Everything can change...

di ValeryJackson
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18/ Parte uno ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18/Parte due ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Sono in piedi davanti allo specchio.
Mi guardo. Ho i capelli scuri raccolti in una coda. Indosso una semplice camicetta bianca e un paio di jeans. Guardo negli occhi il mio riflesso. Ho occhi grandi e marroni. Ogni tanto vi si scorge un luccichio. Credo sia dovuto ai miei numerosi pianti di quand’ero piccola. Ora non lo faccio più, ho imparato a gestire le mie emozioni.
Lascio scendere lo sguardo sul mio corpo. La mia pelle è olivastra. Non sono una ragazza magra, ma il mio corpo non è male. Posso, forse, quasi dire di essere una ragazza … normale. Non bella, ma nemmeno brutta. Normale. Con le mie curve burrose ho il mio perché. Non che mi interessi più di tanto. Non bado molto al mio aspetto fisico. Non vesto firmata e non mi trucco quasi mai, se non per le occasioni importanti. Non vado dal parrucchiere, i capelli me li taglia mia madre. Un po’ perché mi fido delle mani esperte di mia madre, un po’ perché non ci permettiamo il lusso di andare dal parrucchiere. Comunque mia madre è brava. Potrebbe benissimo fare quel mestiere, se avesse il tempo di trovare un posto fisso. Ci siamo trasferite così tante volte che quando mi chiedono “Da dove vieni?” vorrei quasi rispondere: “Dalla strada”.
In effetti è così.
Quella che chiamo mamma in realtà non è la mia vera madre. Sono stata adottata. Cioè, quando avevo solo un anno la mia vera madre mi ha abbandonato davanti la porta di Mary, che mi ha accolto ed allevato come fossi sua figlia. Ero in una culla, insieme a uno scrigno, un sacchetto pieno di pietre preziose e un biglietto. Lei non ha mai voluto dirmi cosa c’era scritto.
Quando glie lo chiedo mi risponde sempre dicendo: “Quando sarà il momento”. Ma quando sarà il momento? Non lo so.
Abbasso lo sguardo e fisso le mie scarpe. Sono delle semplici Converse bianche. Ne ho altre di scarpe, ma indosso sempre queste. Non so perché. Abitudine.
Da sotto il jeans sbucano le mie cicatrici.
Sono tre, tutte sulla caviglia destra. Sono circolari, stranamente identiche, anche se me le sono procurate in momenti diversi della mia vita.
La prima è “spuntata” quando avevo solo cinque anni. Mia madre mi raccontò che era perché, mentre giocavo al parco giochi della città, caddi in volo dall’altalena e mi feci un taglio enorme alla caviglia. A quei tempi vivevamo in Arizona, in una cittadina al confine con il Messico, ma ero troppo piccola per ricordarmi il nome esatto della città, e Mary non vuole dirmelo. Ci trasferimmo in Minnesota il giorno dopo.
La seconda cicatrice l’ho avuta quando avevo nove anni. Ero a scuola, in Colorado, e stavo partecipando a una gara di atletica. Dovevamo fare un percorso nel bosco e poi uscirne nel minor tempo possibile. Ricordo molto poco. Solo un forte dolore, poi sono svenuta. Mia madre mi disse che ero rimasta bloccata in mezzo a dei massi con il piede e che ho perso i sensi. Lei mi aveva portato al pronto soccorso e poi a casa. Quando avevo ripreso conoscenza, però, ero già nel mio letto, quindi non ricordo neanche se mi hanno fatto male i punti. Presumo di no. Comunque, quando a scuola videro le cicatrici chiamarono la polizia, accusando mia madre di violenza su minore e minacciando di arrestarla. Ma, dato che quando mi procurai la seconda cicatrice lei non era con me, allora dovettero lasciarla stare.
Comunque salimmo in macchina e ce ne andammo via. Nel Maine, questa volta. Non portammo con noi molte valige. Solo qualche vestito, una bambola da cui non volevo separarmi e quello strano scrigno che Mary porta sempre con sé a ogni trasloco. No ho idea di cosa contenga, lei non vuole dirmelo. Non so perché, ma credo che contenga qualcosa sul mio passato. Almeno lo spero. Ho provato ad aprirlo più volte, ma con scarso risultato. Ho anche cercato la chiave per aprire il lucchetto che lo chiude, ma niente. Sigillato.
Finora ci siamo trasferite già diciotto volte. In media è più di una volta all’anno, dato che io ho quindici anni. Siamo sempre state noi due, io e lei, insieme. Non capisco il perché di tutti questi trasferimenti. Mary non me lo ha mai spiegato. All’inizio davo la colpa a quelle sciocche cicatrici. Ogni volta che me ne facevo una dovevamo andarcene. Ma dopo l’altro giorno so che il motivo è un altro.
La terza cicatrice è apparsa due giorni fa. Ero in barca con Mary e quello squallido del suo compagno, Gabe Castellan.
Gabe è rozzo, brutto, antipatico, cattivo, acido, ubriacone, sporco, lurido, squallido e maschilista. Ma è ricco. Non so cosa Mary ci trovi in lui. So che non sono i soldi, ma, a dirla tutta, quella è l’unica cosa bella che ha. Spesso ci porta a fare un giro con la sua barca sul fiume Hudson. Anche quel giorno lo fece. Ma accettare fu un enorme sbaglio.
Ero seduta sul bordo della barca, coi piedi penzoloni nell’acqua, accanto a Mary. Parlavo con lei del più e del meno, mentre Gabe dormiva ubriaco a poppa, quando è successo. L’acqua ha cominciato a ribollire intorno alla mia gamba destra. Un dolore lancinante ha iniziato a pervadermi la gamba. Sapevo, sapevo cosa stava succedendo. O meglio, sapevo cosa sarebbe successo dopo. Avrei avuto la mia terza cicatrice. Mary aveva gli occhi sgranati, ma non so se per il terrore o per lo spavento. Guardò freneticamente prima me, poi Gabe, che stava iniziando a svegliarsi, poi me, poi Gabe, poi di nuovo me.
<< Va!>>mi disse. Mi spinse in acqua. << Va a riva!>> urlò stavolta.
Io feci come diceva lei. Iniziai a nuotare e raggiunsi riva più veloce che potevo, prima di svenire. Non ricordo esattamente cosa successe dopo. A quanto mi ha raccontato Mary sono stata morsa da qualche animale. Non mi ha detto quale, non voglio saperlo. Istintivamente mi sono toccata la caviglia destra. Come sospettavo, eccola lì, circolare come le altre, perfetta e dolorosa, la mia terza cicatrice. Mary non volle dirmi altro sull’animale, ne volle spiegarmi perché l’acqua intorno alla mia gamba ribolliva.
Che importanza ha, d’altronde? Ormai ci sono abituata. Mi aspettavo che mi dicesse di fare i bagagli, ma non lo fece. Questa volta restiamo qui. Gabe, però, non deve saper della cicatrice. E non lo saprà.
Sollevo l’orlo dei pantaloni e le guardo meglio. Sono inquietanti. Solo a guardarle una fitta di dolore mi pervade il corpo.
Sposto lo sguardo sulla gamba sinistra. Anche lì, sempre sulla caviglia, ho una cicatrice. Quella però ce l’ho da quando sono nata. È molto più piccola e, cosa più sinistra, è perfettamente identica all’amuleto che porto al collo, da cui non mi separo mai, dato che è l’unica cosa certa del mio passato che mi rimane. È di un blu intenso, con varie sfumature di grigio all’interno. Nel cuore, poi, c’è una specie di spirale azzurrina che sembra sospesa nel vuoto. È bellissimo, e finora non ne ho visti altri.
Credo, comunque, che la cicatrice me l’abbia fatta la mia vera madre, dato che l’amuleto è il suo. O forse si era fatta costruire questa collana proprio ispirandosi alla mia cicatrice. Non lo so. Non mi è dato saperlo. In effetti, ci sono così tante cose della mia vita che non so spiegarmi che ha volte mi chiedo chi sono io realmente.
Sono una ricca?
Sono una vagabonda?
Sono orfana?
Boh. L’unica cosa che so è che mia madre mi ha abbandonato quando avevo solo un anno e che poi, probabilmente, è morta. Non so nulla invece di mio padre. Non so neanche se ce l’ho un padre in realtà. Ma non mi interessa più di tanto. Non più ormai. Mary è la mia vera famiglia. L’unica che voglio.
Mi abbasso l’orlo dei pantaloni e mi guardo un’ultima volta nello specchio. Faccio un respiro profondo afferro lo zaino sul letto e inizio a scendere lentamente le scale. Mentre scendo, sento la voce di Gabe in cucina che detta ordini a mia madre.
Non lo sopporto, ma non posso farci niente. D’altronde, che potere ha una ragazzina di quindici anni che non sa neanche quale sia il suo vero nome contro un uomo di quaranta, ricco e violento? Nessuno. Ecco perché sto zitta. Nascondo accuratamente la mia collana nel colletto della camicetta, perché se lui la vedesse vorrebbe di sicuro rubarmela, e continuo a scendere le scale.
Come sospettavo, Gabe è in cucina e mia madre è lì che stira accanto a lui, senza fare una piega.
<< Era ora, signorina!>>bofonchia Gabe. << Qui la mattina ci si alza presto >>.
Faccio finta di non sentirlo e vado a prendermi una mela. Lui fa un gesto con la mano e sgola tutto il suo bicchiere di quella che presumo sia birra.
<< Ehi donna! >>dice rivolto a mia madre. << Va a prendermi un’altra birra! >>. Mia madre smette di stirare e va verso il frigo. Quando passa, Gabe le da una pacca sul sedere e sorride maliziosamente.
<< Oh! Potresti evitare? >> gli dico inorridita. << È sempre mia madre quella! >>.
Lui si alza minaccioso e viene verso  di me. Istintivamente mi appoggio con le spalle al muro e lui mi blocca appoggiando le mani sul muro, ai lati della mia testa. La mela mi cade di mano.
<< Senti … >> dice con voce crudele. Il suo alito sa di alcol anche appena mattina. << Non mi faccio mettere i piedi in testa da un’insulsa ragazzina come te. Vivi sempre sotto il mio tetto, ricordalo. Se hai ancora un letto e solo grazie a me! >>.
Sostengo per un po’ il suo sguardo. È spento e poco lucido, ma fa comunque rabbrividire. Fortunatamente in quel momento trona mia madre in cucina. Dice a Gabe di lasciarmi stare e poggia la birra sul tavolo. Gabe va via da me, prende la sua birra e va a sedersi sul divano. Tossicchio un po’ per levarmi il tanfo di quell'uomo dalla faccia.
Non lo sopporto, non lo sopporto, non lo sopporto!
Guardo Mary. Ha l’aria molto calma e rilassata, ma io so che non è così.
<< Mi dici come fai a sopportarlo? Che ci trovi in uno così?!>>sbraito. Mary mi guarda e sospira.
<< Un giorno capirai>>mi dice. Si avvicina e mi sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
No, invece non lo capirò mai.
<< Vuoi qualcosa da mangiare?>>mi chiede.
<< No>> rispondo fredda. Poi addolcisco un po’ il mio tono di voce. << Mangio qualcosa per strada >>.
<< Sicura? Vuoi che ti accompagni a scuola? >>
Scuoto la testa. Non voglio che mi accompagni a scuola. << Vado in bicicletta>> dico.
Mary annuisce. << Ok>> dice, ovviamente delusa. << Sta attenta>>.
Annuisco, anche se non ho idea di cosa voglia dire con quel “Stai attenta”. Attenta a cosa? Boh.
Vado in garage e prendo la mia bici. In realtà non è proprio mia mia. Appena ci siamo trasferite nell’abitazione di Gabe non sopportavo l’ambiente, così mi sono nascosta in garage. Lì ho trovato questa bicicletta, praticamente nuova, e ho deciso, dato che non ne avevo mai avuta una, che quella sarebbe stata mia. Nessuno obbiettò. Credo che Gabe neanche lo sappia.
Comunque sia non mi interessa. La maggior parte delle volte vado a scuola in bici. Un po’ perché così posso stare un po’ da sola, un po’ perché non voglio che Mary mi accompagni.
Non è che mi vergogno di lei, ma a scuola sono già lo zimbello di tutti.
Sono bersagliata di continuo da quelli che noi adolescenti definiamo “i ragazzi in”. Questi ragazzi o hanno i soldi, o sono belli da far paura, oppure sono semplicemente cheerleader o assi dello sport. Poi ci sono, in ordine: gli sportivi, gli emo, gli attori, gli artisti, il dramma club, il giornalino della scuola, la banda, la mascotte, i secchioni, il club audio video, quelli bravi nella musica, quelli che non sono bravi nello sport, il club di scacchi e, infine, ci sono quelli come me, i “non classificabili”.
Sono brava a scuola, quindi potrei benissimo essere una secchiona, ma sono anche molto brava nello sport. Sono la più agile delle ragazze e anche la più forte. Potrei far parte anche degli sportivi. Ma anche del giornalino della scuola o degli artisti, dato che adoro scattare foto e dipingere. Sono le mie uniche, vere passioni. O, perlomeno, le uniche che sono riuscita a coltivare.
Vivere in una città come New York non è facile, ma è bellissimo. Qui sei uno come tanti, e questo mi piace. Non amo essere al centro dell’attenzione. So come passare inosservata, per questo riesco, spesso, a immortalare dei soggetti bellissimi. Poi scannerizzo le foto e le riguardo, perdendomi nei miei numerosi scatti. Mi piace. Mi rilassa.
Sono arrivata a scuola. Scendo dalla bici e mi dirigo verso l’apposito parcheggio, guardandomi intorno. Sono circondata da ragazzi di ogni tipo di categoria. Quelli “in” non sono ancora arrivati.
<< Ehi!>> fa una voce dietro di me che mi fa sobbalzare. Mi giro. È solo la mia amica Mia.
Mia è una ragazza speciale. Il mio primo giorno di scuola nessuno voleva stare con me. Lei faceva parte delle cheerleader, ma si vedeva che non era come loro. Non era antipatica, ne acida, ne truce. Durante l’ora di pranzo io ero seduta da sola, quando mi arriva addosso un contenitore del latte. A buttarmelo addosso era stata Jessica Park. O, come l’ ho rinominata io, Jessica “Sono la migliore del mondo” Park. Lei è perfetta. È alta, snella, con gli occhi scuri e i capelli rossicci. Ha un fisico da modella ed è la migliore in tutto, dallo sport alla scuola. Proviene da una famiglia ricca ed è ufficialmente il capo della scuola, nonché delle cheerleader (che novità!).
Comunque, mi sporcai interamente di latte, facendomi deridere da tutti. Scappai in bagno a lavarmi di dosso quello schifo, con la consapevolezza che quella era solo la prima di tante ingiustizie che dovevo subire. Poco dopo in bagno entrò Mia. Indossava un vestito “Dolce e Gabbana” e delle scarpe col tacco. Era truccata come le altre e portava anche i capelli sciolti come loro. Mi si avvicinò lentamente.
<< Cosa c’è?>> sbraitai io. << Sei venuta a insultarmi anche tu?>>
Lei alzò le spalle. << In realtà>> disse << Volevo solo sapere come stavi>>.
Io feci uno sbuffo sarcastico << Come sto? Sto come sta la ragazza nuova che è appena diventata il bersaglio preferito dei bulli della scuola. Come sto? Sto di merda>>.
Lei mi scrutò da sopra a sotto con finta indifferenza. << Se vuoi>> cominciò << Io ho dei vestiti puliti nell’armadietto>>.
Io alzai lo sguardo. << Sempre se ti piace Versace>> concluse. Mi sorrise e io ricambiai con il mio miglior sorriso. Le ero grata per quello che stava facendo, e lo sono tutt’ora.
Da quel giorno è diventata la mia migliore amica, nonché l’unica. Quel giorno lei si è messa contro tutto e tutti, ha rinunciato ai suoi amici, ha rinunciato alla sua popolarità, e questo solo per aiutarmi. Come potrei non adorarla?
<< Ehi!>> dico e sorrido. Lei sorride a sua volta. Indossa una semplice gonna di jeans e una maglietta con su scritto “Carpe Diem” comprata al mercatino dell’usato. Porta i capelli sciolti e non è molto truccata. Non le serve. È bella lo stesso. È alta, ha la pelle scura e gli occhi marroni. Ha un fisico allenato, non a caso era anche lei una cheerleader, prima di diventare mia amica.
A volte mi sento a disagio. Lei aveva davvero tutto ciò che una ragazza poteva desiderare, e l'ha abbandonato solo per proteggermi. Ci sono giorni in cui mi chiedo se si sia pentita di quello che ha fatto, ma poi non ho mai il coraggio di chiederglielo.
Prendo il mio zaino e mi avvio insieme a lei verso l’entrata.
Ad un tratto una decappottabile rossa ci sfreccia davanti, tagliandoci la strada, e va a parcheggiarsi. Dalla macchina escono Jessica e le sue leccapiedi, insieme a Mark e altri della squadra di football. Mark è il quarterback della squadra della scuola, oltre a essere il ragazzo più bello e ricco di tutti. Ha i capelli neri, pieni di gel, fissati con cura in modo che vadano in tutte le direzioni. Le basette sono tagliate in modo meticoloso. A fare da contorno ai suoi occhi verdi c’è un paio di sopracciglia folte. Lui è un senior, cioè uno studente del quarto e ultimo anno. Lo si capisce anche dal giubbotto che indossa; il suo nome è ricamato in corsivo, in lettere dorate. È carino, ma è odioso, e io non lo sopporto.
Jessica ci vede e ci saluta con un sorriso maligno.
<< Che stronzi>> commenta Mia. Io non dico nulla e distolgo lo sguardo. Non mi va di mettermi a discutere, non questa mattina almeno.
<< Dai, andiamo>> dico con un filo di voce. Mia annuisce e distoglie anche lei lo sguardo. Si guarda intorno per un po’ mentre io cerco il mio cellulare nello zainetto. Mary vuole che lo tenga sempre con me, e che la chiami per qualsiasi evenienza. Non so di preciso quando è diventata così apprensiva. Forse da quando ha capito che in giro possono esserci tipi come Gabe. In tal caso anche io avrei il terrore per mia figlia.
<< Ehi!>> Mia mi da una gomitata. << Mi sa tanto che non sarai più l’ultima arrivata>> dice facendo un cenno con la testa.
Io guardo nella direzione indicata da lei. All’inizio non noto nulla, ma poi lo vedo. Un ragazzo. È alto, con un corpo abbastanza muscoloso da poter giocare a football. Indossa una felpa e un paio di jeans. So che è nuovo, si vede. E poi, io non l’ho mai visto da queste parti, e io ricordo sempre i volti di chi ho incontrato. Si volta e si guarda intorno. Da sotto il cappuccio della felpa noto che ha i capelli biondi. Per un attimo incrocio il suo sguardo. Ha gli occhi di un blu intenso, quasi come il mio amuleto. Poi accade l’impensabile.
Vedo immagini sfocate. Vedo un’astronave, gente che piange, persone che corrono, vedo una donna anziana che abbraccia un bambino di circa un anno, vedo una donna giovane che corre con in grembo un fagotto. Vedo la distruzione, l’odio, la guerra. Poi svanisce tutto. Mia mi sta scrollando una spalla.
<< Vale! Vale stai bene?>>
Io scuoto la testa per scacciare via quelle immagini. Torno a guardare il ragazzo. Mi fissa stranito , come se avesse visto un fantasma. Poi si volta ed entra a scuola.
<< Sembra che qualcuno ha fatto colpo!>> dice Mia dandomi un colpetto sul braccio.
<< Oh, ma smettila!>> dico, con un sorriso da ebete in faccia. Mi avvio verso l’entrata e lei mi segue.
Voglio dimenticare tutto questo. Non può essere successo davvero. Forse me lo sarò immaginato. Devo essermelo immaginato, per forza.
Continuo a camminare finché non inizio a confondermi tra la folla di ragazzi che entra.
Suona la campanella.
È iniziata la scuola.



Angolo Scrittrice.
Salve! Eccomi qui con una storia. Spero di avervi interessato e che continuiate a leggere quando pubblicherò i prossimi capitoli.
Vi avverto, prima di ricevere altre critiche. Uno. Come penso sia normale, per avere l'ispirazione di una storia bisogna avere il lampo di genio mentre si guarda, legge o ascolta qualcosa. Il mio lampo di genio l'ho avuto grazie a Sono il numero Quattro, libro di Pittacus Lore. Die. La scena presente in questo capitolo? Si, mi sono ispirata a Percy Jackson. Io AMO ALLA FOLLIA QUEL RAGAZZOO!! Sarebbe stato scorretto, da una fan come me, non renderlo partecipe, no?
Sarei molto felice se commentate! ;>
Baci baci
ValeryJackson

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Cammino dritta verso il mio armadietto, senza guardarmi intorno. Voglio evitare il più possibile gli sguardi degli altri. Lo so, è stupido, ma dopo quello che è successo con il ragazzo nuovo mi sento un po’ turbata.
Continuo ad avanzare a testa bassa, fissandomi le scarpe.
Sorpasso l’aula di Economia Domestica. Sono quasi arrivata. Il mio armadietto è a soli dieci passi da li.
Alzo lo sguardo per cercarlo. Lo trovo subito, ma ora non voglio più andarci. No, perché ora lì sostano Jessica e Mark, e si stanno baciando.
Faccio finta di non vederli e raggiungo l’armadietto. Metto la combinazione e lo apro. Prendo il libro di storia e il blocco per gli appunti. Poi richiudo l’armadietto. Loro sono ancora qui.
Mi fanno venire il nervoso. Oggi non è giornata, ma loro non lo capiscono, non se ne vanno.
<< Vi dispiace?>> sbotto ad un certo punto. Loro mi guardano con aria minacciosa. << Dovete proprio pomiciare vicino al mio armadietto?!>> dico con freddezza.
Loro si guardano e iniziano a ridere. << Perché?>> fa Jessica divertita. << Alla Rigida da fastidio perché lei non può farlo? Sei penosa …>>.
Mark si stacca da lei e viene verso di me. Si sistema il giubbotto e gonfia il petto. Il profumo speziato della sua acqua di colonia mi riempie le narici. È alto circa un metro e ottantacinque, cioè otto o nove centimetri più di me.
<< Senti>> mi dice << Questo è l’ultimo dei quattro anni più belli della mia vita, e io non me lo farò rovinare da una Rigida come te. Chiaro?>>.
Sostengo il suo sguardo. Una volta ho letto su un libro che non bisogna mai guardare negli occhi un cane, perché è un segno di sfida. Mi chiedo se anche per gli umani sia così. Spero di si, perché sfidarlo è proprio ciò che ho intenzione di fare ora. Voglio dimostrargli che non ho paura, perché non ne ho. In effetti non ne ho mai avuta. Loro hanno sempre pensato di si perché sono io che glie l’ho fatto credere. Mary mi ha sempre detto di non attirare troppo l’attenzione su di me. Se mi mettessi contro di loro l’attirerei eccome l’attenzione!
Non voglio, non voglio disubbidire a mia madre. Ma ora non riesco a trattenermi.
<< Qual è il problema, Mark?>> dico in tono di sfida. << Non avrai mica paura di me?>>. Lo guardo maliziosa. Lui irrigidisce la mascella, quindi capisco che funziona. Lo fisso ancora un po’ negli occhi, poi lui distoglie lo sguardo.
<< Andiamocene>> dice a Jessica. Le mette una mano dietro la schiena e la trascina via.
Sono piuttosto soddisfatta di ciò che ho fatto, anche se so che ho sbagliato. Ora mi prenderanno ancora più di mira. Non è detto. Ma anche se fosse non m’importa.
Mi dirigo a passo svelto verso l’aula di Scienze e prendo posto infondo alla classe. Suona la campanella e inizia la lezione.
È noiosissima, quindi ci metto poco a decidere di smettere di seguirla e di iniziare a scattare foto. Io amo la fotografia.
Fin da piccola fotografavo ogni cosa; foglie, alberi, paesaggi, persone, visi sconosciuti, animali. Mi piaceva, da morire. Amavo aprire il vano posteriore della macchina e srotolare il nuovo rullino di qualche centimetro, quel tanto che bastava per pinzarlo nella guida. Pensare che quella pellicola vuota presto sarebbe diventata qualcosa e non sapere ancora cosa. Fare i primi scatti a vuoto. Mirare. Mettere a fuoco. Sbilanciarsi avanti e indietro con il busto. Decidere di includere o escludere pezzi di realtà come mi pareva. Ingrandire. Deformare. Ogni volta che udivo il 'clic' dello scatto, seguito da quel leggero fruscio, un brivido mi correva lungo la schiena.
Per me fotografare significa darmi la possibilità di rallentare il battito del tempo, il fluire delle visioni, l'impressione della realtà stessa.  
Mi piace caricarle poi e inserirle nel mio sito web “Striking New York”. In teoria dovrebbe essere un sito della scuola, ma possono accedervi anche persone esterne, e molte volte lo fanno.
Prendo la macchina fotografica dallo zaino e inizio a scattare. Kelly Jackson si sta facendo un treccia. Mattia Gonzales guarda fuori dalla finestra con aria persa. Karin McGrarden e Steven Luiu si stanno tenendo per mano. Bellissimo.
Ad un tratto una mano sbatte sul mio banco. Alzo gli occhi. Il professore mi sta fissando, e dal suo sguardo sembra arrabbiato.
<< Venga con me, signorina Hart>>. Ok, sono nei guai.
Mi alzo con riluttanza e lo seguo fuori dalla classe, poi lungo il corridoio, e infine nell’ufficio del preside. Batte tre volte sulla porta, poi entra senza che nessuno gli dia il permesso.
Il nostro preside si chiama Harris. È grasso e quasi calvo, gli rimangono solo un po’ di capelli sulla nuca e sui lati. Gli pende la pancia dalla cintura. Ha gli occhi piccoli e lucenti, troppo ravvicinati. Sta leggendo un giornale locale. Alza lentamente lo sguardo solo per vedere chi è, poi lo riabbassa velocemente.
<< Buongiorno>> dice con indifferenza.
<< Buongiorno, preside Harris>> dice il professore.
<< Buongiorno>> dico io, con riluttanza.
<< Come posso aiutarla, professor Crubs?>>.
Il professore si impettisce, schiarisce la voce e mi indica. << Questa ragazzina, qui, scatta foto durante la lezione!>>. Mi strappa la fotocamera da mano. Non mi ero neanche accorta di averla ancora. << Con questa fotocamera!>>
Alzo gli occhi al cielo e mi accomodo su una delle due poltrone che ci sono nell’ufficio. Questa sarà una lunga giornata.
Il professor Crubs posa la macchinetta sulla scrivania.
Il preside posa il giornale e guarda prima il professore, poi la fotocamera, poi me, poi la fotocamera, poi di nuovo me. Aspetto la ramanzina, ma lui, inaspettatamente, mi sorride, e sembra che il sorriso gli inghiottisca gli occhi.
<< Una Panasonic Lumix FZ48!>> esclama. << È un’ottima macchinetta!>>
Sorrido a mia volta. Lui è dalla mia parte. << Già>> dico << Lo so. Pensi che ha controlli manuali accanto ai migliori automatismi per i principianti, registrazione video Full HD ed effetti speciali per i fotografi creativi. Manca però il supporto al formato RAW>>.
Lui annuisce. << Già. Ma puoi provare sempre la Panasonic Lumix FZ150. È simile alla FZ48, ma con in più il formato RAW, un display LCD orientabile (comodo in certe situazioni di ripresa) e la registrazione video sempre Full HD ma 1080/60p. Inoltre la macchina supporta un microfono esterno. Sono notevoli le prestazioni, con una velocità massima di scatto che arriva fino a 12 foto al secondo>>.
<< Wow!>> esclamo.
Il professor Crubs si sgranchisce rumorosamente la voce. << Preside Harris! Ha capito cosa ho detto?>>
Il preside lo guarda. << Si, ho capito. Ma non vedo cosa c’è di male…?>>
Il professor Crubs sbuffa, indignato. << Oh, beh … c’è di male che la qui presente signorina Hart pubblica poi le sue foto su quello stupido sito internet!>>
<< Non è stupido!>> mi difendo.
<< Vi dispiace se giudico io?>> fa il preside. Apre il suo pc e lo accende. << Com’è il nome del sito?>>
<< “Striking New York”>> rispondo.
Lui annuisce e scrive il nome del sito. Capisco che si è caricato quando fa un risolino. Si sgranchisce la voce e assume un’espressione che dovrebbe sembrare seria. Ma si nota che si sta divertendo molto.
<< Professor Crubs>> dice. << Lei dovrebbe dare il buon esempio ai ragazzi!>>.
Il professore sembra non capire e raggiunge il preside dietro la scrivania per guardare sul monitor. Mentre sul suo viso spunta un’espressione indignata, su quello del preside si forma un grosso sorriso, che si trasforma subito in una risata.
Io non capisco cosa ci sia di divertente. Il professore mi guarda furioso.
<< Mi spiega perché l’ha fatto?!>> dice e gira il monitor verso di me. A quel punto capisco: c’è una sua foto mentre si scaccola. Mi viene da ridere, ma non lo faccio.
<< La luce era molto buona>> dico.
Lui sbatte un pugno sul tavolo. << Ora capisce?>> dice rivolto al preside. << Io propongo la sospensione!!>>
<< Cosa?!>> chiedo io. << Per una semplice foto?>>
<< Una semplice foto? La chiami una semplice foto questa?>>
Non so cosa rispondere, ma per fortuna il preside mi precede. << Se non vi dispiace, sono ancora io che decido.>> dice rivolto a Crubs, poi si volta verso di me. << Puoi cancellare quella foto dal sito, vero?>>. Annuisco.
<< Ma a che serve? Ormai quella foto avrà già fatto il giro di internet!>>
Io sbuffo e distolgo lo sguardo. Dietro la vetrinetta del preside riconosco il ragazzo nuovo, che evidentemente aspetta l’orario delle lezioni dalla segreteria. Mi sta fissando. Accenno un sorriso, ma lui distoglie subito lo sguardo. Questa cosa mi da fastidio.
<< Vada fuori, per favore>> dice il preside. Non ho sentito il resto della conversazione quindi non so se si riferisce a me. Poi il professore esce furibondo sbattendo la porta. Rimaniamo solo io e Harris, ora.
Lui mi guarda e si alza dalla sedia. Mi raggiunge e si siede sull’altra poltrona vicino a me.
<< Valeri>> comincia con tono calmo e dolce. << Non posso continuare a difenderti sempre. Devi smetterla di pubblicare quelle foto sul tuo sito. Non a tutti può fare piacere>>
<< Sono solo delle semplici foto. Che c’è di male?>>
<< Promettilo>>. Lo guardo. È molto calmo. Non vuole punirmi, ma non ha altra scelta.
<< Qual è la mia punizione?>> chiedo.
Lui ci pensa un po’. << Niente più pubblicazioni senza prima il permesso di professori o studenti.>>
Sgrano gli occhi sbalordita. Lui mi fa l’occhiolino.
<< Promesso?>> chiede.
Annuisco. << Va bene>>
<< Bene>> dice lui alzandosi e tornando alla scrivania. << Puoi andare, ora.>>
Non me lo faccio ripetere due volte. Mi alzo velocemente, prendo la mia macchinetta, accenno un sorriso ed esco da quel losco ufficio. Il preside non è male, e l’arredamento e confortevole, ma è pur sempre il luogo più odiato dagli studenti.
Appena sono fuori dalla stanza noto che ora il ragazzo nuovo sta parlando con la segretaria. Lei gli consegna delle carte. Avanzo velocemente per non farmi notare ma ormai è troppo tardi.
<< Valeri!>> urla Edda, la nostra segretaria. Io mi blocco. << Questo ragazzo è nuovo. È arrivato stamattina.>>
Lo guardo. Lui mi sorride. Il suo sorriso è bellissimo. Bianco e splendente come il sole. Non porta più il cappuccio della felpa, quindi ora si vedono perfettamente i suoi capelli color biondo miele. Avevo ragione, i suoi occhi sono azzurri come il mio cristallo.
<< Perché non lo accompagni al suo armadietto?>> dice Edda, facendomi l’occhiolino. Si avvicina a me. << È proprio un bel ragazzo. Vero?>> bisbiglia. Io sorrido e le faccio cenno di si. Lei risponde al mio sorriso e torna nel suo ufficio.
Guardo il ragazzo nuovo. Edda ha ragione, è proprio bello. Abbasso lo sguardo, imbarazzata dal mio pensiero, come se lui avesse potuto sentirmi.
<< Che armadietto hai?>> gli chiedo.
Lui controlla sul suo foglio di carta. << B111>> risponde. La sua voce è calda e fredda allo stesso tempo.
Fantastico” penso. Il mio è il B115. Significa che lo vedrò praticamente ogni giorno.
<< Bene>> dico. << Vieni, te lo mostro>>. Gli faccio segno col capo di seguirmi e lui non esita un attimo prima di arrivare al mio passo.
Per un po’ restiamo in silenzio, poi decido di rompere il ghiaccio. “È solo un ragazzo” mi dico. “Non è di certo il primo che vedi”. Il primo che vedo no, è vero, ma è il primo che mi fa quest’effetto.
<< Allora … >> comincio. << Di dove sei?>>
Lui esita un attimo, poi risponde. << Toronto>>.
Lo guardo da sopra a sotto. La sua pelle è abbronzata, di quelle abbronzature perfette.
<< Un po’ abbronzato per Toronto>> commento.
<< In realtà …>> dice lui, con un po’ di esitazione. << I miei sono di Toronto, ma io sono nato a Santa Fe>>.
<< Aa … New México!>> dico, con accento spagnolo. Lui ride.
Percorriamo qualche altro passo in silenzio. Poi raggiungiamo il suo armadietto. Ci fermiamo.
<< Ecco, questo è il tuo armadietto, il B111>> dico. << In fondo al corridoio, a destra c’è l’aula di Economia Domestica, mentre in fondo a sinistra ci sono i bagni e l’aula di Storia>>. Lui annuisce.
<< Se hai bisogno di me, il mio armadietto è quello>>. Glie lo indico, ma subito dopo me ne pento. Perché l’ho detto? Non me l’ha mica chiesto. Ora sembrerò spacciata?
Invece, lui sorride. << Grazie>> dice.
Annuisco, sollevata. << Di niente. Io sono Valeri Hart>>. Aspetto che lui mi dica il suo di nome, ma non lo fa. È assorto nel leggere l’orario delle lezioni. Lo guardo in attesa fin quando lui non se ne rende conto.
<< Ah! Ehm … >> balbetta. << Sono John Smith>>.
Lo guardo. Non starà dicendo sul serio? Ovvio che non dice sul serio. È che non vuole dirmi il suo nome. Che scema che sono!
<< Ok>> dico, evidentemente delusa. << È ovvio che non vuoi dirmi come ti chiami. Beh, quando vorrai farlo, sai già qual è il mio armadietto. Ci si vede in giro, “John Smith”>>. Lo saluto e me ne vado.
Non so se ho fatto bene a trattarlo così. Ma ora non voglio pensarci. Se, magari, avevo un minimo di possibilità con lui, ora è sicuro che l’ho persa.
Che stupida! Stupida, stupida, stupida!

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Suona la campanella della seconda ora. Adesso ho lezione di Astronomia.
Vado al mio armadietto e prendo il necessario. Poi raggiungo la classe. Mia mi sta già aspettando lì. Ci piace arrivare sempre prima degli altri, così possiamo prendere i posti migliori: non troppo avanti, altrimenti sei costretto a seguire tutta la lezione, ma neanche troppo infondo, altrimenti la prof ti darà la colpa per tutto ciò che succede di sgradevole in classe. È notoriamente provato che, secondo i professori, quelli che siedono all’ultimo banco sono gli alunni peggiori, ed è sempre colpa loro. Non lo dico io, lo dice Teen Magazine.
Io e Mia entriamo. Siamo le prime. Ci sediamo al solito posto e aspettiamo che entrino gli altri.
<< Allora>> dice Mia per ammazzare il tempo. << Ho saputo che sei andata dal preside>>
Annuisco. << Crubs ha scoperto la foto sul mio sito, quella in cui si scaccola>>
Mia ride. << Ah ah! Si, me la ricordo quella foto! È epica!>>
Rido anch’io << Si, lo è>>.
<< E cosa ti ha detto il preside?>>
Alzo le spalle. << Nulla di serio. Non mi ha neanche punito>>
<< Menomale>> commenta lei.
C’è un minuto di silenzio. << Fuori dalla segreteria c’era il ragazzo nuovo>> dico.
Sul volto di Mia spunta un sorriso malizioso. << Beh?>>
<< Beh cosa?>>
<< Che ti ha detto, sciocca?! Perché ti ha parlato, non è vero?>>
Scrollo le spalle. << Beh, si. Ma l’ho solo accompagnato all’armadietto>>
Lei mi dà una pacca sulla spalla, emozionata. << Davvero? Chi è? Come si chiama? Da dove viene? Qual è il numero del suo armadietto? Ha la ragazza?>>
<< Ehi! Calmati! Ci ho parlato solo per dieci minuti!>>
<< Beh, ma ti avrà detto come si chiama, no?>>
Faccio uno sbuffo. << Ptf. Ha detto di chiamarsi “John Smith”>>
<< Che nome insolito>>
<< È un nome inventato, Mia! Sveglia! È ovvio che non ha voluto dirmi come si chiama!>>
Lei ci pensa un po’. << Magari non è così. Magari è il suo vero nome>>
Penso a quella possibilità. Forse ha ragione lei. È il suo vero nome? No. Non può esserlo. Non dopo la scartata che gli ho fatto. Sarà di sicuro un nome inventato. Deve esserlo.
I ragazzi iniziano ad entrare in classe e, pochi minuti dopo, entra la prof. Ci alziamo tutti in piedi.
La professoressa Burton è una signora sulla sessantina. Porta un maglione di lana rosa e un paio di occhiali di plastica rossi, appesi a una catena intorno al collo. Ha capelli ricci, tendenti al grigio. Fa un gran sorriso.
<< Buongiorno classe!>> esclama.
<< Buongiorno professoressa Burton>> diciamo noi, all’unisono. Lei ci fa cenno di sederci e noi ubbidiamo.
La Burton mi è molto simpatica. Non è una di quei prof cattivi, è molto divertente e molto dolce, seppur la sua materia sia noiosissima. Inizia la sua lezione su Marte, quando ad un certo punto qualcuno bussa alla porta. Harris la apre e infila la testa nell’aula.
<< Professoressa Burton, perdoni l’interruzione. È arrivato un nuovo studente>>.
<< Oh, fantastico! Lo faccia entrare>> risponde lei entusiasta, con una voce acuta.
Per una attimo mi trovo spiazzata. “Ti prego” penso “Fa che non sia lui, fa che non sia lui, fa che non sia lui!”.
Il preside tiene la porta aperta e lui entra.“Fantastico. Sono fregata”.
Harris chiude la porta. Lui fa scorrere gli occhi sulla classe, prima di posarli sulla professoressa.
<< Come ti chiami?>> chiede lei.
Lui sembra nervoso, ma risponde titubante. << John Smith>>.
Chiudo gli occhi. Non voglio guardare. Ho le mani sudate e mi sento avvampare. Sento la gamba destra che mi trema e le farfalle nello stomaco. Quello è il suo vero nome, e io sono una stupida.
<< Fantastico!>> esclama la Burton << E di dove sei?>>
<< To … >> comincia lui, ma poi sembra accorgersi dell’errore e si ferma prima di pronunciare la parola per intero. << Santa Fe>>.
<< Ragazzi, diamogli un caloroso benvenuto>>
Tutti battono le mani, tranne me ovviamente. La professoressa Burton gli fa cenno di sedersi in un posto libero fra altri due studenti. In mezzo all’aula. È un ottimo posto, peccato che è solo tre file davanti al mio. La professoressa si volta per ritornare alla cattedra e lui inizia a camminare lungo il corridoio, diretto al posto.
Mentre passa accanto al banco che Mark James condivide con Jessica, lui allunga un piede e gli fa lo sgambetto. John perde l’equilibrio, ma riesce a rimanere in piedi. Le risatine fanno il giro dell’aula. Io non lo trovo divertente.
La prof si volta di scatto. << Che cosa è successo?>>
John non risponde e lancia un’occhiata torva a Mark. Lo guarda fisso negli occhi e nell’aula si diffonde un mormorio beffardo.
John guarda il suo posto, due file più il la, poi torna a guardare Mark. << Che cosa vuoi?>> dice con tono freddo.
Mark distoglie gli occhi e si guarda intorno. Si riassesta sulla sedia e lo fissa di nuovo. << Che c’è? Dici a me?>> chiede a sua volta.
<< Mi hai fatto lo sgambetto mentre passavo. E prima, nel corridoio, mi sei venuto addosso. Ho pensato che forse vuoi qualcosa da me>>.
<< Che cosa succede?>> chiede la professoressa Burton.
John si volta verso di lei. << Niente>>, risponde, poi torna a guardare Mark. << Allora?>>
Lui stringe la presa sul banco, ma rimane in silenzio. Continuano a fissarsi a vicenda, finché Mark non sospira e distoglie lo sguardo.
<< Proprio come pensavo>>, commenta John, guardandolo dall’alto in basso. Poi riprende a camminare. Raggiunge il suo posto e si siede fra Kelly Brain, una ragazza coi capelli rossi e le lentiggini e Big Mike, un ragazzo in sovrappeso di cui nessuno sa il vero nome, che ora guarda John a bocca aperta.
La prof è in piedi accanto alla cattedra. Sembra un po’ turbata, ma poi lascia perdere e continua la sua lezione, spiegando perché Saturno è circondato da anelli composti in prevalenza da particelle di ghiaccio e di polvere.
Smetto subito di ascoltarla. Non posso credere a quello che è successo. Guardo Mia. Anche lei sta fissando sbalordita John. Ha avuto proprio un bel fegato. Di solito io non faccio mai queste cose. Vorrei, ma ogni volta mi rimbombano in testa le parole di Mary: “Non farti notare, non attirare troppo l’attenzione”. E così mi trattengo sempre. Cerco di tenere i miei compagni a debita distanza. Il confine è sempre molto sottile: interagisco con loro a sufficienza per non dare nell’occhio e non passare per l’asociale, mantenendo però un profilo basso.
Oggi ho fatto un pessimo lavoro in questo senso.
Inspiro a fondo ed espiro lentamente. Ho ancora le farfalle nello stomaco e quel fastidioso tremore alla gamba. Le mani sono diventate più calde. Torno a guardare John. Dalla finestra penetra un leggero fascio di luce che gli ricade sul volto. È davvero bellissimo. Big Mike, accanto a lui, continua a guardarlo con la bocca spalancata. Lui si sente ovviamente a disagio e così si guarda intorno. Poi i suoi occhi incrociano i miei. Mi fa un sorriso caloroso. Vorrei ricambiare, ma resto bloccata. Lui distoglie lo sguardo e fissa gli occhi sulla lavagna. Non credo che sia interessato davvero alla lezione. Nessuno lo è.
Mia mi sussurra qualcosa all’orecchio, ma io non sento che dice. Sono ancora turbata dal suo sorriso. Apro e chiudo le mani; ho i palmi sudati e bollenti. Faccio un altro respiro profondo. Mi si sta annebbiando la vista. Passano cinque minuti. La professoressa Burton continua a parlare, ma io non la sento. Stringo i pungi, poi li riapro e mi si spezza il fiato in gola.
I palmi delle mie mani sono incandescenti. Il palmo della mano destra emana una luce tenue, il palmo della mano sinistra è color rosso vivo.
Serro le dita. Poi le riapro. La luce piano piano si sta facendo più intensa. Stringo le mani a pugno e me le poso in grembo; sono bollenti e tremano. Non capisco cosa succede. Devo essermelo immaginato. Ma se me lo sono immaginato allora perché fa così male?
Mia mi vede, sembra avere un’aria preoccupata.
<< Valeri, stai bene?>> mi chiede. Io annuisco. Mi accorgo che sto iniziando a tremare.
<< Sto bene …>> dico a fatica. Deglutisco. << Sto bene … >> ripeto. Credo che più che convincere lei sto cercando di convincere me stessa. È ovvio che non sto bene, cavolo!
Guardo l’orologio sulla parete e vedo che la lezione è quasi finita. “Se riesco a uscire di qui” dico “Bacerò i piedi di Gabe”.
So che non lo farò. Non lo farei mai. Ma non so che altro pensare.
Mia mi posa una mano sulla spalla. << Valeri … >> dice, ma non sento il resto della frase. Sto cominciando a sudare.
Comincio a contare i secondi: sessanta, cinquantanove, cinquantotto, è come se qualcosa stesse per esplodermi tra le mani, ma non voglio aprirle. Mi concentro sul conto alla rovescia. Quaranta, trentanove. Ora sento un formicolio, come se qualcuno mi stesse infilando dei piccoli aghi nel palmo delle mani. Ventotto, ventisette. Apro gli occhi e guardo fisso davanti a me, concentrandomi su John, nella speranza di distrarmi. Vederlo non fa che peggiorare le cose. Ora non sembrano più aghi, ma chiodi. Chiodi che sono stati scaldati in un forno fino a diventare incandescenti. Otto, sette.
Suona la campanella. In un attimo mi alzo e mi fiondo fuori dalla porta, sorpassando velocemente i miei compagni. Ho le vertigini, mi sembra di vacillare. Proseguo lungo il corridoio, ma non ho idea di dove andare. Mi fermo e appoggio la fronte all’anta di metallo di un armadietto. Scuoto la testa. Nella fretta ho scordato lo zainetto in classe. Qualcuno mi dà uno spintone.
<< Che succede Rigida?>>
Faccio qualche passo, incespicando; poi mi volto.
Jessica è li che mi guarda e sorride. << Qualcosa non va?>> chiede. Noto che Mark è dietro di lei.
<< No>> rispondo. Mi gira la testa. Ho la sensazione di essere sul punto di svenire e ho le mani incandescenti. Qualsiasi cosa stia succedendo, non poteva capitare in un momento peggiore.
Jessica mi da un atro spintone. << Non fai più tanto la dura ora, eh?>>.
Il mio equilibrio è troppo precario per riuscire a tenermi in piedi, inciampo da sola e cado a terra. John si piazza davanti a Jessica.
<< Lasciala in pace>>, le dice.
<< Questa è una cosa che non ti riguarda, Santa Fe!>>, replica lei.
<< Vedi una ragazza che si sente male e subito le dai contro? Però, che squallore>>.
<< Ehi!>> dice Mark. << Non parlare così alla mia ragazza>>.
John irrigidisce la mascella e serra i pugni, ma non dice niente. Mark gli da uno spintone. Lui perde un po’ l’equilibrio, ma non cade.
<< Cosa c’è?>> lo istiga Mark. << Non fai più il duro, senza professori intorno?>>.
John non risponde. Io comincio a rialzarmi. Lui allunga la mano per aiutarmi, ma, non appena mi tocca, il dolore alle mani esplode e mi sento come se un fulmine mi avesse centrato. Lo rivedo di nuovo. Il sangue, il caos, la distruzione, la guerra, la donna che scappa con il fagotto in mano, un’astronave che parte. Ritraggo con uno scatto la mano, mi giro e me ne vado nella direzione opposta a quella da cui sono venuta. So che tutti mi considereranno una vigliacca per essermela svignata, ma mi sembra di essere sul punto di svenire. Ci penserò più tardi a ringraziare John ed affrontare Jessica. Adesso ho soltanto bisogno di trovare una stanza in cui chiudermi a chiave. Voglio stare da sola, e voglio che nessun’altro mi veda così.
Arrivo in fondo al corridoio e mi guardo intorno. Le aule sono tutte occupate. C’è né solo una in cui posso rifugiarmi, ed è la stanza del bidello. Mi ci precipito e chiudo la porta a chiave. Sono circondata da scope, stracci e detersivi. Giro la levetta per far scattare la serratura. Mi appoggio con la schiena contro la porta e mi accascio a terra. Non voglio aprire le mani. Da quando ho visto la luce ho tenuto sempre i pugni chiusi. Stramazzo al suolo. Mi gira la testa e mi bruciano le mani. Abbasso lo sguardo e noto che la mano destra emette ancora una luce pulsante. Comincio a farmi prendere dal panico.
Serro gli occhi e scuoto la testa. È solo un’allucinazione. Tutto questo non è reale. Devo calmarmi. Una volta Mary mi spiegò che quando non ci si sente bene il modo peggiore per superare il malessere è farsi prendere dal panico. Bisogna fare dei respiri profondi e pensare ad altro.
È quello che faccio.
Sono ancora seduta sul pavimento, il sudore che mi fa bruciare gli occhi. Le mani mi fanno un male terribile. Comincio ad ondeggiare avanti e indietro sul pavimento, sentendo dolore in tutto il corpo. Rilasso le palpebre, ma non le apro. Devo restare calma. Inizio a fare dei lunghi sospiri e a controllare la respirazione. Inspiro. Espiro. Inspiro. Espiro. Sta funzionando. Inspiro. Espiro. Comincio a pensare alle mie foto. Sono in un campo di grano e faccio foto ai bambini che giocano lì intorno. Inspiro. Espiro. Mi sto rilassando. Il mio battito rallenta. Inspiro. Espiro. Sono calma. Ho smesso di tremare e non sento più dolore alle mani. Apro gli occhi. Il bagliore non c’è più. Apro le mani e provo un sollievo enorme. Non bruciano. Forse me lo sono solo immaginato. Forse nulla era reale. Mi sento un po’ meglio, ma non ho ancora la forza di rialzarmi.
<< Valeri? Apri, sono io>>, dice una voce.
Provo un sollievo enorme. È la voce di Mary, l’unica al mondo che voglio sentire.

Angolo Scrittrice.
Ciao ragazzi! Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Tanti auguri e Buon anno! E mi raccomando, COMMENTATE! :D

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Mi trascino su per la porta e la apro.
Mary entra di scatto e richiude la porta dietro di se. Indossa una semplice tuta da ginnastica, un grembiule da cucina ed è tutta sporca di farina. Da come è vestita presumo stesse preparando una torta. Sono così felice di vederla che mi viene voglia di saltarle al collo e abbracciarla. Ci provo, ma ho le vertigini e ricado a terra.
<< Va tutto bene lì dentro?>> tuona la voce del preside fuori alla porta.
<< Va tutto bene. Ci dia solo un minuto, per favore>>, risponde mia madre con un tono calmo. Mi guarda per un po’, poi mi poggia delicatamente una mano sulla fronte, ma la ritrae subito con uno scatto.
<< Valeri! Ma tu scotti!>> dice. Poi mi fissa. << Cosa è successo?>> chiede, stavolta con un tono serio.
Io non so che rispondere. In un certo senso è anche imbarazzante. Dovrei raccontarle delle mie mani che si sono illuminate, delle vertigini, del sudore, del fatto che sono stata attaccata e che John mi ha difeso, e che subito dopo sono scappata rovinando anche quel minimo di reputazione che avevo. Dovrei, ma non lo faccio.
<< Niente>> mento. << Sto bene, ora>>
La faccia di Mary si contrae in una smorfia. So che non mi crede, ma non lo dice.
<< Devo chiamare un ambulanza?>> chiede da fuori il preside.
<< No>> risponde a sorpresa Mary. Sono sconvolta. Non posso pensare che mi creda. O forse si? La guardo sbalordita. Lei mi sorride e il suo viso si illumina.
<< Grazie al cielo>> dice in un mormorio. Credo stesse parlando da sola.
Harris apre la porta e infila la testa nella stanza. << Signora Hart? È tutto apposto?>>
Mary alza gli occhi al cielo. << Si, va tutto bene. Ci dia ancora trenta secondi>>, dice lei, poi guarda me. << Il tuo preside si vuole intromettere>>.
Io accenno un sorriso. << Lo so, è molto apprensivo>>. Lei annuisce. Io inspiro a fondo ed espiro.
<< È successa una cosa strana>> dico a fatica.
<< Ne parliamo mentre andiamo a casa>> mi liquida lei. << Riesci a camminare?>>
<< Penso di si>>. Mi sento malsicura, ancora traballante. Mary mi aiuta ad alzarmi; mi aggrappo al suo braccio. << Prima di andare devo recuperare lo zainetto>>, gli dico.
<< Dov’è?>>
<< L’ho lasciato in classe>>
<< Qual è il numero dell’aula?>>
<< Diciassette>>
<< Vediamo di metterti in macchina, prima di tutto. Poi andrò a prendere lo zainetto.>>
Mi aggrappo alle sue spalle. Lei mi sostiene cingendomi in vita col braccio sinistro. Anche se la campanella è già suonata per la terza volta, sento delle voci in corridoio.
<< Cerca di camminare in maniera normale e più eretta possibile>>
Faccio un respiro profondo. Provo a raccogliere tutte le forze che mi sono rimaste, per affrontare il lungo percorso fino all’uscita. << Togliamoci il pensiero>>, mugugno. Mi asciugo il sudore dalla fronte e seguo Mary fuori dallo stanzino del bidello.
Il preside è ancora nel corridoio.
<< Soltanto un brutto episodio asmatico>>, gli dice Mary, poi prosegue.
In corridoio c’è un gruppo di una ventina di persone, quasi tutte con la macchina fotografica appesa al collo. Le riconosco, sono del giornalino della scuola. Aspettano di entrare nella camera oscura per la lezione di Fotografia. Per fortuna non c’è nessuno che conosco.
Cerco di camminare senza barcollare troppo, un passo alla volta. Sento le persone bisbigliare.
<< Che balorda!>>
<< Ma viene a scuola qui?>>
<< Che ci faceva nello stanzino del bidello?>>
<< Come mai è così rossa?>>
<< Ma quella non è la Rigida?>>
Si mettono tutti a ridere.
Per fortuna non ci faccio caso. Sono in grado di concentrare il mio udito su determinati suoni, ma riesco anche a escluderne altri. È una dote che ho fin da piccola. Aiuta, quando c’è bisogno di concentrarsi in luoghi affollati. Perciò escludo i rumori e seguo Mary a distanza ravvicinata. Ad un tratto Mia mi ferma.
<< Vale!>> dice, ha le lacrime agli occhi. Mi abbraccia e io devo fare un passo indietro per non perdere l’equilibrio. << Mi hai fatto stare in pensiero>>. Si stacca da me e si asciuga le lacrime col palmo della mano. << Allora? Che è successo?>>
Guardo Mary. Entrambe sappiamo che ciò che ha detto al preside non è vero. Non ho mai sofferto d’asma in vita mia. Ma, se dobbiamo mentire su questo fatto, è meglio dire la stessa cosa a tutti.
<< Nulla. Solo un brutto episodio asmatico>>
Mia tira su col naso. Sembra confusa. << Non sapevo soffrissi d’asma>>
Alzo le spalle. << Ora lo sai>>. La saluto e lei si dirige in classe. Continuo a seguire Mary. Ogni passo mi pesa come se fossero dieci, ma alla fine arriviamo all’uscita. Mary mi tiene aperta la porta e io cerco di camminare da sola fino alla macchina, che è parcheggiata lì davanti. Per gli ultimi venti passi mi aggrappo di nuovo alle sue spalle. Poi lei apre la portiera e io salgo.
<< Hai detto la diciassette?>>
<< Si>>.
<< Avresti dovuto tenerlo con te. Non si sa mai. Quando ti ho chiamato e tu non rispondevi mi sono spaventata molto>>
<< Lo so. Scusa>>
<< Non possiamo permetterci di sbagliare in nessun modo>>.
Mary chiude la portiera e rientra nell’edificio.
Io mi rannicchio sul sedile e cerco di rallentare ancora un po’ il respiro. Sento ancora il sudore sulla fronte.
Non ho idea di cosa volesse dire Mary con quell’ultima frase. Perché non possiamo permetterci di sbagliare? Che succede altrimenti?
Mi tiro su e abbasso l’aletta parasole, per guardarmi allo specchio.
Ho il viso più rosso di quanto pensassi e gli occhi lucidi. Nonostante il dolore e la stanchezza, però, sorrido. Ripenso a John, che si è messo contro Jessica e Mark per proteggermi. Vuol dire che non ce l’ha con me per la mia scartata di stamattina. Questo è un sollievo.
Mary esce dalla scuola col mio zainetto. Gira intorno alla macchina, apre la portiera e butta lo zaino sul sedile.
<< Grazie>>, dico.
<< Di niente>>.
Quando usciamo dal parcheggio mi affaccio al finestrino. Sta cominciando a piovere e le prime gocce si posano sul vetro e poi scivolano giù. Mi guardo le mani. È incedibile che fino a pochi minuti fa le ho viste illuminarsi. Ora sono perfettamente normali. Forse ha ragione Mia. Non sto affatto bene.
<< Allora?>> domanda Mary.
La guardo. << Allora cosa?>>
Lei guarda fisso la strada. Ha un volto serio. << Vuoi dirmi cosa davvero è successo, o devo iniziare a farti domande assurde per estrapolarti la risposta?>>
Appoggio la testa allo schienale. Faccio un respiro profondo e poi parlo. << Ero in aula quando è successo. Credo sia iniziato tutto quando ho sentito la gamba tremare e le farfalle nello stomaco. All’inizio pensavo fosse colpa del ragazzo nuovo … >>
<< Quale ragazzo nuovo?>>
<< Il ragazzo nuovo. Si chiama John Smith. È di Santa Fe. È arrivato stamattina.>>
<< John Smith … >> ripete lei. << Che strano nome … >>
Annuisco. << Lo so. Comunque poi ho capito che non era quello. Ho iniziato a sudare e le mie mani si sono accaldate. Avevo le vertigini e vedevo tutto sfocato>>.
<< Avevi la febbre?>>
Ci penso su. << Credo di si.>> Poi faccio un risolino. << Pensa, ad un certo punto ho visto le mie mani illuminarsi>>.
Mary frena di colpo e la macchina sgomma sulla strada bagnata, cambiando bruscamente direzione. Mi tengo stretta allo sportello. Da un’altra macchina un uomo grida qualche offesa.
<< Mary, ma che ti prende?>>
Lei guarda prima me, poi continua a fissare la strada. Ha il respiro affannoso. Deglutisce a fatica.
<< Le tue mani si sono illuminate?>>, chiede.
<< Che cosa?>>
Lei mi guarda. Gli occhi sgranati. Nella sua voce noto il puro terrore. << Le tue mani si sono illuminate?>>
Mi fa quasi paura. Non capisco perché è così terrorizzata. << Ehi, calmati>>, dico. << È stata solo un’allucinazione dovuta dalla febbre … >>
<< Ne sei sicura?>>
Ci penso un po’ prima di rispondere. In effetti, sembrava così reale. Lo sentivo così reale. Ma annuisco. << Si.>>
Lei sembra rilassarsi. Fino ad ora non avevo notato che aveva i muscoli del corpo contratti. << Bene>> farfuglia. Fa retromarcia e riparte.
Per  tutto il tempo nessuna delle due dice più una parola. Sono stranita dal comportamento insolito di mia madre. Non l’ho mai vista così.
Di cosa aveva paura? Perché è stato così facile per lei credere che le mie mani si siano illuminate davvero?
Non lo capisco. Non ho il coraggio di chiederglielo. Spero solo che ora a casa non ci sia Gabe. Non voglio vederlo, peggiorerebbe solo la situazione.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Quando sono tornata a casa Gabe non c’era. Mia madre ha detto che era uscito per fare delle commissioni, ma io so che è andato a bere con i suoi putridi amici.
Vado in camera mia e mi corico sul letto. Devo rilassarmi un po’, oggi sono successe troppe cose strane. Provo a distrarmi.
Inizio a pensare alle mie foto e ai miei disegni. Al fatto che il preside mi abbia difeso con il professor Crubs. È stato gentile, e inaspettato. Come l’aiuto di John. Chi avrebbe immaginato che non ce l’aveva con me? È stato così carino da parte sua. Infondo è un ragazzo molto dolce, oltre che carino. Eccome se è carino! Ha un fascino … misterioso. Chissà lui cosa pensa di me.
Continuo a pensare a John, fino a quando qualcuno non bussa alla mia porta. Mary entra.
<< Il tuo zaino>>, dice. Lo lancia e io lo prendo al volo.
<< Grazie>>,  dico. Apro lo zaino e inizio a cacciare le cose che contiene. Il mio quaderno. Il libro di Astronomia. La mia macchina fotografica. Sono investita da un’ondata di frustrazione.
<< Oh! Quelli stronzi di m … >>. Mi fermo prima di completare la frase. A Mary non piace che io dica troppe parolacce, anche se a volte la sento imprecare di nascosto, e piangere.
<< Che succede?>> mi chiede. Poi si avvia a chiudere la porta.
Respiro a fondo. Devo sembrare calma, anche se già so che non me lo perdonerà. << Il mio telefono. Non c’è.>>
La porta si chiude con un tonfo. << Cosa?>>. La voce di Mary è fredda e arrabbiata. << E dov’è?>>
<< Questa mattina ho avuto un piccolo diverbio con un ragazzo che si chiama Mark James. Probabilmente è stato lui, con la sua ragazza, a prenderlo.>>
<< Valeri, sei stata a scuola per poco più di due ora. Come diavolo hai fatto a litigare in così poco tempo? Dovrei averti insegnato come comportarti.>>
<< È la scuola superiore … io sono tra gli ultimi arrivati. È facile … >>
Mary prende il suo cellulare e compone il mio numero. Poi chiude il telefonino con uno scatto. << È spento.>>
<< Ovviamente.>>
<< Cosa è successo?>> chiede, e riconosco il suo tono di voce: è quello che assume quando riflette sulla prossima mossa da fare.
<< Niente. Soltanto una stupida discussione. Probabilmente il cellulare mi è caduto per terra mentre lo mettevo nello zainetto>>, dico, ma so che non è andata così. << Non ero nello stato d’animo migliore. Forse sarà lì che mi aspetta al banco degli oggetti smarriti.>>
Mary si guarda intorno e sospira. << Si, forse.>> Ha gli occhi rossi iniettati di sangue. Ha i capelli arruffati e l’aria di una che potrebbe crollare da un momento all’altro per lo sfinimento. L’ultima volta che l’ho vista dormire è stato tre giorni fa, poco prima che salissimo sulla barca di Gabe e che mi procurassi la mia terza cicatrice.
<< Ci sono discussioni in ogni scuola, ogni giorno. Ti assicuro che non succederà niente soltanto perché un bullo qualsiasi ha dato del filo da torcere alla ragazza nuova>>.
<< Si, ma non deve capitare per forza anche a te.>>
Sospiro. << Mamma, sembri sul punto di morire. Fatti un sonnellino. Possiamo riparlarne dopo che avrai dormito un po’.>>
<< C’è molto di cui dobbiamo parlare.>>
<< Non ti ho mai vista così stanca. Dormi per qualche ora, poi parleremo.>>
Lei annuisce. << Probabilmente un sonnellino mi farà bene.>>
Se ne va nella sua stanza e chiude la porta. Io esco e faccio quattro passi in giardino. Il sole è nascosto dagli alberi e soffia un vento freddo.
Solo ora mi rendo conto di aver scordato anche la bici a scuola. Spero che almeno quella l’abbiano lasciata stare.
Sono stanca di dovermi sempre guardare le spalle, per assicurarmi di non essere seguita. Non solo a scuola, ma anche nella vita. Mary mi ha cresciuto così.
Mi abbasso a toccare la cicatrice sulla caviglia sinistra. Chissà cosa mi avrebbe detto la mia vera madre se ora fosse qui, se non mi avesse abbandonato. In un certo senso ha fatto bene, perché altrimenti non avrei mai conosciuto Mary, ma d’altra parte sono furiosa, perché mi ha abbandonato senza neanche pensarci due volte, e, se l’ha fatto, alla fine ha scelto l’abbandono comunque.
Tocco le cicatrici sulla caviglia destra. Tre cerchi perfetti. Chissà se è ancora viva. E se lo è, chissà se la rincontrerò mai. Sono sicura che non la riconoscerei. Non so neanche se lei lo farebbe. Cosa direbbe delle mie cicatrici? Come spiegherebbe quella sulla gamba sinistra? Quante domande mi assalgono. Quante risposte mi mancano.
Riuscirò mai a colmarle tutte? Se si, quando?
Spero presto.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Vado nella mia stanza e mi distendo sul letto. La mattinata mi ha sfinito e mi si chiudono gli occhi.
Quando li riapro, il sole è alto sopra le cime degli alberi. Esco dalla stanza. Mary è seduta al tavolo della cucina, col computer portatile aperto. Gabe ancora non c’è. Non ho idea di cosa stia facendo Mary al pc. Di solito naviga sempre in internet in cerca di notizie su rapimenti, morti strane o persone che fanno cose assurde. Mi chiedo se lo stia facendo anche ora.
<< Hai dormito?>> le chiedo.
<< Non molto. Sto controllando le notizie su internet.>>
<< Qualche novità?>>
Scrolla le spalle. << In Africa, un quattordicenne è caduto dalla finestra del quarto piano e non si è fatto neanche un graffio. In Bangladesh, c’è un quindicenne che sostiene di essere il Messia.>>
Rido. << E perché a noi dovrebbe interessarci cosa fanno questi?>>
<< Perché non è da tutti cadere dal quinto piano senza farsi un graffio. Magari è un alieno.>>
Quella risposta mi lascia un attimo destabilizzata. Mary lo nota, ride e mi fa l’occhiolino. << Stavo scherzando!>>
Respiro. Non mi ero accorta di trattenere il fiato. Sorrido e mi siedo al tavolo. Mary chiude il computer. Il suo orologio segna le 11:36. Ho dormito per circa due ore.
<< Come stai?>>, mi chiede.
Sospiro. Avevo quasi dimenticato quello che è successo stamattina. Credo che la dormita mi abbia fatto bene, perché sono arzilla e riposata. << Benone!>> rispondo con un sorriso.
<< Fantastico. Ora puoi spiegarmi cosa è successo questa mattina?>>
Sbuffo. << Te l’ho già detto. È solo una stupida discussione. Perché ti scandalizzi tanto?>>
<< Perché non voglio che tu vada in giro ad aggredire la gente!>>
<< Io non ho aggredito nessuno>>, cerco di dire con il tono più calmo possibile.
<< Ma potresti farlo! No si sa mai. Non puoi fare del male alla gente.>>
Ora sono decisamente indispettita. Batto un pugno sul tavolo. << Oh, ma insomma! Guardami! Sono piccola e esile. Non ho muscoli alle braccia e non sono abbastanza magra per essere agile! Non riuscirei a far del male ad una mosca neanche se volessi!>>
Ci guardiamo per un po’. Non riesco a credere di aver detto davvero quelle cose. Ma se ci rifletto su, è vero. Non mi vedo come una persona violenta, e con la struttura fisica che ho non credo che se dessi un pugno a qualcuno potrei fargli molto male. Non capisco di cosa si preoccupa.
Mary mi guarda negli occhi. Poi il suo sguardo si addolcisce, e mi fissa in modo molto tenero, come si guarda una bambina quando ti dice che ti vuole bene.
<< Oh, Vale.>>, dice, con dolcezza. << Tu non hai idea di che cosa sei capace.>>
Quella frase mi lascia senza fiato. Cosa intende dire? Di che cosa sono capace? Perché non me lo spiega?
Mary sbadiglia e si stiracchia sulla sedia. << Sarà meglio che torni a letto. Cercherò di dormire un altro po’.>>
Io annuisco, ma il mio sguardo è assente. Lei si alza e mi bacia in fronte.
Quando Mary se ne va, io rimango seduta al tavolo della cucina, aprendo e chiudendo le mani, respirando a fondo e cercando di calmare tutto quanto dentro di me, dato che in questo momento sono un groviglio di emozioni. Ovviamente, non funziona.
La casa è un po’ in disordine, a parte quel poco che Mary è riuscita a fare mentre io ero a scuola. Capisco che è propensa a partire, ma non al punto da non essere persuasa a rimanere. Forse trovare la casa pulita e in ordine al suo risveglio le farà piacere.
Inizio dalla mia stanza. Spolvero, lavo i vetri, spazzo il pavimento. Quando tutto è pulito, rifaccio il letto. Poi metto via i vestiti, appendendoli o ripiegandoli. Il cassettone è vecchio e traballante, ma non ho il coraggio di chiedere a Mary di comprarmene un altro. Lo riempio comunque, e poi ci metto sopra i pochi libri che ho. In un batter d’occhio, la stanza è pulita e tutto ciò che ho è riposto e ordinato.
Passo alla cucina, mettendo via i piatti, pulendo il piano di lavoro. In questo modo distolgo l’attenzione dalla mia conversazione con Mary. Mentre faccio le pulizie penso a Mark James. Per la prima volta in vita mia mi sono opposta alle prepotenze di qualcuno. L’ho sempre desiderato, ma non l’avevo mai fatto, perché volevo seguire il consiglio di Mary di mantenere un profilo basso. Oggi però è andata diversamente. Ho provato una grande soddisfazione a rispondere a tono alla prepotenza. E poi c’è la questione del cellulare rubato.
Certo, potrei procurarmene facilmente un altro, ma che fine farebbe la giustizia?

