocca piena di
cioccolato. «Ti ho googlato».
Kurt non
ebbe nemmeno il tempo di protestare che Sugar rincarò la
dose. «Avanti Kurt,
non puoi essere peggio di Mike!».
Rory si
guardò intorno con aria confusa. «A proposito di
Mike dove- ahi!». Si massaggiò
il fianco, dove il gomito appuntito della sua ragazza l’aveva
colpito.
«Per
favore?», chiese Blaine.
Il ragazzo
sospirò. «Okay», acconsentì,
avvicinandosi al pianoforte.
«Ma
tuo
fratello è inquietante», commentò
mentre si sedeva sullo sgabello di fianco a
Blaine.
«Ignoralo,
e
canta con me».
Il ragazzo
stava per chiedere cosa volesse suonare quando Blaine iniziò
a suonare le
battute di apertura di uno dei suoi duetti preferiti in assoluto.
Sorrise,
mentre Blaine gli faceva un cenno con la testa, invitandolo ad iniziare.
«I really can’t stay…».
«But baby, it’s cold outside!».
25
dicembre 2017, Greater Hilltop, Columbus, Ohio
«È
stato il
miglior Natale che abbia mai avuto da molto tempo»,
annunciò Rachel sopra al
ronzio della radio.
Finn
sorrise, continuando a tenere gli occhi sulla strada. «Sono
felice di
sentirtelo dire».
Rimasero in
silenzio per qualche minuto, ascoltando distrattamente la musica
proveniente
dall’autoradio.
«Sai,
a
volte New York è così…
caotica», disse Rachel dopo qualche secondo. «So
che
sono fortunata ad avere la vita che ho sempre sognato, ma…
è sbagliato
desiderare un po’ di calma per sé stessi, una
volta ogni tanto?».
Finn
annuì,
senza distogliere gli occhi dalla strada. «Ti capisco. Anche
la vita di
un’insegnante dell’Ohio è impegnativa,
se puoi crederci», disse, con un mezzo
sorriso. «Ore trascorse a preparare le lezioni, i colloqui
con i genitori… e
non hai idea di quanto sia difficile calmare quelle piccole
pesti». Dopo averci
passato insieme appena mezz’ora Rachel non esitava a
credergli.
«Secondo
me», continuò Finn, in tono più
pensieroso. «L’importante è avere un
qualcosa…
una persona, un luogo… a cui aggrapparsi per mantenere la
propria sanità mentale.
Qualcosa che rimarrà sempre lì, qualcosa a cui
stringersi quando tutto il resto
del mondo impazzisce e tu non sai cosa fare».
La ragazza
aggrottò le sopracciglia. «Intendi dire come
un’ancora?».
«Esatto».
Ci fu una
pausa, mentre la luce gialla dei lampioni sfilava rapida su entrambi i
ragazzi.
«E
qual è il
tuo?», chiese infine Rachel.
«La
mia
casa. Mia madre. Anche i miei stupidi cofanetti di telefilm»,
rise il ragazzo.
«E le persone con cui posso essere semplicemente me
stesso… con cui mi sento al
sicuro».
Restarono in
silenzio finché non arrivarono davanti a casa di Kurt.
Rachel sussultò quando
Finn uscì dalla macchina per aprirle la porta e
accompagnarla fino alla soglia.
La ragazza
tirò fuori le chiavi ed aprì la porta. Si
girò sulla soglia, sorridendo suo
malgrado.
«Mi
è
piaciuto molto passare del tempo con te oggi».
«Anche
a
me».
«Potremmo…
potremmo farlo di nuovo, se ti va. Ma stavolta solo io e te».
Finn
sorrise, abbassando lo sguardo. «Mi piacerebbe
moltissimo».
Si
chinò
verso di lei, e Rachel per un momento pensò che
l’avrebbe baciata. Ma Finn si
limitò soltanto a rivolgerle uno dei suoi mezzi sorrisi,
passandole una mano
sulla spalla.
«Ci
vediamo
domani sera».
A/N:
Ed eccoci di
nuovo qua, con questo capitolo chilometrico :)
Vi consiglio
di prepararvi perché dal prossimo le cose inizieranno a
farsi serie ;)
Intanto vi
auguro un buon 2013 e vi ringrazio per tutte le vostre recensioni!!!
MM
PS: Natale è
passato ormai, ma se qualcuno volesse ascoltare la versione di Have
Yourself A
Merry Little Christmas che canta Blaine… ecco il link
:)
|
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Capitolo 6 *** 26 dicembre - 27 dicembre ***
26
dicembre 2017, Columbus, Ohio
«Questo
posto è adorabile», commentò Rachel
guardandosi attorno. «Oh… grazie»,
aggiunse
con un sorriso quando Finn spostò la sedia per farla
accomodare.
«Non
c’è di
che».
La ragazza
sistemò il tovagliolo in grembo, guardando il ragazzo di
sottecchi e cercando
di non aggrottare le sopracciglia all’abbinamento di camicia
e pantaloni. Se
quello fosse stato un appuntamento normale – o ancora peggio,
se fosse uscita
con Jessie – avrebbe sparato a zero, ma doveva ammettere che
quella sera non le
importava più di tanto. Nessuno dei ragazzi con cui era
uscita era stato carino
o dolce come Finn Hudson, poco ma sicuro.
«Allora».
Finn
sollevò lo sguardo dal menu al suono della voce di Rachel.
«Sto ancora
aspettando di sentire la storia della cucina incendiata».
Il ragazzo
gemette, chiudendo gli occhi. «Ti prego, non mettertici anche
tu. Sono anni che
Quinn mi prende in giro con questa storia e come ho detto ieri,
è stata solo
una presina».
Rachel
alzò
un sopracciglio. «Veramente avevi detto un
canovaccio».
Finn
arrossì
vivacemente. «E va bene, magari ho bruciato un canovaccio,
una presina e
qualche altra suppellettile, okay?». La ragazza si
limitò a ridere, cercando di
nascondersi dietro il proprio menu. «Spero che Quinn non ti
abbia raccontato
storie più imbarazzanti di questa, altrimenti questa serata
non andrà nella
direzione che speravo», commentò
l’altro, una punta di preoccupazione nella
voce.
«Nessuna,
davvero», gli assicurò Rachel. «A
parte…». Si bloccò a metà
della frase, chiedendosi
se avrebbe dovuto dirglielo. In fondo era successo parecchi anni fa,
quando
erano al liceo…
«A
parte
cosa?».
Furono
interrotti dall’arrivo del cameriere che posò una
bottiglia di vino sul tavolo e
chiese le loro ordinazioni. Rachel si limitò a ordinare il
primo piatto sul
listino – sapeva già che non avrebbe prestato la
minima attenzione al cibo,
quella sera.
Una volta
che il cameriere si fu allontanato Finn la guardò alzando un
sopracciglio.
«Allora?».
«Beh,
mi ha
detto che voi due stavate insieme quando eravate al liceo»,
disse Rachel tutto
d’un fiato.
«Oh».
Finn
si rilassò sullo schienale della sua sedia, sorridendo.
«Credevo fosse qualcosa
di peggio. Sì, siamo durati la bellezza di quattro mesi
prima del disastro
della gravidanza. Immagino ti abbia raccontato anche quello».
«In…
in
parte», borbottò Rachel, agitandosi sulla sua
sedia.
«Ehi»,
il
ragazzo si sporse vero di lei, posando una mano sulla sua.
«Non devi farti
problemi a parlare con me, okay? Abbiamo discusso i pregi e i difetti
di Edward
Cullen, ricordi?».
Rachel
scoppiò a ridere suo malgrado. «Una delle migliori
discussioni che abbia mai
avuto in tutta la mia vita».
Finn
sorrise, allontanandosi e lasciando andare la sua mano. «Vuoi
sapere com’è
andata?».
«Io-»,
esitò
Rachel.
«Sì,
sono
completamente a mio agio con questo discorso», la interruppe
lui con aria
divertita.
Rachel rise
di nuovo. «Credo soccomberò alla spinta della mia
curiosità, allora», capitolò
con una scrollata di spalle. «Prego»,
continuò, versandogli una generosa
quantità di vino.
«Ci
siamo
messi insieme all’inizio dell’estate fra la prima e
la seconda liceo. Io ero il
quarterback della squadra di football e lei il capo delle
cheerleader». Rachel
sbuffò mentre versava del vino anche nel proprio bicchiere.
«Ehi, eravamo
praticamente una coppia obbligata!», protestò
Finn. «E tu non avevi smesso di
bere?».
«Mi
serve un
bicchiere per affrontare questa conversazione. Ma continua».
«Quinn
era
anche la presidentessa del club della castità –
sì, ridi pure», disse quando
Rachel quasi soffocò nel disperato tentativo di contenersi.
«Scommetto che non
c’erano club della castità nei licei di New
York».
«Solo
gruppi
LGBT», rispose lei con un gran sorriso.
«Comunque,
era tutto molto innocente fra di noi», ricominciò
Finn. «Facevamo passeggiate
nel parco, uscivamo a cena e andavamo al luna park mano nella mano. Ma,
emh… io
ero un adolescente e…».
«Non
riuscivi
a toglierle le mani di dosso», concluse Rachel con un ghigno.
«Comprensibile.
Doveva essere la ragazza più carina della scuola, a
giudicare dallo schianto di
donna che è ora».
«Era
stupenda. Ed io ero molto molto ignorante in materia di sesso, e
così quando
lei mi disse di aspettare un bambino e attribuì la colpa
alla nostra pomiciata
nell’idromassaggio dei suoi…», Finn
esitò, bevendo un sorso di vino mentre
Rachel cercava di non ridere per l’ennesima volta.
«Non
dirmi
che ci hai creduto!».
Finn
sbuffò,
un’espressione a metà fra il divertito e
l’imbarazzato. «Ehi, aveva detto che
l’acqua calda favoriva la diffusione degli spermatozoi
e-».
Fu costretto
a bloccarsi, adocchiando il cameriere che ritornava al loro tavolo. Le
spalle
di Rachel tremavano dallo sforzo di reprimere le risate.
Tirò le gambe sotto la
sedia quando Finn provò a darle un calcetto che scosse tutto
il tavolo. Il
cameriere gli lanciò un’occhiata stranita prima di
dileguarsi.
«Non
è
divertente», borbottò Finn mentre Rachel lasciava
andare una risata
liberatoria.
«Hai
ragione, scusa, scusami».
Afferrò
la forchetta
e cercò disperatamente di concentrarsi sul cibo. Dopo il
primo morso lanciò un’occhiata
curiosa al suo piatto. “Salmone ai ferri? Che diavolo di
ristorante mette i
secondi sulla prima pagina del menu?”.
Le
sfuggì
quasi il borbottio di Finn. «Scommetto che a te non
è mai capitato, vero?».
«Come?».
«Insomma…»,
Finn giocherellò con uno dei ravioli nel suo piatto.
«New York è una città
molto più… aperta
di Lima, Ohio.
Scommetto che tu eri già molto esperta da-». Si
bloccò immediatamente quando
realizzò quello che aveva appena detto. «Non-non
intendevo in quel senso! Intendevo
in… teoria. Oh,
Dio», si lasciò andare contro lo schienale della
sedia, mentre Rachel si
sforzava di non scoppiare a ridere di
nuovo.
«Guardarti
mentre cerchi di salvarti la faccia sta diventando la parte migliore
delle
nostre serate», commentò mentre Finn si copriva il
viso con una mano.
«Ti
prego
dimmi che non ho detto quello che ho appena detto»,
mormorò con aria
mortificata.
«Vuoi
che
dimentichi la tua allusione che al liceo fossi una facile-».
«Rachel». Finn
sprofondò nella sua sedia
mentre gli altri avventori lanciavano delle occhiate stranite nella
loro
direzione.
«È
più forte
di me», sghignazzò la ragazza con aria divertita,
prima di darsi un contegno.
«E comunque no, i miei papà mi hanno fatto
“il discorso” quando avevo dieci
anni. Ero precoce… e non in quel senso»,
scherzò mentre il rossore divampava
sulle guance di Finn.
«Ti
manderei
a quel paese, ma sei una signora».
«Il
mio
cavaliere», scherzò lei facendogli
l’occhiolino.
Lo
osservò
mentre abbassava lo sguardo e iniziava a mangiare. Non era bello come
Jessie, o
muscoloso come i ballerini di Broadway che erano spesso finiti nel suo
letto.
Ma era diverso da qualunque ragazzo avesse mai conosciuto.
Andrebbe
in capo al mondo per una come te. Devi solo dargliene la
possibilità.
Fece un
respiro profondo prima di iniziare di nuovo a parlare. «In
ogni caso, l’essere
precoce non mi ha impedito di finire in situazioni…
umh…», esitò, incerta su
come finire la frase.
«Cosa
intendi
dire?».
«Credevo
di
essere rimasta incinta di Jessie… il mio- il mio
ex», precisò – avevano già
parlato di lui, ma non gli aveva mai detto il suo nome.
«Oh».
Rimasero in silenzio per qualche secondo, evitando lo sguardo
l’uno dell’altra.
«E
questa… non
era una buona cosa?», chiese Finn in tono esitante.
«Mi pareva di aver capito
che eravate insieme da molto».
Rachel
sbuffò, scuotendo la testa. «No, assolutamente
no».
Giocherellò
con un pezzo del salmone nel suo piatto, cercando le parole adatte per
spiegargli
tutto ciò che aveva pensato, seduta da sola nel suo bagno
con un test di
gravidanza in mano. «Jessie non è il tipo di
persona che avrei visto al mio
fianco, né tanto meno come padre dei miei figli. Mi ci
è voluto molto per
capirlo ma l’unica cosa che ci teneva legati era il sesso. E
questa non è il
tipo di relazione che cerco con un uomo».
«Ma
tutte le
volte che me ne hai parlato mi hai sempre detto che eravate molto
simili».
«Lo
siamo»,
rispose lei. «È ambizioso, e
determinato… ma non mi ha mai fatta sentire… sicura. Non era la mia ancora».
Si
scambiarono un sorriso quando Rachel menzionò la
conversazione della sera
prima. «No, il mio tipo ideale è una persona
più gentile. Sensibile. Come te»,
azzardò
incrociando il suo sguardo.
Mentre Finn
abbassava gli occhi, sorridendo verso il proprio piatto, Rachel
sentì che la
serata sarebbe decisamente andata nella direzione che lui sperava. Che
speravano entrambi.
27
dicembre 2017, Upper West Side, New York
Kurt si
infilò i pantaloni del pigiama con un sospiro di
soddisfazione.
Non lo
avrebbe ammesso ad anima viva, ma i jeans che aveva comprato assieme a
Tina e a
Mercedes erano una vera tortura
– i
commenti delle ragazze sul suo sedere tuttavia erano stati
più che positivi,
quindi aveva deciso di prenderli… anche se non aveva nessuno
su cui fare colpo,
a New York, si ricordò cocciutamente. Nessuno.
Si
accoccolò
sul divano, recuperando il suo iPhone. Ormai aveva preso la sua
decisione: in
primavera avrebbe lasciato Columbus e si sarebbe trasferito a New York.
Sapeva
ci sarebbe voluto almeno un mese per organizzare il trasloco, ma dare
un’occhiata in anticipo agli appartamenti non poteva far
male, giusto?
“Avrei
dovuto portare il pc”, si disse con un sospiro mentre Google
si caricava sul
minuscolo schermo del suo cellulare. Avviò una ricerca su
Apartments.com mentre
rimuginava fra sé e sé.
«Un
quartiere che sia abbastanza vicino a Broadway ma meno costoso
dell’Upper West
Side… magari Yorkville. Forse dovrei chiedere a-».
Nemmeno a
farlo apposta, sullo schermo iniziò a lampeggiare una foto
di Blaine – una
smorfia assurda, occhiali e ricci scompigliati – mentre il
cellulare squillava.
«Ehi
Blaine», esclamò Kurt nella cornetta.
«Ti volevo giusto chiedere-».
«Kurt!».
Anche attraverso il telefono Kurt riuscì a sentire il tono
eccitato del ragazzo.
«Che
succede?».
«Ho
delle
notizie fantastiche! Devi dirmi subito dove sei, così ti
raggiungo e
festeggiamo insieme!».
«Hai
fatto
overdose di zucchero per caso? Lo sapevo che non dovevo lasciarti il
resto dei
brownies…».
«Ignorerò
il
tuo commento e ripeterò la mia domanda. Dove sei?».
«A
casa di
Rachel. Ma vuoi spiegarmi che succede?».
«No no
no
Kurt, non posso dirtelo al telefono. Rovinerebbe la sorpresa e,
soprattutto,
non potrei vedere la tua faccia».
Il ragazzo
sospirò. «Blaine».
«Sì?».
«Hai
cinque
anni?».
Dall’altro
capo del telefono arrivò una risata. «Per favore,
cinque e mezzo. Resta dove
sei, ti raggiungerò fra mezz’ora.
Perché l’Upper West Side dev’essere
così
lontano?».
Riattaccò
il
telefono prima che Kurt potesse dire qualcos’altro.
Il ragazzo
sbuffò dando una rapida occhiata al salotto –
presentabile. Lo stessa cosa purtroppo
non si poteva dire di sé stesso, pensò amaramente
mentre si sottraeva al calore
del divano per andarsi a dare una sistemata.
Aveva appena
messo a posto i capelli ed infilato un paio di leggins quando bussarono
alla
porta.
«Così
presto?», borbottò mentre apriva
l’armadio in cerca di un maglione – diavolo,
non era poggiato proprio lì quella
mattina? Finalmente lo trovò e lo infilò
rapidamente, mentre alla porta
risuonavano un altro paio di colpi.
«Eccomi!»,
esclamò di nuovo mentre correva all’entrata,
aprendo il più in fretta
possibile.
«Ehi
Blaine,
non avevi detto che l’Upper West Side-».
Il resto
della frase gli morì in gola quando lo sguardo gli cadde sul
ragazzo fermo
davanti alla porta di Rachel. Non era Blaine.
«David?»,
sussurrò, incredulo. Ci fu una pausa di silenzio teso.
«Cosa ci fai-».
«Blaine?»,
lo interruppe il ragazzo. Kurt ebbe l’impulso improvviso di
chiudere la porta.
Prima che potesse farlo David fece un passo avanti, entrando in casa di
Rachel.
«Chi è Blaine?».
Kurt lo
osservò: aveva delle enormi borse sotto agli occhi e uno
sguardo cupo.
«David
ma
come diamine-».
«Come
sono
arrivato a New York?», lo interruppe l’altro.
«Ho guidato otto ore di fila,
Kurt. Per vederti. E avere delle risposte».
Kurt
aggrottò le sopracciglia. Non gli piaceva il verso che stava
prendendo quella
conversazione.
«Risposte
a
cosa, di grazia?».
«A
questo,
tanto per cominciare». Sollevò il braccio.
Kurt
indietreggiò di scatto, sospirando di sollievo quando vide
che David gli stava
mostrando il proprio cellulare. Dopo un’occhiata circospetta
al ragazzo abbassò
lo sguardo, osservando lo schermo del telefonino – dove lui e
Blaine cantavano Baby It’s Cold
Outside seduti fianco a
fianco davanti al piano di Mercedes. Rimase a bocca aperta per qualche
secondo,
prima di ricordare.
“Mercedes.
Mercedes lo stava filmando”. Osservò la propria
immagine mentre Blaine gli dava
una spallata scherzosa e lui rideva.
«Io…».
«Kurt».
David fece un altro passo verso di lui e Kurt ebbe l’orribile
sensazione di
avere le spalle al muro. «Chi è questo
tizio?».
Il cuore di
Kurt iniziò a battere all’impazzata, mentre il
ragazzo si sforzava di rimanere calmo.
Almeno uno dei due doveva esserlo. «Parlerò con te
solo quando ti sarai
calmato».
«No,
noi
parleremo adesso!», sbottò l’altro.
«Lo sai che tutta la squadra di football ha
visto questo video? Che continuano a dire che finalmente hai trovato un
tizio
gay quanto te?».
