Eva, la prima donna

di Lady Snape
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 capitolo - A colloquio con il Leone ***
Capitolo 2: *** 2 capitolo - Una gabbia d'oro e polvere ***
Capitolo 3: *** 3 capitolo - Dialogo con se stesso ***
Capitolo 4: *** 4 capitolo - Bugie d'ordinanza ***
Capitolo 5: *** 5 capitolo - Il terrore dell'attesa ***
Capitolo 6: *** 6 capitolo - Nozze di Primavera ***
Capitolo 7: *** 7 capitolo - La ricerca ***
Capitolo 8: *** 8 capitolo - Tre generazioni ***
Capitolo 9: *** 9 capitolo - Sorpresa! ***
Capitolo 10: *** 10 capitolo - Quel passo mai fatto ***
Capitolo 11: *** 11 capitolo - Doppia personalità ***



Capitolo 1
*** 1 capitolo - A colloquio con il Leone ***


Salve a tutti! Oggi vi presento la mia fan fiction ambientata nel fantastico mondo de “La signora del West”. Mitico telefilm e mitici personaggi!

Io sono particolarmente affezionata al trio della Misericordia, come lo chiamo io (Jake, Hank e Lauren), e all’avvenente Preston A. Lodge III, che già dal nome con tanto di numerale si capisce che elemento è! Ad accomunare questi personaggi ci sono le risate e le lacrime, dato che ogni personaggio è stato sfaccettato a dovere e provoca reazioni così contrastanti, eppure così vere.

In questa fanfic riprendo un po’ il filo degli avvenimenti dove erano stati interrotti e mi sono ispirata a ciò che si è saputo dovesse accadere nella Settima Serie, purtroppo cancellata.

Il povero Preston ha perduto i suoi averi della crisi economica del 1873, ha messo in vendita l’hotel e deve rimborsare tutti i suoi clienti in qualche modo. Indovinate chi ci metterà lo zampino?

 

Buona lettura!

 

 

1 capitolo - A COLLOQUIO CON IL LEONE

 

 

Il passo di Eva Simmons sulle vie di Boston era frettoloso, ma allo stesso tempo deciso. Non credeva a quello che era successo, non riusciva a capacitarsene, eppure quella era la triste realtà.

Per quanto fosse diventata una donna indipendente, si trovava a subire gli errori della sua famiglia e a dover porre rimedio a quello che combinava suo fratello, il suo fratellastro per l’esattezza, che, nonostante fosse un uomo già da molto tempo, era decisamente un incapace. Non sapeva a chi dare la colpa del modo di essere di James, ma dipendeva sicuramente da qualcuno e la prima persona che le venne in mente fu la madre dell’uomo e la seconda il loro padre, che per quel figlio maschio stravedeva.

Eva non trovava assolutamente nulla di buono in lui, anzi, pensava che la sua capacità di disonorare il buon nome della famiglia si fosse parecchio acuita dalla morte di Mr. Simmons.

                La strada era oltremodo trafficata. Quella era la zona finanziaria della città. Durante la mattina, mentre era nello studio nel suo appartamento, la donna aveva ricevuto una lettera da James che le chiedeva di raggiungerlo per le 10 nella banca di Preston A. Lodge II. Quel nome non le disse niente di buono: se a chiamarti è un banchiere si tratta inequivocabilmente di debiti e se si tratta di quel banchiere le cose sono anche peggio.

James aveva trascorsi da giocatore d’azzardo, aveva già lapidato parte delle sue sostanze in affari sbagliati, quindi ora temeva davvero che si fosse dato il colpo di grazia, di quelli eclatanti da lasciare il segno nella memoria dei bostoniani.

                La banca era imponente, una facciata altissima in stile neoclassico, con colonne di ordine gigante. Eva salì la scalinata monumentale e varcò il portone di ferro. Un usciere la riconobbe subito: aveva appena concluso un romanzo a puntate sul Boston Globe, molto seguito, e non era raro che, quando passeggiasse per le vie della città, qualcuno le facesse complimenti o chiedesse anche autografi. Fu accompagnata in un ufficio privato, l’ufficio del direttore. Appena entrata, la sua mente fotografò una delle scene più pietose degli ultimi anni: Mr. Lodge era seduto dietro la sua scrivania con l’aria da vecchio leone, lo sguardo glaciale e un sorrisetto ironico stampato sul volto: la rappresentazione di uno che sta per incassare una grande quantità di denaro; suo fratello invece era l’apoteosi della codardia e della remissività. Immaginava che aver ricorso a lei nuovamente lo gettava in una sorta di commiserazione del fallito che era. Se James era arrendevole, Eva era proporzionalmente orgogliosa e aveva imparato a tener testa a tutti. Non si tirava mai indietro e aveva colto la sfida che gli aveva lanciato suo padre quando era ancora una ragazzina: diventare la migliore del suo anno al college. Eva ci era riuscita e da allora aveva raggiunto una grande sicurezza di sé.

< Sono contento di vederla, Miss Simmons. > esordì il banchiere, alzandosi al suo arrivo.

< Mi dispiace di non poter dire lo stesso. > Eva non voleva affatto compiacere un avvoltoio come quello. Se c’era una cosa che non sopportava erano le persone ipocrite.

Mr. Lodge le chiese di accomodarsi nella sedia accanto a quella dove James era letteralmente sprofondato, cappello in mano, senza fiatare. Non la salutò, ma Eva aveva altri problemi in quel momento.

< La ragione per cui siete stata fatta chiamare è parecchio incresciosa. > il tono dispiaciuto di quell’uomo era davvero ridicolo < Mr. Simmons ha un problema con la nostra banca. Non può onorare un debito che ha contratto con noi e la banca in questo momento è stata costretta a chiedergli di restituirle il prestito che era stato concesso. Sono scaduti i termini di pagamento e non possiamo più prorogarli. >

< Immagino che il problema sia che James non ha più niente per poter pagare le cambiali. > dedusse la donna, puntando uno sguardo di brace verso suo fratello che sollevò leggermente la testa, per poi lasciarla ricadere sul petto.

< Questo mi rincresce. > rispose il banchiere < Comunque sia Mr. Simmons ha chiesto di ricorrere a voi. L’altra soluzione sarebbe quella di denunciarlo alle autorità, ma significherebbe finire in carcere per bancarotta. >

Sembrava quasi che quell’uomo stesse tentando di far loro un favore. Eva sospettava che ci fosse qualcosa di diverso sotto, anche perché non aveva mai sentito parlare della generosità di Preston A. Londge II, mai sentito che si fosse fatto scrupoli nel denunciare agli agenti qualcuno dei suoi clienti spolpati fino all’osso. Immaginava che un Lodge “buono” non esistesse. L’avevano raggiunta voci sulla sua prole, una prole degna di lui, che aveva fatto fortuna sempre nel campo finanziario, ma nessuno si era dimostrato in qualche modo generoso. In ogni caso se James fosse finito in carcere, la sua vita si sarebbe oltremodo complicata: non solo la sua reputazione ne avrebbe risentito, ma anche quella delle due sorellastre minori. Il loro padre, unico legame che tutti e quattro avevano, era stato un uomo incapace di restare solo e alla morte di ogni moglie ne era seguita un’altra, fino alla madre di Becky e Anne, deceduta solo un anno prima rispetto al compianto Mr. Simmons, che quindi non aveva avuto il tempo di portare all’altare la quarta moglie. Aperto il testamento, James era stato nominato a sorpresa tutore delle due ragazzine. La sorpresa era stata di Eva, che non si capacitava della cecità di suo padre nell’affidare le due minori nelle mani di un incapace. James le aveva mandate a vivere da una vecchia zia, ma restava il gestore del loro patrimonio, che, deduceva Eva, probabilmente si era volatilizzato.

< Capisco, ma io come potrei aiutarlo? Sono una scrittrice e, per quanto riesca a vendere bene i miei libri, non so se sarò capace di risanare il debito. >

< Voi non siete solo una scrittrice, Miss Simmons, ma la proprietaria di Victor Hill. > rispose con semplicità il banchiere.

Victor Hill era un terreno situato in Texas. Questo terreno era una potente azienda agricola, un ranch di tutto rispetto che aveva fatto del grano e dei bovini la fonte di guadagno più importante della famiglia. Era un’eredità che Eva aveva ricevuto da sua madre e, di conseguenza, nessun altro poteva metterci le mani sopra. Una parte era già andata in fumo quando non aveva l’età legale per disporne a piacimento, grazie all’intervento combinato dei due uomini della famiglia Simmons; quello che restava era diventato per la donna una fonte importante di sostentamento: vivere solo con la sua attività intellettuale non era semplice; specie agli inizi era stato fondamentale poter contare su quella rendita, una rendita cospicua, questo lo ammetteva. C’era stata anche un altro risvolto interessante, scoperto quando aveva ricevuto gli atti di proprietà di Victor Hill: era stata la dote di sua madre e, per una strana clausola inserita da suo nonno quando la seconda Mrs. Simmons era stata portata all’altare, si era automaticamente trasformata nella dote dei suoi futuri figli.

Ciò che Mr. Lodge le stava chiedendo in quell’ufficio elegante, in maniera nemmeno molto velata, era di barattare la rispettabilità dei Simmons con una fonte di ricchezza che aveva permesso a tutti, non solo ad Eva, di ricevere un’istruzione elevata, una posizione sociale più che rispettabile a Boston e una fonte di sostentamento ormai necessaria. Eva, per il suo buon cuore, aveva disposto in segreto di riservare una minima parte delle rendite del ranch a Becky e Anne, in modo da poter dare loro un matrimonio degno, scommettendo che James le avrebbe ridotte a possedere solo gli abiti che indossavano.

< Victor Hill non è in vendita. > disse con fermezza Eva < Non sono una stupida, non posso vendere il terreno che ci permette di avere un’entrata sicura. Inoltre, mi dispiace informarvi, ci  sono delle precise disposizioni che rendono quella proprietà inalienabile, tanto da costituire in pratica la mia dote. Quindi, a meno che non decida di chiedermi in moglie e io decida malauguratamente di accettare, non potrà avere quei terreni. >

 A questo punto Mr. Lodge strinse il suo sguardo glaciale ed Eva poté sentire chiaramente le rotelle del suo cervello girare impazzite alla ricerca di una qualche soluzione. L’uomo si alzò con eleganza e lentezza calcolata e si diresse verso un armadio sulla destra. Preso del whisky e dei bicchieri decise di offrirne a tutti i presenti. Dopo aver sorseggiato, il sorriso, che era scomparso durante le ultime rivelazioni, tornò prepotente.

< Io non credo che non le importa di gettare la famiglia nell’ignominia. > questa era una deduzione facile, conoscendo anche solo minimamente Eva < Ovviamente la questione dell’inalienabilità del terreno crea qualche problema, ma, grazie a Dio, credo di aver trovato una soluzione. >

Eva temeva davvero che l’avrebbe chiesta in moglie. Il primo pensiero che le venne in mente fu quello di trovare un modo per assassinarlo la prima notte di nozze senza venirne incolpata, ma poi ricordò che Mrs. Lodge era viva e vegeta.

Preston A. Lodge II aveva guardato con grande interesse alle possibilità di guadagno che quel terreno offriva. Aveva indagato a lungo e aveva scoperto che il grano e le vacche potevano anche andarsene in malora, perché sotto quel suolo fecondo c’era una miniera di carbone di una rilevanza consistente. Miss Simmons aveva preferito non sfruttarla, per chissà quali ragioni, ma lui, che si intendeva di commerci e di affari, sapeva come far fruttare quella risorsa. Sapeva bene che stava mettendo in pratica un ricatto, ma l’obiettivo era troppo allettante per rinunciarvi. Era rimasto deluso dalle rivelazioni della donna, ma aveva anche trovato la soluzione giusta, quella che avrebbe permesso di prendere due piccioni con una fava, anzi, addirittura tre!

< L’unica soluzione attuabile per evitare che James vada in galera > e calcò sulla parola “galera” < che le sue sorelle non riescano più di conseguenza a sposarsi un giorno non è la vendita, dato che è impossibile, ma un matrimonio. > fece una pausa, quasi per vedere l’effetto che le sue parole avevano fatto sulla ragazza < Mi creda, l’uomo che la sposerà ne sarà felicissimo. Si da il caso che il mio ultimogenito non abbia una moglie. E’ un banchiere e ha un resort in Colorado. Ha studiato ad Harvard, è di bella presenza e credo che abbiate molto in comune. > concluse, quasi come se fosse una reclame.

Eva non ricordava di questo fantomatico ultimogenito di Mr. Lodge. Da un lato era un sollievo che non si fosse proposto in prima persona, dall’altro non credeva che James e le sue sorelle meritassero un tale sacrificio da parte sua. Però, se quell’idiota fosse davvero stato arrestato e condannato, gli fosse sequestrato tutto quello che possedeva, incluso il suo onore, anche lei ne avrebbe risentito: i suoi editori forse non sarebbero stati più tanto cordiali con lei, probabilmente avrebbero rotto il contratto, e anche il Boston Globe avrebbe fatto marcia indietro. Scrivere per lei era molto importante, ma con la reputazione rovinata sarebbe stato difficile, per pubblicare i suoi romanzi sarebbe dovuta andare in capo al mondo.

 

               

 

               

 

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Capitolo 2
*** 2 capitolo - Una gabbia d'oro e polvere ***


Salve a tutti! Posto dopo molto questo secondo capitolo a causa di imprevisti lavorativi: ogni tanto capita di lavorare, per cui bisogna mettere da parte il resto in quest’Italia del precariato.

Sono molto contenta del successo di visite per essere ancora al primo capitolo. Spero di aggiornare più spesso e di concluderla: al momento ho 6 capitoli completi, il resto è in abbozzo.

Ringrazio ISI per la recensione: sì, lo so, il Trio della Misericordia fa ridere, ogni volta che comparivano nel telefilm partiva la musichetta ridicola e io mi aspettavo scemenze a profusione. Ovviamente sono meravigliosi! Per tornare alla Fanfiction, spero che i due protagonisti ti piacciano.

 

Buona lettura!

 

 

                2 Capitolo – UNA GABBIA D’ORO E POLVERE

 

 

Non riusciva a capacitarsene. Perché, nonostante avesse deciso di firmare quel contratto, stava viaggiando per raggiungere la parte opposta del continente americano?

Eva aveva chiesto a Mr. Lodge del tempo per riflettere su quella assurda proposta. Secondo il banchiere il matrimonio si sarebbe dovuto celebrare il più presto possibile, per procura e solo successivamente avrebbe potuto raggiungere suo marito in un luogo sperduto. Va bene, non così sperduto, ma che con l’East Coast non aveva davvero niente a che fare. Nel mezzo degli Stati Uniti, dove le città erano davvero poche e terribilmente distanziate tra loro, non sapeva che genere di vita avrebbe potuto condurre.

Per giorni si era arrovellata su un’alternativa possibile per non sottostare a quello che sapeva essere un ricatto. Aveva urlato con James, l’aveva offeso, scagliato oggetti contro, ma tutto quello che aveva ottenuto erano state lacrime sommesse e la minaccia dell’autodenuncia alla polizia. Aveva provato a consultarsi con sua zia, era andata a trovare le sorelle e si era accorta che quelle due non avevano la minima possibilità di risollevarsi, se un macigno tanto pesante le avesse travolte. Erano due splendide stupide senza speranza, tanto che avrebbe preferito mandarle in collegio, invece di concedere loro una vita mollemente agiata. Pareva che tutti i geni bacati avessero deciso di dividersi equamente fra quei tre impiastri che aveva per fratelli e, probabilmente, la sua intelligenza, intraprendenza e capacità pratiche erano tutte retaggio materno. Grazie al cielo.

Dopo qualche notte insonne era giunta alla soluzione che forse valeva la pena dar loro un’ultima possibilità e come Ifigenia si immolò per questa causa.

                La cerimonia delle firme per preparare i documenti al matrimonio per procura erano stati molto veloci. Eva immaginò che si trattasse di una possibilità che avesse solo Mr. Lodge, dato che conosceva tutta la Boston alto borghese e quindi anche i funzionari che si occupavano di queste pratiche.

Glissando sullo sguardo vittorioso di quell’uomo, che in questo modo, tramite il figlio divenuto comproprietario di Victor Hill, pensava già al modo migliore per plagiare la mente della sua novella nuora per mettere le mani sui giacimenti carboniferi, Eva ricevette quel giorno in dono un anello con un diamante, simbolo del matrimonio, e una fotografia un po’ datata di Preston A. Lodge III. Beh, non credeva che suo marito portasse il nome di quella iena antropomorfa. Il mattino seguente fu accompagnata in stazione e, occupato anche il vano merci del treno per Denver, era stata inviata a conoscere l’uomo con cui avrebbe passato parte della vita.

