Ea Mansit.

di J O A N
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** La cattedrale delle ombre. ***
Capitolo 3: *** Ehledwen ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***





Manere
- restare -




 
 

 


Dedicata alle anime in pena,
e a chi, delle pene, ne è un reduce indiscusso.


 



 

 
 
 
 

Il mento in alto, le sopracciglia curve e gli occhi puntati verso di lui.

Ogni suo muscolo si era irrigidito, le unghie avevano lasciato una scarnificazione rosea sui palmi serrati delle sue mani che, come grazia imponeva, erano poste in grembo nel tentativo di apparire consuetamente prive di tremolii nervosi.

Le vene che scorrevano per il suo collo apparivano in risalto contro la carnagione chiara ed erano tese fino all’inverosimile, e le guance erano tinte di un color rosso pallido, che forse qualcuno avrebbe attribuito all’imbarazzo, ma chi la conosceva bene sapeva che in realtà era la dimostrazione della sua rabbia feroce.

“Come sapevi che ero qui?”

Il ragazzo ridacchiò, e nel farlo si portò una mano dietro al collo, guardandola divertito.

“So sempre dove ti trovi.” Mormorò, avvicinandosi a lei che, seduta, si stava lisciando la gonna bianca tentando di estirpare le pieghe.

“Stupido.” Farfugliò distogliendo lo sguardo e guardando dritta davanti a se.

Il ragazzo si avvicinò ulteriormente, e si sedette dietro di lei, con le gambe divaricate per permetterle di appoggiarsi a lui con la schiena.

Lei però rimase ferma, senza nemmeno prendersi la briga di guardarlo. Solo quando lui le cinse i fianchi con le braccia e la tirò verso il suo petto lei non oppose resistenza e si fece abbracciare.

“Sei completamente dipendente da me.” Le bisbigliò all’orecchio mentre osservava, quasi disinteressato, in basso, verso le vene del suo collo e le sue clavicole che, alla luce della luna, apparivano più bianche di quanto non fossero. Poi percorse con la punta del dito tutta la lunghezza della sua spalla, in un tocco così lieve che, inutile dirlo, lei non mostrò nemmeno di essersene resa conto. Ma lui ovviamente notò i brividi che solcavano irregolari la sua pelle.

“Illuditi.” Mormorò con una voce più spezzata ed incerta 
di quanto avesse voluto che fosse, quando le sue dita accarezzarono gentili il lobo sotto l’orecchio.


Lui rise, inclinando la testa leggermente in avanti. “Non sono illusioni, io ti ho portato via. E tu mi hai seguito di tua volontà.”

Altri brividi percorsero la spina dorsale di lei, per poi irradiarsi in ogni centimetro del suo corpo, quando il movimento delle dita nell’incavo tra la sua spalla e il suo collo fu sostituito da quello delle sue labbra.

Serrò gli occhi, mentre si godeva in silenzio la sensazione di calore sulla sua pelle, mentre le mani calde, ferme e sicure di lui le serravano i fianchi in una morsa ferma.

“Non scappare.” Sussurrò, e al contrario dei rumori notturni che sembravano ora così lontani, quell’unico sussurro le parve un urlo, così chiaro e forte che per un momento sentì una morsa nel petto, come di una ferita aperta da mille spade.

Le mani di lui scesero verso il suo grembo e con un abbraccio lambirono quelle di lei. Sfiorò le dita che si aprirono come soggette ad un muto comando, lui ne accarezzò i palmi, e ogni traccia di tensione o rigidità svanì.

Nella mente di lei, in qualche angolo remoto e dimenticato, c’era qualcosa che le urlava con tutto il fiato che aveva in gola di resistere, di non mollare. Ma era lontana, era un eco indistinguibile. Ciò che importava ora era a pochissimi centimetri da lei, e i suoi mormorii erano l’unica cosa tangibile che rimaneva nel mondo attorno.

“Non ti lascerei andare da nessuna parte.” Di nuovo, quel bisbiglio solo per lei, che infrangeva ogni barriera di ragione e di lucidità.

Ormai era inutile provare a rispondere, si era completamente dimenticata di cosa volesse dire muovere un muscolo. Chiuse gli occhi, mentre dalle sue dita le mani di lui risalivano lievi sulle braccia.