A quelle
parole Kurt scattò. «Non sarà per
questo che sarai venuto qua, vero David?»,
sibilò. «Per fare il ragazzo geloso?».
«Io
non…»,
l’altro sbuffò di frustrazione, preso in
contropiede. «Non è questo il punto!».
«Allora
è
così?». Kurt incrociò le braccia con
una risata sarcastica. «Ti rode che ci sia
qualcuno che ha le palle di ammettere che gli piacciono gli uomini? Che
gli
piaccio io? Mentre tu non hai
nemmeno
il coraggio di farti vedere vicino a me nel campus». Rise di
nuovo. Dopo così
tanto tempo passato a dubitare di sé stesso, rovesciare
addosso a Dave tutte le
cose che aveva taciuto era fantastico – liberatorio.
«Smettila,
Kurt», sibilò David, furioso.
Il ragazzo
lo ignorò. «Perché, non ho ragione,
forse? Noi non stiamo nemmeno insieme, non
hai nessun diritto di-».
«Smettila!», sbottò
David prendendolo per
una spalla.
Kurt si
ritrasse come se si fosse scottato, inciampando nei propri piedi. Si
rimise
dritto appoggiandosi allo schienale del divano, il cuore che batteva a
mille.
“Respira”,
si disse, mentre cercava di ricordarsi che non aveva più
sedici anni, che non
era da solo in uno spogliatoio maleodorante, che nessun ragazzo
l’avrebbe
costretto a baciarlo…
«Kurt».
La
voce di David era mortificata. «Mi dispiace, ti giuro, non
volevo-».
«No».
Il
ragazzo alzò una mano per bloccarlo quando provò
ad avvicinarsi.
«Mi
dispiace, davvero».
«Lo so
che
ti dispiace». Kurt alzò lo sguardo, sforzandosi di
guardarlo negli occhi e
respirare normalmente al tempo stesso. «Ma sta succedendo da
molto tempo
ormai».
«Cosa?».
«Ci
stiamo
facendo del male a vicenda». Le sue parole rimasero sospese
tra loro nel
silenzio del salotto. Sapevano entrambi che era vero. «Le
cose non sono…
normali fra noi, ed è inutile illudersi che potranno mai
esserlo», continuò
Kurt. «Mi ci è voluto un mese per non cambiare
strada ogni volta che ti vedevo.
Un mese. E rischio un attacco di
panico quando sei anche solo nervoso. Non siamo fatti l’uno
per l’altro»,
concluse, incrociando un’altra volta lo sguardo di Dave.
«E anche se lo
fossimo… beh, dubito potremmo stare insieme, dopo tutto
quello che è successo».
Respirò profondamente prima di continuare. «Mi
dispiace doverlo fare Dave… non
possiamo più stare insieme».
L’altro
ragazzo si limitò ad annuire.
«E
credo che
dovresti tornare in Ohio».
David
annuì
nuovamente, facendo per avvicinarsi a lui. Si immobilizzò
sul posto quando Kurt
scosse la testa con decisione.
«Non
ho mai
voluto farti del male», disse con voce stranamente ferma.
«Mai. Lo sai questo,
vero?».
«Sì»,
sussurrò l’altro.
«Bene.
È
abbastanza».
Kurt
riabbassò lo sguardo mentre David si girava e usciva da casa
di Rachel senza
un’altra parola. Quando la porta si richiuse dietro di lui il
ragazzo si lasciò
scivolare per terra. La tensione lasciò il suo corpo
all’improvviso, facendogli
tremare le gambe e chiudere gli occhi.
Resto seduto
contro lo schienale del divano, cercando di cacciare indietro le
lacrime,
finché, pochi minuti dopo, non bussarono di nuovo alla porta.
Kurt si
diresse verso l’entrata, ma controllò prima lo
spioncino – non se la sentiva di
vedere Dave, non subito. Tirò un sospiro di sollievo quando
riconobbe gli
occhiali e i riccioli scompigliati di Blaine. Aprì la porta.
Blaine aveva
un sorriso raggiante. «Ehi Kurt, devi
assolutamente-». Si bloccò immediatamente
quando vide l’espressione sul volto del ragazzo.
Entrò in casa, chiudendo
velocemente la porta dietro di sé. Lanciò la
borsa verso un punto imprecisato
dell’entrata e condusse Kurt fino al divano, facendolo sedere.
«Kurt,
cos’è
successo?».
Il ragazzo
scosse la testa. «David», disse con voce soffocata.
Blaine gli
passò una mano sulla guancia. «David?».
«È
venuto
qui e…». Smise di trattenere le lacrime quando
sentì le braccia di Blaine che
lo stringevano, singhiozzando contro il suo maglione mentre il ragazzo
gli
sussurrava parole confuse all’orecchio.
Qualche ora
dopo erano entrambi stesi sul divano, in assoluto silenzio.
Kurt si stava
sforzando con tutto sé stesso di non addormentarsi. La testa
gli pulsava e
probabilmente l’unica cosa che stava impedendo al mal di
testa di esplodere era
la mano di Blaine che gli accarezzava delicatamente i capelli.
Il ragazzo
premette
il viso nel cuscino umido, sentendo una fitta di senso di colpa.
«Scusa».
Sospirò al suono roco della propria voce. Singhiozzare non
faceva bene alle
corde vocali.
Blaine
attese qualche secondo prima di parlare. «Non
c’è nulla di cui scusarsi. Non ti
fa bene tenerti tutto dentro, sai. Non c’è niente
di male nel piangere, qualche
volta».
Kurt
spostò
il volto più vicino al suo. «Ti devo delle
spiegazioni, io-».
«Ssh»,
lo
zittì Blaine. «Non mi devi proprio un bel niente.
Ora come ora hai solo bisogno
di andare a dormire, okay?». Kurt annuì,
ripromettendosi di giurare eterna
gratitudine a quel ragazzo, appena si fosse sentito di nuovo un essere
umano.
Blaine lo
aiutò ad alzarsi, facendogli un cenno verso la camera.
«Vai a cambiarti, arrivo
fra un secondo».
Quando
Blaine entrò in camera da letto con un bicchiere
d’acqua stava già dormendo.
Poggio il
bicchiere sul comodino e coprì il ragazzo con il piumone
prima di stendersi
accanto a lui, sopra le coperte. Esitò un momento prima di
passargli un braccio
attorno alla vita – “Solo per sentire se si muove
nel sonno”, si ricordò. Poi
chiuse gli occhi e si addormentò a sua volta.
Il mattino
dopo Blaine fu svegliato ad un’ora indecente dalle note di I’m the Greatest Star, provenienti
dal suo cellulare. Si cacciò la
mano in tasca e rispose il più velocemente possibile,
ansioso di zittire
quell’affare.
«Pronto?»,
sussurrò, mentre si alzava dal letto.
Dall’altro
capo del telefono gli rispose una voce familiare.
«Blaine?».
«Rachel,
ti
ho detto mille volte di non cambiarmi la suoneria del
cellulare!». Lanciò
un’occhiata verso Kurt. Si era girato su di un fianco, ma
stava ancora
dormendo.
«È
solo per
il mio numero!», rispose la ragazza in tono petulante.
«Non tutti meritano
Barbra. Ma perché stai sussurrando? Dove sei?».
Blaine fece
una smorfia. «Io… a casa tua».
«A
casa mia?
Ma come-».
«Rachel
non
è il momento, davvero», la interruppe.
«Ora dimmi perché hai chiamato. Vuoi
sapere quante comparse sono già passate al lato oscuro di
Mercedes?». Uscì
dalla camera cercando di fare il meno rumore possibile.
«Cosa?
Dici sul
serio?», la voce di Rachel tradiva vero panico e Blaine
trattenne una risata.
«Scherzo,
Rachel». Si sedette sul divano, strofinandosi gli occhi.
«Ora dimmi cosa c’è».
«Io…».
Rachel esitò. «Potrei
aver incontrato
un ragazzo interessante».
«In
Ohio?».
«Sconvolgente,
vero?».
Blaine
borbottò un assenso. «E quindi?».
«Quindi…
potrei essermelo portato a letto tre
ore
dopo averlo conosciuto».
«Rachel».
«Non
è stata
colpa mia!», esclamò la ragazza con tono
estremamente colpevole.
Blaine
sbuffò, appoggiando la fronte allo schienale del divano.
«E ora?».
«Beh…
diciamo che abbiamo iniziato a frequentarci… da
amici», spiegò la ragazza. «Anche
se lui ha ammesso che gli piaccio e Blaine, è
così carino e così dolce e-».
«Rachel»,
la
interruppe lui. Non poteva affrontare una conversazione del genere
senza un
minimo di caffeina. «Non vorrei sembrarti scortese ma sono le
sei e mezza e
vorrei tornare a dormire il prima possibile. Qual è il
problema?».
«Non
vuole
baciarmi!», ammise Rachel in tono mortificato.
«Nel
senso
che…?».
«Ha
avuto la
perfetta occasione ieri sera – eravamo appena tornati da un
appuntamento molto
romantico – e non mi ha baciato!».
Blaine
sbuffò. «Per caso… dopo che siete
andati a letto gli hai fatto il tuo solito
discorsetto da sveltina?».
«Beh,
sì… è
quello che faccio sempre».
«Con i
ragazzi
di cui non ti frega nulla», precisò Blaine.
«Rachel, se è un ragazzo normale…
avrà voluto darti i tuoi spazi dopo quello che gli hai
detto».
«Quindi
credi che… dovrei provarci prima io?», chiese
Rachel meravigliata.
«Credo
sia
quello che lui sta aspettando».
«Ma
certo!»,
lo strillo di gioia della ragazza gli trapanò
l’orecchio, ma non poté fare a
meno di sorridere. «Blaine, sei grande! Appena torno a New
York ti devo un
favore, di’ a Sugar di ricordarmelo. Ciao!».
«No no
Rachel
aspetta!».
Nemmeno a
dirlo, la ragazza aveva già attaccato.
Pregando che
Rachel non combinasse un altro dei suoi disastri Blaine
terminò la chiamata e
tornò in camera il più silenziosamente possibile.
Solo dopo aver poggiato il
cellulare sulla cassettiera si accorse che Kurt era sveglio.
«Che
succede?», chiese il ragazzo con voce roca.
«Nulla»,
sussurrò Blaine. «Torna a dormire».
Kurt
poggiò
la testa sul cuscino, guardandolo con occhi assonnati. «Vieni
anche tu?».
Blaine non
se lo fece ripetere due volte. Scivolò sotto le coperte,
stando attento a
lasciare un po’ di spazio fra sé e Kurt. Il
ragazzo mormorò qualcosa di
incomprensibile prima di richiudere gli occhi.
Blaine lo
osservò per qualche secondo, sentendo le palpebre farsi
rapidamente pesanti.
Un attimo
prima di addormentarsi sentì un’ondata di calore,
e una mano tiepida che
stringeva la sua.
A/N:
Eeeeeed ecco
anche questo capitolo – puff, che ci crediate o no
è stato devastante da
scrivere.
Ma
c’è un
bel po’ di fluff, eh sì i nostri stupidi idio-
emh, cari personaggi se lo sono
meritato, direi.
Alla
prossima settimana con il prossimo capitolo!
Spero che vi
stiate divertendo a leggere questa storia – io mi sto
divertendo un sacco a
scriverla :)
MM
PS: Non so
se qualcuno ho letto gli spoiler più recenti di Ryan Murphy
e sull’episodio
3x11 in generale… Holy shit… Una povera klainer
non sa nemmeno più cosa pensare
:(
|
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Capitolo 7 *** 28 dicembre ***
28
dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio
Rachel si
mise al lavoro subito dopo aver messo giù il telefono.
Se
c’era
qualcuno che se ne intendeva di relazioni quello era Blaine Anderson, e
se
Blaine Anderson diceva che Rachel Berry doveva fare il primo passo,
Rachel
Berry avrebbe fatto il primo passo.
Prese un bel
respiro e fece mente locale. Doveva fare la sua ginnastica mattutina,
chiamare
Finn, preparare la colazione e mettersi addosso qualcosa di
decente… sarebbe
stata una mattinata impegnativa, ma se c’era qualcuno che
poteva farcela era
lei.
Non era
certo la prima volta che prendeva l’iniziativa, con un uomo.
Era
intraprendente, questo non si poteva negare, e spesso flirtare con uno
degli
uomini che lanciavano lunghe occhiate alle sue gambe nei bar newyorkesi
la
aiutava a staccare dai giorni di lavoro troppo stressanti e dai drammi
di
Broadway… un vero sollievo.
Ma con Finn
era diverso. E non strettamente in
senso positivo…
Solo nel
breve tragitto dal salotto al bagno il suo cervello riuscì
ad elaborare
svariate decine di scenari in cui il suo piano poteva finire
catastroficamente.
E se lui le avesse riso in faccia? Se le avesse detto che la
considerava un’amica?
Scosse
bruscamente la testa. Che diavolo le stava succedendo?
«Smettila»,
disse fermamente al suo riflesso nello specchio. «Tu sei
Rachel Berry, e Rachel
Berry non si fa le paranoie. Rachel Berry ha smesso di farsi le
paranoie da
quando ha infilato il suo primo costume di scena ed è salita
sul palco del
Gershwin. Concentrati».
Fece qualche
respiro profondo prima di afferrare il cellulare e chiamare Finn.
Il telefono
squillò a vuoto per svariati secondi.
“Sarà in doccia”, si disse mentre
aspettava.
“Starà facendo colazione. O forse non mi vuole
rispondere...?».
Dall’altro
capo del telefono arrivo un debole clic.
«Rachel?»,
le rispose una voce confusa.
La ragazza
lasciò andare un sospiro di sollievo. «Finn,
buongiorno!».
Sentì
il
rumore di uno sbadiglio. «Cavolo, non ti facevo una persona
così mattutina. Non
sono nemmeno le sette!».
Rachel si
sforzò di non imprecare contro sé stessa e la sua
sbadataggine. «Sì, emh, mi
piace svegliarmi presto. Scusa, non ho fatto caso
all’ora…».
«Non
ti
preoccupare», fece l’altro, la voce un
po’ più presente. «Dimmi
tutto».
«Beh…»,
Rachel esitò per qualche secondo, incrociando le dita.
«Mi chiedevo se ti
piacerebbe venire a fare colazione qui, stamattina».
«Certo!»,
rispose Finn senza un attimo di esitazione. Rachel si concesse un
saltino di
gioia. Almeno finché il ragazzo non aggiunse, «A
una sola condizione».
“Lo
sapevo.
Troppo bello per essere vero”.
«Sì?», chiese cautamente.
«Né
io né te
dobbiamo preparare nulla. Tu fai il caffè e io
passerò a prendere un paio di
muffin»
La ragazza
sghignazzò. «Possiamo sempre provare la ricetta
dei brownies di tuo fratello…».
«Rachel.
Abbiamo bruciato due crostate la mattina di Natale. Due.
Sto seriamente considerando la possibilità che
l’universo stia
cercando di darci un segno».
Rachel non
poté fare a meno di sorridere. «Hai ragione. Beh,
l’idea mi sembra ottima,
comunque. Per le otto e mezza qui?».
«È
un
appuntamento».
Il sorriso
di Rachel si allargò ancora. «Fantastico. Potresti
farmi un ultimo favore?».
«Certo».
«Se
passi da
un’edicola potresti prendermi il New York Times? La
connessione qui è un po’
lenta e ci metto secoli a leggerlo online…».
«Non
preoccuparti, ci penso io. Ci vediamo dopo, allora».
«Otto
e
mezza», ripeté Rachel.
«Otto
e
mezza. Non vedo l’ora. A dopo, Rachel».
«A
dopo».
La ragazza
poggiò il telefono vicino al lavandino, per poi alzare lo
sguardo sulla propria
immagine riflessa. L’unico aggettivo con cui avrebbe
descritto il proprio
sorriso era raggiante.
«Molto
meglio, Berry», si disse, prima di dirigersi verso la doccia.
28 dicembre 2017,
Upper West Side, New York
Un leggero
profumo di caffè aleggiava nella camera da letto di Rachel
quando Kurt aprì gli
occhi, quella mattina. Il ragazzo si rigirò su di un lato e
aggrottò le
sopracciglia, scrutando la porta.
Questo
era… strano,
considerò prima di sbadigliare
di nuovo e ficcare il mento sotto le coperte.
Ormai si era
abituato all’odore pungente di dopobarba alla menta, e anche
alla puzza di
bruciato – conseguenze inevitabili della sua convivenza con
Finn – e in casa di
Rachel erano sempre stati i rumori del traffico di New York e i propri
piedi
gelati a svegliarlo. Nessuno strano odore di caffè.
Forse stava
sognando. O avendo un’allucinazione olfattiva.
“O
forse una
banda di ladri è entrata durante la notte”,
pensò rigirandosi nuovamente fra le
coperte. “E ora si stanno preparando la colazione”.
Premette la guancia contro
il cuscino. Beh, che facessero pure. Aveva troppo sonno per
preoccuparsene.
Sbadigliò
un’ultima volta, decidendo di dormire per un altro
po’, e non si accorse dei
passi che si avvicinavano alla camera, né del materasso che
si abbassava leggermente
sotto il peso di un’altra persona.
«Buongiorno,
bella addormentata».
Kurt si
sedette di scatto, tirando coperte e lenzuola con sé.
«Blaine!», esclamò senza
fiato, mentre l’altro ragazzo si appoggiava alla testiera del
letto e rideva.
«Mi
hai
spaventato», protestò Kurt, tirandogli una
gomitata nelle costole e poi
cercando di coprirsi quando si accorse di essere in pigiama.
“Ma
che…?”.
Lanciò un’occhiata furtiva a Blaine, adocchiando
la t-shirt stropicciata e i
capelli scompigliati. “Okay… Che diavolo
è successo ieri sera?”.
«Scusa»,
fece
l’altro alzando le mani, ma ancora rideva. «Ti
dispiace?», gesticolò verso le
coperte. Kurt lasciò la presa, riluttante, e Blaine
infilò braccia e gambe
sotto il piumone, sospirando di sollievo. «Molto meglio. In
cucina si gelava».
Gli lanciò un altro sorriso prima di passargli una tazza
fumante. «Caffè?».
Kurt
trattenne un gemito di gioia quando adocchiò il vassoio che
Blaine aveva
poggiato sul comodino – una moca ancora fumante ed un piatto
di biscotti.
«Grazie».
Dopo
il primo sorso gli sfuggì un sospiro di sollievo.
«Fantastico».
Blaine
annuì, portando la propria tazza alle labbra. Kurt si impose
di aspettare che
avesse bevuto almeno un sorso di caffè prima di porre la
domanda che gli
ronzava in testa da una lunghissima manciata di secondi.
«Blaine».
Il
ragazzo alzò le sopracciglia con aria interrogativa.
«Cosa ci fai qui… in
pigiama?».
Il ragazzo
soffocò a metà del suo sorso di caffè.
«Non
sto…
insinuando nulla», si affrettò a precisare Kurt
mentre Blaine tossiva
rumorosamente. «È solo che-»
«Dubbio
più
che legittimo», lo interruppe Blaine con voce roca. A
giudicare dalla sua
faccia stava trattenendo a stento una risata. «Ma ti posso
assicurare che le
mie intenzioni sono onorevoli».
«Non
ne
dubito», borbottò l’altro, cercando di
evitare il suo sguardo per non scoppiare
a ridere a sua volta. «Ma perché
esattamente…?».
«Volevo
solo
assicurarmi che stessi bene dopo ieri sera-».
«Oh,
no». Kurt
strinse la tazza in una stretta mortale mentre i ricordi di quello che
era
successo la sera prima lo colpivano con la forza di uno tsunami.
«No». A malapena
si accorse della mano di
Blaine che gli stringeva piano una spalla.
«Non
ti
preoccupare». Il ragazzo gli tolse la tazza dalle mani e la
poggiò sul vassoio.
«Vedrai, basterà che tu ci dorma sopra un altro
po’ e-».