Angolo Scrittrice.
Ciao ragazzi! Grazie per leggere questa piccola parte, perchè significa che avete continuato a leggere tutto il capitolo, fino alla fine.
Mi scuso in anticipo per la brevità degli ultimi due capitoli. Non è per mancanza di idee, è proprio una scelta dell'autore, anche per dare un po' più di suspance alla storia. Ringrazio quei pochi che l'hanno letta, ma ... gradirei qualche commento. Non è per qualcosa, ma mi sembra di notare che questa storia non ha molto successo, e se è così non vedo perchè dovrei continuarla.
Quindi, se vi piace e se volete che continui a pubblicare dei capitoli, fatemelo sapere.
Accetto qualunque cosa: complimenti, critiche, commenti neutri, consigli ...
Fatemi sapere.
With much love <3
la vostra ValeryJackson

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Apro gli occhi prima che suoni la sveglia. La casa è fredda e silenziosa.
Mi alzo e mi trascino in soggiorno, ancora assonnata.
Mary è seduta al tavolo della cucina a leggere il quotidiano locale, mentre beve una tazza di caffè. << Buongiorno. Come ti senti?>> mi chiede.
<< Alla grande!>> Mi preparo una scodella di cereali e mi siedo di fronte a lei. Stamattina non c’è puzza di alcool in giro e la casa è troppo silenziosa. << Dov’è Gabe?>>
Mary fa spallucce, con fare disinteressato. << Non è tornato ieri sera. Non ho idea di dove sia.>>
Non posso fare a meno di sorridere del poco interesse che mia madre dia alla cosa. << Bene. Si sta meglio senza la puzza d’alcool in giro.>>
Lei annuisce con un cenno d’assenso. Mangio un po’ dei miei cereali in silenzio, mentre lei finisce di leggere il suo giornale.
<< Cosa farai oggi?>>, chiedo.
Lei sospira. << Devo fare una serie di commissioni. Stiamo finendo i soldi e non voglio chiederli a Gabe. Penso di andare a fare un prelievo.>>
Quando mia madre mi ha trovato davanti alla sua porta, nella mia culla c’era anche sacco pieno di diamanti, smeraldi e rubini. Mary li ha venduti tutti e ha depositato il denaro in un conto corrente all’estero. Non so quanti soldi siano e non chiedo mai. So che è abbastanza per dieci vite, se non di più. Mary fa più o meno un prelievo all’anno.
<< Forse è meglio di no>>, aggiunge poi, come ripensandoci. << Non voglio allontanarmi troppo, nel caso succedesse qualcos’altro, oggi.>>
Siccome non voglio attribuire troppa importanza a ciò che è successo ieri, respingo l’idea con un cenno. << Non avrò problemi. Non ti preoccupare. Vai a prendere i soldi.>>
Guardo fuori dalla finestra. Sta spuntando l’alba, e una luce fievole si diffonde su ogni cosa. La nostra macchina è coperta di rugiada. È passato un bel po’ dall’ultima volta che abbiamo affrontato un vero inverno. Non ho un vero giubbotto pesante, e quasi tutti i maglioni mi stanno stretti.
<< Sembra che faccia freddo. Forse dovremmo andare a comprare dei vestiti.>>
Mary annuisce. << Ci stavo pensando ieri sera. È per questo che devo andare in banca.>>
<< Allora vai. Oggi non succederà niente, te lo prometto.>>
Finisco di mangiare i cereali, metto la scodella sporca nel lavandino e vado a farmi un doccia. Dieci minuti dopo sono pronta. Ho messo un paio di jeans e una maglietta termica color pesca, con le maniche arrotolate fino al gomito.
Mary mi accompagna a scuola.
<< Sei sicura che posso andare?>>, chiede, preoccupata.
<< Si, certo. Fidati di me una buona volta!>>
Lei annuisce cupa. << Io mi fido di te.>>
Appoggio la testa sul finestrino e guardo fuori. In cielo non c’è una nuvola, eppure la gente gira con cappotti pesanti, cappelli, sciarpe e guanti. Mi sembra strano.
Appena arriviamo davanti scuola. C’è una fila di scuolabus davanti alla facciata dell’istituto. Mary si ferma su un lato dell’edificio. Mi porge un paio di guanti.
<< E questi a cosa dovrebbero servirmi?>>, chiedo.
Lei sospira. << Per le emergenze.>> Si accorge che non sono convinta e aggiunge << Potresti avere freddo.>>
Sorrido. << Ci sono i termosifoni dentro la scuola e il preside mi sembra un tipo serio, quindi credo che li accenderà. Non mi servono.>>
Mary mi posa una mano sulla spalla. Il suo volto è serio. << Promettimi che li terrai.>>
Annuisco lentamente e me li infilo nello zaino. Negli ultimi giorni si sta comportando in modo davvero strano. Si appoggia allo schienale del sedile e guarda i ragazzi entrare. << Non mi piace il fatto che tu non abbia il cellulare>>, dice. << Ci sono molte cose che potrebbero andare storte.>>
<< Non preoccuparti. Lo riavrò presto.>>
Mary scuote la testa. << Non fare niente di stupido. Ti aspetterò qui alla fine della giornata.>>
<< Ok.>> Scendo dalla macchina ed entro a scuola. Nei corridoi c’è un gran trambusto: studenti che si soffermano accanto agli armadietti, parlano e ridono. Alcuni mi guardano e bisbigliano qualcosa. Cerco di non farci molto caso. Mi dirigo verso il mio armadietto e lì trovo Mia ad aspettarmi. Non appena mi vede sul suo volto si forma un enorme sorriso.
<< Ehi!>> esulta, e mi stringe le braccia al collo. << Speravo fossi venuta!>>
Sorrido. È bello quando qualcuno ti vuole così bene. << Sto bene ora. Non c’è più nulla di cui preoccuparsi.>>
<< Bene.>> Mia si stacca da me e io apro il mio armadietto. Mi restano quindici minuti prima dell’inizio della lezione di Letteratura del secondo anno. Prendo l’occorrente e poi mi rivolgo a Mia.
<< Mi accompagneresti un attimo?>>, chiedo. Lei annuisce e insieme ci dirigiamo verso la presidenza. Quando entro, la segretaria mi sorride.
<< Buongiorno. Ieri ho perso il mio cellulare e mi chiedevo se qualcuno lo avesse consegnato agli oggetti smarriti.>>
Lei scuote la testa. << No, mi dispiace. Non è stato trovato nessun cellulare.>>
<< Ok, grazie.>>
Usciamo dalla presidenza. << E adesso che farai?>>, mi chiede Mia.
<< Cercherò Mark.>>, rispondo senza esitazione.
<< Sei convinta che ce l’abbia lui?>>
<< E chi sennò? Sono quasi sicura che lui e Jessica me lo abbiano rubato dopo che sono uscita dall’aula, lasciando lo zainetto lì.>>
Mia annuisce. Sa che probabilmente ho ragione. Cerchiamo Mark nel corridoio, ma non lo vedo. Scegliamo una direzione e continuiamo a camminare. Molti continuano a fissarmi e bisbigliare, ma non mi dà fastidio. Poi lo vedo, quindici metri più avanti. D’un tratto sento un fremito d’adrenalina.
Ci avviciniamo. Mark è poggiato a un armadietto, con le braccia conserte, in mezzo a un gruppo di cinque ragazzi e due ragazze; parlano e ridono.
<< Sei sicura di volerlo fare?>>, chiede Mia osservandoli. Io annuisco. Voglio dare una bella lezione a quel tizio. Ieri mia madre mi ha detto che non ho idea di cosa sono capace di fare. Spero abbia ragione, perché ora voglio suonargliele. Mi avvicino a passo lento al suo gruppo, quando ad un tratto qualcuno mi precede. Lo riconosco all’istante. È John. Si ferma vicino al gruppo, guarda fisso Mark e aspetta.
Lui lo nota dopo cinque secondi. << Che vuoi?>>
<< Lo sai che cosa voglio.>>
Non posso fare a meno di avvicinarmi, nonostante il mio istinto mi dica il contrario. Loro continuano a fissarsi. Intorno si assembrano dieci persone, poi venti. Mia mi raggiunge e io osservo la scena.
Mark indossa il solito giubbotto, e i suoi capelli neri sono acconciati con cura in modo da dare l’impressione che sia appena sceso dal letto, infilandosi i primi vestiti a portata di mano. Si stacca dall’armadietto e va verso John. Si ferma solo quando il suo petto è a pochi centimetri dal suo. Mark è più alto di John di circa quattro o cinque centimetri, ma hanno la stessa corporatura.
<< Fai ancora il duro senza professori intorno, Smith? Oppure hai bisogno di mammina?>>
Risatine tra i presenti.
<< Mi sa che lo scopriremo, giusto?>>
<< Già, mi sa che lo scopriremo>>, gli fa eco Mark, avvicinandosi ancora di più. John apre e stringe i pugni con tanta forza che le sue nocche stanno diventando bianche. Non sopporto quella scena. In fondo, gli devo un favore. E poi rivoglio il mio cellulare.
<< Oh, Mark! Quanto sei banale!>> esclamo, consapevole di attirare l’attenzione di tutti. Lui si gira di scatto.
<< Chi ha parlato?>>
<< Io!>>, dico alzando la mano e staccandomi dalla folla. Mark ride.
<< E tu cosa vuoi, Rigida?>>
Serro la mascella e irrigidisco i muscoli. << Il mio cellulare.>>
<< Non ce l’ho.>>
Scuoto la testa. << Ci sono due persone che ti hanno visto prenderlo>>, mento. Da come si increspano le sue sopracciglia, capisco di aver indovinato.
<< E anche se fossi stato io? Che cosa faresti?>>
Ci sono circa trenta persone intorno a noi. Non ho dubbi: entro dieci minuti dall’inizio della prima ora, tutta la scuola saprà cosa è successo.
<< Ridalle il cellulare.>> dice John con fermezza. << Ti avverto. Hai tempo fino alla fine della giornata.>> Poi si volta e se ne va.
<< Altrimenti?>> grida lui, ma John finge di non sentire, in modo che rifletta per conto suo sulla risposta.
Mi accorgo che ho i pugni serrati e che avevo scambiato il nervosismo per adrenalina. Perché ero così nervosa? L’imprevedibilità? Il fatto che fosse la prima volta che affronto qualcuno? La paura che le mie mani s’illuminassero di nuovo? Probabilmente tutt’e tre le cose.
Vado in bagno, entro in una cabina vuota e chiudo la porta a chiave. Mi siedo e respiro a fondo. Chiudo gli occhi e continuo così per un po’. Apro i pugni e cerco di rilassarmi. Ho la fronte coperta da un leggero strato di sudore.
Quando li riapro, ho paura. E se le luci ci fossero di nuovo? Fortunatamente scopro che non è così. Non ci sono. Non le vedo. Mi rendo conto di non aver neanche guardato le mie mani fino ad ora. Chissà se sono apparse e io non me ne sia accorta. No, sono sicura di no. È impossibile. Quelle luci non esistono. Altri ragazzi entrano ed escono dal bagno, e io rimango nella cabina ad aspettare, non so cosa.
Alla fine suona la campanella della prima ora; i bagni si svuotano. Scuoto la testa, amareggiata, e accetto l’inevitabile.
Sono stata una sciocca ad affrontare quel tipo. Cosa pensavo di fare? Che possibilità ho io contro un tipo così? Di sicuro ora mi prenderà ancora di più di mira. Ne sono certa. E poi c’è questo fatto del nervosismo. Devo imparare a controllarmi. Anche se sembra un’assurdità, e so che lo è, continuo a credere che quelle luci non siano state frutto della mia immaginazione. E poi da come ha reagito Mary, ieri, in macchina, ho ancora più paura. E se succedesse un’altra volta? Non ho il cellulare e Mary è già in viaggio verso la banca. Sono sola con la mia stupidità e posso rimproverare soltanto me stessa. Prendo i guanti dallo zaino e li infilo nella tasca posteriore dei pantaloni. Se li indossassi non potrei sembrare più stupida. Sono guanti da giardinaggio, di pelle. Altro che non dare nell’occhio.
Mi rendo conto che devo interrompere questo scontro con Mark. Ha vinto lui. Può tenersi il mio cellulare; io e Mary ne compreremo uno nuovo questa sera.
Esco dal bagno e percorro il corridoio vuoto. Entro nell’aula e mi siedo al centro della classe. Nessuno mi parla e sono troppo agitata per poter sentire ciò che dice l’insegnante. Quando suona la campanella raccolgo le mie cose, le metto nello zainetto e lo infilo in spalla.
Cammino nel corridoio con un’andatura regolare. Respiro lentamente. Cerco di sgombrare la mente da ciò che è successo prima, ma non funziona. Quando entro nell’altra aula Mark è seduto al solito posto, accanto a Jessica. Anche Mia è allo stesso banco, e mi ha tenuto il posto.
<< Dov’eri?>>, dice. << Ti ho tenuto il posto.>>
Mi sforzo di sorridere. << Grazie. Ero andata in bagno.>>
<< Roba pesante?>>, chiede Mia, facendomi l’occhiolino.
<< Roba pesante>>, dico.
In quel momento in classe entra John. Mark lo guarda con un sorriso beffardo; cerca di sembrare disinvolto. << Che si dice, corridore? Ho sentito che la squadra di corsa campestre cerca nuovi membri.>> Jessica ride alla battuta.
Mia scuote la testa. << Ma perché deve fare  sempre il coglione?>>
Io non rispondo. Guardo John quando mi passa accanto. Guardo i suoi occhi azzurri, che mi fanno sentire timida e imbarazzata e mi fanno avvampare le guance. Il posto in cui era seduto ieri è occupato, per cui va in fondo alla classe.
La professoressa entra e inizia la lezione. Oggi, la Burton ha deciso di farci vedere un filmato. Spegne le luci e lo fa partire. È un noiosissimo filmino sui pianeti. Mi annoio subito e inizio a pensare ad altro. Non posso fare foto, perché il preside me lo ha vietato e perché qui, ora, c’è poca luce. Mi guardo intorno in cerca di qualcosa da fare e il mio sguardo ricade su John. Lui mi sta fissando. I nostri occhi si incontrano e lui mi sorride. Mi sento le guance avvampare e le farfalle nello stomaco. Ricambio il sorriso, poi mi giro e inizio a fissare il  filmato, senza seguirlo. Non posso permettere che accada di nuovo. Ieri, quando mi ha sorriso, è successo quello che è successo. E se fosse lui la causa di quelle luci? Com’è possibile che un ragazzo mi faccia quest’effetto?
Chiudo gli occhi e mi faccio sovrastare dai pensieri. D’un tratto la professoressa riaccende le luci. Apro gli occhi e guardo l’orologio. La lezione è quasi finita. Mi mancano ancora sei ore di lezione. Devo cercare di restare calma.

Angolo Scrittrice.
Ehi, gente! Ciao!
Ho cambiato il titolo della storia, per renderla più accattivante ;-)
Che ne pensate?

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


La prima metà della giornata passa senza incidenti. Resto calma e non ho altri incontri con Mark.
A pranzo decido di uscire fuori, in giardino. A noi studenti è permesso farlo, perché il preside crede che ogni tanto abbiamo bisogno d’un po’ d’aria fresca. Io sono d’accordo. Esco e mi siedo sull’erba. Tiro fuori dallo zaino il panino, un succo di frutta e una mela. Caccio anche la mia macchina fotografica e il mio blocco da disegno. Prendo una matita e inizio a disegnare.
Il giardino qui fuori è bellissimo, e molto spesso vi si possono scorgere qualche uccellino e qualche farfalla. Mi rilassa molto disegnare, ma la mia macchina fotografica è sempre pronta all’uso, perché ci sono immagini così sfuggenti, che a volte sono difficili da riprodurre.
Comincio a ritrarre il paesaggio davanti a me e a mangiare il mio panino. Lo finisco quasi subito e, fra un morso e l’altro, finisco anche il mio disegno.
Quando alzo lo sguardo noto che anche John è seduto sul giardino. È solo e sta tranquillamente mangiando un sandwich. La luce del sole riflette benissimo sui suoi capelli biondo miele, e da lontano i suoi occhi sembrano ancora più azzurri, e la sua pelle ancora più abbronzata. Senza pensarci un attimo afferro la macchina fotografica e inizio a scattargli delle foto. Prima una, poi due, poi venti. Lui ha finito il suo panino da un po’ e credo che non si sia accorto di cosa sto facendo. Mi chiedo se fosse sempre così bello se si mettesse in posa, o se il suo splendore deriva proprio dalla naturalezza e dalla disinvoltura del momento. Gli scatto un’ultima foto, poi mi fermo. Guardo il mio orologio. È ora di andare. La prossima lezione è quella di Economia Domestica. Non perché mi piaccia particolarmente cucinare, ma l’alternativa era il coro. Anche se ho un buon orecchio musicale, cantare non è uno dei miei talenti.
Mi alzo. Non ho mangiato la mia mela. La rimetto nello zaino insieme alla macchina fotografica e al blocco da disegno e me lo metto in spalla. Prendo la cannuccia, la infilo nel succo e inizio a berlo.
Ad un tratto sento una voce da lontano. Una voce irritante, che ho cercato di evitare per tutto il giorno. Mark.
<< Ehi, Rigida!>> urla, dall’altro lato del giardinetto. << Al volo!>>
Non capisco cosa vuole dire. Mi volto e una palla da football mi viene addosso. Il lancio è forte e veloce. Mi colpisce sul braccio, facendomi prima perdere l’equilibrio e, poi, cadere. Per la forza d’impatto stringo i pugni, spremendo il succo di frutta, che schizza da tutte le parti.
Mark e i suoi amici ridono. Io cerco di rialzarmi, anche se la caduta mi ha fatto male. << Ehi ragazzi!>> dice Mark ai suoi amici. << Ora piange, ora piange!>> La cosa mi innervosisce molto. In effetti vorrei piangere, ma non lo faccio. Sento di nuovo la voce di Mark. Stavolta in tono sarcastico. << Oh! Arriva la mamma!>>.
Mi volto. John viene verso di me. Si avvicina e mi aiuta a rialzarmi. << Stai bene?>>, domanda.
<< Si>>, dico. Mi accorgo che tutta la mia roba è caduta a terra. Mi chino e la raccolgo. John fa lo stesso. << Sono degli stronzi.>> aggiungo.
<< Ehi, Biondo!>> grida Mark, rivolto a John. << Ce la fai?>>, chiede indicando la palla.
Lui la prende da terra. Si alza e batte dei colpetti con il palmo sulla copertura di pelle ruvida. Fa un respiro profondo e lancia palla. L’azione è così veloce e fulminea che quasi non me ne accorgo. E neanche loro. La palla arriva con una tale forza nello stomaco di Kevin da farlo cadere a terra, fra i cespugli.
Mark e gli altri corrono ad aiutarlo, ma lui li scansa con un gesto delle mani e dice di farcela da solo.
<< Ehi amico!>> urla uno di loro. << Con calma!>>
Mark ci guarda, poi alza le mani in segno di resa, prende la palla e ordina ai suoi amici di andarsene. Non posso fare a meno di sorridere. Mark James ha davvero … paura? Incredibile.
<< Hai un bel braccio!>>, dico, rivolta a John. Lui sorride.
<< Già>>, dice. << Lo scopro ora.>>
Mi chino a raccogliere la mia macchina fotografica e controllo che non sia rotta. Fortunatamente è tutta intera. Mi rialzo e guardo John.
<< Perché Rigida?>>, mi chiede. Quella domanda mi infastidisce. Improvvisamente mi faccio seria e guardo altrove, evitando il suo sguardo.
<< Perché>>, comincio. << Lo scoprirai presto.>>
<< Scoprirò cosa?>>
Stavolta lo fisso, cupa. << Che non sono una ragazza con cui fare amicizia.>> dico. Mi volto e me ne vado.
Sono stata acida, lo so, ma non ho potuto farne a meno. In un certo senso ho detto la verità. Quel soprannome, quell’odioso e bruttissimo soprannome, ormai mi rende una degenerata.
Una con cui nessuno vuole uscire.
Una che nessuno vuole conoscere.
Una con cui non puoi fare amicizia.
 
Cammino lungo il corridoio. La campanella non è ancora suonata, ma lo farà a breve. Non riesco a perdonarmi di come ho trattato John. Lui mi ha aiutato, ed è stato così gentile. Ha semplicemente fatto una domanda, ed io sono stata acida e cattiva. Riuscirà a perdonarmi anche stavolta? O ho bruciato definitivamente tutte le mie carte? Non lo so.
Incontro Mia durante la mia camminata. È appoggiata ad un armadietto e sta parlando con un ragazzo. Non è molto carino. È un po’ allampanato, ha i capelli rossicci tutti scarmigliati e gli occhi castani e grandi. Porta una T-shirt della NASA, pantaloni militari e un paio di scarpe da tennis. Non avrei mai pensato di vedere Mia parlare con un tipo così. Si, certo, lei non è frivola e non fa distinzioni, ma era sempre una cheerleader. E, si sa, le cheerleader escono sempre con i ragazzi carini che sembrano appena usciti dalla copertina di una rivista di moda. Comunque, Mia ha un sorrisetto ebete stampato in faccia e, quando lui dice qualcosa, ride divertita. Non ho idea di cosa possa dire un ragazzo appassionato della NASA di così divertente, ma se lei è felice lo sono anch’io.
Mia mi vede e mi fa un cenno con la mano. Saluta il ragazzo e mi raggiunge. È strana. Sembra raggiante e ubriaca allo stesso tempo.
<< Beh?>>, chiedo, curiosa di sapere chi era quel tipo.
<< Beh cosa?>>
<< Chi era quel ragazzo?>>
<< Ah.>> Mia si volta come per guardarlo un’ultima volta prima che lui se ne vada. << Si chiama Sam. È un ragazzo molto simpatico. L’ho conosciuto durante l’ora di Fisica. Sai che frequentiamo lo stesso corso di Astronomia? Non l’avevo mai notato.>>
Sbuffo. << Sarà uno di quei secchioni che siede al primo banco.>>
Mia mi guarda indignata. << Lui non è affatto un secchione! I secchioni sono noiosi e presuntuosi, lui invece è simpatico e carino. E adora gli Ufo!>>
Ah, già. Dimenticavo. Mia ha una specie di fissa per gli Ufo. Quando l’ho conosciuta, mi ha subito rivelato la sua passione. Non la biasimo. D’altronde, suo padre era un appassionato di queste cose. Purtroppo è scomparso quando Mia aveva solo sette anni. Sparito. Disperso. Non si è mai ritrovato, e credo che lei pensi sia ancora vivo. Ha ereditato questa passione da lui, questo è certo, e io non ho mai avuto il coraggio di dirle nulla. In fondo, chi sono io per smentire ciò che il padre le raccontava? E poi, che c’è di male nell’avere una passione, anche se insolita?
La campanella suona. Saluto Mia e mi dirigo nella classe di Economia Domestica. Entro e prendo posto. È un’aula piccola.
Un attimo prima che suoni la seconda campanella, entra anche John e si siede accanto a me. << Ciao>>, mi dice.
<< Ciao.>> Mi sento avvampare le guance e mi si contraggono i muscoli delle spalle. Prendo una matita e comincio a farla girare nella mano destra, mentre con la sinistra faccio le orecchie al blocco per gli appunti. Mi batte forte il cuore. Sono sorpresa mi parli ancora. “Per favore, fa che non mi venga un altro attacco di panico”. “Ti prego, fa che non mi si accendano le mani”, penso. Do una sbirciatina e constato che è tutto normale. Questa storia mi sta facendo uscire di testa. Credo di diventare pazza.“Mantieni la calma, è solo un ragazzo”, mi dico.
John mi sta guardando. Mi sento sciogliere dentro. Forse è il ragazzo più bello che io abbia mai visto.
<< Mi dispiace di averti fatto innervosire prima>>, dice.
Alzo le spalle. << Dispiace a me di aver reagito così male.>>
<< Non avrei dovuto farti quella domanda.>>
<< Non sarei dovuta andarmene così.>>
Sorride e io ricambio il sorriso. << Allora siamo pari>>, dice.
Annuisco. << Siamo pari.>>
Lui nota le macchie di succo che ho sulla maglia. << Mi dispiace per ciò che è successo.>>
<< Non è stata colpa tua.>>
<< Mark James è proprio un coglione.>>
Sospiro. << Lo so. Vuole sempre dimostrare agli altri di essere il più forte.>>
<< Quello è un segno d’insicurezza.>>
<< Non è insicuro. È un coglione.>>
Invece so che può trattarsi di una questione d’insicurezza. Insomma, John dimostra una tale certezza che quasi dubito della mia opinione.
La lezione comincia. Dopo dieci minuti d’istruzioni su come preparare i pancake, che io non ho ascoltato per niente, la professoressa Benshoff  mette in coppia me e John. In fondo all’aula c’è una porta da cui si accede alla cucina, che è circa tre volte più grande dell’aula stessa. Contiene dieci diverse postazioni di lavoro complete di frigoriferi, armadi, lavandini e forni.
Mi faccio una coda di cavallo per legare i capelli, poi prendo un grembiule da un cassetto e me lo infilo. << Me lo leghi, per favore?>>, chiedo al mio compagno. John annuisce.
Quando ha finito, mette a sua volta il grembiule e comincia a legarselo da solo.
<< Lascia fare a me, scemo >>, dico, sorridendo prendendo i lacci. Sento il profilo della sua schiena e dei suoi fianchi sotto le mie dita.
<< Grazie.>>
John cerca di rompere il primo uovo, ma ci mette troppa forza e non ne rimane nemmeno un po’ nella scodella. Io rido. Gli porgo un altro uovo, poi gli prendo la mano e gli mostro come incrinare l’uovo sul bordo della scodella. Lascio la mano sulla sua un secondo più del necessario. Lo guardo e sorrido.
<< Ecco, così.>>
Mescolo la pastella e, mentre lavoro, qualche ciocca di capelli mi ricade sul viso. La professoressa Benshoff si avvicina alla nostra postazione per controllare come procediamo. Fin qui tutto bene, dato che so già come fare i pancake. Qualche volta, quando mia madre ne prepara per la colazione, io la osservo e molte volte l’aiuto. Non dico di essere una grande cuoca, ma sono abbastanza brava a cucinare. Almeno quello che preparo è commestibile.
<< Come hai trovato New York finora?>>, chiedo, per iniziare una conversazione.
<< Non è male. Però non mi sarebbe dispiaciuto un primo giorno di scuola più tranquillo.>>
Sorrido. << Credo che tu te le vada proprio a cercare.>>
<< Lo credo anch’io. Ma non ho paura di quelli sbruffoni.>>
Lo guardo. << Come fai ad essere così coraggioso. Sei così convinto di poterli battere?>>
<< Mi crederesti se ti dicessi che sono un alieno?>>
<< Piantala>>, ribatto, con un sorriso. Poi sto al gioco. << Se fossi un alieno come dici avresti anche dei superpoteri, no? Come mai non pratichi nessuno sport?>>
<< Soffro di una brutta forma d’asma. Se praticassi troppo sport poi avrei un attacco.>>
Annuisco. << Però hai un bel braccio.>>
Lui ride. << Già. Sono famoso per i miei muscoli!>>
<< Vediamo>>, dico. Gli tasto il muscolo con fare giocoso. << Wow! Questo si che è acciaio puro! Potresti stendere l’intera squadra di football!>> Ci guardiamo e ridiamo entrambi.
<< A proposito di attacchi>>, continua lui. << Cosa ti è successo ieri?>>
Mi sale un groppo in gola e mi irrigidisco. Ricordo ciò che Mary ha detto al preside e ciò che io ho raccontato a Mia e decido di continuare la farsa. << Anch’io soffro di una brutta forma d’asma. Per qualche motivo, ieri ho avuto un attacco.>> Mi dispiace raccontargli questa bugia. Non voglio che mi ritenga debole, soprattutto per debolezze che non ho.
<< Beh, sono contento che tu stia meglio.>>
Prepariamo quattro pancake. Li impilo tutti su un solo piatto; John ci versa sopra una quantità assurda di sciroppo d’acero e mi passa una forchetta.
Io guardo i nostri compagni di corso. Quasi tutti mangiano da due piatti. Prendo con la forchetta un pezzo di pancake. << Non male>>, commento, masticando.
John annuisce. << Sono davvero buoni. Complimenti alla cuoca.>>
Abbasso lo sguardo imbarazzata. << Non lì ho cucinati da sola.>>
<< Lo so, ma io non avevo idea di quello che stavo facendo.>>
Rido. Non ho per niente fame, ma aiuto John a finirli. Prendiamo un boccone per ciascuno finché il piatto non si svuota. Ora mi fa male lo stomaco. Io lavo i piatti e John li asciuga. Quando suona la campanella usciamo insieme dall’aula.
<< Hai davvero intenzione di batterti con Mark all’uscita di scuola?>>, chiedo.
Lui alza le spalle. << Non lo so. Ho bisogno di riavere il mio cellulare.>>
<< Allora è proprio un vizio.>>
<< Ha rubato anche il tuo, vero?>> Annuisco. << Beh, tu cosa hai intenzione di fare?>>
<< Anch’io ho bisogno di riavere il mio cellulare. E poi guardami >>, aggiungo, indicando la maglia sporca di succo.
John scrolla le spalle. << Beh, se tu non ti batterai con lui non lo farò neanch’io.>>
<< E cosa hai intenzione di fare per recuperare i telefoni?>>
<< Lascia fare a me.>>
Facciamo qualche passo in silenzio.
<< Perché te lo ha rubato? E quando?>>, chiedo.
Lui abbassa lo sguardo sul pavimento. Sembra imbarazzato. << Beh, credo me lo abbia rubato per farmi un dispetto. Probabilmente l’ha fatto quando io e la tua amica Mia ti siamo corsi dietro appena ti sei precipitata furi dall’aula. Eravamo preoccupati per te.>>
Ora sono rossa. È sicuro. Era preoccupato per me e mi ha rincorso. Questo spiega perché si trovava nel corridoio mentre Mark e Jessica mi attaccavano. Mia non mi aveva raccontato questo particolare. Forse lo ha ritenuto superfluo. Forse lo è. Magari John è solo un ragazzo molto apprensivo. Ci fermiamo davanti al mio armadietto. Poi lui raggiunge il suo.
Apro il mio e prendo l’occorrente per la prossima lezione. Lui ha qualche difficoltà ad aprire il suo. Chiudo l’anta del mio con uno scatto e lo guardo.
<< Se hai qualche idea o novità riguardo la storia dei cellulari >>, dico avvicinandomi. Mi posiziono davanti a lui, faccio fare uno scatto alla maniglia e do un botta all’anta di metallo. L’armadietto si apre. << Sai dove trovarmi.>> Mi giro e me ne vado in aula.
 
Dopo la lezione di Storia americana alla nona ora, raggiungo lentamente il mio armadietto. Penso di lasciare la scuola tranquillamente, senza cercare Mark. Poi però mi rendo conto che se non mi riprendo il mio cellulare sarò etichettata per sempre come una vigliacca.
Tolgo dallo zainetto i libri che non mi servono. Resto lì ferma, e sento il nervosismo montare dentro di me. Per precauzione mi fisso le mani. Mi rendo conto che ormai sta diventando una specie di abitudine. Forse sto impazzendo, ma quell’episodio deve avermi traumatizzato. Respiro a fondo e richiudo l’armadietto.
<< Ciao >>, mi saluta una voce dietro di me. Mi volto. È John. Si guarda alle spalle, poi dice: << Ho qualcosa per te>>.
<< Non sono altri pancake, vero? Mi sento ancora scoppiare.>>
Lui ride. << Niente pancake. Ma, se te lo do, tu mi devi promettere che mi farai un favore.>>
Sono incuriosita e inarco un sopracciglio. << Di che si tratta?>>
<< Ho bisogno di aiuto con una ricerca di Astronomia>> Fa lui scrollando le spalle.
Non so se credergli, ma sono troppo curiosa << Okay.>>
John si guarda di nuovo alle spalle e infila rapidamente la mano nella tasca posteriore del suo jeans. Tira fuori il mio cellulare e me lo consegna.
<< Dove l’hai preso?>>, dico con un sorriso.
Alza le spalle.
<< Mark lo sa?>>
<< Ovvio che no. Allora? Mi aiuti con la ricerca?>>
Sorrido. << Si, certo.>> Mi rigiro il telefono fra le mani. << Farai ancora il duro, ora?>>, chiedo.
<< Penso di no, a questo punto.>>
<< Meglio così.>> Lo guardo. << Grazie>>, gli dico. Non riesco a credere che si sia dato tanto da fare per aiutarmi. Non mi conosce nemmeno.
<< Prego.>> John mi sorride, poi si volta e se ne va di corsa lungo il corridoio.
Io resto a guardarlo, senza riuscire a smettere di sorridere. Quando vado verso l’uscita, trovo Mark James e Jessica con otto dei loro amici nell’atrio.
<< Bene, bene, bene>>, dice Mark. << Oggi sei riuscita a rimanere a scuola tutto il giorno, eh?>>
<< Certo. E guarda cos’ho trovato.>> Sollevo il cellulare per farglielo vedere bene. Lui resta a bocca aperta. Allora passo oltre e esco dall’edificio.


Angolo Scrittrice.
Ehi, ehi, ehi!! :D Ciaoo!
Ed eccomi qui, con un nuovo capitolo per voii!! :)
Scusate infinite per l'enorme ritardo. Dovete perdonarmi. La scuola è riniziata e il mio cervello deve ancora riabituarsi a tutte le mie abitudinali abitudini *Gioco di parole* xDxD
Vabbè, non vi trattengo oltre. Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Se si, commentatee!
Un bacio ;D
ValeryJackson

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Mary parcheggia esattamente dove previsto. Salgo in macchina col sorriso ancora stampato sulle labbra.
<< È andata bene oggi?>>, mi chiede.
<< Non male. Ho di nuovo il cellulare.>>
<< Niente liti?>>
<< Niente d’importante.>>
Mary mi guarda sospettosa. << Pensi che mi convenga scoprire che cosa significhi esattamente la tua risposta?>>
<< Probabilmente no.>>
<< Ti sei sentita male?>>
<< No >>, rispondo, mentendo. << E a te com’è andata?>>
<< Bene. Dopo averti accompagnato a scuola, sono andata a Columbus. Ci ho messo un’ora e mezzo.>>
<< Perché Columbus?>>
<< Ci sono banche più grandi, lì. Non volevo destare sospetti richiedendo un prelievo di un importo superiore all’intera ricchezza di questa città.>>
<< Buona idea.>>
Mary imbocca la strada principale. << Allora, hai intenzione di dirmi come si chiama?>>
<< Eh?>>
<< Ci dev’essere un motivo per quel sorriso ridicolo che hai stampato sulla faccia. Il più ovvio sarebbe un ragazzo.>>
<< Come fai a saperlo?>>
<< Amica mia, questa donna da giovane era una mangiauomini.>>
<< Ma smettila!>>, ribatto. << Non ci credo. Non sei mai stata una mangiauomini.>>
Mary annuisce in segno di approvazione. << Bene, vedo che quando parlo stai attenta.>>
Questo me lo ricordo. Quando chiedevo a mia madre come fosse la sua vita prima del mio arrivo lei mi raccontava sempre che nella sua vita aveva avuto solo due storie importanti. Una con un giovane, che poi è morto, e un’altra che alla fine è andata a finire male. Avrei voluto tanto che quando ero piccola si fosse innamorata di qualcuno, ma non è mai successo. Quando siamo andate a vivere da Gabe, in fondo al mio cuore, sapevo che lei non lo amava. La conoscevo, e non era il suo tipo. Non ho mai capito perché l’ha fatto, e continuo a non capirlo tutt’ora.
<< Allora, chi è?>> insiste.
Sbuffo. << Si chiama John Smith. È il ragazzo nuovo di cui ti ho parlato. Facciamo due o tre corsi insieme. È al terzo anno.>>
<< Ah, il famoso John. È carino?>>
<< Molto. E anche intelligente.>>
Mary annuisce lentamente. << Mi aspettavo che prima o poi succedesse. Sai, potremmo essere costrette a trasferirci da un momento all’altro.>>
Sospiro. << Lo so.>>
Appoggio la testa sul finestrino e guardo fuori. Facciamo il resto del viaggio in silenzio.

Quando arriviamo a casa questa è tutta in disordine. C’è una camicia per il corridoio, un calzino su una sedia e un altro per le scale.
Istintivamente annuso l’aria. C’è puzza di alcool in giro. Gabe è tornato.
Mi dirigo in cucina e apro il frigo. Non perché ho voglia di qualcosa in particolare, solo per distrarmi. Non voglio arrabbiarmi, la mia giornata è andata abbastanza bene e non me la farò rovinare da un ubriacone come lui. Prendo una cosa a caso e mi avvio in camera mia.
<< Vuoi qualcosa da mangiare?>>, mi chiede Mary.
<< No >> dico fredda e corro via.
Mi chiudo nella mia stanza, getto lo zaino sul pavimento e mi butto sul letto. Guardo quello che ho preso dal frigo. È una lattina di birra di Gabe. La apro e la annuso. Puzza esattamente come lui. Apro la finestra e butto il liquido di sotto, poi poso la lattina vuota sul mio comodino e mi risiedo sul letto.
Ripenso alla mia giornata.
Oggi le lezioni sono state abbastanza noiose. Ho affrontato di nuovo Mark e ho scoperto per chi ha una cotta Mia. Ho mangiato pancake e ho riottenuto il mio cellulare. E poi c’è John. È sempre così carino con me. Oggi poi è stato davvero gentile. Ed io invece sono stata così brusca. Però sembra non essersene accorto. Che carino.
Il telefono squilla. Lo prendo e osservo il numero. Sulla schermata appare la scritta “Mia”. Rispondo.
<< Pronto?>>
<< Ehi!>>, la voce di Mia suona squillante nell’apparecchio.
<< Mia, calmati. Mi hai quasi rotto un timpano!>> dico, allontanando il telefono dal mio orecchio con una smorfia e poi riavvicinandolo.
<< Ops, scusa>>, fa lei, abbassando il tono di voce. << Come stai?>>
<< Benone!>>
<< Aspetta un attimo.>> C’è un minuto di silenzio, poi Mia parla. << Hai di nuovo il cellulare!>>, esulta.
Sorrido, anche se lei non può vedermi. << Già.>>
<< Ma come hai fatto?>>
<< Beh … ho avuto un piccolo aiuto.>>
<< Ah, ok>>, dice, probabilmente delusa dalla mia risposta evasiva. << Comunque, non ti ho chiamata per questo.>>
<< Ok, spara.>>
<< Hai da fare?>>
Penso un po’ alla risposta. << No.>>
<< Bene. Che ne dici di incontrarci davanti scuola?>>
<< Va bene.>>
<< Ok. Ciao!>>
<< Ciao.>> Riattacco il telefono. Almeno ho una scusa per evadere da quella prigione che diventa casa mia quando c’è in giro Gabe. Mi guardo allo specchio.
Ho la maglia e parte dei pantaloni sporchi di succo di frutta e porto ancora la coda che ho fatto durante l’ora di Economia Domestica. Non posso uscire così. Apro il mio armadio. Prendo un pinocchietto verde pistacchio e un maglione. Cambio anche le scarpe, indossando degli stivali e mi sciolgo e pettino i capelli. Poi rifaccio la coda. Mi sciacquo un po’ la faccia e mi osservo. Ora sono più presentabile.
Prendo il mio medaglione e lo rigiro tra il pollice e l’indice. Afferro al volo il telefono e qualche spicciolo che avevo sul comodino ed esco. Saluto di sfuggita mia madre e non oso vedere in che condizioni le lascio Gabe. Non voglio saperlo.
Faccio per prendere la bici quando mi accorgo dell’errore. La bici è rimasta a scuola. Se c’è ancora. Decido di avviarmi verso l’istituto, dato che è lì che ho l’appuntamento con Mia. Ne approfitterò per riprendermi la bicicletta.
Mentre cammino mi sento osservata. L’aria è fredda intorno a me e il sole è coperto da qualche nuvola. Mi sento un po’ a disagio e inizio a guardarmi intorno, aumentando il passo.
Ad un tatto sento il rumore di un ramo spezzato. Mi giro di scatto e lo vedo. Un piccolo cucciolo di cane è nascosto tra gli alberi, e mi sta seguendo. È un beagle, con le orecchie flosce rossicce; ha le zampe e il petto bianchi, e il corpo snello e nero. È magro e sporco come un randagio. Si strofina contro la mia gamba e uggiola, cercando di attirare la mia attenzione. Mi inginocchio e lo accarezzo.
<< Ehi, piccolo. Ti sei perso?>>, gli sussurro dolcemente. Lui si fa accarezzare senza problemi. Sono sempre stata attratta dagli animali, e loro da me. Qualche tempo fa, quando vivevamo in Florida, uno dei posti più belli che io avessi mai visto e in cui avessi mai abitato, c’era sempre un geco che mi guardava dalla parete ogni mattina, quando facevo colazione. Anche se ci sono letteralmente milioni di gechi nel Sud della Florida, giuro che questo mi seguiva a scuola, anzi sembrava che mi seguisse ovunque.
Prendo il cellulare e provo a scattare una foto al cagnolino. Lui però indietreggia. Ci riprovo e quello indietreggia di nuovo, nascondendosi dietro un albero. Ci rinuncio e riprendo a camminare, lasciandomelo alle spalle.
Davanti l’entrata della scuola, seduta sui gradini, c’è Mia. Appena mi guarda mi fa un cenno di saluto e mi viene incontro.
<< Ciao>>, dice.
<< Ciao.>>
Lei fa un cenno col capo indicando il parcheggio per le biciclette. << La tua bici è ancora lì. Strano che nessuno l’abbia rubata.>> Quando dice nessuno capisco che intende Mark.
Vado a prendere la bicicletta, vi monto sopra e poi torno da Mia. << Beh? Perché mi hai chiamata prima? Vuoi dirmi qualcosa?>>
Lei arriccia il naso. << In realtà volevo chiederti cosa indosserai stasera. Io non ho ancora nulla da mettermi ma mi vergognava ammetterlo per telefono.>>
Aggrotto la fronte. << Stasera? Perché cosa c’è stasera?>>
Mia alza gli occhi al cielo e allarga le braccia. << Oh, ma dai! Non dirmi che te ne sei dimenticata?!>> Mi guarda in volto e capisce che non ho idea di cosa stia parlando. Sbuffa. << Domani sarà il giorno del Columbus Day e ogni anno la scuola organizza una festa per prepararsi all’evento. In pratica gli studenti vestono in modo semplice e delicato e gli insegnanti portano abiti vistosi. Come un cambio di ruoli. Andiamo, sono due settimane che ne parliamo, possibile che non te lo ricordi?>>
Ah. Il Columbus Day. Si, in effetti ricordo qualche accenno che Mia mi aveva fatto, ma la maggior parte delle volte che lei ne parlava io staccavo il mio cervello. Sapevo già che non ci sarei andata, quindi non volevo ascoltare quanto loro si sarebbero divertiti.
Scrollo le spalle. << Tanto io non verrò.>>
Mia strabuzza gli occhi. << Cosa?>>, urla, stupita. << Come sarebbe a dire che non verrai?!>>
<< Non mi sentirei a mio agio in un posto così. E poi mia madre non me lo permetterà.>>
<< Convinco io tua madre!>>, dice lei, in tono convincente e sbrigativo.
Sbuffo. << Lo so, ma … non credo che accetterà. E poi non ho un vestito.>>
Lo sguardo di Mia si fa malizioso e incrocia le braccia puntandomi un dito contro. << Ah ha! Allora è questo il problema!>>
Arrossisco e annuisco a fatica. In realtà non è quello il vero problema, ma non voglio dirglielo. Potrei benissimo indossare uno dei miei vestiti ed andare se ne avessi voglia, ma il fatto è che di voglia non ne ho. Non mi sentirei a mio agio in mezzo a tutta quella gente. Mary non me lo permetterà. E poi … questa sarebbe la mia prima festa.
<< Beh>>, continua Mia, con il tono di chi cerca di sembrare saggio e comprensivo. << A tutto c’è un rimedio! In questo caso, il tuo antidoto ha un solo nome. Shopping!>>, esulta.
Io non sono per niente contenta. Non voglio fare shopping. Cioè, si, dovrei, dato che nessuno dei miei vestiti mi entra più, ma non è nella mia indole. Non ho mai fatto shopping con un’amica. E se non fossi capace?
Apro la bocca per ribattere, ma Mia mi ha già afferrato il braccio e mi sta trascinando verso casa mia.
Davanti casa troviamo mia madre che si dedica al giardinaggio. Alza il capo e saluta.
<< Salve, signora Hart!>>, trilla Mia.
Mia madre sorride. << Ciao ragazze, già di ritorno?>>
Mia arrossisce. << Beh, in realtà eravamo venute per chiederle un favore.>>
Mary abbassa la testa e continua a lavorare. << Certo, di cosa si tratta?>>
<< Beh, noi … >> Mia mi guarda prima di continuare a parlare. Io le faccio cenno di no col capo ma ormai è troppo tardi. << Volevamo chiederle il permesso di andare ad una festa stasera.>>
Mary si blocca di colpo. << Una festa?>>, alza lo sguardo e mi guarda. << Non mi avevi detto che c’era una festa.>>
Sono imbarazzata. << Beh, ecco, io … >>
<< Lei in realtà non vorrebbe venire >>, mi interrompe Mia. << Ma io le dico che è davvero una gran cosa. Ci sarà tutta la scuola e sarebbe brutto se lei non venisse.>>
Mary guarda prima me, poi Mia, poi di nuovo me. Stranamente fa un sorriso, uno di quei sorrisi che le ho visto fare poche volte. Uno di quelli sinceri e contenti. << Mi sembra un’idea eccezionale!>>
Strabuzzo gli occhi. << Davvero?>>
Lei annuisce. << Si, certo.>>
Mia esulta, contenta. Io non posso ancora crederci. << Ah, un’altra cosa >>, dice la mia amica. << Ci servirebbero dei soldi per andare a fare shopping.>>
Mia madre annuisce. << Si, ovvio. Vado a prenderli subito.>> Mi fa l’occhiolino, poi entra in casa e ne esce con un bel mucchietto di soldi. << Divertitevi.>>

Due ore più tardi sono di fronte a uno specchio in camera di Mia, con addosso un abito nero e lungo fino al ginocchio. La gonna non è ampia, ma non è neanche aderente sulle cosce come la prima che mi aveva fatto provare Mia, che io ho rifiutato. Ho la pelle d’oca sulle braccia nude. Lei mi sfila il nastro dai capelli sciogliendomi la coda e facendomi ricadere le ciocche ondulate sulle spalle.
Poi mi mostra una matita nera. << Eyeliner >> mi spiega.
<< Non ci riuscirai a rendermi carina, lo sai.>> Chiudo gli occhi e rimango ferma, mentre lei fa scorrere la punta della matita lungo il bordo delle mie palpebre. Immagino di presentarmi a quella festa vestita così e mi viene un crampo allo stomaco.
<< E chi ha parlato di renderti carina? Io punto a farti notare.>>
Apro gli occhi e mi guardo a lungo nello specchio. Il mio battito cardiaco accelera, come se stessi violando le regole e mi aspettassi di essere rimproverata.
I miei occhi sono marroni, ma di un marrone acceso, così scuri da non riuscire a distinguerne la pupilla. L’eyeliner li ha resi penetranti. Con i capelli che mi ricadono sul viso i miei lineamenti sembrano più dolci e più pieni. Non sono bellissima, ma riconosco che Mia ha ragione: il mio corpo si fa notare.
Guardandomi ora non è come vedermi per la prima volta, è come vedere qualcun altro per la prima volta.
<< Vedi?>> esclama lei. << Ora … fai colpo.>>
Le sorrido nello specchio.
<< Ti piace?>>, mi chiede.
<< Si.>> Annuisco. << Sembro … un’altra persona.>>
Lei scoppia a ridere. << È una cosa bella o brutta?>>
Mi guardo di nuovo. << È una cosa … perfetta.>> Mi giro a guardarla e solo allora mi accorgo degli abiti che indossa. Un semplice fusox nero lucido e un top bianco con sopra la bandiera americana. Anche lei è truccata e vestita così è bella comunque. Sicuramente più di me.
Prendiamo un giacchetto e usciamo di casa, dirette alla festa.
La scuola brulica di studenti, vestiti nei modi più semplici possibili, e di insegnanti, che indossano abiti vistosi e, a volte, vittoriani. La festa si tiene in palestra.
Appena entro rimango sbalordita. La sala è piena di addobbi Ottocenteschi e di bandiere americane. Al lato c’è un buffet pieno di dolci tipici, mentre in fondo hanno montato un palco dove c’è un band, che suona musica di ogni genere. Beh, come prima festa non è niente male.
Noto che alcuni ragazzi si voltano a guardarmi e io non posso fare a meno di sorridere.
Ci dirigiamo verso il buffet, guardandoci intorno.
<< Allora?>> chiede Mia. << Che ne pensi?>>
Annuisco sorridente. << È fantastico!>>
Mia sorride. << Bene! Sono contenta che ti piaccia. E non hai ancora visto tutto!>> Inarco un sopracciglio. Lei lo nota e scoppia a ridere. << Lo capirai presto!>>
Mentre si versa del punch io osservo gli altri. Mark e Jessica sono, ovviamente, insieme. Lei indossa un vestito nero pieno di paiet, lui la sua solita felpa e un jeans grigio. Mi chiedo se si cambi mai, o se si lavi per lo meno.
La band inizia a suonare una musica soft. La riconosco. È “What a wonderful world” di Luis Armstrong. Osservo meglio I componenti del gruppo. Sono tutti dei ragazzi che vanno dal sedici ai diciannove anni. È strano che facciano questo genere di musica.
<< Come mai cantano questa canzone?>> domando alla mia amica.
Lei raddrizza le orecchie e ascolta per un po’. << Deve averla chiesta qualche professore.>>
<< Ah.>> Annuisco. << E loro la fanno?>>
Lei sembra scioccata dalla mia domanda. << Certo! Altrimenti che ci stanno a fare qui?!>> Io non capisco. Mia alza gli occhi al cielo e continua. << Tu dici loro una canzone e loro la cantano. È così che funziona. Poi, ogni mezz’ora passa un ragazzo del gruppo per segnare le iscrizioni al karaoke. Quando questo finisce loro sono liberi di fare i pezzi che vogliono.>>
Ora comincio a capire. << E molti ragazzi si iscrivono al karaoke?>>
Mia scuote la testa. << No. Di solito lo fanno solo quelli “in”, oppure quelli che fanno parte del coro. Se non sei davvero bravo è inutile partecipare. È solo un’ulteriore umiliazione.>>
Ora capisco. Non mi sorprende che i ragazzi “in”, come le cheerleaders o i giocatori di football, non si facciano problemi ad andare lì e cantare. Se loro sbagliano non fa niente, non è grave, se lo fa uno di noi “normali” sei un perdente a vita. È così che funziona. Questa è la dura legge delle scuole superiori.
Mia mi da una gomitata. << Ehi! Guarda chi c’è!>> Fa un cenno con la testa e io guardo in quella direzione. Inizialmente non capisco a chi si riferisce, poi lo vedo. John sta entrando proprio in questo momento nella sala. Indossa un jeans e una camicia neri. Quel colore gli dona molto, considerando i suoi colori chiari, e, nonostante sia vestito in modo semplice, è sempre il più bello di tutti. Lo fisso per un po’, poi qualcuno mi da uno spintone. Mi volto di scatto, pensando di trovare Mark, invece scopro che è stata Mia.
<< Ehi!>>, sbraito.
<< Coraggio, che stai aspettando? Va a parlargli!!>>
La guado, poi guardo di nuovo John, poi ancora Mia. << Naa!>>, scuoto la testa.
Mia alza gli occhi al cielo e sbuffa. << Uff! Cos’hai da perdere?>>
Strabuzzo gli occhi. << Ehm ... La mia dignità?>> cantileno, con fare ovvio.
Lei ride. << Come se ne avessi una!>> Le lancio un’occhiataccia e lei smette di ridere. << Scusa>>, dice, soffocando un risolino. Guardiamo insieme John.
<< Chi ti dice che lui voglia parlare con me?>>, le domando. Lei non fa in tempo a rispondere, perché lui ci vede e ci saluta.
Mia fa spallucce. << Beh, mi sembra più che ovvio.>>
Sono ancora indecisa. << Non lo so. E se poi io … >>
<< Valeri!>>, mi interrompe Mia. << Smettila di pensare con la mente e inizia a pensare col cuore! Lui ti piace, giusto? Beh va lì e digli qualcosa, cavolo! Non puoi vivere una vita nel rimpianto di non averlo fatto. Preferisci i rimpianti o i rimorsi?>>
Io la guardo, poi fisso John. << Rimorsi>> dico decisa.
<< Bene>>, annuisce Mia. << Ora va lì e colpisci!>>
Le sorrido e mi avvio verso John. Quando sono a tre metri da lui mi blocco. La mia gola è secca e le mani iniziano a sudare. Controllo i miei palmi e constato se sia tutto a posto. Poi scuoto la testa. L’ho fatto ancora. Perché continuo a guardarmi le mani? Non succederà niente!
Alzo lo sguardo e noto che lui sta venendo verso di me. Mi sento avvampare in viso e mi sforzo di sorridere, ma inutilmente. Sono troppo nervosa. Perché sono così nervosa?
<< Ciao>>, mi saluta. Quando sorride sento il mio cervello sciogliersi.
<< C .. Ciao>>, balbetto. Strizzo gli occhi e respiro. Provo a calmarmi. << Come va?>>, chiedo.
Lui fa spallucce. << Va.>>
Sorrido. Anch’io sono molto evasiva quando mi fanno una domanda. Non voglio l’attenzione su di me. << Ti stai divertendo?>>
Lui storce il naso. << Qui è molto Ottocentesco. È carino, ma la band suona musica un po’ strana.>>
Aguzzo l’orecchio. Ora stanno suonando “Yellow submarine” dei Beatles. Scrollo le spalle. << Non è strana, è solo famosa. Questa canzone è molto carina.>>
Lui mi guarda. << Ti piacciono i Beatles?>>
Sorrido, sorpresa del fatto che abbia riconosciuto la canzone. << Non proprio, ma alcune canzoni sono carine, come “Help” oppure “Imagine”.>>
Lui annuisce. << A me piace molto “Happy Days”, o anche “Let it be”. >>
Let It be. Adoro quella canzone. Lascia che sia. Sono parole molto significative. È difficile trovare, oggi come oggi, ragazzi che ascoltano della buona musica. E per musica non intendo cose che vanno di moda, come il rap pieno di parolacce o la musica Houses. Intendo la musica vera, quella fatta da grandi artisti come George Michael, Luis Armstrong, i Beatles, i Queen. Quella è musica, ma pochi lo capiscono.
<< Già, quella è molto bella>>, dico, e mi accorgo solo ora di avere un sorriso ebete stampato in faccia.
John sorride. << Perché non vai a cantarla?>>
Scuoto la testa. << No, non se ne parla. Io non so cantare!>>
Lui inarca un sopracciglio. << E chi te lo dice questo?>>
<< Lo dico io.>>
<< Perché non lasci gli altri giudicare? È ovvio che se non sei convinta tu non lo sono nemmeno loro.>>
Lo guado. << Ok>>, mi sgranchisco la voce per finta. << Sono Valeri Hart, e sono una cantante bravissima, voglio assolutamente far sentire a tutti la mia soave voce>>, dico in tono sarcastico. John ride, poi lo faccio anch’io. Non lo ammetto, ma devo dire che è stato bello farsi dei complimenti. Mi ha fatto sentire sicura di me per una buona volta.
<< Ti va di fare un giro fuori?>>
I miei occhi si illuminano. << Con piacere!>>
Usciamo dalla palestra e ci dirigiamo prima verso il corridoio e poi davanti l’ingresso della scuola. Appena fuori il mio corpo gela. C’è un po’ di umidità e fa così freddo che non riesce a nevicare. Pessima idea indossare la gonna. Ci sediamo sui gradini dell’ingresso. Cerco di non tramare, ma non ci riesco.
<< Hai freddo?>> chiede John.
Annuisco. << Un po’.>>
Lui allarga le braccia. << Vieni. Ti riscaldo io.>>
Lo guardo e inarco un sopracciglio. << Che c’è?>>, domanda lui. << Non preoccuparti, non ci sono secondi fini. Volevo solo riscaldarti.>>
Mi convinco e mi getto fra le sue braccia. Improvvisamente una vampata di calore pervade tutto il mio corpo e provo una delle sensazioni più belle che abbia mai sperimentato.
<< Wow!>>, esclamo.
<< Che c’è?>>
<< Sei bollente. Davvero bollente, come se avessi la febbre.>>
<< Non credo.>>
Mi stacco da lui e lo guardo negli occhi. << Magari sei un tipo dal sangue caldo.>>
<< Può darsi.>>
Ridiamo entrambi. La sua risata è come una dolce melodia che aleggia nell’aria. Senza che me ne accorga mi ritrovo a fissarlo. Il leggero chiarore della luna gli illumina il viso in modo perfetto. I suoi capelli biondo miele gli ricadono sul volto in maniera aggraziata. Peccato non abbia con me la mia macchina fotografica, farei un servizio stupendo.
In quel momento mi rendo conto che conosco davvero poco di lui. È un bravo ragazzo, e non ha paura di niente e di nessuno. Non sa cucinare e ha una risata e un sorriso bellissimi, ma poi? Che altro? È sempre stato un tipo misterioso.
Prendo coraggio e chiedo con voce ferma: << Com’era la tua vecchia scuola?>>
Lui arriccia il naso e corruga la fronte. Si agita sul posto e sembra a disagio. << Beh, ecco … >> Si blocca e guarda davanti a se. Ora sono convinta che sia a disagio.
<< Ehm, scusami, io ….>> inizio a balbettare. << Non sono affari miei>>, dico poi, cercando di avere un voce ferma. Tossisco, anche se non ne ho bisogno.
Lui sorride e mi guarda. << No, no. È … è una domanda più che lecita. Allora … >> si sgranchisce la voce. << Beh, che dire? La mia scuola era … una scuola come tante. Non credo che abbia qualcosa di particolare.>>
Annuisco. << Ti mancano i tuoi compagni?>>
Lui scuote la testa. << No.>>
<< Neanche un amico?>>
<< Non avevo amici.>> Ok. Ora sono in imbarazzo. Lui capisce la situazione e si appresta a dire : << Ehi, aspetta, non fraintendermi! Non avevo amici per il semplice motivo che non ho mai avuto il tempo di farmeli.>>
<< E per quale motivo?>>
Lui sospira. << Diciamo solo che … mi sono trasferito così tante volte che non ho mai avuto, ecco, beh … l’opportunità di conoscere qualcuno a fondo. Le mie sono solo conoscenze, non le definirei amicizie.>>
Rimango senza fiato. So esattamente cosa vuole dire, perché è quello che è successo anche a me. << Ti capisco.>> mi lascio sfuggire.
Lui mi guarda. << Non credo tu possa.>>
Inarco un sopracciglio. Sono indignata. Chi si crede di avere davanti? La solita ragazzina newyorkese con la vita felice e una famiglia amorevole? Beh, si sbaglia.
<< Tu credi?>> dico visibilmente infastidita. << In questi quindici anni mi sono trasferita ben diciotto volte. DICIOTTO! Ho sempre avuto come punto di riferimento solo mia madre, non ho mai avuto amici, non ho mai avuto parenti! Non so neanche cosa significhi avere molte persone che mi vogliono bene! Nella mia vita non ho fatto altro che scappare, scappare e scappare. E tu credi che io non possa capire? Capire cosa? Quanto sia difficile accettare tutto questo? Quanto sia complicato farsi accettare in un nuovo posto e integrarsi senza dare troppo nell’occhio? Quanto sia brutto soffrire ogni giorno e colpevolizzarsi continuamente, chiedendosi il perché di tutto ciò, senza però trovare risposta?>> Lo guardo, e mi accorgo che la mia vista è appannata. Stanno per uscirmi delle lacrime, ma le ritraggo, distogliendo lo sguardo. << Beh, perché se credi che io non possa capire, allora ti sbagli, perché capisco eccome.>>
C’è un minuto di silenzio, ed è il minuto peggiore della mia vita. In questo momento ho letteralmente paura di aver perso la sua fiducia, la sua stima, ma soprattutto il suo rispetto. Di una cosa, però, sono sicura. Ora avrò di certo la sua comprensione.
Lui fa un grosso sospiro, che mi preoccupa. << Scusa>>, dice e mi ritrovo a tirare un sospiro di sollievo.
Scuoto la testa. << No, scusa tu. Sono stata proprio … >>
<< Tu non hai niente di cui scusarti>>, mi interrompe lui. << Il fatto è che … non avevo mai trovato una ragazza simile a me in questo senso. Pensavo che non fosse una cosa che si fa anche qui, e invece mi sbagliavo.>>
Aggrotto le sopracciglia. Non riesco a seguire il suo discorso. << Ecco, io … >>
Lui mi guarda e sorride, divertito. << Lascia stare.>>
Sorrido anch’io. Mi chiedo come faccia questo ragazzo, dopo tutte le cose acide e senza cuore che gli ho detto, dopo come, ingiustamente, l’ho trattato, a parlarmi ancora e a non essere arrabbiato con me. Ha proprio delle qualità nascoste.
Sento un altro brivido freddo lungo la schiena e non posso fare a meno di tremare. John se ne accorge.
<< Forse è meglio che torniamo dentro >>, dice.
Annuisco. << Già, forse è meglio.>>
Ci alziamo entrambi e torniamo in palestra. L’ora del karaoke è iniziata e, come sospettavo, Jessica è sul palco. Sta cantando “Simply the best” di Tina Turner. Notiamo Mia vicino al buffet e la raggiungiamo.
Lei ci vede e ci saluta. << Ciao >>, dice prima rivolta a me. << Ciao John>> continua poi.
Lui la saluta con un cenno. Tutti e tre guardiamo inorriditi la scena che si svolge sul palco. Jessica avrà anche una bella voce, ma si muove come un pachiderma in calore, il che è strano, per una cheerleader. Non mi sorprende che prima di lei il capo fosse Mia. Lei è più aggraziata, più fine e, se vogliamo dirla tutta, anche più bella. Credo che lei la odiasse, per questo, quando è diventata mia amica, lei non ha perso tempo per mettersi al centro dell’attenzione in tutti i sensi. E ci è riuscita, nonostante non sappia fare nulla. Ma questo, purtroppo, nessuno lo nota.
La canzone finisce e il pubblico è in delirio, professori compresi. Cantare dopo di lei è come mettersi sulla gogna da solo. Sarebbe un colpo secco assicurato. Per questo nessuno lo fa.
Jessica scende dal palco e il chitarrista della band si avvicina al microfono con un foglietto di carta in mano. Si sgranchisce la voce e inizia a leggere. << Allora … Il prossimo che si esibirà nel karaoke è … >> Inizia a scrutare il foglietto di carta in cerca del prossimo nome.
Mia fa un sorrisetto. << Sono proprio curiosa di sapere chi è questo pazzo>>, mi bisbiglia all’orecchio. Io sorrido.
<< Ah, ecco!>> esclama il chitarrista, che nel frattempo ha trovato il nome che cercava. << Il prossimo a esibirsi è Valeri Hart!>>
Rimango di ghiaccio. Strabuzzo gli occhi e mi sento un nodo in gola. Mia mi scuote un braccio, nel frattempo fra i presenti si alza un brusio, seguito da un risolino.
<< Valeri! Valeri!>>, chiama Mia, scuotendomi ancora di più il braccio. Anche John inizia a scuotermi le spalle.
Il deglutisco a fatica. << Eh?>> dico.
<< Ha chiamato te?>>
Non riesco a rispondere. Non so cosa rispondere. << Io .. io non mi sono iscritta!>> riesco a balbettare.
<< Non mi avevi detto di saper cantare!>>, fa Mia.
<< Infatti io NON so cantare!!>>
<< Valeri Hart! Ci sei?>> urla di nuovo il ragazzo sul palco.
<< Che c’è Rigida?>>, urla Jessica dall’altra parte della stanza. << Hai forse paura?>> C’è una risata fra i presenti. Mi sento avvampare. Da dietro qualcuno mi spinge.
<< Muoviti Valeri!>> mi incita Mia. << Sali su quel palco!>>
Guardo lei, poi guardo John, terrorizzata. Lui allarga gli occhi con fare ovvio e fa cenno col capo verso il palco. << Va >>, mi dice.
Io deglutisco a fatica e mi dirigo verso il palco. Sento le gambe di gelatina e la testa che mi gira. Salgo su e mi avvicino al chitarrista. È un ragazzo molto carino, con i capelli scuri e gli occhi verdi. Appena mi vede mi sorride.
<< Oh, allora sei tu Valeri Hart!>> Non capisco cosa voglia affermare con quel sorrisino. Mi conosce già? Perché io non l’ho mai visto. Annuisco in imbarazzo. << Bene>>, fa lui. << Io sono Matt, e loro sono George, Kyle e David>>, continua, indicando con un cenno prima il batterista, poi il ragazzo al basso e poi il pianista. Loro salutano. << Cosa vuoi cantare?>>, mi chiede ancora.
Io cerco di parlare. << Ecco, è proprio questo il problema. Io non voglio cantare. Non mi sono neanche iscritta al karaoke. Non so neanche cantare!>>
Lui mi guarda stranito. << Si che sai farlo. Lo hai detto tu.>>
<< Quando?!>>
<< Prima, mentre passavo per raccogliere le iscrizioni. Dicevi di essere una cantante bravissima e di voler mostrare a tutti la tua “soave” voce.>>
Strizzo gli occhi e mi metto la testa fra le mani. << No, no, no! Io … non dicevo sul serio!>>
Il volto di lui si fa improvvisamente serio. << Senti, noi abbiamo una scaletta da rispettare, e non possiamo certo cambiarla per delle crisi di panico! Quindi, ora vai lì e canta qualcosa.>> Nella sua voce noto un tono di incoraggiamento, o forse mi sbaglio. Mi faccio forza e mi avvicino al microfono.
Guardo davanti a me. Non mi ero resa conto che la stanza fosse così piena fino ad ora. Mi sgranchisco la voce e il microfono emette un suono acutissimo, tanto che tutti si tappano le orecchie. Guardo Mia, in preda al panico. Non ho idea di cosa cantare. La mia mente è completamente vuota. Lei lo capisce subito. Chiude la mano a pugno, tenendo alzati solo il mignolo e il pollice, poi se l’avvicina all’orecchio e la agita.
Capisco al volo quel gesto. Un giorno, mentre eravamo nel bar dove lavora suo fratello, la radio ha trasmesso la nuova canzone di Carly Rae Jepsen, “Call Me Maybe”. Abbiamo subito iniziato a cantarla e appena è partito il ritornello entrambe, senza volerlo, abbiamo fatto lo stesso gesto. Abbiamo subito iniziato a ridere e da quel momento quella è diventata la “nostra” canzone.
Ora lei sta rifacendo quel gesto, quindi mi sta proponendo di cantarla. Mi volto verso la band. << Conoscete “Call Me Maybe” di Carly Rae Jepsen?>>
Tutti e quattro annuiscono. Il batterista batte il tempo sulle sue bacchette. << E uno, e due … e un, due tre!>> La musica parte. Una luce accecante mi illumina il volto. Mi copro gli occhi con le mani, a disagio. Ora sarò ancor di più al centro dell’attenzione. Ma ora mai sono dentro a questo guaio, e devo trovare il modo di uscirne. Le battute iniziano.
<< I threw a wish in the well.
Don’t ask me, I’ll never tell.
I looked to you as it fell,
and now you’re in my way.>>
Le gambe mi tremano e sento la gola secca, ma devo continuare.
<< I trade my soul for a wish,
pennies and dimes for a kiss.
I wasn’t looking for this,
but now you’re in my way.>>
Tutti i ragazzi in sala iniziano a battere a tempo le mani. Io sorrido. Non sto cantando male, anzi, sono parecchio intonata. Inizio a prenderci gusto e stavolta continuo con più convinzione.
<< Your stare was holdin’.
Ripped jeans, skin was showin’
Hot night, wind was blowin’
Where you think you’re going, baby?>>
Sono carica. Vai col ritornello!
<< Hey, I just met you,
and this is crazy,
but here’s my number … >>
Chiudo la mano a pugno, tenendo alzati solo il mignolo e il pollice, poi me l’avvicino all’orecchio e la agito.
<< … So call me, maybe?>>
Guardo Mia e lei sorride, divertita.
<< It’s hard to look right,
at you baby,
but here’s my number… >>
Di nuovo lo stesso gesto, e sta volta lo fa anche lei.
<< … So call me, maybe?
Hey, I just met you,
and this is crazy,
but here’s my number … >>
Stavolta sono davvero sorpresa, perchè lo fanno tutti.
<< … So call me, maybe?
And all the other boys,
try to chase me,
but here’s my number … >>
Di nuovo tutti quanti, professori compresi.
<< … So call me, maybe?>>
Inizio a prendere il ritmo. Prendo il microfono in mano e continuo, divertita.
<< You took your time with the call,
I took no time with the fall
You gave me nothing at all,
but still, you’re in my way.
I beg, and borrow and steal
Have foresight and it’s real
I didn’t know I would feel it,
but it’s in my way.>>
Scendo dal palco e corro verso Mia. La prendo per mano e la trascino sul palco. Lei sembra per un momento contraria, poi mi segue ridendo.
<< Your stare was holdin’, Ripped jeans, skin was showin’
Hot night, wind was blowin’
Where you think you’re going, baby?