Ti sei mai chiesta perché ti ho portato via?” Continuò, ormai sicuro di avere la sua attenzione.

Lei scosse la testa lentamente. Non voleva più sentire la sua voce, voleva scappare e non lasciare traccia di se. In un luogo senza tempo ne ricordi.

Era un luogo troppo grande e spoglio perché tu potessi sentirti a tuo agio. Troppe porte che non venivano aperte da anni, troppi angoli bui da cui scappare. Le persone che ti stavano attorno erano stravaganti, bizzare, si prendevano gioco di te. Tu che eri solita a dire la verità, ti esprimevi a parole semplici, non avevi secondi fini oltre quelli che davi a vedere. Eri innocente, amore mio, saresti morta. Eppure, mi sembra che ci sia qualcosa che ti uccida anche ora.”

Le parole si mischiarono al pianto che incominciò a scorrere attraverso lacrime sulle guance di lei. Le mani di lui avevano di nuovo preso le sue e le avevano strette forte mentre parlava, la fronte di lui appoggiata a lato della testa di lei, perché le sue labbra sfiorassero precisamente l’orecchio.

Lei continuò a piangere in silenzio - autentico è il dolore di chi piange da solo -  sapendo che lui non avrebbe nemmeno provato ad asciugarle.

Era la sua punizione.

“Ti sei congedata dal tempo, dalla morte, dalla notte. E ora guardati. Ne viva ne morta, ma la tua passione è la stessa che ti portò alla rinascita.”

Lui era il suo demone. Era un mostro che non sembrava tale, la sua voce suadente la costringeva ad aggrapparsi alle sue mani come se fossero la sua unica ancora.

Affogava nella marea, e lui le porgeva la salvezza. Si dimenava tra le onde, ma invano. Come avrebbe potuto non accettare?

“Scusa.” Mormorò dolcemente lui posandole un bacio sul collo. “Non sono io il nemico. Dopo tutti questi anni dovresti averlo capito.”

“L’ho capito.” Biascicò con voce spezzata. “L’ho capito.”

Si voltò, e trovò le braccia di lui ad accoglierla, le sue mani che sembravano giurare di non lasciarla andare nemmeno in secoli.

“L’hai capito ma non puoi restare, vero?” Mormorò lui. La sua voce era costernata, avvilita. Spolverando nella sua memoria, lei non ricordò di averla udita con una cadenza così amareggiata in tutta la sua vita.

“E’ così, e tu lo sapevi dall’inizio.”Sussurrò flebile, guardandolo negli occhi ancora una volta. Passò il dorso della mano sulla sua guancia e lui voltò la testa, baciandole il palmo, poi annuì, comprensivo.

Si alzò in piedi, e lui non tentò di trattenerla. Mantenne le dita intrecciate a quelle di lei, sino a che lei non si mosse, le mani si districarono e la sua ricadde pesante sulla gamba.

La osservò allontanarsi dove lui non avrebbe potuto seguirla.

 Pianse lacrime amare, ma solo quando lei fu troppo lontana per accorgersene.
 
 






Accadde in una notte in cui la luna si confondeva con le nuvole,

in cui i venti del nord soffiavano aria di neve,

e nelle case vecchi scorbutici leggevano poesie e racconti,

e le mogli preparavano latte caldo ai figli che non avevano voglia di dormire.

Accadde in una notte di metà inverno,

 quelle che ti mettono voglia di indossare un maglione caldo solo a
sentirne parlare.

Di stringerti alla persona che ami, per non congelare.
 
 
 
 





 
Joan.
Non sapevo proprio che cosa farne. Era in una cartella di computer, ed infine eccola qui.
Non sono sicura di che cosa sia esattamente.
Forse un prologo. Comunque penso di continuarla. Diventerebbe una specie di Fantasy-Romantico-Drammatico.
Però ovviamente se nessuno la segue non la continuerò…Quindi se volete che posti altri capitolo fatemelo sapere con recensioni o quelchevolete.  ;)
Sapete, è colpa di luglio. Colpa del caldo, delle partenze e degli aeroporti. E’ colpa loro se mi escono queste cose, colpa del fatto che vorrei partire ma rimango confinata qui, tra una fan fiction, un libro Fantasy e qualche bagno in piscina.
Okay, scusate, è il caldo.
Per le mie muse ispiratrici. (Apfel, Hells, Pipe, Claire, e il resto della combricola.) 
 