«Mi dispiace», lo interruppe Kurt,
senza
dare segno di averlo sentito. Si premette le mani sul viso, desiderando
che le
lenzuola lo inghiottissero in quel preciso istante. «Sono
davvero mortificato,
credimi, io-».
«Kurt».
Blaine gli tolse gentilmente le mani dagli occhi, costringendolo a
guardarlo. «Per
cosa saresti dispiaciuto, di grazia?».
Kurt
abbandonò
la testa contro la testiera del letto con un suono sordo. «Ho
passato metà
della serata a piangerti addosso», borbottò fra i
denti. «Non è una cosa che
faccio – intendo», fece una smorfia.
«Piangere. Quando c’è…
qualcun altro».
Blaine gli
strinse le mani fra le sue. «Beh, sembrava ne avessi
bisogno».
Kurt
sospirò, desiderando che il suo cuore si desse una calmata,
visto che al
momento stava facendo una serie di capriole nel suo petto. Gli sarebbe
anche piaciuto
avere un commento coerente con cui rispondere, ma al momento tutti i
pensieri
vagamente coerenti erano spariti dalla sua testa, dato che il suo
cervello si
ostinava a volersi concentrare sulla sensazione delle dita di Blaine
che gli
accarezzavano delicatamente il polso.
«Ma
Blaine,
ti avrò riempito il maglione di moccio»,
riuscì a commentare infine.
«Che
schifo!», rise l’altro dandogli una spinta.
«Okay, hai perso il tuo diritto
alla parola, smettila di scusarti. Zitto e mangia».
Kurt
afferrò
il biscotto che Blaine gli stava porgendo. «Ma devo
spiegarti-», provò ancora.
«Come
ti ho
detto ieri sera», lo interruppe Blaine. «Non devi
spiegarmi proprio un bel
niente». Finì in un sorso il suo caffè
mentre Kurt lo guardava incuriosito.
«Sei
strano»,
commentò dopo alcuni secondi.
«Sono
perfettamente normale. Forse sei tu a non aver incontrato molti
gentlemen nella
tua vita».
Kurt scosse
la testa, ignorando il suo sorriso. «Forse»,
concesse infine.
«A
pensarci
bene, puoi dirmi qualcosa. Una cosa sola». Kurt
sollevò un sopracciglio. «Non
ti ha fatto del male, vero?».
Kurt scosse
la testa e Blaine lasciò andare un sospiro di sollievo.
«No, non ne sarebbe
stato capace», bevve un altro sorso di caffè,
prima di precisare. «Non ieri
sera, almeno».
L’altro
ragazzo boccheggiò, con l’espressione di chi
è stato preso completamente in
contropiede.
«Vecchi
compagni di liceo», spiegò Kurt con amarezza.
«Io ero il tipico ragazzino gay
come il quattro di luglio. Lui era nella squadra di
football». Alzò le spalle.
«Prevedibile, no? Ed è peggiorato dopo che sono
entrato nel glee club, al
secondo anno. Ma non c’è di che stupirsi, davvero,
e non è mai stato niente di
così terribile, solo le granitate e qualche spinta contro
gli armadietti, e se
ci pensi è quasi normale e così tipico per una
città minuscola come-».
«Kurt».
Il
ragazzo sussultò quando Blaine gli passò una mano
sulla guancia. Si accorse
solo in quel momento che era bagnata.
«Cos’è successo veramente?».
Deglutì,
cercando di trattenere un singhiozzo. Kurt sentì la mano di
Blaine scivolare
nella sua, ma il ragazzo restò in silenzio. «Non
l’ho mai detto a nessuno»,
sussurrò infine.
«Non
sei
costretto-».
«Ma
devo
farlo. Voglio farlo». La
stretta
sulla sua mano si rafforzò. «Durante il terzo anno
di liceo lui…», si bloccò,
prendendo un respiro. «Di solito non era così, ma
quell’anno non mi dava un
attimo di tregua. Era sempre lui. Un giorno ero negli spogliatoi
maschili, da
solo. Avevamo fatto un concerto di beneficienza, con il glee club, era
appena
finito», fece una pausa, osservando distrattamente le dita di
Blaine
intrecciate con le sue. «Mi stavo cambiando, credevo la
scuola fosse vuota.
Finché non entrò David. All’inizio
era… normale. Credevo che se l’avessi
ignorato mi avrebbe lasciato stare. Ma prima che potessi andarmene mi
spinse
contro un armadietto e… e mi baciò».
Respirò profondamente e cercò di restare
calmo, evitando lo sguardo di Blaine. «Era il mio primo
bacio», commentò con
rammarico. Rivivere quel ricordo, anche a distanza di anni, gli dava i
brividi,
ma il bisogno di sfogarsi era stato troppo forte dopo ciò
che era successo la
notte precedente.
«Cosa…
cosa
è successo dopo?».
«Non
molto.
Io non sono andato a scuola per una settimana. David ha cambiato liceo.
Non ci
siamo più rivisti… fino al college».
Giocherellò con l’orlo del lenzuolo mentre
ripensava a quanto fosse stato stressante quel periodo. «Si
è scusato per tutte
le cose che mi aveva fatto. E se ci puoi credere la sua scusante era
che io gli
piacevo… perché lui era gay». Scosse la
testa. «È stato uno shock all’inizio.
All’epoca non l’avrei minimamente immaginato. Non
sono riuscito a perdonarlo
subito, ma con il tempo…», lasciò la
presa sul lenzuolo, senza rialzare lo
sguardo. «Era cambiato, davvero
cambiato. E gli piacevo ancora. E avere qualcuno seriamente interessato
a me
dopo anni di ragazzi da una notte e via… Oh, Dio, sembro
patetico», si
interruppe improvvisamente. Scivolò di nuovo dentro al
letto, portandosi le
mani al viso. «Patetico», borbottò fra
sé e sé.
Ci fu
qualche secondo di silenzio prima che Blaine scivolasse accanto a lui,
poggiando la testa sul suo stesso cuscino.
«Non
c’è
niente di patetico nel voler esser amati», disse in tono
calmo. Kurt allargò
leggermente le dita per osservarlo. «Hai solo cercato nel
posto sbagliato»,
continuò Blaine, rivolgendogli un mezzo sorriso.
«Quando una persona ti
ferisce, intendo fisicamente… beh, non
c’è più nulla da fare. È una
sensazione
che non può sparire, che resta sottopelle. Sei riuscito a
perdonarlo… non tutti
l’avrebbero fatto. Ma non potrai mai sentirti completamente
al sicuro… o
fidarti di lui, per quel che vale».
Kurt
annuì.
Era la perfetta descrizione di come si era sentito in presenza di
David…
Aggrottò
le
sopracciglia. Fin troppo perfetta effettivamente.
Tolse
completamente le mani dal volto, notando solo in quel momento lo
sguardo amaro
dell’altro ragazzo, che stava fissando un punto poco sopra la
sua spalla.
«Blaine…»,
chiese esitante.
Il ragazzo
sorrise leggermente e scosse la testa. « È una
storia terribilmente lunga e
terribilmente deprimente. E oggi abbiamo avuto abbastanza discorsi
deprimenti,
non credi?».
Kurt
cercò
la sua mano e la strinse. «Sono assolutamente
d’accordo. E mi pareva che tu
fossi venuto qui per darmi una bella notizia?».
Blaine si
illuminò come un albero di Natale alle sue parole.
«Non
ci
crederai quando te lo dirò».
28
dicembre 2017, Prairie Oaks, Columbus, Ohio
Rachel diede
gli ultimi tocchi al suo rossetto, per poi ammirare il suo viso nello
specchio
del bagno.
Perfetto. Non
eccessivamente pesante ma nemmeno troppo acqua e sapone. Semplicemente perfetto.
Afferrò
la
spazzola e mentre si pettinava i lunghi capelli iniziò a
ripassare per
l’ennesima volta il suo piano di battaglia.
Avrebbero
fatto colazione a casa di Kurt – caffè e muffin,
semplice e domestico – e poi
lei gli avrebbe chiesto di accompagnarla per una passeggiata fino al
lago –
attrezzata di scarpe adatte all’occasione, stavolta. Una
volta davanti al lago avrebbe
trovato qualche scusa per creare un’atmosfera romantica, e
l’avrebbe baciato.
Sorrise fra
sé e sé al pensiero. E poi…
Si
bloccò
con la spazzola a mezz’aria.
“E
poi…”.
Si accorse
di non averci ancora pensato. Si era così concentrata sul
suo obiettivo da non
aver pensato a cosa sarebbe successo dopo.
Si
appoggiò
al bordo del lavabo. “Sei incorreggibile, Rachel Berry. Finn
non è uno dei tuoi
soliti uomini da una botta e via. Hai già fatto questo
errore una volta con
lui, non farlo di nuovo”.
No, lui era
diverso da tutti gli altri. Non voleva solo un bacio, o una notte
insieme, o un
piccolo flirt. Voleva qualcosa di serio con lui, qualcosa di…
“Ma
come potrebbe
funzionare?”, si chiese. “Potremmo vederci? Io di
certo non rinuncerei a
Broadway. Ho sacrificato vent’anni della mia vita per
arrivare dove sono ora. E
lui non lascerebbe l’Ohio. Tiene troppo a questo
posto”. Si guardò nello
specchio, senza soffermarsi sulla piega dei capelli o sul trucco
perfetto, ma
solamente sui propri occhi tristi. “Tipico. La prima volta
che mi interessa un
uomo non ho nemmeno l’occasione di costruirci un rapporto
normale”.
Rimise la
spazzola nel beauty case, passandosi un’ultima volta la mano
fra i capelli.
«Non
posso
baciarlo», disse fra sé e sé nella
solitudine del bagno di Kurt Hummel. Appena
le parole lasciarono le sue labbra seppe immediatamente che erano vere.
Non poteva
spezzare di nuovo il cuore di Finn con promesse che poi non avrebbe
potuto
mantenere. Anche se il solo pensiero di arrendersi le faceva
attorcigliare lo
stomaco.
“Perché
diavolo
ci tieni così tanto?”, si chiese con stizza.
“Sei proprio una ragazzina”
Il suono del
campanello la fece sobbalzare. Si diede un’ultima occhiata
allo specchio,
annuendo verso il proprio riflesso perfetto. Poi corse al piano di
sotto e spalancò
la porta con un gran sorriso stampato sul volto.
«Buongiorno!».
«Buongiorno»,
rispose Finn, sorridendo a sua volta. Sollevò un sacchetto
da cui proveniva un
profumo invitante. «Mirtilli e cioccolato va bene per
te?».
«Perfetto»,
commentò lei, facendosi da parte per farlo entrare.
«E
questo»,
aggiunse Finn porgendole un giornale arrotolato. «E sappi che
il signor Simmons
della cartoleria mi ha guardato malissimo, quindi mi devi un
favore».
«Vedrò
di
non scordarmelo», sghignazzò Rachel, colpendolo su
un fianco con il giornale. «Anche
se non vedo perché potesse avercela con te solo
perché hai comprato questo giornale»,
commentò dirigendosi in cucina.
«Crederà
che
mi sto montando la testa», sospirò Finn,
seguendola a ruota. «Che voglio
trasferirmi nella grande città».
Rachel si
girò a guardarlo, incredula. «E Columbus non
è una città?».
Finn rise.
«Una citta in Ohio,
Rachel».
La ragazza
scosse la testa. «Pardon. Tendo a dimenticarmene».
Recuperò
un
piatto dalla credenza e lo passò a Finn. Il ragazzo
tirò fuori dal suo
sacchetto quattro muffin ancora tiepidi e ve li sistemò. Un
profumo celestiale
invase la stanza, facendo borbottare rumorosamente il suo stomaco.
Finn si
buttò su una sedia. «Allora»,
cominciò mentre Rachel accendeva uno dei fornelli
e vi posava sopra una moca. «Cosa devi sapere di tanto
urgente da non poter
aspettare dopo le vacanze di Natale?».
La ragazza
lo raggiunse al tavolo. «Ho telefonato ad un mio amico
stamattina…».
«Spero
che
tu non abbia buttato anche lui giù dal letto», la
interruppe Finn.
«Non
è colpa
mia se siete tutti un branco di pigroni!»,
protestò lei tirandogli un calcio da
sotto il tavolo.
«Scusa,
scusa!», esclamò Finn, massaggiandosi la gamba.
«Ci stai prendendo la mano,
eh?».
Rachel
alzò
un sopracciglio con aria compiaciuta, afferrando uno dei muffin e
dandogli un
piccolo morso. Mugolò di piacere mandando giù il
boccone.
Erano divini. «Devi assolutamente
dirmi dove
hai preso queste cose, così posso mandare un mazzo di fiori
a chiunque li abbia
preparati», prese un altro morso dal dolce. «Sono
fantastici».
Finn si
limitò a sorridere. «Una panetteria vicino a casa
mia. Riusciamo a sopravvivere
benissimo senza Starbucks, a Greater Hilltop, grazie tante».
«Ooh,
non
alzare la cresta ragazzino di campagna», commentò
Rachel schioccando le dita.
Si
scambiarono un sorriso prima che Rachel riprendesse il discorso
precedente.
«Dicevo,
stamattina ho chiamato Blaine e la sua telefonata mi ha messo una certa
ansia»,
afferrò il giornale e iniziò a srotolarlo.
«Ho pensato fosse meglio controllare
come se la sta cavando la concorrenza mentre non ci sono».
Il
caffè
iniziò a gorgogliare dalla cucina.
«Vado
io», esclamò
Finn. «Tu controlla pure la tua concorrenza».
Rachel
aprì
il giornale e saltò automaticamente alla sezione dello
spettacolo, scorrendo
velocemente i primi titoli, per vedere se c’era qualche
novità. Cinque
articoli, e due parlavano del nuovo spettacolo diretto da Blaine
Anderson ed
Adam Stewart. Si rilassò sulla sedia, decisamente sollevata.
«Nulla
di
cui preoccuparsi, a quanto pare», commentò
voltando pigramente la pagina.
«Buono
a
sapersi», osservò Finn alle sue spalle.
«Prevedibile,
vorrai dire», rispose distrattamente lei, scorrendo gli
articoli in cerca di
qualcosa che la riguardasse.
«Mi
stai
incuriosendo Rachel». Finn rise fra sé e
sé. «Mi piacerebbe sentirti cantare».
«La
mia voce
è assicurata», sospirò lei.
Alzò per un attimo lo sguardo dal giornale. «Di
solito faccio pagare il biglietto ma per te potrei fare
un’eccezione».
Finn
ridacchiò.
«Sai, mio fratello è un appassionato di musical,
te l’ho già detto? E anche io
ne so parecchio, insegnando musica. Qual è stato
l’ultimo spettacolo in cui hai
recitato?».
«Evita», rispose automaticamente
lei,
girando un’altra pagina.
«Davvero?
E
in che ruolo?».
La ragazza
non gli rispose.
«Rachel?».
Finn si girò e le lanciò un’occhiata.
Stava fissando a bocca aperta la pagina
del giornale. «Tutto bene?», chiese cautamente.
«Oh,
no», mormorò
Rachel. «Oh no, no, no, no».
Abbandonò
il
giornale e si precipitò in salotto, ignorando completamente
il ragazzo.
Finn
poggiò
la caffettiera sul tavolo, esterrefatto. «Ma
cosa…?».
Lo sguardo
gli cadde sul giornale di Rachel, e rimase anche a bocca aperta a sua
volta.
Una foto a due colonne ritraeva lui e Rachel in giro per le strade di
Columbus.
Per mano. E con due espressioni inequivocabili sulla faccia.
«Sugar!»,
Rachel riapparve in cucina, il cellulare attaccato
all’orecchio. «Sugar
chiamami appena ti svegli. È urgente!».
Scaraventò
il cellulare sulla credenza e tolse il giornale da sotto il naso di un
Finn
ancora sconvolto, portandoselo a due centimetri dal naso.
«Ne ho
abbastanza di queste iene», disse a denti stretti, mentre il
suo sguardo
saltava da un lato all’altro della pagina. «Giuro
che il bastardo che mi ha
seguito anche in vacanza, e per di più in Ohio-».
I suoi occhi si spalancarono
in un espressione quasi comica. «Jacob Ben Israel?
Ancora?». Scaraventò il
giornale sul tavolo, furente. «Quel maledetto pazzo mi segue
ovunque. Oh, ma
stavolta si beccherà un’ordinanza restrittiva,
poco ma sicuro».
Si
fermò per
riprendere fiato, un’espressione infuriata sul volto. Finn
approfittò al volo
di una delle pause nella conversazione. «Quindi»,
chiese, ancora leggermente
stordito. «I paparazzi ti inseguono? Questo vuol dire che
sei… famosa?».
«Beh,
osserva ciò che è successo e fai una
deduzione», commentò Rachel sarcastica. Si
passò una mano sulla fronte. «Questa proprio non
ci voleva, dopo essere
riuscita a sopportare Jessie per tutti quei
mesi…».
Fece un paio
di respiri profondi, cercando di calmarsi, mentre Finn la guardava con
un’espressione confusa sul volto. «Cosa
significa… “sopportare”? Non mi avevi
detto che stavate insieme solo per il sesso?».
«E per
la
pubblicità, ovviamente. Aumentare la mia
visibilità facendomi vedere insieme
con una delle star di Wicked anche
se
è un enorme stronzo. Grande idea, Sugar».
Recuperò il cellulare e digitò di
nuovo il numero di Sugar, senza notare l’espressione che Finn
aveva sul volto.
«Dannazione
Sugar, vuoi svegliarti!», esclamò quando ancora
una volta le rispose la
segreteria.
«Rachel»,
disse Fin con voce pacata. «Ho bisogno che tu mi dica una
cosa».
«Non
so se l’hai
notato, Finn, ma sono piuttosto presa al momento!»,
sbottò Rachel.
«Solo
una
cosa». La ragazza appoggiò una mano alla fronte e
gli fece un cenno con il
capo. «Sei… uscita con me per farti
pubblicità?».
«Dio,
Finn,
certo che no», sbottò, la voce più
acida di quanto avrebbe voluto. «Nessuno
sapeva ancora che io e Jesse ci siamo lasciati, ed inoltre essere vista
in giro
con uno come te mi-».
«Uno
come
me?», la interruppe Finn. Per la prima volta da quando aveva
visto la loro foto
sul giornale, Rachel lo guardò in faccia. Sul suo volto
c’era la stessa espressione
mortalmente seria che aveva quando lei gli aveva fatto il suo discorso
da “una
notte e via”. «Cosa vorresti dire?»,
chiese il ragazzo.
«Lo
sai
perfettamente cosa voglio dire!». Rachel cercò di
suonare sicura di sé ma la
sua stessa convinzione stava iniziando a vacillare.
«Jessie… Jessie è un attore
famoso e tu-».
«Un
maestro
di scuola elementare che va fiero del suo lavoro», la
interruppe nuovamente
Finn. Una punta di rammarico si fece strada nella sua espressione
impassibile.
«E mi pareva che fino a ieri Jessie fosse uno stronzo con cui
saresti solo
andata a letto e io…». Si interruppe, e la sua
espressione di pietra cadde a
pezzi davanti a Rachel. La ragazza non seppe fare altro che stare ferma
a guardare,
mentre il senso di colpa per essere stata lei a provocare il dolore sul
suo
viso scorreva dentro di lei come fuoco nelle vene.
«Quand’è
che
questo è cambiato?», disse Finn a mezza voce,
«Ascolta,
nulla di tutto questo è cambiato»,
mormorò Rachel, facendo un altro tentativo
disperato di spiegarsi. «Solo che non posso farmi vedere con
te in pubblico. I
paparazzi mi staranno alle calcagna dopo questo».
«Stai
dicendo che ti vergogni di farti vedere in pubblico me?».
«Sto
dicendo
che ho lavorato per anni alla mia immagine e che è
dannatamente importante per
il mio lavoro», scattò la ragazza.
«Più
importante del rapporto con un’altra persona?»,
replicò Finn, facendo un passo
verso di lei. Rachel distolse lo sguardo.