Hey, I just met you,
and this is crazy,
but here’s my number …>>
Entrambe facciamo lo stesso gesto e gli altri ci seguono.
<< … So call me, maybe?
It’s hard to look right,
at you baby,
but here’s my number ….>>
Di nuovo.
<< … So call me, maybe?
Hey, I just met you,
and this is crazy,
but here’s my number … >>
Ancora.
<< … So call me, maybe?
And all the other boys,
try to chase me,
but here’s my number …. >>
Un’altra volta.
<< … So call me, maybe?>>
Ora io e Mia iniziamo a battere fianco a fianco a ritmo di musica.
<< Before you came into my life
I missed you so bad
I missed you so bad
I missed you so, so bad.>>
Tutti gli altri fanno come noi.
<< Before you came into my life
I missed you so bad
And you should know that
I missed you so, so bad.
It’s hard to look right,
at you baby,
but here’s my number… >>
Di nuovo!
<< … So call me, maybe?
Hey, I just met you,
and this is crazy,
but here’s my number …>>
Evvai!!
<< … So call me, maybe?
And all the other boys,
try to chase me,
but here’s my number … >>
Un’ultima volta.
<< … So call me, maybe?>>
Battiamo di nuovo tutti quanti i fianchi contro colui che abbiamo accanto. Mia ha fatto salire sul palco un’altra ragazza e si sta scatenando insieme a lei. Anche il bassista e Matt battono i fianchi mentre suonano, e io non posso far a meno di ridere.
<< Before you came into my life
I missed you so bad
I missed you so bad
I missed you so so bad. >>
Ok. Sono pronta. È l’ora del gran finale.
<< Before you came into my life
I missed you so bad
And you should know that.

So call me, maybe?>>
È finita. Ce l’ho fatta. Tutti applaudono con enfasi. Sento fischi e urla. Sono tutti in delirio. Anche Mia urla da sopra il palco. Guardo John. Applaude e urla anche lui e, sorridendomi, mi fa il segno dell’ “Ok”. Vuol dire che sono stata brava. Sento una mano scrollarmi una spalla.
<< Cavolo! Sei stata mitica!>> urla Matt, pieno di adrenalina. << Non facevo un concerto così da secoli!>> continua, ridendo. Mi abbraccia, stringendomi i fianchi e mi alza, girando su se stesso.
Sono soddisfatta di ciò che ho fatto. Ho dimostrato di non essere una nullità. Io sono Valeri Hart, e sono brava a cantare.
Scendiamo tutte dal palco, lasciandolo tutto per la band, che ora suona le sue canzoni. Raggiungiamo John. Mia mi abbraccia.
<< Sei stata grande!>> urla, piena di euforia.
<< Grazie.>>
Lei si stacca da me e io guardo John. Lui fa un largo sorriso << Te l’avevo detto di essere convinta di te stessa. Ora lo sono anche loro.>>
Sorrido a mia volta. Sono piena di adrenalina e sono contentissima e fiera di me.
Il resto della serata è molto piacevole. Balliamo e ci scateniamo, spizzicando qualcosa dal buffet. Ogni tanto passa qualche ragazzo o insegnante per farmi dei complimenti. Questo mi riempie di gioia. Non sono più la Rigida della situazione. Ora Mark e Jessica possono dire quello che vogliono. Ormai non ha più importanza, perché tanto nessuno gli darà retta.
Io sono Valeri Hart, e da stasera la mia vita cambia radicalmente.

Angolo Scrittrice.
Holaa!!! Come va?
Eccomi qui con un nuovo capitolo! :D Com'è? Vi è piaciouto? :)
Spero di si.
Ho una piccola sorpresina per voi. Una foto, una foto di come immagino i personaggi.
Dall'alto a sinistra: Valeri, John, Mia, Mark, Mary e Jessica. ;)



Allora? che ve ne pare? Come vi sembrano? Così è come li immagino io, ma voi, ovviamente, potete immaginarli un po' come vi pare ;D
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Mi farebbe molto piacere se commentate.
Un bacio
ValeryJackson

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Mi sveglio con una strana sensazione nel petto. Mi alzo dal letto e vado in bagno, gli occhi ancora chiusi e la bocca impastata dal sonno. Mi guardo allo specchio e faccio una smorfia, disgustata dalle mie occhiaie e dai capelli arruffati.
Mi lavo e mi pettino. Poi riguardo la mia immagine. Va molto meglio, ma … dov’è finita la ragazza di ieri sera? Perché sono tornata la tipa brutta e insipida che ero prima. Ci penso su, e la risposta mi arriva chiara e lampante.
Apro un cassetto sotto il lavandino e ne estraggo una trousse bella che nuova. So che Mary la tiene lì, ma so anche che la usa raramente. La apro e inizio a tirare fuori il contenuto. Correttore. Ombretto. Matita. Eyeliner. Mascara. Fondotinta.
Li poggio tutti sulla mensola del lavandino e li osservo. Non mi sono mai truccata in vita mia, non da sola almeno. Potrei combinarmi come un pagliaccio. No, è troppo rischioso. Faccio per rimettere tutto a posto quando un pensiero mi attraversa la testa. E se invece ne fossi capace? Se riuscissi a sentirmi bella, per una volta? La posta in gioco è troppo alta.
Uff! Perché è così difficile prendere una decisione?
Sono così immersa nei miei pensieri che non mi accorgo nemmeno di Mary che ha aperto la porta del bagno. << Che stai facendo, signorina?>> dice, scrutando con occhio critico ora me, ora i trucchi sparsi sulla mensola. Vorrei mentirle, ma a che serve? Tanto scoprirebbe comunque la verità.
Faccio un respiro profondo. << Volevo truccarmi un po’ per andare a scuola >> ammetto. << Ma credo di non esserne capace.>>
Sul volto di Mary si allarga un sorriso luminoso, alquanto preoccupante. << Oh, tesoro! Ma è una cosa bellissima!>> esclama, venendomi in contro e abbracciandomi. Onestamente, non capisco cosa ci trovi di bellissimo. Si stacca dall’abbraccio e cerca di assumere un’espressione seria, ma io vedo benissimo che si sta sforzando di non ridere. Si sgranchisce la voce. << Qui urge un aiuto >>, dice. Esce frettolosamente dal bagno e, poco dopo, vi ritorna con in mano una sedia. Mi fa cenno di sedermi e io non obbietto. Perché rifiutare un aiuto? D'altronde, non ho niente da perdere. Lei si avvicina alla mensola e inizia a scrutare i trucchi, facendo scorrere il dito da l’uno all’altro. Poi lo ferma e afferra al volo quello che credo sia il correttore. Mi guarda, concentrata, poi fa una smorfia e lo getta via. Forse non ne ho bisogno. Così afferra due ombretti di colori diversi e mi si avvicina. << Chiudi gli occhi >>, mi dice. Io obbedisco. Sento le sue dita passare velocemente sulle mie palpebre. Poi posa l’ombretto e afferra qualcos’altro, che identifico come l’eyeliner, riconoscendo la sensazione che mi aveva dato quando me l’ha messo Mia. Poi posa anche quello e mi passa qualcosa di soffice sulle guance e sul naso. All’inizio mi fa il solletico, ma poi mi fa starnutire.
Poi, niente.
<< Apri gli occhi >>, dice Mary, e riconosco un tono di soddisfazione nella sua voce.
Li apro, molto lentamente, quasi avessi paura di vedere l’effetto. Mi sbagliavo. Mi guardo e rimango imbambolata nello specchio. Mi sporgo sulla sedia, poi mi riallontano. Quella tipa si muove come me, ma non sono io. Lei ha il volto più illuminato, gli occhi più penetranti, la pelle più rosea. Guardo il riflesso di Mary a bocca aperta. Lei mi sorride, compiaciuta.
<< Ti piace?>>, mi chiede.
Provo ad aprire la bocca per dire qualcosa, ma non ne esca alcun suono. Sono senza parole. Mi limito ad annuire. Mary batte le mani, contenta. << Bene!>> esulta << Sono contenta che ti piaccia! Ora troviamo qualcosa di carino da metterti!>>
Alzo la mano per replicare ma lei, ormai, è già uscita dal bagno e si è precipitata in camera mia. Mi guardo di nuovo allo specchio. Non posso crederci. Quella ragazza sono davvero io. Non sono chissà quale splendore, ma, devo ammetterlo, non ho molto da invidiare alle altre ragazze. Sorrido, contenta. Ora mi sento pronta per affrontare la giornata.
 
Esco di casa in tutta fretta e Mary mi accompagna a scuola. Sono in forte ritardo.
Abbiamo perso un po’ di tempo per scegliere cosa indossare. Alla fine, dopo molte battaglie di mia madre e molte proteste da parte mia, mi sono convinta ad indossare un paio di pantaloni di pelle, che secondo lei mi donano molto. Poi una maglietta bianca e un gilet nero, giusto per spezzare. Lei aveva insistito per i tacchi, ma quelli sono riuscita ad evitarli, perché sono convinta di non saperci camminare.
Scendo velocemente dalla macchina e mi catapulto dentro l’istituto. Appena entro, mille occhi si girano a guardarmi. Sento delle voci bisbigliare, ma non riesco a capire cosa dicono. Credo che le mie guance siano diventate rosse. Attraverso velocemente il corridoio, con la testa bassa, finché qualcuno non mi strattona per un braccio. Mi volto di scatto.
Mia mi guarda con gli occhi sgranati.
<< Valeri?>>
Sorrido. << Ciao Mia.>>
Lei mi squadra da capo a piedi. << Cavolo, ragazza! Sei … sei … >> sembra pensare alla parola giusta. << Bellissima!>>
Mi porto un ciocca dietro i capelli. << Grazie >>, mormoro.
Lei si sporge in avanti, avvicinandosi al mio volto. << E ti sei anche truccata! Ora si che ragioniamo!>> batte le mani con enfasi e inizia a ridere. Io mi guardo intorno, nervosa. La campanella suona.
<< Andiamo in classe >>, dico, e faccio per avviarmi, ma lei mi prende sotto braccio.
<< Aspetta, devi migliorare la postura!>>
Inarco un sopracciglio. << Come?>>
<< Non penserai mica di andare fino in classe con la testa bassa e la schiena incurvata, vero? Testa alta e schiena dritta! Forza!>>
La guardo scettica, ma capisco che non sta scherzando. Seguo il suo consiglio, raddrizzo la schiena e cerco di mantenere la testa più alta possibile.
<< Molto bene >>, mormora lei. << Vedi di camminare così, d’ora in poi >>, afferma. Io le sorrido e ci avviamo definitivamente verso la classe. Durante il tragitto mi sento osservata. Molti ragazzi si girano a guardarmi. Alcuni mi sorridono, ma forse è solo la mia impressione. Guardo davanti a me, cercando di ignorarli tutti. Arriviamo nell’aula di Lettere e ci sediamo velocemente ai nostri posti. Il professore inizia la lezione, ma io non la seguo. Perché mi fissavano tutti? Ho qualcosa in faccia? Non capisco.
Avrei dovuto seguire la lezione, ma in quel momento il pavimento mi sembrava molto più interessante.
 
Esco dalla classe con tanta velocità quanta vi sono entrata. Raggiungo il mio armadietto, inserisco la combinazione, lo apro e prendo i libri che mi servono. Lo chiudo con un tonfo e il mio cuore perde un battito. Lì, a pochi centimetri dalla mia faccia, John mi fissa, sbalordito. Sorride, il sorriso più bello di sempre.
<< Ciao >>, esclama. Credo di aver balbettato qualcosa di simile a un saluto, perché lui mi guarda e ride. << Come va?>>
Mi sgranchisco la voce. Non devo fare altre figuracce. << Ehm … bene, va abbastanza bene. Grazie.>> 
Credo di essere stata evasiva, perché lui annuisce, con fare comprensivo. << Ok >> dice, << Non ti va di parlare.>>
Alzo lo sguardo e lo fisso negli occhi. Sono di un blu fantastico, e mi ricordano sempre di più il medaglione che porto al collo. Per un attimo sento le gambe molli e il mio corpo surriscaldarsi, ma cerco di non perdere l’equilibrio. << Non è così >>, mormoro. << A me va di parlare con te, è solo che … sono … in ritardo, per la lezione.>>
Lui sorride e annuisce. Credo che il mio battito sia accelerato. Mi guarda. << Ok, non ti rubo altro tempo. Volevo solo parlarti della ricerca di Astronomia.>>
Deglutisco. Già, giusto, Astronomia, l’avevo dimenticato. Chissà che mi aspettavo. << Ti serve ancora il mio aiuto?>>, chiedo. Che domanda stupida, ovvio che gli serve il mio aiuto, altrimenti non l’avrebbe chiesto.
Lui si gratta la nuca, imbarazzato. << Beh, in realtà, si. Tu quando saresti disponibile?>>
Resto un attimo in silenzio.
Digli di no, digli che non sei disponibile mai. Digli che hai mille impegni e che non hai un secondo libero. Digli che di astronomia non ci capisci un tubo. Qualunque scusa, ma di qualcosa!
Abbozzo quello che dovrebbe sembrare un sorriso. << Quando vuoi >>, dico. Stupida!
Lui sorride. << Fantastico! Per te va bene dopo scuola?>>
Annuisco. << A dopo.>>
<< Ok, a dopo.>>
Faccio per andarmene ma la sua voce mi arriva forte e chiara. << Ah, Valeri!>>, grida. Mi volto. Lui si passa una mano fra i capelli, imbarazzato. << Sei bellissima.>>
Io mi volto e mi avvio verso la classe. Chiudo gli occhi. L’ha detto, l’ha detto davvero! Ha detto che sono bellissima. Il mio cuore ha preso di sicuro un battito, forse due. Riapro gli occhi e un sorriso abnorme mi si allarga pian piano sul volto.
 
Entro velocemente nell’aula di Matematica. Non perché abbia voglia di fare lezione, solo che sono ancora un po’ agitata. Il complimento di John mi ha lasciato senza parole, e credo di avere ancora quel sorrisino ebete stampato in faccia. Mi siedo al primo posto che trovo, poggiando lo zaino sul banco. Lo apro e controllo il contenuto. Astuccio. Diario. Libro. Blocco per gli appunti. Passiamo alle cose essenziali. Macchina fotografica. Blocco da disegno. Telefono. Ok, è tutto regolare.
La campanella suona e, con riluttanza, sposto lo sguardo sulla lavagna. Il professor Cook è un uomo sulla sessantina, tanto magro quanto noioso. I suoi anni li porta malissimo, e quando parla, ogni tanto, sembra borbottare cose senza senso, come pensieri e riflessioni personali. È facile annoiarsi durante una sua lezione, così infilo una mano nello zaino e prendo il blocco da disegno. Vorrei scattare qualche foto, ma il preside mi ha severamente vietato di farlo, così questa è l’alternativa migliore. Lo apro e cerco una pagina bianca. Quando la trovo afferro la matita e mi guardo intorno. Che disegnare? Nell’aula tutti dormono, annoiati. C’è una ragazza che si fa una treccia e un ragazzo che si scaccola più avanti. Mi accorgo solo ora di essermi seduta all’ultimo banco. L’aria è fredda e le finestre sono chiuse e appannate da una leggera nebbiolina che aleggia fuori. Guardo il professore. Sta scrivendo alla lavagna, e ho davvero paura che prima o poi si spezzi. C’è un silenzio strano ed insolito, molto noioso.
Sto per richiudere il quaderno e provare a seguire la lezione quando la porta si apre di scatto. Qualcuno entra e sento i miei muscoli contrarsi di rabbia. Mark James, con i suoi soliti vestiti da giocatore di football e i suoi ormai noti capelli pieni di gel, si catapulta in classe. Con lui ci sono anche Kevin e Nicholas. Hanno tutti e tre il respiro affannoso, segno evidente che hanno appena corso. La cosa non quadra.
Il professore si gira molto lentamente verso di loro. Li guarda di sottecchi, poi torna con gli occhi sulla lavagna. << Siete in ritardo >> dice, con noncuranza.
Mark fa qualche respiro profondo prima di parlare. << Si, lo so, ci scusi. Avevamo … avevamo degli allenamenti speciali con il coach.>>
Ptf. Tipico. Quando un ragazzo che fa parte della squadra di football, o di qualunque altra squadra della scuola, arriva in ritardo usa sempre la classica scusa, che però non si smentisce mai. “Avevamo degli allenamenti extra con il coach. Sa, c’è il campionato … “. Scrollo la testa e sono sorpresa di non vedere neanche l’ombra di una smorfia di incredulità sul volto del professore quando gli dice di andarsi a sedere.
Quell’uomo è troppo scemo.
Mark fa un sorrisetto compiaciuto, il prof ha abboccato. Va verso il suo banco e, prima di sedersi, mi guarda. Ha un sorriso malizioso stampato in faccia, come quello dei bambini quando hanno appena fatto una marachella a qualcuno per puro dispetto, e noto solo ora che ha le mani leggermente sporche di una tintura rossa. Vernice. Aspetta un attimo. Vernice? Cosa ci fa Mark James con la vernice? Qui qualcosa non quadra. E poi a cosa devo quel sorrisino strafottente. Che ha fatto? Che mi ha combinato stavolta per farmi arrabbiare? Per un secondo ho la sensazione che i miei muscoli si contraggano ancora di più. Stringo forte i pugni e cerco di frenare l’impulso di saltargli addosso e riempirlo di calci. Lo farei volentieri, ma che speranze ho io contro uno della sua stazza? Nessuna. Sento la mia fronte contrarsi in una smorfia di rabbia. Devo stare calma, lui non merita la mia ira. Devo stare calma. Una strana sensazione mi attanaglia lo stomaco e inizio a sudare. No, non può essere. Chiudo gli occhi. Devo stare calma. Devo stare calma. Devo stare calma. Pensa a cose piacevoli, Valeri. Pensa … pensa al volto di John. No! No, no, così è peggio. Pensa … pensa a tua madre. Si, pensa a Mary, che ti abbraccia  e che ti dice che ti vuole bene. Pensa a quando ti leggeva le favole prima di andare a letto. Pensa a quello che ha fatto per te. Improvvisamente mi sento più calma. Mi rilasso e riapro gli occhi. La classe è esattamente come prima, e nessuno sembra essersi accorto del mio attacco di panico. Ho l’impulso di controllarmi le mani, ma non lo faccio. Questa abitudine deve finire. Le mie mani non si sono mai illuminate. È stato tutto frutto della mia fantasia.
La campanella suona e tutti i ragazzi si precipitano fuori dalla classe, ansiosi di andarsene. Io aspetto che siano usciti tutti prima di andarmene. La confusione è l’ultima cosa che mi serve in questo momento. Mi alzo e, con calma, mi dirigo per il corridoio.
I ragazzi si muovono freneticamente. C’è chi parla vicino agli armadietti, chi corre per arrivare in tempo in classe, chi invece scappa semplicemente per andare i bagno. Diversi gruppetti si sono riuniti in posti strategici, i secchioni sono già in classe. Ora, in mezzo alla calma che cerco di tenere stretta, mi accorgo che questa scuola è come un High School. Già, un High School senza Musical.
Qualcuno mi chiama da dietro. Mi volto e un sorriso spunta sulla mia faccia. John è dietro di me e mi sta chiamando, facendosi largo tra la folla di gente. Mi raggiunge e si mi si posiziona accanto.
<< Ehi >>, mi dice. << Vai al tuo armadietto?>>. Io annuisco debolmente e lui sorride. << Bene, anch’io.>>
Poi si avvia lungo la massa di gente. Vado per seguirlo, ma faccio fatica a stargli dietro. Credo che lui se ne sia accorto, perché torna indietro e mi afferra per mano, poi riprende a camminare, facendosi largo a gomitate. Improvvisamente, un insolito calore si impossessa di me. Sento il mio viso prendere una tonalità tendente al rosso e la mia gola perdere la salivazione. Stai calma, mi ripeto, stai calma. È solo John. Già, è quello il problema. È John.
Finalmente, riusciamo ad uscire dalla massa di persone e ad arrivare in un corridoio meno affollato, i nostri armadietti sono a pochi passi di distanza. Riprendiamo a camminare e John, imbarazzato, mi lascia la mano e si guarda alle spalle. Credo di averlo visto arrossire, ma forse è solo una mia impressione.
<< Si può sapere perché sono tutti sempre così agitati?>>, chiede, con una smorfia.
Io sorrido amaramente. << Ben venuto a New York, Smith. Qui sono tutti, perennemente, frenetici. C’è sempre una grande attività.>>
<< Beh, dove vivevo prima io era molto più tranquillo.>>
Mi giro a guardarlo. Lo ha detto in un modo così spento, così privo di emozioni. E anche adesso ha gli occhi blu fissi nel vuoto, inespressivi. Di solito quando uno parla della sua città dovrebbe avere un sorriso divertito, dovrebbe ricordare tutte le cose belle con un luccichio negli occhi. E invece lui sembra quasi lo faccia con riluttanza. Oh, aspetta, ora ricordo. La sera del Columbus Day, John mi aveva confessato di non aver mai avuto dei veri amici, perché si era trasferito così tante volte da non averne avuto il tempo. Un po’ come è capitato a me. Mi accorgo solo ora di non avergli mai chiesto quante volte abbia cambiato città, quali posti abbia visitato. Distolgo lo sguardo e guardo gli armadietti. I nostri sono a tre passi da noi. Mi sgranchisco la voce.
<< John?>>, chiamo. Lui si volta e per un attimo ho perso la voglia di chiederglielo. << Tu … Tu quante volte ti sei trasferito?>>
Lui sembra raddrizzare la schiena e noto che ha irrigidito la mascella. Si ferma. Ecco il suo armadietto. << È così importante?>>, domanda, inserendo la combinazione. Io mi avvicino al mio e faccio lo stesso.
<< Beh, si. Insomma, sempre che tu voglia dirmelo … sai se non vuoi … >> apro l’armadietto con uno scatto e rimango scioccata. Una nube di vernice rossa si riversa su di me, ricoprendomi volto, vestito e scarpe. Guardo dentro. È tutto, completamente, rosso. Mi allontano dall’anta e mi volto a guardare John. Anche lui è ricoperto di vernice. Ha appena chiuso l’armadietto con un pugno e si è voltato. Nei suoi occhi c’è una rabbia incandescente, la stessa rabbia che sta pervadendo anche me. Qualcuno mi chiama da dietro. È Mia, che sta correndo a perdifiato con qualcosa stretta in mano. Credo sia una foto, ma adesso non sono abbastanza lucida per pensare. L’unica cosa di cui sono sicura è che anche lei è sporca di vernice. Mi si avvicina, ansante.
<< Anche il tuo?>> chiedo. Lei alza gli occhi e annuisce. Sono appannati e credo che voglia piangere. Li riabbassa e inizia a sfregare convulsamente le mani su quella che credo sia una foto. In quel momento Mark e i suoi amici ci passano accanto, ridendo. Alcuni ragazzi per il corridoio si fermano, contemplando la scena a bocca aperta.
<< Ops. Chi sarà stato?>> domanda con sarcasmo Kevin.
A quel punto capisco. Ricordo le mani sporche di vernice di Mark, lo sguardo compiaciuto che mi ha lanciato, il sorrisetto strafottente che aveva. Sono stati loro, ne sono certa, ma qualcuno l’ha capito prima di me.
Mia alza lo sguardo, furiosa e si scaglia contro di loro. << Lasciateci in pace!>> grida, buttandosi sulla schiena di Mark. Lui, però, ha dei buoni riflessi, e si gira giusto in tempo per afferrarla fra le braccia e spingerla via. Lei traballa e io la prendo in tempo. Qualcuno intorno a noi ride. Mark butta lo zaino a terra e si avvicina a noi con aria minacciosa, ma non è l’unico forte qui. John si para davanti a noi e gli mena una forte pacca sulla spalla, facendolo indietreggiare con uno scatto. Un “Ooh!” si leva per il corridoio e io mi guardo in torno. Sono circa quaranta i ragazzi che ci stanno osservando. Torno a guardare la scena.
John e Mark sono a pochi centimetri di distanza e si stanno fronteggiando. Non ho mai visto John così furioso. Ha tutti i muscoli del corpo irrigiditi e guarda Mark in un modo che metterebbe soggezione anche ad un adulto. Mark alza le mani come per zittire le voci intorno a lui e tutti non se lo fanno ripetere due volte. Si avvicina ancora di più a John e lui stringe forte i pugni.
<< Insomma ieri sera com’è andata John?>> comincia. Non ho idea di che cosa stia parlando ma riconosco un tono minaccioso e fin troppo calmo nella sua voce. John non risponde e lui continua. << Sai, nel football, al quarterback non deve mancare velocità, forza, ma soprattutto, deve avere intuito. Capire quando le cose si mettono male.>> Lo guarda negli occhi e mi sento raggelare. John stringe e riapre i pugni molto rapidamente, quasi stia frenando l’impulso di fargli un occhio nero. << Con te avrei dovuto seguire il mio istinto >>, conclude.
Solo ora John sembra accorgersi della gente che ha intorno. Vuole attaccare, ma non può, non con tutte quelle persone. Guarda Mark un’ultima volta, poi viene verso di noi. Mark sorride, compiaciuto.
<< Ecco John >>, esclama, battendo le mani. << Fai il bravo.>>
La campanella suona e l’ammasso di persone che c’era in torno a noi sciama con la stessa rapidità con cui si è formato.
<< Spero che un minimo di intuito ce l’abbia pure tu.>> fa Mark, prima di raccogliere il suo zaino per terra e andarsene.
Solo adesso, nel silenzio del corridoio, mi accorgo che Mia, fra le mie braccia, sta singhiozzando. La stringo forte a me, poi guardo John.
<< Andiamo a darci una ripulita >>, dico, fredda. Lui annuisce, la mascella ancora contratta, i pugni ancora serrati. Tutti e tre ci dirigiamo verso il  bagno.
 
Entro nel bagno. Abbiamo scelto di andare nel bagno dei professori, giusto per stare certi che nessun’altro ci veda in questo stato, anche se sono abbastanza sicura che la notizia abbia già fatto il giro della scuola.
In bagno, John e Mia mi stanno aspettando. Hanno mandato me in spedizione punitiva in segreteria per reclutare qualche vestito pulito negli oggetti smarriti. Per me ho trovato una semplice maglietta bianca, Mia, invece, aveva già dei vestiti di ricambio nell’armadietto, quindi, alla fine, restava solo John.
Quando entro rimango a bocca aperta. John, in piedi davanti al lavandino, è intento a togliersi delle macchie di vernice dal volto. È a petto nudo, dato che la sua maglietta era sporca, e il suo corpo è perfetto. Ha le spalle abbastanza larghe, quanto basta per renderlo bellissimo, i muscoli di braccia e petto scolpiti, formandogli un’adorabile tartaruga sull’addome. Ma la cosa che mi impressiona di più è il ciondolo che ha appeso al collo. È ovale ed è di un blu intenso, con varie sfumature di grigio. È simile al mio. Anzi, no, è identico al mio!
Lo fisso ancora, cercando di scorgervi anche la piccola spirale azzurrina che il mio ha all’interno, quando lui alza gli occhi e incrocia il mio sguardo nello specchio che ha di fronte. Presa da un momento di agitazione non so che fare, così gli lancio la maglietta che ho in mano, che lui afferra al volo. La apre e la scruta con indecisione, poi inarca un sopracciglio e sorride.
<< Dovrei mettermelo?>> domanda. Io poso lo sguardo sul capo d’abbigliamento. È un maglione, vecchio e scolorito, a quadri blu e beige cacarella. Quando l’ho preso non mi sono neanche accorta di ciò che afferravo, presa dai miei pensieri.
Scrollo le spalle. << C’era anche la felpa di Hanna Montana, se vuoi>>, dico, avvicinandomi a lui, poi sorrido. << Dai, ti è andata bene.>>
John si posa il maglione sul petto e si guarda allo specchio. Sorride, divertito, poi lo indossa. << Secondo me li perdono apposta >>, commenta. Io sorrido e mi guardo allo specchio. Sono ripulita, ma come mi sono sciacquata la faccia parte del trucco è colato, formandomi delle linee nere sulle guance. Prendo il fazzoletto e, con uno sbuffo, inizio a pulirmi. Mi accorgo solo dopo di Mia, che, accanto a me, sta pulendo qualcosa dalla vernice. La riconosco, è la foto che prima aveva in mano. Ci sono un uomo di colore di mezz’età con in braccio una bambina, sempre di colore, con due codine alla Pippi Calzelunghe e un simpatico vestitino rosa. Entrambi sorridono alla fotocamera. Sorrido e guardo Mia.
<< Chi è?>> chiedo, indicando con un cenno l’uomo nella foto. Lei smette di pulirla e sorride.
<< Mio padre >>. Un groppo mi si ferma in gola. Mi sembra ovvio! Che stupida che sono! Quindi la bambina nella foto è lei. << Quello vero >>, chiude l’acqua e la osserva.
<< Dov’è stata scattata?>> domanda John.
Lei dà le spalle al lavandino e ci guarda. << Messico >>, dice, con rimpianto. << Yucatan. Ci … ci andavamo ogni anno in cerca di prove sugli antichi astronauti.>>
<< Antichi astronauti?>> chiede ancora lui, scettico.
Lei sorride e annuisce, lo sguardo fisso in un punto indefinito. << Si. Gli ufo, eccetera. Roba da fissati. Lui … si definiva un antropologo. In realtà era capo squadra in acciaieria. Passava il tempo a prepararsi per non si sa quale arrivo degli alieni >>, si blocca un attimo per fare un sospiro, prima di continuare. << Io pensavo fosse un genio. Dovevo pensarlo. È dura ammettere che il proprio padre è un fissato.>>
Le poso una mano sulla spalla. Vorrei confortarla, vorrei dirle qualcosa per farla stare meglio, per farla sorridere, ma non ho la più pallida idea di cosa dire. Questo è un argomento troppo delicato.
Lei abbassa lo sguardo sulla foto e sorride amaramente, poi la accartoccia e la butta in un secchio. Raccoglie le sue cose e se ne va. Faccio per seguirla, ma lei si muove velocemente. La chiamo, ma non mi sente, o forse non vuole sentirmi, il che è più plausibile. La vedo che svolta a destra e imbocca il corridoio. Accelero il passo e imbocco lo stesso corridoio, poi mi blocco. Lì, a pochi metri da me, Mark e Jessica stanno uscendo dall’aula di Musica. All’inizio sembrano non fare caso a me, poi mi notano e mi sorridono con aria di sfida. Un nuovo calore sembra impossessarsi di me e un brivido freddo mi percorre tutta la schiena, fino ad arrivare alla punta delle orecchie. Sento uno strappo alla bocca dello stomaco e la vista mi si appanna. No, un altro attacco di panico no. Qualcuno mi si affianca e mi scuote una spalla.
<< Valeri … >> mi chiama. Il suono arriva ovattato, lontano, ma riconosco la voce di John. << Tutto ok?>>
Annuisco, incerta. Lui mi dice qualcos’altro. Credo stia parlando del nostro appuntamento per la ricerca di Astronomia, perché sento nominare le cinque e il parco giochi abbandonato dietro la scuola. Mugugno qualcosa di simile a un “ok”, poi me ne scappo, passando per l’altro corridoio.
Devo stare calma, tutto questo non è reale.

Angolo Scrittrice.
Bonjour! Comment êtes-vous? Tout va bien? Je l'espère ...

Ahahah! Ciao! Come va? :D Piaciuto il capitolo? Spero di si! ;)
Non ho niente di importante da dirvi, se non di commentare e di ringraziarvi per aver letto un'altro noioso capitolo di questa noiosissima storia (Come d'altronde lo sono tutte quelle che scrivo).
Spero comunque che apprezziate :)

Per ringraziarvi di aver letto il capitolo, (e anche per la gioia di alcune di voi **) vi lascio una gifs di John, diciamo mentre si trova in bagno, và ;D

John


Un baiser
Votre ValeryJackson :*

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Arrivo al parco giochi con un po’ d’affanno.
Mi guardo in torno. Come sospettavo, non c’è nessuno.
Questo parco si trova esattamente dietro la nostra scuola, a pochi metri di distanza dall’entrata secondaria della palestra. Non ci viene mai nessuno. Un po’ perché è pieno di erbacce e rami secchi che nessuno ha voglia di togliere, un po’ perché la maggior parte delle giostre sono precarie, alcune pure rotte. L’unica, forse, stabile è l’altalena, ma io non ne sono così sicura.
Guardo l’orologio del telefono. Mancano dieci minuti alle cinque. Sono in anticipo per l’appuntamento con John. Tanto vale aspettarlo.
Spero solo che arrivi con un po’ di ritardo, perché non voglio fare la parte della ragazza rompiscatole che arriva prima di tutti.
Apro la mia borsa. Dentro c’è il minimo indispensabile. Il blocco da disegno. Quello per gli appunti. Un pacchetto di gomme aperto. Una matita. Il libro di Astronomia. La macchina fotografica.
Non so esattamente a cosa mi serva il libro di Astronomia. Ho detto a John che lo avrei portato in biblioteca, quindi non ha molto senso usarlo. Ma vabbè, ormai.
Prendo una gomma da masticare e la mangio. È alla menta, le mie preferite. Poi prendo la macchina fotografica e me la appendo al collo. Farò qualche foto, giusto per ammazzare il tempo.
Qui lo spazio è pazzesco. Ci sono alberi spogli, foglie gialle e rosse a terra, e, se sei fortunato, vedi anche qualche volpacchiotto che si fa un giro. Ma io, ovviamente, non sono fortunata, e dopo aver scattato due o tre foto agli alberi e alle foglie ho finito i soggetti.
Amareggiata, mi siedo sull’altalena. Oggi non è proprio giornata. Cioè, neanche ieri era giornata, e neanche l’altro ieri. Ma insomma, riuscirò mai ad avere la fortuna dalla mia parte?
Mentre sono persa a pensare imprecazioni per la mia sfortuna scorgo una farfalla volare nell’aria.
Strabuzzo gli occhi. Siamo ad ottobre, e di farfalle non se ne vede neanche l’ombra. Forse me la sono immaginata. O forse no.
Afferro freneticamente la macchina fotografica e punto l’obbiettivo ma … la farfalla è sparita. Come non detto.
Mi poggio la macchinetta in grembo e provo a cercarla con lo sguardo, ma niente, non se ne vede neanche l’ombra.
Sbuffo e abbasso gli occhi, rassegnata. Ed eccola li! Eccola, con le ali spiegate, che si posa delicatamente sull’obbiettivo della macchina fotografica.
È bellissima. Le sue ali sono di un rosa candido, puntellate da piccole chiazze nere. È piccola, e sembra indifesa, ma non ha paura.
Avvicino un dito e provo a prenderla, titubante. Lei non si oppone, e salta sul mio dito con una tale grazia, che quasi non me ne accorgo. Sembra di toccare l’aria, perché è così leggera da essere quasi inesistente.
La avvicino al mi volto e, inaspettatamente, le mi vola sul naso. Rido, divertita. E la osservo. È proprio una farfalla coraggiosa. È piccola, e nessuno crede in lei, ma non le importa. Lei affronta il pericolo, senza pensare a cosa potrebbe accadere dopo. Vorrei tanto essere come lei. Vorrei tanto avere il coraggio di dimostrare a tutti che solo perché sono piccola e esile non vuol dire che io non abbia la forza necessaria per affrontare il mondo.
Improvvisamente sento una nuova energia dentro. Ma stavolta è un’energia positiva, che mi carica!
La farfalla si stacca lentamente dal mio naso e, dopo aver fatto qualche volteggio in aria, si allontana, volando via fino a scomparire.
Sorrido, e mi guardo intorno. Nessuno ha visto quello che è successo. John non è ancora arrivato. Forse se lo racconto a qualcuno mi prenderanno per pazza.
Mi accorgo di essere ancora seduta sull’altalena. Non so cosa fare, così mi metto a girare, facendo intrecciare le corde. Poi comincio a volteggiare lentamente. Sento il vento sferzarmi il volto. Fa molto freddo, e io indosso una paio di jeans scuri e una giacca nera. Poi dei guanti, una sciarpa e dei semplici paraorecchie. Sento le mie gote e il naso arrossarsi e agli occhi mi si formano delle leggere lacrime a causa del vento, così li chiudo.
Continuo a volteggiare. Mancano solo tre giri perché l’altalena torni normale.
Qualcosa, però mi blocca di colpo. Apro gli occhi.
Davanti a me, a tre centimetri dalla mia faccia, gli occhi blu di John mi fissano, luccicanti e sorridenti. Anche lui ha le gote un po’ arrossate, e la sua carnagione perfetta risplende alla luce dell’unico lampione del parco. Indossa un cappellino di lana verde, dei jeans neri e una semplice camicia grigia, arrotolata fino ai gomiti, come se lui non sentisse il freddo. Le sue labbra si allargano in un sorriso fantastico.
<< Ehi >>, dice.
Ad un tratto mi sento in imbarazzo. Da quanto tempo era lì? Quanto ha visto?
Accenno quello che dovrebbe essere un sorriso, ma le labbra mi tremano.
<< Ciao, John >>, dico, maledicendomi mentalmente per il tremolio della mia voce.
Ci guardiamo un po’ negli occhi, in silenzio, poi lui lascia andare l’altalena e io finisco di fare i miei giri. Quando arriva l’ultimo salto giù. Non avevo calcolato il fatto che lui non si fosse spostato. Gli cado addosso. Lui traballa, ma non perde l’equilibrio. Per attrito mi avvolge fra le sue braccia, ed io vengo spinta verso il suo petto.
Lo guardo negli occhi. Sta sorridendo, e quella tonalità di blu mi fa perdere la lucidità. Sento le gambe molli, e credo che le mie guance siano diventate ancora più rosse. Il mio cuore ha preso un battito, e riesco a sentire il suo caldo respiro sul volto.
Poi, qualcosa mi scatta nella mente. Un ricordo, no, ma che dico un ricordo! Una visione. La visione che speravo di non avere mai più.
Vedo immagini sfocate. Vedo un’astronave, gente che piange, persone che corrono, vedo un uomo di mezz’età che abbraccia una bambina di due anni, vedo una donna giovane che corre con in grembo un fagotto. Vedo la distruzione, l’odio, la guerra. Poi svanisce tutto, così come è apparso.
Sono sconvolta e molto turbata. Ma che significa? Perché continuo a vedere queste cose? La prima volta che le ho viste ero con … John! Oh mio dio! Non può essere colpa sua. Insomma, che senso avrebbe?
Lo guardo, perplessa. Mi sta ancora cingendo la vita.
Dovrebbe lasciarmi, ma non lo fa. Perché non lo fa? Si limita a guardarmi, ma perché? Che cos’ho di tanto strano?
Vedo i suoi occhi farsi più vicini. Oh, aspetta. Si sta avvicinando? No, no! Non può avvicinarsi! Non può essere!
<< Io … >> balbetto. Non so cosa fare. Che devo fare?
Allontano il mio corpo dal suo, divincolandomi dall’abbraccio. << Io credo che dovremmo andare. Altrimenti la biblioteca chiude.>>
Lui si gratta nervosamente la nuca e guarda per terra. << Già, lo credo anch’io>>, dice.
Non aspetto che dica altro. Metto la mia macchina fotografica nella borsa e mi avvio verso la biblioteca, turbata.
Non aspetto che lui mi segua, perché poco dopo lo sento accanto a me, la sua spalla contro la mia.
Sé possibile, il mio cuore prende un altro battito.
 
Usciamo dalla biblioteca circa un’ora e mezzo dopo.
Lo so, è un po’ poco, ma fidatevi, quando si sta tutto quel tempo in mezzo a dei libri rarefatti, con la mente concentrata e gli occhi della bibliotecaria che ti osservano frenetici per controllare che tu non stia facendo o rubando niente, un’ora è più che necessaria!
Siamo riusciti a finire la ricerca, e, devo ammetterla, abbiamo studiato davvero bene! Io ho un metodo di studio tutto mio, e all’inizio è stato difficile riuscire a lavorare serenamente con John, soprattutto dopo ciò che era successo prima. Ma poi, dopo qualche risata e qualche frecciatina più che lecita, siamo riusciti a concentrarci, prendendo diversi fogli e facendone dei bigliettini con sopra diverse domande, poi estraendone alcuni a caso e vedendo se riuscivamo a rispondere. Quando ce la facevamo, esultavamo come dei bambini, guadagnandoci delle occhiatacce dai presenti e degli scorbutici “Schh” dalla bibliotecaria, che quando ce ne siamo andati ha allargato sul suo volto un sorriso, quasi non vedesse l’ora. E non posso darle torto! Io, personalmente, non ho fatto che ridere tutto il tempo, producendo quel suono acuto che diventa la mia voce quando rido di cuore. Non riesco più a respirare e, per riprendere fiato, emetto lo stesso suono del fischio di una locomotiva a vapore. Imbarazzante, ma John l’ha trovato divertente. Credo di non aver mai visto nessuno fare tanto casino in una biblioteca.
Adesso, mentre cammino per le strade di New York, se ripenso al volto di quella donna e a come l’abbiamo fatta esasperare, non posso fare a meno di sorridere.
Mi guardo intorno, per cercare di capire dove sono. La gente si muove freneticamente. Alcuni corrono, altri hanno tutta l’aria di non avere fretta. New York è in assoluto la città più frenetica che io abbia mai visto, in cui abbia mai vissuto.
Metto la mano nella borsa e la cerco testoni. Una volta trovata, caccio la mia macchinetta fuori, intenta a fare qualche foto.
Dunque, cosa immortalare? Ci sono due anziani signori che giocano a scacchi seduti su una panchina. Due donne camminano con i propri passeggini, raccontandosi vari fatti e spettegolando come due vecchie amiche. Un barbone sta mangiando un pezzo di pane che ha appena comprato racimolando i soldi guadagnati dalle sue elemosina, dividendone un po’ con il suo fido cane.
Prendo la macchina fotografica e metto a fuoco la scena. Provo a scattare, ma … la macchinetta non emette il solito fruscio, non ha nemmeno scattato. Provo di nuovo, ma accade la stessa identica cosa. Sembra quasi fosse inceppata. La apro ed estraggo la pellicola. Ecco, come sospettavo. Ho finito gli scatti. Fantastico! Ora dovrò restare senza fare foto fino a domani.
Sbuffò, guardandomi intorno per cercare qualcosa di interessante da fare, finché il mio sguardo non viene attirato da un negozio. “Ale vende tutto”. Non l’ho mai sentito, ma, d’altronde, sono disperata.
Mi avvio verso il negozio ed entro. Quando apro la porta, si sente un lieve scampanellio di qualche acchiappasogni appeso alla porta. Mi guardo intorno, il locale è immenso. Da fuori sembra molto più piccolo, ma appena entri dentro, ti accorgi che è davvero possibile che Ale venda tutto.
Non so come orientarmi, così vado dritta verso la cassa, guardandomi intorno. Non c’è molta gente. Le uniche persone sono una mamma con il figlio, intenti a comprare dei quaderni per la scuola, e una ragazza, che mi guarda in modo torvo per tutto il mio tragitto. Credo sia una di quelle che abbiamo disturbato in biblioteca, ma non perdo molto tempo a pensarci.
Mi avvicino alla cassa, ma non c’è nessuno. Mi sporgo un po’ sul bancone e noto un uomo abbastanza in carne, con una camicia a quadri scolorita e dei jeans a vita bassa che non sono esattamente un bello spettacolo. Mi sgranchisco la voce. Capisco che lui mi sente quando frettolosamente cerca di alzarsi, andando a sbattere con la testa contro il bancone. Mi guarda, massaggiandosi la parte dolorante.
<< Salve >>, dice sforzandosi di sorridere. Solo ora noto i lunghi e folti baffi nel quale scompaiono le labbra e il viso tondo, con le gote e il naso arrossati. Presumo che questo sia il famoso Ale. << Posso aiutarla?>>
Non so perché, ma se incontrassi un barbone per strada conciato così non gli darei un soldo. Sospiro. << Vendete per caso dei rullini per le macchine fotografiche?>>
Lui sembra pensarci un attimo. << Si, Certo >> dice, poi mi da le spalle e prende una scatola dallo scaffale che ha di fronte. Poggia la scatola sul bancone. << Quanti ne vuole?>>
Li osservo. Non ho idea di quanto costino, e non so neanche se ho i soldi per comprarli. << Tre … >> dico, indecisa.
Lui ne afferra tre e me li porge. << Sono tre dollari.>>
Annuisco e prendo il portafogli, pregando con tutta me stessa di riuscire a pagarli. Quando scopro di avere esattamente $4,50, sul mio viso si forma un’espressione compiaciuta. << Ecco a lei >>, dico, e glie li porgo. Lui mi ringrazia e mi saluta, dicendomi che sarò sempre la benvenuta, mentre mi avvio verso la porta.
Esco, soddisfatta, e continuo a camminare, quando una voce alle mie spalle mi costringe a voltarmi.
<< Striking New York?>> chiede John, appoggiato con la schiena al muretto del negozio, le mani dentro le tasche.
Sorrido. << Lo so, è snob. Pretenzioso, anche >> dico, riprendendo a camminare. Lui si stacca dal muretto e mi raggiunge.
<< Beh, non è quello che stavo per dire, ma … >>
<< Serviva un nome per il mio sito web e mi è venuto in mente quello >> lo interrompo.
Facciamo qualche passo in silenzio, finché  non sento la sua spalla contro la mia. Non lo vedo in faccia, ma ho quasi l’impressione che stia sorridendo. << Sai una cosa?>> mi dice. << Questa città la chiamerei … Purgatorio.>>
Ci penso un po’. << Striking Purgatorio?>> Sorrido. << Ha un suo perché.>>
Ci guardiamo e ridiamo insieme. I lineamenti del suo volto sono freschi e sciolti, e credo di non averlo mai visto così rilassato. << Che hai fatto oggi?>> gli chiedo. << Sembri … diverso.>> Lui sorride. << Come quando uno non ha … >> provo a finire la frase, ma qualcuno mi spintona, sorpassandomi.
<< Ehi, Valeri! Vieni oggi?>> mi chiedono due bambine.
Non posso fare a meno di sorridere. << Certo che si!>>
<< Bene, ti aspettiamo!>> poi si prendono per mano e saltellano via. Le osservo, e ho l’impulso di prendere la macchinetta. La afferro dalla borsa, insieme ad una nuova pellicola.
<< Scusa, reggi questa?>> dico a John, porgendoli la mia borsa.
<< Si, certo.>> Mi dice con un  sorriso. Cambio pellicola e metto a fuoco, iniziando a scattare fotografie a quella scena giusto in tempo, prima che le due bambine si confondano fra la gente.
<< Che carine … >> mormoro, fra me e me.
<< Dicevo … insomma … le tue foto … >> continua lui.
<< Beh, con dei piccoli lavoretti compro le pellicole, e quelle … sono due delle mie vittime.>>
<< Però cercavo … >> mi si para davanti all’improvviso e lo ritrovo, improvvisamente, a pochi centimetri dal mio volto. << Cercavo di farti un complimento >> dice, poi sorride. << Però non mi è riuscito bene.>>
<< Ah >> dico, sentendomi avvampare. Provo a sostenere il suo sguardo, ma quegli occhi blu mi mettono i soggezione. Abbasso gli occhi sulla macchinetta che mi sto rigirando fra le mani. << Beh, allora … grazie >> balbetto, abbozzando un sorriso.
Un complimento! Mi ha davvero fatto … un complimento!
Faccio un bel respiro, e provo a dire qualcos’altro. << Non lo so, è che … vedo meglio, con questa.>> Lo guardo, e sorrido, maliziosa. << È il mio personale “ipocrita detector”.>> Lo inquadro con l’obbiettivo e lo metto a fuoco, scattandogli una foto. Lui evita di guardare l’obbiettivo, imbarazzato.
All’improvviso mi sento una stupida, ma lui non sembra a disagio, non molto almeno. Forse perché non è mai stato restio a farsi delle foto, o forse perché sta davvero iniziando ad entrare in confidenza con me. E, strano ma vero, anche io con lui. Non ho mai parlato così liberamente con una persona, aldilà di Mia e Mary. Ma con un ragazzo … no, sono più che si cura che lui sia il primo con cui mi confido, il primo che mi fa quest’effetto.
Ci guardiamo per un po’, poi, distrattamente, osservo l’orologio. E mi viene un colpo.
<< O mio dio!>> esclamo, allarmata. John mi guarda senza capire, con un sopracciglio inarcato.
<< Tutto ok?>>
<< No, io … devo scappare!>> Riprendo la mia borsa e vi ci infilo la macchinetta. Poi me la metto a tracolla.
<< Ma … dove?>> chiede lui.
<< In un posto. Scusa, John, ma non posso trattenermi oltre!>> Lo saluto con lo sguardo, poi me ne scappo via, catapultandomi dall’altra parte della strada e confondendomi tra la folla. Mi dispiace per come ho liquidato John, ma non devo, non posso fare ritardo! Ho promesso, e io mantengo sempre le mie promesse.
 
Corro a perdifiato in mezzo alla gente. Non ho idea di dove sono, ma riconosco la strada, e capisco di essere vicina. Sorpasso un gruppo di ragazzi che esce da una scuola di musica e poi una donna anziana con il suo cane, che mi abbaia furiosamente contro, poi giro a destra.
Come immaginavo, il vicolo è vuoto. Mi appoggio un attimo alle pareti bianche per riprendere fiato, poi riprendo a camminare. Il vicolo, del medesimo colore, è scalfito, a tratti, da dei graffiti, che ogni volta mi fermo ad ammirare, intrigata. Ne noto alcuni nuovi, ma non mi fermo. Sono già in forte ritardo.
Arrivata quasi alla fine del vicolo, giro a destra. Entro in uno spazio aperto, dove ci sono alcune case popolari, molte delle quali disabitate, e poi la struttura che cerco. È grande e imponente, ma, essendo ugualmente bianca, può sembrare benissimo una di quelle tante case senza vita. Sto per bussare, quando una voce irrompe alle mie spalle.
<< Ehi >>, mi saluta.
Io mi volto di scatto, e John mi sorride, radioso. << Ma che ci fai tu qui?!>> domando a denti stretti, fra il furioso e il sorpreso. La mia espressione, però, passa rapidamente dal curioso all’indignato. << Mi stai seguendo?>>
Lui scrolla le spalle. << No … >> risponde. << Ti ho … semplicemente visto mentre svoltavi, e ho pensato “Ehi, guarda. Quella è Valeri. Ora vado a salutarla”. Tu però non mi hai visto e te ne sei scappata via, così ho visto dove andavi.>>
Lo guardo in faccia. Sul suo volto è spuntata un’espressione furba e divertita. So che sta mentendo, me lo sento. Mi ha seguito, e questo mi fa infuriare, ma … ormai è qui, e io non ho prove per accusarlo di niente. Sbuffo. << Vedi di andartene.>>
<< Perché?>>
<< Perché … >> ci penso un po’, ma non c’è un vero perché. << Oh, insomma. Posso sapere che diavolo ci fai qui?!>>
Lui fa spallucce. << Te l’ho detto … volevo salutarti, e mi sono ritrovato qui >> dice, allargando le braccia e indicando lo spazio che ci circonda.
<< Beh, ora l’hai fatto. Puoi tornare a casa.>>
<< Perché, non posso venire con te?>> chiede lui. Rimango in silenzio. No, non puoi venire. Non se ne parla neanche! << Eh dai!>> mi implora, sfoderando degli occhi da cucciolo irresistibili e un labbruccio adorabile. << Ti prometto che farò il bravo … >>
Lo guardo negli occhi. No! No Valeri, non cedere. Resisti! Non dargliela vinta! Non dargliela vinta! Sbuffo, facendo roteare gli occhi. << Oh! Ok!>> dico, esasperata. Lui sorride, compiaciuto. Debole! << Ma!>> urlo, puntandogli un dito contro. << Non ne proferirai parola con nessuno, chiaro? Ed evitami i commenti!>>
Lui inarca un sopracciglio, curioso. << Perché? Cosa devi fare di tanto grave? Non stiamo mica andando a derubare un appartamento?>> chiede, tra il preoccupato e l’allarmato.
Mi impongo di sorridere. << Lo vedrai.>> Poi mi riavvicino alla porta e vi batto cinque volte. Aspetto un po’ nel silenzio, finché non mi arrivano altri due picchi di rimando. Sorrido, e batto altre quattro volte. Un altro picchio arriva dall’altra parte. Batto un’ultima volta. Aspetto un attimo. Dopo un po’, la porta si apre con un cigolio.
Un uomo di colore, grande e grosso, mi accoglie, allargando le braccia. << Valeri!>> esclama. << Ti stavamo aspettando!>>
Sorrido. << Ciao Antonio.>> Indico il mio amico con un cenno. << Lui è John, un mio amico. È con me.>>
Antonio sembra sospettoso. Si sporge un po’ per squadrare John aldilà della mia spalla. John abbassa lo sguardo, imbarazzato e lui torna a guardare me. Poi abbozza un sorriso. << Prego, entrate >> dice, aprendo di più la porta. Io e John entriamo e lui ci conduce attraverso il corridoio. Durante il traggitto, io e Antonio scambiamo due chiacchiere.
<< Allora? Come va a scuola?>>
Storco il naso. << Bene … Il solito.>>
Lui annuisce, comprensivo. << Viene a scuola con te?>> chiede, indicando John con un cenno.
Annuisco. << Si, frequentiamo due o tre corsi insieme.>>
Lui sembra dubitare di non so cosa, poi torna a guardare davanti a se. << Beh, sono contento che tu sia venuta. I bambini ti stanno aspettando.>>
John, che fino a quel momento era rimasto in religioso silenzio, ispezionando la stanza, inarca un sopracciglio. << Quali bambini?>> chiede.
Gli sorrido. << Lo vedrai presto.>>
Arrivati alla fine del corridoio, ci troviamo dinnanzi a una porta. Antonio la apre senza esitare e vi si catapulta dentro. Sto per fare lo stesso, ma vedo che John è esitante. Senza pensarci, gli afferro la mano. Mossa azzardata, perché la strana ma ormai familiare sensazione di avere le gambe molli si impossessa di me. Ma ormai è troppo tardi per tirarsi indietro. Sorrido. << Su, andiamo >> lo incito. Poi lo trascino attraverso la porta.
Appena entriamo, trovo esattamente ciò che mi aspettavo. Circa cinquanta bambini di ogni età mi corrono incontro, urlando il mio nome. Io mi chino e allargo le braccia, sorridente, e tutti cercano di stringermi in un caloroso abbraccio. << Ciao, ragazzi!>> dico, contenta. << Come state?>> Un marea di voci si confonde in un sonoro “Bene”. Mi rialzo da terra e presento il mio amico. << Bambini, lui è John. John, loro sono … i bambini.>>
Lui li guarda sbalordito, facendo scorrere rapidamente lo sguardo su ognuno di loro. Poi guarda me. << Era questa la grande sorpresa?>>
Sto per rispondergli, quando la voce di una bambina si leva dal gruppo. << Bacioo!>> urla, a squarcia gola. Gli altri bambini la imitano e iniziano a cantilenare insieme quell’odiosa parola. Mi sento avvampare e sono quasi sicura che le mie guance siano diventate color porpora. John abbassa lo sguardo, imbarazzato e divertito.
<< Ok, basta così!>> urlo. << Tutti dentro a disegnare, forza!>>
Un coro di “Ooohh” e di lamenti si leva nella stanza, ma nessuno obbietta e tutti si dirigono nell’altra stanza.
Mi volto a guardare John. << Scusa, sai … Bambini >> cerco di giustificarmi.
Lui sorride. << Non importa.>>
Annuisco, imbarazzata. Poi sospiro, più che intenzionata a cambiare discorso. << Beh, John. Benvenuto all’orfanotrofio Edgar Allan Poe!>>
Lui mi guarda sbalordito. << Orfanotrofio?>> Annuisco. << Vuoi dire che tutti quei bambini sono … orfani?>> fa molta fatica a pronunciare l’ultima parola, che gli esce con un tono di tristezza. Io annuisco di nuovo, cupa.
Sto per spiegargli tutta la storia quando, all’improvviso, qualcuno mi tira per l’estremità dei pantaloni. Abbasso lo sguardo per vedere chi è. Sorrido. È Maya, una delle tante bambine.
Maya è in assoluto la più piccola del gruppo, ma sicuramente la più particolare. Con la pelle leggermente abbronzata e i riccioli biondi, incarna esattamente lo stereotipo di bambina/bambola perfetta, a parte gli occhi. Sono di una particolare sfumatura di grigio, come di nuvole temporalesche; belli ma minacciosi, come se stesse studiando il modo migliore di metterti al tappeto, nonostante abbia solo cinque anni.
Mi guarda negli occhi, in silenzio. Provo a sorriderle, ma in quell’istante lei sposta lo sguardo su John.
<< Io sono Maya >> dice, porgendo la piccola manina a John.
Lui si abbassa e glie la stringe, delicatamente, sfoderando il suo sorriso migliore. << Ciao. Io sono John.>>
Lei annuisce e ritira la mano. << Si, so già chi sei >> fa seria. Lui sembra deluso ma non dice niente.
Poi, Maya gli si para davanti e gli fa cenno col capo di abbassarsi, molto probabilmente per guardarlo negli occhi. Conosco quel trattamento. Quando sono arrivata, lo ha riservato anche a me. È il suo modo per decidere se fidarsi o meno di una persona.
Lui sembra non capire e mi guarda spiazzato, così io gli indico con la mano di abbassarsi. Lui annuisce e si piega su un ginocchio, arrivando più o meno alla sua altezza.
Lei lo squadra un po’ in silenzio, poi gli accarezza il volto con la sua fragile ma ferma manina. << Sei carino >> gli dice.
John sorride. << Beh, grazie. Anche tu sei molto bella.>>
Stavolta, anche Maya sorride, con il suo sorriso bianco e gioviale. << Grazie. Sei il fidanzato di Valeri?>>
Mi sento avvampare e guardo fisso John. Lui scrolla la testa. << No, siamo solo buoni amici.>>
Mi rilasso, un po’ delusa, e mi accorgo solo ora di aver trattenuto il respiro.
Maya annuisce, comprensiva, e il suo sorriso si fa più radioso. << Quindi sarai il mio principe?>> chiede, con gli occhi che le brillano.
John sorride, intenerito, poi gonfia il petto e dice con voce solenne: << Si, mia Lady Princess!>>
Maya batte le mani, contenta, e io mi lascio scappare un sorriso. << Che bello!>> esclama lei. Poi gli si avvicina e lo squadra, come se cercasse qualcosa. Non trovandolo, lo guarda incuriosita. << Quali sono i tuoi super poteri?>>
John sembra irrigidirsi e il suo sguardo si fa preoccupato. << Come, scusa?>>
<< I tuoi super poteri >> ripete lei, con fare ovvio. << So che hai dei super poteri. Lo sento. Tu sei speciale. Come Valeri.>>
Lui mi guarda, senza capire. In realtà, neanche io capisco cosa voglia dire. Da quando io ho dei super poteri? Ma, ehi, infondo sono bambini, e la loro fantasia viaggia come un aquilone. Alzo le spalle.
Lui guarda Maya. << E … che genere di super poteri dovrei avere?>>
Lei ci pensa un attimo. << Ehm … non lo so. Puoi correre velocissimo? Puoi volare? Oppure riesci stendere un’intera banda di teppisti con la tua super forza?>>
Ora sono sicura che John si sia irrigidito. Aggrotto la fronte. Ma che gli prende?
Improvvisamente, con la stessa velocità con cui è arrivata, l’espressione preoccupata sparisce dal suo volto, lasciando spazio a quella maliziosa. Afferra Maya per le gambe e se la corica in spalla, facendola girare. << Oh, si!>> esclama. << Io ho la super forza!>>
Maya inizia a ridere e lui mi fa l’occhiolino, continuando a farla girare. Quando la rimette giù, sul volto della piccola c’è un’espressione estasiata. << Che bello!>> esulta. << Che bello! Che bello! Che bello!!>> continua di nuovo, abbracciando John.
Rimango a contemplare la scena, con un sorriso intenerito stampato in faccia. A quanto pare non lo fa solo a me, a quanto pare John fa quest’effetto a tutte le ragazze.
Aspetto un po’, poi batto le mani. << Bene, andiamo dagli altri!>>
John prende in braccio Maya e entrambi mi seguono nell’altra stanza, dove tutti gli altri bambini stanno disegnando.
<< Ehi!>> urlo, appena entro. << A chi va pane e nutella?>>
Un coro di “Io” e una valanga di mani si alzano immediatamente, mentre io mi precipito nella cucina dell’istituto per prendere l’occorrente.
 