Bacione,
Jo;

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Capitolo 2
*** La cattedrale delle ombre. ***


 
 
 




La cattedrale delle ombre.
Capitolo primo.







 
 
 
 






 
Gli parlavano in tanti, tutti insieme, come un'unica voce che ripeteva cose diverse.
Era come ricevere una pugnalata dopo l’altra ogni volta in una parte diversa del corpo, senza sapere dove la successiva avrebbe colpito, con quanta forza, la misura del male che gli avrebbe inflitto.
E minuto dopo minuto la sua rabbia aumentava, diventava feroce e cieca. La rabbia gli  scorreva nelle vene, pulsava il sangue, e il battito del suo cuore non era più alimentato dal sistema nervoso e dalla vita stessa, ma dalla rabbia. La rabbia era ciò che lo avrebbe tenuto  in vita e che già lo sorreggeva in piedi, una maledizione, che andava a passo con l’immortaltà .
Lo trascinava sempre più in basso per poter essere riafferrato.
E giurò vendetta sul suo corpo martoriato.                    
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
La Cattedrale era stata predisposta per il funerale.

Era stato chiamato il Vescovo, avevano coperto i quadri con dei drappi neri,  le donne volontarie  avevano posato rose rosse sulle panche e avevano riordinato i libretti dei canti.

Era tutto pronto, la bara nera era stata posizionata sotto l’altare, già chiusa.

Le più giovani tra le suore avevano sentito storie, sulla ragazza che vi giaceva. Si diceva che fosse bellissima, e che stringesse ancora tra le mani la rosa rossa che l’aveva uccisa. Erano le storie che si raccontavano le ragazzine la notte per avere qualcosa di cui parlare e infrangere per un po’ il voto di silenzio, ma dopo che i racconti passavano di bocca in bocca cambiavano particolari e diventavano grottesche e irreali.

Il Vescovo passeggiava nervosamente per la navata centrale con le mani incrociate dietro la schiena, ripetendo a mezza voce i canti che avrebbe recitato di li a poco.

Lanciò uno sguardo alla bara, e si chiese perché le rose rosse.  Ora che guardava attentamente tutta la chiesa era stata allestita con fronzoli ed intersi rossi. I nastri, le candele.

La sola visione lo nauseava. Era il colore del diavolo, il colore del peccato. E quella bara così lucida e nera, del colore di un’ombra in un luogo che doveva essere luce.

Era sbagliato, pensava.

Non sarebbe dovuta trovarsi lì.

Si segnò, e si allontanò il più possibile verso l’altare.

La costruzione risaliva a secoli prima delle rivoluzioni, e forse era anche una delle tante Cattedrali che fungevano da presidii e da torri di vedetta per gli avvistamenti nemici.

Nessuno la visitava, a parte i pochi del villaggio. Sorgeva sul versante ovest  della montagna, e la salita per arrivarci era ardua e solo pochi si cimentavano nell’impresa. Un tempo ce n’erano stati, di uomini e donne che vi si recavano. Era antica, molto antica. E un tempo era considerata un luogo di pace, dove le anime vi si recavano per riposare, dove in seguito a devozione e preghiere le sofferenze della vita erano ricompensate con la pace nella morte.

Ma ora non c’erano più pellegrini, né preghiere, nè ricordi.  Rimaneva avvolta nel manto di foreste e nelle leggende che la circondavano.

Si raccontava di avvistamenti di fantasmi, di persone morte intraviste sedute sulle panche a pregare, di vecchie storie che tornavano alla luce per riscattare il loro prezzo.

Ma erano storie dopotutto, chi vi viveva lo sapeva, che era solo una chiesa come un’altra. Anche se a volte la luce delle candele e le ombre che vi stavano attorno davano l’idea che ci fosse qualcosa di sbagliato, di fuori posto, un particolare che non ci sarebbe dovuto essere, e incutevano in chi le guardava un tetro timore, placato subito dopo dalla visione della brillantezza del sole attraverso il rosone.

La gente incominciò ad entrare, e il Vescovo indossò la toga.

Alcune donne piangevano,  i mariti le tenevano per mano.  I bambini toccavano curiosi le rose sulle panchine, alcuni si pungevano e si sporcavano i vestiti di sangue.