                Il vecchio banchiere era convinto di aver fatto uno degli affari migliori della sua esistenza. In un colpo solo era riuscito a mettere le mani per via traversa su quel terreno tanto agognato, a procurare una moglie a quell’inetto di suo figlio che, ormai sulla soglia dei trentacinque anni, era parecchio indietro sulla tabella di marcia rispetto ai suoi fratelli e a togliersi dai piedi Eva Simmons che, sapeva bene, era un potenziale problema. Ma, quello che gli premeva di più, era riuscire ad arginare i problemi finanziari che Preston si era trovato ad affrontare a causa del fallimento della banca di New York. Il giovane banchiere aveva perso più di quanto il vecchio leone avesse creduto inizialmente. Aveva scoperto che lo Springs Chateau era stato messo in vendita per coprire i debiti della banca. Mr. Lodge aveva subito telegrafato a suo figlio intimandogli di ritirare il vendesi e di fidarsi di lui per quanto riguardava il risanamento delle finanze.

Il giorno stesso in cui Eva aveva accettato di sposare Preston, Mr. Lodge aveva inviato un telegramma in Colorado per mettere al corrente suo figlio della bella notizia. Non fu prolisso e il povero Preston ricevette giusto due righe sull’arrivo di una donna di nome Eva Simmons e una sollecitazione a preparare una cerimonia di nozze e un nido felice. Mr. Lodge inviò poi una lettera con il resoconto della vicenda, sulla proprietà che ora il figliolo si trovava a gestire e sul caratterino della mogliettina, intimando di imparare a dominarlo il prima possibile.

                Ciò che è certo è che entrambi i protagonisti erano particolarmente increduli dell’esito della vicenda. Eva guardava fuori dal finestrino dello scompartimento e si chiedeva chi le avesse spento il cervello o chi le aveva inculcato questo folle masochismo a favore di gente che non aveva mai considerato una famiglia. Ogni tanto tirava fuori il ritratto dell’uomo che aveva sposato. Ammetteva a se stessa che si trattava di un bell’uomo, le avevano detto anche alto e che comunque dal modo in cui aveva sentito parlare di lui dai suoi fratelli prometteva bene, ma non sapeva se si sarebbero presi a pugni appena conosciuti. Qualche sospetto le era balenato nella mente. Temeva che da qualche parte ci fosse la fregatura, qualcosa che suonasse in modo discordante, una macchia sulla tovaglia bianca. Per quanto cercasse di non pensarci, era sicura che stesse per iniziare un capitolo totalmente diverso della sua vita e a ricordarglielo era anche il paesaggio che si era fatto sempre più selvaggio, più esteso e meno confortante.

                L’arrivo a Colorado Springs non fu così brutto. Già l’idea che vi fosse la ferrovia era qualcosa di consolante: se le cose si sarebbero messe male, prendere un treno per andarsene non sarebbe stato difficile. La stazione era piccola, ma pareva ben fornita. Si avvicinò alla scaletta del vagone, ancora avvolta dai vapori del treno, e una mano con un anello all’anulare l’aiutò a scendere. Quando fu giù e l’aria tornò ad essere limpida, scorse il volto di Preston. Era effettivamente un bell’uomo, molto elegante con occhi limpidi, fortunatamente di un colore molto caldo rispetto agli aghi freddi del padre. Le porse un fascio di fiori di campo.

< Sono Preston A. Lodge III. > una presentazione solenne, con tanto di baciamano, la diceva lunga sul tipo di educazione che aveva ricevuto. Un sorriso sereno gli illuminò il volto, ma gli occhi parevano pensosi. Eva non si meravigliò più di tanto: chi non sarebbe stato preoccupato nel trovarsi in una situazione del genere, sposare una sconosciuta per far contento il paparino?

I bauli di Eva furono caricati su un calesse che lo stesso Preston guidò verso lo Springs Chateau.

< Ha fatto buon viaggio? > chiese l’uomo evidentemente per cortesia.

Eva aveva un difetto terribile: odiava che si girasse attorno ai problemi, preferiva affrontarli in modo deciso, ma per questa ragione non era abile con la diplomazia. Questo caso non fu diverso da molti altri che lo avevano preceduto.

                Dopo essere arrivati al resort, che per la donna era grazioso, caratteristico e aveva un certo fascino, Preston aveva mostrato il suo appartamento che si trovava nell’ala ovest. Non era molto grande, ma era ben illuminato, con grandi finestre e tende in mussola leggera. L’arredamento era elegante, qualche dipinto di paesaggio alle pareti coperte di carta da parati damascata, un grande tappeto nella sala da pranzo che, sembrava, non venisse molto utilizzata. A destra una porta conduceva nello studio dell’uomo, con una bella scrivania in legno scuro, due scaffali alti alle sue spalle e un piccolo archivio. Infondo al corridoio c’era una camera più grande, con un grande letto matrimoniale contro la parete, un grande armadio dipinto di bianco, uno scrittoio molto ben fornito anch’esso bianco e due sedie imbottite. In un angolo c’era un piccolo divanetto. Un paravento con motivi giapponesi era in un angolo a coprire il bacile e la brocca d’acqua e un mobile per la toletta, con uno specchio modanato. Alcuni facchini che lavoravano al resort avevano trasportato i bauli da viaggio di Eva in quella stanza.

< Spero vi piaccia. > disse Preston, mani dietro la schiena < Sono mobili fatti arrivare da Denver. E’ una sistemazione provvisoria, prima di rendere ufficiale il contratto. > non volle pronunciare la parola “matrimonio” forse per scaramanzia o forse perché non riteneva che quello che stava per essere ufficializzato potesse chiamarsi matrimonio.

Eva non aveva proferito parola da quando erano scesi dal calesse. Fissò con i suoi occhi neri l’uomo che aveva di fronte e sentì dentro di sé una sorta di compassione verso di lui. Non sapeva spiegare bene la ragione, ma quello che le venne in mente era che provava pietà per lui a causa di quella mancanza di ribellione che lo caratterizzava; sembrava che avesse accettato di sposarla senza fiatare, senza il minimo dissenso. Una parte di lei leggeva in quello sguardo, senza un briciolo di felicità, una sofferenza profonda, ma non sapeva darne un nome.

< E’ un bel posto e la stanza è molto bella. > disse, rispondendo con sincerità < Il problema è che davvero non riesco a capire come faccia a restare impassibile di fronte a questa situazione. > lasciò cadere il suo scialle sul letto e con esso ogni minima capacità diplomatica. Si avvicinò a lui < Non ha nessuna domanda da farmi? Non ha curiosità riguardo le ragioni per cui io sono qui ed entro poche settimane dovremmo necessariamente sposarci? > il tono che aveva usato, credeva, aveva qualcosa di isterico, ma l’isteria era un naturale sentimento che quell’uomo, di una mitezza assurda, le provocava.

Il volto di Preston si incupì. Quel velo che copriva solo gli occhi si estese a tutto il suo viso.

< Non conosco i dettagli > rispose < ma mio padre mi ha informato sulle ragioni dell’accordo che avete preso. >

< Non ha niente da obiettare? > chiese ancora Eva, con un sarcasmo che le fece guadagnare un’occhiataccia dall’uomo.

< Se lei ha accettato, perché non dovrei farlo io? > rispose semplicemente.

Non faceva una grinza. In fin dei conti se un’estranea aveva firmato un contratto con suo padre, chi era lui per rifiutarlo? Era suo figlio e quindi maggiormente soggetto ai suoi voleri. Almeno secondo un ragionamento veramente contorto.

< Mi sta dicendo che non ha una  sua volontà? > evidentemente c’era un qualcosa di insoluto nel rapporto tra i due Lodge. Lei si era incastrata in una situazione particolarmente complicata e questo lo doveva a quella strana congettura che vedeva lei di un masochismo spinto e la sua famiglia zeppa di decerebrati. Il tutto era stato messo insieme dallo sciacallaggio del banchiere di Boston.

< Lei perché ha accettato? > chiese Preston questa volta.

< E’ stato un ricatto, se vuole saperlo. > era offesa dall’insinuazione velata dell’uomo: pensava che non avesse una propria volontà?

< Avrebbe potuto rifiutare. E in ogni caso non ha senso iniziare le cose in questo modo. Non pretendo di piacerle, ma… >

< Ma lei obbedisce a degli ordini? > chiese con sarcasmo, citando una frase che starebbe stata bene sulla bocca di un ufficiale dell’esercito.

Preston stava perdendo la pazienza. All’inizio era stato ingannato dal viso d’angelo di quella donna, dai suoi lineamenti delicati, dalle sue labbra rosse e dal contrasto della pelle candida e degli occhi e dei capelli neri. Tradiva origini di una terra calda, forse i suoi avi erano di un Paese affacciato sul Mediterraneo o forse addirittura mediorientale, ma adesso lo stava trattando da stupido e non lo era affatto. Comprendere lo strano rapporto che aveva con suo padre era difficile, lo ammetteva, ma non era il caso di mettersi a risolvere i suoi problemi con una perfetta sconosciuta. In più era in una condizione tale da non poter nemmeno sognare di ribellarsi al volere del genitore: non aveva alcuna voce in capitolo, dato che non era riuscito a risollevarsi con le sue forze dal crollo delle azioni. La banca era fallita, il resort era l’unica proprietà che gli era rimasta e l’aveva messa in vendita per risanare i suoi debiti, ma suo padre era intervenuto, purtroppo.

< Mi dispiace che abbia deciso di iniziare con il piede sbagliato la nostra conoscenza. Lei ha firmato un contratto, io non vedo perché dovrei disattenderlo: da quanto mi è stato comunicato ci sono vantaggi per entrambi. Se lei non vuole più soddisfarlo, può tornarsene a Boston, ma se decide di restare, preferirei che non mi offenda più in questo modo. > si era fatto serio e fermo < Ora devo tornare in città per questioni di lavoro. Lei è libera di fare quello che vuole. >

Detto questo salutò Eva con un cenno del capo ed uscì dalla stanza.

 

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Capitolo 3
*** 3 capitolo - Dialogo con se stesso ***


Pubblico il terzo capitolo dopo molto. Lo so, ma sono piena di impegni e di guai vari. Inoltre, la storia non l’ho finita e cerco di prendere tempo. Spero che vi stia piacendo, anche se non ci sono commenti. Su, non siate timide!

 

Buona lettura!

 

 

3 capitolo – DIALOGO CON SE STESSO

 

 

Seduto nell’ufficio che aveva alla banca, Preston era perso nei propri pensieri. Non gli era piaciuto affatto sottostare nuovamente ai voleri di suo padre, ma si era sentito in dovere di farlo. Aveva ricevuto una lettera negli ultimi mesi, dove Preston A. Lodge II gli elencava i successi dei suoi fratelli in ambito affaristico e, quasi a farlo apposta, anche in ambito familiare.

La competizione era stata pane quotidiano in casa sua, da che ne aveva memoria. Ogni periodo di vacanza dal collegio nel quale erano stati educati era una gara a chi aveva ricevuto più medaglie, più premi, voti migliori in ambito accademico. E poi c’era lo scontro fisico: i fratelli Lodge si erano affrontati a suon di pugni, poco importava se Preston fosse il più piccolo e non avesse grandi possibilità di battere i fratelli più grandi. Con soddisfazione, però, c’erano stati momenti di gloria anche per lui. Si era rivelato un ottimo studente, forse più degli altri, ed era diventato eccelso nelle gare di retorica, capace di tirare fuori citazioni e locuzioni latine tali da mandare in confusione il suo avversario. C’erano stati momenti felici per lui. Era  sempre stato il preferito della zia Fanny, sorella di suo padre, e fino a quando era stata in vita, lei si era congratulata con lui, lo aveva coccolato come avrebbe fatto una madre, una madre che aveva, era viva e vegeta, ma non era mai stata molto attaccata al suo figlio più piccolo. Ricordava che la zia Fanny lo considerava il più gentile della famiglia, il più galante ed era stata lei a introdurlo in società, quando aveva compiuto vent’anni. Grazie al suo supporto si era sentito sicuro e capace. Alla sua morte le cose erano cambiate. Per la prima volta il vecchio Lodge aveva mostrato di non approvare il contributo educativo della sorella sul suo ultimogenito ed aveva acuito la competizione in casa sua. Gli ultimi dieci anni erano stati un vero incubo: uno alla volta i suoi fratelli avevano lasciato il nido, avevano messo su famiglia, affari, proprietà, costruzioni e soddisfatto le aspettative del vecchio leone. Non erano mancati i rimproveri sul suo non seguire le indicazioni che gli altri avevano tanto mirabilmente portato a termine. Quando però ci si trovava a confrontarsi con un numero così elevato di gente che aveva compiuto gli stessi studi accademici, che frequentava lo stesso ambiente, riuscire a competere nello stesso campo senza alcuna solidarietà era davvero difficile.

La svolta era giunta quando, in un caffè della città, un suo compagno di college aveva parlato di affari compiuti nel lontano West. In quelle terre era tutto da fare, non c’era niente, a parte qualche centro importante. Le città stavano nascendo ed era necessario che qualcuno andasse lì a portar loro la civiltà. Seguire la ferrovia e scegliere una stazione nella quale fermarsi gli era sembrata una buona idea. Lì si sarebbe impiantato, sarebbe stato lontano dalla diretta competizione con i suoi fratelli e avrebbe dimostrato come si poteva tirar fuori dalla terra selvaggia qualcosa di estremamente raffinato e redditizio.

Aveva pensato che sarebbe stato più facile. Eppure scontrarsi con la gente del luogo non era stato semplice. In molti casi era stato solo contro tutti, senza avere la possibilità di essere confortato da un amico, un confidente. Quando aveva costruito il resort si era trovato in una situazione davvero difficile: nemmeno gli operai di Colorado Springs avevano accettato di lavorare per lui. Poi ci si era messo anche suo padre che, ogni volta che era andato a verificare i suoi progressi, non era stato gentile, lo aveva sommerso di critiche e lui si era trovato a fare la figura del cretino davanti a tutti. Anche quello strambo di Horace sembrava averlo compatito. Aveva perso la corsa al ruolo di sindaco, aveva fallito l’unica volta che suo padre aveva visto lo Springs Chateau, grazie anche al clima inclemente che aveva rovinato ogni cosa.

Il fallimento che aveva dovuto sopportare in quell’ultimo mese era stato il colpo di grazia: non c’era modo di poter risollevarsi, doveva vendere necessariamente i suoi averi per saldare i debiti che aveva con i risparmiatori. Aveva temporeggiato, ma non era servito a nulla. Vendere era l’unica soluzione, eppure Horace Bing, l’uomo che gli provocava una strana invidia, forse l’invidia di una vita normale, aveva proposto di chiedere aiuto a suo padre. Già, si poteva fare, ma avrebbe perso la faccia completamente. Fatto sta che invece di chiederlo, gli fu imposto il suo aiuto. Si trovava davanti a un matrimonio per procura, come soluzione a tutti i suoi crucci. Evidentemente suo padre non lo considerava in grado di riprendersi con le proprie forze e forse anche di far la corte ad una donna, di conquistarla e di chiedere di sposarlo. Aveva deciso per lui, aveva trovato una soluzione ad un duplice problema. Assecondarlo gli era sembrato molto più semplice piuttosto che subire un’altra volta le sue critiche, solo perché aveva tentato di ribellarsi. Magari avrebbe fatto fortuna in modo più deciso un giorno e avrebbe restituito con sdegno il denaro che, in un certo senso, gli veniva prestato. Quanto al matrimonio, perché rifiutarlo? Magari avrebbe conquistato una donna un giorno, ma non sarebbe stata abbastanza bella, ricca, giovane, intelligente. Purtroppo non era esattamente il tipo di uomo capace di approfittare di una donna, anche se la legge gli dava la possibilità di pretendere da lei, di avere il pugno di ferro a priori, come suo padre consigliava di adottare con Eva Simmons.

                Eva. Eva aveva dimostrato di non gradire le costrizioni, non che lui volesse costringerla a fare qualcosa, ma sperava che almeno la situazione si fosse mossa in modo più tranquillo, si fossero parlati senza che anche lei iniziasse con aggressioni verbali. Guardò l’orologio: era ora di tornare a casa. Lentamente si alzò dalla scrivania, ripose nell’archivio le ultime carte che aveva visionato e calcò il suo cappello.

Decise di fare un salto da Dorothy, per lasciarle un annuncio su delle azioni che avrebbe venduto a partire dal lunedì successivo. La pubblicità gratis era sempre una buona cosa.