Io e John camminiamo fianco a fianco.
Siamo usciti dall’orfanotrofio circa mezz’ora fa e abbiamo deciso di fare una passeggiata a Central Park.
<< Quindi … >> fa lui, per rompere il silenzio. << Tu vai lì quasi tutti i giorni?>>
<< Beh, si. Quando posso. Cerco di andarci almeno due volte a settimana, se non di più.>>
<< E fai volontariato?>>
<< Una specie. È come se facessi volontariato, ma nessuno lo sa. Anzi, molti non sanno neanche dell’esistenza di quell’orfanotrofio.>>
John annuisce, e facciamo qualche passo in silenzio, prima che lui mi porga un’altra domanda. << Da dove vengono quei bambini?>>
Sospiro. << Dalla strada. Si, la maggior parte di loro viene da lì. Gli altri … beh, gli altri sono stati strappati a famiglie che li sfruttavano e li maltrattavano. Sono quelli che nessuno vuole.>>
<< E voi vi prendete cura di loro?>>
<< Oh, no. È Antonio a fare tutto. Io do solo una mano.>>
Lui sorride. << Non è vero. Anche il tuo contributo è importante. Quei bambini sarebbero persi senza di te.>>
Lo guardo e inarco un sopracciglio. << E tu come lo sai.>>
Lui alza le spalle. << L’ho visto da come ti guardano. È come un carcerato guarda dopo molti anni il sole. Con estasi. Ti ammirano molto.>>
Sorrido, apprezzando il complimento. << Beh, anche tu hai fatto la tua porca figura, oggi. Le bambine non avevano occhi che per te.>>
Lui sorride imbarazzato e abbassa lo sguardo. << Già. I bambini, invece, credo che mi odino.>>
Ridiamo insieme, divertiti. << Sei il primo a saperlo, sai?>> gli dico.
Lui inarca un sopracciglio. << Che cosa?>>
<< Che faccio volontariato li. Non lo sa nessuno, neanche Mia e mia madre.>>
<< E perché non glie lo dici?>>
Alzo le spalle. << Io … non lo so. Insomma, sembra una cosa così … così stupida.>>
Lui mi guarda con i suoi occhi blu, squadrandomi. << Perché lo fai, Valeri?>>
<< Che cosa?>>
<< Perché fai tutto questo. Perché vai ogni settimana da quei bambini?>>
Ci penso un po’, in silenzio. Già, perché lo faccio? Forse perché le storie di quei bambini mi ricordano tanto la mia. Forse perché nessuno merita di essere dimenticato a quel modo. Si, so perché lo faccio. << Per aiutarli >> rispondo, decisa. << E per fargli capire che anche loro possono essere amati. E che anche loro possono sentirsi a casa.>>
John annuisce. << Beh, allora non è affatto una cosa stupida.>>
Ci penso un po’, poi sorrido. Come fa? Come fa a farmi sentire sempre così bene? Come fa a dare una risposta a tutte le mie domande? Già, magari potesse. Se così fosse, inizierei davvero a pensare che John abbia qualcosa di magico dentro di se, e che mi sia stato mandato qui per un motivo.
 
Senza accorgermene, tra una chiacchierata e l’altra, io e John arriviamo sotto casa mia.
<< È questa >> gli dico, indicandogliela.
Lui si lascia scappare un leggero “Wow” e si ferma un attimo a contemplarla, rapito. Poi mi guarda. << È davvero bella.>>
Annuisco, imbarazzata. << Grazie >> dico.
Restiamo un attimo in silenzio, poi lui sospira. << Beh, mi sono divertito molto, oggi. Grazie … grazie di tutto, Valeri. Ci … ci vediamo domani.>>
Annuisco, un po’ delusa. << A … a domani.>>
Lui mi saluta con un cenno e si volta per andarsene. Mentre lo vedo allontanarsi lentamente da casa mia mi viene l’impulso irrefrenabile di richiamarlo. No, non voglio che se ne vada. Non così, almeno. No, è troppo presto. Dico quello che non mi sarei mai aspettata sarei riuscita a dire: << Ti va di entrare?>>
John si ferma di scatto e rimane immobile. Ecco, ora sembrerò una spacciata. Ma che ti aspettavi? Illusa.
Si volta e, inspiegabilmente, sorride. << Molto volentieri.>>
I miei muscoli si rilassano e riprendo a respirare regolarmente, non essendomi accorta di trattenere il respiro. Gli sorrido a mia volta e lo accompagno dentro.
Appena entriamo, però, un’orribile presentimento mi attraversa la mente. Istintivamente, annuso l’aria, e mi ritrovo a tirare un sospiro di sollievo. Non c’è puzza di alcool o cose simili nell’aria e la casa è perfettamente in ordine. Gabe non c’è. Anzi, a dirla tutta, c’è un insolito profumo di lavanda in giro. Mi dirigo verso la cucina e John mi segue.
<< Mamma!>> chiamo. Mia madre mi guarda di sottecchi da sotto il bancone dove cucina i dolci e, quando nota John, si alza di scatto, andandovi a sbattere con la nuca. << Valeri!>> esclama, massaggiandosela. << Non … non ti aspettavo. Chi è il tuo amico?>>
Lui sorride e fa un passo avanti per porgerle la mano. << Sono John, signora. Piacere di conoscerla.>>
Lei si pulisce la mano sporca di farina sul grembiule altrettanto sporco e gli sorride. << Ah! E così tu sei il famoso John! Sai, Valeri non fa che parlare di te. Piacere mio, io sono Mary.>>
John sorride, e mi rendo conto di aver appena fatto la figura della scema. << Ti fermi a cena, John?>> chiede di nuovo Mary.
<< No!>> rispondo io, d’istinto. << No, John … John è qui per degli appunti di Astronomia.>>
Mia madre sembra delusa. << Oh, che peccato. Ne sei sicuro? Faccio un pasticcio di noci che … >>
<< Noi andiamo di sopra!>> urlo, prima che lei finisca la frase, facendomi fare altre brutte figure. Lo afferrò per mano e lo trascino su per le scale e poi in camera mia.
Quando entro, mi accorgo che è tutto, stranamente in ordine. Mi accorgo anche di stringergli ancora la mano e glie la lascio, imbarazzata.
<< Io … non so come scusarmi.>>
<< Per cosa?>> chiede lui.
<< Per mia madre. Quella … di fare l’ospitale è una fissazione. A volte può essere invadente.>>
<< Sembra fiera di te.>>
Annuisco. << Si. Siamo sempre state io e lei, l’una per l’altra. Il nostro è … un rapporto speciale >> poggio la borsa a terra e mi volto a guardarlo.
<< E tuo padre?>> chiede lui, afferrando una vecchia macchina fotografica che ho sul comò.
Sospiro. << Io … non l’ho mai conosciuto. Credo sia morto quando … quando ero molto piccola.>>
<< Scusa, non lo sapevo. Mi dispiace.>>
<< No, non preoccuparti >> dico, dileguando il tutto con un gesto della mano. << Non potevi saperlo.>>
Lo fisso un attimo, mentre lui si guarda in torno, meravigliato, rigirandosi la vecchia macchinetta fra le mani. << E i tuoi, invece?>>
Lui mi guarda. Poi abbassa lo sguardo, prima di rispondere. Carica la macchinetta e mi focalizza attraverso l’obbiettivo. << Siamo solo io e mio padre >> risponde, scattando una foto. Sono sorpresa che quel catorcio abbia ancora un rullino buono.
<< Era la mia preferita >> dico, indiando la macchinetta con un cenno. << Ha delle infiltrazioni di luce, per questo le foto vengono così interessanti.>>
Lui la guarda per un po’, rigirandosela fra le mani e forse ripensando alle mie parole. Sorrido. << Vieni >> gli dico. << Te lo mostro.>>
Mi dirigo verso un angolo della stanza e lui, dopo aver poggiato la macchina fotografica, mi segue. È un piccolo angoletto, buio e molto stretto, ma è il mio mondo. Credo che nessuno ne sappia l’esistenza. Quando siamo venute a vivere qui, ero riluttante all’idea di iniziare una nuova vita in quella (per me orribile) casa. Volevo uno spazio tutto mio. Un posto … dove nascondere le mie cose, in modo che nessuno vi andasse a curiosare. Uno spazio … dove potevo fare quello che volevo. Quando sono entrata in camera mia mi è subito saltato all’occhio quel buco enorme nel muro. Era alto circa un metro e mezzo e largo la stessa misura, ma era perfetto. Il giorno dopo vi misi un telo per coprirlo, in modo che mia madre non lo notasse, e lì ho iniziato a nascondere le mie cose, quelle a cui tenevo di più.
Scosto il telo con una mano e mi siedo sul materasso che io stessa ho poggiato lì. John mi imita.
Lungo tutto il perimetro dell’angolo sono appese le foto che ho scattato in questi anni, illuminate solo dalla fievole luce dell’unica lampadina che sono riuscita a mettere.
<< Guarda questa quanto è bella >> dico, indicando una foto che ho scattato circa un anno fa, dove due genitori tenevano per mano la loro bambina e la facevano alzare da terra.
Lui sorride. << È fantastica.>>
<< Hai capito di che ti parlavo?>> dico, alludendo a ciò che gli avevo spiegato quando ci siamo incontrati davanti a quel negozio.
John guarda le altre, stupito, poi il suo sguardo si ferma su qualcosa. << E questo?>> chiede, afferrandola. Non capisco di cosa parla finché non vedo in mano a lui il mio vecchio album.
<< Ehm … >> provo a dire qualcosa, ma non ci riesco. Lui lo apre e inizia a sfogliarlo. << È … personale, veramente.>>
Lui continua a sfogliarlo, sfiorando le pagine. << È incredibile >> mormora, fra se e se. So a cosa allude. In quell’album ci sono tutte le mie foto. Foto che ho scattato a me stessa, magari davanti allo specchio o con l’autoscatto. Foto di tutti i posti in cui ho abitato, o che ho visitato, che ho fatto per non dimenticare. Foto che per me hanno un valore, come quella del mio quinto compleanno, quando sfoggiavo, fiera, la mia prima macchina fotografica, che Mary mi aveva regalato. Foto … di cui nessuno sa l’esistenza. Foto … personali, ecco. E poi ancora disegni, ritratti, cartoline, e, in fondo al libro, una lista dei posti in cui vorrei vivere, o in cui vorrei andare, per restarvici molto tempo.
John sfoglia un’altra pagina e si ferma ad ammirare una vecchia foto, un mio primo piano in bianco e nero, che ho scattato quando vivevo in Florida, e non sapevo che fare. Faccio una smorfia e lui mi guarda.
<< Cosa?>> chiede.
Io mi sforzo di sorridere. << Beh, ecco … >> abbasso lo sguardo.
Lui sorride. << Tu puoi guardare che fanno gli altri … scattare fotografie, ma … >> torna con gli occhi sulla foto. << Noi non possiamo guardare te?>>
Sfoglia un’altra pagine e, finalmente, trova la lista. La osserva per un po’. << Ok, ora basta >> dico, togliendogli l’album dalle mani e rimettendolo al proprio posto.
Lui mi guarda mentre lo faccio, poi fa un mezzo sorriso. << Hai tanta voglia di scappare via?>>
Sospiro. << Beh, credo che … sarò contenta quando andrò via da qui.>>
Lui storce il naso. << Mmm … non lo so … io ho visto tanti posti ... >>
<< Ma nessun posto è bello come casa mia >> lo interrompo. << Si, lo so. Risparmiami la predica.>>
Lui ride. << No, no. puoi andare dove ti pare, vedere quello che vuoi. Ma, un posto … si giudica dalla gente che ci trovi.>> Mi guarda un attimo in silenzio, poi si sporge in avanti e, non so come, mi ritrovo il suo viso a pochi centimetri dalla faccia. << E qui … qui c’è gente che mi piace.>>
Ci guardiamo, e non posso fare a meno di perdermi in quelle sconfinate sfere blu che sono i suoi occhi. È bellissimo, e il mio cuore prende un battito in più al secondo. Le distanze fra di noi si accorciano e delle fastidiosissime farfalle mi ballano nello stomaco, a ritmo di conga. Occhio e croce direi che i centimetri che ci separano sono all’incirca … uno. E stavolta non ho alcuna intenzione di fermarlo.
Già, io no. Ma c’è qualcuno che lo fa al posto mio.
In quel momento, immersi nel più totale silenzio, sentiamo qualcuno abbaiare. Entrambi usciamo da quell’assurdo stato di trance e ci allontaniamo, imbarazzati.
John scosta la tenda con una mano ed esce dal mio nascondiglio, dirigendosi verso la finestra.
Alzo gli occhi al cielo. Che tempismo … da cani!!
Da quel piccolo buco la voce di John arriva parecchio ovattata. << È tuo questo cane?>> chiede.
Aspetta un attimo. Qualcuno sta abbaiando. Un cane? Quale cane? Io non ho un cane!
Esco dal mio nascondiglio e mi precipito verso la finestra, scostando la tenda. Per un attimo rimango basita. Un beagle, e potrei giurare che è lo stesso che incontro quasi sempre, sta abbaiando freneticamente sotto la finestra.
<< No … >> balbetto.  << Non … non è mio.>> Poi aggrotto la fronte. << Deve avermi seguito fin qui.>>
John annuisce e, distrattamente, controlla l’orologio. << Si è fatto tardi. Credo sia ora di andare. Mio padre mi avrà dato per disperso >> e fa per avviarsi verso la porta.
<< John! Aspetta!>> gli dico, facendolo fermare. Lo osservo mentre si gira, poi afferro la macchina fotografica che prima aveva in mano e un rullino nuovo e glie li porgo. Sorrido. << Ora tocca a te. Dimostrami cosa riesci a vedere.>>
Lui li afferra e si rigira il rullino fra le dita, poi sorride. << Grazie.>>
Entrambi usciamo e io lo accompagno verso la porta. Quando passiamo davanti la cucina, mia madre lo saluta agitando una mano, dicendogli che lo aspetta per una prossima cena.
Gli apro la porta e lui esce. Lo guardo, mentre si allontana sul vialetto, poi, all’improvviso, si ferma. << Ah, Valeri!>> grida, poco prima che io chiuda la porta. Torna sui suoi passi e mi si para davanti. << Ventuno.>>
Io aggrotto la fronte, non capendo. << Ventuno cosa?>>
<< Oggi, a scuola, prima che accadesse ciò che è successo, mi hai chiesto quante volte mi sono trasferito. Ventuno. Mi sono trasferito ventuno volte.>>
Un groppo terribile mi sale in gola. Ventuno volte. Quattro volte più di me. E lui ha solo un anno in più. Ho fatto male a giudicarlo. Lui … lui può capire eccome il modo in cui mi sento.
Si avvicina un po’ di più e non capisco cosa voglia fare finché non mi stampa un bacio sulla guancia. << Ci vediamo domani >> sussurra, poi se ne va.
Rimango lì, incantata sulla porta, a guardarlo scomparire sul vialetto, finché il buio non lo immerge. Lentamente chiudo la porta e le do le spalle. Mi sfioro delicatamente la guancia. Mi ha baciata! Si, è solo un piccolo bacetto sulla guancia, ma mi ha baciata. Mi sembra di essere la persona più felice del mondo.
Sono persa nei miei pensieri, finché la voce di Mary non mi riporta alla realtà. << Valeri, muoviti! È pronta la cena!>>
Faccio un bel respiro e cerco di mantenere una postura normale, per evitare che Mary mi faccia troppe domande. Ma, mentre mi dirigo in cucina, mi rendo conto di non riuscire proprio a togliermi quel sorrisino ebete che ho stampato in faccia.

Angolo scrittrice.
Hello guys! How are you? Liked the chapter?
Ahah! Scusate. Sapete, ieri sera sono venuti a trovarmi i miei cugini americani, che non sanno una, che sia una!, parola in italiano. Credo di aver parlato così tanto in inglese di aver scordato come si coniugano i verbi xDxD Se c'è qualche errore non è colpa mia, eh?! E' colpa degli americani! xDxD
Guardate cos'ho qui .... E' una foto di John *,*
Oh, ma dai! Ve lo immaginate mentre vi si para alle spalle e vi dice ... "Ehi!"   *w*

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Bello, bello, bello!
Vabbè, comunque, spero che il capitolo vi sia piaciuto. E mi raccomando, commentate!

A kiss :*
ValeryJackson
P.s. Ah! Volevo dirvi di non dimenticarvi dell'altra mia storia: Fantastic Girls e la maledizione del Titano. Ci tengo molto a quella storia, non solo perchè è la prima in assoluto che ho scritto, ma anche perchè, avendo solo due storie, ho tutta l'intenzione di scriverle al meglio, e vorrei tanto sentire il vostro parere. Cosa ne pensate? Dovrei continuare? Vi piace la trama? Fateci un salto e fatemi sapere, magari lasciando qualche commentino. Sarei davvero la persona più felice del mondo!! Grazie per avermi dedicato un po' del vostro tempo. Un bacio enorme!!

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Sono in un posto assurdo. Ci sono alberi ovunque, un limpido fiume, dei teneri animali.
Ma c’è qualcosa che non va …
Tutto sta bruciando.
Quello che in teoria dovrebbe essere il posto perfetto, è stato trasformato in un campo di guerra, morte, sangue.
Non so spiegarlo molto bene. So solo dire che quello che sto vedendo è orribile.
Poco lontano, scorgo qualcuno. Sono tre persone, un uomo e una donna, con in braccio un bambino di circa due anni. Stanno correndo. E sono spaventati. Molto spaventati.
Il bambino piange, disperato, e sui loro volti è palesemente riconoscibile l’espressione di puro terrore.
Poi capisco il perché. Dietro di loro, tre uomini li stanno inseguendo, con le spade sguainate. Credo non sia giusto. Quelli sono in tre, mentre loro sono soltanto due, se si esclude il bambino. E poi noto che non hanno un arma.
Continuo a guardarli correre, sfiniti, poi il mio sguardo si sofferma sui tre uomini che li seguono. Ho un sussulto.
Non sono uomini. Sono … mostri. Di primo acchito potrebbero sembrare normali, ma non lo sono affatto. La loro pelle, infatti, non è rosea come la nostra, ma grigia, anzi, quasi  trasparente, i loro occhi sono scuri e vuoti, tanto da sembrare di pietra e da far pensare che sia impossibile che con quei cosi riescano a vedere davvero. Ma la cosa più orribile sono i loro volti. Non solo sono privi di naso, dato che al suo posto hanno due semplici fessure, quasi come Voldemort di Harry Potter, ma poi, sulla testa calva, hanno diversi tatuaggi neri, che sembrano marchiati a vita sulla pelle. Rappresentano un sole, dei pianeti, ma il colore nero rende quei disegni molto più inquietanti di quello che sono. Noto, inoltre, che sul collo hanno dei leggeri tagli, da qui sembra passare aria. O forse sono branchie.
Un brivido di disgusto mi attraversa il corpo. Tento di correre in aiuto delle due persone che stanno scappando, ma, appena provo a muovermi, mi accorgo che non ci riesco. Osservo i mie piedi. Sono completamente bloccata. Come se il mio corpo fosse di marmo e l’unica cosa che sono in grado di fare è muovere gli occhi per osservare quello che accade intorno a me.
I tre mostri raggiungono i due uomini. Alla donna cade il bambino di mano. Uno di loro sguaina la spada.
Serro gli occhi. Non ho il coraggio di vedere cosa succede.
Poi la scena cambia. Sono in un prato. È una notte calda, e il cielo è costellato da lampi intermittenti, tutti colorati, che passano dal blu al rosso. All’inizio sono fuochi d’artificio, ma poi diventano qualcos’altro. Botti, più forti e più minacciosi, e le esclamazioni di gioia dei presenti si trasformano in urla. La gente corre, i bambini piangono. Io sono lì in mezzo alla folla, a guardare, senza poter fare nulla per aiutare.
E poi, una scena ormai familiare. Vedo un’astronave. Una donna che vi corre incontro con in braccio un fagotto bianco. Insieme a lei, una miriade di animali.
E poi ancora un altro cambiamento. La donna non è più vicino ad un’astronave, ma davanti una casa. Poggia il fagotto sull’uscio e lo scopre. C’è un bambino dentro. La donna si piega su di lui e gli da un bacio sulla fronte. Improvvisamente, vedo il suo viso di fronte al mio. È una signora mingherlina, con i capelli scuri e due grandi occhi verdi. Mi sta sorridendo, ma si vedono benissimo le lacrime che solcano il suo volto. Poggia accanto a me qualcosa. È un mazzo di fiori. Poi mi spruzza addosso del profumo.
Mi accarezza il volto e sillaba qualcosa che mi fa gelare il sangue. << Ti voglio bene, Valeri.>>

<< No!>>
Mi sveglio di scatto, mettendomi a sedere sul letto con un gesto fulmineo. Mi guardo intorno. Sono nella mia stanza.
Quindi era solo un sogno.
Ho la fronte imperlata di sudore e la maglietta del pigiama attaccata sul corpo. Mi accorgo di avere anche il fiato grosso, e dei brividi di freddo.
Mi passo una mano fra i capelli, per calmarmi.
Cosa è successo? È stato solo un brutto sogno? Eppure è sembrato così reale, e così nitido …
No!, mi dico, riadagiandomi nel letto. È stato solo frutto della mia immaginazione! Nient’altro.
Si, immaginazione. Vorrei crederlo, davvero. Ma, se è stato davvero tutto frutto della mia immaginazione, è normale che io abbia nella pancia questa strana sensazione di dejà vu?
Mi strofino la faccia con le mani. Ma che mi prende? Sto diventando pazza. È ovvio che era un sogno? Che altro poteva essere? Un ricordo? Ma va! …
Butto lo sguardo sulla sveglia. Sono le 6:45. Tra un po’ sarebbe suonata lo stesso, quindi non ha senso provare a riaddormentarsi. Tanto vale alarsi.
Scendo dal letto e mi dirigo in bagno, dove mi lavo la faccia con l’acqua più fredda che il mio lavandino riesce a offrirmi e mi pettino i capelli. Poi mi lavo il corpo, torno in camera e mi vesto con le prime cose che trovo.
Mi accorgo solo mentre scendo le scale di ciò che indosso. Un pullover verde acqua e dei jeans scuri. Ma si, andranno bene. E poi non ho voglia di tornare in camera e cambiarmi.
Anche se cerco di nasconderlo, sono ancora un po’ agitata.
In cucina, mia madre sta lavando i piatti con cui ha appena finito di fare colazione. Appena mi vede, inarca un sopracciglio.
<< Già sveglia?>>, mi chiede.
Mugugno qualcosa di simile a un si e mi precipito ad aprire il frigo. Prendo del succo d’arancia e me lo verso in un bicchiere. Poi un profumino attira la mia attenzione. Mary ha cucinato le uova strapazzate. E la pancetta!
Senza pensarci due volte me le metto in un piatto, mi siedo e comincio ad ingurgitarle, scoprendo così di avere una gran fame. Dopo aver finito le uova ed essermi versata un altro bicchiere di succo, fisso il piatto vuoto, cominciando a sgranocchiare l’ultimo pezzo di pancetta rimasto.
Dovrei chiederglielo? E se poi si offendesse? No, è meglio di no. Ma io devo sapere! Si, insomma, è un mio diritto! O almeno credo …
Mi sgranchisco la voce, senza averne davvero bisogno, e mi riassesto sulla sedia.
<< Ehm … Mary?>> chiamo, cercando di attirare la sua attenzione.
Lei mi sorride, senza però togliere lo sguardo dal lavandino. << Che c’è, cara?>>
Deglutisco. Come faccio a chiederglielo delicatamente? << Posso farti una domanda?>>
Lei aggrotta la fronte, ma annuisce. << Certo.>>
Finisco l’ultimo pezzo di pancetta e fisso il suo viso, per vedere l’espressione che avrà quando glie lo chiederò. È serena, e mi sento in colpa, perché sto per levare quella tranquillità dal suo volto. Ma ormai è tardi per tirarsi indietro. Faccio un bel respiro.
<< Tu hai mai incontrato la mia vera madre?>>
Mary si blocca, così, di colpo. L’acqua continua a scorrere giù per il lavello, e lei ha le mani ferme sotto di essa, un piatto stretto in una mano, una spugna insaponata nell’altra. Non alza lo sguardo, e so il perché.
Non parliamo mai di questo argomento, perché so che per lei è difficile spiegarlo, e perché so che per me sapere la verità, molto probabilmente, potrebbe essere più doloroso del previsto.
Credo di averla spiazzata con quella domanda.
Dopo qualche minuto in quello stato di trance, Mary riprende a lavare i piatti, come se niente fosse.
Poco dopo, scuote leggermente il capo. << No, Valeri. Mi dispiace.>>
Sono delusa. Non è la risposta che speravo di ottenere. << Non sai nemmeno che aspetto aveva?>>
Lei sembra affranta, e questo mi dispiace. << No. Quando … quando ti ho trovato, lei se n’era già andata … >>
Ora sono io quella affranta. Cavolo! Non le importava di me a questo punto? Neanche a vedere in quali mani lasciava la figlia! Come faceva a sapere che quella era la casa di una persona per bene? E se fosse stata la casa di un tipo come Gale? L’apparenza inganna, e lei lo sapeva. Tutti lo sanno. Ma non le è importato lo stesso. Voleva solo liberarsi di me.
Mi alzo, così rapidamente da sbattere contro il tavolo. Faccio finta di niente e corro in bagno, a lavarmi i denti.
Non è giusto. Cosa c’è in me che non va? Che cosa avevo di tanto male?
Non capisco. Non ce la faccio. Non posso.
Prendo al volo lo zaino e tutto ciò che mi serve per affrontare un’altra noiosissima giornata di scuola e poi scendo velocemente le scale.
Mentre sono diretta alla porta, Mary mi urla qualcosa. << Devo prepararti il pranzo?>>, chiede.
<< No. Mangio qualcosa alla mensa della scuola >> rispondo, brusca.
Quando sbatto la porta, la sento urlare un “Buona giornata”, ma non le rispondo.
Vado in garage e monto sulla mia bicicletta.
Sul tragitto casa/scuola, però, inizio a sentirmi davvero in colpa. Sono stata davvero acida con Mary, questa mattina, senza alcuna ragione. In fondo, non è colpa sua se sono nata da una madre sconsiderata, se non sono stata accettata dalla mia vera famiglia.
È lei la mia unica e sola famiglia, l’unica persona di cui mi fido cecamente, e che so non mi abbandonerebbe mai. L’unica che mi ha accettato per come sono e che si è presa cura di me fin dall’inizio.
Ti voglio bene, Valeri”. Si, ora sono sicura che quello sia stato solo uno sciocco, stupido e orribile sogno.
 
Quando arrivo davanti scuola, trovo lì Mia ad aspettarmi.
Sta parlando con alcune ragazze, sorridente, e, non appena mi vede, mi sorride, saluta le altre e mi raggiunge.
<< Ciao >> mi dice, quando è abbastanza vicina.
Io inarco un sopracciglio e cerco di squadrare le ragazze di prima da sopra la sua spalla. << Chi sono quelle?>> chiedo, curiosa.
Mia si volta per guardarle e loro le fanno un cenno di saluto con la mano, al quale risponde. Sorride. << Sono delle amiche. Si chiamano Red e Sarah.>>
Red e Sarah? Da dove spuntano, ora? Le osservo meglio. La prima è una ragazza, alta, con i capelli rossi e ricci e due grandi occhi verdi. Indossa una tuta rossa e delle scarpe del medesimo colore. Sono quasi sicura che quella sia Red.
L’altra, invece, che presumo sia Sarah, è una ragazza mingherlina, con dei lunghi capelli biondi raccolti in due trecce e gli occhi grigi. Anche lei indossa una tuta, solo che è fucsia e fluorescente.
Aggrotto la fronte. Cos’è oggi? L’ “indossa-una-tuta” day?
Guardo Mia. Anche lei ha una tuta dorata, che, onestamente, le dona molto.
<< Perché anche tu hai la tuta?>> chiedo.
<< Come perché?>> fa lei, sorpresa. Quando capisce che non ho idea di che cosa stia parlando, alza gli occhi al cielo. << Possibile che devi essere sempre così smemorata? Oggi è il primo giorno di Educazione fisica. Finalmente, hanno reso accessibile la palestra.>>
Chiudo gli occhi. Oh, no. Ci mancava solo questa.
Io che faccio Educazione fisica? Ah! Non c’è modo migliore per prendermi in giro. Sono negata, e intendo, letteralmente negata per qualunque tipo di sport. Non è che non sono capace, è solo che non mi applico. Non ne ho voglia. È troppo faticoso.
Riapro gli occhi. Mia mi sta osservando, nel tentativo di capire i miei pensieri.
<< Odio fare Educazione fisica >> spiego, mettendomi lo zaino in spalla e dirigendomi all’interno della scuola. Mia mi segue.
<< Perché? >> chiede, mentre percorriamo i corridoi.
Storco il naso. << Diciamo solo che non fa per me.>>
<< Beh, ma dovrai farla comunque. Ti serve una giustifica per saltarla, e dato che tu non ce l’hai, non hai altre possibilità.>>
Sbuffo. So che ha ragione.
Raggiungiamo il mio armadietto, che apro, arrabbiata. Vi getto dentro i libri, che rimbalzano con un tonfo e poi cadono a terra. Li raccolgo e faccio un gridolino di frustrazione. Oggi non è proprio la mia giornata.
Mia mi guarda, aspettando che io mi calmi, ma sono troppo nervosa per calmarmi.
<< Comunque … >> dice, nel tentativo di cambiare discorso. << Ieri pomeriggio ti ho chiamato, ma non mi hai risposto. Sono passata a casa tua, e tua madre mi ha detto che eri uscita. Si può sapere che fine hai fatto?>>
Arrossisco, e cerco di non guardarla negli occhi. << Ero … uscita.>>
Mia fa roteare gli occhi. << Questo l’avevo capito, Einstein! Ma dove sei andata?>>
<< A fare un giro >> rispondo, evasiva.
Lei aggrotta le sopracciglia e mi fissa, squadrandomi il volto. << Con chi?>> chiede, cantilenando la domanda, sospettosa.
Credo, anzi, sono sicura di essere diventata paonazza. << Con nessuno >> dico, afferrando un libro dallo zaino, tanto per fare qualcosa. Ma questo mi cade dalle mani e va a finire a terra, provocando un rumore sordo. Altro grido di frustrazione da parte mia.
Lei inarca un sopracciglio. << Sei nervosa. Perché sei nervosa? Con chi eri ieri sera?>> chiede, tutto d’un fiato. Non rispondo, ma il mio volto deve parlare da solo, perché sulla sua faccia si forma un’espressione sorpresa. << Eri con John!>> esclama.
<< Schh!!>> la zittisco io, portandomi un dito alla bocca e guardandomi intorno, per assicurarmi che non l’abbia sentita nessuno.
<< Allora è vero?>>
Prendo il libro da terra e lo metto nell’armadietto. Sono in leggero imbarazzo. Anzi, togliamoci il leggero. << L’ho aiutato con una ricerca di Astronomia >> spiego.
Mia esulta, battendo le mani. Io la fulmino con lo sguardo, ma lei non sembra voler smettere. << E cosa ti ha detto?>>
Inarco un sopracciglio. << Cosa avrebbe dovuto dirmi, scusa?>>
Mia alza gli occhi al cielo. << Qualcosa di romantico, sciocca. Si è dichiarato?>>
Se è fisicamente possibile, le mie guance diventano ancora più rosse. << Ma certo che no!>> rispondo. << Che ti salta in mente?!>>
Lei sorride, maliziosa. << Oh, andiamo … vorresti farmi credere che non è successo niente?>>
<< Abbiamo solo studiato >> insisto.
Mia sospira. << Si, come no … E poi? Tutti a casa e buona notte?>>
Ci penso un po’ su. Beh, in effetti no. Qualcosa è successo. << Beh, no… poi… ci siamo fatti un giro …>>
<< E?>> mi incita lei. Nei suoi occhi c’è un luccichio speranzoso. Lo vedo.
<< E poi …>> Mi guardo la punta delle scarpe. Che faccio? Glie lo dico? Ma si, tanto cos’ho da perdere? Ah, si! Lo so. La mia dignità. Ma, infondo, che male c’è? << E poi è venuto a casa mia.>>
<< È venuto a casa tua?!>> La voce di mia squilla per tutto il corridoio, tant’è che alcuni si voltano a guardarci.
<< Schh!!>> la zittisco di nuovo, fulminandola con lo sguardo. << Abbassa la voce!>>
Lei si guarda intorno, con teatrale dispiacere. << Ops >>  fa. << Scusa.>>
La rimprovero con lo sguardo e restiamo qualche secondo in silenzio, prima che lei mi spiazzi con la prossima domanda. << Vi siete baciati?>>
Sgrano gli occhi. Ecco, questa non me l’aspettavo. Ci siamo baciati? No, no che non ci siamo baciati. Però c’eravamo quasi. O è stata solo una mia impressione? Sospiro. << No. Non ci siamo baciati.>>
<< Ma eravate sul punto di farlo >> chiede lei, come se mi avesse letto nel pensiero, facendola sembrare più un’affermazione che una domanda.
Sbuffo. Perché? Perché dobbiamo parlare del mio bacio mancato? Perché rendere tutto ancora più snervante? Ragionandoci sopra, ci sono state parecchie occasioni in cui avremmo potuto baciarci. Ma non è mai successo. Perché? Forse inizio a capirne il motivo …
<< A John non interesso in quel senso >> dico, con un po’ di sconforto.
Mia inarca un sopracciglio. << Perché?>>
<< Perché …>> distolgo lo sguardo. << Perché nessuno è interessato a me in quel senso. Insomma, guardami! Sembro … non lo so neanche io cosa sembro.>>
<< Non sei bella? È questo che stai cercando di dire?>>
Annuisco. Si, è proprio così.
Mia fa roteare gli occhi, e sbuffa così forte che il suo fiato mi arriva dritto in faccia. << Valeri, ma ti senti?! Hai così poca autostima che credi anche di non essere bella!>>
<< Non è un fatto di autostima, è un fatto di realtà.>>
Mia incrocia le braccia sotto il seno e mi guarda con aria di sfida. << E sentiamo, chi sarebbe bella, secondo te? Io? Jessica?>>
<< Siete entrambe delle bellissime ragazze, non puoi negarlo.>>
<< E se sono così bella, perché non ho ancora un ragazzo?>>
Sorrido. << Perché per piacere a te ci vuole un’infinità.>>
Lei sembra pensarci un po’ su. << Beh, si, forse hai ragione. Ho sbagliato esempio >> ammette. << Allora dimmi >> continua, più imperterrita di prima. << Perché se Jessica è così attraente e bella, tutti quanti la odiano?>>
Resto in silenzio. A questo non avevo pensato.
Mia scrolla la testa. << Perché non conta l’aspetto fisico. Si, anche quello è importante, ma conta soprattutto il carattere di una persona. L’aspetto fa solo il 40% del lavoro. Il restante 60% devi mettercelo tu. Devi far capire chi sei. Le persone ti amano per quello che fai, non per quello che appari.>>
Sospiro. Credo di aver afferrato il concetto. Le sorrido, riconoscente. So che sta cercando di tirarmi su di morale, ma, purtroppo, sono più testarda di un mulo. << Resta il fatto che John non pensa a me in quel modo.>>
<< E tu, Valeri?>> chiede Mia. << Tu, invece? Pensi a lui in quel modo?>>
Ci penso un po’ su. Cavolo, bella domanda! Penso a lui in quel modo? No, certo che no. Seh! Ma chi voglio prendere in giro? Certo che ci penso! Penso a lui continuamente. << Io …>> non so che dire. << Io penso che sia un bellissimo ragazzo molto dolce e simpatico, tutto qui.>>
Lei inarca un sopracciglio. << Sicura?>>
Abbasso lo sguardo, e Mia mi posa una mano sulla spalla. << Vale, se lui ti piace, va lì e prenditelo. Hai tutte le carte in regola per farlo. Ti manca solo un po’ di … coraggio.>>
Coraggio. A me non manca il coraggio! Io non sono affatto una fifona.
Mia mi stampa un bacetto sulla guancia e mi saluta, ricordandomi che ci saremo viste dopo.
<< Ah, Mia!>> la chiamo, prima che lei se ne vada. Si volta. << Riguardo alla storia della tuta …>> mi gratto la nuca, imbarazzata.
Lei sorride. << Non preoccuparti, ne ho una di ricambio nell’armadietto.>>
Le sorrido, riconoscente, poi lei mi fa l’occhiolino e se ne va.
La campanella suona. Faccio mente locale sull’orario. Ora ho lezione di Arte. Fantastico! Adoro quella materia. È una delle poche in cui vado bene.
Mi metto di fronte all’armadietto e inizio a prendere i libri che mi servono, posandone dentro degli altri.
Ad un tratto, qualcuno mi piomba alle spalle, e la mia vista si oscura.
Due mani, forti e calde, mi si posano sugli occhi. Sussulto. Chi è ora? Qualcuno della banda di Mark? O chi altro? Sfioro le mani. Sono incredibilmente lisce e amichevoli. Già, amichevoli. Non so come spiegarlo, ma so che non sono quelle da Mark. E allora di chi?
Lo sconosciuto mi si avvicina un po’ di più, tanto che sento il suo fiato sul collo. Accosta la bocca al mio orecchio e mi sussurra qualcosa.
<< Indovina chi sono?>>
Sorrido, accompagnata di un brivido. So di chi è quella voce. La riconoscerei tra mille.
Mi volto, e il sorriso di John mi abbaglia, riscaldandomi. << Ehi!>> mi saluta. << Come va?>>
Annuisco, cercando di sembrare spensierata. << Il solito.>> Mi volto, chiudo l’armadietto e poi torno a guardarlo.
Lui aggrotta la fronte. << Che cos’hai ora?>>
<< Arte >> rispondo, con un sorriso. Adoro davvero tanto quella materia. Adorerei di più un corso di fotografia, ma, dato che non c’è, l’arte passa in primo piano.
Lui sorride. << Anche io!>> esclama. Non posso fare a meno di sorridere come un ebete.
<< Andiamo?>> mi chiede, indicando con un cenno del capo il corridoio che dobbiamo percorrere per arrivare in classe. Annuisco e insieme ci incamminiamo. Durante il tragitto, cerco di evitare il contatto visivo. Non perché non abbia voglia di ammirare i bellissimi occhi di John, ma perché so, non so per quale motivo, che lui capirebbe subito che c’è qualcosa che non va. E onestamente non mi va di parlarne. Non so come faccia, so solo che ha questa capacità.
Forse perché è bravo a capire le persone, o forse perché sono io ad essermi stancata di mascherare sempre i miei sentimenti.
 
Quando arriviamo in classe, siamo gli ultimi ad entrare.
Tutti gli altri studenti si sono già posizionati ognuno davanti a un cavalletto, lasciandone liberi solo due, uno per me e uno per John, ai due lati opposti della stanza. Sono posizionati tutti in forma circolare, e al centro vi è un tavolino con sopra della frutta.
Ci sediamo di fronte e, prima che entri il professore, lui mi sorride.
Si sente un tonfo sordo provenire dalla porta. Ci voltiamo e il professor Martin entra in classe.
Il professor Martin è un uomo molto simpatico. Sulla trentina, credo sia l’insegnante più giovane dell’istituto. E, onestamente, si vede molto. Ha dei modi di fare giovanili, simpatici. Riesce a metterti a tuo agio e, con i suoi capelli corti brizzolati e suoi occhi marrone chiaro, ha un sorriso davvero contagioso. Ma pretende comunque il meglio da ognuno di noi. Indossa un maglione a righi e un pantalone mimetico cachi. Al collo, la sua immancabile sciarpa, che cambia colore a seconda dell’umore, del tempo e/o del periodo. Oggi è blu. Significa che dovrebbe essere notoriamente calmo.
Quando entra, ci sorride, stringendo in mano una tazza di caffè ancora fumante. << Buongiorno, classe >> ci saluta.
<< Buongiorno, professor Martin >> rispondiamo educatamente noi, in coro.
Lui sorseggia un po’ il suo caffè, facendo una smorfia di disgusto quando scopre di aver scordato lo zucchero. << Bene >> dice, facendo schioccare più volte la lingua per togliersi il sapore amaro dalla bocca. << Oggi, voglio che voi dipingiate un quadro. Non c’è un soggetto specifico. Potete scegliere quello che volete. Per gli indecisi, ho già posizionato della frutta davanti a voi. Date libero sfogo alla vostra fantasia e non preoccupatevi del giudizio finale. È ammessa qualsiasi cosa, ok?>>
Tutti annuiamo in segno d’assenso. << Molto bene >> fa lui, bevendo un altro sorso di caffè e seguitandolo ad un’altra espressione di disgusto. Mi chiedo se sia smemorato, oppure se sia così tirchio da non avere neanche voglia di andare fuori e prendersene un’altra tazza. In entrambi i casi è un idiota. << Buon lavoro >> ci augura. Poi ci da le spalle e noi iniziamo a lavorare.
Sono contenta del compito che ci è stato dato. Odio quando dobbiamo disegnare dei quadri già pensati da qualcun altro. Io voglio creare. Voglio dipingere le cose così come le vedo, e non così come le vedono gli altri. Voglio pensare per conto mio.
Mi guardo un po’ intorno. Che cosa disegnare? Noto che la maggior parte dei ragazzi ha lo sguardo fisso sul vaso di frutta difronte a noi. Che scarsa fantasia. Possibile che non ci sia nient’altro da disegnare?
Dunque, vediamo. Fuori dalla finestra è tutto apparentemente noioso. Gli uccellini cinguettano, gli alberi perdono delle foglie arancioni, il cielo è limpido. Che barba!
Nella stanza. Non c’è niente di interessante, a parte il professore che continua a bere il suo caffè e a fare delle facce strane, scena piuttosto divertente. Ma no, non va bene.
Possibile che debba essere tutto così monotono?
Sto per arrendermi al fatto di dover disegnare per forza il vaso di frutta, quando, spostando lo sguardo per puntarlo sui vegetali che ho di fronte, i miei occhi incrociano quelli di John. Mi sorride, uno di quei sorrisi che solo lui sa fare. Ne abbozzo uno anch’io, ma mi sento infinitamente stupida.
Lui distoglie lo sguardo e riprende a disegnare.
All’improvviso, un impulso mi attraversa il braccio, e, senza accorgermene inizio a dipingere il volto di John. I suoi lineamenti, i suoi capelli, i suoi occhi.
Già, è proprio quello che faccio.
Inizio a concentrarmi sempre di più, perché non voglio che sia solo un disegno. Voglio che sia come una foto, e per essere tale, deve essere perfetto. Ma, purtroppo, non è facile disegnare perfettamente il bellissimo volto di John, con tutte le sue sfumature, il suo sorriso, i suoi colori. Come fare per renderlo credibile?
Dopo aver finito di colorare i suoi capelli con varie sfumature di giallo, oro e ocra, passo agli occhi. È proprio a questi che dedico più tempo, cercando di riprodurli nel modo più fedele possibile. Sono di un blu intenso, con diverse sfumature e un certo luccichio che è difficile da replicare.
Senza accorgermene, la campanella segna la fine della lezione.
Uscendo da quel catatonico stato di trance, osservo attentamente il mio lavoro. Il viso di John, completo in tutte le sue sfaccettature, mi saluta con un sorriso incerto.
Sorrido. Sono soddisfatta del mio lavoro. È venuto proprio bene.
Il professor Martin passa in rassegna accanto a ognuno di noi, osservando i disegni. Quando vede il mio, vi si sofferma un po’ di più. Vedo che lancia uno sguardo furtivo a John, poi sorride. Non mi dice niente, e continua a osservare gli altri.
Perché non ha detto niente? Non è bello? Lo ha trovato stupido, infantile? Beh, forse può sembrarlo, ma per me non lo è, non lo è affatto.
<< Bene, ragazzi >> fa lui, dopo averli osservati tutti. << Vi riporterò i vostri compiti … domani. Grazie a tutti e buona continuazione delle lezioni.>> Detto questo, va a sedersi su uno sgabello posto vicino a quella che dovrebbe essere la cattedra, coperta da milioni di foglie e carte varie e ci osserva, aspettando che noi lasciamo l’aula.
Mi alzo molto lentamente e mi metto lo zaino in spalla, avviandomi verso la porta.
John mi raggiunge quasi istantaneamente. << Ehi >> mi chiama, con un sorriso. << Com’è andata?>>
Sorrido anch’io, ripensando al mio disegno. << Bene, è andata abbastanza bene.>> Lo guardo. << A te, invece?>>
Lui sembra pensarci un po’, facendo una smorfia tipica di colui che non sa. << Si … credo sia andata bene. Che cos’hai disegnato?>>
Mi sento avvampare all’istante, con la certezza di arrossire violentemente. Come dirglielo? Gli sembrerà strano! Mi prenderà per una schizzata! No, è meglio restare sul vago. Tanto non lo vedrà mai.
<< Il cesto di frutta >> rispondo, evasiva, dicendo la prima cosa che mi è venuta in mente. << Perché, tu che hai disegnato?>> mi appresto a chiedere, per distogliere l’attenzione su di me.
Lui si passa una mano fra i capelli, e giurerei che è abbastanza imbarazzato. << Idem >> risponde, con incertezza.
Aggrotto la fronte. È davvero in imbarazzo, ma perché?
Vengo distolta dai miei pensieri quando qualcuno, involontariamente, mi urta con una spalla. Non sono preparata a quel genere di impatto, così perdo l’equilibrio, sbattendo contro John.
Lui mi sorregge e sorride. << Attenta >> mi dice.
Se è possibile, arrossisco ancora di più. Cerco di sorridere, ma il mio imbarazzo non me lo permette. << Ok >> biascico, riassestandomi e continuando a camminare.
Quando la campanella suona di nuovo, un pensiero mi balena nella testa. Saluto John in fretta e furia e corro all’armadietto della mia amica. Devo raggiungere Mia, per farmi prestare la tuta.
Ora, purtroppo, inizia il vero imbarazzo.
 
Dopo che ci siamo cambiate, io e Mia ci sediamo l’una accanto all’altra sul pavimento della palestra. Lei porta la stessa tuta dorata di questa mattina, a me, invece, ha prestato una tuta grigia, dopo che io mi sono opposta alla sua insistente proposta di mettere quella gialla. E non parlo di un giallo smorto. No! Parlo proprio di un giallo canarino! Con indosso quella, sarei sembrata un lampione, e farmi notare era l’ultima cosa che avevo intenzione di fare.
Il professore di Educazione fisica, Mr Wallace, ci fronteggia con le gambe leggermente divaricate e con le mani chiuse a pugno sui fianchi. << Ok, ragazze. Ascoltatemi. Questa probabilmente è la nostra ultima possibilità di lavorare all’aperto, perciò approfittiamone. Millecinquecento metri di corsa più veloce che potete. Annoteremo i vostri tempi e li confronteremo con quelli che farete in primavera. Perciò correte forte!>>
La pista è in gomma sintetica, gira intorno al campo da football ed è circondata da boschi, da cui forse posso scappare, ma non ne sono totalmente sicura. Il vento è freddo. Mia ha la pelle d’oca, e carca di farsela passare sfregandosi le braccia.
<< L’hai già fatto altre volte?>> le chiedo.
Annuisce. << Si, nella seconda settimana di scuola. Prima che arrivassi tu.>>
<< Con che tempo?>>
<< Cinque minuti e sette secondi.>>
Sorrido. È un buon tempo. Sospettavo che Mia fosse abbastanza veloce. È allenata, non per niente era una cheerleader.
<< Chi è arrivata prima?>>
Mia mi guarda, come se la cosa che stesse per dire le desse molto fastidio. << Jessica.>>
Faccio roteare gli occhi. Non è possibile che sia sempre un passo avanti a tutte! << Con quattro e venticinque >> aggiunge.
Osservo la mia rivale. Con la sua tuta arancione, si atteggia ancora di più, sventolando vanitosamente i capelli rossicci. Mi nota e sorride maliziosa. So già che ha l’intenzione di farmi mangiare la polvere. Ma, per quanto le mie gambe me lo permettano, non glie lo permetterò. Non arriverò ultima, non stavolta.
Ci mettiamo tutte in posizione e, quando il professore suona il suo fischietto, partiamo.
Io e Mia camminiamo affiancate, verso la metà del gruppo. Per fare millecinquecento metri dobbiamo completare quattro giri della pista.
A metà percorso, comincio a osservare la situazione. Jessica è prima, seguita da altre sette ragazze che faticano a tenere il suo passo. So che Mia ne supererà la maggior parte, fra poco. È veloce, e si sta solo riposando prima dello sprint finale.
Mi chiedo quanto ci metterei a fare millecinquecento metri, se m’impegnassi davvero. Sei minuti? O forse cinque? O forse ancora meno? Riuscirei a superare Jessica?
Senza pensare, comincio a staccarmi dalla mia compagna e ad accelerare il passo. Le mie gambe si muovono come per un riflesso incontrollato. Sono rapide, e non riesco a fermarle.
Ho già superato una ragazza davanti a me, quando la cosa inizia a farsi davvero seria. Le mie gambe si fanno sempre più veloci, dandomi uno stacco dalle altre ragazze. Quando accade, mi sento bene, leggera come una piuma. Non so come spiegarlo. È come se, a partire dalla pancia in giù, io non avessi più niente. Come se stessi fluttuando nell’aria.
Mentre il vento mi sferza il viso, scompigliandomi la coda, supero una, due, tre ragazze. Senza rendermene conto sono al terzo posto. Faccio uno scatto e passo al secondo posto.
Manca poco, ho quasi raggiunto Jessica. So che c’è della gente sugli spalti, e che sta esultando. Non mi volto per vedere quanti sono, peggiorerebbe solo le cose.
Jessica deve essersi resa conto della situazione, perché sta correndo oltre l’estremo, non preoccupandosi minimamente dei suoi capelli scompigliati. Comincio ad accelerare.
In pochi secondi, le sono accanto, e poi l’ho superata. So che sto correndo veloce, ma non sono stanca, non lo sono per niente. Questo non è il mio massimo. Posso fare di più, me lo sento. Ora ho superato Jessica, ma perché non spingersi oltre? Perché non provare a vedere fin dove arrivo?
Faccio uno scatto per mezzo giro di pista, poi mi volto. Le altre sono a circa sei metri di distanza.
Sorrido. Non pensavo di essere così veloce. Non ho mai corso in vita mia.
Passo davanti all’insegnante, che ha in mano un cronometro. Wallace grida parole di incoraggiamento, urlando come un matto.
Quando vi passo accanto, do un’occhiata agli spalti. Ci sono molte persone, la maggior parte sono ragazzi. Quando alzo gli occhi, il mio sguardo si posa su due persone in particolare. Dietro Mark, che è sicuramente qui per incoraggiare Jessica, John e il preside Harris mi guardano. Ma non mi guardano sorridenti. No, sono … accigliati.
Perché? Credevano che io non fossi abbastanza veloce? Perché? Pensavano forse che io non avessi … fiato.
Oh, cavolo!
Mi fermo di colpo. Me ne ero completamente dimenticata! Ho detto a tutti di avere l’asma, e da quando in qua una persona asmatica corre in questo modo, così veloce? Ora sono proprio nei guai.
Mi volto. Devo dare il tempo alle altre ragazze di raggiungermi, così, per non destare sospetti. Riprendo a correre a passo lento. Molto lento. Poi mi fermo e mi curvo, come se avessi i crampi e mi mancasse il fiato, cosa che, stranamente, non è affatto vera. Riprendo a correre lentamente.
Stiamo per finire i giri, quando sento Jessica correre a pochi centimetri da me. Mi do una scossa e mi impongo di correre un altro po’. Non voglio destare sospetti, ma non voglio neanche che arrivi prima.
Taglia il traguardo due secondi dopo di me. Poi un’altra. Poi Mia.
<< Hart! Che cos’è successo? Stavi dando la polvere a tutti quanti >>, grida Wallace, raggiungendomi.
Respiro affannosamente di proposito. << Ho … l’asma.>>
Lui scuote la testa, in segno di disapprovazione. << E io che pensavo di avere nella mia classe la nuova campionessa di atletica di New York!>>
Alzo le spalle, massaggiandomi i fianchi per far credere che mi facciano male. Poi dipingo sul mio volto un’espressione di dolore. Lui scrolla la testa,  affranto. Guarda il cronometro. Sospira. << Quattro e ventisette >>, afferma. Poi se ne va.
Guardo Jessica. Quattro e ventisette? Ma stiamo scherzando?! Per soli due secondi, non ho battuto il suo record? Roba da non credere.
Lei mi squadra. So che vorrebbe fare un sorrisino compiaciuto, ma la sua espressione è scalfita da pura fatica. Cerca di riprendere fiato, facendo grandi respiri, ma la cosa le risulta difficile. Dopo che l’ho superata, deve aver corso parecchio …
Mi volto e trovo Mia fra le altre ragazze, piegata in avanti per riprendere fiato, le mani posate sulle ginocchia per sorreggersi. Quando mi avvicino a lei, alza lo sguardo. Mi studia per un po’, poi mi guarda negli occhi. << Alla faccia dell’asma >>, commenta.
Ho un sussulto. Mi sforzo di fare dei grandi respiri e di tossicchiare un po’, per far credere che io sia stremata. Ma, nel frattempo, vorrei sorridere come una scema.
È stata una sensazione bellissima, indescrivibile. Era come se… come se stessi volando.
Ora il problema sarà spiegarlo al preside Harris. E a Mia. E a John.

Angolo Scrittrice.
Ciaoo!!! :D
Ok.. So cosa state pensando.. vi prego, non mi ammazzate, non mi ammazzate! Sono ancora giovane! :S
Va bene, ammetto di averci messo molto tempo per pubblicare questo capitolo, ma dovete scusarmi. Fra la scuola, la piscina, i compiti e altri impegni vari, non so nemmeno come ho fatto a scriverne un altro.
Vabbè, comunque, ora è qui ;) tutto per voi!
Che ve ne è sembrato? Vi è piaciuto? Lo avete trovato disgustoso? Fatemi sapere, mi raccomando. I commenti sono sempre bene accetti ;D
So di averci messo troppo tempo, e che probabilmente ho perso anche quei quattro o cinque lettori che ero riuscita ad ottenere, ma spero comunque di essermi rifatta con questo capitolo, e di aver stimolato la vostra curiosità.
Ora devo proprio andare. Mia nonna sta cucinando le frittelle, e sono ansiosa di aiutarla... o forse di mangiarle! *w* xDxD
Bacini, bacioni e baciotti a tutti!
With much love

la vostra ValeryJackson

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Cammino svelta per tutto il corridoio.
È appena suonata la fine della nona ora, e sono riuscita a scamparle tutte senza problemi, evitando sia Mia, sia John.
Ora, tutto ciò che mi resta da fare è correre verso la porta, uscire e scappare dritta a casa. Ci dormirò un po’ su e cercherò di trovare una scusa plausibile a ciò che è successo. O almeno una spiegazione. In fondo, non so neanche io cosa è successo.
Svolto l’angolo.
Non ricordavo quanto questo corridoio fosse così lungo. Insomma, per una volta che ho deciso di evadere inosservata, il fato non è dalla mia parte. Tipico…
Aumento il passo. Prima esco, prima posso andarmene a casa, e evitare tutti.
Quando passo davanti l’aula di musica, una folla inferocita si propaga per il corridoio, travolgendomi e occupando tutta la mia zona respiro, anche a causa dei numerosi strumenti.
Mi arriva una gomitata, poi una spinta. Giro su me stessa nel tentativo di uscire, ma niente da fare. Sono bloccata. Non mi resta che seguire la massa e divincolarmi alla prima possibilità.
E così faccio. Mi faccio trascinare da tutti loro, per poi uscire da quel branco informe di pecore, che scappano come se avessero appena visto il lupo.
Mi concedo dieci secondi per riprendere fiato e scacciare quell’orribile tanfo di ormoni e sudore che ha invaso le mie narici, poi mi guardo intorno, nella speranza di orientarmi.
Non so come faccio a capirlo, ma so che i miei occhi si illuminano, non appena vedo l’uscita.
Ce l’ho fatta! Sembra impossibile per una come me, considerando i miei numerosi precedenti, ma ce l’ho fatta! Sono riuscita ad arrivare all’uscita senza incontrare nessuno, senza dover dare spiegazioni. Pazzesco!
Aumento il passo, mentre gli angoli della mia bocca si alzano in un sorriso compiaciuto. Forse il fato ha finalmente deciso di schierarsi dalla mia parte, aiutandomi, una buona volta.
<< Valeri!>> esulta una voce alle mie spalle.
Mi fermo, chiudendo gli occhi e facendo scomparire il sorriso. Come non detto…
Mi volto molto lentamente, nella speranza che la mia sia stata solo un’allucinazione, ma, purtroppo, capisco che non è così quando scorgo Mia fare a gomitate con la gente per raggiungermi.
Si è cambiata e sciolta i capelli, indossando dei semplici vestiti. Guardo i miei. Mi sono cambiata anch’io, prima.
La tuta…
Oh, no.
<< Ehi!>> Mia mi raggiunge, sfoderando il suo sorriso migliore. Cerco anch’io di alzare gli angoli della bocca, ma la cosa risulta molto più difficile del previsto.
<< Ehi >> dico, debolmente. Ok, sono visibilmente sconsolata. Ma è mai possibile che non si possa architettare una fuga in santa pace?! Certo, non se sei Valeri Hart!
<< Dove sei stata?>> chiede Mia, con un po’ di fiatone. << Ti ho cercata per tutto il giorno… >>
Eccola, sta arrivando. Me lo sento. Ecco la domanda a cui non so e non voglio rispondere.
Abbasso lo sguardo, trovando improvvisamente interessanti le mie scarpe. << Avevo da fare… >> mormoro, sperando che le basti.
<< Ah >> è il suo unico commento, mentre mi squadra. Serro gli occhi. Eccola che arriva. Ti prego non me lo chiedere, ti prego non me lo chiedere, ti prego non me lo chiedere…
<< Beh >>, fa lei, con un sospiro. << Sarà meglio che usciamo. Qui dentro inizia a puzzare… >>
La guardo, sbalordita, mentre lei storce il naso disgustata. Non me l’ha chiesto! Forse è la volta buona. Anzi, no! Non è la volta buona. Non fino a che non ne sarò certa. Altrimenti mi porto sfortuna da sola.
Annuisco veementemente, e insieme ci dirigiamo verso l’uscita.
Mi accorgo di quanto l’atrio era vuoto solo quando vedo la quantità di gente che c’è in giardino. Praticamente tutta la scuola! È impressionante quanto siano rapidi i ragazzi ad uscire da scuola. Di solito, fra una lezione e l’altra, è la lentezza a governare.
Mentre ci stacchiamo dalla massa, qualcuno chiama la mia amica.
Mia si volta di scatto, e, non appena vede chi l’ha chiamata, sorride, contenta. << Michael!>> grida, cominciando a correre.
Io la seguo con lo sguardo, senza capire. Non riconosco subito la persona cui sta andando incontro finché non vedo un ragazzo allargare le braccia. È Michael, il fratello più grande di Mia.
Non so molto sul suo canto. So solo che, come la sorella è il resto della sua famiglia, ha la pelle color cioccolato e gli occhi neri. So che studia Architettura fuori città, che è simpatico, socievole, e che Mia praticamente lo adora. Non lo vede quasi mai, e infatti, io l’ho incontrato solo una volta, qualche mese fa, quando era venuto a prenderla a scuola e noi non eravamo ancora così amiche.
Ma ora, che ci fa qui?
Con calma, li raggiungo.
Mia allunga le braccia davanti e glie le butta al collo, abbracciandolo. Lui la stringe sui fianchi e la solleva, facendola girare, al ché lei ride. Si salutano, contenti. Non so da quanto tempo non si vedono. Saranno circa due mesi…
Non appena mi vede, Michael mi abbraccia, facendo girare anche me. Non so perché lo faccia. In fondo, non ci conosciamo neanche. Ma ricorda il mio nome, e io ricordo il suo, e infondo Michael fa così con tutti, parenti, amici e non.
<< Che ci fai qui?>> domanda subito Mia, con gli occhi che brillano di felicità.
Lui fa spallucce. << All’università ci hanno dato qualche giorno di vacanza e così ho pensato di passare a prendere la mia adorata sorellina…>>
<< Oow, che caro!>> commenta Mia, abbracciandolo.
Sorrido. Sono contenta quando è così felice.
I due fratelli cominciano a parlare e a raccontarsi storie di ogni tipo, ma io non ascolto. In fondo, non sono affari miei. Presto attenzione solo quando la voce squillante di Mia interrompe il flusso dei miei pensieri.
<< Valeri?>>
Scrollo la testa, cercando di tornare in me. << Si?>>
<< Hai capito cosa ho detto?>>
Scuoto leggermente il capo, imbarazzata. << No, non stavo prestando attenzione.>>
<< Michael ci ha invitato a bere un frullato >> spiega, sorridente. << Vuoi venire?>>
Guardo prima lei, poi Michael, non capendo. << Io? Cosa centro io?>>
<< Beh, sei una nostra amica >> risponde lui, scrollando le spalle. << E poi ci fa piacere la tua compagnia.>>
Gli fa piacere la mia compagnia? Davvero? Wow, non me l’aveva mai detto nessuno, prima d’ora. Li scruto in viso. Non stanno scherzando. Sono raggianti e felici. Vogliono davvero che io vado con loro.
Sto per rispondere, quando qualcuno da dietro mi pizzica i fianchi. Sobbalzo, voltandomi di scatto, e il sorriso di John mi esplode in faccia.
<< Ehi >> saluta. Oh, no. Ecco il mio secondo problema…
<< Che fate?>> continua lui, sorridendo anche a Mia.
<< Stavamo per andare a prendere un frullato >> risponde pronta lei. << Vuoi venire?>>
Lui mi guarda, pensando alla risposta. Ti prego dì di no, ti prego dì di no, ti prego dì di no…
John fa spallucce. << Ok >> risponde.
No! Ripetere le cose tre volte non funziona. Non funziona per niente! E ora come faccio?…
<< Lui è mio fratello, Michael >> presenta Mia. << Michael, lui è un nostro amico, John.>>
<< Piacere di conoscerti >> fa John, porgendo la mano.
Michael la guarda, scettico. << Niente mani, amico!>> esclama, abbracciandolo. John si irrigidisce all’istante, non capendo. Michael gli da due amichevoli pacche sulla schiena, prima di afferrarlo per le spalle. << Gli amici di Mia sono anche amici miei >>, spiega.
John arrossisce, sorridendo imbarazzato, e le sue gote diventano rosse. Cavolo, è bellissimo anche quando si imbarazza… Oh, concentrati, Valeri! Devi uscire da questa situazione!
<< Io non credo sia il caso che veniamo anche noi… >> dico, nella vana speranza di convincerli che è così.
<< Stai scherzando?>> esclama Michael, fingendosi indignato. << Certo che è il caso! Su, saltate in macchina >> continua, prendendo le chiavi e mettendosi al posto di guida.
Provo a replicare, ma ormai sono già saliti tutti. Perché? Perché sono così sfortunata?
Alzo gli occhi al cielo. Non mi resta che rassegnarmi all’evidenza. Ormai ho perso.
Salgo in macchina e appoggio il capo al finestrino. Sarà una lunga giornata…
 