Fu Finn a
parlare per primo, dopo qualche secondo. «Stai dicendo che
non vuoi più
vedermi?».
La ragazza
chiuse gli occhi, facendo un respiro profondo e cercando la forza per
dire
quello che sapeva di dover dire.
«No»,
disse
infine. «Non voglio più vederti».
Finn la
guardò per una manciata di secondi, impassibile, poi se ne
andò senza un’altra
parola.
Rachel si
sforzò di rimanere perfettamente immobile, ascoltando i
rumori di un cappotto
infilato velocemente e della porta d’entrata che sbatteva.
Poi aprì gli occhi,
guardando la cucina terribilmente vuota e cercando di convincersi che
aveva
fatto la cosa giusta.
28
dicembre 2017, Theatre District, New York
«Dimmi
che
tutto questo è reale», chiese Kurt artigliando i
braccioli della propria sedia.
Blaine lo
guardò con espressione divertita. «Mi
crederesti?».
«Probabilmente
no», ammise l’altro ridendo appena. «Ma
potresti sempre provarci».
«Sfida
accettata».
Kurt si
rilassò sullo schienale della sua poltrona, accavallando le
gambe e chiudendo
gli occhi. «Fa’ del tuo meglio, Barney
Stinson».
«Sei a
New
York».
«E fin
qua
ti seguo».
«A
Broadway
per la seconda volta in pochi giorni».
Kurt
sentì
un tuffo al cuore. «Continua…».
«Siamo
seduti davanti al palco del Gershwin Theatre, e tra cinque minuti
vedremo
Wicked».
«Dio».
«Interpretato
dal cast originale».
«Oh Dio». Il ragazzo
alzò lo sguardo, fissando
il palco davanti a sé come se non potesse ancora credere ai
suoi occhi.
«Blaine, quanto mi giudicherebbe questa gente se mi mettessi
ad urlare?».
Il ragazzo
sbuffò. «Poco, visto che fino a cinque minuti fa
stavi facendo il revival della
scena del bar, Sally Albright».
Kurt gli
tirò una gomitata. «Sta’ zitto,
Anderson», sibilò. «Per te
potrà anche essere
normale, essere a New York, vedere i musical che ho sognato di vedere
da una
vita, ma per me-».
«Di
solito
non sono seduto nel Golden Circle», commentò
Blaine con un sorriso. «Mike
si è
davvero superato, stavolta…»,
commentò mentre Kurt sprofondava di qualche centimetro nella
sua sedia.
«Vi
devo un
favore. Vi devo un favore enorme»,
mugugnò Kurt, tenendo le mani davanti al viso. «Un
migliaio di favori. Vi farò
la biancheria per un mese intero».
«Ce la
faccio
benissimo da solo, grazie, e credo sia lo stesso per Mike. E in ogni
caso, non
ti ricatterei mai. Anche se forse, per quei pancakes-».
Furono
interrotti dalla suoneria del cellulare di Kurt.
«Avrei
dovuto
metterlo in silenzioso…», borbottò il
ragazzo mentre armeggiava con le tasche
dei pantaloni.
Chiedendosi
distrattamente chi potesse essere a quell’ora della sera, si
alzò dal suo posto
e si diresse verso il corridoio.
«Fai
presto
o ti perderai
l’inizio», esclamò Blaine
mentre si allontanava.
Kurt gli
fece un cenno prima di uscire dalla sala e controllare lo schermo del
cellulare. Sollevando le sopracciglia in un’espressione
sorpresa, rispose al
telefono.
«Rachel?»,
chiese esitante.
«Ciao
Kurt»,
la voce della ragazza gli arrivò leggermente ovattata.
«Sei a casa mia? Sento
un po’ di rumore…».
Kurt
lanciò
un’occhiata alla porta, oltre la quale c’era una
sala piena di gente che
mormorava e parlava a voce sommessa. «No, sono…
fuori», disse, ricordandosi
all’ultimo momento di quando Blaine gli aveva raccontato che
le avevano
rifiutato la parte di Elphaba. Meglio non dirle che stava guardando lo
spettacolo della concorrenza. «Dimmi,
c’è qualche problema?».
«Beh,
sì. A
dir la verità volevo tornare a casa in anticipo».
«Davvero?
Prima di capodanno?».
«Sì.
Domani pomeriggio,
a dir la verità. Non ti sto cacciando fuori di casa,
ovviamente, possiamo
sempre convivere, c’è moltissimo spazio ed ho una
stanza degli ospiti in
perfetto stato, come avrai notato».
Kurt
tirò un
sospiro di sollievo. Per un momento aveva creduto di dover tornare a
Columbus
prima del tempo. «Già stanca dell’Ohio,
vero? Ti capisco». La ragazza non
rispose. «Rachel?». Kurt allontanò il
cellulare dall’orecchio, controllando che
ci fosse campo. «Rachel, tutto bene?».
Dall’altro
capo del telefono arrivò un rumore che suonava
sospettosamente simile a
qualcuno che tirava su con il naso. «Sì,
sì, tutto okay, non ti preoccupare. Ci
vediamo domani, allora?».
«A
domani».
Il ragazzo
terminò la chiamata, rientrando nella sala. Fortunatamente
le luci erano ancora
accese e lo spettacolo non era ancora iniziato. Si sedette vicino a
Blaine
mentre rimetteva il cellulare in tasca.
«Rachel
sta
tornando a casa», annunciò.
Blaine
sembrò sorpreso. «Di già?».
«Dice
che arriverà
domani», rispose l’altro scrollando le spalle.
«Sarà
preoccupata che Mercedes le rubi l’attenzione»,
commentò Blaine togliendosi gli
occhiali. «È brava quanto lei e determinata il
doppio. Anche se è strano. L’ho
sentita stamattina, e mi sembrava a posto. Anzi, mi aveva
addirittura
detto che aveva conosciuto… qualcuno».
Kurt
alzò un
sopracciglio. «In Ohio? Una newyorkese che trova un ragazzo
decente in Ohio?», sbuffò
con aria incredula. «Una possibilità su due
miliardi».
«Aspetta
un
secondo». Blaine si girò verso di lui.
«Questo vuol dire che dovrai tornare in
Ohio prima di Capodanno?».
Kurt
trattenne una risata quando vide quelli che potevano essere definiti
solo come
“occhi da cucciolo”. «No,
resterò qui. Rachel mi ha proposto di stare nella
stanza degli ospiti e a me va più che bene se significa
restare qualche giorno
in più a New York…».
Blaine si
rilassò contro lo schienale della sedia, con espressione
soddisfatta.
«Ottimo.
Bene. Sai, avevi promesso a Mercedes che ci saresti stato per Capodanno
e non
avrei voluto essere nei tuoi panni se-».
«Certo»,
lo
interruppe Kurt ridendo. Si scambiarono un sorriso incerto. Sapevano
entrambi
il motivo per cui a Blaine importava che lui restasse a New York, e non
era una
festa di Capodanno.
«Sai…»,
iniziò Blaine dopo qualche secondo. «Se non avessi
voglia di stare con Rachel… potresti
sempre venire a stare da me. C’è anche mio
fratello», aggiunse subito dopo.
«Cooper starà a New York fino ai primi di gennaio,
quindi la situazione sarà
imbarazzante in parecchi casi, ma se vuoi…».
«Non
sarebbe
un po’ affollato?».
«Forse»,
ammise Blaine. «Però se finissimo bloccati in casa
dalla neve non ti
annoieresti un minuto».
Proprio in
quel momento le luci si abbassarono e le persone dentro al teatro
smisero di
parlare.
«Mi
piacerebbe molto», sussurrò Kurt. Nella penombra
della sala riuscì a
distinguere il sorriso dell’altro ragazzo.
«Bene».
Kurt sorrise
a sua volta, girandosi verso il palco.
Quando la
musica cominciò sentì un brivido corrergli lungo
la schiena.
«Non
riesco
ancora a crederci…».
Blaine rise
piano. «Ti conviene cominciare a farlo, perché
quella è Kristin Chenoweth, poco
ma sicuro».
Si stavano
tenendo per mano da Defying Gravity
–
più precisamente da quando Idina Menzel aveva cantato il suo
famoso fa alto e Kurt
aveva visto Blaine cercare di asciugarsi gli occhi con discrezione.
Kurt
osservò
Fyiero ed Elphaba sul palco, sospirando e stringendo forte la mano di
Blaine.
Il ragazzo si girò verso di lui.
«Cosa
c’è?»,
sussurrò.
«Nulla,
questa scena mi ha sempre fatto diventare emotivo»,
lanciò un’occhiata di sottecchi
a Blaine, che aveva un’espressione interrogativa.
«Lei è verde, e tutto Oz
crede che sia una strega, ma lui la ama lo stesso»,
sussurrò. «Avere qualcuno
che ti faccia sentire così speciale… deve essere
beh, fantastico», commentò on
una punta di amarezza.
Proprio
mentre l’orchestra cominciava a suonare As
long as you’re mine, Blaine gli posò una
mano sulla guancia, facendolo
voltare verso di sé.
«Non
hai
bisogno di nessuno che ti faccia
sentire così, Kurt», sussurrò, la voce
appena udibile sopra all’orchestra. «Tu
lo sei già».
Elphaba
iniziò a cantare e Blaine si chinò verso il
ragazzo, posando gentilmente le
labbra sulle sue. Kurt batté le palpebre un paio di volte,
la musica attorno a
sé e la penombra della sala che rendevano la scena irreale.
Quando Blaine si
allontanò da lui prese un respiro brusco, prima di alzare
gli occhi e guardarlo
– aveva un’espressione incerta, e stava aprendo la
bocca come per dire
qualcosa… Cosa, Kurt non fece in tempo a scoprirlo. Prese il
suo viso fra le
mani e lo baciò di nuovo, dimenticandosi degli attori, del
teatro, delle
svariate centinaia di persone sedute attorno a loro. Lo tirò
più vicino a sé,
mentre Blaine approfondiva il bacio, facendo scivolare la lingua fra le
sue
labbra. Kurt gemette piano, passandogli un braccio attorno alla vita e
maledicendo il bracciolo della poltrona che separava i loro corpi.
Si
separarono bruscamente quando un colpo di tosse dalla fila dietro alla
loro li
riportò alla realtà. Si fissarono per qualche
secondo, gli occhi annebbiati e i
capelli in disordine. Fu Kurt a sorridere per primo, un sorriso
raggiante,
ancora più luminoso di quando Blaine gli aveva sventolato
sotto il naso i
biglietti per Wicked.
L’altro ragazzo
sorrise a sua volta, mentre Kurt si avvicinava a lui e gli premeva un
ultimo
bacio sulle labbra.
«Grazie»,
sussurrò mentre i loro nasi si sfioravano.
«Fiyero».
Blaine
trattenne una risata mentre si sedevano normalmente, tornando ad
osservare il
palco mentre le loro mani si trovavano e si intrecciavano sul bracciolo
della
poltrona.
Kurt
sospirò
sentendo le ultime battute della canzone, rendendosi conto di essersi
perso una
delle sue scene preferite. Una volta tornato a casa di Rachel avrebbe
dovuto
trovare un modo per farla pagare a Blaine, decisamente. Tuttavia
sorrise
ugualmente quando l’altro ragazzo portò le loro
mani alle labbra, stampando un
bacio sulle sue nocche.
«For
the
first time», disse Elphaba dal palco del teatro, mentre Kurt
aveva la
sensazione che il proprio petto fosse troppo piccolo per contenere
tutte le
emozioni che stava provando, «I feel… wicked».
A/N:
Buongiorno
stelle del cielo! La terra vi saluta!
Fianlmente,
e dico FINALMENTE sono riuscita a pubblicare un altro capitolo di TH!
Grazie a
tutti quelli che stanno leggendo queste note per aver aspettato fino a
settembre per leggere una storia che si svolge a Natale :)
La buona
notizia è che ho tutto pronto ora, quindi
pubblicherò regolarmente, e mancano
altri cinque capitoli (uno in più del previsto
perché l’ultimo è lunghissimo),
il prossimo sarà online giovedì pomeriggio!
Cos’ho
fatto
mentre non pubblicavo? Beh, ho guardato Doctor Who… ho
pianto per Glee (come al
solito)… Ho studiato (TANTO)… Insomma un sacco di
cose non importanti.
La
canzone che viene menzionata alla fine del capitolo è As Long As
You're Mine, dal musical Wicked, ascoltatela
perchè è un vero capolavoro ;)
Spero che vi
piacia questo capitolo… e soprattutto
questo bacio Klaine! Da qui in poi le cose iniziano a
farsi interessanti
e a spostarsi sempre di più verso NY ;)
Al prossimo
capitolo, dearies!
MM
PS: non so a
chi possa interessare ma mi sono accorta qualche mese fa che questa
storia è
seguita da Ginny_Potter?!?!?!??!?!?!?!?! IN QUALE UNIVERSO PARALLELO
SONO
FINITA?
|
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Capitolo 8 *** 29 dicembre ***
29 dicembre 2017,
Upper West Side, New York
Per la
seconda volta in due giorni, Kurt si svegliò con un vago
profumo di caffè che
invadeva la stanza.
Il ragazzo
sbatté le palpebre mentre sorrideva contro il proprio
cuscino. “Potrei fare
l’abitudine anche a questo”.
Si prese
qualche secondo per stiracchiare le gambe indolenzite, poi si
alzò dal letto,
recuperò i pantaloni del pigiama ed una maglietta e
sgattaiolò in bagno. Dopo
aver rinunciato a far stare giù i propri capelli si
infilò un cardigan e si
diresse in cucina, chiedendosi che fine avesse fatto Blaine.
Lo
trovò seduto
sulla credenza della cucina, il cellulare in una mano, un biscotto
nell’altra,
ed un’aria assonnata in volto.
«Ma
certo
che sono sicuro», stava borbottando a mezza voce nel
cellulare.
Il ragazzo
si schiarì rumorosamente la voce, sorridendo quando Blaine
si illuminò come un albero
di Natale. Lo ignorò mentre gesticolava verso il cellulare
con uno sguardo di
scusa e gli stampò un sonoro bacio sulle labbra. Blaine lo
fissò, gli occhiali storti
sul naso ed un sorriso adorante sul volto.
«No,
no, non
era nulla», disse nel ricevitore del cellulare.
«Dicevi?».
Kurt smise
di concentrarsi sulla sua voce mentre si versava una tazza di
caffè da una moca
ancora mezza piena – dio, quanto adorava
quel ragazzo –, afferrava un biscotto al cioccolato e andava
a sedersi sul
balcone della cucina di Rachel.
Le strade
sotto l’appartamento erano piene come quelle di Columbus
nell’ora di punta
nonostante il sole non avesse ancora fatto completamente capolino da
dietro le
sagome dei grattacieli e nell’aria aleggiasse un sottile velo
di nebbia. L’Hudson
era lontano, sfocato, e di un pesante color grigio piombo. Una vista
mozzafiato.
Bevve un
sorso di caffè, sorridendo fra sé e sé
– una vista che presto avrebbe potuto
vedere ogni mattina, aveva qualche idea su un appartamento a
Chelsea…
«Okay,
me
ne occuperò io. Sì lo so che rimangono pochi
giorni. Il due gennaio. Ci
sentiamo».
A proposito
di viste da togliere il fiato… Kurt si girò ed
osservò Blaine mentre terminava
la chiamata e smontava dalla credenza, stiracchiandosi le braccia e
facendo sollevare
la maglietta che indossava di parecchi centimetri. Kurt si
affrettò a finire il
suo caffè.
«Scusa,
dovevo assolutamente rispondere a questa», iniziò
a dire Blaine. «Adam ha
iniziato a creare problemi con il produttore, e ovviamente sapevo che
sarebbe
successo, sono entrambi parecchio vecchi e parecchio ostinati
e…». Kurt poggiò
la propria tazza vuota sul balcone e percorse i pochi metri di distanza
che lo
separavano da Blaine. «… e se continua
così saranno capaci di cancellare lo
show, e chi immaginava che coordinare un manipolo di musicisti e di
attori
sarebbe stato così- mph!
», il resto
della frase venne soffocato dalle labbra di Kurt sulle sue. Il ragazzo
sorrise
mentre le mani di Blaine smettevano all’improvviso di
gesticolare e si
stringevano invece sui suoi fianchi.
«Buongiorno»,
mormorò infine contro la sua bocca quando si separarono.
«Già»,
esalò
Blaine, gli occhiali storti – di nuovo – e le
guance arrossate. «Improvvisamente,
mi è passata la voglia di fare colazione».
«Penso
che
lei mi abbia letto nel pensiero, signor Anderson». Lo
afferrò per la maglietta,
baciandolo di nuovo mentre insieme barcollavano fuori dalla cucina,
sbattendo
contro ogni parete prima di centrare la porta giusta per arrivare in
soggiorno.
Fu Blaine a inciampare per primo contro il bordo del divano, finendo
lungo
disteso sui cuscini. Kurt si affrettò a togliersi il
cardigan e si sedette a
cavalcioni del ragazzo.
Blaine gli
prese il viso fra le mani. «Kurt, ieri sera è
stato-».
«Sssh»,
lo
interruppe il ragazzo, interrompendolo con un bacio. «Non
parlare».
Fece
scivolare le mani sotto la maglietta di Blaine, sfilandogliela
velocemente e lanciandola
dietro di sé dove venne raggiunta poco dopo dalla sua.
Blaine accarezzò la
schiena nuda del ragazzo, facendo scivolare le mani sulle sue natiche.
Kurt rabbrividì.
«Questo
è-
voglio dire, va bene per te? », chiese Blaine senza fiato.
«Fantastico»,
esalò l’altro. «Dopotutto, ieri sera
l’onore è stato mio…».
Blaine
sorrise, facendo scivolare la mano sotto i suoi boxer-
«Beh,
questa
sì che è una sorpresa».
Kurt
sussultò violentemente, mentre Blaine stringeva la presa
sulla sua vita. Una
volta sicuro che il ragazzo non rischiasse di cadere dal divano, si
sporse
cautamente sopra la sua spalla.
«Jessie?».
L’ex
ragazzo
di Rachel si appoggiò allo stipite della porta, con le
braccia incrociate ed un
sorrisino sarcastico. «Buongiorno Anderson. Scena
interessante, devo dire». Blaine
si accorse improvvisamente di avere ancora una mano dentro ai boxer di
Kurt e
si affrettò a posarla invece sulle spalle del ragazzo, che
al momento era impegnato
a fissare Jessie nello stesso modo in cui di solito si fissano le
persone
appena scappate da un ospedale psichiatrico.
«Ma
chi
cavolo sei?», sbottò verso l’intruso.
Jessie
ignorò la sua domanda, iniziando a passeggiare per il
soggiorno di Rachel con
assoluta nonchalance. «E io che mi aspettavo di trovare
l’appartamento di
Rachel vuoto come una tomba. Non che trovare due bei ragazzi intenti a
pomiciare mi dispiaccia, ovviamente. E pensare che farlo su quel divano
era una
mia prerogativa una volta. Bei tempi».
Dopo aver
fatto un sospiro teatrale marciò in direzione della camera
da letto senza
degnarli di una seconda occhiata.
Kurt
guardò
Blaine a bocca aperta. «Chi diavolo è quel
maniaco?».
Il ragazzo
grugnì, passandosi una mano sul viso. «Jessie,
l’ex ragazzo di Rachel. Lui è-».
«Completamente
fuori di testa!».
«Ti
sento,
tesoro!», esclamò Jessie dall’altra
stanza.
«Ora
capisco
perché l’ha lasciato»,
commentò Kurt, prima di sussultare di nuovo.
«Non
c’è
bisogno di essere così scortesi!». Jessie
rientrò mentre Kurt si chinava per
raccogliere i propri vestiti. Si bloccò, lanciando
un’occhiata ammirata al
fondoschiena del ragazzo. Blaine si schiarì rumorosamente la
voce. «Scusate,
dicevo? Ah già, perché mai vi
trovate in questa casa ad amoreggiare? Blaine, la tua musica non
è mai stata
così brillante, ma non credevo saresti diventato un
senzatetto. Non così presto,
almeno».