Dorothy stava scrivendo un articolo, controllando gli appunti presi sul suo taccuino nel corso della giornata. Vedere quella donna alla scrivania ricordò a Preston che quella città era stranamente una calamita per tante donne intraprendenti e con un caratterino per niente facile. Eva ingrossava quelle fila e avrebbe probabilmente fatto la sua parte per gettare scompiglio in quella che, forse, non era mai stata una cittadina tranquilla. Il dialogo tra Dorothy e Preston stazionò poco sulle questioni di lavoro; non ci volle molto affinché giungesse la domanda fatidica sulla nuova venuta.

< Qualcuno vocifera in paese che tu abbia regalato dei fiori ad una donna stamattina. > chiese la donna, continuando a guardare i fogli con i suoi appunti.

Preston non si stupì. Ci voleva poco a far parlare di sé. Il problema era un altro: come doveva presentarla esattamente? Doveva dire che si trattava di un’amica? Una conoscente? Un’ospite particolare del suo albergo? Entro tre settimane avrebbe dovuto sposarla.

< Si tratta della mia fidanzata. > disse d’un fiato, riuscendo a mantenere una parvenza di tranquillità. Cosa che non fece Dorothy: alzò lo sguardo di scatto e fissò Preston come se fosse un ragazzino che avesse detto una bugia.

< Davvero? Da quanto siete fidanzati? > meglio approfondire. Le sembrava strano: non sapeva di lei, il banchiere aveva corteggiato altre donne, non si era spostato da Colorado Springs tranne per andare a Denver ogni tanto. Forse era proprio di Denver.

< Non molto. > salutò e uscì. Non era il caso di darle altre informazioni.

                Eva si era sistemata nella sua nuova stanza. Non le dispiaceva, la trovava molto bella, arredata con gusto, ma sentiva una leggera nostalgia del suo appartamento a Boston. Aveva avuto modi di riflettere e si era resa conto di aver iniziato in modo sbagliato il suo rapporto con Preston. Doveva dargli il modo di farsi conoscere e di poter conoscere lei, perché, al momento, erano costretti al matrimonio e, forse, doveva anche ringraziarlo per aver accettato. Era vittima di un ricatto, era vero, ma questo le permetteva di evitare di mandare in carcere suo fratello, permetteva alle sue sorelle di vivere felici e salvaguardava la sua carriera. Doveva guardare il lato positivo della cosa e, tanto per aggiungere altro, poteva ritenersi fortunata, dato che l’uomo che doveva sposare non era un vecchio rimbambito. Seduta allo scrittoio che Preston aveva preparato per lei, notò le boccettine di inchiostro messe in ordine su uno dei ripiani, le risme di fogli ben impilati e i pennini sistemati in un portapenne: si trattava di dettagli importanti, che dimostravano che era stata posta attenzione nella preparazione di quella stanza. Forse Preston aveva letto uno dei suoi romanzi, qualche racconto o semplicemente era a conoscenza della sua attività. Si sentì più sicura di sé e decise che era giusto scusarsi con lui.

Erano le sette ormai, quando la donna sentì la porta accanto a quella della sua camera aprirsi. Preston era appena tornato; aveva voglia di cenare, di rilassarsi un attimo, bere qualcosa magari, prima di vedere i conti giornalieri del resort. Lavorare era diventato necessario, era l’unica cosa che riuscisse a fare bene, che non gli mancasse mai, che impegnava le sue giornate. Inoltre il percorso in calesse gli aveva dato modo di riflettere. Eva era una giovane donna, cresciuta in una parte degli Stati Uniti decisamente differente rispetto al Colorado. Probabilmente era vissuta nell’agiatezza, con tutti i confort che una grande città come Boston poteva offrire. Una donna di famiglia borghese di certo non si sarebbe mai aspettata un matrimonio per procura, ma conosceva la sua situazione familiare e ne aveva dedotto che non aveva avuto molta scelta: capiva esattamente come dovesse sentirsi, anzi, forse sottovalutava la sua sensibilità. Entrato nella sua stanza, lasciò cadere il cappello sulla cassettiera, quando sentì un leggero bussare alla porta. Vide la figura della donna, delicata e sinuosa, fare capolino dalla porta. Eva lo fissava con i suoi occhi profondi. Era bella, sì, di questo era certo. Si scusò con lui.

< Credo di aver iniziato male il rapporto con lei, mi dispiace, ma deve capire che non è facile per me trovarmi qui contro il mio volere, alla fine. > disse con sincerità. Preston capiva benissimo la situazione, sapeva cosa voleva dire dover obbedire a suo padre e compativa quella ragazza che, suo malgrado, si era trovata nelle sue grinfie.

< Non importa. Non è successo niente di irreparabile. Concorderà con me che dovremmo iniziare in modo diverso per una pacifica convivenza. > non gli importava delle indicazioni di suo padre. In quel momento il suo istinto gli aveva suggerito che, forse, quella poteva essere davvero una  compagna di vita. Magari non si sarebbero mai amati, ma per la prima volta  c’era in Colorado una persona apposta per lui, con la quale poteva instaurare un rapporto diverso rispetto a quelli che aveva con gli altri cittadini. Sperava di non doversi sentire più solo, di avere una confidente, qualcuno che lo ascoltasse e in quel periodo era decisamente più deprimente del solito.

Eva emanò un leggero sospiro, che non sfuggì a Preston, ma non se la sentì di biasimarla per questo. Erano entrambi in una situazione senza uscita, potevano solo adattarsi alla situazione e provare a renderla gradevole.

 

 

 

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Capitolo 4
*** 4 capitolo - Bugie d'ordinanza ***


Sono piacevolmente stupita! Ritrovarsi dopo tanto tempo con altri commenti è stato un toccasana. Ammetto di essere ancora oberata di cose da fare, un esame a giorni e una convalescenza dovuta all’influenza, ma, dato che un paio di capitoli sono pronti, vediamo di pubblicare.

Grazie alla nuova arrivata ManuBach96 e alla recensione di minouche86: faccio del mio meglio per scrivere correttamente, anche perché anche io ho problemi a leggere testi con errori. Oddio, possono capitare, specie quelli di battitura, ma si riconoscono facilmente e sono diversi da quelli grammaticali, lessicali o sintattici.

Vi lascio con Eva, immersa in un mondo che non conosce e in una situazione difficile, come dover sposare uno sconosciuto.

 

Buona lettura!

 

4 capitolo – BUGIE D’ORDINANZA

 

 

Vivere con Preston non era difficile. Il giovane Lodge era spesso impegnato con il suo lavoro. Era un affarista, forse non proprio per vocazione, ma di certo si impegnava fortemente in questa attività; il resort era un posto frequentato da molti borghesi, di varia provenienza, ed Eva, nonostante gli impegni del futuro consorte, era sempre in compagnia. Non mancavano gli incontri intellettuali con discussioni sulla letteratura, sull’arte o l’opera, ma restavano rapporti effimeri con gente che soggiornava per breve tempo. Fin da subito Eva si accorse che era necessario rendere la relazione con Preston più confidenziale.

Altra questione era rapportarsi con gli abitanti di Colorado Springs. Nella maggior parte dei casi non riusciva a trovare un punto d’incontro, non riusciva ad entrare in confidenza con molti di loro, gente decisamente molto pratica e poco incline a perdersi in discussioni che non trattassero di vita vissuta.

Un’amica, o quantomeno un contatto più intimo, lo aveva con Dorothy Jennings che, scoprì, era socia di Preston per quanto riguardava il Gazette. Era una donna intrigante, che spiccava per il suo sguardo limpido e intelligente. Affamata di letteratura e di notizie, Dorothy era una persona che poteva decisamente esserle amica, avere un qualche tipo di rapporto con lei e, magari, raccontarle qualcosa di Preston, per provare a conoscerlo meglio, a scoprire qualcosa di lui.

                Il primo incontro con Dorothy fu particolarmente imbarazzante. Un lunedì mattina, stufa di vivere quasi segregata nella prigione dorata che era il resort, decise di andare in città con Preston. L’uomo nell’ultimo periodo si era chiuso in se stesso, non aveva molta voglia di parlare ed Eva avvertiva una certa negatività scaturire dalla sua persona. Appena giunti in città, fece un giro sotto i portici. Vedere una cassettina con dei giornali fu come per un assetato arrivare ad una sorgente: pagò il suo nichelino e prese una copia del Gazette. Fu mentre leggeva un articolo su un incidente in una miniera che vide una gonna color lavanda sbucare dalla porta. Alzò lo sguardo e lo incrociò con gli occhi azzurri della giornalista.

< Sono Dorothy Jennings. > si presentò con un sorriso, tendendo la mano.

Parlarono un po’, ma Eva sentiva che c’era una fremente curiosità in lei. Dopo che aveva scoperto che Preston era suo socio, ebbe la certezza che qualche voce su di lei le fosse giunta.

< Quindi siete la fidanzata di Preston. > disse infatti Dorothy, dopo che si erano accomodate al “Grace’ Cafè”. Eva non ne fu tanto stupita, era una questione che sarebbe stata affrontata da un momento all’altro.

< Sì, possiamo decisamente dire così. Per la precisione, dovremmo fissare a breve la data del matrimonio, ma lui ha deciso di aspettare. > si sentì decisamente una bugiarda. Non era esattamente così: avevano dei limiti di tempo per far valere la procura che avevano firmato, ma nessuno dei due aveva avuto il coraggio di tirare fuori l’argomento matrimonio. Non si vedevano molto spesso, Preston fuggiva da ogni contatto imbarazzante e anche conoscersi meglio in vista delle nozze era difficile, nonostante i buoni propositi. Metterli in pratica si era rivelato più difficile del previsto.

< Quando vi siete conosciuti? > chiese Dorothy con l’aria di una che stesse calcolando i tempi e i luoghi del possibile incontro della coppia. Riflettendoci, Dorothy ricordava che Preston era stato a Boston molti mesi prima e non aveva fatto cenno all’incontro con la scrittrice. Conoscendolo, si sarebbe certamente vantato con tutti quelli che fossero stati tanto gentili da ascoltarlo, avrebbe messo i suoi libri in bella vista sulla sua scrivania, avrebbe fatto in modo di venderli da qualche parte, insomma lo avrebbe fatto notare. C’era sotto qualcosa, ne era convinta. Il problema era scoprire cosa.

< Questo è difficile dirlo. > tentò di sviare Eva, che aveva annusato il pericolo < Ma è stato un amore clandestino. > “Certo, così clandestino che non lo sapevo nemmeno io!” si ritrovò a pensare.

Dorothy si meravigliò a questa notizia e bevve ogni parola che la scrittrice sciorinava con mille dettagli, o così parve ad Eva. Alla fine Eva ringraziò Madre Natura per averle dato una fervida immaginazione, una capacità di inventare storie credibili in poco tempo, senza neanche dover star lì a pensarci troppo. Si sentì un verme, questo è vero, ma non aveva scelta, non aveva altro modo per uscire d’impaccio.

                Dopo quella mattina strana, quello che Eva desiderava più di ogni altra cosa era di nascondersi in un buco, in un luogo dove eclissarsi per qualche tempo e far passare la vergogna per quello che aveva fatto. Non era da lei mentire in quel modo, in più non aveva nessun amico lì e la possibilità di fare amicizia con quella donna, che le sembrava una delle poche persone con cui fare un discorso sensato in quella terra dimenticata da Dio, dalle fogne, dall’acquedotto e dalle strade lastricate, sembrava essere sfumata.

 

                Preston ere nervoso. Contava i giorni dall’arrivo di Eva. Più tempo lei era a Colorado Springs, meno giorni c’erano a disposizione per organizzare il matrimonio. Esattamente, però, come doveva gestire la situazione? Una cerimonia pubblica con rinfresco? Non aveva idea di chi invitare, non aveva idea nemmeno di chi potesse essere il suo testimone. Doveva parlarne con Eva, ma ogni volta gli si formava un nodo in gola e non riusciva più a formulare nemmeno una frase. Ammetteva che quegli occhi neri puntati nei suoi gli creavano non qualche problema: sentiva che la donna cercava di indagare sul suo stato d’animo, non si sa se riuscendo ad interpretare i suoi pensieri o trovando davanti un muro. Fatto sta che non poteva perdere tempo ancora per molto. C’erano troppe questioni da decidere, da discutere e da risolvere.

                Fu in merito a questa questione che Preston decise che era il caso di prendere coraggio, un po’ per l’immagine che stava dando di sé, un po’ perché se non si dava una mossa suo padre si sarebbe fatto vivo in qualche modo e i suoi telegrammi e le sue lettere per il banchiere scottavano come se fossero stati un pezzo di lava. Come fare? Non aveva molte idee in merito, ma non aveva molto tempo per pensare.

                Era domenica mattina ed Eva era pronta per recarsi alla funzione del Reverendo. Era un tipo strano il pastore di quel gregge a lei sconosciuto: cieco, ma aveva l’aria di uno che in vita sua aveva combinato un bel po’ di cose, forse non tutte lecite. Inconsciamente appuntò qualcosa nella sua mente da usare nei suoi romanzi. Il protagonista principale, però, restava Preston. Aveva molti appunti su di lui. Quella mattina era un po’ troppo elegante per trattarsi di una semplice funzione religiosa. Quando Eva lo vide scendere per la colazione nella sala da pranzo dell’hotel, aveva una luce strana negli occhi. 

< Buongiorno! > disse, infatti, l’uomo con un’enfasi che non gli apparteneva. A ben vedere Eva notò i movimenti convulsi delle sue mani, quasi volesse scaricare qualche tensione.

I guai, le rivelazioni giunsero quando entrambi salirono sul calesse per recarsi in paese. Il trotto del cavallo era sostenuto ed Eva iniziava a sospettare qualcosa. Mentre attraversavano un piccolo ponte che scavalcava un ruscello, Preston si schiarì la voce.

< Più tardi dobbiamo parlare con il Reverendo. > disse con una voce che pareva quasi non essere la sua, un vero sussurro.

< Parlare di cosa? > la donna temeva la risposta e una parte di lei non voleva saperla. Sembrava che fosse in vacanza, non che fosse lì in Colorado per altre ragioni.

< Eva > iniziò lui con cautela < non voglio metterti fretta o forzarti, ma non abbiamo molto tempo per farlo. > disse ancora senza guardarla, facendo finta di essere tremendamente interessato al panorama che li circondava.

< Tempo per… > le parole le morirono in gola < Lo so. > disse infine, ritrovando sé stessa e un senso di rassegnazione che le perforava il cuore. In ogni caso, le sembrava che Preston ne discutesse come se stesse parlando di una rapina: con circospezione e quasi sussurrando. E forse di rapina, o meglio rapimento, poteva trattarsi.

Preston la guardò per la prima volta da quando erano in viaggio: vederla con il capo chino sulle sue mani guantate di nero, le gote arrossate che risaltavano sul candore della sua pelle gli fece male. Non era giusto, ma non era colpa sua, era stata una scelta autonoma ed Eva poteva ripetere mille volte di essere stata costretta ad accettare perché Lodge II l’aveva praticamente minacciata, ma non aveva nessun valore quest’affermazione alla luce dei fatti.

< Possiamo aspettare ancora qualche giorno se vuoi. > disse l’uomo tornando a guardare davanti a sé, ma il calore della sua voce colpì Eva tanto che fu lei questa volta a sollevare lo sguardo verso il profilo netto di Preston, così compito, ma con uno sguardo indecifrabile.

< No, non è il caso. Meglio farla finita. > le sue parole furono un soffio.

Non parlarono più per tutto il resto del viaggio e, giunti sul prato della chiesa, lasciarono il calesse vicino al ponte. Quando il banchiere l’aiutò a scendere si guardarono per un minuto negli occhi e lessero quanto quella situazione fosse odiosa, ma Eva in più lesse una compassione che la rassicurò un poco.

                < Cosa posso fare per voi? > chiese il Reverendo Johnson quando Preston gli chiese un minuto in privato.

Forse per la lunga conoscenza che ormai aveva del bostoniano, non esattamente una persona innocente e schietta, forse per precedenti inganni che aveva perpetuato contro i cittadini di Colorado Springs, all’inizio il pastore non credette alle parole del banchiere. C’era qualcosa di strano. Poteva essere uno scherzo, Preston che chiedeva di sposarsi sapeva di scherzo, ma una voce di donna giunse alle sue orecchie e capì che era tutto vero. Inoltre Loren gli aveva già descritto la ragazza una delle prime volte che si era fatta vedere all’emporio alla ricerca di libri, quindi sapeva che Eva Simmons esisteva per davvero.

< Vorrei parlare un minuto solo con te. > disse infine. Non era solo curiosità la sua: sentiva che c’era sotto qualcosa.