C’era molta gente, per essere il funerale di una ragazza di popolo. Di solito erano presenti solo i genitori, il marito, gli eventuali figli.

Invece era come se un paese intero si fosse riunito per quel momento, tanto che qualcuno fu costretto a rimanere in piedi, nelle navate laterali, sotto i drappi rossi e neri.

Quando fu chiaro che quasi tutti furono arrivati, il Vescovo iniziò la messa.


Era la cerimonia d’addio di un fiore d’inverno mai nato, il saluto alla vita ad una rosa tardiva.
E lei ascoltava, e lei sapeva, e lei aspettava, paziente, immortale.
Conosceva i loro destini, di ogni persona che era presente, era lei che li aveva decisi.
Nelle notti d’inverno lui la avvolgeva nelle calde coperte, e lei passava le mani nei suoi capelli.
Si scaldavano a vicenda per non congelare, e ora lei giaceva al freddo, gelida, e sola.
E lui sarebbe morto pur di poterla scaldare ancora.
 

 
Il  Vescovo, mentre recitava i brani della Bibbia, incominciò a provare una strana sensazione, osservando la bara. Una ragazza bellissima vi giaceva, con la pelle dello stesso colore della neve. Così dicevano. Ed era come se la conoscesse, ma non riuscisse ad associarle una faccia. E inoltre aveva una strana sensazione di calore, e dopo un po’ incominciò a emettere qualche colpo di tosse.

Nel bel mezzo della cerimonia, proprio durante la benedizione del pane il portone si spalancò.

Un giovane  uomo con un soprabito nero fece il suo ingresso richiudendosi alle spalle la porta e togliendosi simultaneamente il cappello.

Le vecchie scandalizzate lo guardarono con occhi pieni di odio per aver interrotto la cerimonia, le madri tennero i bambini lontano dal nuovo arrivato e lui, sotto lo sguardo di tutti, incominciò ad attraversare la navata a grandi passi, tenendo lo sguardo a terra.

Non si è segnato. Pensò il prete , osservandolo con un certo disappunto e curiosità.

Quando arrivò ai piedi della bara si chinò a terra e si inginocchiò di fronte ad essa.  Con una mano spostò i capelli biondi e scompigliati dagli occhi e guardò in alto per la prima volta, verso la cupola scura.

Si alzò, si segnò ed andò a sedersi sulla prima fila di panche, tra una madre con un bambino tra le braccia e un vecchio spaccalegna.

Quando fu chiaro che tutto fosse tornato tranquillo, il prete continuò a recitare il Vangelo.

“E allo stesso modo, il Dio padre prese il pane, rese grazie ai discepoli e disse…”

Ma si sentiva strano. Si sentiva osservato. Mentre distribuiva le ostie benedette e assolveva dai peccati la fila di uomini e donne di fronte a lui si guardava in torno cercando ossessivamente qualcosa che poteva percepire su di lui, ma non vedeva.  

 
Un vecchio fantasma che è tornato a riscattare il prezzo pagato ingiustamente
E lo spettro lo esigeva da lui, perché era lui l’aguzzino
Che lo aveva tenuto in vita sapendo il dolore che avrebbe provato.
Che aveva fatto si che lei non potesse scaldarlo, e che lui morisse di freddo.
Si sarebbe ripreso ciò che era stato suo.

 
Quando finalmente la messa fu finita e tutti furono andati, il Vescovo si accorse di quanto gli mancasse il fiato, e di quanto la sensazione sgradevole aumentasse.

La sua respirazione diveniva irregolare, appoggiò entrambe le mani alla bara per reggersi in piedi, quando la sua mente ripercorse ciò che era accaduto durante la messa,  incominciò ad intuire una parte di verità, che a poco a poco si trasformava in una tetra sorpresa.

Ripensò al giovane entrato a metà cerimonia, e a quando aveva alzato lo sguardo verso la cupola. Aveva fatto in tempo a notare i suoi occhi, dello stesso azzurro del cielo, ma con un’ombra che li aveva attraversati per un secondo, come un ondata di rabbia che passa e non lascia superstiti.

E si rese conto di averli già visti,  quegli occhi, e quel giovane, e improvvisamente si rese conto di chi fosse la bellissima ragazza che giaceva nella bara.