Il viaggio, lo giuro, sembra interminabile.
Mia è seduta avanti, al posto del passeggero, e racconta di tutto al fratello mentre io e John, seduti dietro, guardiamo fuori dal finestrino. So che ogni tanto lui mi guarda, cercando il mio sguardo, ma io faccio di tutto per non incrociarlo. Non voglio, peggiorerebbe solo la situazione.
Ma ormai la cosa inizia a diventare complicata, perché la tentazione di scrutare ed essere scrutata da quei bellissimi occhi blu sta avendo la meglio sulla mia ragione.
Fortunatamente, in mio aiuto arriva Michael, che inizia a tartassare John con domande del tipo “Da dove vieni?” e “Cosa ti ha portato a New York?”, passando per i suoi hobby e arrivando alla sua parentela. Domande a cui John risponde in modo abbastanza evasivo, a volte anche con delle semplici monosillabe.
<< Ho solo mio padre >> dice, con tono gelido, quando Michael gli chiede qualcosa sulla sua famiglia.
<< Ah >> commenta quello, in imbarazzo. Forse John non lo nota, ma, essendo seduta proprio dietro di lui, vedo benissimo che sta stringendo forte il volante, a tal punto da farsi venire le nocche bianche. Non so se la sua intenzione fosse quella di metterlo a disagio, fatto sta che ora quello a disagio è sicuramente lui.
Sorrido, beffarda. Non è per niente facile prendere in giro John. Alla fine, comunque vada, è sempre lui ad avere la meglio.
Mia tossisce, nel tentativo di spezzare la tensione che si è creata, chiedendomi della sua tuta solo per cambiare discorso. 
<< È nel mio armadietto >> rispondo, in tono evasivo.
Poi, nessuno parla più, e gli ultimi chilometri che ci separano dal nostro bar sono dominati dal silenzio.
Guardo John, cercando di sorridergli. Ma, stavolta, è lui a non guardare me, interessandosi particolarmente a una solitaria goccia di pioggia che sta lentamente rigando il finestrino. Non riesco a decifrare la sua espressione. Non è triste. Sembra quasi, amareggiato. Come se quello che avesse detto gli pesasse di più di quanto dovrebbe. Ma perché? In fondo, è una cosa più che normale. Anche io ho solo mia madre. Anzi, io non ho neanche quella. Ho solo Mary, una santa donna che ha deciso di prendersi cura di me. Lui almeno può abbracciare qualcuno che abbia il suo stesso sangue…
La macchina rallenta, mentre Michael parcheggia. Tutti e quattro scendiamo e ci dirigiamo verso il bar. Quando entriamo, uno scampanellio ci accoglie, e ci si piazza davanti una ragazza formosa in divisa da cameriera, che ci accompagna ad un tavolo vicino la finestra, prendendo le ordinazioni.
Mentre aspettiamo, i due fratelli continuano a parlare. Hanno tante cose da dirsi, per essere passati solo due mesi.
Guardo di sottecchi John, che è seduto alla mia destra. È troppo impegnato a fare a striscioline un tovagliolo, per accorgersi che lo sto guardando. Perché fa così? Cosa c’è che lo turba tanto?
Non faccio in tempo a chiederglielo, che la cameriera arriva con le nostre ordinazioni su un vassoio. Le porge ad ognuno, ponendomi davanti un enorme frappè al cioccolato e cocco, e poi se ne va, lasciandoci di nuovo soli.
Michael, che ha ordinato solo un caffè macchiato, lo ingoia tutto d’un sorso, sospirando non appena lo finisce. << Beh >> dice, poggiando i palmi sul tavolo e alzandosi a metà. << È ora che io vada. Ho un mucchio di cose da fare, e devo ancora salutare la mamma.>>
<< Ti rivedo a casa?>> chiede Mia, guardandolo speranzosa.
Lui infila il giubbino che si era levato e le da un bacio sulla fronte, sorridendole. << Ma certo, ci vediamo dopo.>> Poi guarda me. << È stato un piacere rivederti, Valeri. E, lieto di averti conosciuto, John.>> Indossa anche il cappellino di lana e poi infila le mani nelle tasche. << Ciao >> saluta, uscendo dalla porta e lasciandoci lì.
Mia sorride, sorseggiando il suo frappè alla banana. John, invece, è riuscito a dare solo due sorsi disinteressati, mentre forma dei piccoli vortici al cioccolato nel suo frappè con la cannuccia.
Vorrei rompere il silenzio che si è creato, ma non so proprio cosa dire, così mi limito a bere la mia bevanda, sperando che qualcuno abbia qualcosa da dire.
Fortunatamente, in quel momento qualcuno mi saluta. Alzo lo sguardo, spiazzata e mi ritrovo davanti l’ultima persona al mondo che mi sarei immaginata di incontrare.
<< Matt >> esclamo, sorpresa. << Ciao, da quanto tempo.>>
<< Già >> fa lui con un sospiro. << Dalla festa nella vostra scuola >> afferma. Solo in quel momento sembra accorgersi dei miei amici, squadrandoli.
Raddrizzo la schiena, affrettandomi a presentarli per evitare di imbarazzare qualcuno.
<< Ehm, Matt, loro sono Mia e John. Ragazzi, lui è Matt, il… >>
<< Chitarrista del Columbus Day >> conclude Mia, squadrandolo.
Lui aggrotta la fronte, guardandola con i suoi occhi verdi. << Ti ricordi di me?>> chiede, fra il sorpreso e il divertito.
Mia scrolla le spalle, tornando ad osservare il suo frappè, imbarazzata. << Diciamo che mi piaceva la musica.>>
Matt sorride, lusingato, poi fa cenno con la mano al posto libero accanto a Mia. << Posso sedermi?>> chiede.
<< Certo >> risponde Mia, cordialmente, affrettandosi a scalare di lato per fargli posto. Non appena l’ha ottenuto, le siede accanto, guardandola.
<< Allora Matt, che mi racconti?>> chiedo, convinta di aver appena trovato la scusa per attaccare un discorso.
Lui alza le spalle, noncurante. << Niente di che. Vado a scuola. Suono. Ogni tanto mi diletto in qualche lavoretto per racimolare un po’ di soldi, ma niente di più.>>
Annuisco. << E come va con la band?>>
<< Benone. Abbiamo appena trovato un ingaggio per una festa, fra qualche giorno. Ci pagano davvero bene.>>
<< Fantastico >> esulto, con falso entusiasmo. << E dov’è?>>
<< In un palazzetto, vicino Central Park. È per una serata di beneficenza.>> Un sorriso gli si forma sul volto, mentre il suo sguardo si perde in un punto indeterminato sul tavolo. << Pensa, la donna che ci ha dato l’ingaggio ha detto che, se siamo fortunati, possiamo anche incontrare gli Aereosmith.>>
Mia si porta un tovagliolo alla bocca, nel tentativo di non sputare sul tavolo, ma soprattutto in faccia a me, il sorso che ha appena bevuto del suo frappè alla banana. Sgrana gli occhi e tossisce.
Inarco un sopracciglio, quando lei si volta sbigottita verso Matt. << L’ingaggio è la stessa sera del concerto degli Aereosmith?>> chiede, sorpresa.
Lui annuisce, contento dell’idea. << Si. Come ho detto, è una serata di beneficenza.>>
Mia apre la bocca, come per parlare, mentre sventola la mano con veemenza per indicarsi. << Mia … Mia madre organizza quella serata. Quel giorno, vicino Central Park!>>
Matt resta in silenzio due secondi, con la fronte aggrottata. Poi, quando finalmente capisce, sgrana gli occhi. << Tua madre è Jodie Jackson?>>
Mia sorride, annuendo. Sorride anche Matt. Sembra felice. << Io … io non posso crederci. Devo molto a tua madre. È stata l’unica persona ad aver creduto in noi e ad averci assegnato un ingaggio degno di questo nome.>>
La mia amica lo scruta in volto, continuando a sorridere come un’ebete. Credo che non sappia davvero cosa dire… Aspetta. Mia? Mia che non sa cosa dire? Quella ragazza che ha sempre la battuta pronta e la risposta a tutte le domande? Quella ragazza che avrebbe bisogno di un interruttore che la spenga non appena inizia un discorso che lei ritiene importante? Quella ragazza che si difende dalle malelingue solo con le parole? Quella Mia, ora non sa cosa dire… davanti a un ragazzo?!
Lei distoglie un attimo lo sguardo, passandosi le dita fra i capelli e poi spostandosene una ciocca dietro l’orecchio, imbarazzata. << Beh, sono contenta che mia madre abbia scelto voi. Se l’avessi saputo, l’avrei di sicuro appoggiata al cento per cento.>> Sorride. << Siete davvero bravi.>>
Oh, no. È peggio di quanto pensassi!
Sposto rapidamente lo sguardo da Mia a Matt, a Mia e, di nuovo, a Matt. Continuano a parlare del più e del meno, guardandosi di sottecchi e regalandosi sorrisi timidi come due perfetti idioti. Ma che fanno?!
Osservo Mia. Sta giocando con una ciocca di capelli, attorcigliandosela fra l’indice e il medio. Sta flertando. Anzi no, mi correggo. Vorrebbe flertare, ma non lo fa. Perché non lo fa? Che aspetta? È chiaro come il sole che lui le interessa. È una bellissima ragazza, di cosa ha paura?
Guardo John, per controllare se anche lui sta pensando alla stessa cosa, e all’improvviso capisco.
Ci siamo noi! Siamo noi che diamo fastidio. Provano… imbarazzo.
Ho deciso, siamo di troppo.
Apro la bocca per parlare, tentando di inventare una scusa plausibile prima che sia costretta a richiuderla e a rendere la situazione ancora più imbarazzante.
<< John?>> chiamo, continuando a squadrare quei due per vedere le loro reazioni.
<< Si?>> fa lui, alzando il capo e fissandomi.
Mi acciglio. Pensa a qualcosa, pensa a qualcosa, pensa a qualcosa…
<< Mi accompagneresti a prendere dello zucchero?>> Wow, che bella pallonara…
John aggrotta la fronte. << Ma ce né già qui >> dice, indicando con un cenno le bustine di zucchero che la cameriera ci ha giustamente portato.
Alzo gli occhi al cielo. Si, ora sono sicura che non stesse pensando alla stessa cosa.
<< Non voglio quello >> dico, esasperata.
<< Perché no?>>
<< Perché no >> ribatto, guardandolo storto. Spero tanto che non faccia altre domande, non so più che dire.
Lui mi squadra, aggrottando leggermente la fronte e storcendo la mascella con fare pensieroso. Poi, ringraziando il cielo, si alza. So che non mi crede, glie lo si legge in faccia. Ma so anche che lui ha letto nella mia che ho qualcosa in mente, e, considerando la sua curiosità, credo voglia capirne di più.
Sospiro, alzandomi, e insieme ci avviamo verso il bancone, lasciando Mia e Matt da soli.
Non appena siamo fuori dal loro campo visivo, do una leggera spinta a John, incitandolo ad andare più veloce.
Quando so che siamo abbastanza lontani per dar loro un po’ di privacy, ci avviciniamo al bancone. Inizio a guardarli.
John afferra qualche bustina di zucchero. << Andiamo?>> dice, e fa per avviarsi al tavolo.
<< Ehi, fermo. Dove vai?>> dico, bloccandolo con una mano.
Lui si acciglia, non capendo. Faccio roteare gli occhi. << Oh, ma non lo vedi?>> Indico i ragazzi con un cenno. << È ovvio che vogliono un po’ di privacy.>>
John li guarda, iniziando a squadrarli. << Ne sei sicura?>> chiede.
Sorrido, beffarda. << Ma certo. Insomma guardali >> faccio volteggiare la mano nella loro direzione. << Non ho mai visto Mia sorridere tanto. E non l’ho mai vista senza parole. È ovvio che le piaccia.>> Li osservo ancora un po’, studiando i loro movimenti. Stanno parlando, e ogni tanto credo che lui faccia delle battute, perché vedo Mia ridere di gusto. << E poi, è in imbarazzo. Si sta torturando quelle ciocche di capelli da almeno mezz’ora, e ride molto spesso e di gusto. Quindi, le cose sono due. O Matt è un comico mancato, oppure lo fa per mascherare una risatina nervosa.>>
Li fissiamo ancora un po’, poi John sposta lo sguardo si di me. << È così che fate?>> chiede. Lo guardo, non capendo. << Voi ragazze, intendo. Non appena vedete una vostra amica insieme a un ragazzo che le piace la lasciate sola con lui?>>
Scrollo le spalle. << Beh, dipende.>> Faccio una pausa. << A volte è l’unico modo per aiutarla.>>
John sorride, poi torna a guardare quei due. << Comunque anche a lui piace lei >> afferma.
<< Davvero? Come lo sai?>>
<< Beh, sono un ragazzo >> dice sarcastico. Poi, notando che non rido alla sua battuta, sospira e continua. << Evita il suo sguardo. Quindi lei lo mette in soggezione. Quindi ha paura che, guardandola, possa fare una figuraccia, e preferisce non farlo. Quindi gli piace.>>
Penso alla sua affermazione. Quindi è così che succede? Quando piaci a un ragazzo, lui non incrocia mai i tuoi occhi, per non sentirsi in soggezione? Un altro pensiero mi attraversa la mente. John non ha mai evitato il mio sguardo. Anzi, molte volte era proprio lui a cercarlo. Vuol dire che non gli interesso? Neanche un po’? Oppure è così sicuro di se che non ha paura di essere messo in soggezione da una ragazza? Se, come no… Ma che mi aspettavo?
Mi sale un groppo in gola. << Quindi è così che fate?>> chiedo. << Quando una ragazza vi interessa evitate il suo sguardo?>>
Lui alza le spalle. << Beh, dipende. Ci sono volte che tentiamo di evitare il suo sguardo perché troppo bello >> risponde. Sento montare una rabbia inspiegabile dentro di me. Ma perché sono così idiota? Perché? Abbasso lo sguardo. << E ci sono volte in cui il suo sguardo è talmente bello che non possiamo fare a meno di guardarlo >> conclude.
Mi sento avvampare. Non so perché. Stava parlando di me? Era una complimento indiretto? Cercava di dirmi che ho dei begli occhi? Oh, ma andiamo. Nessuno troverebbe belli i miei occhi. Sono scuri e privi di una qualunque sfumatura che possa attirare l’attenzione di qualcuno. Sono totalmente, interamente neri. Non sono affatto come quelli di John. Non sono occhi che non smetteresti mai di guardare. Anche se sarebbe bello.
I miei pensieri vengono interrotti dalla scena di Matt che si alza, salutando Mia ed uscendo dal locale.
Senza pensarci troppo, mi precipito verso la mia amica. John mi segue, ma prima che possa essere arrivato io mi sono già seduta accanto a lei, e la fisso in attesa.
<< Allora?>> chiedo.
<< Allora cosa?>>
Faccio roteare gli occhi. << Che ti ha detto?>>
Mia scrolla le spalle, fingendosi non curante, ma le si legge dentro che non vede l’ora di parlarne.  << Niente di che… abbiamo parlato della scuola, dei nostri hobby. Sai, mi ha detto che frequenta la New York City Guitar School, e che si sta allenando per poter superare l’esame di ammissione ed entrare alla Juilliard. Dice che è il suo sogno. Nel frattempo, però, si allena con i suoi amici, nel tentativo di trovare un ingaggio che gli porti fortuna. Dice anche che forse quello di mia madre è quello buono.>>
Inizia a giocare con un lembo di un tovagliolo spezzettato, pensierosa. << E?>> chiedo. So che c’è dell’altro. Me lo sento.
Sorride, emozionata, sventolando il tovagliolo davanti alla mia faccia. << E mi ha dato il suo numero!>> esulta.
Iniziamo ad urlare come delle bambine, mentre John ci osserva divertito. Solo in quel momento, noto l’insieme di numeri scritto sul fazzoletto.
<< Oh, Mia, sono così felice!>> esclamo, abbracciandola. << Te lo meriti.>>
Lei sorride. << Ti ringrazio. Non vedo l’ora che venga domani. Ha detto che verrà anche lui alla festa.>>
Aggrotto la fronte. << Che festa?>>
<< La festa di Halloween >> risponde, con fare ovvio. Poi, come se si fosse appena ricordata di un fatto importante, si porta una mano alla fronte. << Oh, no. Ho dimenticato di dirtelo! Che scema. Domani, come ogni anno, qui in città si organizza la New York Halloween Parade, una sorta di parata a cui partecipa tutta la città, nel quale si balla, si canta, si osservano le esibizioni dei professionisti e ci si veste in maschera. Si ride dell’assurdità dei carri e ci si diverte con giochi e case dell’orrore di primo livello.>> Sorride. << Mia madre ovviamente è una delle tante organizzatrici. È una delle feste più importanti e più belle che vengono celebrate qui a New York. Non potete mancare.>>
Guardo John, cercando un parere o una risposta. Ma in quel momento il suo cellulare vibra e lui risponde.
<< Ci verranno tutti, Valeri. Non puoi mancare solo tu!>> esclama Mia, nel tentativo di convincermi.
John riattacca e si alza dal tavolo, guardandoci. << Mi dispiace ragazze, ma devo andare. Ci vediamo domani.>>
Afferra il suo cappotto e fa per andarsene, quando Mia lo richiama. << Allora? Verrete domani?>>
Io e John ci guardiamo, pensierosi. È davvero una delle feste più belle celebrate a New York. Forse anche la più bella. Di sicuro la più divertente.
In quel momento, guardandoci, capisco che ci stiamo dicendo la stessa cosa. Vado io se vai tu.
Sorridiamo, annuendo. << Certamente >> rispondiamo all’unisono.
Mia batte le mani, contenta.
Poi, John infila le mani nelle tasche dei pantaloni e, salutandoci con un cenno, se ne va, regalandomi un’ultima volta uno di quei bellissimi sorrisi prima di voltarsi.
Sospiro. Ho appena accettato una corsa contro il tempo.
Ho meno di un giorno per cercare qualcosa di decente da indossare.
Ho meno di un giorno per imparare tutto ciò che c’è da sapere su questo genere di feste, cosa va fatto e cosa va visto.
Ho meno di un giorno per convincere mia madre a farmici andare.

Angolo Scrittrice
Ciao!!...
Allora. Ho un po' di cose da dire, e credo che questo sia uno degli angoli scrittrice più lunghi della storia.
Prima di tutto, cosa molto importante, voglio scusarmi.
Ci ho messo esattamente un mese per pubblicare questo capitolo, e mi dispiace. Tutti noi sappiamo che la scuola ha rotto abbondantemente le scatole, che quel poco di tempo libero che ci resta lo sfruttiamo per coltivare i nostri hobby, e che quando torniamo a casa non ce la facciamo neanche a camminare. Aggiungiamo il fatto che questo non è proprio un periodo gradioso per quanto riguarda il resto... :S.... Capirete che scrivere un nuovo capitolo non è stata proprio una passeggiata.
So che molti di voi non lo leggeranno neanche, e che quei pochi che lo faranno non vedono l'ora di incontrarmi per potermi strozzare di persona, ma, Ehi, con due storie da portare avanti la mia mente incasinata fatica a portorirne altre... xDxD
So che non è una giustificazione valida, e so anche cosa molti di voi stanno pensando: "Ti fai viva dopo un mese e ci lasci questo schifo di capitolo?"
Beh, che dire... so che può sembrare un po' noioso e inutile, ma ci tengo comunque. E poi, ehi, anche Mia ha bisogno d'un po' d'amore, no? E poi ora ci sarà questa festa di Halloween, e chissà cosa accadrà *w*
Muahahah! Mi sento malvagia xDxD
Vabbè, comunque, considerandolo un capitolo "di passaggio" spero comunue che vi sia piaciuto.
Mi raccomando, fatemi sapere se siete ancora vivi e se ci siete ancora. Lasciate un commentino e saprò di non avervi persi ;)
Ora vado. E' sabato e ho voglia di uscire.
Un bacione enorme
La vostra Valeryjackson
P.s. Per farmi perdonare, vi lascio una gifs di Valeri tutta per voi
P.p.s. Se tornate al capitolo 10, ce nè una anche di John **


Valeri

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Mi alzo circa dieci minuti prima del suono della sveglia.
È tardi, e non ho tempo da perdere.
Sono rimasta sveglia tutta la notte nel vano tentativo di trovare un modo per convincere mia madre a darmi il permesso di andare a quella festa, ma, alla fine, l’unico plausibile che ha attraversato la mia mente è stato forse il più scontato: l’adulazione.
Scendo frettolosamente le scale, cercando di combattere il sonno e di non pensare all’enormi occhiaie nere che quasi sicuramente solcano la mia faccia, e mi dirigo in cucina.
Apro il frigo e tutti i cassetti della dispensa. Non c’è modo migliore di ottenere qualcosa dagli adulti se non quello di preparargli la colazione. Ancora meglio, se è qualcosa che loro adorano.
Ecco, Mary ama lo zabaione.
Non penso sia complicato farlo. Insomma, non l’ho mai cucinato, ma ho visto lei prepararlo un milione di volte a colazione, e credo ricordare tutti i passaggi.
Prendo sei uova e inizio a montarne i tuorli con dello zucchero. Poi, prendo del Marsala che Gabe ha fortunatamente lasciato qui, lo verso a filo nel composto e lo metto a bagnomaria.
Inizio a sbattere energicamente, forse troppo, ma ho fretta. Deve essere pronto prima che Mary si svegli, vale a dire entro mezz’ora.
Finalmente, dopo circa dieci minuti, il composto comincia a gonfiarsi, fino a diventare denso. Perfetto, è pronto.
Ora mi serve soltanto qualcosa con cui accompagnarlo.
Mentre lo verso in un bicchiere e lo decoro con qualche biscotto sbriciolato, comincio a pensare.
Che cos’è che Mary ama tanto quanto lo zabaione?
Sorrido. Ci sono. Il gelato.
Guardo l’orologio appeso al muro. Ho meno di venti minuti prima che Mary scenda a fare colazione. Devo sbrigarmi.
Prendo un limone e inizio a grattugiarne la scorza, per poi spremerlo. Mescolo il succo con metà della scorza e poi vi aggiungo zucchero, cannella e 3 banane a fettine.
È una ricetta che ho imparato da Mary. Di solito, la preparava sempre la mattina del mio compleanno.
Ne metto metà in una coppa e lo cospargo di meringhe sbriciolate. Poi cerco il gelato. In frigo, c’è solo quello alla stracciatella. Andrà bene. Lo afferrò e prendo tre palline con un cucchiaio, mettendole nella coppa.
Guardo l’orologio. Ho quindici minuti.
Il cioccolato. Mi serve il cioccolato.
Ne prendo una barretta intera dalla dispensa e, senza pensarci, la metto in pentola, facendola sciogliere con un po’ di panna fresca.
A volte è una fortuna, avere una mamma appassionata di cucina.
Mentre aspetto che il cioccolato si fonda, verso altre banane e altre meringhe sul gelato. Poi la panna montata. Sempre meglio abbondare.
Prendo il cioccolato ormai sciolto e lo verso, cospargendo il tutto con una manciata di cocco.
Fantastico. Ora si, che è tutto perfetto.
Controllo il tempo che mi è rimasto. Solo cinque minuti.
Nel silenzio, sento dell’acqua scorrere in cima alle scale. Mary è in bagno. Tra poco scenderà.
Sospiro, soddisfatta. Ho fatto proprio un bel lavoro. E tutto entro i limiti di tempo!
Mi guardo intorno, distrattamente, e mi viene un sussulto. La cucina è interamente, completamente sporca. Un porcile.
L’acqua smette di scorrere e qualcosa sbatte. Strabuzzo gli occhi. Se Mary vede questo casino, sicuramente si inquieterà come una bestia. Devo pulire tutto. Ora.
Non dev’essere difficile. Insomma, l’altro giorno, a scuola, sono riuscita a superare tutti e a correre velocissima senza stancarmi, quanto può essere complicato rifarlo in uno spazio ristretto come una cucina?
Una porta sbatte e sento dei passi in cima alle scale. Devo muovermi.
Accattono tutto quello che c’è sul tavolo da lavoro e lo butto nella dispensa, sbattendo l’anta, senza preoccuparmi se siano in ordine o no. Tanto so che è no.
Prendo pentole e pentolini e li metto nel lavandino, cercando di nasconderli il più possibile in modo che non si vedano appena entri in cucina. Bicchieri. Posate. Butto tutto lì, dove capita, senza preoccuparmi minimamente. In fondo, non ho tempo per farlo. Sento i passi di Mary scendere le scale.
Raccolgo le briciole che sono sparse sul tavolo in una mano e le butto nel cestino, sfregando le mani convulsamente. Ormai so che Mary è davanti la porta.
Mi guardo intorno. È tutto in ordine, ho fatto in tempo.
Sospiro, e Mary entra.
<< Buongiorno >> bofonchia, stropicciandosi gli occhi.
<< Buongiorno!>> esclamo, forse con un po’ troppa enfasi. Devo calmarmi, o capirà che c’è qualcosa sotto. Faccio un respiro profondo e metto in mostra il mio sorriso migliore. << Dormito bene, stanotte?>>
<< M-Mh >> mormora, sbadigliando. << Alla grande.>>
Annuisco. Fantastico. Un punto a mio favore.
Prendo la ciotola di gelato e il bicchiere con lo zabaione, e, dopo che lei si è seduta al tavolo, glie li metto davanti.
Mary aggrotta la fronte, mentre cerca di mettere a fuoco l’immagine.  << Cos’è questo?>>  chiede.
Alzo le spalle, cercando di sembrare non curante. << Ho preparato la colazione.>>
Mary mi guarda, stupida. << Davvero?>> domanda, incredula.
Mi fingo offesa. << Beh? È così strano che io mi sia svegliata prima questa mattina per preparare la colazione alla mia cara mammina?>> Ostentazione. Non c’è modo migliore di abbindolare qualcuno se non quello di fargli capire cosa hai appena fatto per lui.
Mary afferra un cucchiaino, prendendo un po’ del liquido giallognolo nel bicchiere e poi facendolo colare di nuovo dentro. Inarca un sopracciglio, tornando a guardarmi. << Anche lo zabaione?>>
Scrollo le spalle, sedendomi accanto a lei. << Beh, so che ti piace tanto. E poi devi mettere un po’ di ciccia su quelle ossa. Sei troppo magra.>> Adulazione. Ormai ce l’ho in pugno.
Lei annuisce e scruta con occhio critico il gelato, individuandone ogni minimo ingrediente. Poi assaggia lo zabaione, constatandone la consistenza. Alza le sopracciglia, con fare sorpreso. Credo che siano usciti abbastanza bene, perché non muove alcuna critica riguardo alla poca densità del liquido o all’assenza di sale. Ottimo. Ormai è fatta.
Mary sospira, poggiando il busto sullo schienale e incrociando le braccia sotto il seno. Mi guarda, come in attesa. << Ok. Ho capito. Di cosa hai bisogno?>>
Sgrano gli occhi. Ma come… come ha… esibisco la mia espressione indignata, ma la sorpresa ha la meglio, tanto da non permettermi di inventare una risposta decente. << Cosa? Io non ho… non ho…>> balbetto.
<< Valeri… >> mi interrompe lei, facendo roteare gli occhi.
La guardo.
Non posso crederci. Ce l’avevo quasi fatta. Ero quasi riuscita nel mio intento, e invece no. Mi ha sgamata. Devo sempre essere esposta dalla parte della lama. Perché? Perché per una volta non posso reggere il coltello dalla parte del manico? Mi serve una scusa, ma non ne ho. Ormai devo accettarlo. Ho fallito. Tanto vale a questo punto dirle la verità. Magari con schiettezza e sincerità…
<< Ok. Ascolta >> comincio. Tutto d’un fiato. << Questa sera, come ogni anno, qui a New York viene organizzata l’ “Halloween Parade”. È una festa molto carina, dove si balla, si mangia, ci si diverte. E poi ci sono anche molte attrazioni… >>
<< E tu vorresti andare a questa parata?>>
<< Beh, io… >> abbasso lo sguardo sulle mie mani, imbarazzata. << Si. Mi piacerebbe molto andarci. La mamma di Mia organizza l’evento, di sicuro ci sarà anche tutta la scuola, e poi… >>
<< E poi?>>
<< E poi… e poi ci sarà anche John. E insomma, io… speravo di poterci andare.>>
Non vedo l’espressione di Mary in questo momento, ma la sento sospirare. Chiudo gli occhi, preparandomi alla risposta negativa che riceverò. Dovevo aspettarmelo. Ho davvero pensato di poterla convincere?
Eccola che arriva. Non piangere, non piangere, non piangere...
<< Ok… >> mormora.
Rilasso i muscoli, afflitta. Devo riprendere fiato, per replicare. Non mi ero neanche accorta di trattenerlo, il fiato.
<< Oh, andiamo, Mary… >> comincio, guardandola. << È una cosa importante per me. Se me ne dessi la possibilità io…>> Mi blocco, all’improvviso, ripensando a ciò che ha appena detto. No, non è possibile. << Aspetta un attimo…. Come?>>
Mary sorride. << Ho detto ok. Puoi andare.>>
Sgrano gli occhi, e mi sento mancare il fiato. Ha detto di si! Ha davvero detto di si! Non posso crederci! È uno scherzo? Ditemi di no. Qualcuno mi dia un pizzicotto!
<< Io… io… >> balbetto, ma mi mancano le parole. Non so davvero cosa dire.
Mi alzo di scatto, precipitandomi ad abbracciarla, forte. << Grazie!>> mormoro. << Grazie, grazie, grazie!>>
Mary ride, accarezzandomi la schiena. << Oh, non ringraziarmi, cara.>>
Rompo l’abbraccio, guardandola emozionata. In un baleno, la mia mente inizia a fantasticare su cosa accadrà questa sera. Che vestito indosserò. Che cosa farò. E John…
<< Allora, a che ora andiamo?>> domanda lei, interrompendo il flusso dei miei pensieri.
La guardo, scioccata. << Eh?>>
<< A che ora andiamo >> ripete. << Non vogliamo perderci l’arrivo dei carri, no?>>
Sono confusa. << Ma come? Tu non…>>
<< Bambina mia, non avrai mica creduto che ti lasciassi andare lì tutta da sola?>> Scuote un dito davanti la mia faccia. << No, no, no, no. Verrò anch’io.>> Si alza, afferrando la coppa di gelato e versandoci sopra lo zabaione.
Poi mi si para davanti, chiudendomi con una mano la bocca che non mi ero accorta di tenere aperta. << Chiudi la bocca, tesoro. È maleducazione.>> Mi fa l’occhiolino e se ne va.
Non posso crederci. Ha davvero detto che verrà anche lei? Dovrò andare lì… con mia madre?!
Oh, no… La mia vita sociale è ufficialmente finita. Che cosa dirò, ora? “Scusa, John, non posso venire con te. Ho già promesso di andare lì con mia madre…”. Oh… Cavolo! Può andare peggio di così? No, non credo.
Ma, se voglio affrontare bene la serata, devo cominciare a pensare alle cose positive. Mi divertirò con Mia. Avrò la possibilità di scattare molte belle foto. E poi, potrò passare tutta la serata con John… e con mia madre.
 
Quando arrivo davanti scuola, ho la sensazione di essere in un film dell’orrore.
Tutti, in occasione della festa di Halloween, indossano maschere e strani costumi, magliette sporche di ketchup (che dovrebbe sembrare sangue, ma non ci si avvicina neanche lontanamente) e strani cerchietti che danno l’idea di essere appena stati colpiti da un’ascia.
Non mi piacciono queste maschere. Sono stupide. E infantili. Insomma, dov’è l’originalità?
A testa bassa, attraverso il corridoio e raggiungo il mio armadietto, aprendolo e prendendo l’occorrente per la prossima lezione.
Ad un tratto, una voce squillante risuona nel mio timpano sinistro.
<< Ehi!>> trilla Mia, così forte da farmi sobbalzare.
Mi volto a guardarla, per fulminarla con lo sguardo, quando mi accorgo dell’ascia che ha conficcata in testa. Storco il naso. << Ciao >> mormoro, con scarso entusiasmo.
<< Che c’è?>> domanda lei. << Non ti piace il mio cerchietto?>>
Sorrido. << Si, certo. Originale. Nuovo, oserei dire >> affermo, sarcastica.
Mia incrocia le braccia al petto, fingendosi offesa. << Beh, tu che indosseresti, signorina Armani? Sentiamo.>>
Scrollo le spalle. << Non lo so… qualcosa di diverso, credo. Siete tutti così monotoni.>>
<< Non è colpa mia se sono questi i costumi che si indossano ad Halloween.>>
Faccio spallucce. A me non piacciono. Non possono mica farmene un colpa.
<< Allora…>> fa Mia, dopo un minuto di silenzio. << Pronta per stasera?>> chiede, in tono malizioso.
Io chiudo gli occhi. Ecco la domanda che tanto temevo. Come glie lo dico, adesso? Storco il naso, grattandomi la nuca imbarazzata. << Ecco, a proposito di questo… volevo dirti che io…>>
Qualcuno, da dietro, mi pizzica i fianchi, facendomi sobbalzare. Mi volto di scatto, ritrovandomi il volto di John a pochi centimetri dalla faccia. << Ehi!>> esclama, con un sorriso.
Mi sento le gambe molli, e, con un po’ di imbarazzo, mi allontano di un passo da lui. Faccio un respiro profondo. Riprenditi, Valeri. Insomma!
Torno me stessa. << Dovresti smetterla di pizzicarmi sempre i fianchi >> dico, un po’ infastidita. << È una cosa snervante.>>
John fa spallucce. << Ok…>> mormora, fingendosi offeso. Abbassa lo sguardo, ma lo vedo. Lo vedo ridere sotto i baffi. Quella faccia da furbo non mi piace…
Mi volto verso Mia, nel tentativo di trovare un modo carino per dirle che non passerò la serata con lei, ma, proprio in quel momento, John allunga la mano verso il mio fianco destro.
Con un piccolo salto mi allontano di un passo, voltandomi verso di lui e afferrandogli la mano a mezz’aria. << No >> lo rimprovero, con un mezzo sorriso, con lo stesso tono che useresti con i bambini.
John sorride, divertito, e solo in quel momento mi accorgo della rapidità della mia azione. Sono davvero diventata più veloce. Però!
Torno a guardare Mia, che ci osserva con un sorriso malizioso. Immediatamente, arrossisco. Non so perché. Spero solo che John non se ne sia accorto.
<< Allora… di che parlavate?>> chiede quest’ultimo, con aria innocente.
Mia scolla le spalle. << Niente di che… Stavamo parlando della festa. Verrai, vero John?>>
Mi volto a guardarlo. Ha abbassato lo sguardo e si sta grattando la nuca, imbarazzato. << Ecco, in realtà… verrò, ma con mio padre. Ci siamo trasferiti qui da poco, e anche lui ha voglia di vedere la parata. Mi dispiacerebbe lasciarlo solo…>>
Strabuzzo gli occhi, mentre Mia annuisce, comprensiva. << Si, capisco. È giusto, non preoccuparti. Ci incontreremo lì.>> E sorride.
Sorrido anch’io, ma stavolta per lo stupore. Sono… allibita. Possibile che i genitori siano tutti così… apprensivi?
Mia mi scrolla un braccio, distogliendomi dai miei pensieri. << Valeri… Allora? Cosa volevi dirmi?>>
Rimango un attimo interdetta, guardando ora Mia, ora John. << Beh, io…>>
<< Valeri!>> una voce forte e imponente mi chiama dalla fine del corridoio.
Mi volto, non capendo, quando vedo il preside Harris agitare le braccia nella mia direzione.
Oh, no. Che ho fatto stavolta?
Il preside inizia a venirmi incontro e, non appena vedo che non ce la fa, comincio a camminare verso di lui. In realtà ho la forte tentazione di scappare dalla parte opposta, ma, l’intuito mi dice che, se sono già nei guai, scappare peggiorerebbe solo la situazione.
Quando siamo abbastanza vicini, Harris si ferma, poggiando le mani sulle ginocchia e facendo grandi respiri. Dopo qualche secondo, però, raddrizza la schiena, tornando ad assumere la sua solita posa autoritaria.
<< Ciao Valeri.>>
<< Buongiorno a lei, preside Harris.>> Adulazione. Ho già detto che è una grande tattica? << Mi cercava, forse?>>
Lui annuisce, pensieroso. << Si, sono venuto qui per chiederti un favore.>>
Aggrotto la fronte. << Un favore?>
<< Un favore >> ripete. << Come ben sai, questa sera qui in città si terrà la “New York Halloween Parade”. Tu ci andrai, giusto?>>
Annuisco. Non ho ancora ben capito cosa voglia da me.
<< Bene. Tra i tanti carri, sfilerà anche quello della nostra scuola. Tutti i fotografi che lavorano per un giornale hanno il compito di fotografarlo, ma io non mi fido molto di quella gente. Il nostro carro è molto bello, e la nostra scuola deve spiccare. Quindi, ho già chiesto ai ragazzi che frequentano il corso di fotografia in questa scuola di scattare qualche foto in più, così, tanto per essere sicuri.>>
<< E cosa centro io?>>
<< Tu, mia cara, dovrai fare lo stesso. So che quei ragazzi sono tutti degli appassionati, ma non mi fido molto neanche di loro. Non sanno guardare attraverso l’obbiettivo, non sanno cogliere l’attimo. Ma tu si. Sappiamo entrambi la tua bravura nello scattare delle ottime fotografie. Ti chiedo solo di farne qualcuna questa sera alla parata.>>
Sono sbalordita. Sbalordita, ma anche contenta. << Ma… ma… perché proprio io? Come sa che sono così brava?>>
Lui scrolla le spalle. << Ho visto le foto sul tuo sito, e devo ammettere di essere un tuo grande fan, e poi, c’è qualcuno che ha confermato per te >> afferma, indicando con un cenno qualcuno alle mie spalle.
Mi volto e, con un gran sorriso, sia Mia che John mi salutano con i pollici alzati.
Sorrido, riconoscente.
<< Allora, ci stai?>> domanda il preside, a cui non ho ancora dato un risposta.
Faccio finta di pensarci, anche se so perfettamente cosa dire. << Ma certo >> rispondo, cercando di contenere l’entusiasmo. << Conti pure su di me.>>
Lui sorride, contento, e, dopo avermi salutato, si volta per tornare nel suo ufficio.
Non appena se ne va, rilasso i muscoli della mia faccia, facendo allargare la mia bocca in un ampio sorriso. Mi volto e corro verso Mia e John, abbracciandoli di slancio.
<< Oh, grazie, grazie, grazie!>> esclamo.
Mia ride. << Noi non abbiamo fatto niente. Sei tu quella brava con la macchinetta.>>
Mi stacco dall’abbraccio, guardandoli entrambi emozionata. Che bello, non vedo l’ora. Finalmente ho la possibilità di dimostrare quanto valgo. Di dimostrarlo a tutti.
La campanella suona, segnando l’inizio della prima ora.
Faccio mente locale. Ho lezione di Letteratura.
In un altro contesto avrei riempito d’aria le guance e avrei sbuffato. Ma ora no. Ora sono troppo felice.
Chiudo il mio armadietto, saluto Mia e John e mi dirigo verso l’aula. Troppo felice.
 
La campanella suona.
Ecco che inizia la sesta e penultima ora.
Raggiungo il mio armadietto. Ho Arte ora.
Lo richiudo e, mentre percorro il corridoio dritta verso l’aula, John mi si para davanti.
<< Ehi, Valeri! Hai Arte, giusto?>>
Sorrido, guardandomi intorno. So che John prima aveva lezione di Matematica, e so anche che l’aula di Matematica è a circa due corridoi da qui. Davvero ha corso così tanto solo per venirmi incontro? Annuisco. << Si, certo.>>
Lui sorride, fingendosi non curante. << Perfetto. Andiamo, allora.>>
Riprendiamo a camminare, arrivando davanti l’aula d’Arte. Alcuni sono già arrivati. Altri ancora no. Il professore, però, è già qui.
<< Riprendete i posti dell’altra volta, ragazzi >> ci dice, sorseggiando una limonata. Dopo aver arricciato il naso per via del sapore amaro di quella bevanda, poggia il bicchiere vuoto sul tavolo.
<< Vi ho riportato i quadri >> ci informa. Io e John prendiamo posizione, sedendoci uno di fronte all’altro. Improvvisamente, arrossisco. Ricordo benissimo il mio quadro, e la cosa è piuttosto imbarazzante.
Il professor Martin afferra una pila di tele, passando accanto ad ognuno di noi e porgendoci i nostri quadri.
Si ferma davanti a John, dandogli il suo, e, dalla sua espressione, capisco che ha preso un buon voto. Prima di passare agli altri, però, il professore fa una cosa strana. Si china su John e gli sussurra qualcosa. Lui aggrotta la fronte.
Che gli ha detto? Perché ha aggrottato la fronte? Non gli avrà mica detto che…
Il professore mi si para davanti, cercando il mio quadro. Non appena lo trova, me lo porge.
<< Bel lavoro, Valeri >> afferma. << A+ >>
Strabuzzo gli occhi. A+? Ho davvero preso una A+? Sorrido.
Il professore sta per passare al ragazzo successivo, quando mi accorgo che si è chinato leggermente verso di me. Ora si che riesco a scorgere le macchioline di succo d’arancia sulla sua sciarpa, oggi verde. Mi sorride. << Sai, a quanto pare avete avuto la stessa idea. Curioso, non trovi?>>
Mi fa l’occhiolino, prima di raddrizzarsi e passare al prossimo.
Aggrotto la fronte. La stessa idea? Chi ha avuto la mia stessa idea? Quale idea?
Osservo il mio quadro. Io ho dipinto John. Chi altro il classe ha potuto dipingerlo?
Alzo lo sguardo, per scrutare le ragazze che mi circondano, quando i miei occhi incontrano quelli blu di John. Lo guardo. Lui mi guarda. E un lampo mi attraversa la mente.
Il professor Martin si è chinato anche su di lui, prima, per dirgli qualcosa. Ma che cosa? Forse…
John, però, credo ci sia arrivato prima di me, e lentamente gira il suo quadro.
Il mio cuore prende tre battiti.
Lì, proprio di fronte a me, il mio ritratto mi osserva, sorridente. È perfetto. Sembra quasi di guardarsi allo specchio. Non posso crederci…
Guardo John, e lui fa spallucce, imbarazzato.
Sorrido, girando a mia volta la mia tela. Lo vedo sorridere spaesato, quando si riconosce nel dipinto.
Ci guardiamo negli occhi e, insieme, ridiamo.
Non posso credere che lui abbia avuto la mia stessa idea.
Non posso credere che anche lui sia così bravo a disegnare.
Non posso credere che lui abbia disegnato proprio me.
 
Esco da scuola con un po’ di fretta.
Non so perché. Forse perché voglio che il tempo acceleri. Forse perché ora non vedo l’ora che arrivi stasera.
Cerco Mia con lo sguardo. Non c’è. Sarà andata a prepararsi. O forse Matt è venuta a prenderla. Quei due sono perfetti, insieme. Spero tanto che alla parata se ne rendano conto.
Osservo la strada. Questa mattina sono venuta a piedi a scuola, ma avevamo già deciso che sarebbe stata Mary a venirmi a riprendere, fuori scuola.
Solo che ora di lei non c’è traccia. Come non detto, mi toccherà aspettare.
Inizio a dondolarmi sulle punte e i talloni, fischiettando qualcosa per ammazzare il tempo. Poi, inizio a far scorrere i pensieri.
Ad interromperli, ci pensano due braccia, che mi avvolgono la vita, stringendomi contro un altro corpo.
Mi sento avvampare per l’imbarazzo, mentre mi volto. I miei occhi si perdono immediatamente in quei pozzi blu che sono quelli di John, i nostri volti ad un palmo. Lui sorride.
<< Aspetti qualcuno?>> mi chiede.
Annuisco, o meglio, tento di annuire, mentre cerco di ricordarmi come si respira. << Mia madre >> balbetto.
Lui annuisce, un po’ deluso. << Speravo di poterti riaccompagnare a casa. Vabbè, vorrà dire che ci rivedremo direttamente questa sera.>>
Lo guardo ancora, in silenzio. Non so cosa dire. Credo di aver dimenticato come si articola una parola. Lui sorride. << Visto?>> mi fa. << Non ti ho pizzicato i fianchi, stavolta.>>
Sorrido. Eh, già. Questo è decisamente molto meglio che farsi pizzicare i fianchi.
Distrattamente, lui guarda il suo orologio. << Devo andare >> dice. << Si sta facendo tardi.>>
<< A… a stasera, allora >> balbetto. Evvai! Sempre meglio di niente.
Lui sorride, chinandosi leggermente verso di me. Poi, lentamente, mi stampa un dolce bacio sulla guancia. << A stasera >> dice. Poi si divincola dall’abbraccio e se ne va, dirigendosi verso casa.
Mi sento avvampare, mentre mi sfioro la guancia, sbalordita.
Mi ha… mi ha…
Il forte suono di un clacson mi riporta alla realtà.
Comincio a camminare all’indietro, senza voltarmi. Non ho bisogno di farlo. So per certo che è quello della macchina di Mary.
Lentamente, salgo in macchina, e solo allora, mentre Mary parte e poggio la mia testa sul finestrino, mi rendo conto di sorridere come un’ebete.
A stasera, ha detto. Si, a stasera.

Angolo Scrittrice
Ehilà!
Come va, bella gente?
Ecco a voi, appena sfornato dalla mia mente contorta, un altro capitolo di questa strana storia. Lo so, vi avevo promesso che il prossimo sarebbe stato direttamente sulla festa di Halloween, ma, andiamo, questo ci stava tutto!
Vi prometto che nel prossimo vi accontenterò! :)
Non so esattamente come è venuto? E' bello? E' brutto? Fatemi sapere, mi raccomando, i commenti sono sempre bene accetti ;)
Non so quando riuscirò a pubblicare il prossimo, quindi, nell'incertezza, approfitto di questo angolo per augurarvi
Buona Pasqua! E mi raccomando, mangiate tanto cioccolato anche per me! xDxD
Oggi, poi, è
Venerdì Santo. Non so da voi come si festeggia o se si festeggia, ma qui c'è una grande processione con un grande coro, che segue piangente le statue di Maria e Gesù. Anche se un po' triste, è molto bello, e non voglio perdermelo. Quindi ora vado, per la felicità di molti di voi ;D
Da voi c'è qualcosa di particolare? Qualche processione o usanza del genere? Sono curiosa... ^^
Ok, basta, ho finito.
Un
Bacione a tutti quanti e di nuovo Buona Pasqua!
La vostra
ValeryJackson <3


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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Credo che questa sia una festa indimenticabile.
È un evento che odora di intimo come una festa di paese, eppure c’è tutta la città, qui, intorno a me.
C’è tutta New York. Tutta New York più mezza umanità qui, a riversarsi per le strade di Manhattan.
Non so come spiegarlo. È grandioso. È come se la concretezza e la frenesia della città che non dorme mai imponesse per tutto l’anno serietà e responsabilità. È come se l’ironia e la voglia di vivere, la voglia di giocare, di prendersi in giro, di tornare bambini, gli abitanti di New York la mettessero da parte, per tirarla fuori tutta insieme questa sera.
Sono intrappolata in un turbinio di gente che non fa altro che ridere e scherzare. Vecchi, bambini. Adulti, ragazzi. Tutti quanti danno vita al fiume umano della parata di Halloween, mischiando stravaganza e arte, esibizioni e maschere, assurdità e gioco. C'è davvero di tutto.
È una festa che sa di liberazione.
Sento qualcuno fischiare, e la gente esulta.
Stanno arrivando i carri.
Mi alzo in punta di piedi, per scorgere sopra la testa del “pelatone” davanti a me il primo. Purtroppo, lui ha la mia stessa idea, e in meno di cinque secondi l’unica cosa che riesco a vedere e la sua testa calva che copre tutta la mia visuale.
Sbuffo. Così non ce la farò mai, a fare le foto.
Devo andare più avanti.
Mi guardo intorno. Ho lasciato Mary poco più di quindici minuti fa, proprio per farmi più avanti in mezzo a quella massa informe di gente. Poco fa riuscivo ancora a vederla. Ora è solo un ricordo lontano. Ma, per fortuna, avevamo già previsto questo inconveniente. Ci siamo già date appuntamento vicino a un bar spopolato che abbiamo visto prima. Spero solo di riuscire ad arrivarci, dopo.
Piego leggermente le ginocchia e mi faccio avanti, sbarrandomi la strada a gomitate, la fotocamera stretta in petto.
Finalmente, dopo diverse sbracciate e molte gomitate allo stomaco, riesco a venire avanti. E quello che vedo mi lascia senza fiato.
Davanti a me, alto più di quattro metri, un carro enorme sfila maestoso davanti ai presenti. A dominare la scena, ci pensa un castello, giallo e rosso, con finestre rotte e gargoyles a forma di teschio. Intorno a lui, a “rallegrare” la scena, alcuni ballerini vestiti da mostri ballano a ritmo di una musica house, mentre delle luci psichedeliche brillano tutt’intorno.
Sono estasiata, e, sorridente, scatto una foto. Poi due. Credo proprio che alla fine di questa serata il mio rullino fumerà. Se i carri sono tutti così…
Eccone un altro.
Stavolta, però, raffigura un drago, che si muove meccanicamente sputando aliti di fumo bianco dalla bocca. Mi ricorda molto quei draghetti che ogni tanto si vedono a Chinatown. Solo che questo è molto più grande.
E poi un altro. E un altro e un altro.
La mia macchinetta non fa che scattare.
Zucche, fantasmi, Frankenstein. Ce né persino uno di Snoopy. Però è vestito da teschio.
E poi, eccolo. Non per qualcosa, ma forse il più bello.
Il carro della nostra scuola.
Carico la macchinetta, pronta a fare foto.
È molto semplice, a dir la verità. Ci sono tutti i ragazzi della squadra di football, con vestiti da zombie, che lanciano caramelle ai bambini, mentre le cheerleader, sfoggiando i loro abiti rossi tutti stracciati e un trucco che farebbe invidia anche al morto più decrepito, ballano sulle note di “Thriller” di Michael Jackson.
Sorrido. Originale. Il preside si è proprio dato da fare. E anche il club audio/video, considerando la notevole quantità di luci che sfrecciano del cielo blu di New York.
Inizio a scattare foto, cogliendo al volo ogni acrobazia delle cheerleader e ogni azione che possa far sembrare gentili quelle scimmie che sono con loro. Per quanto Mark James possa sembrare gentile.
Mi nota, e da di gomito al compagno che ha accanto, indicandomi con un cenno. Gli dice qualcosa, poi ridono insieme.
Se potessi strozzarlo, giuro, lo farei. Ma decido di non darci troppo peso. Non ne vale la pena, e poi qui c’è troppa gente. Potrebbero testimoniare. Cammino per un po’ accanto a loro, continuando a scattare foto, quando il mio sguardo va al di là del carro che sto fotografando.
E vedo John.
Appena i miei occhi incontrano i suoi, mi sorride. Deve avermi visto già da un po’.
Sorrido e lo saluto con la mano, poi mi ricordo che devo continuare a scattare delle foto. Indico la macchinetta, sperando che lui capisca che, nonostante vorrei tanto andare da lui, non posso proprio.
Lui sorride e annuisce.
Istintivamente, alzo la mano, facendo ruotare l’indice su se stesso, per chiedergli se dopo ci rincontriamo.
Lui annuisce, indicando con un cenno il posto in cui si trova. È lì che lo ritroverò, ne sono certa.
Sorrido e annuisco a mia volta.
Con un po’ di riluttanza, torno a seguire la parata, cercando di scorgere nel carro qualche particolare interessante degno di un giornale.
Mentre mi volto, con la coda dell’occhio scorgo John parlare con una persona. Che sia quello il padre? Purtroppo è coperto da alcuni camionisti, ragion per cui non riesco a guardarlo bene.
Ma deve essere un uomo molto simpatico, almeno se si considera il figlio.
Dovrei presentarli a Mary…
Qualcuno mi spintona, interrompendo i miei pensieri. La parata sta continuando, e davanti a me sta già sfilando il carro successivo.
Mi alzo in punta di piedi, sperando di scorgere di nuovo quello della mia scuola, ma, purtroppo, è troppo lontano.
Sospiro. Dovrò farmi bastare le foto che già ho.
Mi volto verso il nuovo carro e metto a fuoco l’immagine attraverso l’obbiettivo.
Sarà una lunga giornata…
 
Io e Mary ci facciamo largo fra la gente.
L’ho raggiunta solo dieci minuti fa, quando finalmente ero soddisfatta del mio servizio e sono riuscita a tornare indietro in mezzo a tutta quella folla.
È difficile muoversi, con tutte queste persone, nonostante molte di loro se ne stiano andando, dato che la parata è finita.
Devo raggiungere John il prima possibile.
Mi ha detto che mi avrebbe aspettato lì, ma è passato un sacco di tempo, e, onestamente, non ho idea di quanto una persona possa aspettare.
Mary si porta al mio fianco, ansimante. << Mi ripeti ancora una volta dove stiamo andando?>> chiede.
Sospiro, spostando lo sguardo rapidamente da destra a sinistra, nel tentativo di vederlo. << A salutare un amico.>>
Facciamo un altro paio di metri, prima che lei metta a fuoco la situazione e capisca tutto. << E con questo amico intendi, John, vero?>>
Annuisco. << Si.>>
Mary annuisce al mio fianco, o almeno, tenta di annuire mentre cerca di tenere il passo. << Sai >> comincia. << Non conosco molto questo John, dato che me lo hai presentato solo una volta e ho fatto appena in tempo a chiedergli il nome, ma mi sembra un tipo apposto.>>
Sorrido. << Si, lo è.>>
<< Cosa credi che dovrei chiedergli prima? Se ha precedenti penali o se gli piacciono le torte?>>
Aggrotto la fronte, irrigidendomi. << Come?>>
Lei annuisce in segno d’assenso. << Si, hai ragione, forse sono più importanti le torte…>>
<< Woh, woh… frena!>> dico, parandomi davanti a lei e alzando una mano per farla fermare. << Tu non farai nessuna domanda, chiaro?>>
Lei aggrotta la fronte, non capendo. << E perché?>>
<< Perché è imbarazzante!>> sbraito. Poi, rendendomi conto che molti si sono voltati a guardarci, decido di abbassare il tono di voce, usandone uno un po’ più gentile. << Senti, non dico che tu non debba chiedergli nulla, per carità. Hai tutto il diritto di fargli domande. Solo… cerca di essere meno… invadente.>>
Ora Mary sembra scioccata. << Come?! Io invadente?>> dice, indignata. << Ptf… ptf… io non sono affatto invadente.>>
Annuisco con veemenza. << Oh, si che lo sei. Vedi è che a volte… te ne esci con delle cose che non stanno né in cielo né in terra… e questo è imbarazzante.>>
Lei inarca un sopracciglio, quasi incredula. << Fammi capire. Ti vergogni di me?>>
<< No! Non è che mi vergogno di te, è solo che a volte… >> Come posso dirglielo senza offenderla? << … a volte mi metti a disagio, ecco.>>
Mary mi punta un dito contro, aprendo la bocca per ribattere, ma poi si ferma. Pensa un attimo a ciò che le ho appena detto, e, lentamente, toglie il suo dito dalla mia faccia, aggrottando prima la fronte pensierosa, e poi abbassando lo sguardo imbarazzata.
<< Oh, Valeri, scusa. Hai ragione, forse a volte, ma solo a volte, sono un po’ invadente. Ma lo faccio per il tuo bene.>> Alza lo sguardo, puntando i suoi occhi dolci nei miei e accarezzandomi i capelli. << Io voglio solo il meglio per te, piccola mia.>>
Piccola. Quanto odio questo aggettivo. Non sono più una bambina, ormai. Ho quindici anni! Fra un anno potrò prendere la patente, potrò iniziare a fare le stesse cose che fanno i grandi. E sono ancora piccola? In un’altra circostanza avrei ribattuto per quest’aggettivo. Ma ora, qui, guardandola, non posso fare a meno di sorridere. << Lo so >> mormoro.
Mary annuisce. << Ti prometto che non dirò nulla che possa metterti a disagio. Sarò muta come un pesce.>>
Annuisco, soddisfatta. << Grazie.>>
Lei fa un cenno d’assenso, prima che riprendiamo a camminare. << E poi non capisco… Cosa dico, io, di tanto imbarazzante?>>
Storco il naso, cercando un modo gentile per dirle la verità. << Diciamo che… dialogare con le persone non è il tuo forte…>>
Mary si finge indignata. << Cosa?! Non è possibile! Io so dialogare benissimo con le persone. Devi sapere che quando andavo al liceo ero…>>
Poi non sento più niente. Né le sue parole, né tutto il resto. Solo il mio cuore, che ha iniziato a battere all’impazzata, rischiando quasi di scoppiarmi nel petto. Mi blocco, di colpo.
Mary mi guarda, perplessa, cercando qualcosa con lo sguardo fra la folla, gli occhi socchiusi.  << È qui?>>
Annuisco, mentre cerco di ricordare come si respira, ammirando i perfetti lineamenti di John, a pochi metri da me.
Dopo qualche secondo, mia madre finalmente riesce a vederlo, squadrandolo da capo a piedi. << Beh, non so se è o meno un bravo ragazzo… >> dice. << Ma perlomeno è carino.>>
Le do una botta sul braccio. << Mamma! Ma che dici?>>
Mi guarda, confusa. << Che c’è? Vorresti dirmi che non è così?>>
Apro la bocca per ribattere, ma non ne esce nessun suono. Insomma, come faccio a negare l’evidenza?
<< Evita solo di ripeterlo davanti a lui >> la ammonisco.
Si finge offesa. << Ehi, per chi mi hai preso?>> chiede, dandomi delle pacche sulla spalla. << Su, prima lo raggiungiamo, prima riusciamo a toglierci questo sassolino dalla scarpa >> afferma, avviandosi a passo deciso verso lui.
Rimango un attimo interdetta. Cos’era, una metafora? Che cos’ha intenzione di fare?
Non mi concedo il tempo per rispondermi, perché mia madre è a pochissimi metri da lui.
Faccio uno scatto e la raggiungo prima che lui ci veda.
<< Valeri!>> esclama, abbagliandomi con uno dei suoi soliti sorrisi.
Provo a sorridere anch’io, ma, non so perché, mi sento un’emerita idiota. E poi è difficile farlo mentre uno sciame di farfalle balla la conga nella tua pancia.
Abbasso lo sguardo, arrossendo. << Ciao. Scusa il ritardo. La parata è durata molto più del previsto.>>
Lui scrolla le spalle. << Non preoccuparti, non fa niente.>>
Sorrido e annuisco. Mi ricordo solo in questo momento di mia madre, che accanto a me aspetta di essere presentata. << John, conosci già mia madre >> dico, mettendole una mano dietro la schiena per portarla avanti. << Mamma… >>
Non riesco a terminare la frase, che i due già si stanno stringendo la mano.
<< È un piacere rivederti, John >> afferma mia madre, sorridente.
<< Il piacere è tutto mio >> risponde John, sorridendo a sua volta. Poi, sembra essersi appena ricordato di una cosa. << Ah, Valeri, questo è mio padre, Harry. Papà, ti presento Valeri.>>
Posa una mano dietro la schiena di un uomo, invitandolo a farsi avanti. Ora capisco chi era la persona con cui John parlava durante la parata. E ora capisco anche che tipo è il padre di John.
È un uomo alto, sulla quarantina, abbastanza muscoloso. Non tanto in realtà, ma, non so perché, mi da l’impressione di poter stendere un’intera squadra di football con un colpo solo. Ha i capelli scuri, un po’ mossi, con un piccolo accenno di ciuffi bianchi, e, a differenza del figlio, ha gli occhi neri, penetranti, gentili ma allo stesso tempo capaci di metterti in soggezione . È molto abbronzato, con un’espressione scaltra e gentile allo stesso tempo e un leggero accenni di barba. Indossa dei pantaloni cachi e una polo blu, sotto la quale si riesce a scorgere l’accenno di un tatuaggio sul collo.
Sorride, tendendomi la mano. << Sono felice di conoscerti, Valeri.>>
Glie la stringo. << Piacere mio, signor Smith >>. Guardo mia madre. << Lei è…>>
<< Mary!>> conclude lei, stringendogli con forza la mano. << Piacere di conoscerla.>>
<< Il piacere è tutto mio. Sono Harry.>>
<< Si, lo avevo capito >> risponde Mary, fredda. Poi un sorriso si dipinge sul suo volto. << Sa, non vedevo l’ora di incontrarla, signor Smith. Mia figlia parla così tanto di suo figlio, che ormai è come averlo in casa.>>
Harry ride. << Beh, credo di poter dire la stessa cosa!>>
Io e John arrossiamo, abbassando lo sguardo.
Mary sorride, compiaciuta. << Fantastico! Sa, credo che se non stiamo attenti, prima e poi ci rincontreremo davanti un altare, a fare da testimoni…>>
No, non posso crederci. Non può averlo detto.
Il signor Smith sta ridendo.
<< Visto, Valeri. Ci so fare con la gente. E tu che credevi che ti avrei messo in imbarazzo…>>
No, questo è troppo! Voglio morire…
Il signor Smith sorride, guardando mia madre. << Sa, lei mi è simpatica, signorina Hart…>>
Mia madre sventola una mano in aria. << Oh, ti prego, chiamami Mary. Ormai siamo parenti. E grazie tante per il ‘signorina’.>>
Lui ride. << Bene, Mary. Chiamami pure Harry.>>
Mia madre sorride. << Ok.>>
<< Allora?>> domanda il signor Smith. << Vi è piaciuta la parata?>>
Mary storce il naso. << Si… carina. Non molto in realtà. Non dico che non fosse spettacolare, ma, sai, non sono un’amante delle feste… >>
<< Beh, s’è per questo, neanche io… >>
Mary sorride, sarcastica. << Non devi dirlo solo per compiacermi.>>
<< Non sto mentendo… >>
Mary sospira. << Il fatto è che qui c’è troppa gente. Non sai mai chi puoi ritrovarti davanti. Sono belle ma sono… >>
<< … Poco sicure >> concludono, insieme. Si guardano e si scambiano un sorriso.
Fantastico! Ora abbiamo due maniaci della sicurezza.
Mia madre abbassa lo sguardo, imbarazzata, passandosi le dita fra i capelli e poi spostandosene una ciocca dietro l’orecchio.
Aggrotto la fronte. Ho già visto questo atteggiamento. Ma dove?
Poi, una lampadina si accende nella mia mente. Ci sono! È la stessa cosa che faceva Mia mentre… Flirtava con Matt?!
Possibile?! Mia madre sta…
Sposto rapidamente lo sguardo da lei a Harry, che continua a sorridere, e capisco subito cosa fare.
<< Beh, io e John andiamo a farci un giro!>> esclamo, cogliendo la palla al balzo. Mi avvicino a John e lo afferro per un braccio. << Voi continuate pure a parlare, se vi va.>>
Inizio a spintonare John, costringendolo a camminare. << Già, sono d’accordo >> esclama lui, che, stranamente, sembra aver capito la situazione. << Ci vediamo dopo!>> dice, avanzando a passo svelto.
<< Ciao!>> saluto, raggiungendolo.
Mi volto a guardare.
Stranamente, non ci stanno seguendo. Anzi! Sembra che non si siano neanche voltati a guardarci.
Forse finalmente hanno capito che volevamo restare un po’ soli.
O forse erano proprio loro, a voler restare soli.
 
Io e John rallentiamo la corsa, quando ci rendiamo conto di essere abbastanza lontani.
Ci guardiamo e, senza un motivo specifico, iniziamo a ridere.
<< Certo che sono proprio strani >> commenta lui, fra una risata e l’altra.
Annuisco. << Già… >> Poi sorrido. << Non avevo mai visto mia madre sorridere così.>>
John sospira. << Neanche mio padre.>>
Lo guardo, e non riesco a fermare la domanda. << Credi che starebbero bene, insieme?>>
John tossisce, nervoso. << Cosa?!>> chiede, sorpreso. Poi, notando che non sto scherzando, si fa serio e scrolla le spalle. << Non lo so… Perché dovrebbero?>>
Sospiro. << Beh, mia madre è single. Tuo padre anche. Si stavano sorridendo come due adolescenti… >> mi fermo, per dargli il tempo di catalogare le informazioni.
Lui aggrotta la fronte, poi si rilassa e abbozza un sorriso. << Sai, credo sia un po’ più complicato del previsto.>>
Stavolta sono io ad aggrottare la fronte. << Perché?>> chiedo, smettendo di camminare.
Lui indugia un po’, cercando la risposta giusta da dare. Abbassa lo sguardo e, notando qualcosa, sorride. << Com’è andato il servizio?>> domanda.
Abbasso lo sguardo anch'io e mi accorgo solo ora di avere ancora la mia fotocamera appesa al collo. Sorrido. << Bene, grazie. Sono riuscita a fare degli scatti pazzeschi.>>
<< Non ne dubito.>> Fa una breve pausa, poi mi guarda. << Come fai?>> chiede, alludendo alla fotocamera.
La prendo fra le mani e la alzo. << Beh, è facile. Guarda. Basta inquadrare un soggetto, aspettare che si metta a fuoco, poi schiacciare questo pulsante e… >>
<< No, no >> mi interrompe lui, sventolando le mani e ridendo. << Non… non intendevo quello. Volevo dire, come fai a fare delle foto così belle.>>
<< Ah >> riesco a dire, mentre l’imbarazzo mi fa avvampare. Che stupida. << Non capisco… >>
<< Beh, insomma, come… come fai a decidere quando è il momento giusto per scattare un foto? Come fai a scegliere i soggetti?>>
Sorrido. << Beh, non è difficile. Basta osservare.>> Noto la sua espressione, e capisco di dovermi esporre meglio.
Inizio a guardarmi intorno, alla ricerca di qualcosa da fotografare. Ad un tratto vedo una bambina, sulle spalle del padre, che, stanca ha la testa poggiata su quella del genitore. È rilassata, e non si sforza. Non ha paura di stare così in alto. Sa che può stare tranquilla, perché c’è il papà che la protegge.
Li indico con un cenno a John. << Guardali. Non sono bellissimi?>> Li metto a fuoco attraverso l’obbiettivo e scatto. Poi guardo John, e sorrido. << Visto? È questo che intendevo. Basta osservare. Se per un momento… provi a non pensare a niente. Stacchi il cervello e ti concedi il lusso di guardarti intorno… ti accorgerai che sono proprio le piccole cose ad essere le più belle. Ad essere speciali.>>
Gli porgo la macchinetta. << Prova tu.>>
Lui inarca un sopracciglio. << Io?>>
Annuisco, decisa. << Si, tu. Guardati intorno e cerca qualcosa di bello. Qualcosa che per te sia bello. Prendi la macchinetta e scatta. Non è difficile.>>
John mi guarda, titubante, poi afferra la macchinetta e fa due passi avanti, cominciando a guardarsi intorno.
Lo osservo, smarrito, mentre sposta rapidamente i suoi occhi blu da una cosa all’altra, senza la più pallida idea di cosa fare.
Sono così assorta dal guardarlo, che non mi rendo neanche conto del flash che mi esplode in faccia.
<< Ma che fai?>> chiedo, capendo solo ora che mi ha appena scattato una foto.
Lui fa spallucce. << Mi hai detto di fotografare qualcosa che ritenessi bello. Qualcosa di speciale.>>
Sorrido, abbassando lo sguardo, imbarazzata. << Non era questo che intendevo.>>
Lui viene verso di me, fermandosi a pochi centimetri dal mio corpo. << Perché ce l’hai tanto con l’obbiettivo?>> chiede.
Faccio una smorfia. << Beh, ecco… non mi piace… essere fotografata >> balbetto. << Diciamo che preferisco scattarle, le fotografie.>>
Lui sorride porgendomi la macchina fotografica. << Sai, a volte farsi delle fotografie è molto più divertente di quel che sembra.>>
Prendo la macchina fotografica e la metto in borsa, pensando alle sue parole. Alzo lo sguardo, e solo ora mi accorgo dell’espressione furba sul suo volto.
<< Vieni con me >> dice, afferrandomi per mano. Uno strano calore mi invade, mentre lui mi trascina in mezzo alla gente e poi per strada.
Camminiamo per un po’, quando finalmente arriviamo in un posto dove c’è meno gente.
<< Dove mi stai portando?>> chiedo, guardandomi intorno.
<< Ti fidi di me?>> chiede lui, a sua volta.
Annuisco, anche se lui non può vedermi. Certo che mi fido di lui. Che domande!
Ci fermiamo di botto, e lui sorride.
Guardo davanti a me, nel tentativo di capire dove siamo. Ma tutto ciò che vedo è uno di quei camerini per farsi delle fototessere.
Aggrotto la fronte, ma non faccio in tempo a fare domande che John mi ci ha già trascinato dentro.
<< Che vuoi fare?>> chiedo.
Lui sorride, infilando un gettone e poi sedendosi sull’unico sgabello disponibile. << Vedrai, sarà divertente >> dice, avvolgendomi i fianchi e costringendomi a sedermi sulle sue ginocchia. << Dì cheese >>
Sorrido. << Tu sei tutto matto >> affermo, prima che inizi il conto alla rovescia. Guardo l’obbiettivo e mi sforzo di sorridere. Quello scatta e un forte flash mia abbaglia gli occhi.
Abbasso lo sguardo. << Tutto questo è ridicolo >> mormoro.
John mi guarda. << Prova a essere più naturale. Prova a non pensare al fatto che qualcuno ti stia guardando. Pensa solo che… che questa è una scena che vuoi ti rimanga impressa nella memoria.>>
Lo guardo e sorrido. Non ci avevo mai pensato. Così è più facile farsi delle foto. C’è meno imbarazzo.
Lui mi avvolge il collo con un braccio. Io poso le mani sul suo avambraccio e, stavolta, non faccio fatica a sorridere.
Il conto alla rovescia parte e la macchina scatta.
Lui mi sorride. << Visto? Non è difficile.>>
Annuisco. Pensavo peggio, sinceramente.
John si ricompone sullo sgabello. << Bene. Abbiamo a disposizione altri tre scatti. Che facciamo?>>
Faccio spallucce. << Non lo so. Che vorresti fare?>>
Lui fa finta di pensarci. << Facciamo delle facce buffe >> afferma, convinto.
Io rido. << Ok.>>
Il conto alla rovescia parte, e io mi sporgo in avanti, verso l’obbiettivo. Gonfio le guance e metto la bocca a mo’ di bacio, facendo l’occhiolino.
Non so cosa stia facendo John dietro di me, ma la foto scatta.
Ci guardiamo e iniziamo a ridere.
<< E ora?>> chiedo.
<< E ora… >> John mi guarda con un’espressione maliziosa. Mi poggia le mani sui fianchi e inizia a farmi il solletico.
Non posso evitarlo. Inizio a ridere come una matta e, prima che me ne renda conto, un’altra foto scatta.
John, però, non smette di solleticarmi, ed io non smetto di ridere. Ridiamo entrambi.
Mi alzo, nel tentativo di scappare, andando dietro lo sgabello. Anche John si alza e mi raggiunge, afferrandomi di nuovo per i fianchi e costringendomi a girarmi.
Senza che me ne accorga, mi ritrovo a pochi centimetri dalla sua faccia. Ma che dico centimetri! Siamo così vicini che i nostri nasi si sfiorano, ed io riesco a sentire il suo respiro caldo sulla pelle.
Abbiamo entrambi il fiatone, ed entrambi sorridiamo.
Ci metto poco a perdermi in quei pozzi blu che sono i suoi occhi, e che mi fanno tremare le gambe.
John mi stringe ancora i fianchi, ed io non ho alcuna intenzione di divincolarmi.
Le distanze tra noi si accorciano, diventando quasi millimetri.
Stiamo per baciarci, quando… un’altra foto scatta.
La luce del flash mi abbaglia, riportandomi, anzi, riportandoci alla realtà.
Imbarazzati, ci allontaniamo, mormorando delle stupide scuse incomprensibili.
John si gratta la nuca. << Beh, vediamo un po’ come sono uscite >> dice, sorridendo.
Sorrido anch’io. << Si, vediamo un po’… >>
Usciamo dal camerino e aspettiamo che questo ci dia le nostre foto.
Dopo pochi secondi, una striscia lunga una ventina di centimetri contenente cinque piccole foto poste orizzontalmente esce fuori.
La prendo e le osservo. Non posso fare a meno di sorridere, quando vedo la foto in cui io e John facciamo delle facce buffe, e di avvampare, quando vedo quella in cui stiamo per baciarci.
Anche lui sorride. << Puoi tenerla, se vuoi.>>
Lo guardo. << Non ti dispiace?>>
Lui scrolla le spalle. << Ovvio che no. In ricordo del tuo primo servizio fotografico.>> Mi fa l’occhiolino ed io rido.
<< Grazie >> mormoro, continuando a guardarle.
Il telefono nella mia tasca vibra, segno che è arrivato un messaggio. Lo prendo e noto che di Mia. Lo apro.
IO E MATT FACCIAMO LA FILA PER IL TUNNEL DEL TERRORE. CI RAGGIUNGETE?”
Guardo John. << Mia chiede se li raggiungiamo al Tunnel del Terrore.>>
Lui fa spallucce. << Perché no?>>
Annuisco e rispondo rapidamente a Mia. Poi, io e John ci dirigiamo verso questo famigerato Tunnel.
 