< Preston, ci conosciamo da qualche tempo e non capisco come mai mi stai chiedendo di celebrare un matrimonio. Non dirmi che conosci Miss Simmons da tempo, perché so che non è così. > era cieco, ma i bluff li sapeva ancora annusare.

< Ho una procura. > disse Preston, sapendo che ne sarebbe venuto presto a conoscenza per questioni legali.

< Nessuno dei due contrarrà il matrimonio contro la propria volontà? > la domanda era insidiosa. Il banchiere si passò una mano tra i capelli.

< Quello che pensiamo è irrilevante. Sappiamo entrambi che dobbiamo farlo. Non mi faccia prediche, non servono. Se vuole parlare anche con Eva, va benissimo, non credo si tirerà indietro, l’importante è fissare una data al più presto, entro 10 giorni. >

Tornati da Eva, venne deciso che il martedì successivo il matrimonio sarebbe stato celebrato.

 

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Capitolo 5
*** 5 capitolo - Il terrore dell'attesa ***


E’ passato tanto tempo, lo so, ma gli impegni lavorativi e universitari hanno la precedenza. Non ho avuto molto tempo per scrivere, più che altro passavo giornate al computer per altri motivi e starci ancora mi angosciava. Questo capitolo era pronto da un po’, ma non avevo modo di pubblicarlo. Ora eccolo qui!

Ringrazio ancora ManuBach96 per il chiarimento! ^^

Spero che l’aggiornamento sia gradito! Eva e Preston fanno un po’ di conti e c’è qualcuno che forse sta comprendendo qualcosa…

 

Buona lettura!

 

5 capitolo – IL TERRORE DELL’ATTESA

 

Non aveva mai pensato a come si sarebbe svolta la cerimonia del suo matrimonio. Non aveva mai immaginato esattamente quello che sarebbe successo o quali fiori avrebbero composto il suo bouquet. Forse semplicemente in quel momento non ricordava di aver mai pensato alla cerimonia, probabilmente perché era sicura che una sensazione nauseante, come quella che provava in quel momento, non facesse parte dell’atmosfera tipica delle nozze.

Eva era diventata nervosa dopo l’incontro con il Reverendo. Marciava avanti e indietro nella sua stanza, provava a sedersi allo scrittoio, nel tentativo di lenire quella strana sensazione grazie al romanzo che via via era stato imbastito durante gli ultimi mesi. Purtroppo non riusciva a pensare ai suoi personaggi. Non riusciva nemmeno a leggere un libro che parlasse in qualche modo, anche solo di sfuggita, di matrimonio, che il suo pensiero tornava a ripiegarsi sulla sua situazione bizzarra.

Era stato quasi facile prendere una decisione del genere, promettere e firmare delle semplici carte per salvare la pelle e la reputazione alla sua famiglia, ma la realtà, ciò che davvero avrebbe dovuto fare per mettere in pratica le sue promesse, le piaceva davvero poco. Si era ritrovata a riflettere se una parte del suo animo non avesse sperato di restare nubile, quantomeno per poter pensare a sé stessa senza interferenze, senza compromessi e senza doveri verso altre persone. Si fermò a pensare all’esempio che le aveva lasciato sua madre e no, lei non era stata affatto una donna che avrebbe potuto scegliere una vita solitaria, una vita indipendente e priva di quelle favole romantiche che, in un certo senso, l’avevano pesantemente contagiata. Lei era una donna sì indipendente, sì forte, ma che conservava quella strana predisposizione ai sogni ad occhi aperti e, inutile negarlo, credeva ancora al principe azzurro. Mentre altrove le suffragette combattevano per far valere i diritti politici e civili delle donne, Eva era capace di perdersi nei meandri dell’Eros con enorme facilità. Aveva trovato il modo, bisogna dirlo, di convogliare tutti questi pensieri tinti di rosa nei suoi libri, mitigando l’eccessivo miele con trame complesse e avventure mozzafiato, ma sempre favole d’amore erano.

Uno dei suoi problemi più grossi in quel momento era la convinzione che non stesse per sposare il principe dei suoi sogni. Onestamente non conosceva affatto Preston e quelle poche settimane, passate in un paesino dimenticato da tutti, non erano bastate a far scoccare la scintilla dell’amore, come accadeva nei romanzi più comuni. Sposare un uomo era una cosa seria, molto seria, con cui fare i conti tutte le mattine al risveglio, durante le giornate e ogni volta che si chiudevano gli occhi nel tentativo di addormentarsi. Già, dormire, dormire insieme e nello stesso letto. Questo era un problema imbarazzante oltre ogni dire, tanto che non credeva che sarebbe riuscita a discuterne con Mr. Lodge. Una parte di lei, però, credeva che nemmeno lui sarebbe stato capace di parlarne; le sembrava particolarmente imbarazzato dalla situazione: subito dopo essere usciti dalla chiesa, non era riuscito più a guardarla negli occhi. Se possibile, il loro rapporto era decisamente peggiorato.

                < Quindi ti sposi. > Dorothy era al Gazette con le braccia conserte a fissare l’uomo che leggeva gli annunci pubblicitari in fondo alla pagina dell’ultima stampa del suo giornale. Se c’era qualcosa che la donna sapeva annusare nell’aria molto bene erano le storie strane: più c’era qualcosa di bizzarro e più lei tentava di scoprire la verità. Non era sicura di essere capace di indagare nell’animo di Eva, perché aveva parlato con lei troppo poco, ma Preston lo conosceva benissimo.

< Sì, martedì. > si sentiva la gola secca. Di certo non aveva l’aria di quello che era felice di sposarsi. A dirla tutta gli bruciava molto il fatto che fosse stato suo padre a trovargli una moglie. Ok, lo ammetteva: i suoi affari stavano andando male, il Dr. Mike, con il suo fido consorte Sully, si era messa a mettergli i bastoni tra le ruote volendo istituire un parco includendo la sua proprietà, ma essere costretto a sposare una sconosciuta era troppo, anche per lui.

< Non mi sembri contento. > la giornalista pronunciò queste prole quasi con tono accusatorio, quasi rimproverandolo.

< Troppo lavoro. > tagliò corto, sapendo benissimo che Dorothy era davvero sicura di quello che pensava e Preston sapeva che era la verità: non era affatto contento.

                Camminò a passo svelto dirigendosi verso la banca. Aveva ancora il suo piccolo appartamento al piano di sopra, il luogo dove aveva vissuto agli inizi della sua permanenza a Colorado Springs, quando la banca aveva visto la luce e i suoi affari avevano iniziato a dare frutti. Ora era un piccolo deposito di incartamenti vari, ma c’era sempre un letto e una scrivania per lui. Salì di sopra: aveva bisogno di un posto per sé, per restare in intimità con la propria anima.

Fare il punto della situazione era facile: lui, rampollo di una famiglia di banchieri, doveva, necessariamente e senza possibilità di replica, sposare una scrittrice bostoniana che odiava la famiglia del suo futuro sposo. Probabilmente odiava anche lo sposo e con buone ragioni, per essere sinceri. Per lui significava aggiungere ad un clima difficile, in una città in cui non era esattamente amato, una situazione altrettanto tesa tra le sue mura, oltre, ovviamente, alla scarsa stima che suo padre aveva nei suoi confronti che rendevano anche la casa paterna un luogo impraticabile, se non con una dose massiccia di pazienza. Non era un programma roseo quello che lo aspettava nei giorni a venire.

Si sedette alla scrivania, tirò fuori un foglio, inchiostro e pennino e decise che era ora di scrivere una lettera a suo padre e spiegargli che non aveva intenzione di sposare Eva Simmons. Scartò questa idea in dieci secondi. Beh, nessuno diceva di no a suo padre e lui meno di tutti gli altri: aveva solo due parole per il vecchio leone: “Sì, signore”.

                Era il giorno prima delle fatidiche nozze, la mannaia che sarebbe presto scesa con uno scatto fulmineo. Questo era il paragone che i sogni sconclusionati di Eva le avevano portato alla mente. Aveva avuto degli incubi terrificanti quella notte, in cui, vestita con un abito di seta era stata accompagnata sul patibolo. Un boia panciuto e con una maschera sul volto reggeva una grossa mannaia affilata accanto a un ceppo, pronto per accogliere il suo collo. Ricordava perfettamente il cesto di vimini sotto di esso e la gente sotto il palco a osservare tutta la scena. A spingere la povera Eva, che tentava inutilmente di chiedere perché la stessero condannando a morte, c’era il vecchio leone, Preston A. Londge II, con un sorriso bestiale che le faceva gelare il sangue nelle vene. Dopo che fu fatta inginocchiare e il Reverendo le diede l’estrema unzione, si svegliò di soprassalto. Non era il massimo iniziare la giornata con un’angoscia di quel tipo, ma si tirò fuori dalle coperte per darsi una sciacquata al viso: era decisamente sudata e dell’acqua fresca poteva farle solo bene.

                Preston era stato mattiniero. Ormai lo era da parecchio. Dormiva male, si svegliava spesso e aveva avuto qualche fitta alla schiena, molto simile a quanto accaduto già in passato. Ricordava con orrore l’essere finito nella clinica di Michaela e l’essere stato visitato nudo come un verme da quella donna. Un brivido gli corse lungo la schiena: sperava di non dover ripetere l’esperienza, né della nudità, né del dolore … più che altro della nudità.

< Buongiorno. > disse Eva, appena giunta nella sala da pranzo dell’hotel. Era lì che consumavano i pasti.

L’uomo rispose con un cenno del capo e versò del tè nella tazza della ragazza. Lo faceva sempre, in un certo senso era l’unica cosa che davvero lo distingueva dal resto degli abitanti di Colorado Springs (con le dovute eccezioni): la sua educazione e le sue buone maniere. Tanto era ben educato che, nonostante non fosse esattamente convinto di star facendo la cosa giusta accettando quel matrimonio, aveva preparato ogni cosa. Gli era sembrato molto più semplice agire così che discutere questo genere di preparativi nell’imbarazzo più totale.

< Spero non ti dispiaccia, ma ho fatto preparare tutto per domani. > disse fissando le briciole sulla tovaglia. Eva annuì con il capo, tuffandosi nel tè caldo.

< La cerimonia è alle cinque e poi ho fatto in modo di preparare un piccolo rinfresco all’hotel, niente di impegnativo. > era sulla difensiva, ma era comprensibile. Descrisse la biancheria, le pietanze del buffet e i fiori del centrotavola. Non ci sarebbe stato niente di eccessivo, ma gli ospiti del resort non potevano essere lasciati all’oscuro della faccenda, anche perché sarebbe stato sospetto in abito da cerimonia a quell’ora del pomeriggio senza teatri nelle vicinanze. In più aveva chiesto al Reverendo di celebrare le nozze nel giardino dell’albergo: almeno non ci sarebbero stati troppi curiosi della città.

Eva riuscì solo a dire di sì con il capo, ma parole non riuscì a tirarne fuori. Si sentì un’ingrata: quell’uomo, per quanto non fossero nemmeno amici, era stato molto gentile a occuparsi di tutto. Non riuscì nemmeno a parlare di quella che sarebbe dovuta essere la loro prima notte di nozze, voleva tenere quel pensiero lontano e questo la portò a seppellire in fondo al cuore i suoi timori.

 

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Capitolo 6
*** 6 capitolo - Nozze di Primavera ***


Sono passati mesi dall’ultimo aggiornamento, ma ormai sono più propensa a scrivere quando ho tempo, ispirazione e voglia di farlo.

Ringrazio minouche86: l’aggiornamento è un po’ in ritardo, ma ora puoi rifarti con questo fatidico giorno per Eva e Preston!

E ManuBach96: anime gemelle? Mmm, al momento no, per niente, diciamo che al massimo si sopportano, ma chi può dire come evolverà la situazione? Io un po’ lo so, dai, ma chissà poi cosa mi dirà la testa quando scriverò!

 

Vi lascio alla lettura di questo capitolo. Buon divertimento!

 

 

6 capitolo – NOZZE DI PRIMAVERA

 

                Era una splendida mattina di maggio. Il sole era alto nel cielo già da qualche ora. Quella mattina Eva aveva aperto uno dei bauli che da Boston l’avevano raggiunta. Si trattava di un dono di sua zia, un dono che avrebbe tanto preferito non ricevere. Nel baule c’era un abito da sposa di una raffinatezza e di un’eleganza tutta particolare: era stato fatto arrivare direttamente dalla Francia e l’aveva raggiunta dopo un viaggio in piroscafo e in treno. Il velo era uno dei vezzi più appariscenti. Decisamente non lo avrebbe indossato, almeno questo fu il suo primo pensiero, ma quando vide la scollatura che quel vestito da sposa proponeva, beh, forse era il caso di utilizzarlo, quantomeno per coprire quanto più possibile le spalle. Non l’aveva mai provato prima, ma sapeva che era stato fatto modificare dalla sua sarta di Boston, che ormai conosceva a menadito le misure del suo corpo. Sarebbe stata una giornata difficile quella, ma aveva deciso di farsi aiutare dall’unica donna con cui aveva avuto un minimo di contatto da quando era giunta a Colorado Springs, Dorothy Jennings.

                Qualche ora prima la fatidica cerimonia, la giornalista si presentò all’hotel, accompagnata dalla fidata Michaela. La ragione era semplicissima. Dorothy non si era minimamente fidata delle parole di Preston, capace ormai di leggere nei suoi comportamenti ogni minimo segnale di bugie che, di tanto in tanto, le rifilava. Non era bravissimo nel mentire o nel fare il duro, ma ogni tanto ci provava. La giornalista non era più granché impressionabile, quindi riusciva a sciogliere i suoi dubbi sui comportamenti dell’uomo abbastanza velocemente, risparmiandosi i danni che ne sarebbero derivati. Confidando i suoi timori al Dr. Mike, poi, erano giunte alla conclusione che ci fosse sotto qualcosa: Preston non aveva mai fatto cenno di essere fidanzato con una donna così conosciuta e di certo lo avrebbe palesato se si fosse trattata della cosa più normale al mondo, come i ragionamenti della donna dai capelli rossi avevano più volte dimostrato. L’unica soluzione era parlare direttamente con Eva, riuscire a scoprire la verità prima che il matrimonio venisse celebrato. Per un attimo si erano sentite delle ficcanaso, ma, se dietro questa storia ci fosse stata una costrizione di qualche tipo, bisognava evitare che la ragazza compisse un azzardo del genere.

È con queste intenzioni che bussarono alla porta della stanza di Eva. Quando entrarono trovarono la ragazza intenta a pettinare i suoi lunghi capelli neri, attendendo che Dorothy giungesse ad aiutarla per quella che sarebbe stata la sua acconciatura da sposa.

< Salve, Dr. Mike. > salutò Eva, con un forte sospetto nel cuore: strano che Dorothy si fosse portata dietro quella che aveva capito essere la sua migliore amica. Aveva sentito molte voci su di loro e il Dr. Mike era stata protagonista di molte strane avventure, non ultima quella di correre a cavallo in una gara vestita da uomo o di indagare con la sua amica nelle vicende altrui. Loren era stato la fonte primaria del pettegolezzo, dato che aveva una voglia matta di parlare e poca gente che lo stava a sentire.

< E’ pronta per questo grande giorno? > chiese Michaela, sforzandosi di essere più naturale possibile, ma non riuscendole perfettamente: il suo viso toglieva ogni dubbio.

< Credo di essere agitata quanto chiunque altro in un giorno del genere. È pur sempre un evento che cambia la vita per sempre! > esclamò la ragazza, mentre il suo cuore perse un battito per la durezza di queste parole: in questo momento tutto le sembrava sbagliato e aveva tanta voglia di tornarsene a Boston. Subito dopo, però, pensò a quello che sarebbe successo se fosse tornata indietro sui suoi passi e riprese coraggio. Fece un respiro profondo molto sospetto.

                Era tutto pronto, tutto perfetto. Preston A. Lodge III era riuscito a far terminare e rifinire la costruzione della sua casa. Nonostante lo stallo finanziario in cui si era trovato, le nuove entrate giunte con Eva lo avevano aiutato. Su quella proprietà, su tutta la sua proprietà pendeva il contenzioso con Sully e il suo parco: sarebbe stata una lunga lotta, dato che le autorità avevano deciso di accogliere la richiesta del loro agente indiano e, quantomeno, avrebbero verificato la possibilità di istituirlo per davvero il dannato parco. Quanto sarebbe durata la sua vita in quella casa non poteva saperlo. Aveva arredato tutto con cura, si era occupato della scelta di ogni oggetto, come aveva fatto per il suo albergo, senza tralasciare niente.