“Oh dio, che cos’ho fatto…”  Mormorò, togliendo delicatamente le mani dalla bara e allontanandosi da essa camminando all’indietro, tremando come una foglia.

Prese dei respiri profondi, e si accasciò su una panca.

“Sei tu dunque.”  Disse, sicuro di essere ascoltato. “E sei qui per uccidermi.”

Nell’ombra si mosse qualcosa. Qualcosa intorno ai lumi di candela ne spostò la fiamma. Poi lo sentì avvicinarsi, e una crescente paura si insinuò in lui.

State già morendo. Ho avvelenato il vino.”

La voce che gli rispose dall’ombra era molto giovane, ma dura, severa, incuteva timore. Poi il Vescovo udì dei passi, e il giovane uscì dall’ombra, stringendo tra le mani una bottiglietta di veleno.

Il vescovo deglutì. Le sue mani tremavano così tanto che riuscì a malapena a stringere tra esse una  rosa rossa che aveva trovato sulla panca a fianco a lui.

Ora cosa farai? La riporterai indietro, certo. Non avevo capito subito chi fossi, quando sei entrato, prima.”  Ebbe un attacco di tosse e si fermò,  appoggiandosi con le mani alla panca di fronte. “Ma il modo in cui ti sei inginocchiato di fronte alla sua bara, e in cui hai posato una rosa bianca su di essa, senza che nessuno ti notasse… Non mi sorprendi più ormai. Sapevo che sarebbe giunto questo giorno, non credevo così presto.” Continuò, rigirando il fiore tra le mani.

“In questo vi  ho sorpreso allora.” Osservò l’altro, rimanendo in piedi.

“Si. Devo dire di si.” Disse, con la voce ridotta ad un sussurro disperato tra i colpi di tosse, osservando nel vuoto. “Quando si sveglierà, le dirai ciò che deve sapere, vero?”

L’uomo incominciò a tossire più violentamente, e l’incarnato si fece di un colore tra il bianchiccio e il vedre. Le mani diventarono rigide e la rosa cadde a terra, gli occhi vitrei.

Il giovane raccolse il cappello e si incamminò lentamente verso il portone.

Uscì, ma non prima di bisbigliare qualcosa in direzione della bara nera alla fine della navata.

Il cielo si fece grigio e la pioggia incominciò a scendere, dal rosone quel giorno non entrarono più fasci di luce.







***




 
Joanie’s Corner.

Ciao a tutti! Dopo un’estate calda, troppo calda, un debito di latino (superato, oh yes babe.), e altre millemila cose, sono tornata! Non so come, ma sono riuscita a continuare questa storia. La trama, quando ho scritto il prologo, era solo una specie di abbozzo mentale tutto disordinato, però nell’ultima settimana mi sono messa a pensare ad un possibile sviluppo della faccenda, e si, ora ho in mente la storia nella mia testa. Questo capitolo è da considerarsi come un secondo prologo, visto che in pratica non si capisce molto della storia, ma dovevo metterlo per forza perché era piuttosto indispensabile e perché beh, avevo voglia di scriverlo. Comunque dal prossimo si incomincia con la narrazione della storia vera a propria.
Spero proprio che vi sia piaciuto, come al solito sono affamata di recensioni, mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate. (:
E questo capitolo è per Hells, Pipe, Claire, le mie efp dipendenti. Vi voglio tanto bene. <3
 
Alla prossima,
Joan;

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Capitolo 3
*** Ehledwen ***


Ehledwhen
Capitolo secondo.













 
Era sera inoltrata. Forse la mezzanotte era addirittura già passata, e l’aria incominciava a farsi fredda.  Nel Palazzo si stava svolgendo un ricevimento di gala. Erano arrivate dame, re, principi da ogni dove, a quanto pareva si trattava di qualcosa di molto considerevole, anche se alla fin fine, tutto era considerato considerevole, quando si trattava dei membri di qualche famiglia reale.