Blaine
alzò
gli occhi al cielo e sbuffò. «Ti ringrazio,
Jessie. Per tua informazione Kurt
abiterà a casa di Rachel per il resto delle vacanze. Home
Exchange», precisò
all’occhiata confusa del ragazzo.
«Oooh,
capisco. Beh, in questo caso vi lascio soli. Buona continuazione della
vacanza
e…». Lasciò correre lo sguardo sulle
spalle di Blaine mentre quest’ultimo si
alzava e si rimetteva la maglietta. «Siete sicuri di non aver
bisogno di un
terzo uomo perché io sarei più che-».
«Jessie».
Il
tono di Blaine era a metà fra l’incredulo e
l’irritato. «Se non sei fuori di
qui entro trenta secondi chiamerò Rachel e le
ordinerò di bruciare la tua
collezione di cravatte Valentino. Lo sai che non avrà
bisogno di una
motivazione valida».
Il ragazzo
alzò le mani in segno di resa. «Va bene, va bene.
Ora capisco perché tu vada
tanto d’accordo con lei. Bacchettoni».
Girò sui tacchi ed uscì dal soggiorno.
Kurt si
voltò verso Blaine solo dopo aver sentito la porta
d’entrata sbattere. «Sbaglio
o ci ha appena proposto un menage
à trois?»,
chiese a bocca aperta. «Ma non era il ragazzo di
Rachel?».
Blaine si
passò una mano fra i capelli.
«È… complicato. Diciamo che lei
l’ha trovato a
letto con uno dei ballerini dello show e
così…».
«Ouch»,
commentò Kurt con una smorfia. «Povera
Rachel».
«In
realtà non
erano così… voglio dire, non c’era
niente di serio nel loro rapporto», cercò di
spiegare Blaine, appoggiandosi allo schienale del divano.
«Lui è Boq nel cast
di Wicked e lei sta per debuttare
nel
suo primo show originale, stavano insieme per pubblicità,
credo. O per il sesso,
non sono mai riuscito a capirlo. Ma anche così-».
«-non
è un
bel modo per lasciarsi», completò Kurt.
«Già»,
concordò Blaine con un sospiro. Ci fu un momento di
silenzio.
Kurt
incrociò le braccia. «Con uno dei ballerini»,
ripeté incredulo.
Blaine
scosse la testa. «Lo so, è quasi troppo
cliché per essere vero». Poi lanciò
un’occhiata confusa al ragazzo. «Ricordami
perché ci siamo rivestiti?».
Kurt
sbuffò.
«L’ ex ragazzo maniaco di Rachel ci ha interrotto
ed irreparabilmente rovinato
l’atmosfera?».
«Oh,
già»,
annuì l’altro. «Irreparabilmente?
»
«Già»,
ripeté Kurt. «Ma è meglio
così, se non ricordo male ho una valigia da preparare
e sono molto pignolo riguardo ai miei vestiti».
Blaine
sorrise, seguendolo a ruota. «Non mi aspettavo di meno da te.
Ma la valigia può
aspettare, non credi?».
«Molto pignolo, Blaine»,
ripeté l’altro
aprendo l’armadio.
«Ma
stavolta
ci sono io a darti una mano». Blaine lo abbracciò,
poggiando il mento sulla sua
spalla. «In due ci metteremo molto meno, e anche io sono un
tipo preciso…»,
posò un bacio sulla sua scapola.
«Blaine
Anderson». Kurt si girò fra le braccia di Blaine,
fino a trovarsi di fronte al
ragazzo. «Stai per caso barattando il tuo aiuto in cambio di
favori sessuali?».
Blaine gli
stampò un bacio sulle labbra. «Sta funzionando?
».
L’altro
sorrise. «Sì».
«Allora
decisamente sì».
29
dicembre 2017, Brooklyn, New York
Blaine si
fermò sul pianerottolo delle scale, asciugandosi la fronte
per quella che
doveva essere la quarta volta in dieci minuti. «È
ufficiale: ci hai messo
dentro dei mattoni mentre non stavo guardando. Non è
possibile che sia così
pesante».
Kurt si
fermò dietro di lui, scrollando le spalle con aria
rassegnata. «Rinnego tutte
le accuse. E se l’avessi lasciata a me come ti avevo chiesto
di fare-».
«Sto
cercando di fare il cavaliere».
«Preferirei
il mio cavaliere vivo piuttosto che morto di stenti per aver
trasportato le mie
valigie su per le scale», sogghignò Kurt.
Blaine lo
squadrò di traverso, prima di mettersi le mani sui fianchi e
fare un passo
indietro. «Oh e va bene, ma sappi che mi sento umiliato nel
profondo».
«Vivrai»,
commentò Kurt sollevando la propria valigia e salendo
l’ultima rampa di scale
senza alcuno sforzo apparente, mentre Blaine lo seguiva a ruota.
«L’ascensore
rotto non era nei piani, in ogni caso»,
puntualizzò mentre infilava le chiavi
di casa nella toppa. Non fece nemmeno in tempo a mettere un piede
dentro la
porta che venne travolto da una sottospecie di tornado umano.
«DOVE
HAI
MESSO LE GOCCE DI CIOCCOLATO?», esclamò una voce
ad un volume parecchi decibel
sopra l’accettabile.
«COOPER!»,
strillò Blaine di rimando mentre il fratello lo afferrava
per il colletto e lo
tirava dentro casa, mentre Kurt guardava la scena, attonito.
«Ti ho
chiesto dove sono. Le gocce. Di cioccolato»,
ripeté il ragazzo con voce
minacciosa.
«Per
il bene
della mia cucina non lo saprai, né ora né
mai», decretò Blaine con voce calma.
«E ora togliti, abbiamo ospiti».
«Davvero?»,
Cooper
si girò verso la porta, notando solo allora il ragazzo
pietrificato sulla
soglia. «Ciao Kurt!», esclamò
allegramente mentre Blaine lo spingeva via da sé.
«Io…»,
iniziò Kurt.
«Non
dire
nulla, e per favore non scappare», lo interruppe Blaine,
«Mio fratello
diversamente da me, è fuori di testa».
«Non
sono
fuori di testa», protestò Cooper con voce
petulante. «Voglio solo cucinare la
colazione, e mi servono le gocce di cioccolato. Dove le hai
nascoste?».
«Cooper,
non
abbiamo già avuto questa discussione?»,
sospirò l’altro. «Pensa a renderti
utile e porta dentro la valigia di Kurt».
«Vuoi
davvero soffocare sul nascere le mie doti culinarie?»,
protestò Cooper. «Se
solo mi lasciassi-».
«Forno
rotto, ti ricorda qualcosa?», lo interruppe Blaine. Cooper
aprì la bocca, poi
la richiuse aggrottando le sopracciglia.
«Se
continui
a ragionare con questa filosofia è logico che-».
«Cucina
incendiata nemmeno? Non ho i soldi per permettermi un nuovo
appartamento»,
tagliò corto Blaine, posando una mano sulla schiena di Kurt
ed invitandolo ad
entrare.
«Piccolo
principino ipercritico», borbottò Cooper alle sue
spalle, afferrando il manico
della valigia. Blaine alzò gli occhi al cielo e rivolse un
sorriso al ragazzo
accanto a sé.
«Ignoralo».
Kurt
seguì
il suo consiglio e decise invece di guardarsi attorno.
L’appartamento di Blaine
era decisamente più piccolo di quello di Rachel, e meno di
classe, ma
decisamente più vissuto.
C’erano
poster e manifesti di musical appesi alle pareti, e foto con le cornici
spaiate, la federa del divano era sbiadita e un angolo della carta da
parati si
stava leggermente staccando. E c’erano spartiti poggiati su
ogni singola
superficie piana.
La voce di
Cooper lo distolse dai suoi pensieri. «Dove devo
portarla?», chiese il ragazzo
appoggiandosi sulla valigia.
«In
camera».
Il ragazzo
alzò un sopracciglio. «Ma nella camera degli
ospiti ci sono io e- oh!». Sul
viso di Cooper comparve un ghigno che non prometteva nulla di buono
mentre i
suoi occhi passavano da un ragazzo all’altro. «Ooh». Kurt non poté
fare a meno di arrossire.
Blaine
sospirò, avvicinandosi a Kurt e prendendolo per mano.
«Non iniziare, per
favore», disse, senza riuscire a suonare completamente serio.
«Ma
certo
che no, caro Blainey», rispose il fratello in un tono che
invece di calma
prometteva infinite battutine a sfondo sessuale. «Stavo solo
per commentare che
quest’anno sembra essere la stagione degli amori, per voi
newyorkesi».
Blaine
alzò
un sopracciglio. «A Los Angeles non ci sono coppiette che
pomiciano in
metropolitana?».
«Sto
solo
dicendo che anche la vostra amica Rachel sembra darsi da
fare».
«Cosa?!»,
esclamò l’altro, allarmato.
Cooper fece
un cenno alle proprie spalle, dove un giornale era mezzo aperto sul
divano.
Blaine si precipitò sul divano e lo squadrò con
aria preoccupata.
«Era
su
tutti i giornali scandalistici di oggi», spiegò
Cooper a Kurt con un’alzata di
spalle. «A quanto pare Rachel Berry ha trovato una nuova
fiamma mentre era in
vacanza ad Altrove».
«Cavolo,
questa non ci voleva…», gemette Blaine alle sue
spalle.
«Perché
ti
preoccupi tanto?», commentò Cooper avvicinandosi a
lui e mollandogli una pacca
che gli fece scivolare gli occhiali sul naso. «Potrebbe non
essere nemmeno
vero! Prima o poi i giornali avrebbero trovato qualcosa di cui
parlare… e anche
se fosse, sembra più simpatico di quel St James, se non
altro».
«Chiunque
è
più simpatico di quel maniaco pazzoide»,
commentò Kurt con tono fermo.
«Hai
conosciuto Jessie?».
«Io-».
«Ma
non è
così che doveva andare», si lamentò
Blaine, sfilandosi gli occhiali con aria
abbattuta. «Rachel teneva a questo tizio, mi aveva
addirittura telefonato per
chiedermi consiglio… ed ora che è successo questo
casino lei penserà solo alla
sua immagine e…».
«E
rispedirà
quel tizio nei sobborghi di Columbus dai quali è
sbucato?», ridacchiò Cooper.
«Non
è
divertente, è tragico», gemette Blaine buttandosi
a sedere sul divano e
lasciando cadere il giornale sul tavolino.
«Ascolta,
Blaine, ecco cosa faremo…», Kurt smise di prestare
attenzione ai discorsi dei
due fratelli, riprendendo possesso della propria valigia e decidendo di
fare
come se fosse a casa sua. Si diresse verso il corridoio e
sbirciò fra le
stanze: bagno, cucina, una stanza molto piccola piena di libri e
occupata per
la maggior parte da un pianoforte da parete, una camera con i
copriletti
buttati all’aria e vestiti da tutte le parti –
senza dubbio la stanza degli
ospiti usurpata da Cooper – e, finalmente, la stanza di
Blaine.
Entrò
e
poggiò la valigia contro una parete, notando con piacere che
la stanza era
parecchio spaziosa. Si concesse qualche momento per guardarsi intorno:
tutto,
dalle foto attaccate alle pareti, alla veduta su Brooklyn, ai libri
poggiati
sul comodino sapeva di Blaine. Sarebbe stato fantastico passare in
quella casa
gli ultimi giorni della sua vacanza, Cooper o non Cooper.
Tornò
in
soggiorno, solo per scoprire che il fratello in questione non aveva
ancora
finito di blaterare i suoi piani ridicoli, e che Blaine non si era
ancora mosso
dal divano, né la sua espressione era diventata meno
disperata.
“Stessi
geni, stessa attitudine da drama queen”, pensò
divertito, dirigendosi verso il
divano. Era davvero curioso di vedere che razza di ragazzo valeva la
pena di
tutta questa preoccupazione… Sbirciò dietro la
spalla di Blaine e le sue
sopracciglia andarono quasi a sparire sotto i capelli.
Di certo
doveva aver visto male.
«Puoi
passarmi il giornale?», chiese a Blaine.
«C’è…
qualcosa che non va?», chiese il ragazzo notando la sua
espressione stralunata.
«No,
io…».
«Kurt?».
Il ragazzo
deglutì. «Blaine», alzò gli
occhi dal giornale. «Il tizio di questa foto…
è mio
fratello».
29 dicembre 2017,
Upper West Side, New York
Rachel si
lasciò cadere sul divano, sentendosi pronta a dormire per
dodici ore filate. Naturalmente l’ascensore
doveva smettere
di funzionare proprio oggi.
Lanciò
un’occhiata malevola alle sue valigie. E chi lo sapeva che
vestiti e scarpe
potessero pesare così tanto? Si lasciò
sprofondare ancora più a fondo nei
cuscini.
“Un
ritorno
da favola”, pensò fra sé e
sé con un sospiro. Degno della partenza che aveva
avuto, nulla da dire.
Lasciò
vagare lo sguardo per il soggiorno. Era bello essere a casa, dopotutto.
Prairie
Oaks Cottage era delizioso, ma c’era una soddisfazione quasi
irreale nello
stendersi sul suo divano, con i suoi cuscini e il suo
tappeto, e il suo Tony, ovviamente… Lanciò
un’occhiata
distratta alla statuetta poggiata sul tavolino da caffè.
Avrebbe sofferto un
po’ la solitudine, forse. Sugar sarebbe stata con Rory per
tutte le vacanze,
Blaine aveva la casa piena di ospiti, i suoi papà
all’estero… Jessie ormai era
una questione chiusa, e in Ohio aveva passato la maggior parte del
tempo con-
Scosse
violentemente la testa. “No. Non pensarci”.
“Chissà
se
Kurt sa di quel che è successo”, si chiese con uno
sbadiglio. “F-lui
è suo fratello, dopotutto”. Ma probabilmente
Kurt doveva essere stato parecchio impegnato a New York. Con Blaine.
Le
sfuggì un
sorriso. Probabilmente quei due avevano già una tresca. Quel
Kurt era carino, a
giudicare dalle foto di famiglia appese in casa sua, e Blaine, beh, era
davvero
affascinante. Avrebbero formato una bella coppia, davvero, non ci aveva
nemmeno
pensato, ovviamente, era stata più concentrata su-
“No, basta. Smettila. Trova una
distrazione”.
Estrasse il
cellulare dalla borsa e lo rimise in carica. Trovò due
messaggi in segreteria.
Il primo era
di Adam, che si lamentava della sua assenza alle prove. Lo
cancellò dopo averne
ascoltato tre secondi. Sapeva di essere infantile ma non aveva davvero
voglia
di sentire quanti progressi aveva fatto Mercedes mentre lei non
c’era. “Provo
quel musical da ben tre mesi, dannazione, posso permettermi di fare la
diva e
saltare qualche giorno di prove”.
Il secondo
messaggio
di Sugar, la cui voce iniziò a strillarle
nell’orecchio in tono sovreccitato.
«Rachel
non
indovinerai mai a che party sei stata invitata per Capodanno! Lo so,
è un po’
tardi per gli inviti, ma devi assolutamente andarci! James Cameron,
Rachel! Ti
dice niente Titanic? Solo io vedo “offerta di
casting” scritto a lettere
lampeggianti sulla tua testa?».
Rachel rise al
suo tono sovreccitato e si rigirò sul divano.
Appena il
messaggio finì, tagliando a metà uno strillo
piuttosto acuto, premette il
bottone di chiamata. Le rispose la segreteria telefonica –
era piuttosto tardi
– e la ragazza si schiarì la voce.
«L’Ohio
deve
avermi fatto più male del previsto, Sugar», disse
nel ricevitore. «Ma non ho
voglia di andarci».
29
dicembre 2017, Greater Hilltop, Columbus, Ohio
Finn Hudson
era intento ad affogare le proprie pene nel cibo quando ricevette la
chiamata.
Fissò
il
numero impresso sul display del cellulare e deglutì,
lanciando un’occhiata
colpevole al suo terzo cheeseburger. Kurt era sempre stato una persona
sveglia,
ma non poteva aver percepito anche quello, giusto?
Rispose con
un pizzico di esitazione. «Pronto?».
«Finn»,
la
voce di Kurt aveva quel misto di disperazione e di
incredulità che di solito
riservava ai momenti in quali gli chiedeva di spiegargli di nuovo a
cosa
serviva il balsamo per capelli. «Di tutte le ragazze di
Columbus. Di tutte le
ragazze che potevi portarti a letto, proprio Rachel Berry?».
Finn
sbuffò
nel telefono. «Ti aspetti delle scuse Kurt?».
«No,
ma…
Finn», fece un sospiro, come se anche lui stesso non sapesse
bene quale fosse
lo scopo di quella telefonata. «È su tutti i
giornali! Pensa se papà e
Carole…».
«Sarà
già
tutto finito quando saranno tornati», borbottò
Finn. «Senti, Kurt, mi dispiace
di averti rovinato la vacanza. Non pensavo Rachel sarebbe tornata a
casa ma-».
«Non
ti
preoccupare», lo interruppe l’altro. «Mi
ha offerto di stare con lei,
veramente, ma Blaine mi ha proposto di stare da lui, e
così-».
«Blaine?»,
chiese Finn confuso. «Chi è Blaine?».
«Blaine
è,
umh». Finn poteva quasi sentire il rumore delle guance di
Kurt che arrossivano
dall’altro capo del telefono. «Ho incontrato un
po’ di gente nuova qui a New
York e Blaine, beh, l’ho conosciuto quando è
venuto a casa di Rachel perché-».
«Oh,
per
l’amor di Dio, sono il suo ragazzo», intervenne una
voce divertita che Finn non
riuscì a riconoscere.
«Blaine!»,
disse Kurt cercando di sembrare irritato e fallendo miseramente.
«Sì, insomma,
è il mio ragazzo. Da ben più di ventiquattro
ore».
«Kurt,
il
tuo nuovo ragazzo abita a New York?».
«Il
mio ragazzo
abita nella mia nuova città», decretò
Kurt con voce sicura. «Ho deciso di
trasferirmi Finn. E non solo per Blaine… l’ho
deciso da Natale, ormai. Avere
te, Carole e papà vicino a casa è fantastico,
ma… voglio di più. Devo almeno
provarci.».
Finn
sospirò
e si rilassò sullo schienale della sedia. «Era ora
fratellino», commentò
sorridendo. «Mi chiedevo quanto tempo ci avresti ancora messo
a renderti conto
che ti meriti di più di Columbus, Ohio».
«Finn
quante
volte ancora dovrò ricordarti che sono io il più
grande fra di noi», disse Kurt
in tono esasperato, anche se Finn poteva sentire che stava sorridendo.
«Grazie».
«Era
solo
questione di tempo», ripeté l’altro.
Kurt rise.
«Cosa fai a Capodanno?».
Finn si
passò una mano sugli occhi. «Non lo so
ancora… pensavo di passarlo con Rachel,
ma…», si fermò per deglutire a vuoto.
Faceva male, più di quanto avesse
immaginato. «Credo chiederò a Puck e ai
ragazzi», riuscì a dire alla fine.
Ci fu un
momento di silenzio all’altro capo del telefono.
«Finn, cosa…».
«Non
ho
tanta voglia di parlarne al momento».
Sapeva che
Kurt avrebbe capito. Si conoscevano da troppo tempo perché
non capisse quando
una cosa faceva male, troppo male anche solo per parlarne.
Un’altra
pausa. « Vieni qui», disse Kurt.
Finn
sospirò. Non era un’idea così cattiva,
ma… «Kurt, lo sai che non posso permettermi
il biglietto…».
«Sarà
il mio
regalo per il tuo prossimo compleanno, allora», insistette
l’altro. «Avanti,
Capodanno a New York, cosa può esserci di meglio?».