In una delle stanze per gli ospiti aveva portato il suo smoking e si vestì guardandosi allo specchio. Annodò la cravatta con cura, sistemò i gemelli ai polsi e si risistemò i capelli. Non voleva per niente sfigurare, anzi, voleva ancora una volta dimostrare di essere diverso dagli altri, dagli abitanti di quella città. Guardò il lato positivo della faccenda, oltre al denaro che aveva salvato parte delle sue proprietà: forse avrebbe potuto avere una famiglia sua, competere anche da questo punto di vista, dimostrare di non essere da meno rispetto ai suoi fratelli e ai suoi diretti concorrenti a Colorado Springs. Anche Horace aveva portato a termine brillantemente un matrimonio e la relativa prole, nonostante poi tutto fosse finito miseramente, quindi non vedeva perché non poteva riuscirci anche lui, possibilmente senza divorzio finale. Scese le scale, arrivando in soggiorno, si guardò un attimo intorno: si sentiva soddisfatto di quello che era riuscito a fare e in cuor suo sperava che tutta quella cura e quell’eleganza facessero effetto su Eva. Poteva sembrare superficiale, e in parte si sentiva tale, ma in quel momento non aveva altri appigli, non aveva più nemmeno Andrew lì con lui, dato che dopo il matrimonio era tornato a Boston con Coleen; non che fossero veramente amici, ma era stata la persona più vicina ad esserlo.

                Eva sentiva l’ansia crescerle dentro. In un primo momento si era sentita sicura, capace di mantenere fede al suo impegno. Poi, mentre indossava il vestito bianco e mentre Dorothy le sistemava i capelli, qualcosa aveva iniziato a incrinarsi. Aveva sentito qualcosa pesarle sul cuore, quasi un macigno, probabilmente la sua coscienza, che protestava vivamente per il gesto che stava per compiere. Da un alto si sentiva una sciocca per timori che non le si addicevano, tanto si era vantata in passato di essere forte e determinata, per aver dimostrato a suo padre, alla sua famiglia e ai suoi conoscenti di essere in grado di fare qualunque cosa e di risolvere qualunque problema; dall’altro sentiva emergere tutta la sua fragilità e aveva bisogno di qualcuno con cui parlare altrimenti sarebbe esplosa. Le due donne che erano con lei nella stanza dell’hotel non erano le persone adatte a confessioni di quel tipo e non era il caso di spiattellare la sua storia e quella di Preston a una giornalista e a un medico, per quanto potessero giurare di non raccontare niente a nessuno: di certo avrebbero espresso un giudizio non richiesto.

Quando l’orologio suonò le cinque precise, l’ora della cerimonia, due lacrime scivolarono lente, non riuscendo più a trattenere la tensione del momento.

< E’ tutto a posto? > chiese il Dr. Mike, pensando quasi subito a un malore di qualche tipo, fosse anche dovuto all’ansia.

Eva riuscì solo a scuotere il capo per negare.

< Direi che c’è qualcosa che non va. > Dorothy attendeva un qualunque segnale per avvalorare la sua ipotesi e quelle lacrime sembravano quello giusto. Guardò Michaela e subito ci fu un segno d’intesa tra le due donne che, probabilmente, avevano gli stessi sospetti.

< Ascolta > iniziò il medico, essendo più abile nelle azioni diplomatiche < se c’è qualche motivo per cui non è il caso che tu sposi Preston, sei ancora in tempo per rifiutare. > le intenzioni delle due donne erano decisamente benevole, ma come spiegare loro che non aveva scelta, che era costretta a farlo o la sua vita e quella di altre persone sarebbe stata un disastro?

< E’ tutto a posto. > riuscì a dire a stento, risultando, di conseguenza, poco convincente.

                Era in ritardo. Preston era di sotto con il Reverendo in attesa che Eva scendesse dalla sua stanza. Sarebbe giunta da sola all’altare, così aveva deciso la ragazza.

< La sposa ritarda? > aveva chiesto il sacerdote, avvertendo il nervosismo dell’uomo che aveva iniziato a camminare avanti e indietro e a sospirare nervoso.

< Vado a vedere cosa è successo. > disse infine, dirigendosi all’interno.

Mentre saliva le scale verso la stanza di Eva, sentì l’ansia salire. Temeva che il matrimonio sarebbe definitivamente saltato.

                Bussò con decisione e il Dr. Mike aprì la porta. Dopo un momento di smarrimento nel trovarsi davanti una persona decisamente non prevista, chiese di vedere Eva.

< Non credo sia il momento. > disse Michaela fissandolo negli occhi, quasi a volergli comunicare che lo stato della ragazza non era dei migliori. Le lacrime che si erano affacciate timidamente erano diventate un vero pianto. Inutilmente sia lei che Dorothy avevano provato a consolarla, a tentare di capire bene quale fosse la ragione del matrimonio con Preston, ma non avevano avuto alcuna risposta.

< Voglio parlare con lei. > l’uomo fu deciso e spinse la porta che il medico si ostinava a tenere aperta solo per un quarto.

Quando entrò vide Eva piegata sul letto, la schiena scossa da singhiozzi e Dorothy che tentava di fare qualcosa per lei, ma sembrava che la ragazza non l’ascoltasse nemmeno. Michaela chiamò la giornalista, lasciando così i due da soli nella stanza.

Preston si avvicinò al letto e si sedette. Era imbarazzato all’inizio, ma si rese conto che era l’unica persona che poteva in qualche modo portare sollievo a quella povera ragazza, caduta in un tranello bello e buono.

< Non credo di capire bene come ti senti > esordì < ma, se sei decisa a fare questo passo, devi scendere con me in giardino. Se non vuoi più, non c’è bisogno di tutto questo: io non ti odierò di certo per questo, nonostante quello che potrebbe succedere. Se hai bisogno di altro tempo, abbiamo ancora qualche giorno. > aggiunse alla fine, ma non era molto convinto di prendere ancora tempo e non lo era nemmeno Eva.

< A cosa servirebbero due giorni in più? > chiese infatti, sollevando il volto. Nonostante gli occhi arrossati e il volto rigato era bella e di questo Preston se ne accorse, suo malgrado. Si accorse anche che provava una certa tenerezza per lei, per la sua sincerità, per la sua dolcezza, parata dietro una forza che non possedeva; non era certo una donna debole, ma un sacrificio del genere le pesava molto.

< Effettivamente a niente, ma devi deciderti. > rispose porgendole il suo fazzoletto. Eva raccolse l’offerta e si ritrovò a pensare che quell’uomo non era per niente come suo padre: era come se a volte si sforzasse di assomigliargli per non deluderlo, ma in realtà la pensasse in modo diametralmente opposto.

< Se sei preoccupata per i … doveri matrimoniali … non è necessario. > il sentiero che aveva imboccato era decisamente ripido, ma immaginava che il problema della fatidica prima notte di nozze avesse sfiorato la mente della scrittrice: da parte sua non gli importava, anzi, si sentiva a disagio a pensare di dover andare a letto con lei solo perché le convenzioni lo esigevano; non si conoscevano quasi per niente e non si sentiva in diritto di pretendere alcunché solo perché il Reverendo li avrebbe sposati.

< Vuoi dire che non …? > la ragazza non riuscì a finire la frase.

< Sì, non ce n’è bisogno. Magari un giorno succederà, ma non mi pare che abbiamo fretta per questo. > disse, arrossendo quasi.

Eva sentì che poteva fidarsi di lui. Non era certo solo quella la paura che aveva, ma questa rassicurazione le aveva fatto pensare che Preston non fosse per niente tirannico o che, comunque, la rispettasse in quanto persona e non la svalutasse perché era una donna: viveva in un paese che ospitava donne che avevano attività proprie, posti di rilievo nella comunità, era socio di una di esse, credeva nel lavoro delle altre, anche se erano in corso divergenze, quindi era decisamente differente dagli altri uomini.

< Allora, credo dovremmo scendere o il Reverendo deciderà di andar via. >

                Decisero di arrivare insieme all’altare, una sorta di dimostrazione della loro scelta autonoma e, per un verso, era la verità. Le parole dei Reverendo furono ascoltate di sfuggita, tanto i due erano impegnati a guardarsi negli occhi. Sembrava quasi volessero leggere nello sguardo dell’altro delle rassicurazioni e delle prospettive di vita insieme che sarebbero state più interessanti e serene di quello che era avvenuto nelle ultime settimane. Preston sperava di avere una compagna, un’amica con cui parlare finalmente, senza sentirsi incompreso ed Eva voleva essere sicura che lui fosse una persona di cui fidarsi ciecamente, dato che sarebbe stato la sua unica famiglia in quel luogo sperduto.

Tornarono alla realtà solo quando il banchiere dovette infilare la fede al dito della ragazza e il sacerdote gli diede il permesso di baciarla. Preston si avvicinò al viso di Eva e sussurrò, in modo quasi impercettibile “scusami” prima di posare con gentilezza le labbra sulle sue.

 

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Capitolo 7
*** 7 capitolo - La ricerca ***


Come si può giustificare un’assenza così lunga? Non ne ho idea, ma posso dire che l’ispirazione è un po’ andata a farsi friggere. E’ partita per le vacanze e non sapevo davvero come continuare o, meglio, un’idea ce l’ho, solo che ci sono un po’ di buchi da riempire e probabilmente cambierò il finale che ormai non mi piace più. Non è un lavoro scrivere fanfiction, quindi i tempi si dilatano.

Faccio qualche ringraziamento:

a ManuBach96 e minouche86 che seguono questa storia (spero lo facciate ancora)

a minouche86 (ancora!) e SellyLuna che l’hanno inserita tra i preferiti (allora un finale devo trovarlo!)

e a tutti coloro che seguono questa sezione ancora piccina.

Un capitolo di transizione, ma tranquilli Preston tornerà prima possibile!

 

Buona lettura!

 

7 capitolo – LA RICERCA

 

                Il risveglio di Eva nei giorni successivi al matrimonio fu sempre molto sereno. La mente della scrittrice, nei minuti che intercorrono tra il risveglio e il vestirsi per la colazione, corse spesso alla prima sera da moglie. Preston l’aveva presa in braccio per varcare la soglia della loro nuova casa, come accade per ogni matrimonio che si rispetti, forse per mantenere le apparenze davanti a uno dei facchini che lavoravano allo Springs Chateau che li aveva accompagnati fin lì.

Le mostrò ogni stanza, tradendo uno sguardo orgoglioso. La donna espresse complimenti che furono molto graditi dal banchiere: non sapeva perché, ma quella ragazza di città riusciva a farlo sentire apprezzato, cosa assolutamente non scontata. Le aveva mostrato la stanza che avrebbe occupato da sola, dato che per sé aveva riservato una delle stanze per gli ospiti. La stanza da letto comunicava con un salotto privato, adibito anche a studio per lei, per poter comporre i suoi racconti e i suoi romanzi. Eva aveva già apprezzato queste accortezze, quando aveva occupato una delle stanze del resort e anche questa volta notò l’attenzione che Preston le aveva dedicato.

                Il suo primo compito da padrona di casa fu quello di trovare qualcuno che si sarebbe occupato del giardino e della casa. Aveva sempre avuto una cameriera privata, anche quando viveva con la sua famiglia, di conseguenza non avere qualcuno che l’aiutasse la metteva un po’ a disagio. Non aveva potuto chiedere alla sua domestica di trasferirsi dall’altra parte del Continente: aveva famiglia e non avrebbe mai accettato; così le aveva trovato una sistemazione presso una conoscente.

Quello di cui avevano bisogno, secondo Preston, era una famiglia intera per occuparsi dei pochi animali che avevano nel cortile sul retro della casa, dei cavalli, del giardino, della cucina e delle stanze. A stupire la donna fu una casetta di piccole dimensioni che si trovava poco distante. Da quello che sapeva, era stata fatta costruire dal banchiere per ospitare chi avrebbe lavorato per loro. Era un bel posto,completamente nuovo, con tutto il necessario per vivere, modesto ma ben fornito, non molto grande, ma di certo più grande di molte case di Colorado Springs.

Il posto migliore per poter spargere la voce era mettere degli annunci all’ufficio del telegrafo, magari pubblicarlo anche sul Gazette.

Dorothy fu molto contenta di vedere Eva serena, quando quella mattina entrò nella redazione. La sera precedente si era rigirata per un po’ nel suo letto, pensando allo stato in cui era la scrittrice, temendo e ricordando quello che era stato il suo passato che, grazie a Mr. Jennings, era stato un incubo ad occhi aperti. Vederla tranquilla l’aveva rasserenata e pubblicò l’annuncio nel numero che sarebbe uscito il giorno dopo.

                L’annuncio non ebbe molto successo all’inizio. Il lavoro e la paga che si prospettavano erano molto meglio di qualunque cosa di potesse trovare da fare laggiù, ma di certo era una cosa parecchio strana andare a servizio da qualcuno. Si sapeva che era una prerogativa di ricchi signori, quella di avere camerieri e governanti,  e che solo loro si permettevano di avere qualcuno che facesse cose che potevano essere svolte in autonomia. Pareva a tutti una follia, una cosa che non avesse senso alcuno. Eva non si aspettava questo insuccesso, ma si rese conto che bisognava solo aspettare. Preston aveva più o meno rinunciato a certe comodità. La sua casa era stata lasciata vuota e lui aveva preferito vivere al resort, perché assumere qualcuno per mantenerla per lui solo era uno spreco. Aveva, nel corso del tempo, mandato qualcuno per una manutenzione ordinaria di tanto in tanto, senza grande impegno.

Dopo qualche tempo, qualcuno cominciò a farsi avanti timidamente. Purtroppo non fu semplice trovare le persone adatte: tutti quelli che si presentavano lì non avevano bene in mente cosa dovesse fare una cameriera o una cuoca. Poteva sembrare strano o assurdo, ma era qualcosa oltre la loro immaginazione. Eva si rese conto che trovare qualcuno con un minimo di esperienza era particolarmente difficile.

I colloqui di lavoro si tenevano al “Grace’ Café”; la proprietaria versava da bere un po’ a tutti quelli che sedevano al tavolo con Mrs. Lodge e, lo ammetteva, origliava le sue domande e le risposte di chi cercava di essere assunto in quella casa da ricchi. Più ascoltava la descrizione delle mansioni, più faceva mente locale sulle persone di sua conoscenza. In effetti qualcuno forse c’era.

Eva era pensierosa. Non aveva trovato nessuno che facesse al caso suo e sorseggiò il caffè che aveva sul fondo della sua tazza. Grace le portò una fetta di torta di mele.

< Forse conosco qualcuno che farebbe al caso suo. > disse quasi senza pensare, in uno slancio derivato dalla possibilità di aiutare una delle famiglie di sua conoscenza che si trovava in pessime condizioni. Si trattava di una di quelle famiglie di neri che vivevano ancora nelle baracche, che erano andate via dagli Stati del Sud, dove la schiavitù non era sparita di fatto.

Grace si sentì un attimo maleducata, dato che si era praticamente intromessa nei suoi pensieri, ma il sorriso di Mrs. Lodge l’aveva rassicurata: era molto più malleabile di suo marito, anche se in alcune circostanze si comportavano in maniera molto simile. Si trovò a pensare che doveva essere l’aria di Boston o di una grande città in generale a conferire una simile comportamento.

< Di chi si tratta? > chiese con gentilezza la donna, invitando la proprietaria del caffè a sedersi.

< Di vecchie conoscenze. > rispose Grace, quasi volesse restare sul vago. Si era quasi subito pentita di essersi fatta avanti. E se il colore della pelle fosse un problema? Eva era in attesa di ulteriori informazioni che però non giungevano. Capì quale potesse essere il problema.

< Si tratta di gente di colore, immagino. >

Grace strinse gli occhi sulla difensiva, analizzando il tono che era stato utilizzato in quella affermazione; ci pensò su un po’, poi decise che non sembrava disgusto o qualcosa del genere e propose di andare a trovarli.

                Erano entrambe, la cuoca e la scrittrice, su un carro, diretti verso la comunità di afroamericani che si potevano considerare cittadini di Colorado Springs. Il paesaggio si era fatto più rude ed Eva non mancò di notarlo. Si era fidata cecamente della donna e, mentre si allontanavano sempre di più dal centro abitato, iniziò a pensare che forse sarebbe stato meglio se ci fosse andata con Preston. Il viaggio non durò molto, e iniziò a spuntare una baraccopoli dopo una collinetta.