L’ambiente era surreale, aveva pensato Genevieve, appena Clara l’aveva condotta all’interno del palazzo. Era un magione delle Vecchie Reggenze, perciò l’ambiente rispecchiava pienamente il susseguirsi delle varie famiglie che avevano abitato il Palazzo. L’architettura era gotica, risaliva agli anni successivi alle rivolte e ai periodi bui, ma all’interno era decorato con arazzi di parecchi secoli successivi, e intersi d’oro e di bronzo decoravano porte e finestre. Era come se brandelli di epoche differenti fossero stati gettati alla rinfusa in quella sala, anche se alla fine, lei doveva ammetterlo, l’effetto non era malvagio, per quanto opprimente.

Si ritrovò a pensare a quanto freddo e strambo fosse quel Palazzo, e a quanto calda e accogliente fosse la sua reggia. Quanto diversa, quanto più casa.

Con una scusa, mentre discuteva sulle riserve d’oro delle miniere con una vecchia signora che sembrava disprezzare ogni parola dicesse, si era dileguata dalla festa ed era uscita a prendere una boccata d’aria.

Aveva pensato di non rientrare più, di prendere il cavallo e di andarsene e basta, a dire il vero. Ma Clara l’avrebbe uccisa, e con gli anni e l’esperienza aveva imparato che non era il caso farla arrabbiare, dato che la maggior parte delle volte, te ne faceva pentire.  Non aveva alcuna voglia di rientrare, o almeno non subito. Avrebbe aspettato ancora una quindicina di minuti e poi magari, avrebbe fatto una veloce scappatella nella reggia, giusto per scambiare qualche frivola chiacchiera con qualche altrettanto frivola donna attempata, o almeno per compiacere…

“Genevie!” Una giovane donna si sollevava la gonna con la punta della dita e camminava in punta di piedi perché l’’orlo del vestito non si sporcasse di fango. “Dio mio, Genevie, cos’è quell’aria da funerale? C’è una festa la dentro!”

Ci siamo, pensò Genevieve.

Si avvicinò, sempre attenda a non chiazzare l’abito, a Genevieve, seduta su uno dei rami di un faggio ai confini più esterni del boschetto del palazzo, con l’aria assorta e le gambe che penzolavano dall’alto.  

“Oh Clara, andiamo, ci conosciamo da quando siamo nate e non hai ancora capito quanto io odi queste cose mondane?” Fece ridacchiando e scostando il vestito per coprirsi le gambe.
“Oh, ti conosco ben troppo bene.”  Rispose Clara, zittendola con un cenno della mano.

Clara aveva l’aspetto della classica ragazza allevata e cresciuta a corte. Non era particolarmente bella, ma nemmeno brutta. Le lentiggini le coprivano le guance e i capelli rossi le scivolavano graziosi sulle spalle, circondandole il viso tondo. Era stretta in un abito verde scuro, che evidenziava le sue forme già da donna, con la gonna lunga e un corpetto color bronzo che la stringeva in vita, le sue mani erano velate da guanti bianchi.

 A differenza di Genevieve, Clara amava i balli e le feste effimere, che le davano un’opportunità di sprigionare il suo spirito frivolo e festaiolo. A volte Genevieve si chiedeva come avesse fatto a sopportare di seguirla a tutti quei ricevimenti per tutti quegli anni, nei quali più volte aveva rischiato di mandare al diavolo il buon nome della sua famiglia, inciampando in vestiti di vecchie dame, rischiando di rovesciare lo champagne addosso ai camerieri e restandosene in disparte desiderando null’altro che la fine di quella serata.

Genevie sbuffò. “Si da il caso che mi ci hai trascinato tu qui, sarei già a letto. Non farmene una colpa, se almeno non mi fiondo in mezzo alla folla!”

“Sei perché ti ho portato qui! Te l’ho detto e ripetuto, che il principe delle Alte Nazioni non ha occhi che per te. E sarebbe anche un modo perché aiutassi tuo padre in politica, un matrimonio tra due figli di re…”

Genevieve abbandonò la testa alla corteccia dell’albero, sorridendo alla sensazione del vento gelido del nord che le sfiorava il viso.  Era cresciuta, tra quei venti, e tra le montagne, sognando per tutta l’infanzia di essere da un’altra parte. E ora che era altrove, non desiderava altro che poter tornare a casa. Lasciò che la voce di Clara sfumasse e di essa rimanesse solo un’eco nella sua mente. Ricordò quando era ancora bambina e si sedeva sulle gambe di suo padre nella sala più immensa della reggia a farsi raccontare storie davanti al camino, mentre fuori le grandi vetrati le nevi perenni…

“Genevie, ti giuro che ti uccido con le mie stesse mani se ora non mi segui.”  Clara era il tipo da perdere la pazienza facilmente, soprattutto quando si trattava di principi di nazioni remote e di avere la possibilità di far maritare la sua migliore amica.