A/N:
Ed ecco
anche il penultimo capitolo :) Ci
avviciniamo alla fineeeeee *canticchia*
Ah,
già,
dico penultimo perché dopo un consulto con la mia epica
beta/assistente/comare
yu_gin ho deciso di non dividere l’ultimo capitolo, dunque
saranno otto più
prologo ed epilogo come inizialmente previsto :)
Prossimamente:
Finn arriva nella Grande Mela, Rachel incontra qualcuno che si
meriterebbe una
padellata in testa, Cooper vede qualcosa che non avrebbe voluto vedere
e Kurt e
Blaine… beh, Kurt e Blaine… <3
Il prossimo
capitolo sarà pubblicato martedì pomeriggio :)
Fino ad
allora, so long readers!
MM
|
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Capitolo 9 *** 31 dicembre ***
31
dicembre 2017, Brooklyn, New York
«Sorgi
e
brilla, bella Addormentata!».
Finn
scattò
bruscamente a sedere, cercando di liberarsi del peso che sembrava
essergli
crollato addosso durante la notte.
«Coop,
quando ti ho detto “vai a svegliare Finn” non
intendevo saltagli addosso e
schiaccialo!».
Il ragazzo
batté
lentamente le palpebre e mise a fuoco due figure poco familiari che
battibeccavano davanti al suo letto. “O meglio,
divano”, si corresse, lanciando
un’occhiata sotto il proprio sedere.
«Avanti
Blaine,
non c’è pericolo, questo ragazzo è un
vero tronco di pino!».
Ah giusto.
Cooper e Blaine. New York.
I fratelli
si girarono verso di lui mentre sbadigliava sonoramente e scalciava via
le
coperte, facendo una quantità spropositata di rumore.
«Che succede?», mugugnò.
Blaine
scosse la testa con aria mortificata. «Scusa, si prende
sempre troppa
confidenza con le persone».
«Non
credevo
che vedere mio fratello torturato dal mio ragazzo e da suo
fratello potesse piacermi», intervenne la voce di Kurt da
un’altra
stanza. «Ma devo ammettere che è piuttosto
divertente».
Finn
sbadigliò nuovamente, stavolta alzandosi in piedi e
stiracchiando le membra
indolenzite. «Sei crudele, fratellino».
La testa di
Kurt fece capolino dalla cucina. «Quante volte devo ripeterti
che sono io il maggiore? E
comunque, considerala
una vendetta per tutte le volte che mi hai svegliato alle sei di
mattina con i
tuoi piedoni per il corridoio. Lo sai che mi piace dormire la domenica
mattina».
Per tutta
risposta Finn gli fece la linguaccia.
«Molto
maturo, Finn», Kurt cercò di assumere
un’espressione sdegnata ma fu tradito dal
proprio sorriso. «Forza, venite di là, la
colazione è pronta».
I tre si
lasciarono
guidare dal profumo di caffè e muffin freschi, impilati in
un piatto al centro
della tavola.
«Allora!»,
disse Cooper entusiasta, piombando a sedere fra Finn e Blaine.
«Che facciamo
oggi?».
«Sta a
Finn
decidere», disse quest’ultimo, voltandosi verso il
ragazzo. «Dove vorresti
andare?».
«Non
saprei», dichiarò Finn con la bocca piena di
muffin. Kurt gli tirò un calcetto
da sotto il tavolo e l’altro deglutì prima di
parlare di nuovo. «L’Empire
State? O Central Park. Un posto dove non possa incontrare
Rachel», concluse, un
po’ a disagio.
Kurt
sospirò. «Finn, non siamo a Lima, questa
è New
York, le probabilità che tu possa vederla sono una
su otto milioni».
«Non
avrei
saputo dirlo meglio», sovvenne Blaine, dandogli una pacca
sulla spalla.
«Senza
contare
che la mia futura costar Rachel Berry sarà ad un faboulous
party stasera, e molto
probabilmente passerà tutta la giornata a prepararsi per
essere semplicemente
stupenda». Cooper osservò gli sguardi straniti che
gli altri gli stavano
rivolgendo. «Che c’è? Io lo farei se
James Cameron mi invitasse al suo party di
Capodanno!».
«A
volte mi
chiedo se tu sia veramente etero», borbottò Blaine.
«E non
sai
quanto mi diverta vedere quello sguardo confuso sul tuo viso,
fratellino».
Finn si
schiarì la voce. «A proposito, avete qualche
programma per stasera? Non si va a
Times Square, qui a New York? Per vedere quella cosa che fanno con la
palla?».
Kurt scosse
la testa. «No no no, non se ne parla, sarà
strapieno di gente, tutti pigiati
insieme, e poi fuori farà un freddo cane. Non ci tengo a
prendermi la
polmonite!».
«Mike
ci ha
invitato da lui», spiegò Blaine. «Abita
a Chelsea e ha una casa davvero enorme
per gli standard di New York. Ci saranno molte persone del cast e dei
suoi
amici, sarà divertente!».
«Va
bene per
me», acconsentì Finn. «Basta
che-».
«Non
ci sia
Rachel, abbiamo capito!».
31 dicembre 2017,
Upper West Side, New York
“Mi
chiedo
cosa abbia fatto nella mia vita precedente per meritarmi questa
tortura”, si
chiese Rachel, mentre la voce di Sugar le trapanava
l’orecchio ed una ragazza
sulla ventina le spalmava uno strato di cera bollente su una coscia.
«Quello
che ti
sto dicendo», stava cinguettando la voce di Sugar in quel
momento. «È che
l’Ohio ti è davvero entrato
nelle
vene più di quello che pensavo. Come fai a non essere
eccitata all’idea della
festa di James Cameron? Hai idea della gente che sarà
presente?».
Il corpo di
Rachel si irrigidì involontariamente mentre sentiva lo
strofinare di una
striscia di carta sulla sua pelle. «Sugar»,
cominciò, cercando disperatamente
di concentrarsi su qualcos’altro. «Il punto non
è questo, ma- ouch! Mi
scusi, mi scusi!», strillò
subito dopo. La ragazza – il nome sulla targhetta diceva
Chloe – si strofinò il
naso, che il suo piede aveva mancato di qualche centimetro.
«Le mie gambe sono
parecchio sensibili».
«Sei
dall’estetista
Rachel?», chiese Sugar con tono vagamente compiaciuto.
«Emh…»,
la
ragazza si rimise sdraiata sul lettino mentre Chloe le lanciava
un’occhiata
malevola. «Sì?».
«Devo
prenderlo come un buon segno?». La voce di Sugar traboccava
di quella che
sembrava gioia repressa. Rachel prese un respiro profondo.
«Ascolta,
Sugar,
dimentica quello che ho detto due giorni fa. È stato un
momento di debolezza,
va bene? Mi sono lasciata influenzare, come hai detto tu.
Andrò a quella festa,
sarò una visione e cercherò di capire se Mister
Cameron ha intenzione di girare
un musical nel prossimo futuro. E il due gennaio sarò in
sala prove come nuova,
okay?».
«Perfetto!»,
esclamò Sugar proprio mentre Chloe toglieva una striscia di
cera dalla gamba di
Rachel con uno strappo. «Questa è la Rachel Berry
che conosco. Nessun uomo può
anche solo scalfirti, giusto?».
«Giusto»,
borbottò Rachel, senza un attimo di esitazione.
31
dicembre 2017, Chelsea, New York
«Ditemi
che
questo significa quello che penso significhi»,
esclamò Mike appena la porta del
suo appartamento si aprì abbastanza da vedere la scena che
gli si presentava
davanti. Il suo sguardo, notò distrattamente Kurt, era fisso
sulla sua mano
destra. Che al momento era intrecciata con la sinistra di Blaine.
«È
strano
come tutti i tuoi amici abbiano la stessa reazione», gli fece
notare con voce
pacata. «È come se si fossero messi
d’accordo».
«Allora?»,
insistette Mike, senza dargli ascolto.
«Per
quale
motivo dovete essere così imbarazzanti?»,
sbottò Blaine in tono irritato.
L’espressione
di Mike era a dir poco euforica. «È un
sì?».
Blaine lo
ignorò, facendosi strada oltre di lui per entrare in casa.
«Sì,
Mike»,
fece appena in tempo a dire Kurt prima che Blaine lo trascinasse oltre
la
soglia.
Il ragazzo
esultò. «Sono così felice, voi non ne
avete idea!».
«Ti
capisco,
fratello!», esclamò Cooper dandogli un cinque e
abbracciandolo.
Durante
tutta questa scena Finn era rimasto sulla porta guardando il tutto con
sguardo
stranito. «Allora Blaine aveva ragione. Siete davvero
imbarazzanti. E strani».
Mike si
districò
dalle braccia di Cooper dandogli qualche pacca sulla spalla, per poi
girarsi
verso Finn. «Tu devi essere il fratello di Kurt,
giusto?».
«Finn»,
si
presentò lui.
«Mike.
Piacere», il ragazzo chiuse la porta e spinse gli altri due
in casa, guidandoli
verso Kurt e Blaine che parlavano animatamente con Tina. «E
perdona il nostro
comportamento infantile ma non vedevamo l’ora che questi due
combinassero
qualcosa! Questa storia va avanti da troppo tempo».
«Senti
chi
parla!», esclamò Blaine. «Kurt
è qui da due settimane, a differenza di qualcuno
che conosco», lanciò un’occhiata
eloquente a Tina.
La ragazza
si limitò a ridere, mentre Mike le passava un braccio
attorno alla vita e le
schioccava un bacio sulla guancia.
«Finalmente
uscite allo scoperto, allora», commentò Kurt
alzando un sopracciglio.
«Beh»,
disse
lei stringendosi di più contro il fianco di Mike.
«Diciamo solo che le volte
che ci hanno sorpreso come hai fatto tu a Natale sono
state…».
«Sorprendentemente
frequenti negli ultimi mesi», concluse Mike.
«Quindi abbiamo deciso che non ci
sarebbe stato alcun male a rendere la cosa pubblica, anche se lavoriamo
insieme
e-».
«Lo
sapevamo
già tutti, scemi che non siete altro»
esclamò la voce di Mercedes da qualche
metro più in là.
«Mercedes!»,
esclamò Cooper, estasiato. «Vieni, devi
assolutamente conoscerla…», disse trascinando
Finn con sé.
Blaine
sorrise e li seguì. Kurt fece per andargli dietro quando
Tina lo trattenne per
un braccio.
«Kurt,
puoi
dirci quando partirai? Non manca molto, vero?».
«Ripartirò
tra
qualche giorno, Tina».
«Non
potresti fermarti un altro po’? Almeno fino alla serata di
apertura del
musical!».
«Ho
già
prenotato il biglietto aereo», disse il ragazzo scuotendo la
testa. «Ma la
buona notizia è che mi trasferirò a New York a
febbraio».
«Dici
sul
serio?», esclamò lei, cambiando completamente
espressione.
Kurt
annuì
mentre Tina gli buttava le braccia al collo e lo abbracciava stretto.
«Non
so se
Blaine ve l’ha detto», iniziò non appena
si allontanarono. «Ma io-».
Mike
sbuffò.
«Non sai se non ce
l’ha detto, vorrai
dire. Se riesci a capire come farlo smettere di parlare te ti devo un
favore».
Kurt
arrossì, senza riuscire a non essere un po’
compiaciuto. «Beh, ho studiato
musical a Columbus, ma fin dal liceo ho sempre sognato di lavorare a
Broadway. Sono
venuto qui e ho trovato un ragazzo… degli amici…
sembra quasi surreale in così
poco tempo». Tina gli passò un braccio attorno
alla vita, sorridendo. «Forse è
un segno che è il momento di lasciare
l’Ohio».
«È
una
scelta molto coraggiosa, Kurt», disse Tina con un sorriso.
«Hai già idea di
cosa farai?».
«Credo
che lavorerò
come cameriere per mantenermi. Lo so è un
clichè». Il ragazzo sospirò
teatralmente, mentre i due ridevano. «Ma farò
tutte le audizioni che posso nel
frattempo».
«Ti
informerò appena saremo a corto di comparse». Mike
gli strizzò l’occhio.
Kurt
sorrise. «Grazie. Il mio curriculum non è un
granché, e so che non sarà così
facile-»
«Emh,
io non
ne sarei così sicuro…», intervenne la
voce di Blaine dietro di lui.
Kurt si
girò: il ragazzo teneva in mano il cellulare di Mercedes e
stava trattenendo a
malapena un sorriso. «Perché ridi?».
Blaine gli
porse il telefono. «Da’ un’occhiata
qua».
Kurt prese
il cellulare in mano: era aperto sul profilo twitter di Mercedes:
riconobbe subito
il video di Baby It’s Cold Outside.
Per
un momento il cuore gli salì in gola, ricordando Dave che
gli chiedeva chi
diavolo era quel ragazzo seduto accanto a lui. Poi lo sguardo gli
scivolò sui
numeri che erano segnati sotto di esso. Aggrottò le
sopracciglia. Alzò lo
sguardo dallo schermo per guardare il ragazzo.
«Cosa
significa ventimila?».
Il sorriso
di Blaine avrebbe potuto abbagliare un cieco. «Significa che
ventimila persone
si sono prese il disturbo di cliccare mi piace affianco a questo video,
vedi-».
A Kurt
sarebbe piaciuto ribattere che certo, lo sapeva cosa significava, e che
non
intendeva quello, ma il resto del gruppo
soffocò le sue parole e
nonostante le sue proteste si accalcò alle spalle del
ragazzo per dare
un’occhiata.
«Che cosa?», strillò Mike.
«Impossibile!».
«Sei
famoso,
Kurt!», esclamò Cooper.
«Bel
colpo
fratellone!», aggiunse Finn con una gran pacca sulle spalle.
«Ed
è
passata solo una settimana!», aggiunse Mercedes con aria a
dir poco trionfante.
«Sono curiosa di vedere quale sarà il conto fra un
mese…».
Il ragazzo
si sentì girare la testa. Non stava succedendo davvero. Cose
del genere non
succedevano davvero, giusto? O almeno, non a Kurt Hummel.
«Fra
un mese
sarà febbraio e a nessuno importerà
più di un paio di tizi su internet che cantano
Baby It’s cold outside»,
commentò a
mezza voce.
«Questo
lo
dici tu!».
«Io vi
ascolterei anche in agosto, latticino», rise Mercedes con una
strizzata
d’occhio.
«Broadway
ti
adorerà, Kurt», disse Tina battendo le mani.
«Ti adorano già».
«Ragazzi
dobbiamo festeggiare!», esclamò Cooper.
«Facciamo un brindisi! Dove sono gli
alcoolici?».
Si
spostarono in massa verso la cucina, mentre Kurt rimase a fissare lo
schermo
del cellulare, vagamente intontito. Solo quando sentì un
braccio passargli
attorno alla vita si accorse che Blaine era rimasto indietro con lui.
«Sembra
che non sarà così difficile, alla fin
fine», disse, baciandolo su una guancia.
Kurt sorrise
appena, rilassandosi nel suo abbraccio. «Così
sembra».
31 dicembre 2017, East
Broadway, New York
Rachel si
ravviò un’ultima volta la frangetta prima di
stamparsi sul volto il proprio sorriso
da palcoscenico e uscire dall’auto. Non appena
poggiò il tacco dodici sul
tappeto rosso del Red Leaf i flash delle macchine fotografiche
cominciarono a
lampeggiare senza sosta su di lei.
«Rachel,
qui!».
«Un
sorriso,
Rachel!».
La ragazza
continuò a sorridere e camminò fino a trovarsi al
centro della folla di
fotografi.
“Grazie
a
Dio non sono così tanti”, pensò mentre
posava e sorrideva verso di loro per
qualche minuto, allontanandosi poi verso l’entrata del
locale. Sospirò di
sollievo quando vide che era priva di giornalisti: non aveva il
coraggio di
immaginare le domande che le avrebbero fatto dopo lo scandalo degli
ultimi
giorni.
Entrò
nel
locale a passo svelto. Consegnò il proprio cappotto ad un
ragazzo fermo davanti
all’entrata e si guardò intorno. Si trovava in una
sala immersa nella penombra,
illuminata da luci soffuse rosse e dorate – si permise di
attenuare il sorriso
smagliante, non l’avrebbero vista comunque. Una flotta di
camerieri girava
offrendo cibo e champagne, ma gli ospiti sembravano decisamente
più impegnati a
fare convenevoli o a ballare per preoccuparsi del rinfresco.
Oh, e la
sala piena. Letteralmente.
“Dove
le
avrà trovate poi, tutte queste persone?”,
pensò la ragazza mentre si guardava
intorno con gli occhi sgranati. “E io dovrei trovare James
Cameron in tutto
questo casino? La serata si mette bene”.
31
dicembre 2017, Chelsea, New York
Finn si
appoggiò al muro del soggiorno di Mike, il più
lontano possibile dalla musica e
con un bicchiere di vino rosso in mano. Era contento di avere un
momento per
sé: negli ultimi giorni le cose gli erano successe troppo
velocemente e doveva
schiarirsi le idee.
Era a New York. Fino a quel momento era stato
assolutamente
convinto che non avrebbe mai lasciato l’Ohio in tutta la sua
vita, e ora era a
più di settecento chilometri da casa sua. E stranamente gli
piaceva.
Poi
c’era
Kurt. Era da qualche anno ormai che Finn aspettava che il fratello si
decidesse
a trasferirsi fuori dall’Ohio, e ora che aveva preso la sua
decisione sembrava
decisamente felice. Lo guardò di sottecchi mentre scherzava
con Blaine. Sorrise.
Più che felice.
Poggio la
testa contro il muro alle sue spalle. Se solo non avesse avuto tutto
quel caos
in testa…
Si
rigirò il
bicchiere fra le mani. Non è che non volesse essere
lì – Tina e Mike erano simpatici
e Mercedes era decisamente fantastica, ma…
«È
come se
dovessi essere con un’altra persona».
Finn si
girò
di scatto: Cooper si era avvicinato furtivamente a lui e stava
sorseggiando un
drink con tutta la calma del mondo. Lo guardò, cerando di
non far trapelare il
terrore dalla sua espressione. «Non dirmi che sai anche
leggere nel pensiero».
«Purtroppo
no», rise Cooper. «Ma sono bravo a capire quando
qualcuno si strugge d’amore
per qualcun altro. Mi piace osservare le espressioni per riprodurle
mentre
recito, sai». Esibì una smorfia triste davanti
alla faccia di Finn. «I bravi
attori non smettono mai di lavorare».
«Certo»,
disse Finn cautamente. Dopo un incidente che aveva coinvolto lui,
Cooper e un
pacco di cereali glassati – e che avrebbe preferito
dimenticare – aveva capito
che il ragazzo non andava contraddetto. «È
così che hai capito che Blaine era
cotto di mio fratello?».
«Ah
per
quello non ci voleva un genio. Sono abbastanza sicuro che anche da
Marte si
riescano a vedere quegli occhi a cuoricino».
Finn
guardò
di nuovo i due ragazzi: avevano ricominciato a ballare, appiccicati
l’uno
all’altro e due identici sguardi adoranti.
«Già», concordò in tono
divertito.
Cooper
sospirò di soddisfazione, passandogli un braccio sulle
spalle. «Tu invece per
chi ti struggi d’amore, eh?».
Finn
sentì
un pizzicorino sulle guance e pregò di non essere arrossito
troppo
vistosamente. «Come se non lo sapesse tutta New
York».
«Errore!»,
esclamò l’altro. «Tutta New York sa che
hai fatto una scappatella con Rachel
Berry, non che sei innamorato di lei». Finn non rispose.
«E scommetto che
nemmeno lei lo sa, vero?», insistette Cooper.
Il ragazzo
si schiarì la voce prima di parlare. «A lei non
importa», disse in tono piatto.
«Quando ha visto la nostra foto ha messo bene in chiaro che i
suoi rapporti
mirano principalmente alla pubblicità»,
allargò le braccia e fece un mezzo
sorriso. «E io non sono certo buona pubblicità,
giusto?».
«Ouch».
Cooper fece una smorfia. «Perché ho la sensazione
che abbiate fatto una
litigata coi fiocchi?».
Finn si
limitò a scuotere la testa.