Eva non aveva mai visto niente di simile, nonostante avesse viaggiato parecchio, solcando anche l’Oceano. Era una strana visione che la metteva a disagio: essere vissuta in modo completamente differente la faceva sentire sbagliata e si era resa conto che il suo vissuto apparteneva davvero a poche persone in quella parte degli Stati Uniti. Lei era stata una privilegiata, così come Preston e poche altre persone in città. Il resto della popolazione aveva vissuto in alcuni momenti di stenti, in altri in carovane, privi di qualunque tipo di rifornimento e non voleva nemmeno pensare a come doveva essere stata Colorado Springs quando la ferrovia era lontana. Ma quello che stava osservando ora era davvero oltre ogni immaginazione.

Baracche fatiscenti che al primo colpo di vento si sarebbero sgretolate come se fossero state un castello di carte. Gente seduta sulla soglia di quelle catapecchie che non vedeva una tinozza d’acqua da molto, molto tempo. Un certo timore si impadronì di lei e temeva quasi a scendere dal carro. Non credeva di essere così schizzinosa, eppure era la definizione migliore che riusciva a darsi: nonostante conoscesse perfettamente la Storia Americana, non aveva la minima idea di quale fosse la realtà. Aveva anche letto “La capanna dello Zio Tom”, confidando nelle recensioni letterarie dei giornali che consideravano il romanzo un documento affidabile di certi avvenimenti, ma quello che stava vedendo probabilmente era il seguito del romanzo mai scritto da nessuno, quello che è sorto dall’abolizione della schiavitù: una schiavitù diversa, quella della fame e della miseria.

Grace si accorse del cambiamento di umore della sua accompagnatrice, ma non riuscì a biasimarla. Per una ragazza cresciuta tra i merletti quello che vedeva doveva essere ripugnante.

< Venga con me. > disse, invitando Eva a seguirla.

                Si fermarono davanti a una catapecchia dal quale spuntò immediatamente un ragazzino vestito di stracci con i capelli arruffati.

< Ciao, Samuel. La mamma è in casa? > chiese Grace.

Il bambino scomparve nel buio della baracca e ne riemerse poco dopo seguito da una donna alta, dalle spalle possenti, probabilmente a causa del duro lavoro. La proposta fu fatta dalla proprietaria del “Grace’ Café”: Eva pensò che fosse meglio lasciarla fare. La situazione era davvero imbarazzante. Non avrebbe saputo come parlare ad una persona che l’aveva guardata con il fuoco negli occhi, squadrando il suo vestito di mussola leggera.

Grace parlò alla donna nel tentativo di convincerla ad accettare il lavoro per sé e la propria famiglia, prospettando un guadagno eccellente, un futuro migliore, una vita più tranquilla. L’idea di vivere isolata dalla propria comunità, che era anche la propria forza, non sembrava allettarla, ma ancora meno l’idea di finire a servizio di bianchi. Sembrava che ci fossero antichi rancori e, probabilmente, era la pura verità.

                Purtroppo quello che Grace ed Eva ricevettero come risposta fu una porta sbattuta loro in faccia. La reazione eccessivamente energica da parte della donna e tutta quella strada fu un buco nell’acqua. Grace raccontò che in passato era stata una schiava e aveva una pessima visione dei bianchi, che tutti i neri d’America avessero un qualche rancore e una profonda diffidenza: era stato seminato odio in loro ed era difficile estirparlo. In un certo senso era una sorta di istinto di protezione che si innescava automaticamente e che molti avrebbero preferito morire di fame piuttosto che finire di nuovo alle dipendenze di un bianco. Grace si scusò della situazione, ma Eva aveva imparato una lezione importante: la dignità a volte è tutto quello che ti resta.

 

 

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Capitolo 8
*** 8 capitolo - Tre generazioni ***


Al solito non ci sono parole per i miei ritardi. Non che abbia mai prefissato dei tempi precisi, ma inizialmente riuscivo ad aggiornare la storia più frequentemente.

Devo ringraziare il fedelissimo ManuBach96: penso che la sua costanza sia qualcosa di imbattibile!

Ringrazio anche SellyLuna, perché i commenti e il supporto è sempre una buona cosa e ammetto che dopo aver riletto le loro due recensioni mi son detta che, almeno per loro, potevo concludere il capitolo iniziato una vita fa. Eccolo qui!

Grazie anche a chi segue!

Buona lettura!

 

 

8 capitolo – TRE GENERAZIONI

 

                Dopo il fallimentare aiuto di Grace, furono in molti a fare proposte ad Eva. Non si capiva se fosse l’idea di un buon lavoro ben pagato a scuotere le persone o semplicemente la voglia di vedere la nuova casa del banchiere. Si era molto parlato della casa costruita da Sully per lui, poi terminata da altri carpentieri, ma che metteva in mostra la sua capacità di costruttore. Ovviamente la gente aveva visto scaricare dai treni un’infinità di merce proveniente da Boston, oggetti mai visti come alcuni divani e tappezzerie di un gusto sconosciuto laggiù, che avevano destato la curiosità di molti.

Anche Hank fece la sua proposta: offrì un paio di ragazze del saloon come cameriere, ma probabilmente voleva solo far arrossire la giovane sposina, cosa che gli riuscì benissimo.

                La fiducia di Eva stava finendo sempre di più sotto le scarpe, come il suo entusiasmo. Nessuno sembrava prendere la cosa sul serio, donne che si stupivano del fatto che dovessero rifare i letti con occhiate che valevano più di mille parole. La guardavano come se fosse un’incapace, e forse avevano ragione, ma Eva non aveva mai dovuto fare niente del genere e, quando la sua famiglia se l’era vista brutta, avevano sempre tenuto a servizio la cuoca e almeno due cameriere: suo padre aveva sempre trovato nuova linfa economica nei nuovi matrimoni.

Era ormai ora di pranzo e, dato che si trovava in città, decise di fare un salto alla banca, sperando di pranzare con la compagnia di suo marito.

Quando giunse alla banca, Preston era a colloquio con una donna di mezz’età; indossava un abito a quadri sui toni del marrone e uno scialle di cotone bianco sulle spalle. Sulla testa portava un cappellino con un fiocco a quadri come il vestito. Il cassiere le chiese di aspettare, dato che suo marito stava trattando un affare. Le trattative durarono poco e la donna uscì di lì salutando tutti.

«Mi cercavi per qualcosa?» chiese l’uomo, alzatosi per far accomodare la moglie, poi tornò dietro la sua scrivania di mogano.

Decisero di pranzare alla banca, per poter parlare tranquillamente. Ultimamente avevano iniziato a passare molto più tempo insieme, riuscivano a discutere abbastanza pacificamente di qualunque argomento, escluso il genitore dell’uomo, dato il troppo rancore di Eva nei suoi confronti.

La scrittrice aveva raccontato dei consigli e delle intrusioni molteplici che c’erano state nella sua ricerca.

«Quindi, finora, non ho trovato nessuno che non mi fissasse come se fossi pazza.» concluse la donna, gettandosi poi nell’insalata davanti a lei.

Preston sorrise: in parte pensava a quanto dovesse essere complicato adattarsi ad una situazione completamente estranea e sapeva che sarebbe durata ancora per un po’. Ricordava bene come si era sentito all’inizio, ma non era così viziato come si potesse pensare. Al momento confidava in cuor suo che Colorado Springs migliorasse la sua condizione a breve, come avere delle strade lastricate e un po’ di viva concorrenza economica, che non sarebbe stato un brutto affare, anzi, una vera conquista.

«Insomma, per farla breve, non so quando riusciremo a trovare qualcuno.» disse sconsolata.

«Il personale dell’hotel potrà venire in tuo aiuto ancora un po’.» la rassicurò il banchiere. Non era un problema quello. Poi la sua espressione si fece seria «Forse ho la soluzione.» e lasciò la banca e la moglie sole.

 

                Non doveva recarsi troppo lontano. La carrozza percorreva la strada in modo spedito, veloce come i pensieri del suo conducente. Era la soluzione giusta, ne era sicuro. Amava particolarmente riuscire a prendere due piccioni con una fava; il suo istinto per gli affari lo aiutava moltissimo in questi casi.

Giunse davanti ad una piccola casetta. Un pollaio, un recinto e un orto. Niente di più.

«Credevo non le interessasse concedermi un prestito.» a parlare era stata la signora incontrata da Eva in banca durante la mattina. Aveva chiesto un prestito per costruire la sua casa, ma non aveva molto da proporre come garanzia: il terreno di sua proprietà, dove Preston era andato a cercarla, era particolarmente inadatto alla coltivazione e il piccolo orto ne dava ogni giorno conferme: le piante erano rachitiche e zapparlo era decisamente faticoso per quanto era abbondante di sassi. Non era possibile nemmeno costruire qualcosa di grande, ma adattarsi alle asperità e alle sue irregolarità era un obbligo che lo rendeva una garanzia non bastevole al suo scopo.

«Per il prestito non ho cambiato idea, ma vi posso fare un’offerta interessante.» rispose alla donna con un sorriso che la diceva lunga sul suo conto «Mrs. Fisher, ho pensato che potremmo risolvere agevolmente i suoi problemi.»

Qualcuno doveva aver detto a Mrs. Fisher di non fidarsi troppo del banchiere, di conseguenza lo fissava non molto convinta di quello che stava per annunciarle. Il suo scetticismo però sembrò pian piano scemare, complici le parole dell’uomo che scivolavano come miele nelle sue orecchie; riusciva a far leva sulle sue paure, su quello che voleva per i suoi figli, la tranquillità che voleva per il suo vecchio padre, ormai quasi zoppo per l’artrite. Non intese in realtà tutto, comprese un elenco di cose che aveva solo sognato: una casa nuova, un orto che fosse un vero orto, un pollaio, dei cavalli, una mucca, uno spazio per sé, la possibilità di trovare un lavoro per la sua figlia più grande e la possibilità per i suoi due più piccoli di andare a scuola regolarmente.

«Spero che l’offerta possa andare bene.» concluse l’uomo fermandosi ad attendere un qualunque cenno. «Immagino vogliate pensarci per bene, magari consultarvi con la vostra famiglia. Io vi aspetto lunedì mattina alle nove nella mia tenuta, se doveste accettare.» detto questo rimontò a cassetta e se ne tornò con un sorriso tronfio in città.

                Erano passati un paio di giorni dalla proposta del banchiere a Mrs. Fisher. Eva non ne sapeva assolutamente nulla. In quei giorni aveva chiesto ripetutamente dove fosse stato, quando l’aveva lasciata sola in banca a terminare il pranzo. Tutto ciò che le fu dato sapere era che il lunedì mattina alle nove si sarebbe dovuta far trovare pronta, ma pronta per cosa Preston non voleva dirlo. La guardava con l’aria di chi la sapeva lunga, con un sorriso beffardo che dava molto da pensare alla scrittrice, ma che, in un certo senso, la tranquillizzava anche. Aveva imparato una cosa di suo marito: se era così sicuro di sé, lo era per una buona ragione, salvo poi essere smentito dalla strana capacità dei villici di sorprenderlo.

Più di una volta aveva assistito al compimento di affari o lo aveva osservato mentre leggeva telegrammi o lettere che portavano belle notizie, finanziariamente parlando. Era in quei momenti che si rilassava un attimo in poltrona, accendeva il suo sigaro e perdeva il suo sguardo nel vuoto, uno sguardo soddisfatto.

                Il lunedì mattina Eva si era svegliata molto prima del solito. I suoi occhi si erano aperti all’improvviso. Si era rigirata nel suo grande letto solitario con la mente proiettata verso l’avvenimento della giornata, un avvenimento che non conosceva. Dopo un tempo relativamente lungo, durante il quale si era crogiolata nei suoi pensieri, aveva deciso che era ora di alzarsi e vestirsi, poco importava se sarebbe restata in salotto ad attendere che Preston scendesse per aspettare la colazione, che sarebbe arrivata dal resort.

Peccato che la colazione fosse in ritardo e Preston se la stesse prendendo comoda. Eva lanciò un ultimo sguardo all’orologio appeso in salotto. Erano quasi le nove. Sbuffò.

«Pronta?» la voce di suo marito la fece sobbalzare.

Eccolo lì, mentre scendeva le scale con calma e sistemava l’orologio nel panciotto. Il suo sorriso illuminava la stanza e la sua sicurezza si era fatta palpabile. Aleggiava nella stanza quasi fosse stata una presenza.

Quel suo modo di fare strappò un sorriso alle labbra rosse della donna, cosa che non sfuggì a Preston.

«Ridi di me?» chiese, infatti, fingendosi piccato.

«Non sto ridendo di te, solo mi sembra che tu davvero sicuro che accadrà qualcosa.» ammise, guardandolo con sospetto, ma sorridendo a sua volta.

«Sarà così. Qualche minuto e scoprirai cos’è.»

Non finì nemmeno la frase che si sentirono gli zoccoli di un animale da tiro e delle ruote scivolare sulla ghiaia del vialetto. Preston si diresse alla porta d’ingresso, invitando Eva a seguirlo. Davanti ai loro occhi era comparso un carro carico fino all’inverosimile di sacchi, scatole, pacchi e cumuli di oggetti di ogni sorta. A cassetta del carro era un uomo con una lunga barba bianca e un cappello di paglia in testa. Accanto a lui c’era la donna che Eva aveva intravisto in banca. Non la riconobbe subito con gli abiti da lavoro che aveva: evidentemente per andare a colloquio con suo marito aveva indossato quelli che dovevano essere gli abiti migliori. Dietro di loro c’erano una ragazza di circa quindici anni e due bambini con gli occhi spalancati di fronte allo spettacolo rappresentato dalla grande casa padronale di Preston Lodge.

«Benvenuta Mrs. Fisher!» disse il banchiere avvicinandosi al carro e dando indicazioni di girare intorno alla casa per spostarsi sul retro.

Era certo che sarebbe arrivata. In quel posto sperduto un’offerta come la sua era come vincere alla lotteria, anzi, un paio di lotterie insieme.

E furono esattamente cinque facce stupite quelle che fissarono la piccola casa sul retro. Eva aveva raggiunto il marito e si erano incamminati dietro al carro. Il vecchio aveva fermato il mezzo, quando era comparsa la casa, e i bambini si erano lasciati andare in un verso di stupore.

Mrs. Fish scese dal carro e si avvicinò alla coppia.

«E’ sicuro che non dovrò pagare un affitto? Una cosa del genere non potrei permettermela nemmeno tra …» e si fermò per provare a quantificare un periodo di tempo approssimativamente esatto, ma non riuscì  a finire di calcolare che Preston confermò la sua offerta.

«Nessun affitto, le chiedo di lavorare per me, quanto alla casa possiamo dire che fa parte della paga. Non mi fraintenda, vi pagherò, ma l’alloggio è compreso.»

“Nessun problema” sembrava dire l’espressione della donna e anche quella del padre.

Preston lasciò loro qualche ora per sistemare le proprie cose, i propri strumenti e valutare se tenere alcune delle sedie che avevano portato con loro; avevano certamente visto tempi migliori e alcuni, pensò Eva, dovevano appartenere all’infanzia di quell’uomo anziano che aveva guidato il carro.

Non fu difficile preferire i mobili nuovi che si trovavano all’interno della casa e, seduti al tavolo della cucina, Mrs Fisher firmò il contratto di lavoro, vitto e alloggio preparato da Preston.

                Quella mattina Preston era di ottimo umore e pieno di slancio, tanto che propose ad Eva di vedersi per pranzo: avrebbe chiuso la banca prima e sarebbero andati a fare un pic-nic nel boschetto di noci vicino al Resort.

Eva accettò immediatamente e quello che si ritrovò a constatare era che quel marito che le era stato appioppato per forza si stava rivelando migliore di quanto avesse immaginato. La parentela così stretta con il vecchio leone non le faceva fare salti di gioia, certo, ma c’era qualcosa di diverso che stava emergendo con prepotenza negli ultimi tempi. Preston Lodge III era diverso, amabile, con i suoi difetti, ma non era così terribile essere lì, dall’altra parte dell’America, con lui.

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Capitolo 9
*** 9 capitolo - Sorpresa! ***


Sto migliorando! Sembra che abbia preso un certo ritmo nella stesura di questa fanfic.

Ogni due mesi un capitolo è già una conquista, vedendo lo scarto di quasi un anno che c’è in alcuni casi.

ManuBach96 e SellyLuna persistono indomiti nel seguire la storia! Altro che supereroi!

La storia si sta allungando, nel senso che prevedevo meno capitoli, ma pare che si stia costruendo da sola.

Bando alle ciance! Vi lascio alla lettura più interessante del capitolo 9, piuttosto delle mie chiacchiere delle 2 di notte.

Grazie a chi segue!

Buona lettura!

 

 

9 capitolo – SORPRESA!