La ragazza sbuffò rumorosamente - sei più sgraziata di uno spaccalegna a volte, borbottò Clara a mezza voce, e dire che un giorno sarai regina –

Fece finta di non aver sentito, e si calò piano dal ramo, atterrando in una pozzanghera fangosa. Alla faccia scandalizzata di Clara, dopo aver visto l’orlo del suo vestito, Genevieve scoppiò a ridere allegra. “Dai, non è niente, prestami il soprabito!”
 
Il ricevimento era una noia. Non era nemmeno mondano e frivolo, era una vera e semplice noia. Dame che parlavano di Dame, Re che discutevano di cose da re. Genevieve pregò con tutto il suo cuore di essere altrove, quando Clara la presentò al principe Faramèr delle Alte Nazioni.

Molte ragazze lo trovavano attraente, ma a lei sembrava solamente stupido. Era carino, questo glielo concedeva, con quei capelli neri e la pelle chiara e tutto il resto, ma era davvero un idiota. Le era stato appiccicato per tutta la serata, senza dare segno di concederle tregua, portandole da bere, presentandole gente importante.

Non mi farò mai più trascinare ad una festa del genere. Pensò sfoderando il sorriso più falso che possedesse, mentre lui le baciava la mano, congedandosi.
Genevieve sospirò di sollievo, quando lo vide allontanarsi.

Si sedette in disparte, ai piedi di una vetrata, osservando a tratti le montagne, a tratti il suo riflesso nel vetro. La finestra rimandava l’immagine di una ragazza giovane, anche se nei suoi occhi vi si leggeva la stessa inquietudine di chi ha vissuto molto e di chi ha conosciuto la sofferenza.

I capelli neri le circondavano il viso, le cadevano lungo le spalle in due ciocche, mentre aveva raccolto in uno chignogn dietro la testa quelli che avanzavano.
Il vestito rosa era coperto dal soprabito bianco che Clara le aveva prestato per coprire le macchie di fango.

Smise di guardarsi, e cercò di concentrarsi sulle montagne. Sperava, per quanto sapesse che fosse impossibile, che se avesse guardato molto attentamente, avrebbe visto casa sua.
Magari, anche solo la luce della città nel buio.

Sospirò, bevve un sorso di vino, che le scese in gola e le scaldò il petto.

Si stava già alzando con l’intenzione di cercare Clara, quando qualcuno le afferrò un polso e il bicchiere le cadde di mano, frantumandosi a terra in mille scheggie di vetro.

Si voltò di scatto, ma quando il suo viso trovò quello del ragazzo che la tratteneva si bloccò stupefatta, e quasi urlò dalla sorpresa, al ricordo di parole, di anni, di gesti che aveva sperato di aver dimenticato.

Lui era il suo demone. Era un mostro che non sembrava tale, la sua voce suadente la costringeva ad aggrapparsi alle sue mani come se fossero la sua unica ancora.
Affogava nella marea, e lui le porgeva la salvezza. Si dimenava tra le onde, ma invano. Come avrebbe potuto non accettare?

 


“Ciao, Ehledwen.” Disse lui dopo un momento di interminabile silenzio.












***

Joanie's Corner, ovvero l'angolo di quella che si ripresenta così, con un nuovo capitolo dopo quasi tre mesi.

Mi faccio quasi pietà, lo devo dire. 
Cioè, mesi.
Si parla di mesi.
Mesi in cui in pratica ho scritto come una matta e non ho mai postato niente.
Che sollievo, avrete pensato. E invece no, pronta a rompervi con un altro capitolo.
Lo so, lo so, non si capisce niente della storia. 
Ma siamo ancora all'inizio, suvvia. 
Okay, me ne vado, altrimenti incominciano ad arrivare i pomodori in faccia,
Adios!
(Pipe, Hells, Claire e Ceci, ogni capitolo che scrivo è always per voi <3 )
 
Jo;
 
 
 
 

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