Cooper bevve
un sorso di vino con aria pensierosa. «Lascia che ti dica una
cosa», disse dopo
qualche secondo. «Il mondo dello spettacolo? È
duro, e molto. Dobbiamo agire,
apparire e parlare in un certo modo. Peggio, ci si aspetta che noi lo
facciamo.
E a volte qualcuno si attacca talmente tanto a queste bugie su
sé stesso che si
scorda cosa sta cercando veramente. O come avere un rapporto con una
persona
sincera».
«Cooper,
non
sono molto bravo con le allusioni. Stai cercando di dirmi
qualcosa?».
Il ragazzo
scrollò le spalle. «Solo che se io fossi
un’attrice famosa avrei bisogno di una
spintarella prima di creare uno scandalo». Gli
tirò una gomitata leggera. «E
magari di una spintarella dal ragazzo per cui mi sto struggendo
d’amore».
Finn lo
fissò per qualche secondo. Poi si raddrizzò
improvvisamente, posando il suo
bicchiere. «Io devo andare da lei».
Il ragazzo
gli rivolse un sorriso raggiante. «Ottimo, è tutta
la sera che aspetto di
sentirti dire questa frase!». Tirò fuori un
cartoncino dalla tasca dei jeans. «Tieni
questo è il biglietto da visita del locale, prendi la
metropolitana fino a East
Broadway, il locale è a trecento metri dalla
fermata!»
Finn lo
guardò, incredulo. «Tu…?».
«Se
hai
qualche problema chiama me o i ragazzi… anche se
effettivamente, io starò
ballando come se non ci fosse un domani, quindi chiama i ragazzi. E mi
raccomando, non perderti! Forza, sono le undici meno un quarto! Se vuoi
arrivare per mezzanotte devi sbrigarti!»
Finn gli
sorrise prima di allontanarsi velocemente. «Grazie amico. Ti
devo un favore!»
31 dicembre 2017, East
Broadway, New York
Rachel
sorseggiò il suo cocktail. Era decisamente
troppo leggero per la serata:
la pista da ballo era affollata, la musica assordante, e come se non
bastasse lei
iniziava ad avere un principio di mal di testa. Poggiò i
gomiti sul bancone,
dando le spalle alla folla. Aveva rinunciato a trovare James Cameron
già da un
pezzo: poteva anche non essere alla festa per quel che valeva, in mezzo
a tutta
quella gente non l’avrebbe mai trovato comunque.
Prese un
respiro profondo, socchiudendo gli occhi e massaggiandosi le tempie.
«L’Ohio
ti
ha fatto bene, vedo», disse qualcuno da sopra la sua spalla.
«Sei splendida
stasera».
Rachel si
girò lentamente, sperando di non aver sentito bene.
Purtroppo conosceva fin
troppo bene quella voce. Erano settimane che voleva schiaffeggiare il
suo
proprietario. «Jessie», disse in tono gelido.
Il ragazzo
si appoggiò al bancone, decisamente affascinante nel suo
completo migliore. «Ciao
Rachel».
La ragazza
mise di nuovo i gomiti sul bancone finendo il suo drink in un sorso
solo. «Diavolo,
questa festa fa sempre più schifo».
Jessie
ridacchiò, sedendosi sullo sgabello accanto al suo.
«Un Cosmo per me e uno per la
signorina!», esclamò verso il barista, aggiungendo
anche un occhiolino per
buona misura.
Rachel
alzò
un sopracciglio. «Come ho fatto a non accorgermi che stavi
diventando sempre
più gay?».
«Sono
bi e
lo sai, Rachel, guarda che potrei anche offendermi», disse
Jessie agitando un
dito ammonitore verso di lei. «E poi noi ragazzi di teatro
sembriamo tutti un
po’ gay, ammettilo». La ragazza non
riuscì a trattenere uno sbuffo che
assomigliava parecchio ad una risata. «I campagnoli invece
sono molto più macho,
invece», aggiunse Jessie con un sorriso.
L’ilarità
sparì all’istante dal volto di Rachel.
«Non osare, Jessie».
Il barista
poggiò i due drink davanti a loro e poi filò
subito via percependo la tensione
gelida che era scesa fra i due.
«Volevo
chiedergli il numero», borbottò Jessie.
Rachel
alzò
gli occhi al cielo e prese il suo bicchiere. «Oh avanti,
Rachel. So che la
nostra storia era una trovata pubblicitaria fatta e finita, anche se il
sesso
era fantastico, te lo concedo-».
«Così
gentile, da parte tua».
«Ma
questo
non mi ha impedito di affezionarmi a te, donna impossibile e
testarda». Rachel
lo guardò con tanto d’occhi.
«È vero», continuò lui.
«Avanti, non mi hai già
perdonato? Di solito i rimpiazzi ti aiutano a perdonare».
«Finn
non
era un rimpiazzo», scattò Rachel. «Era
molto meglio di te».
Jessie si
sistemò il papillon viola sgargiante.
«L’avevo intuito».
«Cosa
vorresti dire?».
Per la prima
volta durante quella serata il ragazzo la guardò con
un’espressione seria. «Hai
guardato bene quella foto, Rachel? Non hai mai avuto quello sguardo,
con
nessuno dei tuoi ragazzi precedenti». Lei alzò un
sopracciglio «Oh, e va bene,
forse ho stalkerato un po’ i tuoi servizi stampa prima che ci
mettessimo
insieme, okay?».
Rachel
aprì
la bocca per ribattere, poi scosse la testa e rinunciò.
Aveva sempre saputo che
Jessie era pazzo. «Il tuo argomento è comunque
irrilevante Jessie. Non sapevamo
che qualcuno ci stesse spiando e-».
«Oh
avanti,
ti è già successo di subire
un’imboscata dai paparazzi, Rachel».
«E tu
come-».
«Stalker,
ricordi?». Jessie sospirò profondamente.
«Ti ricordi cosa ti ho detto quando ci
siamo- emh, lasciati?». Lo sguardo di Rachel rivaleggiava con
quello delle sculture
di ghiaccio presenti nella sala. «Okay, te lo ricordi.
Nessuno è riuscito a
entrare nella tua corazza prima d’ora, Rach».
Poggiò un gomito sul bancone del
bar, guardandola con aria assorta. «Quel Finn è il
primo».
La ragazza
distolse lo sguardo da Jessie e fissò invece
l’interno del suo bicchiere, mescolando
distrattamente con la cannuccia viola. «Lo
è», sussurrò così piano che
lui la
sentì appena.
Jessie le
mise una mano sulla spalla, solo una, solo per qualche secondo: sapeva
bene che
non era ancora stato perdonato.
I due
restarono in silenzio, ascoltando il dj annunciare dagli altoparlanti
che
mancavano ancora trenta minuti alla mezzanotte.
«Non
capisco»,
disse Jessie a mezza voce. Rachel dovette tendere le orecchie per
sentirlo
sopra le urla degli invitati. «Perché non te lo
sei tenuto stretto, allora?».
«Nella
mia
posizione è…», Rachel faticò
a trovare le parole. «Complicato, lo sai meglio di
me».
Jessie
alzò
gli occhi al cielo. «Tesoro. A volte vale la pena di buttare
all’aria qualcosa
per amore. Altrimenti la vita sarebbe alquanto noiosa, non
credi?».
Finalmente
il ragazzo prese un sorso dal suo drink, mugugnando di piacere un
attimo dopo.
«Vale la pena di essere scambiati per gay per bere questa
roba. Assolutamente divino!».
Per la prima
volta durante quella serata, Rachel rise di gusto.
31
dicembre 2017, Chelsea, New York
Cooper
rispose al cellulare, avvicinandoselo all’orecchio e
tappandosi l’altro con una
mano.
«Pronto?».
«Cooper,
sono Finn!». Ovviamente Cooper non sentì questo,
ma solo un paio di suoni
indistinti.
«CHI?»,
urlò
di rimando.
«FINN!»,
strillò l’altro a pieni polmoni.
«UN
SECONDO!». Cooper sgattaiolò in bagno e chiuse a
chiave la porta. «Scusa amico,
la musica era alta! Che c’è? Perché non
sei di già nelle braccia della tua
bella? O forse hai già concluso tutto e-».
«Cooper,
mi
sono perso!», lo interruppe il ragazzo con voce disperata.
«Ma ti
avevo
detto di non perderti!».
«MA MI
SONO
PERSO!».
Cooper
allontanò il cellulare dall’orecchio: il ragazzo
aveva dei polmoni degni di
nota. «Okay, okay, non urlare! Ma perché hai
telefonato proprio a me, si può
sapere? Sapevi che sarei stato in mezzo alla mischia!».
«Blaine
e
Kurt non rispondono al telefono!».
«Okay…».
Il
ragazzo sospirò. Come al solito, doveva salvare la
situazione. «Puoi dirmi dove
sei ora?».
«All’incrocio
fra Hester Street e Orchard Street…».
«Dammi
solo
un minuto». Il ragazzo accese il vivavoce e digitò
velocemente l’indirizzo su
Google Maps. Scrutò con attenzione la cartina che gli era
comparsa davanti. «Okay,
vai lungo Orchard Street, poi gira a destra e arriva fino ad un parco.
Il
locale dovrebbe essere di fronte a te».
Il sospiro
di Finn gli arrivò come una scarica di statica.
«Grazie Coop».
«E
sbrigati,
sono già le undici e trentacinque!».
«Agli
ordini! Ah, Coop! Potresti controllare che fine hanno fatto quei due?
Non
vorrei si fossero fatti del male! New York è una
città pericolosa».
«Certo»,
esclamò Cooper trattenendo a stento una risata.
«Ma ora vai!».
Terminò
la
chiamata con un respiro profondo. Sperava davvero che arrivasse prima
della
mezzanotte.
«Diavolo»,
borbottò fra sé e sé. Non gli aveva
ricordato di puntare il dito ed urlare! Le
due regole fondamentali per rendere un discorso teatrale e drammatico.
Pazienza. Finn se la sarebbe dovuta cavare da solo.
C’era
una
cosa che poteva fare per lui, però. Uscì dal
bagno e si diresse in cucina: se
conosceva bene quel gruppo di spostati che lavorava con suo fratello li
avrebbe
trovati vicino agli alcoolici.
Sorrise
quando li avvistò accampati sul tavolo della cucina, due
bottiglie di vino
aperte in mezzo a loro. Mercedes e Tina stavano ridacchiando
incontrollabilmente, appoggiate l’una all’altra.
«Ehi
ragazzi, qualcuno ha visto Kurt e Blaine?»,
esclamò Jessie sopra alla musica.
«Volevano
andare in terrazzo, e Blaine stava accompagnando Kurt a prendere la
giacca»,
strillò Tina di rimando. «Da quella parte!
È la porta bianca», gli indicò un
corridoio con un braccio.
«Grazie!».
Cooper si
guardò intorno nel corridoio miracolosamente privo di gente,
e individuò la
porta del guardaroba. La aprì di scatto. «Ehi voi
due, ma perché diavolo-».
Non appena i
suoi occhi si abituarono alla penombra e riuscì a vedere
l’interno dell’armadio
richiuse la porta con violenza, appoggiandocisi contro con la schiena.
«Insomma
ragazzi!», strillò, le guance che iniziavano a
bruciargli per l’imbarazzo. «Questo
davvero non volevo
vederlo!».
31
dicembre 2017, East Broadway, New York
Quando Finn
avvistò finalmente l’insegna del Red Leaf aveva il
fiatone dal tanto correre. Adocchiando
l’entrata ingombrata da fotografi e buttafuori decise di
aggirare l’edificio:
ci sarebbe stata sicuramente un’entrata secondaria da cui
poteva sgattaiolare
dentro il locale senza essere notato. Camminò velocemente, e
non appena girò
attorno all’isolato avvistò un vicoletto che
sembrava promettente. Quando vide
una porta con le iniziali RL ed un buttafuori dall’aria truce
davanti ad essa capì
di aver fatto centro.
Si
avvicinò
a passo svelto.
«Scusi
potrebbe, umh, potrebbe lasciarmi passare?».
L’uomo
lo
guardò storto. «E tu saresti?».
«Sono…
emh…»,
balbettò sperando non fosse troppo evidente che stava
sudando freddo dentro
alla giacca. «Sono il ragazzo delle consegne»,
inventò lì per lì.
Lui lo
scrutò per qualche secondo. “Oddio questo non se
la beve e mi picchia. Oddio,
oddio…”.
Si
irrigidì
quando il buttafuori allungò una mano verso di lui, ma
l’uomo si limitò a
dargli una pacca sulla spalla. «È dura essere di
turno a Capodanno, eh?», disse
con aria comprensiva. «Lavora sodo ragazzino, vedrai che ce
la farai a pagarti
il college».
Si fece da
parte, lasciando l’entrata libera.
«La
ringrazio», disse Finn cercando di sembrare il meno colpevole
possibile. Passò
velocemente, trovandosi dentro le cucine. Cercando di non dare
nell’occhio
schivò cuochi e camerieri fino ad arrivare ad un paio di
doppie porte che
parevano fare al caso suo. Le spinse e si ritrovò in una
sala decorata in rosso
ed oro.
Il solo
vederla bastò a farlo cadere nello sconforto: era inondata
di gente, più gente
di quanta Finn avesse mai visto in tutta la sua vita pigiata in una
sola stanza.
Non ce l’avrebbe mai fatta a trovare Rachel prima di
mezzanotte, non con i pochi
minuti che gli rimanevano…
Stava
osservando attentamente la stanza, cercando di individuare un punto
strategico
dal quale iniziare a cercare, quando lo sguardo gli cadde sul bar a
pochi metri
di distanza.
Aggrottò
le
sopracciglia. No, non poteva essere… sarebbe stato troppo
inverosimile, giusto?
Si avvicinò velocemente, scrutando le persone sedute al
bancone. E proprio lì, vicino
ad un tizio con un papillon viola…
«Rachel?».
La ragazza
si girò e Finn esultò internamente: era proprio
lei!
«Finn!»,
esclamò, gli occhi sgranati in un’espressione di
sorpresa. Il tipo seduto
accanto a lei si raddrizzò, sembrando improvvisamente
interessato alla
faccenda.
Finn
tornò a
rivolgere la propria attenzione alla ragazza. Si rese improvvisamente
conto di
non avere preparato un discorso.
«Emh…
ciao»,
iniziò.
«Che
diavolo
ci fai qui?», sibilò Rachel, scendendo dal proprio
sgabello e avvicinandosi a
lui.
«Io…
avevo
solo bisogno di parlarti e-».
«Ti
sembra
il luogo e il momento per-».
«Ma
è
fantastico!», li interruppe il ragazzo con il papillon viola.
Entrambi si
girarono a guardarlo: era a dir poco raggiante. «Vi serve un
po’ di privacy,
no?». Li prese entrambi per i polsi e li trascinò
verso un’enorme pianta
decorativa. «Ecco, mancano pochi minuti a mezzanotte ormai e
nessuno vi noterà
qui dietro! Voi parlate. Ci penserò io a fare il
palo!».
Si
allontanò
strizzando loro l’occhio con aria complice.
Finn lo
fissò a bocca aperta. «Ma chi è quel
pazzo?».
«Jessie»,
sospirò Rachel.
«Vuoi
dire…
Jessie il tuo ex?», chiese Finn con aria sorpresa.
«E come… No, lascia stare
non lo voglio sapere. In questa città siete tutti fuori come
un balcone».
«Finn»,
disse
lei, visibilmente irritata. «Non dovresti essere qui. Ci sono
un sacco di
fotografi dentro questo locale, potrebbero-».
«Rachel
ho
letto la tua pagina su Wikipedia», la interruppe lui.
Lei
alzò un
sopracciglio. «E… con ciò?».
«Lasciami-»,
Finn si bloccò, con aria frustrata. Si passò una
mano fra i capelli e poi tornò
a guardarla. «Mi hai ferito Rachel, e sto cercando di
rimangiarmi il mio
orgoglio. Perché nonostante tutto non voglio lasciarti
andare così».
Rachel lo
guardò: era lì, nella notte di Capodanno, con
un’espressione risoluta e la sua
vecchia camicia a quadri in uno dei locali più esclusivi di
New York.
E tutto per
parlare con lei.
Se solo non
fosse stato così dannatamente difficile…
Finn rimase
in silenzio, i pugni serrati, finché la ragazza non
annuì. «Sei una delle
attrici più quotate di Broadway», disse in tono
sicuro. «E sei stata Evita per
un anno e mezzo, e mio fratello ha detto che è un ruolo
storico», prese un
respiro. «Non sono un esperto di come vadano le cose nel
mondo dello
spettacolo, ma una cosa la so. Gli scandali vanno e vengono ma il
talento
rimane. Non ti ho mai sentito cantare, Rachel, ma in questi giorni ti
ho
conosciuto bene, e non ho alcun dubbio che tu sia nata per essere una
stella».
Le mise delicatamente una mano su una guancia. «E le stelle
non si spengono per
così poco».
La ragazza
mise la sua mano sopra a quella di Finn, guardandolo con qualcosa di
molto
simile alla meraviglia sul volto. Poi disse l’ultima cosa che
il ragazzo si
sarebbe aspettato di sentire. «Non ho paura per la mia
immagine».
Finn rimase
in silenzio per alcuni secondi, completamente spiazzato, prima di
riuscire a chiederle:
«Qual è il problema, allora?».
La ragazza
scosse la testa, allontanandosi da lui. «Non posso».
«Ma
cosa-».
«La
cosa
buffa è che mi sono sempre chiesta perché non mi
sono mai innamorata». La
risata della ragazza suonò leggermente isterica.
«Ma la ragione è che- no, non
ce la faccio».
«Rachel-»,
provò di nuovo Finn.
«Vai
via Finn,
prima che arrivi qualche buttafuori».
Lui rimase
immobile, incapace di credere alle sue parole. Niente di tutto
ciò aveva un senso.
«Io-».
La frase fu
interrotta dall’arrivo di Jessie. «Ragazzi brutte
notizie», ansimò, raddrizzandosi
il papillon. «Stanno cercando un ragazzo delle consegne che
non è un ragazzo
delle consegne».
Finn
guardò
Rachel, che tenne la testa bassa ed evitò il suo sguardo.
Il loro silenzio era
assordante anche fra il rumore delle centinaia di piedi che cercavano
di
avvicinarsi il più possibile alla pista da ballo.
«Sì»,
disse
lentamente «Non dovrei essere qui». Ogni parola
sembrava costargli uno sforzo
immenso. «Uscirò dalla porta secondaria».
Jessie
scosse la testa. «È fuori discussione, amico.
È piena di buttafuori, e ti
stanno cercando. Temo che dovrai uscire dall’entrata
principale».
«Ma i
paparazzi-».
«Non
ti
preoccupare», lo interruppe l’altro.
«Mancano due minuti a mezzanotte, nessuno
baderà a te».
«Certo».
Gli
mise una mano sulla spalla. «So che tecnicamente
dovrei odiarti, ma grazie… e buon
anno». Jessie annuì nella sua direzione. Finn si
girò verso Rachel, che evitava
ancora il suo sguardo. «Buon anno, Rachel».
Gli occhi
della ragazza non si staccarono nemmeno per un attimo dal pavimento.
«Buon
anno, Finn».
Il ragazzo
le lanciò un ultimo lungo sguardo prima di girarsi e
camminare senza fretta verso
l’uscita. Rachel si sforzò di non guardarlo mentre
andava via, la sua testa un
vortice di pensieri contrastanti.
Sentì
Jessie
che si avvicinava a lei, prendendole gentilmente la mano.
«Rachel.
Vuoi
davvero lasciarlo andare così?».
La ragazza
emise un suono a metà fra una risata ed un singhiozzo.
«Che scelta ho?». Le
sembrava quasi di non riuscire a respirare. «Chi lo avrebbe
mai pensato, Rachel
Berry, una codarda…».
«Non
tu»,
disse Jessie in tono deciso. «Puoi farcela Rachel, credo in
te».
«Davvero?».
«Non
ho mai
avuto dubbi».