 

Era un bellissimo venerdì di settembre. Il sole era ancora cocente alcune mattine, ma la stagione dei temporali poteva dirsi iniziata già da un po’. Il terreno cominciava a cambiare il suo colore e la natura segnava l’avvicendarsi di una nuova stagione.

Eva era a buon punto con il suo libro. Il trasferimento, per quanto forzato, le aveva giovato: aveva trovato nuova linfa per i suoi romanzi e i suoi racconti; ispirarsi alle persone conosciute così lontano da quella che era stata casa sua era stato uno stimolo prezioso. Alcuni dei personaggi erano dei ritratti di atteggiamenti, volti e situazioni che aveva vissuto in prima persona o aveva osservato nelle sue passeggiate. Le piaceva passare le giornate nel suo giardino, dove un piccolo gazebo le forniva la frescura necessaria per poter scrivere. Quando il tempo non era buono tanto da restare all’aperto, si rifugiava nel suo studio, su quello scrittoio che si era rivelato il più bel regalo da parte di suo marito. Pensava spesso a lui in modo totalmente diverso rispetto al suo arrivo in quei luoghi. Qualche volta ripensava al giorno del suo matrimonio e parte della tensione provata si ripresentava. Questa volta era più facile riuscire a calmarsi: bastava una tazza di tè.

La loro relazione era migliorata con il tempo, avevano imparato ad ascoltarsi e si poteva decisamente dire che erano degli ottimi amici. Nessuno sapeva della loro particolare situazione: nessuno sapeva che dormivano in camere separate, a parte la governante, Mrs Fisher: non le era stata data una vera e propria spiegazione, più che altro pareva si fosse bevuta la scusa del lavoro di Preston, che lo portava a passare lunghe ore notturne nel suo studio al pian terreno, e che quindi, spesso, non volesse svegliare la moglie nel pieno della notte. Beth, questo il suo nome di battesimo, non faceva domande e questo rassicurava tutti gli abitanti della casa.

Eva era cosciente del fatto che la situazione non poteva andare avanti così per sempre: prima o poi qualcuno, e forse immaginava chi, avrebbe reclamato dei discendenti e non si sarebbe più potuto far finta di essere semplici coinquilini, quasi che quella fosse la succursale dello Springs Chateau.

La donna aveva uno strano presentimento quella mattina. Sentiva che stava per succedere qualcosa di strano e inaspettato. Non era superstiziosa, semplicemente si sentiva particolarmente strana. C’era qualcosa che non andava, qualcosa che la metteva a disagio. Lanciò uno sguardo fuori dalla finestra: le chiome degli alberi iniziarono ad ondeggiare sempre più forte, con un frusciare di foglie inquietante. Sembrava che il vento stesse cambiando e cambiò sul serio, tanto che la banderuola sulla cima della casa coloniale mutò direzione completamente, anche se Eva non potette osservarlo. Una folata di vento spalancò la finestra dello studio della donna e qualche foglio si liberò nell’aria. La mano di Eva si macchiò di inchiostro ancora fresco, lasciato elegantemente sulla pagina che stava scrivendo. Non era un buon presentimento.

Preston in città era interdetto. Era sorpreso, spaventato e il suo cervello non riusciva a formulare nessun pensiero compiuto. Non avrebbe mai immaginato che suo padre si potesse presentare in Colorado senza preavviso. Per quanto avesse visto molte volte le sorelle di Michaela venire a trovarla all’improvviso, nel suo caso non c’era nessun piacere a ritrovarsi davanti quell’uomo, entrato nella banca all’ora di punta.

«Non mi dici niente?» disse suo padre, stringendo gli occhi e riducendoli a due fredde fessure.

Qualcosa da dire Preston l’avrebbe avuta, ma non sarebbe stata gradita, ne era matematicamente certo. Cercò di darsi un contegno e di non apparire totalmente inebetito dalla sorpresa.

«Sono venuto a vedere come vanno le cose. Non scrivi molto.» e si sedette di fronte al figlio ancora interdetto. «Sono anche curioso di vedere come vanno le cose con Mrs Lodge!» e un sorriso inquietante si fece strada sul volto dell’uomo.

Quell’accenno a sua moglie riscosse immediatamente il banchiere: era sicuro che non sarebbe stata felice della sorpresa molto più di lui. Se avesse potuto scommettere avrebbe vinto, ma era una scommessa molto facile, intuitiva. Avrebbe voluto avvisarla in qualche modo, prepararla alla pessima notizia, ma non era possibile liberarsi di suo padre nemmeno per un attimo. Sapeva che aveva gli occhi puntati addosso e per niente al mondo quell’uomo avrebbe potuto distrarsi il tempo necessario per scrivere un messaggio e mandare qualcuno a consegnarglielo. Cercava di prepararsi alla reazione di lei, sperando che non fosse troppo plateale, altrimenti si sarebbe scatenato l’inferno e non era sicuro su chi dei due potesse essere Satana.

                Un trotto sull’acciottolato che portava alla villa padronale riscosse Eva dal suo libro. Dopo quello strano cambio di clima era tornata al suo lavoro, pensando che la suggestione di quello che stava scrivendo e del vento doveva essere stata pessima su di lei, ma niente era poi così dannoso. Aveva fatto strani pensieri.

Sbirciò tra le tende per vedere chi fosse e scorse la carrozza di famiglia con un membro di quella acquisita decisamente non gradito. Qualcosa non le tornava, ne era certa, ma era anche sicura che, visti gli ultimi avvenimenti tra lei e Preston e il miglioramento del loro strano matrimonio, non era possibile che il marito sapesse dell’arrivo di quella infausta presenza e non l’avesse avvertita.

«Martha, chiama Mrs Lodge.» ordinò il banchiere appena varcata la soglia di casa. Usò una tono di voce particolarmente autoritario, strano per lui e decisamente fuori luogo con la ragazza, che pensò, erroneamente, di aver fatto qualcosa di male per aver meritato un ordine così perentorio.

Se ne accorse Eva, quando le comparse davanti. Pareva intimorita da qualcosa e ne conosceva la sensazione. Se il tempo era cambiato per l’arrivo di quel mostro, figurarsi Preston, così influenzabile da quell’uomo. Anche l’umore di Eva era in via di cambiamento, nonostante al mattino si fosse svegliata placidamente.

                «La padrona di casa fa il suo ingresso!» fu la frase canzonatoria che fu pronunziata da Mr. Lodge appena Eva si era resa visibile, scendendo le scale lentamente. Non voleva affrettare l’incontro con il Leone.

Salutò con un cenno del capo. Se avesse potuto, lo avrebbe sbattuto fuori dalla porta d’ingresso.

«Si fermerà qui per qualche tempo.» annunciò immediatamente Preston. Sembrava che volesse dare le brutte notizie tutte in una volta, quasi che così potessero parere meno sconvolgenti.

La donna non espresse nessuna opinione in merito; immaginava che non sarebbe servito a niente protestare o anche esprimere un parere: il vecchio leone aveva deciso che sarebbe restato lì e non si poteva trattare in nessun modo.

                L’occasione propizia per parlare si presentò quando Beth accompagnò il signore nella stanza degli ospiti per sistemare i propri bagagli.

«Non sapevo che stesse arrivando.» si schermì subito Preston, sussurrando per evitare di attrarre l’attenzione di suo padre.

«Sì, lo avevo intuito.» disse solo la donna. Il suo sguardo era oltremodo preoccupato. L’idea che quell’uomo si fermasse lì per un po’, le metteva i brividi. Che sarebbe successo al loro equilibrio tanto faticosamente guadagnato?

«Non so quanto resterà, non l’ha detto.» anche lui era preoccupato e capiva quello che sua moglie tentava di dirgli con lo sguardo.

                La fortuna volle che per quel pomeriggio i due uomini facessero visita al Resort. Sarebbero tornati solo per cena e questo poteva essere un problema potenziale, ma, confidava, le fatiche del viaggio avrebbero giocato a loro vantaggio, lasciando che il vecchio si togliesse dai piedi il più presto possibile.

Fatto sta che quella fu una delle cene più lunghe che Eva potesse ricordare. I discorsi fatti a tavola dai due banchieri rasentavano la noia. Preston parlava di finanza anche con lei ed era certa che limitasse la terminologia, non perché Eva fosse stupida, ma per una questione di tecnicismi per i quali Preston aveva preso una laurea ad Harvard. In questo momento non c’erano limitazioni di sorta e le sembrava di essere tornata bambina, quando i suoi parenti la isolavano, non coinvolgendola in alcuna conversazione, perché troppo piccola per capire.

Non era una situazione così brutta, infondo, almeno sarebbe riuscita a sgattaiolare via, magari con la vecchia scusa del mal di testa, per sottrarsi a quello strazio. Purtroppo Preston A. Lodge II giocò d’anticipo.

«Oh, stiamo trascurando la nostra ospite!» disse, fingendo meraviglia.

«Non c’è alcun problema, pensavo di…» ma non le fu permesso di finire nessuna frase.

«Non vorrà lasciarci così presto!» la falsità con cui pronunciava queste parole era disarmante. Preston si rese conto di quanto la tensione stesse salendo, di quanto Eva lo avrebbe ucciso con lo sguardo, se questo fosse stato possibile. Nonostante tutto, sorrise.

«Com’è andato il viaggio?» chiese per restare al gioco di quella finta cortesia.

Il racconto del pessimo viaggio non si fece attendere. Chiunque avrebbe pensato che aspettava solo che qualcuno gli desse la scusa per poter parlare e lamentarsi di qualcosa che non andava secondo quelle che erano le proprie aspettative.

La finta cortesia non poteva durare a lungo ed Eva riuscì a cogliere la palla al balzo, quando l’uomo, per sorseggiare un po’ di vino, dovette tacere per qualche secondo. Quel silenzio bastò a imbastire una ragione plausibile perché potesse ritirarsi in camera.

                Preston sospirò. Una volta soli, sapeva che le domande di suo padre si sarebbero liberate di quella gentilezza di facciata e del sorriso, per la verità sinistro, che si era costruito sulle labbra.

Il primo sguardo che dedicò a suo figlio, fu carico di biasimo. Per lui quella donna non era stata affatto domata, anzi, pareva che si prendesse gioco di lui.

«Non corre buon sangue tra voi, non puoi pretendere che lei sia più docile di come è stata.» provò a difenderla Preston.

«Non dire idiozie! Tu non sei ancora riuscito a addomesticare quella ragazzina impertinente.» sentenziò il vecchio. Per lui era inconcepibile che sua nuora fosse fuori dal controllo di suo figlio.

Preston, dal canto suo, non aveva interesse e voglia di litigare con Eva. Stavano bene così. Inoltre non se la sentiva di paragonarla a un animale da ammaestrare. Preferiva che fosse libera di prendere iniziative personali che, spesso, si rivelavano anche piacevoli, come trovare dei fiori a ravvivare il suo studio domestico.

«Vedi di impegnarla presto con un marmocchio, così la pianta di stare tra i piedi. Rimettila al suo posto!»

                Non fu una conversazione piacevole a fine pasto. Preston sapeva che, purtroppo, le novità per quella sera non erano ancora finite.

Fino a quel momento lui ed Eva avevano occupato stanze differenti. Questa sarebbe stata la prima notte che avrebbero dormito insieme.

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Capitolo 10
*** 10 capitolo - Quel passo mai fatto ***


Cari i miei fedelissimi, mi sto impegnando.

Sto cercando di diventare più veloce, ma non è facile.

Un capitolo piccino, però denso. Sentite che bella parola “denso”.

I nostri due protagonisti hanno ricevuto una bella visita dal vecchio leone.

ManuBach96: avrai belle sorprese prossimamente sul padre di Preston. Problemi? No, peggio. Io lo immagino proprio come un vecchio freddo e calcolatore, un po’ come Scrooge di “Canto di Natale” di Dickens. Pessimo. Sono cattiva, quindi a Colorado Springs ci resterà un po’.

SellyLuna: il vecchio leone conosce il figlio e penso non abbia molta fiducia in lui. Non dimenticherò mai la puntata in cui andò a trovarlo: non c’era una cosa che andasse bene, era capace di fare solo critiche. Preston è diverso da lui, secondo me, ma si adatta. Grazie per i complimenti su quella piccola descrizione.

Grazie a entrambi per i commenti, spero che questo capitolo vi piaccia.

Se riesco, prima di Natale pubblico il seguito.

 

Buona lettura a tutti!

 

 

10 capitolo – QUEL PASSO MAI FATTO

 

                L’idea di mettere al mondo un marmocchio, così come lo aveva definito suo padre, quella sera gli rimbombò in testa come la campana della chiesa. Lo aveva frastornato, ma aveva cercato la calma dentro di sé e dentro un buon bicchiere di whisky in solitaria. Non c’era voluto molto affinché l’anziano genitore pensasse che era ora di andare a riposare. Dal canto suo, Preston era rimasto un po’ nel suo studio, immerso in pensieri che lo mettevano a disagio.

Quella notte, infatti, non poteva sottrarsi a qualcosa che, probabilmente, lui ed Eva avevano rinviato inutilmente. Sarebbe successo, prima o poi, ne era sicuro, ma la presenza di suo padre accelerava quel processo che, sperava, avrebbe potuto essere condotto per gradi, con dei tempi che gli si confacevano di più.

                L’orologio sulla sua scrivania segnava le undici quando decise che era ora di avviarsi verso quella camera da letto che non gli apparteneva. Aveva atteso per diverse ragioni, le due più importanti erano che sperava che sia il genitore che sua moglie dormissero già.

Salì le scale lentamente, forse indeciso o solamente agitato da quello che stava per succedere. Si diede del cretino più volte: era una cosa talmente ovvia, che era assurdo farla tanto lunga. Probabilmente avrebbe dovuto risolverla già da tempo, ma gli era mancato il coraggio.

Arrivò davanti alla porta e la socchiuse con delicatezza. La luce di una lampada era ancora accesa. Sbirciando all’interno si accorse dello sguardo di Eva, seduta alla toletta, che lo fissava con una vena di scetticismo. Che fosse per la sua decisione di entrare lì quella sera? No, ne era sicuro. Anche lei conosceva l’ineluttabilità di quella situazione e non sembrava volesse buttarlo fuori.

«Puoi entrare.» disse infatti con delicatezza e una sicurezza nella voce che lo sorprese.

Una parte di lui credeva che l’avrebbe trovata nervosa e imbarazzata per quello che sarebbe dovuto succedere, ma, con stupore, era decisamente più tranquilla di lui. Si sentì un po’ ferito nell’orgoglio.

                Non sapeva esattamente che fare. Doveva sedersi sul letto? O da qualche altra parte? Avrebbe dovuto cambiarsi, ma doveva farlo davanti a lei? Se fosse stato possibile, avrebbe volentieri chiesto a qualcuno cosa fare in questi casi, come si comporta una coppia sposata, perché, nonostante tutto, loro non lo erano.

«Tutto bene?» Eva aveva letto la sua preoccupazione e il suo disagio. Un profondo disagio.

«Credo di sì.» rispose, ma la voce non pareva per niente convinta. In quel momento guardò meglio Eva. Era in vestaglia, nemmeno allacciata bene, e vedeva chiaramente la sua camicia da notte tutta trine e merletti. Doveva essere di seta. D’istinto si voltò, come se stesse vedendo qualcosa di disdicevole.

Questo comportamento potrò Eva a ripensare alla situazione. La donna si era adattata alla circostanza ed era salita con la consapevolezza che quello che stava accadendo non si poteva evitare per niente. Preston, lo notava ora, era decisamente più pudico di lei e decisamente più imbarazzato. Non l’avrebbe mai pensato, aveva avuto la sensazione che era stato, e forse era, un corteggiatore spavaldo, uno di quelli che sono galanti fino allo spasimo. Un po’ con lei lo era stato, ma sapeva che un matrimonio forzat non era come corteggiare qualcuno di propria spontanea volontà.

«Cerca di rilassarti, non serve essere nervosi.» cercò di usare il tono più dolce che conoscesse.

La tensione dell’arrivo di suo padre non lo aiutava, ma ora non poteva fare niente per cambiare la situazione, doveva accettarla per quella che era. Eva decise di non dare troppo peso alle sue reazioni e tornò a sciogliere la sua acconciatura.

                I lunghi capelli neri furono liberati dalla costrizione giornaliera. Le ciocche caddero con un certo disordine sulla sua schiena e prese a spazzolarle con decisione. Grazie allo specchio, che le permetteva di vedere cosa succedeva alle sue spalle, non perdeva di vista il banchiere, impalato al suo posto. Non accennava a muoversi di lì, non accennava a fare qualcosa. Perso in chissà quale riflessione, Eva ne sentiva la tensione anche a distanza. Era un uomo buono e gentile, di questo era certa, e adesso si trovava in una situazione che lo metteva in un disagio palpabile.