Arriviamo davanti ad uno strano tendone, posto nelle vicinanze del bosco. È qui che è stato montato il Tunnel del Terrore, ed è anche qui che si tiene l’estrazione della lotteria di stasera.
Cerco con lo sguardo Mia, ma è lei la prima a trovarmi, venendomi incontro.
<< Ciao!>> saluta, abbracciandomi.
<< Ciao >> saluto. Poi noto Matt alle sue spalle. << Ciao Matt.>> Lui risponde con un cenno. << Come va?>> chiedo, guardando Mia.
Lei sorride. << Alla grande.>> Poi sposta lo sguardo da John a Matt. << Ragazzi, perché non iniziate a fare la fila? Noi vi raggiungiamo.>>
I ragazzi annuiscono e si dirigono verso la lunga fila di persone, tutte ansiose di entrare.
<< In che consiste, esattamente?>> chiedo, alludendo all’attrazione.
Mia scrolla le spalle. << Niente di che. Fanno entrare a gruppi di tre o quattro a bordo di un carro, uno di quelli vecchi utilizzati dai contadini, che ti trasporta in mezzo ad un spaventosa parata allestita all’interno del bosco. I costumi sono buoni e il buio del bosco è inquietante. È divertente.>>
Annuisco. << E ci saranno dei tizi che dovrebbero metterci paura?>>
Lei sospira. << Credo che sia più spaventoso il fatto che quei tizi siano Mark e la sua banda.>>
Aggrotto la fronte. Fantastico! Così potranno vedermi mentre ho paura. Si divertiranno un mondo, spero.
Guardo Mia, cercando di capire se sia o no una buona idea, quando il mio sguardo si posa sul suo polso, o meglio, sul suo nuovo braccialetto.
Le afferro il polso. << E questo?>> chiedo.
Lei sorride. << Questo? Oh, niente, è solo un braccialetto che mia ha regalato Matt… >>
<< Te lo ha regalato…!>> urlo, sconvolta.
<< Shh!>> mi zittisce lei, prima che io finisca la frase.
Abbasso il tono di voce. << Te lo ha regalato Matt?>>
Mia annuisce, sorridente. << Già. L’ha visto e ha detto che mi stava benissimo, e che risaltava i miei occhi. Poi si è lasciato sfuggire il fatto che ho dei begli occhi. E a quel punto anch’io gli ho detto che ha dei begli occhi. Poi mi ha offerto un gelato. E poi siamo venuti qui.>>
Sorrido, senza parole. Poi, contenta, l’abbraccio, stringendola forte. << Oh, Mia, che bello! Sono così felice!>>
Lei ride. << Suvvia! Non è stato niente di che! Tu, piuttosto… >> dice, in modo malizioso. << Non è successo niente con John?>>
Avvampo, ripensando a quanto è successo nel camerino. << No… cosa doveva succedere?>> balbetto.
Mia mi guarda, poco convinta. Sta per farmi qualche altra domanda, quando io scorgo mia madre, poco lontano.
Non sono mai stata più felice di vederla! Mi dileguo da Mia, che, annuendo, si dirige verso i ragazzi, per fare con loro la fila.
Io corro verso Mary.
<< Ehi!>> esclamo, per attirare la sua attenzione. Ho un po’ di fiatone.
<< Ciao >> mi saluta lei, aggrottando la fronte. << Che ci fai qui?>>
<< Io e gli altri stiamo facendo la fila per andare nel Tunnel del Terrore. Tu invece?>>
<< Ho accompagnato Harry a comprare dei biglietti della lotteria.>>
Sorrido. << Come sta andando?>>
Lei fa spallucce. << Bene. È molto simpatico, e ho scoperto che abbiamo molte cose in comune… >> Non finisce di parlare, che il suo sguardo si posa su qualcosa.
Mi volto, accorgendomi che la persona che Mary sta fissando è proprio Mark James. È insieme ai suoi compagni.
In tutto sono venticinque, e sono tutti vestiti da mummie, zombie e fantasmi. Una cheerleader, che prima stava truccando i volti dei bambini, ora sta truccando loro, per completare i loro travestimenti.
Osservo Mark. È travestito da zombi. Porta vestiti scuri fatti a brandelli; ha il viso truccato di nero e grigio e qualche chiazza di rosso distribuita a casaccio, per simulare le macchie di sangue.
Storco il naso.
<< È lui il famoso Mark James?>> chiede Mary, alle mie spalle.
Annuisco. << In persona.>>
Aspetta un po’, prima di rispondere. << Sembra un coglione.>>
Sorrido. << Lo è.>>
<< Pensi ancora che sia il caso di andare sul carro?>>
<< No, ma ci andrò lo stesso.>>
<< Lo immaginavo >> dice, rassegnata. << Sai, li ho visti, alla parata. E non mi è piaciuto per niente il modo in cui ti guardavano quei ragazzi.>>
<< Sono degli idioti. Lasciali perdere.>>
Mary mi guarda, seria. << Sta attenta, là fuori >> mi ammonisce.
<< Certo, non ti preoccupare. Non mi succederà niente.>>
<< Ne sono sicura, ma comunque ti aspetterò qui. Non si sa mai.>>
<< Va bene >>, concedo, con un sospiro.
Le stampo un bacio sulla guancia, mentre lei continua a scrutare quei ragazzi. << Lasciali stare >> le dico. << E torna a casa se vuoi.>>
Lei sospira. << Vedremo.>>
Sorrido e me ne vado, raggiungendo i miei amici.
Vedo uno dei carri partire, con sopra poche persone.
<< Siamo i prossimi >> annuncia Mia, sorridendo.
Sorrido anch’io.
E ora a noi due, Mark James.

Angolo Scrittrice
Ciaooo!!
Ed eccomi qui, con un capitolo bello che pronto tutto per voi!
Finalmente questa benedettisima festa! Che bello! Ora le cose iniziano a farsi interessanti... ;)
Piuttosto, che ve ne pare? Piaciuto il capitolo? Spero tanto di non avervi annoiato xDxD
Mi raccomando,
COMMENTATE! Belli o brutti che siano, i commenti sono sempre bene accetti ;D
Aggiorno solo dopo uno o due commenti ;)
Beh, non so cos'altro dire, sinceramente...
Ah, si!
Sono giorni che cerco il volto perfetto da dare a Matt e a Harry, ma fino ad ora non avevo ancora trovato qualcuno che rispecchiasse a pieno le mie idee. Fino ad ora. Credo proprio di averli trovati...
Per Matt avevo pensato a
Andrew Seeley, anche se non ne sono molto sicura, e per Harry, invece, a Timothy Olyphant, anche se sono poco sicura anche su questo...
Non so, fino ad ora sono quelli che mi convincono di più, ma si può sempre cambiare ;D
Che ne pensate, voi? Fatemi sapere...
Vabbè, ora posso andarmene... Non ho davvero nient'altro da dire :)

Un bacio ;*
La vostra ValeryJackson


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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Dopo alcuni minuti di fila che sembrano interminabili, finalmente si libera un carro.
Ci avviciniamo a questo e un ragazzo con un walkie-talkie ci fa cenno col mento di salire.
Lo riconosco. È uno dei giocatori di football.
<< Ciao, Tommy >>, lo saluta Mia, mentre prende posto accanto a Matt su una delle tante palle di fieno che fungono da sedie su quel vecchio carro malconcio.
<< Ciao >> risponde lui, con scarso entusiasmo. << Siete solo voi, giusto?>>
Mia annuisce. E lui mormora qualcosa di simile a un “perfetto”. Poi fa cenno al conducente del carro di partire.
Aggrotto la fronte. << Non fai salire anche gli altri?>> chiedo.
Lui scrolla le spalle. << Ci sono tanti carri, non ha senso riempirli di persone.>> Poi, senza dire altro, si allontana, sentenziando qualcosa al walkie-talkie, che però non riesco a sentire.
Il conducente del carro incita il cavallo che lo trascina, e questo parte con qualche traballamento sul terreno brecciato.
Mentre ci allontaniamo, Tommy urla qualcosa di simile a un “Godetevi il viaggio”. Mi volto a guardarlo, sorpresa, e solo ora mi accorgo del ghigno che dipinge la sua faccia, di quelli che alcune persone fanno quando vengono a sapere che è successo qualcosa di brutto a qualcuno che disprezzano.
Le persone che facevano la fila con noi ci guardano con disprezzo, molto probabilmente per il fatto che, a quattro persone, abbiamo occupato un carro intero. E, considerando il numero delle persone che attendono, e la quantità di spazio presente sul carro, non posso dargli torto.
<< Che strano >>, commento.
John, seduto accanto a me, segue la direzione del mio sguardo e scrolla le spalle. << Molto probabilmente avrà una cotta per Mia.>>
<< Spero proprio di no >>, ribatte Mia, fingendo un conato di vomito.
Io continuo a guardare Tommy mentre avanziamo. Non so perché, ma ho la sensazione che stia per accadere qualcosa. E che quel qualcosa non sia niente di buono.
Attraversiamo l’entrata del percorso, dove altoparlanti nascosti emettono suoni spaventosi. Il bosco è fitto e non c’è luce, a parte quella emessa da due fari posti di fronte al carro.
Quando saranno spenti, penso, non rimarrà altro che l’oscurità.
Incoscientemente, faccio scivolare la mia mano dentro quella di John. Sono pervasa da una sensazione di calore, e, imbarazzata, sono tentata di spostarla.
Sto per farlo, quando lui me la stringe più forte, in modo rassicurante. Si volta a guardarmi e sorride.
Sono felice che non ci siano luci ad illuminare il mio volto, perché sarebbe rosso come un peperone.
<< Sc… Scusa… >> mormoro, imbarazzata. << Io… ho un po’ di paura.>>
<< Non preoccuparti >> risponde pronto lui. Poi si avvicina di più. << Ci sono qua io a proteggerti >> mi sussurra all’orecchio, provocandomi un brivido lungo la schiena.
Sagome di fantasmi sono appese ai rami più bassi degli alberi, appena sopra le nostre teste, e ai lati della strada serrata ci sono mostruosi zombi appoggiati ai tronchi.
Luci stroboscopiche intermittenti lampeggiano per dieci secondi; non fanno paura, e soltanto quando si spengono capisco il loro scopo. Ci vogliono diversi secondi perché i nostri occhi si abituino: non vediamo più nulla.
All’improvviso, un grido squarcia l’oscurità. Istintivamente, mi irrigidisco e stringo più forte la mano di John, mentre alcune sagome ci girano intorno.
Mi sforzo di mettere a fuoco e vedo che Mia si è avvicinata a Matt e lui la stringe contro il suo petto, con un gran sorriso stampato sul volto.
Improvvisamente, ci fermiamo.
Con delicatezza, John mi cinge con un braccio. Una mano mi sfiora la schiena, e io stringo con forza la gamba di John. Qualcuno grida.
Con uno scossone, il carro ricomincia ad avanzare. Nella luce dei fari si vedono soltanto le sagome degli alberi.
Andiamo avanti per altri tre o quattro minuti. Senza che me ne accorga, la mia apprensione cresce, nella spaventosa prospettiva di dover ripercorrere a piedi la distanza che ci siamo lasciati alle spalle.
Poi il carro si ferma in una radura circolare.
<< Giù tutti!>> grida il conducente.
Noi ci alziamo e, dopo che i ragazzi sono scesi, aiutano me e Mia a saltare giù.
Il carro riparte, e le luci si allontanano gradualmente. Poi, svaniscono del tutto.
Non resta altro che l’oscurità della notte. Gli unici suoni sono quelli che produciamo noi.
Davanti a noi, un sentiero di luci si accende, mostrandoci la direzione, poi si spegne di nuovo.
Chiudo gli occhi, per concentrarmi sulla sensazione delle dita di John intrecciate nelle mie.
<< Perché faccio questa cosa ogni anno?>> dice nervosamente Mia, che ora stringe la mano di Matt.
Senza dire niente, ci avviamo lungo il sentiero. Di tanto in tanto le luci si accendono, per indicarci la strada. È così buio, che vedo a malapena il sentiero sotto i miei piedi.
Alcune persone, davanti a noi, gridano.
<< Oh, no >> mormora Mia. << Guai in vista.>>
E poi, in una frazione di secondo, qualcosa di pesante ci cade addosso.
Tutti e quattro urliamo, cadendo a terra. Io inciampo e mi sbuccio un ginocchio.
Qualcosa mi intrappola, ma non so che diavolo sia. Mi accorgo troppo tardi che si tratta di una rete.
<< Che cavolo succede?>> fa Matt.
John strappa senza difficoltà le corde della rete, ma, non appena si alza in piedi, qualcuno lo spintona da dietro.
<< John!>> grido, tentando di uscire dal varco creato da lui. Mi alzo, e tento di andargli incontro, quando qualcuno mi afferra per le spalle. Tento di divincolarmi, invano, e quello che mi stringe le spalle ora mi ha avvolto con forza con entrambe le braccia all’altezza del torace e dell’addome, impedendomi di muovermi.
Vedo che John si rialza, ma qualcuno lo spintona un’altra volta alle spalle. Stavolta lui non cade, ma perde comunque l’equilibrio.
Tento di nuovo di divincolarmi da quella presa, ma lui (o almeno credo sia un lui) non mi lascia andare. Anzi, ora inizia a trascinarmi lontano dai miei compagni.
<< Lasciami!>> grido.
L’unica risposta che ricavo è una risata. Gelida. Non vedo più nulla, ma le voci dei ragazzi si fanno sempre più lontane.
Qualunque cosa stia succedendo, non fa certo parte dell’attrazione del carro.
Stringo i denti. Sto tremando. C’è forse qualcuno che si nasconde dietro il muro di alberi intorno a me? Non lo so, ma mi sento osservata.
<< Lasciami stare!>> grido ancora, tentando nuovamente di divincolarmi. Lui, invece, salda di più la presa.
Qualcuno, non lontano da me, ride. Strizzo gli occhi, come se questo mi aiutasse ad espellere l’eco orripilante di quella risata.
Quel ragazzo mi trascina per altri dieci metri. Poi, inspiegabilmente, ci fermiamo.
Riapro gli occhi.
Ci troviamo in un posto che non ho mai visto prima.
Finalmente, ora siamo illuminati da una flebile luce. Mi concedo qualche secondo per guardarmi intorno. Ci sono solo alberi, ma, a qualche metro di distanza, c’è un piccolo fiume. Credo proprio che mi abbiano portato su una collinetta. Ma perché?
Qualcuno ride di nuovo, stavolta più vicino.
Spaventata, guardo dritto davanti a me, socchiudendo gli occhi per vedere meglio.
<< Bene, bene, bene >> dice qualcuno. << Chi si rivede.>> Mi irrigidisco di colpo. Riconoscerei quella voce fra mille.
Come a confermare ogni mio sospetto, la figura di Mark spunta da dietro un albero. Lui mi sorride, sprezzante. << Come va?>>
Aggrotto la fronte, e sento montare una rabbia, dentro di me, che non pensavo sarei mai riuscita a provare. << Tu?>> grido, acida. << Sei stato tu ad organizzare tutto questo?>>
Lui si fa avanti, fiero. << Colpevole >> risponde, semplicemente, alzando una mano. Si avvicina ancora di più, così tanto che riesco a sentire l’odore della sua acqua di colonia invadermi le narici.
<< Che cosa vuoi da me, Mark?!>> ringhio.
Lui ride, guardandomi negli occhi con aria di sfida. << Volevo solo divertirmi un po’.>>
Lo guardo, con disprezzo. << Tu! Lurido… >>
<< Ah!>> mi interrompe lui, alzando una mano. << Non rendere le cose ancora più difficili, piccola. Non ce né bisogno.>> Detto questo, si allontana leggermente, come se fosse normale tutta quella situazione.
<< Quali cose?!>> chiedo, infuriata. Avrei davvero voglia di sputargli in faccia.
Lui ride, ma non mi risponde. A quel punto non ce la faccio più. Carico un po’ di saliva in bocca e glie la sputo contro, mancando di poco il bersaglio.
Lui guarda il punto in cui è caduta la mia saliva. Poi alza lo sguardo e, dopo avermi squadrato per un po’, fa cenno al ragazzo dietro di me di lasciarmi andare. Lui allenta la presa.
<< Mi piace il tuo spirito d’iniziativa, Hart. Hai fegato, non c’è che dire.>>
Mark si avvicina e, finalmente, il ragazzo dietro di me molla la presa. Mi volto a guardarlo. È Malcom, uno dei giocatori della squadra di football.
L’acqua di colonia invade di nuovo le mie narici, costringendomi a voltarmi. Mark è a pochi passi da me. Mi prende il mento con una mano e me lo alza. << Sai, in altre circostanze avresti anche potuto interessarmi. Sei una bella ragazza.>> Mi squadra in volto, poi sospira. << Peccato che io stia già con Jessica.>>
<< Io non sono la seconda scelta di nessuno >> rispondo, la voce carica di odio.
Lui sospira, fingendosi rassegnato. << Bella, coraggiosa e anche risoluta. Sì, sei proprio un bel tipetto.>>
Mi lascia il mento e si allontana nuovamente. Inspiegabilmente, mi sento crollare le ginocchia, ma resisto. << Peccato che le cose siano andate come sono andate >> commenta lui.
<< Tra noi non avrebbe funzionato neanche fra un milione di anni, Mark. Mettitelo bene in testa.>>
Lui ride, sarcastico, guardandomi in faccia. << Già, forse hai ragione. Ti piacciono i tipi come John, vero? Quelli misteriosi e strani.>> Sorride di traverso. << Si, sareste una bella coppia. Però… mi chiedo se continuerà a piacerti anche dopo quello che gli accadrà questa sera…>>
La rabbia che sentivo prima nel petto si è appena tramutata in… no, non preoccupazione. Panico. << Ch… Che… Che cosa vuoi fare, Mark?!>> balbetto, maledicendomi mentalmente per il tremolio della mia voce.
Mark sorride, mostrando quasi tutti i suoi denti, e si avvicina, lentamente. Da qui, riesco a vedere anche i suoi molari. << È buffo che tu lo chieda. John starà per arrivare. Insomma, non può lasciarti sola qui. Giusto?>> afferma, con lo stesso tono che si usa per parlare con i bambini. Con finto dispiacere.  << Beh, quando arriverà, noi saremo qui ad aspettarlo. Lo pesteremo… >> Ora si sta facendo troppo vicino. << E poi ci occuperemo di te!>> esclama, facendo un balzo in avanti per scartare l’ultimo metro che ci separava e afferrandomi con forza i polsi. Io tento di divincolarmi, senza risultato. Scorgo una luce folle nei suoi occhi, e questo non fa che farmi spaventare ancora di più.
Grido. Non so che fare. << Lasciami stare!>> urlo, agitando le braccia, nella speranza che lasci la presa. Ma lui non lo fa. Anzi. Stringe ancora di più. Sento i miei polsi bruciare, e mi fanno male le braccia. Anzi. Mi fanno male le mani. I palmi delle mani.
<< Lasciala stare!>> urla una voce alle spalle di Mark.
Cerco di scorgere oltre la sua spalle, ma vedo molto poco. Ma so chi è. È John, ne sono sicura.
Però la sua voce è diversa. È più profonda. Più… affascinante.
Mark, come in uno stato di trance, lascia lentamente i miei polsi e si allontana. I suoi occhi sono vuoti, e hanno perso anche quel luccichio pazzo di prima. Sono… spenti. Sembra quasi che stia… dormendo?
La cosa però dura poco. In men che non si dica i suoi occhi tornano a guizzare, furbi, e un sorriso maligno spunta su suo volto.
Si volta, lentamente.
<< È un piacere rincontrarti, John >> esclama. << Qual buon vento?>>
John si avvicina, e finalmente riesco a scorgere i suoi lineamenti sotto la flebile luce. Vorrei corrergli incontro, abbracciarlo. Ma non lo faccio.
<< Chiudi il becco, Mark!>> lo zittisce, la voce carica di rabbia. Finalmente, è tornata quella di sempre. << La vernice nel mio armadietto era un conto, ma questa volta hai superato proprio il limite.>>
Mark ride, una risata priva di sentimento. << Cos’è, fai l’eroe?>> Si guarda intorno. << Siamo otto contro uno. Sei proprio sicuro di volerlo fare?>>
Solo ora mi accorgo degli altri ragazzi, che escono dai loro nascondigli dietro qualche albero e accerchiano John. Lui li osserva, uno per uno, spostando lo sguardo, ma non si muove.
Poi, fa una cosa strana. Sorride.
<< Che c’è, Mark?>> esclama, in tono di sfida. << Hai paura di affrontarmi da solo? Che cosa pensi che succeda? Hai cercato di rapire una persona, pensi davvero che lei non dirà nulla?>>
Mark irrigidisce la mascella, infastidito. << Si, non dirà nulla… dopo che mi avrà visto farti un culo così.>>
<< No!>> urlo, e vado per correre incontro a John, ma qualcuno, da dietro, mi blocca. Ora sono stufa. Gli pesto un piede con il tacco della scarpa, e lui, come speravo, molla la presa. Mi giro e gli meno una gomitata in piena faccia, facendolo indietreggiare e facendogli colare un po’ di sangue dal naso. Lui mi guarda, incenerendomi con lo sguardo.
Mark ride, nervoso. << Bene, bene. Forte la ragazza. Credo che si divertirà mentre ti vedrà stramazzare al suolo… >>
<< T’illudi >> ribatte John, poi si volta verso gli altri. << Se non volete finire in acqua, vi consiglio di andarvene subito >> dice, alludendo al piccolo fiume sotto di noi. << Mark ci finirà comunque. Ha perso l’occasione di negoziare.>>
Tutti ridacchiano. Uno di loro chiede cosa significhi “negoziare”.
<< È la vostra ultima occasione >> li avverte John.
Tutti restano immobili.
<< Va bene. L’avete voluto voi.>>
Sento un panico nervoso che mi s’insedia al centro del petto.
John fa un passo in avanti.
Mark indietreggia e inciampa, perdendo l’equilibrio. Due ragazzi lo aggrediscono.
Sono entrambi più grossi di lui. Uno sferra un pugno, ma John lo scansa e gliene assesta due nello stomaco. Da uno spintone al secondo, che finisce gambe all’aria. Quello atterra con un tonfo a due metri di distanza, e lo slancio lo fa rotolare nel ruscello. Riemerge mandando spruzzi ovunque.
Gli altri rimangono immobili, sconcertati.
Poi attaccano. Uno parte alla carica, tentando di assestare un pugno. Ma John glie lo ferma a mezz’aria e poi lo fa girare, tirandogli il braccio dietro la schiena. Quello stramazza per il dolore e John lo butta in acqua, con una spinta.
Un altro si scaglia contro di lui; John si limita a scansarlo, e lui finisce a faccia in giù nel fiume. Ne rimangono quattro.
<< Ragazzi, mi state rendendo le cose troppo facili. Chi è il prossimo?>>
Il più grosso del gruppo gli tira un pugno che non lo sfiora nemmeno, ma lui reagisce così rapidamente che il suo gomito lo colpisce in faccia. John barcolla un attimo, ma si rialza subito. Quello sembra così soddisfatto di essere riuscito a colpirlo che gli si scaglia di nuovo contro, pronto ad attaccare.
John tende una mano in avanti e una forte luce gli fuoriesce dal palmo della mano, abbagliando il nemico.
Mi sento mancare il fiato. Da dove vengono quelle luci? Come ha fatto ad evocarle?
Non faccio in tempo a rispondermi, che John gli ha già tirato un pugno, colpendolo alla mascella e facendolo cadere a terra come un sacco di patate. Sembra quasi senza vita, e per un attimo temo che l’abbia colpito troppo forte. Poi lo sento che si lamenta.
John si guarda intorno. << Altri volontari?>>
Due ragazzi alzano le mani, in segno di resa. Il terzo rimane lì, a bocca aperta, come un’idiota.
<< Rimani solo tu, Mark.>>
Mark si gira come se volesse scappare, ma John si avventa su di lui prima che possa muoversi e lo blocca da dietro, con una presa simile a quella di un lottatore. Mark riesce a divincolarsi, e si volta per tentare di assestare un pugno ben piazzato. Ma John glie lo blocca a mezz’aria e poi gli torce i braccio. Lo tira, e poi lo getta a terra, la faccia spiaccicata sul suolo, il braccio di prima tirato indietro, l’altra mano di John a premere sulla sua spalla. Mark si contorce per il dolore.
<< Tutta questa storia deve finire qui e ora, capito?>> dice, la voce calda e convincente. << Qualunque sia il motivo per cui ce l’hai con noi, la cosa finisce qui. E questo vale anche per gli altri, hai capito?>> John tira ancora di più il braccio, premendo sulla spalla. Mark geme per il dolore. Ancora un po’ e può slogargli la spalla. << Ti ho chiesto se hai capito!>>
<< Si!>>
John si volta a guardarmi, indicandomi con un cenno. << Chiedi scusa.>>
<< E dai! Hai dimostrato quello che volevi dimostrare!>>
John tira di più.
<< Scusa!>> grida Mark.
<< Dillo con convinzione.>>
Mark tenta di fare un respiro profondo, ma deve mancargli proprio il fiato. << Scusa, mi dispiace.>>
<< Sei uno stronzo, Mark >> esclamo.
John spinge un altro po’ sulla spalla. << Non dirai una parola a nessuno di tutto questo, hai capito?>> dice a bassa voce, in modo che solo Mark lo possa sentire. Ma io sono abbastanza vicino per sentire ciò che si dicono. << Tutto ciò che successo questa sera muore qui. Se la settimana prossima sento, a scuola, anche solo una parola su questa faccenda, quello che è successo finora non sarà niente in confronto a quello che ti succederà. Te lo giuro.>> si abbassa accanto al suo orecchio. << E lascia in pace Valeri. Non voglio che tu le torca neanche un capello.>> si rialza e tira il braccio ancora un po’. << Hai capito? Nemmeno una parola.>>
<< Pensi davvero che andrei in giro a raccontarlo?>> replica lui.
<< Lo stesso vale anche per i tuoi amici. Se raccontano qualcosa, me la prenderò con te.>>
<< Nessuno dirà niente >>, assicura.
John annuisce, soddisfatto. << Molto bene. E ora vediamo se sei tanto bravo a lanciare anche con la sinistra.>>
Spinge di più sulla spalla, tirando il braccio fino all’estremo. Così facendo, la spalla sarà rotta entro pochi secondi. Sento Mark urlare per il dolore.
<< No!>> urlo, involontariamente, portandomi una mano alla bocca, spaventata.
John si blocca.
Lo guardo, sconcertata. Si, odio Mark. Lo odio con tutto il cuore. Ma non voglio che gli rompa il braccio. Non serve abbassarsi ai suoi livelli. << John non farlo >> dico lentamente, tentando di convincerlo.
John sembra pensarci un attimo, indeciso sul ‘da farsi. Poi, lentamente, lascia andare il braccio di Mark, lasciandolo lì, a lamentarsi sul suolo. Poi lo alza, lo trascina di peso verso il fiume, gli tira un calcio sul sedere e lo spinge a faccia in giù nell’acqua.
Gli altri ragazzi, che stavano ancora assistendo alla scena, girano sui tacchi e se ne vanno, terrorizzati, tirando su anche il ragazzo tramortito di prima, che constato non essere morto.
Una volta che se ne sono andati, rimaniamo soli.
Guardo John, non riuscendo a credere a ciò che ho appena visto. Lui ha… E poi ha… E infine ha fatto…
Lui si volta, a guardarmi, e senza pensarci corro ad abbracciarlo, affondando la testa nel suo petto.
<< Dio, ma come hai fatto?>> dico, riprendendo a respirare. Non mi ero nemmeno accorta di trattenere il respiro. Poggio la guancia contro il suo petto e sorrido. << Fai forse kung-fu o qualcosa del genere?>>
Lui fa una risatina nervosa. << Hai visto tutto?>>
Faccio spallucce. << Abbastanza >> mento.
Lui mi stringe a se e mi accarezza i capelli. << Avevo paura che ti succedesse qualcosa.>>
Sorrido, e mi sento avvampare. Mi stacco dall’abbraccio e lo guardo negli occhi. Sorrido, grata. << Sei incredibile >> affermo.
Lui fa spallucce. << Beh, non ho fatto niente di che. E poi, gli ultimi dodici anni passati ad allenarmi sull’Himalaya devono essere pur serviti a qualcosa, no?>>
Non so perché, ma credo che quest’ultima affermazione sia una bugia. Rido. << Mia e Matt dove sono?>> chiedo poi.
<< Stanno bene >> mi assicura lui. Poi si guarda intorno, nervoso. << Adesso però andiamocene di qui.>>
Annuisco, d’accordo.
Lui mi prende per mano e mi trascina nel bosco.
Non ho idea di dove stiamo andando, così mi limito a seguirlo, e a farmi infondere la sicurezza che mi manca dal calore perfetto della sua mano.
 
Continuiamo a camminare verso casa.
Abbiamo lasciato Matt e Mia poco fa, dopo esserci assicurati che stessero bene. Loro erano spaventati, e Mia, allarmata, ha iniziato a riempirmi di domande, a cui io ho promesso di rispondere. Ma non ora. Ora sono troppo scioccata per parlare. Non riesco a non pensare a ciò che è successo, a ciò che John ha fatto, a quella forte luce che gli è uscita dalle mani.
Ce ne siamo andati, lasciando Mia con un punto interrogativo, e John si è offerto di riaccompagnarmi a casa.
Abbiamo fatto tutto il tragitto in un silenzio imbarazzante. Un silenzio che nessuno dei due ha avuto il coraggio di rompere. Un silenzio in cui o avuto un po’ di tempo per pensare.
Tutto ciò che è successo è assurdo, non so come altro definirlo. Mark ha davvero superato il limite, stavolta, e credo di non essere mai stata così spaventata e piena di rabbia contemporaneamente prima d’ora. Onestamene, non so cosa sarebbe successo se non fosse arrivato John. Anzi, non so neanche se Mark avrebbe avuto il fegato di farmi qualcosa. Di una cosa però sono sicura. Mark se l’è passata proprio male. A tal punto, forse, che ho quasi provato pena per lui.
Percorriamo altri cinque metri in silenzio, poi arriviamo davanti casa mia.
Ho così tante domande in testa, che davvero non so da dove cominciare. E allora perché, perché non riesco a farne neanche una?
Mentre percorriamo il vialetto, mi fermo, e mi volto, a guardare John.
Siamo illuminati dalla luce dei lampioni per strada, e anche dai faretti posti accanto alla porta della mia casa.
Anche se la luce non è tanta, i suoi occhi sembrano risplendere come non mai. Due diamanti blu cobalto che volteggiano nel buio.
Abbasso lo sguardo. Devo dirgli qualcosa. Ora o mai più. Strizzo gli occhi e faccio un respiro profondo.
<< Glie l’avresti rotta?>> riesco finalmente a chiedere. John mi guarda, inarcando un sopracciglio, non capendo. Lo guardo negli occhi. << A Mark. La spalla >> specifico. << Lo avresti fatto?>>
John irrigidisce i muscoli, digrignando i denti. << Se lo meritava >> risponde, semplicemente.
Annuisco, mesta. Immaginavo una risposta del genere. E sono d’accordo con lui, se lo meritava. E allora perché non riesco ad accettarlo? Perché ho fermato John, invece di restare a guardare?
Sospiro, scuotendo la testa. << Come hai fatto?>> chiedo, sconvolta. << Insomma, hai steso otto giocatori di football come se fosse una cosa normale… Il più grosso di loro… lo hai steso in cinque minuti. Quelle luci… >>
<< Indossavo dei guanti >> si appresta a dire lui. << Li ho… li ho rubati a Kevin, mentre venivo a cercarti.>>
<< Ma come… Come hai fatto a… a… >> Non riesco a parlare. Mi mancano le parole.
Lui sorride. << Sono pieno di sorprese >> afferma.
Lo guardo, affranta. << Ma perché l’hai fatto?>> chiedo. Lui non mi risponde, ed io continuo. << Tu… Tu non hai idea di chi ti sei messo contro. Mark… Mark è uno stronzo. È il figlio del capo della polizia della città. Lui… Lui può fare quello che vuole… Può rigirare la frittata come gli pare e piace, può farti passare dalla parte del torto… >>
<< Ehi, stai tranquilla >> dice lui, mettendomi le mani sulle spalle e sorridendo in modo rassicurante. << Lui non parlerà. Ha imparato la lezione.>>
Lo scruto in volto, scoraggiata. Non posso stare tranquilla, non ci riesco. Non capisco neanche come lui faccia ad essere così calmo. Forse non capisce la gravità della situazione. << Lui non si arrenderà tanto facilmente >> dico.
John mi guarda. << Io non ho paura di lui >> afferma, serio, con la mascella irrigidita.
<< Ma io si!>> esclamo. << Lui non si arrenderà, John. Troverà sempre il modo di contrastarci. Di farcela pagare. Lui… Lui… >> Riprendo un attimo fiato. << Perché? Perché l’hai fatto?>>
<< Perché volevo proteggerti >> esclama, facendo un passo avanti. Poi, notando la mia espressione stupita, chiude gli occhi e prende un bel respiro. << Io… Io non potevo permettere che ti facessero del male… Se ti fosse successo qualcosa… Io… io… >> Mi guarda negli occhi, incatenando i nostri sguardi. Mi accarezza una guancia, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. << Io non me lo sarei mai perdonato >> afferma.
Improvvisamente, sento le gambe molli, e mi sento avvampare. Solo ora mi rendo conto di quanto siano corte le distanze fra noi. Si tratta di centimetri, centimetri che si aggirano intorno ai cinque, sei. Il suo viso è così vicino che riesco a sentire il suo respiro caldo accarezzarmi il volto.
I nostri occhi sono incatenati, come collegati da un filo invisibile che non può essere spezzato.
John porta l’altra mano accanto al mio volto, spostandomi dietro l’orecchio un’altra ciocca di capelli, e poi accarezzandomi entrambe le guance.
Si avvicina un po’ di più, e i nostri nasi si sfiorano, delicatamente, a tal punto che respiriamo la stessa aria. Le nostre labbra sono a un soffio, e solo ora mi rendo conto di ciò che sta per succedere.
E poi, finalmente, mi bacia.
È la sensazione più bella che io abbia mai provato. Mi sento avvampare, e un brivido caldo mi scorre lungo tutta la colonna vertebrale, facendomi venire la pelle d’oca. Le nostre labbra sembrano perfette per stare insieme, ed io non riesco a pensare più a niente.
In questo momento, potrebbe scoppiare una bomba. Io non me ne accorgerei.
Incoscientemente, schiudo leggermente la bocca, permettendogli di approfondire il bacio.
È un bacio dolce, delicato. Un bacio che, lo scopro solo ora, non aspettavo altro che ricevere.
È il primo, per me. In tutti questi anni non sono mai riuscita a creare dei rapporti stabili, soprattutto con dei ragazzi, ed erano rare le volte in cui mi interessavo a qualcuno, inesistenti quelle in cui riuscivo ad innamorarmi. Ma con John. Con John è stato tutto diverso. Due settimane. Sono state sufficienti due settimane per innamorarmi di lui. Dei suoi occhi, del suo sguardo, del suo sorriso. Dei suoi modi di fare e della sua bellissima risata.
Cerco di non pensare a niente, e di godermi quel bacio, concentrandomi solo sul suo profumo, sul battito del suo cuore che corre insieme al mio, sul calore delle sue labbra posate sulle mie.
Quando ci stacchiamo, abbiamo entrambi il fiato corto, gli occhi lucidi per l’emozione.
Nessuno dei due dice niente. Ci guardiamo, soltanto, sorridendo contenti. Il mio viso fra le sue mani, i nostri cuori che battono ad un ritmo accelerato, innaturale.
Ci sorridiamo per un po’, e, poi, mi ribacia. Stavolta la cosa è più naturale, senza imbarazzo.
Poi ci baciamo un’altra volta.
Potrei restare qui per ore, ma, ovviamente, c’è sempre il terzo incomodo che deve rovinare la magia.
Avrei giurato che, se fosse successo qualcosa, non me ne sarei accorta, eppure è impossibile non notare una cosa del genere.
I faretti posti accanto alla porta della mia casa iniziano a lampeggiare, spegnendosi e riaccendendosi ininterrottamente.
Quindi, le opzioni sono due. O si sono fulminate improvvisamente e stanno ancora decidendo se spegnersi definitivamente o se continuare a fare luce, oppure qualcuno, dentro casa, sta freneticamente premendo il dito contro il loro interruttore, per attirare l’attenzione. E c’è solo una persona in grado di fare una cosa del genere.
Sbuffo, staccandomi da John. << Oh! Arrivo mamma!>> esclamo, alzando gli occhi al cielo. John ride, e giurerei di averlo visto arrossire, imbarazzato.
Lo guardo un’ultima volta, sorridente, poi gli prendo il viso fra le mani e gli do un ultimo bacio. << Buonanotte >> dico, con il mio miglior sorriso.
Anche lui sorride. << Buonanotte >> mi sussurra a fior di labbra.
Mi viene la pelle d’oca, ma mi costringo ad allontanarmi, dirigendomi in casa.
Prima di entrare, però, mi volto a guardarlo, per scambiarci un ultimo sorriso, incerto. Poi entro in casa e mi chiudo la porta alle spalle.
Resto lì immobile. Poggio la schiena alla porta, e mi lascio scivolare lentamente giù, fino a sedermi a terra. Chiudo gli occhi e rivedo la scena di qualche attimo fa.
Non posso crederci. Non posso credere che sia successo davvero.
Istintivamente, mi mordo il labbro, come per risentire il sapore delle sue. Non posso fare a meno di sorridere come un’ebete.
Mi ha baciata. Mi ha davvero… baciata!
<< Valeri >> mi chiama Mary dalla cucina.
Mi rialzo velocemente e cerco di assumere un’espressione seria. Poi mi dirigo verso la cucina.
Sto per entrare, ma lei è già uscita fuori. Mi squadra attentamente per qualche secondo. << Va tutto bene?>> chiede, inarcando un sopracciglio.
Vorrei non sorridere, ma non ci riesco, è più forte di me. << Va tutto… alla grande >> rispondo.
Lei mi squadra in volto, forse nel tentativo di trovare il modo migliore per fare la prossima domanda. Ma non glie lo permetto.
<< Vado in camera mia!>> esclamo, iniziando a correre su per le scale.
Lei mi segue con lo sguardo, raggiungendomi all’inizio di queste, allarmata. << Ma come, e la cena?>>
<< Non ho fame!>> mi appresto a dire, prima di entrare in camera mia e chiudermi la porta alle spalle. Una volta sola, inizio a ridere. Mi dispiace un po’ per Mary, ma ora non è il momento di rispondere a delle domande. Sono ancora troppo… su di giri.
Mi sfilo la borsa, facendola scivolare accanto al letto, sul quale mi butto, affondando la testa nel cuscino.
Sono troppo felice. Troppo!
Mentre ripercorro mentalmente gli ultimi avvenimenti della serata, un pensiero mi attraversa la mente.
Mi alzo di scatto e mi precipito verso lo spazio. Il mio spazio. Quello in cui tengo tutte le mie foto.
Afferro il mio vecchio album, poi torno sul letto e incrocio le gambe, poggiandocelo sopra. Poi lo apro.
Inizio a frugare nella mia borsa, finché non la trovo.
La fototessera che abbiamo scattato in quel camerino. Lentamente osservo cinque foto, una ad una.
La prima è la più semplice, forse anche la più imbarazzante. Ci sono io, con un sorriso forzato sul volto, e c’è John, che invece sembra rilassarsi davanti all’obbiettivo.
Poi c’è la seconda, in cui continuiamo a sorridere, ma stavolta in un modo più naturale, più semplice. Più bello. John mi avvolge il collo con un braccio, e stavolta sono io, che sembro rilassata.
Poi c’è la terza, la più buffa. In primo piano c’è la mia faccia, con le guance gonfie e la bocca a mo’ di bacio, mentre faccio l’occhiolino e, distrattamente, mi porto una mano accanto all’orecchio, giocando con i miei capelli. Dietro di me c’è John, che mostra tutti i denti, come se fosse preoccupato, e spalanca gli occhi, allungando il collo fino a stirarlo. Non posso fare a meno di ridere.
Poi c’è la quarta. Questa è… strana. Ci sono io, ancora seduta sulle gambe di John, che rido come una matta, gli occhi chiusi, il viso rivolto verso l’alto, mentre lui mi fa il solletico, divertito. Sorrido. Credo di non essermi mai vista così felice. Chissà come sarei ora, se mi scattassi una foto. Magari avrei lo stesso sorriso.
Infine guardo l’ultima, e avvampo. Siamo in piedi, e John mi tiene il viso fra le mani. Le distane fra noi sono davvero cortissime, tanto che i nostri nasi si sono incrociati e le nostre labbra si stavano davvero sfiorando.
Le guardo un’ultima volta, tutte insieme, poi infilo la strisciolina nel mio album. In mezzo a tutte quelle foto solitarie, è davvero un tocco di classe.
Chiudo l’album e me lo porto al petto, mentre mi sdraio sul letto e poggio la testa sul cuscino.
Sto ancora sorridendo.
Lo so che posso sembrare un’ebete, e che magari mi faranno male tutti i muscoli della faccia se continuo così, ma è più forte di me. È una cosa che non riesco a controllare. Ed è bellissimo.
Credo che erano anni che non sorridevo così, spontanea, felice. Ed è proprio con questo sorriso che chiudo gli occhi, e mi addormento, facendomi cullare dalle braccia di Morfeo.

Angolo Scrittrice
...
...
...
Ciaoo!!!!!! :D
Allora, beh, che dire...
Si sono baciati, Gente! Si sono baciatiii !!
Sono troppo felice!
Non prendetemi per pazza. Onestamente, non vedevo l'ora di pubblicare questo capitolo, che credo sia uno dei più importanti... Le mie mani formicolavano mentre scrivevo gli altri, ansiose di scrivere di questo benedettissimo bacio!
Che pello! ^^
Beh? Che ve ne pare? Vi è piaciuto?
So che forse avrei dovuto aspettare a pubblicare, dato che l'altro capitolo non me lo avete, scusate la volgarità, cagato nemmeno di striscio... -.-
Ma vabbè, non potevo proprio aspettare! No, no! ^^
Ok, dai, la smetto! Vi lascio in questo noiosissimo sabato sera di pioggia... Che deprekscions! Ma quando viene l'estate?! -.-
Ook, so che non vi interessa della mia depressione meteopatica, quindi ciao. Alla prossima! :D
E mi raccomando, c.o.m.m.e.n.t.a.t.e!! Mi rendereste la ragazza più felice di questo mondicello!
Va Benee... Ciaoo!
Vi amo tutti! ^^
La vostra ValeryJackson
P.s. Ah! Quasi dimenticavo! Ho finalmente trovato i volti perfetti per Matt e Harry! Vi pubblico qui le gifs. Che dite? Vi piacciono? ^-^
Harry                           Matt

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Mi dirigo a passo svelto verso scuola.
Stamattina, inizialmente, mi sono svegliata con una strana sensazione nel petto. Non capivo cosa fosse successo, finché non mi ricordai del bacio.
Ah, il bacio…
Se chiudo gli occhi e mi mordo il labbro inferiore, riesco ancora a sentire il sapore delle sue labbra. Ed è proprio quello che faccio, mentre, contenta, continuo a camminare.
Onestamente, non so come io abbia fatto ad evitare mia madre. C’è da dire, però, che sono letteralmente scappata da lei. Un po’ mi dispiace, però, insomma, aveva iniziato a farmi tutte quelle domande sulla sera prima, su cosa era successo, su cosa mi aveva detto John. Come se poi non conoscesse già la risposta. Forse, sentirlo da me fa tutto un altro effetto. Neanche io riesco a capacitarmi della cosa. E, finché non mi ci abituerò io, lei vivrà bene nella sua ignoranza.
Comunque, sono riuscita a svignarmela con un semplice “Sono in ritardo”, mi sono infilata un jeans, una felpa grigia e delle converse del medesimo colore, mi sono truccata un po’, mi sono spazzolata, o per meglio dire, violentata i capelli, per renderli un po’ più voluminosi, e sono corsa fuori.
Mi sono anche dimenticata di fare colazione, ma vabbè, aspetterò il pranzo.
Arrivo davanti scuola giusto in tempo.
La campanella è già suonata, e tutti i ragazzi si apprestano ad entrare, svogliatamente, nell’istituto.
Mi dirigo verso l’entrata, salendo velocemente i gradini, e vado per entrare, quando qualcuno mi afferra il braccio e mi tira di lato.
In un primo momento penso sia uno degli scagnozzi di Mark, se non lui stesso. Poi, il volto raggiante di Mia si piazza davanti al mio.
<< Mia!>> urlo. << Mi hai fatto prendere un colpo!>> continuo, posandomi una mano sul cuore e facendo un bel respiro.
<< Scusa…>> mormora lei, imbarazzata. Abbassa un secondo lo sguardo, quasi triste. Poi, la sua espressione muta con altrettanta rapidità, e mi guarda, con gli occhi lucidi e un sorriso raggiante. << Ma devo dirti una cosa!>> afferma.
La scruto, per un attimo. Poi sorrido. << Anche io devo dirti una cosa.>>
Mia scuote la testa. << La mia è più importante >> dice.
Scrollo la testa, ridendo. << Credo non quanto la mia.>>
Lei sbuffa, alzando gli occhi al cielo. Poi torna a guardarmi. << Ok, facciamo una cosa. Lo diciamo insieme, va bene?>>
Annuisco. << Va bene.>>
<< Al mio tre.>> Mi prende per mano. << Uno >> mormora, lentamente. << Due.>> Stringe più forte la mia mano. Trattiene per un secondo il respiro, poi urla: << Tre!>>
<< Mi ha baciata!>> urliamo, nello stesso istante.
Ci fissiamo un attimo, sgranando gli occhi. << Ti ha baciata?! Dove? Quando?>> chiediamo, di nuovo insieme.
<< Ieri sera >> rispondiamo subito, ancora in sincrono.
Ci fissiamo un attimo, nel tentativo di metabolizzare le ultime notizie ricevute. Poi, un sorriso spunta sulle nostre labbra. Urliamo, pazze di gioia, proprio come fanno quelle ragazzine nei film, e ci abbracciamo, stringendoci forte e iniziando a ridere come due perfette sceme.
<< Non ci posso credere >> mormora Mia, fra una risata e l’altra.
<< Neanch’io >> aggiungo, felice.
Rimarrei qui a ridere e gridare per ore, quando sento suonare la seconda campanella.
Con riluttanza, sciogliamo l’abbraccio, entrando dentro e iniziando a raccontarci tutto, nei minimi dettagli.
Mentre percorriamo il corridoio, esce fuori anche l’argomento “Carro”
<< Ma, insomma, cosa è successo ieri nel bosco?>>
Sorrido, ricordando gli avvenimenti. << Oh, avresti dovuto esserci. John ha steso un’intera squadra di football tutto da solo. Era tutto un calci, pugni, calci, pugni… >> racconto, gesticolando.
<< E Mark? Ha imparato la lezione?>>
Sospiro, pensierosa. Poi aggrotto la fronte. << Lo spero.>>
Improvvisamente, un braccio mi avvolge le spalle, spingendomi contro un altro corpo caldo. << Che cos’è che speri?>>, mi chiede qualcuno all’orecchio.
Mi blocco, sorridendo. Poi chiudo gli occhi. Mi volto e ammiro quelli di John in tutto il loro splendore. << Ciao >> mormoro.
Lui sorride, felice. Si sporge in avanti e mi stampa un leggero bacio a fior di labbra. << Ciao >> mormora a sua volta. Poi, rendendosi conto della presenta di Mia, arrossisce e si gratta la nuca, imbarazzato. << Allora?>> chiede. << Cos’è che speri?>>
Rido. << Che Mark abbia finalmente imparato la lezione, ecco che spero.>> Indico la mia amica con un cenno. << Le stavo raccontando quello che è successo ieri sera.>>
John sembra arrossire ancora di più, guardando Mia con un mezzo sorriso. Ma, prima che riesca a dire qualcosa, lei lo interrompe. << Davvero hai steso un’intera squadra di football?>>
<< Beh, non esattamente… >> risponde. << Insomma, erano solo otto ragazzi, e tre di loro se la sono data a gambe.>>
Rido. << Stai scherzando, vero? Quei tizi erano più forti e più grossi di te! E non riesco ancora a capire come tu abbia fatto a conciarli per le feste!>>
Lui fa spallucce. << L’adrenalina, credo.>> Poi mi guarda, accennando un sorriso. << E poi non dare a me tutti i meriti, anche tu hai fatto la tua parte! Insomma, se quel tizio non si fosse scansato, gli avresti di sicuro rotto il naso! Dove hai imparato quella mossa?>>
Abbasso lo sguardo, imbarazzata. Il rallenty di quella scena mi scorre davanti agli occhi.
John ha ragione. Se quel tizio non si fosse scansato, o se io avessi tirato una gomitata più forte, gli avrei di sicuro rotto il naso. Non so esattamente come ho fatto. Anzi, lo so.
Faccio un bel respiro, alzando le spalle. << Beh… quando ero piccola, mia madre mi allenava sempre, ogni giorno. Si era messa in testa di dovermi insegnare tutte le tecniche di autodifesa.>> Sorrido, con lo sguardo perso nel vuoto. << Pensa, sono anche cintura nera di taekwondo.>>
<< Non me l’avevi mai detto >> esclama Mia, sorpresa.
Scrollo le spalle. << Beh, ormai non lo pratico da un po’… >> ammetto. << Da quando… >> Aggrotto la fronte, pensierosa. << Da quando ci siamo trasferite qui a New York.>>
<< Però non hai perso il tuo smalto >> commenta John, ridendo.
Rido anch’io. << Scemo >> mormoro, dandogli un leggero pugno sul braccio.
Lui sorride. << Io vado, ho lezione di Matematica e subito dopo devo correre in palestra per quella di ginnastica. Ci vediamo dopo?>>
Annuisco. << Mi vedrai fra gli spalti.>>
Lui annuisce, contento. << Bene >> e fa per darmi un bacio, quando si ricorda della presenza di Mia. Così posa le labbra sulla mia guancia, lasciandole lì qualche secondo di più.
Sorrido, afferrando al volo il messaggio. Non davanti a Mia. Dopo…
Ci guardiamo velocemente un’ultima volta negli occhi, poi lui sparisce nel corridoio.
Mi volto verso Mia, e mi accorgo che mi sta squadrando con aria interrogativa. << Così… stavi rompendo il naso a un giocatore di football.>>
Alzo gli occhi al cielo. << Si, ma te l’ho detto, io non ho fatto niente di speciale. È stato John il vero “eroe” >> dico.
Lei annuisce, lentamente. << Non so cos’avrei dato per vederlo… >>
Annuisco anch’io. << Già, è stato proprio forte. Lui dice di aver fatto a botte solo con quei cinque, ma io sono convinta che ne abbia umiliato anche qualcuno prima… >>
<< Tipo chi?>>
Ci penso un po’. << Tipo Kevin. John gli ha rubato dei guanti con delle luci incorporate per muoversi nel bosco. E non credo che lui glieli abbia regalati.>>
Mia aggrotta la fronte. << Guanti… con delle luci?>>
Annuisco. << Si, così mi sembra di aver capito. Perché?>>
Lei resta un po’ in silenzio. << Non ne avevo mai sentito parlare. Eppure io sono informata su tutto ciò che riguarda la tecnologia. Sei sicura di aver capito bene?>>
Sto per annuire, quando un pensiero mi attraversa la mente. Ne sono davvero sicura? Beh, si…
Oh, ma chi voglio prendere in giro? Insomma, credo a John, ma se ci penso bene…
Non mi sembra di avergli visto alcun tipo di guanto, e quando gli ho stretto la mano, ho trovato solo la sua pelle a contrastare la mia. Dice di averli rubati a Kevin, ma appena l’ho visto, anch’io ho avuto qualche dubbio. E poi…
<< Si!>> affermo, decisa, prima che altri pensieri si affollino nella mia mente. Forse un po’ troppo, perché Mia sobbalza sul posto, spaventata. Decido di avere un tono più calmo. << Si, ne sono sicura.>>
Lei annuisce, poi, dopo aver guardato l’orologio, mi saluta, dirigendosi verso l’aula di Storia.
Io ho lezione di Economia. Sbuffo, pensando alla noiosa ora che sta per arrivare. O forse, cosa più probabile, sbuffo per la frustrazione, dato che ormai, dalla mia mente, non riesco a far uscire l’immagine delle mani di John. Delle sue mani, illuminate.
 
La lezione di Economia passa abbastanza in fretta. O almeno, a me è sembrata breve. Forse perché non ho capito un emerito tubo su ciò che stesse dicendo la professoressa, o forse perché la mia mente era impegnata da tutt’altra parte.
Poso i libri nell’armadietto, e mi dirigo insieme a Mia verso il campo da football, dove John ha già iniziato la sua lezione di Educazione fisica.
Una volta lì, ci dirigiamo verso gli spalti, dove altre ragazze osservano i ragazzi allenarsi.
Mia saluta qualcuno, e io mi volto a guardare.
Le riconosco. Sono Red e Sarah, le due ragazze con cui Mia parlava l’altro giorno. Sorrido e saluto anch’io. Poi, con un po’ di riluttanza da parte mia, andiamo a sederci vicino a loro.
<< Allora?>> chiede Mia, sorridendo. Io non lo faccio. È sempre stata lei quella brava a piacere alla gente. Io, invece, sono quella che sta in disparte e fa le foto. << Che ci siamo perse?>>
<< Il coach sta prendendo i tempi >> spiega Sarah.
Red sorride. << Stanno andando alla grande!>> esclama.
Sposto lo sguardo sul campo, dove un gruppo di circa venti ragazzi sta correndo a perdifiato. Lentamente, assottiglio lo sguardo, cercando John.
Lo trovo quasi subito.
Sta correndo all’undicesimo posto, proprio dietro Kevin.
Sorrido, e lo osservo mentre continua a tallonarlo per un po’.
Poi, lentamente, lo supera. e inizia a prendere velocità.
Si stacca da Kevin e le sue gambe iniziano a muoversi rapidamente. Supera un altro ragazzo davanti a lui e poi la cosa inizia a farsi seria.
Già, perché inizia a superarli tutti, uno ad uno. Rapidamente aumenta di un posto, raggiungendo in meno di un minuto la seconda posizione.
La gente sugli spalti acclama. Sento Mia e Sarah accanto a me urlare frasi di incoraggiamento verso John, mentre Red si è alzata in piedi e sta battendo con vigore le mani, saltellando sul posto.
Dovrei essere felice anch’io, incoraggiarlo come fanno le altre. Invece, non lo faccio.
È strano. È strano che lui corra così veloce.
Una strana sensazione si impossessa di me, anche se debolmente.
Aggrotto le sopracciglia e, lentamente, mi alzo.
Con altrettanta lentezza, scendo dagli spalti. Non so perché, ma sono spaventata. Anzi, più che spaventata, sono incuriosita. Da una curiosità, però, che ho paura di saziare. Perché, non chiedetemi come, so che quella sensazione che pian piano sta attanagliando il mio petto, quella sensazione di inconsistenza, di leggerezza, beh, che quella non porti niente di buono.
Quando arrivo sull’ultimo spalto scendo a terra e mi avvicino alla ringhiera verde che ci separa dal campo, che è abbastanza alta da non far finire le palle da football addosso alla gente durante le partite.
Osservo da vicino la corsa. John è passato al primo posto e nessuno, ancora, riesce a recuperare terreno.
Mi accorgo di avere ancora le sopracciglia corrucciate. Lentamente, alzo una mano, sfiorando la ringhiera con il palmo. E, improvvisamente, tutto cambia.
È come se fossi entrata in un campo di forza, e un'energia fortissima intorno a me mi ovatta le orecchie. Sento un vuoto che sembra incolmabile fra lo stomaco e la gola, e perdo ogni sensibilità che avevo dalla vita in giù. I miei piedi sembrano sospesi in aria, come se non avessero un appoggio sotto la pianta. È come se tutto il mio corpo fosse sospeso in aria.
Mi sento mancare il respiro. Riconosco quella sensazione, tanto familiare. L’ho già provata una volta.
La mia gola si secca. E ricordo anche dove.
Poi, con la stessa rapidità con la quale quella sensazione arrivata, svanisce, riportandomi alla realtà.
I miei piedi sembrano toccare di nuovo il terreno. Anzi, è come se fossi appena caduta in piedi sul terreno. L’impatto, infatti, mi fa traballare all’indietro.
Arretro di qualche passo, per poi sedermi sul primo spalto. Inizio a riprendere aria attraverso grandi respiri, accorgendomi solo ora di aver trattenuto il fiato per tutto questo tempo. Sposto il mio peso in avanti, poggiando le mani sul bordo dello spalto, ai lati delle mie gambe, e continuo a respirare, lentamente.
Passa circa un minuto, poi sento una mano posarsi sulla mia spalla. Mia si siede accanto a me.
<< Valeri, tutto bene?>> mi chiede, preoccupata, con la fronte aggrottata.
Faccio un ultimo grande respiro, poi alzo lo sguardo.
John è stato superato da cinque persone, e ha notevolmente rallentato la corsa.
<< Smith!>> urla il professor Martin, il viso rosso dalla rabbia. << Che cosa è successo?! Stavi andando alla grande!>>
John respira più volte prima di rispondere. << Mi scusi, professore >> dice. << Ho l’asma.>>
Il professore sbuffa, alzando gli occhi al cielo. << A voi asmatici dovrebbero impedire l’attività fisica!>> strepita, gesticolando con vigore.
Inarco un sopracciglio. Sbaglio, o era un’affermazione rivolta anche a me?
Guardo Mia, e mi accorgo che non le ho ancora dato una risposta.
Annuisco, lentamente, tentando di raddrizzare la schiena. << Si, tutto ok >> dico, forse provando a convincere più me stessa.
Lei annuisce e sposta di nuovo lo sguardo sui ragazzi, che hanno appena finito di correre e stanno andando negli spogliatoi a cambiarsi.
Li osservo, uno ad uno, ma quando il mio sguardo si posa su uno di loro in particolare, un forte dubbio mi attanaglia lo stomaco, e una domanda continua a rimbombarmi nella testa.
Mi alzo di scatto e corro verso gli spogliatoi.
 