La ragazza
strinse un’ultima volta la mano di Jessie prima di prendere
un bel respiro, sollevarsi
l’orlo del vestito in un modo decisamente poco da signora, e
correre con quanta
velocità le permettevano i tacchi verso l’uscita.
«Scusate,
scusate, permesso!», strillò mentre schivava le
persone che convergevano verso
il centro della pista per il conto alla rovescia. Un paio di volte
inciampò
sulle scarpe di qualcuno rischiando di rompersi una caviglia, ma si
limitò a
continuare la sua corsa.
«Venti, diciannove, diciotto-»,
scandiva
la folla tutto attorno.
Scansò
una
coppia piuttosto anziana – era Angela Lansbury, quella?
– e finalmente si trovò
davanti all’entrata. Spinse i pesanti pannelli di vetro e
uscì, trovandosi
all’esterno.
«Dieci, nove-»
L’aria
di
dicembre le pungeva il suo viso e le spalle scoperte, ma lei
ignorò il freddo e
sorrise, vedendo Finn. Poteva ancora raggiungerlo se solo…
Riprese a
correre, mentre le voci della folla all’interno rimbombavano
insieme a quelle
di tutta New York, scandendo i suoi passi mentre correva lungo il
tappeto
rosso, verso quella schiena così familiare.
«Cinque, quattro, tre-».
«FINN!»,
urlò con quanta voce aveva in corpo.
«Due, uno…».
Fece appena
in tempo a vedere la sua espressione sorpresa mentre si girava prima di
buttargli
le braccia al collo e baciarlo.
A/N:
Buonasera
signori! :)
The Holiday
è quasi finito, l’ultimo capitolo sarà
pubblicato sabato pomeriggio ;)
Spero che vi
siano piaciute le scene Finchel, li ho fatti penare un po’
più di Kurt e Blaine
ma alla fine ne varrà la pena, avete la mia parola :)
Fatemi
sapere cosa ne pensate!
MM
|
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Capitolo 10 *** 1 gennaio, 31 dicembre ***
1
gennaio 2018, Chelsea, New York
«Buon
anno»,
mormorò Kurt contro le labbra di Blaine.
Il ragazzo
sorrise. «L’inizio è decisamente
fantastico», rispose, prima di attirarlo di
nuovo nel bacio che avevano
interrotto. Kurt ricambiò, stringendolo più
vicino a sé mentre le persone
attorno a loro brindavano, festeggiavano e si scambiavano gli auguri di
buon
anno a pieni polmoni.
«Volete
smetterla, voi due?», esclamò una voce molto
vicina a loro.
Si separarono,
scambiandosi uno sguardo divertito.
«Buon
anno
anche a te, Coop», esclamò Blaine rivolto alla
schiena del fratello. «E
comunque lo sai cosa dicono dei curiosi…». Kurt
stava avendo seri problemi a
trattenere le risate mentre ricordava la faccia che Cooper aveva fatto
dopo
aver aperto la porta del guardaroba.
«Io
ero
preoccupato che foste morti!», esclamò il ragazzo,
voltandosi di scatto. «Non
rispondevate al cellulare! Vi siete almeno lavati le mani
dopo?». Kurt scoppiò
in una risata incontrollabile. «Non c’è
nulla da ridere!», si infervorò Cooper.
«Vi costava così tanto aspettare fino a casa? O
che io ripartissi?».
Le risate di
Kurt raddoppiarono di volume, finendo per contagiare anche Blaine.
Le sue
proteste furono interrotte da Mike, che barcollò verso di
loro, evidentemente
sulla buona strada per ubriacarsi. «Ehi bellezze,
auguri!», esclamò mettendo un
braccio sulle spalle di Cooper. «Ma che succede?»,
chiese, adocchiando i due
ragazzi che si stavano appoggiando al muro per non inciampare sui loro
stessi
piedi dal tanto ridere. «Hanno bevuto troppo anche
loro?».
Cooper
sbuffò, senza riuscire ad essere veramente seccato.
«No, sono solo due emeriti
scemi. Forza, vai a fare gli auguri a Blaine e staccalo da Kurt,
altrimenti
finiranno per diventare due gemelli siamesi».
«Agli
ordini!», esclamò Mike allegramente.
«BLAINE!», urlò mentre si buttava a
braccia aperte verso il ragazzo.
1
gennaio 2018, East Broadway, New York
Rachel si
separò lentamente dalle labbra di Finn, posando i tacchi sul
tappeto rosso e allontanandosi
da lui. Attorno a loro New York festeggiava il nuovo anno, e i
fotografi
vociavano rumorosamente, ma lei non staccò gli occhi dal
volto del ragazzo.
Finn prese
un respiro profondo e aprì gli occhi,
l’espressione sul suo volto più confusa
che mai.
«…
Rachel?»,
mormorò in tono incredulo.
«Io
non mi
sono mai innamorata, Finn».
L’espressione
del ragazzo si fece, se possibile, ancora più confusa.
«Lo so».
Rachel
strinse i pugni, sforzandosi di dire ad alta voce la verità
che non aveva ammesso
con nessun altro se non con sé stessa.
«Mettere
il
mio cuore nelle mani di una persona che potrebbe spezzarlo e farmi
soffrire è…»,
disse a mezza voce. «Prima di te non c’era stato
nessuno di cui avrei potuto
innamorarmi. Ma ora, con te, è tutto così
naturale… e mi terrorizza», finì in
un sussurro.
Finn
restò
in silenzio per qualche secondo, durante il quale Rachel avrebbe
desiderato
sprofondare nel terreno. “Lo cacci via e due minuti dopo lo
baci e pretendi
anche che cada ai tuoi piedi? Sei proprio una stupida Rachel,
un’emerita-”.
«Rachel».
La
voce di Finn la distolse dai suoi pensieri. «Per favore,
guardami».
Lei
deglutì
ed alzò gli occhi.
«Non
posso
dirti che non ti farò soffrire», disse Finn in
tono calmo. «Non leggo nel
pensiero e le persone si fraintendono continuamente. Non
c’è nessuna
possibilità che uno di noi non faccia del male
all’altro». Fece un respiro
profondo, durante il quale Rachel sentì il suo cuore
spezzarsi «Ti dirò una
cosa però», disse di nuovo lui. «Che,
per quanto in mio potere, non ho
intenzione di farlo. Non voglio che tu soffra per causa mia, Rachel,
né ora né
mai». La ragazza non riusciva a distogliere lo sguardo da
lui. «Ma tu devi
fidarti di me».
Rachel
annuì, come ipnotizzata.
Il viso di
Finn si illuminò, accennando un sorriso.
«È un sì?».
«Non
riesco
ad immaginare persona migliore», disse lei, avvicinandosi a
lui e posandogli
una mano sulla guancia. Sentì i flash delle macchine
fotografiche scatenarsi su
di loro, ma si sforzò di ignorarli.
Finn mise
una mano sopra la sua. «Sei sicura di voler…
Qui?», chiese in tono esitante.
Rachel
sorrise. «Mai stata più sicura»,
mormorò mentre si puntellava sulle scarpe
pericolanti per baciarlo.
Epilogo
31
dicembre 2018, Prairie Oaks, Columbus, Ohio
«Kurt»,
sussurrò Cooper in tono preoccupato. «Di questo
passo tuo fratello scaverà dei
solchi nel parquet».
Kurt
lanciò
uno sguardo in cucina, dove Finn stava camminando avanti e indietro,
fingendo
di tirare fuori i piatti dalla lavastoviglie. Sospirò.
«Lo so, ma ho già
provato a fermarlo troppe volte e non ha funzionato. Lasciamolo
stare».
Trascinò
Cooper lontano dall’entrata e si diresse nel salotto, che al
momento era decorato
in occasione di Capodanno: un grande albero di Natale, pareti ricoperte
di
ghirlande argentate – opera di Cooper – e rami di
agrifoglio sopra il caminetto
acceso.
«Allora,
gente», Kurt si rivolse alla piccola folla radunata nel suo
salotto. Tutti si
voltarono verso di lui, tranne Sam e Mercedes – stavano
ballando abbracciati in
un angolo della stanza e non sembravano avere la minima intenzione di
staccarsi
l’uno dall’altra. «Qualcuno ha notizie di
Rachel?».
«L’ultimo
messaggio diceva che le si stava scaricando il cellulare»,
disse Mike con aria
preoccupata. «Ed erano le dieci… dubito che la
sentiremo ancora prima che
arrivi qui».
Sugar, che
stava volteggiano da sola al ritmo della musica, si fermò e
lanciò un’occhiata
caustica al gruppo. «Ma certo che non la sentiremo
più. Non ha risposto nemmeno
a me, e sapete bene che a me si
deve sempre rispondere»,
esclamò come se
quello risolvesse il problema.
«Come
sta
Finn?», chiese Tina. Era seduta a gambe incrociate sul
tappeto e teneva in
grembo un grosso gatto rosso – Boq, il nuovo coinquilino di
Finn da quando Kurt
si era trasferito a New York.
«Non
la
smette di agitarsi», rispose Cooper, lasciandosi cadere
accanto a lei. «Però potremmo
andare di là e-».
«Cooper,
lascia stare», lo interruppe Kurt. «Fidati,
è meglio lasciarlo da solo e
sperare che Rachel arrivi». Volse lo sguardo su tutto il
gruppo. «Okay?».
Tutti
annuirono, distogliendo lo sguardo dal ragazzo e tornando alle loro
occupazioni.
«Ti
arrabbieresti se ti dicessi che sei sexy quando fai il
leader?», chiese una
voce da sopra la spalla di Kurt.
Il ragazzo
sbuffò mentre un paio di braccia familiari gli stringevano
la vita. «Questa
situazione è assurda».
Blaine
annuì
contro il suo collo. «Però
quell’appuntamento era importante per lei».
L’altro
sbuffò. «Dico solamente che quella primadonna di
James Cameron poteva metterci
meno di un anno a richiamarla. E di sicuro anche i suoi agenti sono in
vacanza
a Capodanno-».
Blaine rise.
«Capito, capito, scusi capitano».
Kurt si
liberò dalle sue braccia e si girò verso di lui.
Sorrise quando vide la sua espressione
buffa – quella che involontariamente gli spuntava sul volto
quando Kurt diceva
qualcosa di pungente e sarcastico che lo faceva ridere. Lo prese per
mano e lo
condusse verso la sua poltrona preferita sulla quale –
miracolosamente – nessuno
si era ancora seduto. Sprofondò nei cuscini e Blaine si
accoccolò sulle sue
gambe, in una posizione fin troppo familiare da quando avevano iniziato
a
trascorrere le serate troppo fredde nei reciproci appartamenti.
«Prima
non
mi riferivo solo alla faccenda di James Cameron…»,
disse Kurt a mezza voce
mentre Blaine gli passava distrattamente una mano fra i capelli.
«Avere una
relazione con una persona che abita a settecento chilometri da te
è assurdo».
L’altro
scosse la testa. «Per te, forse. Mi pare che loro se la
stiano cavando piuttosto
bene, no?»
«Vero»,
concedette Kurt.
Si
rilassò sotto
il peso delle gambe di Blaine e lasciò vagare lo sguardo per
la stanza. Avere i
loro amici in Ohio era… strano.
Gli
era sembrato strano fin da ottobre, quando avevano proposto per la
prima volta
di prendere dei biglietti aerei scontati utilizzando la carta frequent
flyer di
Rachel per andare in Ohio. Tuttavia…
Sprofondò
un
po’ di più nei cuscini. «Mi piace
quest’atmosfera», dichiarò a mezza voce.
Blaine
annuì. «Io sono solo contento che non abbiano
ancora attentato alla tua radio
per mettere Kesha a tutto volume».
L’altro
scosse la testa. «Dopo la sbronza che si è preso
Mike l’anno scorso credo
vogliano passare un Capodanno tranquillo prima di ripetere
l’esperienza».
«Mmmh».
Blaine poggiò la guancia contro la sua spalla.
«Allora… buoni propositi per
l’anno nuovo?».
Kurt
pensò
al suo appartamento a Chelsea, arredato con i mobili comprati al
mercato delle
pulci, ai due assoli che aveva in un rispettabile spettacolo
off-Broadway, ai sabato
mattina in un piccolo caffè vicino a Battery Park insieme a
Blaine, alle notti
insonni passate a rigirarsi fra le lenzuola…
Sorrise.
«Solo
che sia fantastico come questo».
Blaine
sorrise di rimando e aprì la bocca per replicare, ma fu
interrotto dal rumore
di Finn che sbatteva la porta della cucina.
«Non
arriva!»,
esclamò qualche secondo dopo il ragazzo facendo capolino in
salotto. Tutto il
gruppo lo guardò, un misto di esasperazione e compassione
sui loro volti. «Che
facciamo se non arriva entro mezzanotte!».
«Finn,
calmati, sono solamente le undici», provò Rory.
«Ma-»,
cominciò a ribattere lui.
«Il
suo
aereo dovrebbe essere appena atterrato», lo interruppe Mike.
«Massimo mezz’ora
e sarà qui, vedrai».
Proprio in
quel momento si sentì bussare alla porta. Finn
scattò verso l’entrata,
rischiando di scivolare e spezzarsi il collo, e spalancò il
portone il più
velocemente possibile. Lo aprì, e dietro di esso vide la
cosa migliore della sua
serata.
«Buonasera
Mister
Hudson», disse Rachel con un sorriso a trentadue denti.
«Mi perdona il
ritardo?».
Gli porse un
mazzo di fiori. Finn li prese in mano, e li guardò sorpreso.
Erano stelle di
Natale.
Si
chinò su
di lei per baciarla. «Sono bellissime».
Poggiò
delicatamente i fiori sul tavolino dell’entrata, e non appena
furono al sicuro
tirò a sé la ragazza, abbracciandola con tutta la
forza che aveva.
Rachel
strofinò il naso contro la sua guancia e lui
annusò il suo profumo. Non era
quello dolce e un po’ troppo forte che metteva quando doveva
uscire o
incontrare la stampa, ma quello di sapone e shampoo alla cannella che
gli
ricordava le mattine passate a leggere sotto le lenzuola e i biscotti
di
Natale.
«Ehi»,
disse
piano Rachel quando lui non diede segno di voler lasciarla andare.
«Tutto okay?».
Finn prese
un respiro profondo. «Certo, solo che… credevo non
saresti più arrivata».
«Non
sarei
arrivata al rotto della cuffia anche quest’anno,
tesoro», rise piano Rachel.
Finn
annuì
contro la sua spalla. «Mi sei mancata».
«Anche
tu»,
disse lei prima di allontanarsi da lui. Gli accarezzò una
guancia. «Un mese è
troppo?».
«Un
mese è
troppo», la baciò di nuovo, questa volta
più a lungo, prima di prenderla per
mano e di condurla verso il salotto. «Forza, vieni di
là, gli altri ti stanno
aspettando».
Quando
Rachel entrò nella stanza si alzò un coro di
auguri e saluti. La ragazza
sorrise.
«Devo
dedurre che vi sono mancata?».
Sugar le corse
incontro. «Non si ritarda a Capodanno!», la
redarguì baciandola sulle guance.
Cooper si
intromise, abbracciandola stretta. «Collega!».
Lei rise,
dandogli qualche pacca sulle spalle. «Ti piacerebbe,
Cooper».
«Spostati,
scemo», disse Blaine da sopra la sua spalla, facendolo
allontanare.
«Ciao
Blaine», Rachel abbracciò anche lui.
Poi, per
ultimo… «Kurt».
Il ragazzo
sorrise. «Ben arrivata».
I due si
strinsero in un abbraccio affettuoso. Blaine e Cooper si scambiarono
un’occhiata e si allontanarono, lasciandoli soli per qualche
minuto.
Da quando
Kurt si era trasferito a New York lui
e
Rachel avevano legato moltissimo, ed ora andavano regolarmente a fare
colazione
sbirciando le vetrine di Tiffany – una delle cose che non
diventavano mai noiose,
diceva lui.
«Com’è
andato l’appuntamento?», chiese Kurt a mezza voce
quando si furono separati.
Rachel si
morse un labbro per trattenere un sorriso. «Non è
ancora ufficiale», disse. «Ma
pare che qualcuno sia interessato a vedermi nei panni di una certa
Fanny
Brice…».
Lui fece un
verso sorpreso. «Un remake di Funny
Girl?!
Rachel, ma è stupendo!».
La ragazza
rinunciò a contenere il suo entusiasmo e cominciò
a saltellare su e giù. «Lo
so! È il mio sogno da quando avevo cinque anni!».
Kurt rise della sua
espressione euforica e fece addirittura qualche saltello con lei.
«E non
è
tutto», continuò Rachel non appena si fu calmata.
«Indovina quale uccellino mi
ha detto che c’è stato un incidente con qualche
scimmia volante al Gershwin?».
La bocca di
Kurt si aprì in una piccola “o”
incredula. «No!», esclamò, senza fiato.
Lei gli
strinse le mani, sorridendo. «Jessie ha fatto il tuo nome e tesoro, ti consiglio di preparare il
fazzoletto, perché puoi dire addio per sempre agli
spettacoli off-Broadway».
Il ragazzo
la fissò per qualche secondo prima di prendere un respiro.
«È davvero possibile
che questo sia vero? Da quand’è che le cose vanno
così bene per noi due?».
Rachel si
appoggiò al muro del salotto con espressione soddisfatta, e
Kurt la imitò.
Osservarono in silenzio la stanza, piena delle persone che amavano e a
cui
volevano bene.
«È
probabile
che sia solo un periodo passeggero», disse la ragazza dopo un
po’. «Non può
andare sempre così bene,
no? Ma non
ho intenzione di lamentarmi della cosa, per ora».
Kurt
annuì,
senza riuscire a smettere di sorridere. «Certo che no! E
diciamocelo, ce lo
siamo meritato».
«Io ho
passato due settimane in Ohio»,
sbuffò Rachel. «E pensare che ero venuta qui con
l’intenzione di non vedere un uomo
per due settimane intere!».
Kurt rise.
«Questo
non fa altro che dimostrare quello che avevo sempre
supposto», dichiarò Kurt,
staccandosi dal muro e offrendole il braccio.
«Cioè?»,
chiese lei, prendendolo a braccetto.
Il ragazzo
le sorrise, poi le fece l’occhiolino. «Che
l’amore non si prende mai vacanze.
Vieni».
Rachel si
raddrizzò e i due si diressero verso i loro amici, e verso
un anno che sarebbe
stato ancora migliore di quello passato.
Insieme.
A/N:
Devo ammettere
che spuntare la casellina “completo” a questa
fanfiction è stato un bel regalo
di compleanno per me stessa – sì, oggi compio gli
anni e no, non dirò mai
quanti sono perché inizio a sentirmi vecchia – e
immagino che sia stato
soddisfacente anche per voi leggere ka fine di questa benedetta storia.
C’è
voluto
molto ma alla fine eccoci qua :)
Spero con
tutto il mio cuore che vi sia piaciuta! È la prima storia
più lunga di tre
capitoli che completo: ci ho messo sangue, e sudore, e tempo prezioso
per
scriverla, e condividerla con altre persone l’ha resa ancora
più speciale :)
C’è
da dire
che questa fanfiction non sarebbe mai stata finita senza
l’aiuto della
fantastica yu_gin,
che mi ha minaccia- emh incoraggiato a continuare a
scrivere anche quando credevo che finire fosse ormai una causa persa!
A
questo punto qualcuno potrebbe chiedersi se continuerò a
scrivere è la risposta
è: oh, yes, non ci si libera di me così
facilmente!
Per
quanto riguarda Glee ho in programma una fanfiction divisa in tre parti
–
sempre Klaine – che scriverò da sola, e
– attenzione attenzione – una storia a
quattro mani ad opera mia e dell’adorabile yu_gin
:)
Stay tuned,
prometto che non sparirò ;)
Che
altro… ringrazio tutti quelli che hanno letto, commentato,
inserito la storia
fra i preferiti e le seguite: la mia autostima sta lievitando grazie a
voi, e
di questo vi sono immensamente grata!
Un
grazie di cuore e un bacio, a presto,
MM
<3
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