Lasciò la spazzola sul ripiano del suo specchio ovale. Si alzò lentamente e fece qualche passo verso di lui. Sembrava che non la sentisse per niente.

«Preston?» cercò di richiamarne la sua attenzione.

«Lo so.» era ormai laconico.

Stava facendo la figura dello stupido. Eppure… eppure…

Sentì le mani di lei sfiorargli la giacca e trasalì. Si voltò di scatto e vide lo sguardo comprensivo della donna. Pensava che si sarebbe irritata per quel suo assurdo comportamento, invece cercava di non metterlo a disagio più di quanto non fosse.

«Sono uno stupido!» alla fine lo ammise, più a sé stesso che a lei.

«No che non lo sei.» disse Eva con un sorriso «Sei solo più nervoso del necessario e non fai che alimentare la tensione che già provi.» analizzò, soppesando le parole.

«Tu non sei nervosa?» chiese l’uomo stupito. Subito dopo capì che aveva fatto una domanda idiota. Eva arrossì: certo che era nervosa, solo non era imbecille come lui, che lo aveva tramutato in un ostacolo insormontabile «Fa finta che non abbia detto niente, per favore.» sentì di aggiungere.

In quel momento decise di farla finita con quel tentennare e scelse di andare dietro il paravento presente nella stanza. Spogliarsi davanti a lei non gli passava nemmeno per l’anticamera del cervello, lo aveva escluso a priori.

Nel frattempo Eva prese posto nel grande letto a baldacchino della stanza, un tempo tutto per sé, ma immaginava che quello sarebbe stato un cambiamento che sarebbe durato per molto tempo, sempre che, un giorno, non ci sarebbe stata anche un’evoluzione, una consacrazione di quel matrimonio che stava diventando quasi ridicolo.

Abbassò la luminosità della lampada a olio sul suo comodino. Immaginava che Preston sarebbe stato oltremodo nervoso di farsi vedere in camicia da notte.

Valutò se fosse stato il caso di fingersi addormentata, ma magari sarebbe stato più efficace se ci avesse pensato prima. Meglio spegnere la lampada, forse era la soluzione giusta.

                Lasciata anche la camicia sulla sedia dietro il paravento, Preston si era seduto a calmare la sua ansia. Quando vide che la luce fu spenta del tutto, pensò che era il caso di fare quei pochi passi che lo separavano dal letto. Si sentirono i piedi nudi di lui sul legno pregiato del pavimento, poi un fruscio di lenzuola e pochi attimi dopo Eva sentì il peso di qualcuno che saliva sul letto.

Stranamente si sentì più tranquilla rispetto a qualche minuto prima, quando la lunga attesa davanti allo specchio le era stata piuttosto molesta. Mille pensieri le erano corsi per la testa. Ora c’era qualcosa di profondamente diverso.

Quanto a Preston, lui era ancora agitato. Lo immaginava con gli occhi spalancati, incapace di prendere sonno. Non era così lontana dalla realtà.

                Il banchiere si rese conto che stava trattenendo il respiro. Si diede nuovamente dell’idiota, poi decise che era ora di farla finita con tutta questa scena. Lasciò andare il fiato, chiuse gli occhi e pensò di essere stanco, tanto stanco che doveva dormire.

«Buonanotte …» disse con un tono molto più rilassato delle sue poche parole spiccicate prima.

«Buonanotte.» rispose Eva, che, con delicatezza, gli diede le spalle.

Nemmeno Eva, che tanto si sforzava di essere forte, era così tranquilla. Aveva imparato a mascherare bene le sue inquietudini, perché per lei era necessario difendersi, così lontana da qualunque affetto, con quell’essere in casa. Certo, pensare a lui non era la cosa migliore, quindi scacciò immediatamente il volto ghignante del vecchio che continuava a fluttuare davanti ai suoi occhi. Riuscì a rilassarsi lentamente. Sentiva il ticchettio dell’orologio a parete che era nella stanza e, abbandonandosi al suo ritmo, riuscì a chiudere gli occhi e a scivolare in un sonno tranquillo.

                Non stava accadendo esattamente la stessa cosa dall’altra parte del letto, per quanti sforzi facesse il suo occupante. Le cose peggiorarono un pochino, facendogli aumentare i battiti cardiaci, quando Eva, evidentemente addormentata, si voltò dalla sua parte e, forse attratta dal suo calore, si accostò un po’ a lui.

Sarebbe stata una lunga notte, ma molto meno peggio di quanto si fosse prefigurato Preston.

 

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Capitolo 11
*** 11 capitolo - Doppia personalità ***


Come promesso, ecco il regalo di Natale per chi segue questa storia.

Ho preparato un nuovo capitolo. Avevo qualche passaggio già scritto, quindi i tempi si sono accorciati un po’. Forse cambierò qualcosa della trama, rispetto a quello che avevo pianificato. Nel tempo cambiano tante cose, figuriamoci le trame delle fanfiction!

Con questo nuovo capitolo vorrei fare un piccolo sondaggio.

Qual è il vostro personaggio preferito della serie?

Il mio è chiaramente Preston, ma sono curiosa di sapere i vostri gusti in questo campo.

Saluto chi segue, chi commenta, chi sbircia ogni tanto e chi capita per caso.
Vi auguro delle buone vacanze, sperando che i Maya si siano sbagliati. Io credo di sì e il 21 saremmo tutti qui a ridere di certe fesserie!

 

Buona lettura!

 

 

 

 

11 capitolo – DOPPIA PERSONALITA’

 

 

                Come Eva aveva immaginato, la presenza di Preston A. Lodge II si stava dimostrando deleteria.

In primo luogo era lei a detestarlo; non aveva ancora dimenticato il giorno in cui l’aveva decisamente ricattata. Non c’erano altre parole per definire quello che le aveva chiesto di fare. Per fortuna il marito che si era ritrovata non somigliava molto a quel mostro, eppure … eppure quella presenza stava lo trasformando o, meglio, pareva che di personalità ne avesse due: una che stava esibendo in pubblico quel periodo e un’altra che stava sempre più scomparendo e che riservava ai momenti di intimità con lei. Emergeva qualche volta negli sguardi che Preston le lanciava, ma, tutto sommato, restava sopita dentro un involucro che pareva svuotarsi ogni giorno di più.

                A sconvolgerla di più in tutto il periodo di quella sgradita visita fu il cambiamento di Preston nel modo di gestire il suo lavoro. Il banchiere cambiò completamente atteggiamento per quanto riguardava certi argomenti, diventò molto più freddo e calcolatore rispetto al suo solito e riuscì a farsi odiare anche da lei. Eva era sempre stata molto comprensiva con lui, dato che si era resa conto che non godeva di grande popolarità tra gli abitanti di Colorado Springs, ma da quando era in combutta con suo padre era riuscita a inorridirla con una crudeltà che non riusciva a spiegarsi in nessun modo. In passato era stato flessibile più di una volta per quanto riguarda la restituzione dei prestiti: è vero, non faceva il banchiere per far del bene agli altri, ma qualche settimana di proroga la ottenevano quasi tutti; “Niente estensioni e niente eccezioni” era diventato il motto che campeggiava in ogni discussione con i clienti che mendicavano tempo alla sua scrivania alla banca. Con lui c’era quasi sempre suo padre, su una sedia all’angolo, come un uccellaccio del malaugurio o come il diavolo in persona. Da quando Preston A. Lodge II era arrivato in città, era stato duro anche con il suo commesso alla banca, persona quanto mai gentile e laboriosa.

                Alla sera Eva provava a non mostrarsi ostile con lui, quando tornavano nell’intimità della loro camera da letto, ma in quella nuova condizione era davvero difficile dissimulare uno stato d’animo. Quello avrebbe dovuto essere un momento in cui non ci si doveva più sforzare di mantenere una certa immagine, era un momento in cui i pensieri vagavano alla ricerca di una conclusione della giornata.

Eva provava la sgradevole sensazione di mordersi metaforicamente la lingua, di non dire, non lamentarsi, non far notare a Preston quanto fosse stato detestabile quel giorno.

Per la verità Preston ne era consapevole. Sapeva che si stava comportando in modo diverso, ma era la sua reazione automatica alla presenza di suo padre. Viveva con il costante terrore di doverlo compiacere in qualche modo, perché quello che temeva di più al mondo era la sua disapprovazione e le sue critiche. Voleva evitare che gli fossero mosse, quantomeno mitigarle, evitare che fossero troppe. Vedeva anche che così stava mettendo contro di sé Eva, la creatura che aveva reso meno difficile la sua vita lì.

Era chiaro per lui quanto Eva si stesse sforzando di non litigare, ma non aveva il coraggio di dire nulla, per paura che un suo tentativo di chiarire la sua posizione, avrebbe potuto aprire le sue critiche e queste gli avrebbero fatto ancora più male. Cercava solo di difendersi e sperava che la permanenza di suo padre stesse per finire.

                Eva cercava di passare molto tempo lontana da loro. Dopo la chiacchierata fallimentare sull’alta finanza, evitava le conversazioni in particolare, perché, chissà come, finiva sempre dalla parte del torto marcio. Lei non capiva mai, non sapeva, non aveva alcuna cognizione degli argomenti trattati, quindi era pregata di star zitta.

                Non era la sola, però, a non capire e a non sapere come andassero certe cose. Il Vecchio Leone aveva avuto uno sguardo critico per ogni cosa che suo figlio gli aveva mostrato con un certo entusiasmo. Aveva criticato la carta da parati di casa sua, l’abbinamento della tenda con la tappezzeria di una poltrona, aveva avuto da ridire dei fiori in giardino e, probabilmente, avrebbe trovato altri dettagli sgradevoli da rinfacciare nei prossimi giorni. Ad ogni critica l’orgoglio di Preston veniva accoltellato e i segni di tale violenza era visibile nello sguardo di lui, sempre più perso nel vuoto, sempre più velato e basso.

Eva notò anche quel “Sì, Signore” che veniva fuori dalle labbra di Preston e che faceva tanto caserma, non dialogo tra padre e figlio, verificarsi troppo spesso. Erano ordini a cui obbedire e non questioni di cui discutere, tanto meno consigli, ma giudizi. Era disgustata, ma allo stesso tempo aveva pena di suo marito. Non era certo un sentimento onorevole da provare, ma non riusciva a definirlo in altro modo. Le si stringeva il cuore a vederlo in quello stato, così demoralizzato.

Eppure la scrittrice non amava Preston, di questo era certa, ma provava affetto per lui, per le sue debolezze, per il suo orgoglio che a volte era ridicolo, ma spesso le riempiva il cuore: le piaceva vederlo soddisfatto di qualcosa, le piaceva il sorriso che gli si stampava sul viso, il modo in cui teneva il sigaro tra le labbra quando il compiacimento si faceva strada dentro di lui. In quei momenti Preston era molto più malleabile e gli poteva chiedere la luna, sicura che lui avrebbe tentato di prendergliela. Ma ora era ridotto uno straccio, il fantasma dell’uomo brillante che sapeva essere.

 

                Una di quelle sere a cena le cose peggiorarono. Le critiche e i suggerimenti-ordini del vecchio si erano fatti insistenti e ininterrotti. Suggerì che un buon lampadario avrebbe dovuto avere nove bracci invece che sette e, cosa peggiore di tutte, aveva iniziato a parlare di Eva come se lei non fosse in quella stanza. Lo sguardo colmo di rabbia della donna saettò verso il volto del marito: voleva che lui dicesse qualunque cosa per far notare che lei era lì con loro, seduta a pochi centimetri da loro e che quindi il suo comportamento era quanto mai meschino. Non voleva intervenire da sola, perché era sicura che la situazione sarebbe solo peggiorata. Non accadde nulla, o meglio, lo sguardo di Preston si rifugiò nel suo piatto, trovando immediatamente interessante l’arrosto di tacchino. Eva era certa che questa era l’ultima cosa che sarebbe riuscita a ingoiare per chissà quale miracolo: la prossima provocazione sarebbe stata fatale. Non tardò. A farne le spese fu la piccola Martha, figlia quindicenne di Mrs. Fish, che non aveva fatto in tempo a schivare il braccio del vecchio, rovesciando sulla giacca di Preston A. Lodge II del vino rosso.

«Stupida ragazzina!» tuonò alzandosi in piedi di scatto, spaventando la cameriera che perse l’equilibrio, finendo di rovesciare il vino sulla tovaglia e sul tappeto.

Quasi fosse esploso un petardo Eva si era alzata a sua volta, cerea in volto, le braccia tese lungo i fianchi e le mani strette in due pugni così stretti da sentire le unghie lacerarle il palmo.

«Se osa rivolgersi nuovamente così a uno dei miei domestici, l’accompagno di persona alla porta d’ingresso e la caccio fuori da casa mia!» sputò in fretta con il tono più minaccioso che poté.

L’uomo barcollò per lo stupore della reazione della donna. Non immaginava che la sua forza di carattere la spingesse a tali rimostranze, ma la cosa peggiore era che questa non era altro che la dimostrazione della debolezza del suo ultimogenito nel dominare una ragazzina recalcitrante.

«E’ così che la tieni buona?» ironizzò, guardando suo figlio che era rimasto seduto, il volto coperto da una mano. «E’ peggio di quello che pensassi!»

«Io sono qui! La smetta di parlare come se non ci fossi!» non riusciva a smettere di urlare stizzita. Lo odiava, oh sì, lo odiava per davvero.

Posò lo sguardo per un attimo su suo marito, ma ciò che vide non le piacque affatto: era come se Preston stesse tentando di lasciarsi scivolare tutto addosso, sperando di sparire da quella stanza. Eva non resistette un minuto di più: uscì dalla stanza senza voltarsi indietro.

«E’ completamente pazza!» affermò con certezza il vecchio leone, tornando a sedersi e riprendendo a mangiare come se non fosse accaduto nulla, pulendosi ogni tanto la giacca con il tovagliolo, ma ostentando una calma che non aveva: in realtà voleva dare una lezione a suo figlio per mostrargli come si prendeva in mano una situazione del genere.

Preston non riuscì a dire niente e il suo stomaco si chiuse, vietandogli anche di bere. Era quella la situazione che avrebbe voluto evitare, ma sapeva che, se le cose fossero andate per le lunghe, quella era l’unica soluzione possibile.

Quando entrò silenziosamente in camera da letto, Eva dormiva già o faceva finta di dormire. Gli dava le spalle e lui non aveva voglia di intavolare una discussione senza fine a quell’ora di notte. Non volle nemmeno provare, non volle nemmeno verificare se sua moglie fosse sveglia: come avrebbe dovuto affrontarla? Si sentì svuotato, senza nessun appoggio, senza alcun sostegno. Era tra due fuochi indomabili e si sentiva nuovamente solo, abbandonato anche dall’unica persona che era stata, durante quei primi mesei del loro matrimonio, il pezzo mancante al suo puzzle, quello che dava un senso all’immagine indefinita che era la sua vita. Aveva pensato seriamente che Eva, in fin dei conti, fosse la donna giusta per lui. La prima difficoltà vera aveva sgretolato il suo castello di carte e ricostruirlo sarebbe stata una battaglia, specie perché la ragazza non sembrava avere voglia di collaborare. La guardò per un po’, i capelli neri sparsi sul cuscino, le sue forme sinuose e morbide, con una gran voglia di sfiorarla e di pregarla di non lasciarlo solo in quella situazione, di avere pazienza per qualche giorno, ma gli mancò il coraggio.

 

Il mattino seguente Eva aveva deciso di fingere ancora di dormire. Non voleva incrociare lo sguardo di suo marito, non voleva avere a che fare con lui. Avrebbe voluto essere difesa da lui, ma Preston si era tirato indietro.

«Sua maestà ha deciso di non scendere?» chiese stizzito Preston A. Lodge II, quando attese invano che suo figlio iniziasse a far colazione. Lui, da parte sua, era già a buon punto, tanto non gli importava della nuora, ma Preston non aveva toccato le uova con il bacon e nemmeno bevuto un sorso di tè. Fissava il piatto di Eva sperando che giungesse da un momento all’altro, ma in cuor suo sapeva che non sarebbe arrivata. Riuscì a bere un po’ prima di andare via con un sospiro.

Eva vide la carrozza andare via e solo allora scese di sotto. Fece colazione da sola e passò la mattina a casa, sapendo che andare in paese sarebbe significato dover incontrare i due uomini. Non voleva saperne di parlare con nessuno dei due e passò il suo tempo chiusa nel suo salottino, intenta a stendere un nuovo capitolo del suo romanzo e a tentare di inventare una storia da far pubblicare a Dorothy sul Gazette per la prossima domenica.

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