Sono poggiata con la schiena contro un muretto, a pochi metri dall’uscita degli spogliatoi dei ragazzi, una gamba stesa in avanti a far perno sulla pianta del piede per restare in equilibrio, mentre l’altra pianta fa perno contro il muretto stesso, le mani infilate nelle tasche dei jeans.
Osservo i ragazzi uscire, stremati, mentre velocemente mi passano davanti, senza notarmi, accingendosi ad andare a mangiare nella mensa.
È ora di pranzo, e, ora che ci penso, anch’io ho un certo languorino, considerando il fatto che non ho fatto colazione.
Mi mordo il labbro, imponendomi di non pensare al cibo. E poi, lo vedo.
Con uno scatto mi tolgo dalla mia posizione, mettendomi correttamente in piedi e correndo verso di lui.
Quando lo raggiungo, mi ci posiziono davanti.
<< Dobbiamo parlare >> affermo, decisa.
Kevin mi guarda, inarcando un sopracciglio. << Se cerchi John, è già andato in sala mensa.>>
Scuoto leggermente il capo. << No, è con te che devo parlare.>>
Stavolta sono sicura che mi stia guardando scettico. << E di cosa, scusa?>> chiede, con un mezzo sorriso.
<< Devo farti una domanda.>>
Lui mi squadra un attimo, ancora con un sopracciglio inarcato. Poi sospira. << Spara >> dice, incitandomi con un cenno del capo a parlare.
Sospiro, costringendomi a non corrugare le sopracciglia. Sono davvero convinta di volerlo sapere?
Beh, si, certo che lo voglio sapere!
E se poi la risposta e proprio quella che temo?
Cerco di non pensarci e domando. << Volevo solo sapere dove hai comprato quei guanti luminosi, sono davvero fighi.>>
Lui aggrotta la fronte, non capendo. << Guanti luminosi?>>
Annuisco, la gola secca. << Si, quelli che indossavi ieri sera nel bosco. Quelli che poi ti ha rubato John.>>
Kevin corruccia le sopracciglia, tentando di ricordare. Poi mi guarda come se fossi pazza. << Io non indossavo nessun guanto >> afferma.
Ecco, ora sento il mondo intorno a me fermarsi di botto.
Un groppo mi sale in gola e le sue parole mi rimbombano nel cervello. Non c’era nessun guanto…
Mormoro qualcosa di simile a un grazie e lo lascio lì, solo, mentre mi dirigo come un automa verso la mensa.
Non c’era nessun guanto. Quindi, se Kevin non li indossava, significa che John non ha potuto rubarglieli.
E se John non ha potuto rubarglieli, significa che non ne indossava neanche lui.
E se John non indossava guanti… Allora quelle luci…
Trattengo il fiato, quando quel pensiero mi attraversa la mente. Tutti i tasselli del puzzle ora hanno un senso, e questo senso non mi piace. Ma non c’è altra spiegazione logica.
Quelle luci sono venute dal nulla. Sono uscite dai suoi palmi. Erano vere...
Accelero il passo. Ora sono furiosa.
Sono furiosa perché mi ha mentito.
Sono furiosa perché ha pensato che io fossi tanto stupida da credere ad una cosa del genere.
Sono furiosa, perché mi ha fatto credere che quelle luci non fossero reali.
Ma ora mi sentirà. Oh, se mi sentirà…

Angolo Scrittrice

Salvee!! Come va la vita? :D
Ho una notizia per voi...
E' finita la scuola! E'... finita... la... scuoooolaaaa!!!
Yuppie! ^.^
Ahah, ok, la smetto. Sono noiosa.
Bien bien. Visto? Ho postato un nuovo capitolo ^^
Credo che ora, con l'estate, riuscirò a pubblicare più velocemente, dato che non ho proprio un bel niente da fare a casa! xD
Ma, una domanda... Voi ci siete? Che fine avete fatto? D:
Ho notato che gli ultimi due capitoli non li ha cagati nessuno... Eppure pensavo che la scena del bacio vi sarebbe piaciuta :'( insomma, ci ho messo tanto per scriverla...
Che c'è? La mia storia non vi piace più? Vi annoia quello che scrivo? D:
Fatemi sapere, così posso migliorare :)
Vero che lascerete un commentino? ^^ Eh? Eh? ;)
Vabbè, aspetto con ansia vostre notizie!
Intanto, buone vacanze e... Buon Fine Scuolaaaa!
Ok, la smetto.
Ciao! ^^
ValeryJackson

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Capitolo 18
*** Capitolo 18/ Parte uno ***


Entro a passo svelto nella mensa, furiosa.
Tutti i ragazzi della scuola si sono riuniti qui. Alcuni sono intenti a mangiare, altri stanno ancora facendo la fila con il vassoio vuoto in mano. La maggior parte di loro, o forse tutti, sono intenti a chiacchierare con il proprio compagno, parlando anche di cose stupide, pur di poter saziare quelle ore di silenzio che hanno dovuto fare fino ad ora.
Si sono anche tutti divisi, poi. Per gruppi. Già, i “vip” da una parte, i secchioni dall’altra. I ragazzi della banda della scuola in un tavolo all’angolo.
Mi fermo un attimo, assottigliando gli occhi e guardandomi intorno, cercando John.
Lo vedo quasi subito, seduto ad un tavolo da solo con un vassoio davanti, intento a mangiare qualche patatina fritta. Molto probabilmente mi sta aspettando.
Ma credo che appena gli avrò urlato tutto in faccia non sarà più così contento di vedermi.
Sento la rabbia attanagliarmi la bocca dello stomaco, e mi dirigo a passo svelto verso di lui.
Quando gli sono di fronte, batto entrambe le mani sul tavolo, furiosa.
Le posate e il bicchiere sul suo vassoio traballano, producendo un tintinnio sordo, mentre il resto del cibo sobbalza leggermente. I miei palmi, però, fanno rumore, che rimbomba per tutta la stanza.
Il chiacchiericcio si ferma, e tutti piombano in un silenzio innaturale, voltandosi verso di me. Ma non mi importa.
John alza lo sguardo, sconvolto, e mi guarda, incuriosito.
Solo ora, con i suoi occhi blu puntati addosso, mi rendo conto che non ho niente da dire. Non mi sono preparata un discorso. Sono piombata là, come una furia, intenta a dirgliene quattro, senza pensare, però, a cosa realmente dovevo dire.
Così, dico la prima e unica cosa che mi viene in mente.
<< Che cosa sei?>> chiedo, fissandolo negli occhi.
Lui aggrotta la fronte, non capendo. << Come, scusa?>>
<< Ti ho fatto una domanda >> continuo, imperterrita. << Che. Cosa. Sei.>> ripeto, a denti stretti, scandendo lentamente ogni singola parola.
Lui dilata le pupille, stupito. Poi, si guarda intorno, riassestandosi sulla sedia, a disagio. << Valeri, ci stanno guardando tutti >> afferma, calmo. << Per favore, siediti.>>
Solo in questo momento mi accorgo di avere tutti gli occhi della sala puntati addosso, e che quel silenzio che sembrava innaturale non si è ancora dissolto.
Lentamente, mi siedo di fronte a John, cercando di non incrociare lo sguardo di nessuno.
Prima di riprendere a parlare, però, aspetto che gli altri distolgano l’attenzione da noi, ricominciando a parlare.
Quando lo fanno, e mi accorgo di non essere più al centro dell’attenzione, guardo John, ancora i muscoli tesi.
Anche lui alza lo sguardo dal suo piatto, e lo incatena al mio. << Che succede?>> chiede.
<< Te l'ho detto >> affermo. << Voglio sapere che cosa sei.>>
Lui sembra non capire. << Valeri, non ho idea di che cosa tu stia parlando.>>
<< Oh, lo sai benissimo, invece!>> esclamo, aspettando in attesa di una risposta. Che però non arriva. Così continuo. << Dimmi che cosa sei.>>
<< Valeri, ma che dici?>> ribatte.
<< Ho visto quello che facevi nel bosco >> dico. Aspetto un secondo, soppesando attentamente le parole che sto per pronunciare. << Tu non sei umano >> affermo, convinta.
Lui mi fissa, come se avessi appena detto che ho visto passare un cane volante viola. << Valeri, sei impazzita? Ci hanno aggredito e io faccio arti marziali da anni, tutto qua.>>
<< Le tue mani si sono accese come torce elettriche. Scaraventavi le persone qua e là come se niente fosse. Non è normale.>>
<< Oh, andiamo >> replica, porgendomi le mani. << Guarda le mei mani. Vedi qualche luce? Te l’ho detto, erano i guanti che aveva Kevin.>>
<< L’ho chiesto a Kevin!>> esclamo. << Ha detto che non portava nessun tipo di guanti!>>
<< Kevin ci odia. Pensi veramente che ti direbbe la verità, dopo quello che è successo?>>
Lo fisso un attimo, spaesata. A questo non avevo pensato.
Improvvisamente, un groppo mi sale in gola, mentre tutti gli avvenimenti mi passano fulminei nella mente, peggiorando la situazione.
Sospiro, chiudendo gli occhi e rilassando i muscoli. Non mi ero neanche accorta di trattenere il fiato. Mi butto la testa fra le mani e inizio a scuoterla leggermente.
Stupida!
<< Oddio, John, scusa >> inizio, sentendomi un vero schifo. << Io… io avevo pensato che tutto ciò fosse strano, e che quelle luci fossero vere. Così quando Kevin mi ha detto che non indossava alcun tipo di guanto, io… io…. Mi è crollato il mondo addosso, capisci?... credevo…. Credevo che tu non mi stessi dicendo la verità…>>
Vorrei piangere. Mi sento un vera idiota. Una stupida! Che cosa pensavo di ottenere? Davvero credevo che John non fosse umano? Da quando credo a questo genere di cose?
John non mi risponde, e io mi sento morire.
Ecco, lo so. Ho rovinato tutto. Proprio ora che tutto stava andando per il verso giusto, io sono riuscita a rovinarlo. Come sempre. Ben fatto, Valeri. Bella pensata!
Ora mi odierà?
Invece, inaspettatamente, John mi prende la mano, facendomi sussultare.
Alzo lo sguardo, stupita, puntando gli occhi nei suoi, non capendo.
Lui sorride dolcemente. << Non preoccuparti >> afferma, tranquillo. << Capita a tutti di sbagliare.>>
Lo fisso, basita. Non riesco a credere alle mie orecchie.
Sta davvero dicendo la verità? Davvero non se l’è presa? Non mi odia?
Mi ritrovo a sorridere, come una scema, provocando uno sbuffo e scuotendo il capo. << Come fai?>> chiedo.
<< A far cosa?>> fa lui, corrucciando le sopracciglia.
<< Come fai a non odiarmi? Te ne ho dette talmente tante da quando ci conosciamo che come minimo avresti dovuto sputarmi in un occhio.>>
Lui ride, producendo un suono bellissimo per le mie orecchie. << Perché dovrei odiarti, scusa?>>
Faccio spallucce, sconsolata. << Perché sono acida.>>
Lui, notando il mio malumore, mi accarezza il dorso della mano con il pollice. << Ehi >> sussurra, sorridendo e cercando il mio sguardo. << Io non ti odio. Non potrei mai. Ti ho trovata fantastica dal primo momento che ti ho vista, ed è stata proprio questa tua… acidità, come la chiami tu, a farmi capire che eri diversa dalle altre. Sai, nelle altre scuole, non ho mai incontrato una come te.>>
Alzo lo sguardo, guardandolo nei suoi occhi blu, e gli sorrido, con gratitudine. << Grazie >> mormoro.
Lui ricambia il mio sorriso. Poi mi lascia le mani e riprende a mangiare.
In questo momento, però, mentre osservo i suoi lineamenti e i suoi capelli color miele, una domanda mi sorge spontanea.
Aggrotto la fronte. << Perché, com’erano le altre ragazze?>>
Lui sorride. << Diverse >> risponde, semplicemente.
Alzo le sopracciglia. << Diverse come?>> chiedo, in tono incalzante, spingendolo a continuare. Poi, notando che non risponde, chiedo ancora: << In meglio o in peggio?>>
Lui sorride di nuovo, malandrino. << Beh, questo non posso dirtelo >> afferma, in tono provocatorio.
Inarco un sopracciglio. << Ah, no?>> esclamo, fingendomi indignata. Poi, notando le patatine fritte che a nel piatto e che lui sta mangiando, il mio stomaco brontola, e mi ricordo che stamattina non ho neanche fatto colazione. E che ho una gran fame!
Lo guardo, con un sorriso furbo stampato sul viso. << E io mi prendo queste!>> esclamo, come una bambina, togliendogli il piatto da davanti e iniziando a mangiare le patatine.
<< Ehi!>> fa lui, provando a fingersi offeso, ma noto benissimo che si sta sforzando di non ridere. << Ridammelo!>> esclama, protendendosi in avanti nel vano tentativo di riafferrare il piatto. Io però lo scanso e ne mangio un’altra, sorridendo trionfante.
Lui sbuffa. << Ptf. Tienile. Tanto non mi piacevano neanche >> afferma, prendendo una pagnotta di pane e spezzandola a metà.
Io gli faccio un smorfia, e lui risponde allo stesso modo. Poi, ci mettiamo a ridere come due bambini.
Apro la bocca, per provare a dire qualcosa, quando qualcosa spunta fuori dal nulla e mi colpisce sulla schiena, facendomi un contraccolpo in avanti.
Quando mi rendo conto di avere i capelli e le spalle coperti di pezzi di carne, capisco che quella che mi è arrivata addosso era una polpetta. Una polpetta molto grossa.
Alzo, stupita, lo sguardo verso John, e vedo che un po’ è schizzato anche addosso a lui.
Mentre comincio a pulirmi, arriva una seconda polpetta volante, che colpisce John su la guancia.
Un mormorio di stupore si diffonde per tutta la mensa.
John irrigidisce la mascella. Si alza e si pulisce il viso con un tovagliolo, mentre noto un’espressione di rabbia dipingersi sul suo volto.
Devo ammettere che anch’io sento la rabbia scorrermi nelle vene.
John mi lancia una sola e semplice occhiata, ma con quella capisco ciò che vuole dire. “Questa non glie la lascio passare.”
Gira attorno al tavolo e fa per andare, ma io mi alzo di scatto, bloccandolo per un braccio. << No!>> esclamo, sorprendendomi di me stessa. << Non fa niente, lasciali stare. Se reagisci, non ti lasceranno mai in pace.>>
John non mi ascolta e comincia a camminare. Cala il silenzio nella mensa. Ha gli occhi di tutti puntati addosso. Il suo viso si fa torvo.
Al tavolo di Mark James ci sono quindici ragazzi, cioè la squadra di football al completo. Quando John si avvicina, tutti si alzano.
<< Hai qualche problema?>> gli chiede uno di loro. È grosso, e ha la corporatura da giocatore della linea d’attacco. Sulle guance e sul mento ha chiazze di peli rossicci, come se stesse cercando di farsi crescere la barba. Sembra che abbia la faccia sporca. Come tutti gli altri, indossa un giubbotto sportivo. Incrocia le braccia e gli si para davanti. Da come si comporta, credo proprio che lui non fosse presente ieri sera, e che molto probabilmente non sappia niente.
<< Questa faccenda non ti riguarda >> gli dice John, guardando Mark con un’occhiataccia. Questo deglutisce, ma non si scompone.
<< Dovrai vedertela con me, se vuoi arrivare a lui >> continua il pel di carota.
<< È proprio quello che farò, se non ti levi di mezzo.>>
<< Credo che non ci riuscirai >>, ribatte.
John gli assesta una ginocchiata all’inguine. A quello si spezza il fiato in gola e si piega in due. Tutti rimangono a bocca aperta.
<< Ti avevo avvertito.>> Lo scavalca e punta dritto verso Mark.
Qualcun altro, però, gli si para davanti, provando ad assestargli un pugno.
John, ovviamente, glie lo blocca a mezz’aria, con sua grande sorpresa. Un altro, stavolta un po’ più mingherlino, (per quanto mingherlino possa essere un giocatore di football), prova a tirargli un pugno da dietro. Lui lo nota con la coda dell’occhio, così porta avanti il corpo del primo, che riceve il pugno al posto suo. Poi spintona il corpo intontito di quello sul mingherlino.
Si volta, guardando con sguardo truce Mark, che fino ad ora ha assistito alla scena seduto.
Qualcuno gli da una gomitata. È Jessica, e io mi accorgo solo ora che al tavolo ci sono anche tutte le cheerleaders. << Coraggio, Mark >> esclama Jessica. << Fagli il culo.>>
Mark deglutisce, soppesando quell’affermazione. Sa benissimo che sarà il contrario. Però, a dispetto di ciò che pensavo, si alza e lo fronteggia.
John sorride, sorpreso. << Ti avevo avvertito, Mark.>> E stringe i pugni. So che sta per tirargli un pugno, quando noto qualcosa, o meglio, qualcuno.
È Tommy, che sta caricando un pugno pronto ad assestarlo sulla nuca di John. Lui, però, sembra non accorgersene, e continua a guardare Mark, come se potesse ucciderlo solo con lo sguardo.
Sento montare il panico. Lo colpirà di sicuro, e anche forte. Il panico si trasforma presto in adrenalina, ed io riesco ad urlare solo due semplici parole. << John! Giù!>> Poi parto alla rincorsa, raggiungendo il tavolo.
John si volta appena in tempo per vedere Tommy alzare il pugno.
Quello lo scaglia e lui si abbassa, nel tentativo di evitare il colpo.
Io mi posiziono fra i due e…
È incredibile. Anzi, impossibile!
Il pugno di Tommy è fermo a mezz’aria e chi l’ha bloccato sono stata proprio… io.
Da non credere.
Lui mi guarda sconvolto.
Improvvisamente, sento l’adrenalina scorrermi nelle vene, pomparmi nel cuore. Una morsa mi invade lo stomaco, e sento inspiegabilmente le gambe più resistenti, le braccia più forti.
Stringo di più sul suo pugno e sento di fargli male. Io!
Un’energia pazzesca mi invade, facendomi sentire più potente. Facendomi sentire… invincibile.
Lo guardo negli occhi, e ora so cosa fare.
Gli storco il braccio, e lui si piega per il dolore. Poi, con tutta la forza che ho, gli tiro una ginocchiata all’inguine, mozzandogli il fiato in gola. Lui stringe gli occhi e io gli lascio la mano, facendolo accasciare a terra boccheggiante, in cerca d’aria.
Un silenzio è piombato sulla stanza, e tutti sono a bocca aperta.
Mi guardo le mani, stupita, e sorrido. Non posso crederci. Come ho fatto a fare una cosa del genere?
Qualcuno mi afferra da dietro. Mi volto, con i pugni chiusi, pronta a colpire, quando all’ultimo secondo mi accorgo che è l’addetto alla mensa.
<< Basta così, ragazzi >>, intima l’uomo.
<< Mr Johnson, guardi che cos’hanno appena fatto ai ragazzi!>> dice Mark. Tutti e quattro sono ancora a terra, e sia Tommy che Pel di carota si tengono l’inguine con le mani. Sono rossi come un peperone. << Li mandi dal preside!>>
<< Taci, James! Ci andate tutti e sette. Non credere che non abbia visto i tuoi amici tirare le polpette >>, aggiunge Johnson. Poi, guardando quei quattro, che sono ancora sul pavimento, dice: << Alzatevi >>.
Tommy si alza e mi guarda. È ancora barcollante e fa ancora fatica a respirare. Si aggrappa alle spalle del ragazzo dietro di lui. << Te la farò pagare >>, biascica.
<< Ne dubito >> ribatto, con una sicurezza che non avrei mai creduto mia. Mi accorgo di essere accigliata e ricoperta di cibo. Ma non me ne frega niente.
Andiamo tutti e sette in presidenza.
Harris è seduto alla scrivania e mangia una pietanza da microonde, con un tovagliolo di carta infilato nel collo della camicia.
<< Mi scusi se la interrompo, signor preside >> dice l’addetto alla mensa. << Abbiamo avuto un piccolo disordine durante il pranzo. Sono sicuro che questi ragazzi saranno lieti di spiegarle tutto.>>
Il preside sospira, si toglie il tovagliolo dalla camicia e lo butta nel cestino. Col dorso della mano sposta la vaschetta del pranzo su un lato della scrivania. << Grazie, Mr Johnson.>>
L’uomo se ne va, chiudendo la porta della presidenza, e noi entriamo.
<< Allora? Chi vuole cominciare?>> chiede il preside. Ha le mascelle contratte. L’irritazione nella sua voce è palpabile.
I ragazzi cominciano a parlare freneticamente, accavallando le loro voci, nel tentativo di non passare dalla parte del torto. Ma, così facendo, non si capisce una parola di quello che dicono.
Faccio roteare gli occhi e vado a sedermi su una delle due poltrone che ci sono nell’ufficio, incrociando le braccia al petto. Ormai si può dire che questa poltrona è di mia proprietà.
Mentre gli altri continuano a parlare, non riesco a frenare l’impulso di guardarmi le mani.
Wow, è da tanto che non lo facevo. Me ne ero quasi dimenticata. Eppure, prima, mentre quella strana energia si impossessava di me, ho davvero avuto la sensazione che si stessero per illuminare. Ma perché, poi?
Comunque, non lo sono. Sono solo sudate. Strizzo gli occhi. Cavolo! Lo sto facendo di nuovo! Sto iniziando di nuovo a credere che quelle luci fossero vere.
Poggio i palmi sui jeans e me li asciugo.
Dopo alcuni secondi, il preside batte un pugno sul tavolo, e gli altri tacciono.
Lui fa cenno a Mark con il capo, dandogli la possibilità di parlare per primo.
<< Signor preside >> comincia infatti lui. << Qualcuno ha colpito questi due con una polpetta. Lui pensa che sia stato io e ha dato una ginocchiata nelle palle di Brody.>>
Trattengo a stento una risata. Brody? Davvero quel ragazzone grande e grosso si chiama Brody?
<< Modera il linguaggio >> dice il preside. Poi si rivolge a Brody. << Tutto a posto?>>
Lui annuisce, ancora rosso in viso.
<< Allora, chi ha tirato la polpetta?>> chiede Harris, rivolto a John.
Lo guardo. È ancora in ebollizione e so che è ancora irritato dall’intera faccenda. Fa un respiro profondo. << Non lo so >>, risponde, infine.
Dentro di me, so che è convinto che sia stato uno degli scagnozzi di Mark, e ne sono convinta anch’io. Ma, effettivamente, nessuno di noi due ha visto chi è stato a lanciare quella polpetta, e anche se John aveva giurato di prendersela con Mark qualunque cosa i suoi amici ci avessero fatto, questi non sono esattamente il genere di episodi che bisogna raccontare a un preside.
Harris alza le mani per la frustrazione. << Beh, allora che diavolo ci fate qui?>>
<< È una buona domanda >> dice Mark. << Stavamo semplicemente pranzando.>>
<< Non è vero, è stato uno di loro!>> esclamo, prendendo parola. Non so chi, perché la prima volta ero di spalle e la seconda ero indaffarata a pulirmi, ma sono sicura di quello che dico.
Mark mi guarda torvo. Poi si rivolge al preside. << Per favore, Mr Harris >> implora. << Domani ho l’intervista con il New York Times e venerdì la partita. Non ho tempo di preoccuparmi di stupidaggini come questa. Mi accusano di qualcosa che non ho commesso. È difficile mantenere la concentrazione in mezzo a tutte queste stronzate.>>
<< Bada a come parli!>> grida il preside.
<< È la verità.>>
<< Ti credo >> dice il preside, con un profondo sospiro. Poi guarda gli altri quattro, che fanno ancora fatica a respirare. << Avete bisogno di andare in infermeria?>>
<< No, stiamo bene >> risponde il mingherlino, che ha avuto la meglio.
Il preside annuisce. << Va bene, potete andare.>>
Io mi alzo dalla poltroncina e ci avviamo tutti verso la porta, quando il preside alza una mano. << Una cosa non ho capito >> dice, corrucciando le sopracciglia. << Chi ha colpito Tommy?>>
Io e John tratteniamo una risata, mentre Tommy mi guarda torvo. Il preside sembra capire, perché ride. << Ahah, però. Valeri! Non ti credevo capace di tanta violenza!>>
A questo punto non trattengo più le risate.
Harris lascia passare con un gesto della mano. << Coraggio, andate via. Facciamo finta che non sia successo niente. E tu, Mark, concentrati. È da un bel po’ che cercavo di ottenere questo articolo. Può darsi che ci mettano anche in prima pagina! Pensa, la prima pagina del New York Times!>> esclama, sorridendo.
<< Grazie, anch’io sono entusiasta >> dice Mark.
<< Bene, ora potete andare.>> I ragazzi della squadra di football escono. Facciamo per uscire anche noi, ma il preside ci ferma. << Non voi due >> dice.
Sia io che John ci blocchiamo, voltandoci a guardarlo. Lui ci fissa con severità. << Vi rendete conto di quello che avete appena fatto?>>
Io inarco un sopracciglio, stupita. << Sta scherzando, vero?>>
<< Siete davvero così sicuri che siano stati loro a lanciarvi quella polpetta?>>
Io e John ci guardiamo. << Si >> rispondiamo all’unisono.
Harris scuote la testa. << E così qualcuno ha tirato una polpetta…>>
<< Due!>> esclamo io.
<< Cosa?!>> sbotta Harris, fulminandomi con lo sguardo. << Due polpette?!>> Il preside batte un pugno sul tavolo. << Che importa quante polpette erano! Vi sembra il motivo giusto per iniziare una rissa? Una rissa, per giunta, dove menate solo voi!>>
Io e John ci guardiamo, ma non diciamo niente.
<< Vi rendete conto della gravità del fatto?>>
<< Si >> risponde John. Harris è rosso in viso e sappiamo entrambi che non ha senso discutere. Io non rispondo comunque.
Il preside scuote la testa. << Mi dispiace, ragazzi, ma sono costretto a punirvi.>>
Io sgrano gli occhi, basita. << Ma… >> inizio a dire, ma lui mi interrompe.
<< Ma…>> fa John, ma riceve lo stesso trattamento.
<< Non voglio sentire nessun “ma”.>> Fa una breve pausa, aggrottando la fronte pensieroso, poi continua. << Pulirete la sala mensa >> afferma.
Sgrano gli occhi, scioccata. Apro la bocca per controbattere, ma le parole mi muoiono in gola.
John risponde al posto mio. << Ma, preside Harris, non è giusto! Non può costringerci a pulire la sala mensa per una cosa del genere… >>
<< Oh, posso eccome!>> esclama il preside. << Avvertirò il signor Johnson di tenervi d’occhio. E ora basta, andate. Non voglio rivedervi qui dentro. Siete congedati.>>
Sono ancora a bocca aperta per la sorpresa. Davvero? Stiamo scherzando? Io devo pulire la sala mensa perché qualcuno mi ha tirato una polpetta sporcandomi tutti i vestiti? Roba da non credere…
Usciamo dalla presidenza, senza dire una parola.
Solo quando è abbastanza vicino, mi rendo conto che Mark ci sta venendo incontro.
<< Ora mi sente… >> mormora John, percorrendo a pugni chiusi i pochi metri che lo separano da lui.
<< No, no! Aspetta!>> esclama Mark, gesticolando in avanti con le mani. << Non sono qui per dirvi niente, volevo solo chiarire una cosa.>>
<< Sarà meglio che ti muovi, prima che ti rompa i denti.>>
<< Ehi, ascolta. Io non centro con quello che è successo il sala mensa! Sono stati Brody e Tommy a lanciare quelle polpette! Io gli avevo detto di non farlo, ma loro non mi hanno ascoltato.>>
<< Ti avevo avvertito del fatto che se i tuoi amici ci avessero fatto qualcosa me la sarei ripresa con te.>>
<< Si, però ascolta. Tommy e Brody non erano presenti quando ci hai… scaraventato tutti nel lago >> continua Mark, con voce tremante. << Io… io sapevo che era sbagliato che loro tirassero quelle polpette, e gli ho detto di non farlo, ma loro… loro non mi hanno ascoltato. Le hanno lanciate e hanno fatto finta di niente. Loro non sanno quello che è successo. E non lo devono sapere. Chiaro?>>
John aggrotta un attimo la fronte, pensieroso. << Non glie l’hai detto?>>
Mark scuote con vigore la testa. << Oh, no. Certo che no! Non potrei mai! Che figura ci farei, con la mia squadra, se sapessero che mi sono fatto mettere a tappeto da un pivellino del terzo anno?>>
Sorrido, e sorride anche John. Poi torna a guardare Mark. << Va bene >> concede, con un sospiro. << Ma che sia l’ultima volta.>>
Mark annuisce con veemenza, contento. << Puoi contarci! Nessuno di noi vi darà più fastidio! Lo giuro >> esclama, mettendosi una mano sul cuore e alzando l’altra.
John lo squadra per un secondo, poi gli fa cenno col capo. << Va via >> dice, serio.
Mark non se lo fa ripetere due volte e gira sui tacchi, sparendo nel corridoio.
A questo punto, John si gira verso di me.
Lo guardo un secondo negli occhi, fulminandolo con lo sguardo, le braccia incrociate. Poi, appena fa un passo verso di me, aprendo la bocca per parlare, giro sui tacchi e mi dirigo a passo svelto verso la mensa. John mi segue.
<< Valeri!>> grida, nel tentativo di farmi fermare. Io, però, continuo a camminare, almeno fin quando lui non mi raggiunge e non mi afferra un braccio, costringendomi a voltarmi.
<< Valeri, senti, mi dispiace. Io… >> comincia.
<< Non voglio sentire spiegazioni >> lo interrompo, brusca. Ci guardiamo un attimo, in silenzio. Poi io sbuffo per la frustrazione. << Oh, ma insomma, John! Che ti è saltato in mente?! Ti avevo detto di lasciarli perdere. Ma tu, no. Devi sempre fare la parte del duro, vero?>>
<< Gli avevo detto di lasciarci stare, e loro non mi hanno ascoltato >> prova a giustificarsi.
<< Beh, non ti ha ascoltato neanche il preside, però. Per colpa tua ora dobbiamo pulire tutta la mensa!>>
John mi guarda, amareggiato. << E dai, ti ho già chiesto scusa… >> mormora.
<< Non mi servono le tue scuse >> ribatto, risoluta, incrociando le braccia al petto. Poi, notando la sua espressione triste, mi sciolgo. << A meno che queste non ci evitino questa punizione >> aggiungo.
John accenna un sorriso. Molto probabilmente ha capito che non sono così arrabbiata come voglio far credere. Accidenti a me e alla mia debolezza!
Fa un passo avanti, eliminando le distanze che c’erano fra noi. Continua a sorridere. << E dai, ti ho chiesto scusa >> ripete. Mi afferra i fianchi e poggia lo fronte sulla mia tempia. << Mi perdoni?>> Mi sento avvampare, e sento il suo respiro caldo accarezzarmi la pelle. Mi sfiora la guancia con il naso.
E no. Questo è sleale! Non può fare così. Altrimenti io cedo…
Sospiro. << Va bene >> dico, facendo roteare gli occhi. Mi volto a guardarlo. << Ma sono comunque arrabbiata >> aggiungo, puntandogli un dito sul petto.
Lui sorride, perché sa che non è così. Lo sappiamo entrambi.
Si china leggermente per baciarmi, ma io gli metto una mano davanti al viso, facendogli baciare quella.
<< Prepara una paletta >> gli dico, mentre lui mi fissa, non capendo. << E anche uno straccio e un secchiello. Hai un sacco di lavoro da fare, e poi ci sono anche le gomme da scrostare sotto i tavoli.>>
Lui mi guarda, sconvolto. << Cosa…?>>
Sorrido, malandrina. << Tuo il danno, tua la punizione >> affermo. Mi sciolgo dall’abbraccio e mi dirigo a passo svelto verso la mensa. Lui mi segue.
<< E tu che farai, scusa?>> chiede.
Sorrido. << Beh, io ti guarderò pulire mentre mangio qualche patatina. Sai, ho una fame da lupi!>>
Aspetto qualche secondo, per dargli il tempo di metabolizzare l’informazione.
Quando lo sento dire: << Cosa? Valeri, aspetta… >> inizio una leggera corsetta, sorridendo divertita.
Lui mi segue, preoccupato, nel tentativo di dissuadermi da quell’affermazione.
Ma io ho fame. Oh, se ho fame!

Angolo Scrittrice
Holaa!! Come va, bella gente? *ammicca* ;D
Visto?, oggi l'angolo scrittrice è tutto celeste! Uh, che figo.
Che pello, sono riuscita a pubblicare prima del previsto! Oh, wow! Che soddisfazione!
Beh, che ve ne pare di questo capitolo? Vi è piaciuto?
Valeri ha fatto una vera figura di cacca con John! Muahahah! Poverina...
Vabbè, non ho niente di importante da dirvi, se non di commentare. Vero che me lo lasciate un commentino? *w* Pleasee!
Bello o brutto che sia, non importa. Sono qui per imparare e per migliorare. Certo, se è bello è meglio, ma vabbè, dettagli...
Ahah, sto scherzando! Commentate!
Mi scuso in anticipo con WingsFly se questo non è il capitolo che si aspettava... Scusa, cara! Spero che non ci sia rimasta male e che questo capitolo ti sia piaciuto comunque D: Mi dispiace...
Vabien, me ne vado. Ho fame. Cioè, non me ne vado perchè ho fame, perchè in realtà io ho sempre fame. Quindi se me ne andassi sempre perchè ho fame non avrei mai tempo di stare qui. Cioè, me ne vado perchè...
Oh! Vabbè. Avete capito -.-
Un bacio! ;*
Ciao! ^w^

La vostra
ValeryJackosn

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Capitolo 19
*** Capitolo 18/Parte due ***


Torno a casa letteralmente sfinita.
Quando siamo arrivati nella mensa, il signor Johnson ci ha squadrato per bene. Credo anche di averlo visto sorridere, mentre ci affibbiava gli incarichi da svolgere.
<< Non dimenticare le gomme sotto il tavolo >> ha ghignato, mentre mi porgeva la paletta.
È stata di sicuro l’esperienza più nauseante della mia vita. È incredibile quanto i ragazzi, a quest’età, siano capaci di sporcare una sala in cui, in teoria, si dovrebbe solo mangiare, e che dovrebbe essere perfettamente pulita.
Fazzolettini sporchi e gomme da masticare si alternavano continuamente sotto i tavoli, mentre schizzi di cibo erano sparsi dappertutto.
Io e John ci siamo divisi i compiti. Io mi occupavo dei tavoli, mentre lui pensava a scrostare dal muro i pezzi di cibo putrefatti che stavano attaccati lì da chissà quale anno.
Credo che i ragazzi abbiano un serio problema con le gomme da masticare. Ne mangiano in continuazione, di tutti i gusti e di tutti i colori. Poi, quando il gusto finisce o quando si sono stufati, non sanno più dove metterle, e mi sembra giusto attaccarle sotto i tavoli.
Che schifo! Lì c’era un cimitero. Sotto uno ne o contate addirittura 79!
Bleah!
A questo punto ho paura di guardare sotto i banchi.
Credo, comunque, che l’addetto alla mensa ce l’abbia con noi. È stato tutto il tempo lì, seduto dietro il bancone, con il giornale in mano a leggere i fumetti di topolino. Poi, ogni tanto, ci guardava e rideva.
Avrei tanto voluto disintegrarlo. Capisco che tu voglia vendicarti di tutte le angherie che ti facciamo passare, ma addirittura ridere di noi!
Avrei potuto benissimo rompergli il naso. Ultimamente ho scoperto che ne sono capace.
Entro in casa e mi chiudo la porta alle spalle, non preoccupandomi minimamente se questa faccia rumore o no. Sono stanca, e tutto ciò che voglio, in questo momento, è chiudermi in camera mia e buttarmi sul letto.
Mi avvio verso le scale quando Mary esce dalla cucina. Ha le mani sporche di farina, e dall’odore presumo stia cucinando una torta.
<< Come mai così tardi?>> mi chiede, inarcando un sopracciglio.
Mi blocco un attimo. Io e John abbiamo deciso di non dire niente ai nostri genitori. Non so come reagirebbe suo padre, ma sono più che sicura che se Mary scoprisse quello che ho fatto oggi diventerebbe una furia.
Scrollo le spalle. << Io e John ci siamo fermati un attimo in biblioteca. A lui servivano dei libri e io volevo fare un giro.>> Bene. Mi sembra una scusa abbastanza credibile.
<< Mh-mh >> borbotta Mary, squadrandomi con sospetto.
Oh, no. Riconosco quell’espressione. Non mi crede. Sarà meglio che vada in camera mia prima che…
<< Sai, sono venuta a prenderti, oggi, a scuola >> esordisce. Mi blocco a metà rampa di scale. Chiudo gli occhi. Oh, cavolo! << Ho incontrato il preside Harris. Ha detto di avervi messo in punizione… >>
Mi volto di scatto, guardandola. << Senti, Mary… >> dico, scendendo piano le scale. << Posso spiegarti tutto… >>
<< Hai menato un ragazzo, Valeri!>> esclama, con rimprovero, la voce piena di rabbia, le sopracciglia aggrottate.
<< Se lo meritava!>> provo a difendermi. << Lui… lui… mi ha lanciato una polpetta!>>
<< Non è un buon motivo per fare a botte!>> ribatte lei. In questo momento mi accorgo che nella sua voce non c’è soltanto rabbia. C’è anche… paura. Quasi panico. Sembra quasi… preoccupata. Ci guardiamo negli occhi, per qualche secondo, in silenzio. Poi, il grosso solco che si è formato sulla sua fronte si stende, e la sua espressione sembra addolcirsi. Sospira. << Comunque, non è per questo che ho aspettato che tornassi >> dice. Poi, notando che io non rispondo, mi fa cenno di entrare in cucina. Io obbedisco, troppo stanca per farla arrabbiare di nuovo. Una volta dentro, lei mi indica una sedia con un cenno del capo. << Valeri, siediti, per favore.>>
Inarco un sopracciglio, guardandola scettica. << Cosa? Perché…?>>
<< Devo dirti una cosa.>>
La fisso per qualche secondo. Sono troppo curiosa, quindi mi dirigo verso la sedia e mi siedo. Lei si siede di fronte a me.
<< È  successo qualcosa?>> chiedo, un po’ preoccupata.
Lei scrolla il capo. << Valeri, voglio che tu sappia che, se tu non sei d’accordo, io annullo tutto. Immediatamente. Voglio solo che tu sia felice, lo sai, e se la cosa ti mette a disagio… >>
La guardo, senza capire. Ora sto davvero iniziando a preoccuparmi. << Perché? È successo qualcosa di grave?>>
<< No, no >> mi tranquillizza lei, scuotendo la testa e accennando un sorriso. << È solo che… >> si interrompe e mi guarda. I nostri occhi si incontrano, e lei aspetta qualche secondo in silenzio, prima di parlare. << Quando sono venuta a prenderti, oggi, c’era anche il padre di John. Abbiamo incontrato il preside Harris, e lui ci ha detto quello che avevate fatto. Eravamo molto arrabbiati, tutti e due. E non nego di non esserlo tutt’ora. Comunque, quando il preside se né andato, noi siamo rimasti soli, così… abbiamo pensato di andarci a prendere un gelato. E poi, sai com’è, abbiamo parlato, abbiamo chiacchierato, abbiamo scoperto di avere molte cose in comune e… e lui mi ha invitato a cena.>> Sospira. << E io ho accettato.>>
Mi guarda un attimo, aspettando che io metabolizzi tutte le ultime informazioni. Aggrotto la fronte. << Quindi… >> esordisco, dopo un po’. << Tu e Harry dovreste uscire insieme?>>
Lei annuisce. << Questa è l’idea.>> Mi guarda, titubante. << Tu che ne pensi?>>
<< Io che ne penso?>> mormoro. << Io che ne penso?!>> esclamo, con più rabbia. La guardo negli occhi, poi sorrido. << Penso che sia una notizia fantastica!>> urlo, con tutto il fiato che ho in gola. Mi alzo di scatto e corro ad abbracciarla più forte che posso.
Lei mi guarda, scioccata. << Non… non sei arrabbiata?>>
<< Arrabbiata? Scherzi? È la notizia più bella che potessi darmi. Finalmente hai trovato un uomo perfetto per te, un uomo che ti faccia sentire bene. Lui ti fa sentire bene, giusto?>>
Mary sorride, sognante. << Si.>>
Le sorrido anch’io e ci abbracciamo un’altra volta.
Sono commossa, vorrei quasi piangere. Piangere per lei, perché sono felice. Sono felice che finalmente sia riuscita a cucirsi uno spazio nella vita sociale. Sono felice nel vedere quel luccichio brillare nei suoi occhi quando parla di Harry. Sono felice.
Sospiro. No, devo darmi un tono. Lei non può vedermi così.
Sciolgo l’abbraccio e mi asciugo una lacrima con il dorso della mano, anche se questa, in realtà, non è riuscita a scendere.
<< Bene >> dico. << Andiamo a trovarti un vestito elegante.>>
<< Cosa? Un vestito elegante? Perché?>> chiede lei, alzando le sopracciglia, sorpresa.
Io inarco un sopracciglio. << Non penserai mica che io ti faccia andare ad un appuntamento galante vestita così, vero?>> dico, indicando gli abiti che indossa. La prendo per mano e la trascino su per le scale, dirette in camera sua.
Mentre saliamo, afferro il telefono dalla tasca posteriore. Qui serve l’aiuto di un’esperta.
Qui serve l’aiuto di Mia.
  
Angolo Scrittrice
Ciao!
Ok, ora vi spiego tutto, non linciatemi.
Dunque... avevo già pensato di scrivere questa cosa. Volevo scriverlo come un capitolo vero e proprio, ma poi, alla fine, è uscito troppo corto. So già che è troppo corto per essere un capitolo vero e proprio, così ho pensato: Perchè non aggregarlo al precedente? Ma, rileggendo quello, mi sono accorta che è già abbastanza lungo, e che se poi aggiungessi ancora qualcosa diventerebbe... noioso, vi pare? Così l'ho diviso in due parti. Facciamo finta che questo sia ancora il capitolo diciotto, così che chi vuole può leggerli tutti insieme e chi no può leggerli staccati, e non è obbligato a leggerli tutti d'un fiato per capirci qualcosa ;)
Vabbè, comunque... che ve ne pare? Piaciuta l'idea? Mi è sembrato carino, dopo Valeri e Mia, dare una piccola vita sentimentale anche a Mary, che se lo merita ;) Chissà come andarà questo appuntamento... eheh
Me lo lasciate un commentino, vero? Vi pregoo...! *w*
Vi adoro! Grazie a tutti voi che in questo momento state leggendo questo stupido angolo autrice, perchè significa che state seguendo ancora la mia storia!
Un bacione e scusate ancora per questo piccolo... inconveniente ;)
Caio!
La vostra
ValeryJackson

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


Poggio la schiena contro la porta del bagno.
Mia se né andata circa mezz’ora fa. Dopo che ci ha aiutato a scegliere il vestito perfetto per Mary ci ha detto di avere un appuntamento con Matt, quindi l’ho lasciata andare. Credo che ora stiano ufficialmente insieme. Boh, non so.
Comunque, Mary è qui che si cambia in bagno. Mi ha chiesto di aspettarla per il corridoio, perché voleva che fosse una sorpresa, e lì per lì ho accettato. Ma adesso l’attesa sta diventando snervante. Insomma, è lì dentro da venticinque minuti!
Finalmente, dopo circa un quarto d’ora, si decide ad uscire.
La osservo. Io e Mia abbiamo optato per un vestito acquamarina, corto fino al ginocchio, semplice, con scollatura all’americana. Mia le ha consigliato di abbinarci uno scialle di velo blu, così io le ho prestato le mei scarpe blu laccate con tacco. Tanto io non le uso mai. Infine, lei ha deciso di lasciare i capelli sciolti, rendendoli solo un po’ mossi, e di infilarci una fermaglio con un fiore dello stesso colore delle scarpe. Il trucco leggermente accennato.
La guardo ed è… perfetta.
Sorrido, trionfante, quando noto un’espressione d’attesa sul suo viso. << Sei bellissima >> dico, contenta.
Lei sorride, raggiante, e corre in camera per guardarsi allo specchio. Io la seguo a ruota e, una volta lì, mi perdo nel suo riflesso. Vorrei essere come lei. Così tosta, ma allo stesso tempo così femminile. Chiunque la guardi non penserebbe mai che sia capace di infilarti uno di quei tacchi dritti nello stomaco. Eppure, fidatevi, lo farebbe!
Sento il rumore di una portiera che sbatte e pochi secondi dopo qualcuno picchia al campanello.
<< Coraggio >> le dico, sorridendo e indicando con un cenno del capo le scale. << Il tuo principe azzurro è arrivato.>>
Lei mi sorride, riconoscente, poi si fionda giù per le scale. Apre la porta e sorride.
<< Ciao Harry >> saluta, fingendo non calanche.
<< Ciao Mary >> saluta lui, con un gran sorriso. Poi mi nota e mi fa cenno con il capo. << Ciao Valeri.>>
Li punto un dito contro, squadrandolo. << La voglio a casa per le undici, chiaro?>>
Lui ride e annuisce. << Ok.>> Poi, da vero gentiluomo, sporge una mano in fuori, facendo uscire prima Mary e poi seguendola fuori. Li guardo mentre si avviano per il vialetto, e, quando Mary mette un braccio sotto quello di Harry, non posso fare a meno di sorridere.
<< E va bene, dai. Facciamo anche mezzanotte!>> gli grido, ridendo da sola e chiudendo la porta.
Una volta sola in casa, faccio per avviarmi in cucina e prendere qualcosa da mangiare, dato che è quasi ora di cena, quando in telefono nella mia tasca vibra.
Lo prendo e guardo il display. È arrivato un messaggio di John. Lo apro, con un sorriso.
“SEI IN PIGIAMA?”
Aggrotto la fronte, stupita. Mi guardo. Indosso ancora i vestiti che avevo questa mattina a scuola. Un paio di jeans e una felpa grigia. Gli rispondo. “NO”
Dopo qualche secondo arriva un altro messaggio. “FANTASTICO. PREPARATI, VENGO A PRENDERTI FRA DIECI MINUTI”
“COSA? PERCHE’?”
Devo aspettare un po’, prima di ricevere una risposta. “E’ UNA SORPRESA”
Poso il telefono e mi guardo. E vado nel panico. Non posso farmi vedere così! Le scarpe sono scorciate, e la maglietta è ancora sporca di sugo! E i miei capelli…Oh, cavolo!
Senza pensarci corro su per le scale e mi fiondo in camera mia, cacciando tutti i vestiti dall’armadio e buttandoli sul letto. Inizio a frugare nei cassetti in cerca di qualcosa da mettermi. Afferro un pantalone e una maglietta e corro in bagno. Mi lavo, mi pettino, mi trucco, tutto con una velocità che non credevo di possedere. Prendo un paio di scarpe nere laccate con tacco dall’armadio di Mary, le infilo e mi guardo allo specchio. Indosso una canotta lunga fin sopra il ginocchio, fucsia, con la scritta nera “Normal in boring”; dietro, completamente di pizzo nero; e un pantalone di pelle nero lucido. I capelli sono ok, il trucco pure. Il campanello suona. Sospiro. Giusto in tempo.
Afferro al volo un giubbino di pelle, anche questo nero, e corro giù per le scale.
Apro la porta.
<< Ciao >> mi saluta John, sorridendomi.
Sorrido anch’io. << Ciao.>>
Lui mi guarda. << Sei bellissima.>>
Faccio una smorfia. << Sei stato fortunato che mi ero già vestita prima. Non puoi chiamare una ragazza e darle solo dieci minuti di tempo per prepararsi!>> esclamo, dandogli un leggero pugno sul braccio.
Lui ride. << Hai ragione, scusa.>>
<< Beh, dove mi porti?>>
Lui sembra ricordarsi all’improvviso del motivo per cui è qui e si sposta dalla porta, permettendomi di uscire sul vialetto. << Te l’ho detto, è una sorpresa >> dice, mentre ci incamminiamo.
Storco in naso, curiosa. << Non mi piacciono le sorprese.>>
Lui ride. << Credimi, questa ti piacerà. Solo che ci metteremo un po’ per arrivarci.>>
Mi guardo intorno, distrattamente. << Ok. Dov’è la macchina?>>
John non risponde e si gratta la nuca, imbarazzato. Dopo un po’ parla. << In realtà… Non ho la macchina. Sai, l'ha presa Harry. Così mi sono dovuto arrangiare.>>
Mi fermo e inarco un sopracciglio. << Con cosa?>>
Lui continua a camminare prima di fermarsi accanto ad una bicicletta gialla e rossa. << Con questa >> esclama, montandoci sopra.
La guardo per un secondo, poi trattengo una risata. << Sei venuto a prendermi con una bicicletta?>>
Lui si passa una mano fra i capelli, a disagio. << Beh, si.>> Non sa cos’altro dire.
Aspetto qualche secondo in silenzio, guardandolo arrossire per l’imbarazzo, poi sorrido e lo raggiungo. << Sei fortunato che adoro le biciclette, mio caro >> dico, facendo spallucce.
Lui ride e rido anch’io. Mi fa cenno con il capo. << Su, monta >> mi incita. Io sorrido e mi siedo sul tubo superiore della bici. Lo guardo negli occhi blu, e mi ci perdo dentro. Era da tanto che non li osservavo così da vicino. Di questo blu intenso, striati da delle venature più chiare che mi fanno impazzire.
Lui mi sorride, prima di mettere i piedi sui pedali e partire.
Poggio le mani sull’attacco del manubrio, mentre un lieve venticello mi sfiora il viso e i capelli. All’inizio la partenza è un po’ traballante, ma poi prendiamo l’equilibrio giusto e ci muoviamo con più facilità.
Attraversiamo tutta la città, fra una risata e l’altra, quando ad un tratto il paesaggio cambia. Non ci sono più palazzi, ma fitti alberi che vanno piano piano aumentando. Capisco che ci troviamo in periferia.
<< Dove stiamo andando?>> chiedo, aggrottando la fronte, curiosa.
John sorride ma non mi risponde, continuando a pedalare. Io sbuffo. Odio quando fa così! Perché tutto questo mistero?
Finalmente, dopo un po’, la bicicletta comincia a rallentare. John devia per una stradina brecciata, e la bicicletta traballa un po’ su quel terreno. Poi, si ferma.
Alzo lo sguardo. Siamo davanti ad una casa. Una villetta, oserei dire. Non è molto grande, e fuori è tutta rovinata. Dà quasi l’idea di cadere a pezzi. Alcune tegole sono sparse sull’erba insieme ad alcune casse di legno. Parte del tetto sembra essere stata bruciata.
Aggrotto la fronte. Sono quasi convinta che John abbia sbagliato strada, quando lui scende dalla bicicletta. Io lo imito. Lui non si preoccupa neanche di mettere il cavalletto, e la fa cadere a terra.
Mi afferra la mano e mi trascina verso la porta. Continuo a guardarmi intorno, con circospezione, e mi accorgo che quella è l’unica casa nell’arco di cinque miglia. Siamo completamente isolati.
Inarco un sopracciglio. << Che ci facciamo qui?>> chiedo. Poi, non ricevendo risposta, continuo. << Non avrai mica deciso di uccidermi, vero?>>
John ride, scuotendo leggermente la testa. << No. Valeri… >> dice, aprendo la porta. << Benvenuta in casa mia.>>
Apro la bocca, sorpresa. Questa… questa è veramente casa sua? Casa sua?!
Mi sembra strano da credere. Non so, è che avevo sempre immaginato John in una casa gigante, con giardino e piscina incorporata, con tutti i confort e tutte le tegole al loro posto. Non so perché. Ma qui? Questa non riuscirei a definirla nemmeno una casa.
Lui mi fa cenno con la testa di entrare, e io obbedisco, titubante. Ho quasi paura di vedere il resto.
Ma rimango sorpresa. Dentro è totalmente diversa. Il salotto e la cucina sono un’unica stanza, separate solo da un muro, e, mentre il salotto è riempito con dei mobili di mogano e un divano di pelle bianca che devo dire stona con tutto il resto, nella cucina è tutto, completamente bianco, e dei fornelli e un frigo enorme fanno da cornice all’enorme postazione da lavoro che funge anche da tavolo che sbuca dal pavimento giusto al centro della stanza.
C’è anche un altro piano, che si raggiunge salendo una scalinata di legno scuro.
Un flebile “wow” esce dalla mia bocca senza che io riesca a controllarlo. John si posiziona al mio fianco, e con la coda dell’occhio vedo gli angoli della sua bocca alzarsi.
Lo guardo, sorpresa. << Questa è davvero casa tua?>>
John annuisce, fissando un punto indefinito davanti a sé. << Già >> sussurra. Poi sembra riprendersi, mi guarda e mi fa cenno con il braccio di precederlo. << Vieni, di qua >> dice, indicando la cucina. Si avvia e io lo seguo.
Davanti il piano da lavoro, noto con piacere che c’è un piccolo tavolo, che mi era sfuggito prima. È apparecchiato per solo due persone, con una tovaglia bianca e dei calici di vetro. A centro tavola, un piccolo candelabro acceso.
John sposta una delle due sedie. << Mademoiselle >> esclama, facendomi cenno di sedermi.
Lo fisso un attimo, stupita, mentre come un automa vado a sedermi. << Torno fra un secondo >> mi dice, sparendo nel salone. Io fisso l’argenteria che c’è sul tavolo. Posate d’argento, bicchieri che sembrano leggerissimi e capaci di essere rotti anche solo con un soffio, due rose posizionate in un piccolo vaso accanto al candelabro. Ne prendo una e l’annuso. Non posso crederci…
John torna, con una bottiglia in mano. << Gradisce del vino, Madamigella?>> chiede, e, senza aspettare risposta, versa il liquido rossastro nei due calici davanti a me. Poi lo posa e si siede.
Prendo un bicchiere, circospetta, e lo annuso inarcando un sopracciglio.
<< Sta tranquilla, non è vino vero >>  mi tranquillizza John, ridendo. << È solo succo di prugna. Ma se l’avessi detto così, sarebbe sembrato ridicolo.>>
Sorrido e poso il bicchiere. Continuo a guardarmi intorno. << Davvero hai fatto tutto questo, per me?>> chiedo, ancora sconvolta.
John sorride. << E non hai ancora visto tutto >> afferma, facendomi l’occhiolino e alzandosi. Io riprendo il mio bicchiere e assaggio un sorso di quel succo di prugna. << Ho preparato la cena!>> esclama, facendomi andare di traverso il succo. Mi porto una mano alla bocca per evitare di sputare.
<< Tu… Cosa?>> Ma non riesco ad ottenere risposta. John rientra con due piatti in mano. Ne posiziona uno davanti a me e si risiede.
<< Tomino allo speck con mele al ginepro >> esclama, sorridente.
Guardo prima il piatto, poi lui. Poi di nuovo il piatto. Poi di nuovo lui. << Stai scherzando, vero?>>
Lui scuote la testa. << No, ho cucinato tutto da solo >> afferma. Incrocia le braccia. << Coraggio, assaggia. Sono curioso di sapere cosa ne pensi >> dice, incitandomi con un cenno del capo.
Afferro la forchetta, titubante, e inarco un sopracciglio, prima di affondarla in quella specie di involtino al formaggio. Lentamente, lo assaggio.
Sgrano gli occhi, sorpresa. << Cavolo, John, ma è buonissimo!>> esclamo, portandomi una mano alla bocca per non far vedere ciò che c’è dentro.
John ride. << Non lo dici solo per farmi contento, giusto?>>
Scuoto la testa. << No, certo che no!>> Prendo un’altra forchettata. << Cavolo, è delizioso!>>
Lui prende una forchetta e lo assaggia. Corruccia le sopracciglia e annuisce. << Si, non è niente male >> ammette.
Lo guardo, stupita, e sorrido. << Sei incredibile >> gli dico.
Lui abbassa lo sguardo, imbarazzato, e sorride riconoscente. Poi prende un’altra forchettata. << Su, mangiamo, prima che il resto si raffreddi >> mi incita.
Io rido e obbedisco.
Continuiamo a mangiare, fra una risata e l’altra. Quando finiamo il tomino, John porta un risotto ai petali di rosa delizioso e, dopo, una frittata di spinaci con ostriche gratinate. Non posso fare a meno di sorridere, quando noto che la frittata è a forma di cuore. Che dolce…
Infine, quando abbiamo finito anche quella, e quando credo di aver già mangiato il meglio, mi sorprende ancora, presentandosi con due dolcetti al cioccolato con cuore fondente e lamponi. Si squagliano in bocca!
Finiamo di mangiare i dolci. John lo finisce prima di me, così mi osserva in silenzio, mentre io mangio il mio.
Quando anch’io finisco, lui si alza e mi porge la mano. << Vieni >> dice. Mi pulisco rapidamente gli angoli della bocca e lo seguo, sorridente. Le nostre dita di intrecciano mentre ci dirigiamo in salone. Una volta lì, John mi lascia al centro della sala, proprio davanti al divano, e si dirige verso lo stereo accanto alla televisione. Lo accende, e una leggera musica lenta si diffonde nell’aria.
John torna da me e mi porge la mano. << Posso avere questo ballo?>> Sorrido, prendendogli la mano. Lui me la stringe e mi attira lentamente verso di se, avvolgendomi i fianchi con l’altro braccio.  Un brivido mi corre lungo la schiena, e io affondo il viso nell’incavo del suo collo, facendomi cullare dal suo profumo. Per un secondo, vorrei restare così. Qui, a farmi coccolare, in quest’abbraccio che riesce a infondermi tutta la sicurezza che mi manca.
Continuiamo a ballare per un tempo che sembra indefinito, quando sento John sorridere contro la mia guancia.
Lo guardo negli occhi. << Che c’è?>> chiedo.
Lui scuote la testa in modo impercettibile, continuando a sorridere, poi fa intrecciare le nostre dita. << Vieni con me >> sussurra contro il mio orecchio.
Io lo seguo senza fare domande, e lui mi porta fuori, e poi sul retro della casa. Non capisco cosa vuole fare fin quando non vedo una decina di casse di legno ammassate una sopra l’altra, in modo da formare una piccola piramide.
Lui ci si arrampica e mi porge la mano. << Dai, sali.>> Sorrido, compiacendomi di quanto ancora riesca a sorprendermi, e afferro la sua mano, facendomi tirare su. Poi lui incrocia le dita delle mani e si piega leggermente. Non so esattamente che cosa abbia in mente, ma ci metto un piede e lui mi tira su, facendomi arrampicare sul tetto. Faccio forza con le braccia e mi tiro su, poi, con un abile salto, sale anche lui.
Prende di nuovo la mia mano e mi trascina al centro del tetto. Una volta lì si siede e allarga le gambe. << Coraggio >> dice, battendo una mano sulle tegole davanti a se. Io mi siedo fra le sue gambe, e lui mi avvolge con le sue braccia.
<< Che ci facciamo qui?>> riesco finalmente a chiedere.
<< Alza lo sguardo >> mi sussurra all’orecchio.
Io lo faccio, e ciò che vedo mi lascia senza fiato.
Il cielo, limpido e senza una nuvola, è puntellato da una miriade di stelle, che brillano illuminando la notte. Credo di non averne mai viste così tante tutte insieme, così vicine, così brillanti.
Mi lascio scappare un leggero “ooh”, mentre non riesco a distogliere lo sguardo. In un cielo così, è molto probabile intravedere una stella cadente.
John mi stringe di più a se, baciandomi delicatamente l’incavo del collo. Poi il collo di per se. Poi, dietro l’orecchio. Un brivido mi percorre lungo la colonna vertebrale, e sorrido, stringendomi contro il suo petto.
<< Sono bellissime >> mormoro, alludendo alle stelle.
John annuisce leggermente. << Già.>>
Continuo a fissarle, incantata. Alcune sono più grandi e luminose. Alcune brillano più di altre. Ci sono quelle così belle che sono le prime ad attirare la tua attenzione. Ma non la mia. La mia si sofferma sempre più in là, dove solitamente nessuno ha voglia di guardare. Già, perché io cerco Le stelle. Quelle piccole, in apparenza insignificanti. Quelle che non brillano molto, e che non appaiono quasi mai, se non quando il cielo è limpido. Quelle che sei costretto a cercarle, per vederle. Quelle sono le stelle. Le stelle vanno cercate, sognate, desiderate. Le vere stelle non si fanno vedere sempre, ma soltanto quando hai bisogno di loro. Non stanno al centro dell’attenzione. Fanno solo da sfondo, aspettando di essere viste, e, seppur insignificanti, nascondono molto più luce di quanto una stella grande e grossa possa mai dare. Quelle, sono le stelle.
Mi chiedo se in realtà una di loro non sia un pianeta. Che so, magari un’altra casa, un altro luogo da esplorare. Chissà se magari su una di loro ci vive qualcuno.
A questo punto una domanda mi sorge spontanea.
<< John?>> lo chiamo, in un sussurro.
Lui sporge il capo un po’ più avanti, in modo da far sfiorare le nostre guance. << Che c’è?>>
Aspetto un attimo, prima di porre la mia domanda, pensando se davvero è una considerazione giusta da fare o se sto soltanto delirando. << Tu ci credi negli alieni?>> chiedo, non distogliendo lo sguardo da quelle piccole stelle.
Sento John irrigidirsi contro la mia schiena, e agitarsi leggermente sul posto. << Scusami?>> domanda, con voce rotta.
Sospiro. << Beh, si, insomma. Tu… tu sei davvero convinto che siamo l’unica razza presente in questo universo. Insomma, com’è possibile? Non ti sembra strano? Con circa un fantastilione di pianeti diversi, credi davvero che questo sia l’unico in grado di ospitare qualunque forma di vita?>>
<< Non… non lo so… >> balbetta lui. Evidentemente l’ho colto alla sprovvista. << Io… non ci ho mai pensato >> ammette.
<< Beh, pensaci >> insisto io. << E se non fosse tutta una bugia? E se fosse tutto vero? Se là, a migliaia e migliaia di chilometri  di distanza, là, su una di quelle stelle, in realtà ci fossero degli esseri viventi, un nuovo mondo da scoprire?>> Lui resta un attimo in silenzio. Continuo ad osservare le stelle, poi sorrido. << E se quegli esserini verdi esistessero davvero?>>
John aspetta, titubante. Non so se perché non sa cosa rispondere o se sta seriamente prendendo in considerazione l’idea di lasciarmi qui e scapparsene. Passiamo qualche attimo in silenzio, in cui io o davvero paura di aver appena fatto la figura della cretina, quando lui, per mia fortuna, sospira.
<< Si, molto probabilmente è tutto vero >> mormora. << E magari esiste davvero qualche altra forma di vita, oltre a questa.>>
Sorrido, contenta della sua risposta. Allora non mi ha preso per una pazza.
Lo sento riassestarsi un attimo sul posto, mentre si sgranchisce la voce. << Ehm, Valeri?>>
<< Si?>>
<< Se tu… >> tituba un attimo. << Se tu… ti trovassi di fronte ad un ragazzo. Un ragazzo che apparentemente sembra simile a te, ma che in realtà è un alieno. Tu… tu… avresti paura di lui?>> mi chiede.
Mi blocco un attimo, spiazzata. Non mi aspettavo una domanda del genere. Aggrotto la fronte, pensando ad una risposta. << Beh, non lo so… dipende.>> Faccio una pausa. << Insomma, se quell’alieno avesse intenzione di uccidermi e di annientare tutta la mia razza, un po’ di paura ce l’avrei.>>
<< E se invece non avesse cattive intenzioni?>> si affretta a dire John. << Se volesse semplicemente essere… si, beh, non so… un amico?>>
Un angolo della mia bocca si alza, accennando un sorriso. << Beh, se non ha cattive intenzioni, allora non vedo perché io debba avere paura di lui, no?>> chiedo.
John annuisce, in segno d’assenso. << Giusto…>> mormora, quasi un sussurro. Poi mi bacia fra i capelli, sulla nuca, lasciando lì le sue labbra qualche secondo in più del necessario.
Io chiudo gli occhi e butto la testa all’indietro, poggiandola sulla sua spalla, mentre lui mi stringe ancora di più a se, premendo la guancia contro la mia tempia.
Restiamo così, in questo stato di quiete, mentre il silenzio ci avvolge e tutti ciò che riusciamo a sentire sono i nostri respiri muoversi sincronizzati, i nostri cuori battere allo stesso ritmo.
Non so dire esattamente per quanto tempo rimaniamo così. So solo che, ad un certo punto, ho aperto gli occhi, e ho riguardato le stelle, e non ho potuto fare a meno di pensare a ciò che ho detto prima.
Credo davvero che sia possibile che lì, da qualche parte, ci sia un’altra vita. Magari un altro mondo, un’altra città da esplorare. Delle nuove persona da conoscere. Chissà se sono davvero così diverse da noi come dicono. E se invece non fossero così alieni? Se non fossero dei piccoli esserini verdi?
Forse potrebbero essere come noi. Potrebbero parlare, muoversi, interagire nello stesso modo in cui facciamo noi.
Vorrei tanto conoscerne uno. Chissà se, come ha detto John, tenterebbe di uccidermi. O se volesse semplicemente essermi amico.
Ma io? Io sarei disposta ad essere sua amica?
Probabilmente si, lo sarei. Ma credo di non poter mai avere la possibilità di scoprirlo.
O almeno, lo spero.
 
Angolo Scrittrice
Holaa! 

Allora? Vi è piaciuto il capitolo? :D
Visto, ho già aggiornato. Ultimamente sto scrivendo molto più velocemente. Ah... devo proprio trovarmi qualcosa da fare a casa -.-
Beh? Che ve ne pare? Me lo lasciate un commentino? Pleasee!! **
Lo so, mi rendo conto che questo capitolo è un po' moscio, però è tutto dedicato a Valeri e John, quindi non potevo non scriverlo ^^
Spero tanto che vi sia piaciuto e che non abbia deluso le vostre aspettative. Se si, mi rifarò al prossimo capitolo, don't worry! ;D
Beh, credo sia ora di andare...
Mi scuso in anticipo se alcune descrizioni, come ad esempio i vestiti di Valeri o il modo in cui salgono sul tetto, non si capiscono tanto. Certo, io le ho rilette, e mi sembra che si capiscano, ma forse è solo perchè le ho scritte io, quindi per me è più facile immaginare la scena... :S
Vabbè, vi saluto! Un bacio! ;*
E mi raccomando, commentate! Fatemi sapere la vostra opinione ;) ahah!
A huge!
La vostra
ValeryJackosn

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***


Angolo Scrittrice. ATTENZIONE!
Salve! Questo è un piccolissimo angolo scrittrice prima di farvi leggere, per spiegarvi una cosa. Avrei voluto che fosse una sorpresa, ma poi mi sono resa conto che, forse, non ci avreste capito niente, così ve lo spiego prima. Nel brano qui seguente ci sarà il testo di una canzone. Questa canzone sarà cantata da Mia e Valeri. Dunque, per distinguere le parti che canta una da quelle che canta l'altra, ho usato il seguente schema:
- Le parti scritte in corsivo le canta Valeri.
- Le parti scritte in grassetto le canta Mia
- Le parti scritte normali le canta il coro.
- Le parte sottolineate le cantano sia Valeri che Mia.

Grazie per la vostra attenzione e buona lettura ;)

Sono in piedi davanti allo specchio.
Una volta ho letto su una rivista che l’aspetto di una persona può cambiare molo in tre mesi.
Il mio è cambiato in tre settimane.
Già, sono passate tre settimane da quella notte di Halloween, tre settimane da quando John mi ha baciato.
Dopo quell’appuntamento a casa sua siamo usciti praticamente tutti i giorni, diventando inseparabili. È strano quanto una persona possa cambiarti. Prima ero trasandata, insicura, sempre alla ricerca di un’ombra dove nascondermi. Ora non più. Sono più forte, più consapevole, e non ricordo di essermi mai preoccupata del mio aspetto fisico prima d’ora. È strano. Se mi incontrassi, credo che neanche io mi riconoscerei. Forse mi volterei anche a guardarmi, per una volta.
È questo l’effetto che John mi fa. Mi fa sentire importante, mi fa sentire speciale. Mi fa sentire… degna di considerazione.
So che è stupido pensarlo, ma è così.
Comunque, non siamo gli unici a stare sempre insieme. Mia e Matt, ormai, vivono praticamente in simbiosi. Escono quasi ogni giorno, e una volta, dopo scuola, lui le ha anche portato dei fiori. Non serve che vi dica la sua reazione.
Sono carini insieme. È bellissimo vederli mano nella mano, abbracciarsi, ed è dolcissimo il modo in cui si guardano. Hanno entrambi uno strano luccichio negli occhi. Sembrano… felici. Mi chiedo se anche io e John ci guardiamo così.
Anche Mary, comunque, si è data da fare.
Lei e Harry sono usciti altre volte, in questi giorni, e ogni volta che tornava a casa, Mary aveva sempre un sorriso ebete stampato in faccia. Credo che si siano anche baciati, una sera, ma Mary ovviamente non ha voluto dirmelo. E dubito fortemente che me lo dirà.
Comunque, tutte le volte che uscivano, io e John facevamo lo stesso, a volte anche pedinandoli. Credo sia carino, per gli altri, pensare che ci preoccupavamo per loro. In realtà io volevo semplicemente vedere con i miei occhi se si baciavano. Ma, giustamente, non sono mai riuscita a beccarli.
Solitamente, dopo un pedinamento, io e John ci stancavamo, così andavamo a farci un giro.
È successo anche tre giorni fa.
Eravamo davanti al McDonalds, nascosti dietro un cespuglio per non farci vedere da quei due. Io continuavo a lamentarmi del fatto che lui l’avesse portata in una paninoteca, per giunta, poi, con le mie scarpe buone. John non faceva che ripetere che se restavamo ancora lì davanti gli sarebbe venuta fame. Così ce ne andammo.
Decidemmo di fare una passeggiata per le vie di New York. Siamo sotto il periodo invernale, ma la gente non si rassegna, e imperterrita ad uscire, per una passeggiata o semplicemente per andare a comprare qualcosa, creava un gran trambusto. Ora, so che può sembrare strano, ma io adoravo quel trambusto. Sembrava… Sembrava quasi una melodia, una melodia che faceva da sottofondo alla mia chiacchierata con John. Sembrava quasi che ogni minimo rumore si plasmasse, rendendosi perfetto apposta per noi.
Mentre camminavamo mano nella mano per le vie di Central Park, un gruppo di ragazzine ha attirato la nostra attenzione. Erano, considerando le divise che indossavano, delle scout, e avevano allestito una piccola bancarella vendendo dei piccoli cupcake per pochi spiccioli.
John si è fermato e ne ha comprati due. Poi, dopo averle salutate, ci siamo guardati e, sorridenti, abbiamo iniziato a mangiarli, riprendendo la nostra passeggiata.
Devo ammettere che erano davvero buoni.
Quando ho finito il mio ho guardato John. Mi resi conto solo in quel momento che aveva qualcosa sul naso. Sembrava… panna.
Risi. Lui si accorse che lo fissavo e inarcò un sopracciglio. << Che c’è? Cos’ho?>> chiese, fra il preoccupato e il divertito.
<< Hai della… >> Risi ancora. << … Della panna sul naso.>>
Rise anche lui, tastandosi le tasche per cercare un fazzoletto. Giurerei di averlo visto arrossire, per giunta.
Sorrisi. << Lascia, faccio io >> gli proposi. Ci fermammo e io gli afferrai il viso fra le mani, baciandogli il naso e togliendogli tutta la panna.
Lui sorrise divertito. << Grazie >> mormorò, guardandomi negli occhi. Tra il suo sorriso e i suoi occhi, non so dire quale dei due per me sia stato più micidiale.
Non so esattamente cosa feci. Forse cercai di abbozzare un sorriso anch’io, ma devo essere sembrata una scema. Fortunatamente, lui non sembrò notarlo. Anzi, mi mise una mano dietro la schiena e, continuando a sorridere, mi attirò a se.
Fu in quel momento che successe.
Le mie gambe diventarono molli e il mio corpo cominciò a surriscaldarsi. Ma non un surriscaldamento normale, come quando fuori ci sono 40° oppure come quando sei in imbarazzo per qualcosa. No, questo era proprio... calore. Troppo. Come se improvvisamente, dentro di me, si fosse acceso un fuoco. Un fuoco che bruciava dritto in mezzo al mio petto.
Non so esattamente come spiegare il modo in cui mi sentivo. Mi sentivo accaldata, e stranamente stanca, ma i miei occhi erano fissi in quelli di John, come una calamità. Lui sembrava non essersi accorto di quel mio sbalzo di calore improvviso, perché mi fissava con la stessa intensità, come se non riuscisse a staccarsi. E in effetti, neanch’io ci riuscivo. Era come se avessi una calamita giusto al centro dell’esofago, e John fosse una sbarra di metallo. Ero attratta da lui da una forza che non riuscivo a contrastare. Perché c’era, ed io la sentivo. Una forza, come se qualcuno, dietro di me, mi stesse premendo con forza le mani dietro la schiena, nel tentativo di farmi muovere, e qualcun altro, davanti a me, tentasse di tirarmi con una corda, che in realtà non esisteva, ma che mi opprimeva.
Mi sentivo debole contro quella forza e mi faceva male il collo. Capii troppo tardi il perché. Era il medaglione. Il mio medaglione che, nascosto accuratamente sotto la camicia per non essere visto da nessuno, era diventato stranamente più pesante. Molto più pesante del solito.
In altre circostanze l’avrei cacciato fuori per esaminarlo, ma in quel momento i miei occhi non riuscivano a staccarsi da quelli di John.
Mi chiedo se anche lui si sentisse strano, in quel momento. Mi chiedo se anche lui si sentisse come me.
Molto probabilmente no, eppure, quando provò a sorridere, il suo era un sorriso forzato, come se non avesse la forza necessaria per compiere quel semplicissimo gesto.
Ci vollero alcuni secondi, prima che lui mi baciasse, dolcemente.
È stato fantastico. Non so come spiegarlo. È come se quel momento fosse stato programmato. Come se le nostre labbra fossero state create e plasmate per combaciare perfettamente, per stare unite, come due pezzi di un puzzle. Unite in modo perfetto.   
Approfondimmo quel bacio, non perché ne avessimo realmente bisogno, ma perché era giusto così, perché sentivamo di doverlo fare. Sapevo che molto probabilmente quello era un bacio come un altro, eppure, in quel momento, avevo un disperato bisogno di lui, del suo calore, delle sue labbra. Di sentire le sue labbra muoversi lentamente sulle mie.
Quando ci staccammo, avevamo entrambi gli occhi lucidi, il fiato corto. Aspettai qualche secondo, prima di sorridere insieme a lui.
John fece finta di pensare a qualcosa, aggrottando teatralmente le sopracciglia. << Mmh…>> mormorò. << Dovrei sporcarmi di panna più spesso >> affermò.
Risi, dandogli un’amichevole pugno sul braccio. << Scemo…>>
Lui sorrise, stavolta con un sorriso più naturale, con un sorriso bellissimo. Sorrise con il suo sorriso. Mi cinse un po’ di più i fianchi e mi baciò di nuovo, dolcemente. Io sorrisi, contro le sue labbra, e mi accorsi solo in quel momento che quella sensazione di elettricità che stava iniziando a stancarmi se n’era andata. Che ero tornata normale. Non ero più stanca e non mi sentivo più accaldata. Stavo… bene.
Continuai a sorridere mentre lo abbracciavo, stringendogli le braccia attorno al collo e nascondendo il viso nell’incavo del suo collo, per inalare quel profumo che mi rassicurava tanto. Non so esattamente perché, ma sentivo che c’era qualcosa che non andava. Quella… quella cosa… non poteva essere una reazione normale. Insomma, avevo sentito parlare della cosiddetta “elettricità statica” che lega due persone e che si forma non appena queste si toccano. Ma quella… quella non era semplice elettricità. Mi sono sentita… strana.
Strinsi gli occhi, tirando un sospiro tremante, e senza accorgermene strinsi di più le braccia attorno al collo di John, stringendogli le spalle per far si che non si accorgesse del tremolio delle mie mani.
Non era… normale.
Lui, d’altronde, affondò il viso fra i miei capelli, sfiorandomi leggermente il collo con le labbra. Riuscivo a sentire il suo respiro caldo sulla pelle, e, nonostante questo mi provocasse dei leggeri brividi lungo la schiena, mi sentivo al sicuro, protetta fra le sue braccia.
Non so per quanto tempo siamo rimasti così. Minuti, forse ore.
Quando abbiamo ripreso a comminare era tutto così confuso nella mie testa che a malapena riuscivo a capire dove andavo.
Ricordo solo di essere tornata a casa, e che sono arrivata lì stringendo la mano di John. Considerando anche come la mia fosse sudata, credo che siamo rimasti mano nella mano per parecchio tempo, se non per tutto.
Non abbiamo più parlato di ciò che è successo. Anzi, non ne abbiamo mai parlato. In realtà è come se non fosse successo niente. Ma qualcosa è successo, io lo so. Ho provato più volte a spiegare in parole ciò che avevo provato, ma gli unici aggettivi che sono riuscita a formulare sono stati forte e strano. E anche bizzarro. Anche se non so esattamente da dove io l’abbia tirato fuori.
Comunque, ora sono in piedi davanti allo specchio.
Indosso un abito corto senza spalline, con la gonna che mi arriva poco sopra il ginocchio. È di taffettà, con il busto leggermente drappeggiato. Su un lato, una piccola ghirlanda di fiori mantiene su un angolo della gonna, così che si possa intravederne un’altra, di velo. Indosso un paio di scarpe col tacco e porto i capelli sciolti, leggermente mossi grazie a dei bigodini che Mary mi ha tolto pochi minuti fa. Il trucco che si vede appena. Ah, il vestito è completamente turchese, come le scarpe.
Vi starete chiedendo perché sono vestita così.
Beh, la verità è che devo andare ad una festa. Già, oggi la mia scuola ne ha organizzata un’altra, che però non si terrà nella nostra palestra, bensì in un piccolo locale affittato apposta per l’evento, che si trova alla fine di Houston Street. E poi questa volta è per beneficenza. Non so esattamente a chi andrà il ricavato della serata, ma a scuola vendevano i biglietti, e Mia ci ha costretto a comprarli.
È stata lei, ovviamente, a consigliarmi il vestito. Mi ha detto che questa è una di quelle tipiche “feste a tema”, ma non mi ha detto quale, e sinceramente, guardando questo vestito, non mi sembra che abbia qualcosa a tema, per così dire.
Fisso il mio volto allo specchio per un po’, finché non sento dei passi dietro di me. Non mi giro, comunque. Guardo la figura di Mary direttamente dallo specchio. È ferma vicino allo stipite della porta.
Lei mi sorride, guardandomi. << Sei pronta?>> chiede.
Abbozzo un sorriso anch’io e annuisco. << Bene >> fa lei. << Vado a prenderti un cappotto, allora.>> E si dilegua giù per le scale.
Torno a guardare il mio riflesso. Respiro profondamente, come per infondermi coraggio, e faccio per andarmene, quando la mia attenzione si sofferma su qualcosa. La mia collana.
Mi ero quasi scordata che era lì. Sono abituata a non vederla, dato che la nascondo sempre dentro le maglie o sotto il colletto della camicia, ma ora non ho niente a proteggermi, per questo è in bella vista.
La fisso, senza muovermi. Non voglio che si veda. Per quanto stia bene con il contesto e potrebbe farmi fare una bella figura, non voglio che venga vista.
<< Valeri, sei pronta?>> urla Mary da in fondo alle scale.
Sospiro e nascondo velocemente il ciondolo nell’interno del decolté. Non voglio che si veda, ma non a tal punto da separarmene. Lì starà bene.
Mi guardo di sfuggita un’ultima volta, poi corro giù per le scale, per quanto le scarpe col tacco possano permettermelo.
Una volta scesa, Mary mi aspetta davanti alla porta con un cappotto di pelliccia azzurro in mano. Mi avvicino sorridente e lei mi aiuta ad indossarlo. Poi mi guarda. Non so esattamente decifrare il suo sguardo. È uno sguardo triste, malinconico, ma anche fiero.
Sospira e mi accarezza i capelli. << Ripetimi ancora perché non posso accompagnarti con la macchina.>>
<< Mamma, per favore!>> esclamo. << Non farò la figura della bambina che si fa ancora accompagnare dai genitori! Prenderò l’autobus. La fermata è giusto davanti al locale.>>
Lei mi squadra da capo a piedi. << Mh-mh… e tu credi che ti farò andare in autobus vestita così?>>
Faccio roteare gli occhi, sbuffando esasperata. << Mamma, me la caverò! Perché non ti fidi di me per una volta? So benissimo come difendermi.>>
Lei mi guarda negli occhi. << Ma io mi fido di te. È degli altri che non mi fido.>> Mi fissa un attimo. Poi mi abbraccia. << Oh, vieni qui >> mormora, attirandomi a se. Io poggio il viso sul suo petto e mi lascio cullare dalle sue mani che mi accarezzano i capelli. << La mia bambina… >> le sento mormorare, mentre prende dei grandi respiri. Sorrido.
Lei si stacca da me e si allontana di un passo. << Ok, ora va, prima che cambi idea.>>
Sorrido ed esco di casa, dirigendomi verso la fermata del pullman più vicina. Mary mi segue con lo sguardo.
<< E non aver paura di tirare dei calci!>> esclama, urlando per farsi sentire.
Mi lascio scappare un risolino e continuo a camminare. << Ok!>> urlo, di rimando.
 
Salgo sul pullman e mi siedo nell’ultimo posto in fondo, vicino il finestrino.
Mi aspettavo delle occhiatine sospettose dai presenti, vedendo una ragazza così elegante salire su un autobus di linea, ma a quanto pare questa città è così abituata a cose strane, che la gente non batterebbe ciglio neanche se salisse un uomo con due teste e sei braccia.
Poggio la testa contro il finestrino e faccio perdere lo sguardo fuori, facendo fluire i pensieri.
Mi piace vedere le cose muoversi velocemente accanto a me. Mi aiuta a pensare. È come se il mondo fosse pieno di persone sfigurate, persone così deboli moralmente, che è difficile distinguerle dagli altri. Sono solo poche quelle che si distinguono. Quelle che riesci a vedere e a ricordare nonostante l’autobus si muova così veloce. Sono solo poche le persone che riescono a distinguersi dagli altri.
Mi lascio sopraffare così tanto dai miei pensieri, che perdo totalmente la cognizione del tempo, e mi accorgo appena in tempo di dover scendere a questa fermata.
Scendo dall’autobus e aspetto che riparta.
Sono esattamente dall’altro lato della strada, quindi riesco a malapena a scorgere la figura del locale sopra i lineamenti del bus.
Quando anche l’ultimo anziano è sceso, il pullman riparte, liberandomi la visuale.
Lo vedo quasi subito. John, appoggiato con una spalla contro una colonna di marmo che mi sta aspettando.
Lo osservo, sorridente. Indossa un semplicissimo smoking bianco panna, che però risalta alla grande i suoi capelli color miele e gli occhi blu.
Lui mi vede e mi sorride, venendomi incontro. Io corro verso di lui.
A metà strada ci troviamo e lui mi avvolge i fianchi.
<< Sei bellissima >> mi dice.
Io sorrido e gli allaccio le braccia attorno al collo. << Anche tu non sei niente male >> affermo, mostrando indifferenza. Ridiamo insieme e poi ci baciamo.
<< Sarà meglio che ci togliamo dalla strada, però >> fa John, prendendomi la mano e trascinandomi verso l’entrata.
Saliamo una scalinata e poi ci mettiamo in fila. Da fuori il locale non sembra molto grande, e, considerando tutte le persone che aspettano di entrare qui fuori e quelle che molto probabilmente sono già entrate, mi chiedo dove ci metteremmo.
Mi guardo intorno. È tutto, rigorosamente, bianco. Dalle pareti alle colonne di marmo, alla cornice della porta di vetro. Ai lati di quest’ultima, ci sono due buttafuori. Uno controlla i biglietti, mentre l’altro resta imbalsamato con le mani incrociate, squadrando tutti e non guadando nessuno. Indossano entrambi il classico vestito nero da guardia del corpo.
Sposto lo sguardo su tutti i ragazzi che ci sono qui fuori, cercando Mia. Non la vedo, quindi molto probabilmente sarà già entrata.
Sto per lasciar perdere, quando qualcosa mi salta all’occhio. Tutte le persone intorno a me sono vestite con abiti o bianchi, o neri. Ragazzi, ragazze, bidelli, professori. Tutti degli stessi colori. Nessuno escluso.
Aggrotto la fronte. << Perché sono vestiti tutti o bianchi o neri?>> chiedo a John, sussurrando per non farmi sentire dagli altri.
John fa un mezzo sorriso, prima di rispondere. << Beh, è il tema della festa >> dice. Si volta leggermente per vedere la mia reazione, ma io sono già pietrificata.
Il tema della festa? Il tema della festa è il “bianco e nero”? E allora perché sono vestita di blu?
La risposta mi arriva chiara e tonda. Chiudo gli occhi, affranta.
Mia…
Mi stringo leggermente contro la spalle di John, sperando di riuscire a mimetizzarmi. Spero tanto che gli altri non mi notino, in modo da poter passare inosservata.
Oh, andiamo! Ma chi voglio prendere in giro?! Non passa inosservata una ragazza vestita di celeste in mezzo a un gruppo di “juventini”. Sembra di stare allo stadio e di aver sbagliato corsia dei tifosi. È imbarazzante.
Come se non bastasse, poi, arriva qualcun altro ad infierire.
<< Ehi, puffetta >> esclama una voce alle mie spalle. Chiudo gli occhi. Oh, no. Ci mancava…
<< Non ti hanno detto il tema della serata? Mi sa che hai sbagliato festa >> continua quella. Stringo forte la mano di John. << Perché non torni da Gargamella?>>
Risatine generali.
Ora basta, mi sono stancata. Mi volto di scatto, furiosa. Jessica è proprio dietro di me, a circa un metro di distanza. Ha le mani posate sui fianchi, e mi guarda con tono di sfida. Indossa un completino bianco corto fin sopra il ginocchio. La gonna è a balze, che si alternano fra veli e taffetà. Il bustino è rigido, a tal punto da togliere il fiato, e ricamato con una moltitudine di perline e paiet. Ha i polsi ha un sacco di rumorosissimi bracciali, e i capelli sono cotonati come quelli degli anni ’70. Ma la cosa più ridicola, secondo me, è il decolté, ornato da tante, troppe piume che le coprono completamente tutto il petto fino alla clavicola.
Riderei, vedendola così, se ora non fossi così furiosa.
La incenerisco con lo sguardo. << Beh, almeno io non sembro un cigno spennacchiato!>> esclamo, non riuscendo a fermare le parole. << Che c’è? Non trovi più la strada del lago?>>
Jessica spalanca la bocca. Non capisco se è più sorpresa o indignata.
Ad ogni modo, non faccio in tempo a scoprirlo, che John mi afferra per le spalle. << Su, andiamo dentro >> mormora, dando i nostri biglietti al buttafuori e poi trascinandomi attraverso la porta.
Quando entro, sono sorpresa. La sala è molto più grande di quello che mi aspettassi. Sulla destra c’è un lungo tavolo da buffet, pieno di bibite e di roba da mangiare, mentre la sinistra è libera, occupata solo dalle porte che conducono ai bagni. In fondo alla sala, poi, è stato allestito un piccolo palchetto, dove un gruppo sta suonando della musica a caso. Un tizio si avvicina a noi e prende gentilmente il mio cappotto.
Mi sale un nodo in gola quando noto che, oltre ai presenti, anche le pareti della sala sono completamente bianche, addobbate con qualche festone nero.
Prendo la mano di John e intreccio le mie dita con le sue. Almeno così mi sento un po’ più sicura. Quando mi volto verso di lui, però, noto che mi sta già guardando. E anche con un’aria di disapprovazione.
<< Che c’è?>> chiedo, inarcando un sopracciglio.
<< Hai deciso di organizzare un incontro di wrestling?>> esclama, con rimprovero. << Se non ti avessi portato via le avresti staccato i capelli.>>
<< E avrei fatto bene >> ribatto. << Hai visto come mi ha trattato? Non potevo non cantargliene quattro!>>
<< Lo so, ma avresti potuto anche evitare commenti acidi. Ora ti prenderà solo più di mira.>>
Lo guardo negli occhi, offesa. Voleva davvero che stessi zitta mentre lei mi prendeva in giro? << Oh, scusami tanto, signor “penso a tutto io”. Cos’è, tu puoi ribellarti e menare a destra e a manca un’intera squadra di football e io non posso neanche rispondere ad una frecciatina della mia peggior nemica?>>
Lui non risponde. Si limita a guardarmi, scrutandomi il volto, ed io mi pento subito di ciò che ho appena detto.
Apro la bocca per scusarmi, quando lui sospira. << Hai ragione >> dice, prendendomi delicatamente il volto fra le mani. << È solo che non voglio che ti rovinino la festa. Non pensare a loro, ok?>>
Lo guardo negli occhi e annuisco lentamente. << Ok…>>
Lui sorride e mi bacia la fronte.
In quel momento, una voce si leva dal centro della sala.  << Valeri!>>
Mi volto. Mia ci sta venendo incontro, facendosi largo fra la folla a suon di gomiti. Quando ci raggiunge, noto che con lei c’è anche Matt. Non so come abbia fatto ad imbucarsi, ma ormai da Mia mi aspetto di tutto.
La guardo, fulminandola con lo sguardo. << Allora, che ve ne pare?>> ci chiede, indicando con un cenno della mano la sala.
John si guarda intorno. << Carina >> commenta, sorridendo.
<< Mia, posso parlarti un attimo?>> le chiedo. Non aspetto risposta, la afferro per un braccio e la trascino verso i tavoli del buffet.
<< Si può sapere che cosa ti è saltato in mente?!>> sbraito, quando mi accorgo che nessuno ci ascolta.
Lei mi guarda, senza capire. << Perché, che ho fatto?>>
<< Ehm… Mi hai fatto mettere un vestito blu ad una festa dove il tema era il “bianco e nero”?>> domando, con finto sarcasmo.
<< Oh, per quello… >> mormora lei, nascondendo un sorriso. << Non preoccuparti, stai benissimo >> dice, sventolando la mano in un gesto di noncuranza.
<< Non preoccuparti? Non preoccuparti?! Sembro un lampione a led in una scena di un film muto e tu mi dici di non preoccuparmi?>> sbraito. Poi, notando che lei non mi risponde, continuo. << Posso capire perché l’hai fatto?>>
<< Per farti fare colpo!>> esclama lei. << Per farti notare!>>
<< Io non voglio farmi notare >> sibillo a denti stretti.
Lei sorride, alzando gli occhi al cielo e scuotendo leggermente la testa. << Valeri, ma non capisci. Qui nessuno si accorgerà di te se continui a stare nell’ombra. Sei una bellissima ragazza, gentile, intelligente. Ti manca solo quel pizzico in più per apparire perfetta. Non puoi continuamente restare nascosta in un angolo. Così nessuno si accorgerà mai di quanto sei speciale!>>
La guardo, in silenzio. Sono attonita. Non so davvero cosa rispondere. Mi aspettavo che l’avesse fatto per un motivo ben preciso, come ha fatto quella sera all’altra festa della scuola, ma non mi aspettavo una risposta del genere.
Sospiro. << Oh, e va bene!>> esclamo, facendo roteare gli occhi. << Ma ricordami di non chiederti più consigli sui vestiti!>> aggiungo, puntandole un dito contro.
Lei ride e annuisce. << Ok >> mormora. << Sei fortunata, comunque. Avrebbe potuto essere rosso!>> aggiunge poi.
Sorrido, e mi concedo un secondo per guardare il suo, di vestito. È più semplice di quanto immaginassi. È un normalissimo vestito con gonna a tubino a metà coscia, aderente, completamente nero. C’è una leggera scollatura non troppo evidente, e solo le maniche sono diverse, perché interamente di pizzo. Mia, poi, è leggermente truccata e ha i capelli raccolti in uno chignon perfetto, con qualche brillantino qua e là. Non indossa collane. Sono un paio di orecchini pendenti neri e qualche bracciale.
Inarco un sopracciglio, scettica. << E tu?>> chiedo, guardandola. << Come mai così sobria?>>
Lei fa un mezzo sorriso, girando lentamente su se stessa. Quando è di spalle, mi accorgo che ha la schiena completamente scoperta, dato che la scollatura del vestito le arriva fino alla fine della colonna vertebrale.
<< Non so di cosa tu stia parlando >> dice, fingendo non calanche.
Io rido. Questa si che è la mia amica Mia! Lei ride con me, poi mi prende per mano e torniamo dai ragazzi.
Restiamo tutti insieme per un po’ al centro della sala, poi decidiamo di spostarci su un lato, dove c’è meno confusione.
Una volta lì, ci fermiamo e osserviamo gli altri ballare. Io scruto i presenti nel vano tentativo di trovare qualcun altro che non sia vestito di bianco o di nero, ma niente. Sono l’unica su circa mille persone!
<< Io vado un attimo in bagno >> annuncia Mia, dopo un po’. << E quando torno mi aspetto che tu mi faccia ballare >> aggiunge, puntando un dito contro il petto di Matt.
Lui sorride, malandrino. << Non ti prometto niente.>>
Lei ride, poi gli prende il mento con una mano e gli da un bacio veloce, prima di dirigersi verso i bagni.
Sorrido. Sono così carini!
John mi avvolge i fianchi con un braccio. << Volete qualcosa da bere?>> domanda.
Io scrollo le spalle. << Un po’ di punch, magari >> acconsento.
John annuisce, poi guarda Matt. << Matt?>> chiede.
<< Anche per me, grazie >> esclama lui, sorridendo.
John sorride e va verso i tavoli del buffet a prendere il nostro punch.
Rimaniamo solo io e Matt, qui. È imbarazzante. E anche il silenzio che è calato tra noi lo è. Decido di rompere il ghiaccio.
<< Tu e Mia state davvero benissimo insieme >> dico, tanto per dire qualcosa.
Lui sorride, con sguardo sognante. << Già… Mia… Mia è una ragazza fantastica. È dolce, è gentile, è divertente, eppure credo che non si farebbe mettere i piedi in testa da nessuno, qui dentro. Sa il fatto suo, insomma. Ce ne sono davvero poche così.>>
Annuisco, sorridendo per le sue belle parole. << Mia è speciale >> concludo.
<< Già, lo è. Sono stato davvero fortunato ad averla incontrata. E tutto grazie a te.>>
Inarco un sopracciglio, non capendo. << A me? Che c’entro io?>>
<< Beh, è grazie a te se io e Mia ci siamo incontrati >> risponde, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. << Tu… tu hai un dono speciale, Valeri: capisci le persone. Avevi capito che io e Mia eravamo fatti l’uno per l’altra e ci hai fatto incontrare. Come quel giorno al bar. Hai capito che tra noi poteva nascere qualcosa, e te ne sei andata, lasciandoci soli per permettere che quel qualcosa sbocciasse.>> Si volta e si accorge che lo sto fissando. Continuo a non capire. << Tu osservi le cose da lontano, e le comprendi, senza metterti mai in mostra >> spiega. Poi sorride. << Sei una ragazza da parete.>>
Rimango in silenzio, pensando alle sue ultime parole. Sono una ragazza da parete? Wow. Nessuno mi aveva mai chiamata così. È vero, osservo le cose, gli ambienti, le persone. Ma perché mi piace farlo. Perché credo che, se capisco i loro sentimenti, le loro emozioni, forse posso aiutarli a controllarle. Non mi ero mai accorta di esserci riuscita.
Non credevo… non credevo che qualcuno potesse notarmi.
Prima che io possa dire qualcosa, John ritorna con due bicchieri di punch. << Scusate, c’era fila >> si giustifica, porgendo ad entrambi un bicchiere. Io bevo distrattamente il mio, ripensando alle parole di Matt.
Sono ancora stupita. No, non stupita. Sono… colpita.
Mi ritrovo a sorridere, senza accorgermene. Non pensavo che qualcuno si fosse accorto di me, che fosse andato oltre la ragazza timida e impacciata che scatta fotografie a tutto ciò che vede. Non pensavo che qualcuno si fosse reso conto che, dietro quella ragazza, c’è una persona, con delle emozioni, che non ama mettersi in mostra e che adora osservare le cose, cercare di capirle.
Non pensavo che qualcuno si fosse accorto della… Ragazza da Parete.
Mia torna dal bagno e, dopo un po’, lei e Matt si buttano in mezzo alla pista, decisi a ballare. Aguzzo l’orecchio. Stanno suonando un lento. Mi guardo intorno. La sala e cosparsa di coppiette, che si tengono strette e che ballano guardandosi negli occhi. È tutto molto romantico. 
Il mio sguardo si sofferma su due ragazze, dall’altra parte della sala. Sono sole, evidentemente perché non hanno un accompagnatore, e mi stanno squadrando da capo a piedi, sorridendo sotto i baffi. Non capisco perché, poi mi ricordo. Il mio vestito…
John mi prende la mano, intrecciando le mie dita con le sue. << Ti va di ballare?>> mi chiede, con un sorriso.
Scuoto leggermente la testa. Non voglio ballare. Non voglio andare al centro della sala per rendermi ridicola davanti a tutti.
Vedo con la coda dell’occhio che ha aggrottato le sopracciglia. << Perché?>> fa, non capendo.
Scuoto di nuovo il capo e sento le lacrime salirmi agli occhi. Ma non voglio piangere, non qui, così mi copro il viso con le mani. << Perché sono ridicola!>> singhiozzo, stringendomi contro il petto di John. << E perché tutti mi prenderebbero in giro solo perché sono vestita di blu…>>
John mi avvolge fra le sue braccia. Forse sta sorridendo, ritenendo i miei comportamenti degni di una bambina, ma io non posso vederlo, perché ho ancora il viso nascosto nelle mani.
<< Ehi, sei bellissima >> mormora John, in tono rassicurante. << E chi dice il contrario è solo invidioso, chiaro?>>
Resto in silenzio, confortata dalle sue parole. Poi, quando sono sicura che le lacrime non minacciano più di scendere, alzo lo sguardo e guardo John, accennando un sorriso e annuendo leggermente.
<< Bene >> mormora lui, sorridendomi. << E adesso andiamo a ballare.>>
Mi prende per mano e mi trascina al centro della pista. Mi guardo intorno, contando le persone che sono intorno a me. << Non credo di farcela… >> mormoro, preoccupata.
<< Ehi, è semplice >> esclama John. Si avvicina a me e mi avvolge i fianchi con un braccio, mentre con quello libero afferra la mia mano. Sorride, dolcemente. << Se tu non vedi loro, loro non possono vedere te.>>
Sorrido, perché capisco cosa vuole dire. Mi avvicino ancora di più, fino a far scontrare i nostri corpi, e affondo il viso nell’incavo del collo di John, come faccio sempre, quando voglio un posto sicuro in cui nessuno può farmi del male.
Iniziamo a muoverci lentamente, non seguendo veramente un suono preciso. Solo i battiti dei nostri cuori, che sembrano battere contemporaneamente.
Dopo un po’, sento John sorridere contro la mia tempia.
Alzo lo sguardo e lo guardo, sorridendo. << Che c’è?>>
Lui continua a sorridere, ma scuote leggermente la testa. << Niente…>> mormora.
Inarco un sopracciglio. << Non starai mica ridendo di me, vero?>> domando, fingendomi offesa.
<< No, no >> fa lui ridendo. << È solo che… stavo… pensando, ecco.>>
<< E non si può sapere a cosa?>>
Lui resta un po’ in silenzio, poi sospira. << A quanto è strana la vita >> risponde. << Sai, io… io ho visto tanti posti, ho incontrato tanta gente, ma purtroppo non sono mai riuscito a creare dei rapporti, non sono mai riuscito a fidarmi davvero delle persone. Ma con te… con te è stato diverso. Sapevo che eri una ragazza speciale, perché dal primo giorno che ti ho incontrata, a scuola, mi sono sentito diverso. Ho sentito in me un senso di… completezza. Capisci?>> Annuisco leggermente e lui continua: << Ho provato più volte a pensare che tutto questo fosse sbagliato, perché sarei potuto ripartire da un momento all’altro, e perché poi avrei sofferto. Ma, per quanto ci provassi, ogni volta che pensavo a te sentivo un fuoco dentro, alla bocca dello stomaco, e capivo che tutto questo non era normale, perché non avevo mai provato una cosa del genere. All’inizio ero spaventato, poi, ho realizzato che quella sensazione era piacevole. Anzi, bellissima. Provavo a non pensare a te, a quello che mi facevi provare, ed ero riuscito quasi a convincermi di non provare niente per te, niente di importante. Potevo farcela. Il problema, però, arrivava quando ti abbracciavo, e sentivo il tuo profumo. Il tuo respiro. E capivo che non potevo fare a meno di te.>>
Mi guarda intensamente negli occhi, poi abbassa lo sguardo, fissando la mia spalla. Arrossisce leggermente, e sorride, in imbarazzo.  << Sai, forse sono innamorato di te >> dice. Mi guarda di nuovo negli occhi, sorridendo un po’. << Aspetto di esserne sicuro per dirtelo, comunque.>>
Lo guardo senza dire una parola. Ho sentito male, oppure ha davvero detto che forse può essere innamorato di me? Di me?!
Perché non gli rispondi?, mi rimprovero mentalmente per il mio stupido silenzio. Coraggio, dì qualcosa! Digli che anche tu gli vuoi bene. Anzi no, digli che lo ami! Si, perché è così, lo ami. Lo ami con tutto il cuore. So che è strano da dire ma è così. È così e basta. Ami il suo sorriso, ami i suoi capelli, ami il suo profumo. Ami il modo in cui ti guarda con quei suoi occhi blu. Ami sentire il suo sguardo addosso, perché ami le farfalle nello stomaco che senti quando ti guarda. Ami le sensazioni che il suo profumo ti stimola. Ami quanto forte ti batta il cuore quando ti bacia. Lo ami, e lo sai. E allora perché non dici niente? Di qualcosa, stupida!
Apro la bocca, ma non ne esce alcun suono. Di almeno una parola!
La musica finisce e tutti si fermano per applaudire. Un componente della band si avvicina al microfono e si sgranchisce la voce.
<< Bene!>> esclama, facendomi uscire da quello stato di trance. Non mi ero neanche accorta di guardare ancora negli occhi John, e che i nostri volti fossero così vicini. << È il momento del karaoke!>>
Tutti nella sala esclamano, entusiasti, e John mi afferra per mano e mi trascina via, lontano da tutto quel trambusto. Raggiungiamo Mia e Matt. Lei mi sorride.
<< Allora >> continua il ragazzo sul palco. << Chi vuole cantare?>>
<< Io!>> esclama una voce al centro della sala. La riconosco subito. << Canto io!>> Jessica si avvicina a passo svelto verso il palco.
Inaspettatamente, un coro di buh si leva per tutta la sala, accompagnato da alcuni fischi.
<< Non vogliamo te!>> esclama qualcuno.
<< Vogliamo sentire qualcun altro!>> grida un altro.
<< Ah, si?!>> urla Jessica, che ora è salita sul palco e ha preso il microfono. È visibilmente infastidita. << E chi vorreste, sentiamo?>>
<< Fate cantare Valeri!>> esclama una ragazza.
<< Si!>> urlano tutti gli altri. Mi unisco al coro di si, ma… Oh, aspetta. Cosa?!
Prima che io possa replicare, un coro invade la sala. << Valeri! Valeri!>> urlano, tutti insieme.
Il ragazzo del gruppo scansa Jessica e prende il microfono. << Ehm, Valeri?... Ci sei?>>
Mia mi da una leggera spintarella. Mi volto a guardarla. << Coraggio, va!>> esclama.
<< Io… io non voglio andare!>> ribatto.
<< Oh, andiamo, non sarà mica la fine del mondo, no?>>
<< Se la pensi così vacci tu!>>
<< Oh, andiamo! Va!>>
Guardo John, in cerca di supporto. Lui sorride e annuisce. << Va >> mormora, incitandomi con un cenno del capo.
Faccio un bel respiro e ci penso. In fondo, l’ho già fatto una volta, ed è piaciuto. E poi, sono loro che stano urlando il mio nome. Con passo incerto, mi dirigo verso il palco.
Quando mi vedono, iniziano tutti a gridare e ad applaudire. Salgo sul palco e mi posiziono davanti al microfono. Jessica è ancora lì. La guardo, scettica. << Ti dispiace?>>
Lei spalanca la bocca, offesa e sorpresa allo stesso tempo, e scende dal palco, i pugni serrati, le braccia strette contro il corpo.
Quando se ne va, guardo il pubblico che ho in sala. Da qui sembrano molti di più. Un groppo mi sale in gola e sento mancare la salivazione.
Guardo il ragazzo di prima, che scopro essere il chitarrista della band. Lui mi fa cenno di parlare.
Mi sgranchisco la voce e mi avvicino al microfono. << Salve >> esclamo. Tutti applaudono. << Io… ehm… non… non mi spettavo di cantare, stasera >> spiego. << Beh, ecco… >> Mi guardo intorno, cercando con lo sguardo il volto dei miei amici. Quando li trovo, Mia mi sorride, divertita. Ed io ho un’idea.
<< Ma, se proprio devo farlo >> esclamo. << Voglio farlo con la mia migliore amica. Un bell’applauso per Mia!>>
Tutti applaudono, entusiasti. Mia mi guarda, spaesata, così scendo dal palco e vado a prenderla per mano, trascinandola con me. All’inizio fa un po’ di resistenza, cercando di opporsi, ma poi, quando due ragazze mi aiutano a trascinarla, lei si arrende e si fa portare. Saliamo insieme sul palco.
<< Bene!>> esclama il chitarrista. << Scegliete cosa cantare.>>
Mia mi guarda, fulminandomi con lo sguardo. << Questa me la paghi >> mormora a denti stretti.
<< Così impari a darmi un vestito blu >> ribatto, facendole l’occhiolino.
Lei sbuffa, frustrata. Iniziamo a pensare ad una canzone. È difficile, perché quando una ne propone una, si accorge subito che non è nelle corde dell’altra e viceversa. Dopo l’ennesimo tentativo andato male, mi viene un’idea.
Cerco Matt con lo sguardo e lo trovo quasi subito. Gli faccio cenno con la mano di venire e lui ci raggiunge, senza esitazioni.
Spiego a entrambi la mia idea, e loro, dopo un po’ acconsentono.
Così, mentre io e Mia ci posizioniamo davanti ai microfoni, Matt afferra una chitarra elettrica e spiega ai componenti del gruppo le note da fare.
Dopo un po’, sento le bacchette del batterista segnare il tempo. E uno, e due. E un, due, tre, quattro. La musica inizia. E il coro parte.
<< Oh yeah yeah
Oh yeah yeah yeah yeah
Ooh!>>
Sorrido e canto anch’io.
<< Oh yeah yeah
Oh yeah yeah yeah yeah
Ooh!>>
Ci siamo, è il mio momento.
<< Never had much faith in love or miracles.>>
Il coro mi segue. << Miracles, Ooh!>>
<< Never wanna put my heart on the line>>
 << Ooh!>>  
<< Swimming in your world is something spiritual >>
 << Spiritual, Ooh!>>
<< I'm born again every time you spend the night >>
<< Ooh!>>
<< Cause your sex takes me to paradise >>
Incito Mia con il capo a seguirmi. Lei fa roteare gli occhi ma inizia a cantare con me.
<< Yeah your sex takes me to paradise
And it shows, yeah, yeah, yeah >>
È il momento del ritornello, che cantiamo insieme, mentre il coro ci segue.
<<Cause you make feel like (feel like), I've been locked out of heaven (heaven)
For too long (long), for too long (long)
Yeah you make feel like (feel like), I've been locked out of heaven (heaven)
For too long (long), for too long (ooooh)>>
<< Oh yeah yeah yeah >>
<< Ooh!>>
<< Oh yeah yeah
Oh yeah yeah yeah
Ooh!>>
Guardo Mia e le sorrido. È il suo momento.
<< You bring me to my knees
You make me testify >>
<< Testify!>>
Rimango a bocca aperta. La sua volce è calda e suadente, ma anche molto… potente. È la classica… voce nera, ecco.
<< Oh, Whoa!
You can make a sinner change his ways >>
Mi unisco a lei.
<< Open up your gates cause I can't wait to see the light >>
<< See the light >>
<< And right there is where I wanna stay
Cause your sex takes me to paradise
Yeah your sex takes me to paradise
And it shows, yeah, yeah, yeah >>
<< Yeah, yeah, yeah >>
È di nuovo il momento del ritornello.
<< Cause you make feel like (feel like), I've been locked out of heaven (heaven)
For too long (long), for too long (long)
Yeah you make feel like (feel like), I've been locked out of heaven (heaven)
For too long (long), for too long
Oh oh oh oh, yeah, yeah, yeah >>
<< Can't I just stay here
Spend the rest of my days here >>
<< Oh oh oh oh, yeah, yeah, yeah >>
Cantiamo solo noi due, ora. O meglio, canta lei, mentre io le faccio da sfondo con qualche acuto. Sorridiamo e ci mettiamo una contro la schiena dell’altra.
<< Can't I just stay here (Can't I just stay here)
Spend the rest of my days here (Oooh!)>>
Ci mettiamo una di fronte all’altra e ci prendiamo per mano.
<< Cause you make feel like (You make me feel like),
I've been locked out of heaven (Whoa)
For too long, for too long >>
Prendiamo entrambe l’asta del nostro microfono e la battiamo a tempo a terra, mentre tutti gli altri, nella sala, battono le mani.
<< Yeah you make feel like, I've been locked out of heaven (Yeah!)
For too long (For too long!), for too long!>>
È il momento del gran finale.
<< Oh yeah yeah yeah. Yeah, yeah, yeah >>
<< Ooh!>>
<< Oh yeah yeah
Oh yeah yeah yeah >>
<< Yeah, yeah, yeah!>>
Concludiamo tutti insieme.
<< Ooh!>>
È fatta, la canzone è finita. Aspettiamo qualche secondo in silenzio, guardandoci, prima che il pubblico esploda in un’enorme applauso.
Mia ride e mi abbraccia, entusiasta. Rido anch’io.
Non posso crederci. L’ho fatto, l’ho fatto di nuovo! Ho cantato davanti a tutte queste persone e sono stata brava. Mi sono piaciuta.
Tutti esclamano i nostri nomi a gran voce, in fibrillazione. Anche la band applaude. Matt ci corre incontro e ci abbraccia, saltando e urlando elettrizzato.
Guardo gli altri. Sorridono tutti, applaudendo. Tra tutti, il mio sguardo si sofferma su John.
Brava”, mi mima con le labbra, in modo che solo io possa sentirlo.
Sorrido e gli mando un bacio con la mano. Lui ride.
Mentre scendiamo dal palco, i miei occhi incontrano quelli di Jessica. Lei mi fissa, con sguardo truce, pieno di odio. Osservo le sue labbra, sta mimando qualcosa. “Me la pagherai cara”.
Rabbrividisco. Non so perché abbia detto così. Perché le ho risposto prima? Perché le ho rubato la scena? Molto probabilmente per entrambe le cose. Lei mi odia, e questo è certo. Ma non so se davvero me ne importa.
Raggiungo John e lui mi abbraccia, sollevandomi da terra e facendomi volteggiare. Ridiamo insieme.
<< Sei stata grande!>> esclama, sorridendo.
Sorrido anch’io e lo abbraccio di nuovo. Poi gli prendo il viso fra le mani e lo bacio.
Il resto della festa va a gonfie vele. Beviamo, mangiamo, balliamo, e insieme ci divertiamo come non mai.
Cerco di non pensare molto alle parole di Jessica. Mi hanno un po’ scosso, ma non ho paura di lei. Non mi interessa se mi odia, quindi cerco di non pensarci.
Non avrei mai potuto immaginare che quelle quattro parole avessero dato il via ad una guerra.
Una guerra senza esclusione di colpi.

Angolo Scrittrice
Bonjur! Sono sempre io, e sono sempre qui per rompervi un po'! ^^
No, vabbè, dai, scherzi a parte. Sono qui per scusarmi.
lo so che sono imperdonabile, perchè ho postato questo capitolo con un eeeenooorme ritardo. Ma ho delle motivazioni più che valide. Il fatto è che questo non è stato un periodo grandioso. Prima c'è stato il battesimo di mia cugina, poi c'è stato un lutto in famiglia per cui ho sofferto tanto, poi è arrivata la depressione per non essere riuscita a prenotare i posti per i M&G con il mio idolo (nel caso ve lo stesse chiedendo sto parlando di Logan Lerman, il mio amore proebito **), poi il 3 è stato il mio compleanno, e il sabato dopo ho festeggiato, poi è stato il compleanno di mio padre e... aargh! Non ho avuto tempo! D: il capitolo era già pronto da un pò, ma non ho avuto proprio un briciolo di tempo per pubblicarlo. Però, sono riuscita a pubblicarlo pelo pelo, dato che domani vado al concerto di Jovanotti e sto via per due giorni. Che bello! ^^
Anyway, bando alle ciance, parliamo del capitolo. Vi è piaciuto? *sguardo che conquista*
So che forse non è il massimo, ma è il meglio che sono riuscita a partorire in questo periodo "no", quindi spero che vi piaccia. Scusate se forse è un pò troppo lungo, ma non potevo fare altrimenti.
By the way, vi è piaciuto? ** me lo lasciate un commentino, o con questo enorme ritardo e questo schifo di capitolo sono anche riuscita a perdere quel poco di lettori che avevo? :'(
Pleeasee! Perdono! *occhi da cucciolo* Dai, se mi perdonate e mi lasciate un commentino, nel prossimo capitolo vi faccio una sorpresa. ;D
Vabbè, ora è meglio che vada, prima che mi lanciate i pomodori.
Però, prima di andare, voglio lasciarvi le foto di come immagino i vestiti, nel caso io non li abbia descritti bene:
- Quello di Valeri: file:///C:/Users/U16G/Desktop/IMG_6461.JPG
- Quello di Mia:
file:///C:/Users/U16G/Desktop/IMG_5649.JPG
- Quello di Jessica: file:///C:/Users/U16G/Desktop/IMG_5640.JPG
Bacioni e peace and love a tutti quanti. Aspetto con ansia i vostri commenti
Love ValeryJackson
P.s. Ogni riferimento al film e/o libro "Noi siamo infinito- Ragazzo da parete" è puramente intenzionale, trovando io quel film bellissimo e il mio Logan perfetto.
Baci! :* <3

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


Mi sveglio di soprassalto. Sono tutta sudata.
Ormai faccio lo stesso sogno ogni notte. I botti. L’astronave. La famiglia uccisa. Quegli strani uomini. La donna che scappa e che alla fine mi chiama per nome.
Non riesco ancora a capire se tutto questo sia un sogno o un ricordo. Molto probabilmente la prima. So solo che ormai sta diventando un’abitudine. Svegliarmi di scatto, intendo.
Con mani tremanti, cerco il medaglione perennemente appeso al mio collo. Non appena lo trovo, lo stringo fra le dita e lo premo contro la bocca. Chiudo gli occhi e faccio dei grandi respiri. La pietra blu è fredda contro le mie labbra. Ma serve a calmarmi. Ogni volta che faccio un brutto sogno, ogni volta che faccio quel brutto sogno, il mio medaglione è l’unica cosa che riesce a tranquillizzarmi. Mi infonde calore. A volte mi basta solo sfiorarlo, per sentirmi subito meglio.
Dopo un altro paio di respiri, controllo l’orario. Sono quasi le sette. Sospiro. Tanto vale alzarsi. Molto probabilmente Mary starà già preparando la colazione.
Sospetto fondato. Mary è in cucina che cuoce qualche uovo al tegamino. Non fa caso a me quando mi siedo, ancora assonnata. Ormai si è abituata anche lei alle mie continue alzate mattutine. È da un po’ che mi sveglio prima delle sette. Lei non sa che è per via dei miei brutti sogni, ma non ho intenzione di dirglielo. Si preoccuperebbe solo inutilmente.
Non appena le uova sono cotte, si volta verso di me e mi sorride. << Dormito bene?>> mi chiede, mettendole in un piatto e posandomelo davanti.
Sbadiglio. << Una meraviglia >> mento.
Lei non dice altro, così mangio le mie uova in silenzio. Cosa che mi fa veramente piacere. Se c’è una cosa che non sopporto, è l’interrogatorio appena mattina, quando ho ancora gli occhi chiusi, i capelli arruffati e la bocca impastata dal sonno.
Non appena finisco di fare colazione, corro in bagno e mi lavo. Poi vado in camera e accendo il telefono. Ci sono due messaggi. Il primo è di John.
“BUONGIORNO!  ♥”
Sorrido. Sono passati dieci giorni dalla festa di beneficenza. Dieci giorni in cui non ho fatto altro che pensare alle parole di John. << Sai, forse sono innamorato di te. Aspetto di esserne sicuro, per dirtelo, comunque.>>
Cavolo, quelle parole mi hanno ucciso! Perché mai ha dovuto pronunciarle?! Ma non è tanto quello il problema, quanto il fatto che io sia rimasta in silenzio quando me le ha dette. Stupida! Stupida! Stupida!
Sono. Una. Stupida.
Digito velocemente un buongiorno e invio il messaggio.
Non so  se mi si ripresenterà mai più l’occasione giusta per dire a John che lo amo. Perché si, ci ho pensato molto in questi giorni e sono giunta a una conclusione. Lo amo. Solo che lui non lo sa. E forse non lo saprà mai.
Sospiro e cerco di non pensarci, nonostante nella mia mente si focalizzi sempre il suo bellissimo viso.
Apro il secondo messaggio. È di Mia.
“TUTA OGGI. NON TE LO DIMENTICARE. CREDO CHE WALLACE CI FARA’ CORRERE ANCORA!”
Sbuffo, esasperata. Odio educazione fisica. E odio il fatto di dover indossare la tuta. Mi fa sentire una stupida, e un’emarginata. Non che io non lo sia già. Rispondo a Mia con un semplice ok e apro l’armadio.
Non ho molta scelta. Prendo la tuta grigia e rossa e me la infilo. Poi mi lego velocemente i capelli in una coda di cavallo. Almeno non dovrò perdere tempo a prepararmi. Questa storia, dopotutto, ha un suo lato positivo.
Afferro al volo lo zaino, esco di casa e monto sulla bicicletta. Non ho molta fretta, dato che sono in forte anticipo, quindi decido di fare una passeggiata.
Adoro sentire sulla pelle l’aria invernale.
 
Come non detto, questa mattina sono arrivata in ritardo.
Purtroppo alla prima ora avevo lezione di Chimica Avanzata, così quella stronza della Corelli mi ha messo una nota. Poi alla seconda ora ho avuto un compito in classe a sorpresa. Di storia! Non che la cosa mi sorprenda più di tanto. Ogni tanto la prof se ne esce con queste cose. Quindi in teoria avrei dovuto essere preparata. Errore! Il compito è andato uno schifo. Come d'altronde il resto della giornata.
Alla quarta ora Matematica mi ha anche interrogato. Che barba!
Quindi, come a mettere una bellissima ciliegina in cima a questa fantastica torta, ora ho ginnastica. Urrà!
Siamo tutte in fila in fondo alla palestra, pietrificate. Il professor Wallace ci passa davanti, guardandoci con occhio critico. Sta giocherellando con una palla. Ghigna. Quell’espressione non mi piace.
<< Bene, ragazze!>> esclama, urlando un po’ troppo. Vorrei tapparmi le orecchie ma non lo faccio. << Oggi si gioca a Dodgeball.>>
Un coro di no e di proteste si leva per tutta la palestra.
<< Ma professore!>> obbietta Jessica, facendosi portavoce del gruppo. << È un gioco da uomini!>>
Il professore fischia con forza nel suo fischietto, nonostante non ce ne fosse alcun bisogno. << Non è affatto un gioco da uomini!>> sbraita. << È un gioco da americani! Quindi, se non volete essere rimandate nella mia materia e venire qui in vacanza per dei corsi estivi, vi conviene non obbiettare!>>
Nessuno lo fa. Il professore sorride. << Bene!>> esclama, entusiasta. << Dividetevi in due squadre!>>
Non che mi aspettassi chissà che cosa, per carità. Sapevo già in principio quale sarebbe stata la mia squadra. Ma questa, questa è una cosa sleale!
Tutte le cheerleader si sono unite con le superallenate, vale a dire tutti quei maschiacci che hanno vinto dei tornei di lotta libera e di lancio del peso un anno si e l’altro pure. Insieme sono una squadra fortissima.
Dall’altra parte, invece, ci siamo noi. Le nullità. Non fraintendetemi, non ho niente contro le mie compagne. Ma queste! Queste sembrano appena uscite dalla scatoletta del piccolo chimico! Tutte minute e occhialute, guardano le palle davanti a noi come se fossero fatte d’acido. Verranno eliminate tutte prima di metà partita.
Guardo Mia. Sembra aver pensato la mia stessa cosa.
Abbozza un sorriso e alza le spalle. << A quanto pare siamo la loro unica possibilità.>>
Deglutisco. Non voglio essere la loro unica possibilità. Vorrebbe dire prendersi tutte le peggiori pallonate in piena faccia. Quindi passo.
Il professore soffia nel fischietto per richiamare la nostra attenzione. << Allora, ragazze. Le regole sono semplici. Al mio via, correte a prendere le palle. Chi riesce ad afferrarne una deve lanciarla. Se colpisce un avversario, il colpito è eliminato. Se l’avversario blocca la palla che avete lanciato, allora il lanciatore è eliminato. Vince la squadra che ha almeno un componente in campo. Mi raccomando, non voglio risse o spargimenti di sangue. Ok? Bene. E… andate!>>
Soffia ancora nel fischietto. Tutte ci precipitiamo a prendere i palloni. Ovviamente io non riesco a prenderne neanche uno, e la maggior parte va all’altra squadra, che inizia ad eliminare i componenti della mia come se fossero bolle di sapone.
Qualcuna della nostra squadra è riuscita ad acciuffare qualche palla, però. Ed è riuscita a colpire alcune ragazze esultanti e molto probabilmente distratte. Bene, non tutto è perduto.
Vedo Mia correre ad afferrare due palloni per poi lanciarli contro le avversarie. Ne elimina due. La imito. Afferro un pallone e lancio. Questo va dritto contro la gamba di una ragazza.
Il prof fischia. << Eliminata!>> La ragazza china il capo sconsolata e se ne va. Io raccolgo un’altra palla.
Passano alcuni minuti. Molte ragazze sono state eliminate. Nell’altra squadra sono rimaste in cinque. Nella mia siamo solo tre.
Una bionda corpulenta dell’altra squadra afferra una palla e fa fuori l’occhialuta al mio fianco. Lei esce di corsa. Sospiro. Bene, ora rimaniamo solo io e Mia.
Mia prende una palla e la lancia contro una ragazza, colpendola in pieno petto. Anche io faccio lo stesso. Ma la colpisco solo ad un braccio. Abbastanza, però, per essere eliminata.
Tre contro due. Mi sembra ragionevole.
Come non detto.
Mentre Mia si piega per afferrare un’altra palla una ragazza ne lancia una e la colpisce sulla schiena. Mia barcolla all’indietro e cade.
Le ragazze esultano. Wallace fischia. << Eliminata!>>
Mi sento salire un groppo in gola. Corro verso Mia e l’aiuto ad alzarsi. Lei mi guarda negli occhi. << Falle fuori >> sibila a denti stretti, con disprezzo. Annuisco leggermente. Mia va a sedersi e io mi volto a guardarle.
C’è Jessica che sorride, e non mi sorprenderebbe se fosse stata lei a lanciare quella palla. Molto probabilmente è proprio così. Mi guarda con aria di sfida. << Ora tocca a te >> mima con le labbra, ghignando.
Ingoio un po’ di saliva e guardo le altre due. Sono più grosse di me di almeno una spanna. Non ce la farò mai.
Resto immobile, a guardarle.
<< Che c’è, Rigida?>> urla Jessica, raccogliendo una palla da terra. << Hai forse paura?>>
Non so perché, ma quel soprannome, quel soprannome che non sentivo da tanto tempo, fa scattare qualcosa nel mio cervello. Sento un nuovo sentimento impadronirsi di me. Rabbia. Stringo i pugni.
<< Bene >> continua lei. << Sarà più divertente.>>
E carica. Porta il braccio indietro e lancia la palla. Anzi, la lanciano tutte e tre. Contemporaneamente.
Sono spacciata, me lo sento. Eppure c’è qualcosa che non va. Le palle vanno… piano. Troppo piano. È come se andassero… a rallentatore. No, un secondo. Stanno andando a rallentatore! Il tempo si è fermato! O forse sono io che sto andando più veloce?
Non perdo tempo a pensarci. Mi piego all’indietro, sulla schiena, e schivo la prima palla. Alzo appena lo sguardo per capire che, nella posizione in cui mi trovo, devo bilanciare il peso sul braccio destro. Evito la seconda. Guardo la terza arrivare. Sta per cadere sui miei piedi. Con un rapido balzo faccio forza sul braccio che ho a terra e sollevo le gambe, facendo una specie di ruota. La palla cade per terra.
Alzo lo sguardo. Non so quanto veloce sia stata la mia azione, ma sono tutte e tre allibite. È il mio momento d’agire.
Mi alzo con uno scatto e corro a prendere una palla. La lancio. Colpisce dritta nello stomaco l’avversaria. Eliminata.
L’altra ragazza sembra riprendersi. Mi guarda con sguardo truce e poi lancia una palla. Mi concentro. Anche questa sembra andare più piano. Alzo una mano e la blocco. Lei è senza parole. Sento l’adrenalina scorrermi nelle vene e pomparmi il cuore. Una morsa mi invade lo stomaco. Un’energia inspiegabile si impadronisce di me, facendomi sentire le gambe più resistenti, le braccia più forti. Ho una sensazione di déjà-vu. Sorrido. Lancio la palla e colpisco quella ragazza in faccia. Eliminata.
Restiamo solo in due. Io e Jessica. Ci fissiamo. Lei ha in mano una palla. È la botta decisiva. Non devo sbagliare.
Sospiro e mi giro di spalle. È insensato, lo so. Ma il mio istinto mi dice di fare così. Non so perché, ma ho smesso di pensare. Ora ascolto solamente quello che mi dice la pancia.
Sta per caricare, me lo sento. Immagino il suo volto, dipinto da un ghigno soddisfatto.
Chiudo gli occhi. Sento un brivido dietro la schiena. La palla sta per arrivare. È come se sentissi l’aria spostarsi insieme a lei. Eccola. Alcune ragazze della mia squadra mi gridano di voltarmi. Io non lo faccio.
È qui, la sento. Apro gli occhi. Scatto in una capriola all’indietro, dandomi la spinta con una gamba. Stendo l’altra gamba, e con una violenza e potenza inaudita, che non avrei mai creduto di possedere, colpisco la palla al volo. Quella torna indietro.
Atterro su entrambi i piedi e mi volto. Jessica si regge con una mano il naso sanguinante. Il prof soffia nel fischietto. << Eliminata!>>
Poi non capisco più niente. Una decina di ragazze si scaglia su di me, applaudendomi e menando urla di gioia. Alcune esultano, altre mi sollevano da terra e mi fanno saltare in aria. Sorrido. Abbiamo vinto. Ho vinto.
Quando mi riposano a terra, il professore si avvicina. << Complimenti, Hart >> dice, abbozzando quello che in teoria dovrebbe essere un sorriso.
Lo ringrazio, poi guardo Jessica. Sono un po’ preoccupata per il suo naso rotto.
Se n’è già andata. Di una cosa sono sicura, però.
Questa di certo me la farà pagare.
 
Suona la campanella.
Finalmente è ora di pranzo. Io e Mia ci dirigiamo a passo svelto nella mensa. Afferriamo un vassoio e ci mettiamo in fila.
Io prendo le patatine, lei uno yogurt magro. Ad entrambe viene servito un piatto che la cuoca chiama “carne misteriosa”. Una cosa è certa. Non ho intenzione di mangiarla.
Andiamo verso un tavolo vuoto e ci sediamo. Abbiamo già iniziato a mangiare quando arriva John. Ha il volto pallido e l’espressione leggermente rabbuiata. Noto che il suo piatto è semi-vuoto.
<< John, è tutto ok?>> gli chiedo, preoccupata.
Lui sospira e spezza un pezzo di pane. << Si, si. Tutto ok.>>
Aggrotto la fronte ma non faccio altre domande. Si vede che c’è qualcosa che non va.
Proprio quando apro la bocca per parlare, al nostro tavolo si fionda qualcuno. È Jessica.
Ovviamente non si siede, ma resta in piedi, con i palmi poggiati davanti al vassoio di John. Lo guarda. C’è qualcosa di malizioso nel suo sguardo, nonostante abbia tutto il naso coperto da cerotti bianchi. Vedendola così, sorrido. Ma sorride anche lei. Non a me, però.
<< Allora, John >> dice, un po’ troppo entusiasta. << dove ci incontriamo per la nostra ricerca?>>
Ricerca? Quale ricerca? Di che cosa sta parlando?
John irrigidisce la mascella ma non alza lo sguardo dal pane. << Non lo so, poi vediamo >> dice.
<< Sai, avevo pensato che forse potremmo vederci a casa mia. O magari a casa tua, come vuoi. Dove abiti?>>
John fa roteare gli occhi, esasperato. << Senti, Jessica, ti ho detto che non lo so. Ora, se non ti dispiace, vorrei mangiare. Ne parliamo dopo, ok?>>
Lei mi lancia una fugace occhiata, prima di rispondere. Gli fa l’occhiolino. << Ok.>> Sorride e se ne va, sculettando.
John non alza lo sguardo, ma chiude gli occhi. Mia mi guarda in attesa.
Fra tre. Due. Uno…
<< Di che accidenti stava parlando?!>> sbotto, all’improvviso.
John riapre gli occhi. << Niente >> dice, fingendosi disinteressato. << Si tratta solo di una stupida ricerca…>>
<< Di una stupida ricerca? Tu devi fare, con lei, una stupida ricerca?>> Sono furiosa. Fra tanti compagni che John poteva avere, proprio con Jessica doveva capitare. Perché?
Lui mi guarda, imbarazzato. << Non ho scelto io di fare con lei la ricerca!>> si giustifica. << È stata la prof di Storia! Ha deciso le coppie in ordine alfabetico, ed io sull’elenco sono subito dopo di lei.>>
Sento montare la collera. Quella gallina squinternata madre di un’oca deve uscire un pomeriggio per incontrarsi con John. Il mio John.
Senza volerlo, spezzo la forchetta di plastica. << E dai, non te la prendere >> mi implora lui. << È soltanto un’inutile ricerca di Storia.>>
Lo guardo, e mi perdo nei sui occhi. Suona strano, ma la prima cosa che riesco ad immaginare è a quando ci si perderà Jessica. Sospiro. << Promettimi solo che non ti farai abbindolare da lei. Quella ragazza è un’arpia e sa come far cadere tutti i ragazzi ai suoi piedi.>>
John mi fissa, e sorride. << Ma io non sono come tutti gli altri ragazzi, lo sai >> mi dice.
<< Promettimelo >> insisto.
<< Te lo prometto >> fa allora lui. << Ti fidi di me?>>
Annuisco leggermente, lui si china su di me e mi bacia.
Non è di lui che non mi fido. È di quell'oca giuliva a cui ho rotto il naso.

Angolo Scrittrice
Ciaoooo!!!
Si, si, lo so. Sono io. Prima di lanciarmi i pomodori, però fatemi parlare.

Mary: Non vogliamo ascoltarti!
Fa silnzio tu!
Mary: Non ti fai sentire per quasi un mese e poi pretendi che ti ascoltiamo? Hai idea di quanti piatti ho dovuto lavare prima che tu ti decidessi a postare un nuovo capitolo?!
*sbuffa* Parli come mia madre.
Mary: Come?!
Niente!
E adesso, vai via!
Bene, ora che siamo soli, vi spiego. In realtà il capitolo era pronto già da un po', ma dato che sono andata al mare e che lì non c'era connessione, non ho potuto aggiornare. Lo so, fa un po' schifo...
*evita un pomodoro* Smettila!
Ma vi dico che era essenziale per capire bene la storia ;)
Bene, detto questo, voglio farvi gli auguri per il ferragosto passato e augurare Buon Compleanno al mio sogno proebito, Percy Jackson. (Si, gente, il personaggio del libro! Oggi è il suo compleanno e in teoria (ho fatto i conti) compie 22 anni! **)
Bien bien. Detto questo, voglio dirvi che il prossimo capitolo è in fase di scrittura, quindi dovrei essere un po' più veloce a pubblicarlo, o almeno spero! ;)
Che altro... Ah, si. Ho iniziato a scrivere una nuova storia per il fandom di Percy Jackson, con personaggi tutti nuovi e alcuni dei vecchi. Vi potrebbe interessare? se si, fatemelo sapere. La pubblicherò a breve! :D
Va beh, ho detto tutto.
Me lo lasciate un commentino, vero? Un commentino piccino picciò? Un commentino piccino piccino piccino piccino...
Ok, basta. Avete capito! Commentatee!!
Ciao! :D

ValeryJackosn


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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


Questa giornata è una vera merda.
No, davvero, non sto scherzando. Fa schifo.
Allora, andiamo per gradi. È iniziato tutto stanotte. Dato che questa settimana ho continuato imperterrita a fare brutti sogni, questa notte non ho chiuso occhio, per paura di sognare di nuovo qualcosa. E così, questa mattina, sono crollata. Non ho sentito la sveglia, e sono dovuta letteralmente saltare fuori dal letto e andarmene, senza nemmeno fare colazione.
Ho fatto per prendere la bicicletta, ma ho scoperto che aveva una ruota bucata. Così sono andata a piedi.
Stavo camminando, quando ha iniziato a piovere. Ed io come una scema avevo scordato l’ombrello.
Come se non bastasse, ho lasciato la ricerca di Astronomia a casa.
Evviva!
Cammino a passo svelto. La pioggia è diminuita a qualche flebile gocciolina, ed io continuo a camminare a testa bassa, evitando di qua e di la le pozzanghere. Sono quasi certa di avere due occhiaie profonde e incavate, e non ho alcuna intenzione di sapere in che stato sono i miei capelli! Inoltre, mi brontola lo stomaco. Ho fame!
Quando arrivo davanti scuola, la maggior parte dei ragazzi è già entrata. Mi guardo intorno, distrattamente, quando noto John e Mia che mi aspettano davanti alla porta. Sorrido e li raggiungo.
John si accorge di me per primo, così mi viene incontro e mi bacia, posandomi una mano dietro la schiena. Mia ci raggiunge subito dopo.
<< Finalmente!>> esclama. Sembra quasi infastidita. << Si può sapere dov’eri?>>
<< Scusate >> mormoro, in leggero imbarazzo. << Oggi non è proprio giornata.>>
John aggrotta la fronte. << Problemi?>>
Faccio finta di pensarci. << Beh, dipende >> dico. << Se per te avere le gomme della bici bucate nel giorno piovoso in cui ti svegli tardi e poi accorgerti a metà strada di aver scordato i compiti a casa è un problema allora, si. Ci sono problemi.>>
John ride e mi da un bacio sulla guancia.
Mia osserva l’orologio. Fa finta di sgranchirsi la voce. << Ehm, scusate. Se voi avete finito di fare i piccioncini, io ho un compito di storia.>>
Entrambi la guardiamo, senza rispondere. Lei sbuffa esasperata e si dirige a grandi falcate verso la porta. Io e John ridiamo, poi ci scambiamo una rapida occhiata. Lui mi sorride, prima di intrecciare le sue dita nelle mie e dirigerci verso l’ingresso.
Non appena entriamo, sento nell’aria un mormorio strano. Tutti quanti parlottano, a bassa voce, e la maggior parte di loro sembrano scioccati. Hanno quasi tutti dei fogli in mano.
Molto probabilmente avranno appena annunciato qualche avvenimento speciale, mi dico.
Poi noto un’altra cosa. Tutti stanno fissando me. È strano, mi notano, sgranano gli occhi e poi si voltano per sussurrare qualcosa ai loro compagni.
Mi guardano. Anzi, ci guardano. Sia a me che ha John.
Aggrotto la fronte. Che cos’hanno da guardare? Ok, si, forse ho un aspetto orribile, glie lo concedo, ma cosa vogliono da John? Io e lui ormai stiamo insieme da un po’. Cosa c’è di strano se ci teniamo per mano?
I mormorii aumentano quando attraversiamo il corridoio.
<< Ma che cosa succede?>> chiede Mia, confusa. Io non rispondo, non so che dire. Molti ragazzi indicano i fogli che hanno in mano e poi ci guardano. Che diavolo c’è scritto su quei fogli?
Mi guardo intorno, e noto una cosa che mi lascia un attimo interdetta. Tutta la scuola è tappezzata di questi volantini. Gli armadietti, i muri, le porte. Tutto! Mi rendo conto che non c’è una scritta sopra, ma una foto. Una foto che non riesco a distinguere, per la confusione. Ma che cosa c’entro io?
John mi lascia lentamente la mano e si fa largo fra alcuni studenti per afferrare un volantino su un armadietto. Lo stacca con forza e lo guarda.
La sua faccia passa dalla sorpresa, all’incredulità, alla rabbia. Poi, diventa preoccupata.
Aggrotto la fronte, guardandolo, e un volantino finisce per sbaglio sotto il mio piede. Lo raccolgo.
Sopra c’è la foto di due ragazzi, a Central Park. Si abbracciano e si guardano negli occhi. Sembra quasi che stiano per baciarsi.
Aspetta, ma quelli sono…
Il mio cuore si ferma per un secondo, togliendomi il respiro.
Quelli sulla foto sono Jessica e John…
No, non può essere. Mi sto sbagliando. Devo sbagliarmi!
Guardo John, in cerca di una conferma. Una conferma che quello è tutto uno stupido errore, che quello sulla foto non è lui. Una conferma che quella sulla foto non è Jessica. Una conferma che, purtroppo, non arriva.
Lui mi guarda, spaesato, non sapendo cosa dire. E il mondo mi crolla addosso.
Un nodo mi aggroviglia lo stomaco, e gli occhi cominciano a farmi male. Guardo negli occhi John. La mia è più una supplica, che una domanda.
Lui scuote la testa, avvicinandosi. << Valeri, ascolta. Non è come pensi. Io… >>
Non sento il resto della sua frase. Scappo via, in lacrime.
Sento chiamare il mio nome, ma non mi volto. Esco di corsa da scuola e mi avventuro nel bosco.
Corro, corro e corro. Corro all’impazzata. Non ho idea di dove sto andando, vedo solo alberi saettare veloci accanto a me. Alberi che piano piano diventano indistinti. Ho gli occhi gonfi di lacrime, ma non riesco ancora a piangere. Il vento che mi sferza il viso mi impedisce di farlo.
Alberi, alberi e ancora alberi. Qualche foglia secca si accartoccia sotto i miei piedi, qualche ramo si spezza. Mi fanno male le gambe, mi fanno male i polmoni. Mi fa male il cuore.
Voglio fuggire da tutto questo. Voglio arrivare fino al puntino bianco per poi svegliarmi nel mio letto e rendermi conto che questo è solo un brutto sogno.
Prima sentivo delle voci chiamare il mio nome. Ora non più. Credo di essere sola.
Continuo a correre per un po’, il cuore che minaccia di scoppiarmi nel petto. Ho la testa che mi pulsa e mi fa male il fianco.
Mi fermo e mi appoggio a un albero, sfinita. Mi guardo intorno, disperata.
Non era un sogno. Tutto questo era vero. Quella foto era… era…
Mi stringo forte la pancia, che mi fa male. Ho le guance bagnate. Altre lacrime escono da i miei occhi.
Mi accascio a terra, mi stringo le gambe al petto, la testa fra le ginocchia, e piango. Piango a non finire. Piango fino a sentirmi male, finché i singhiozzi non sono così forti da togliermi il respiro.
Sono sola. Mi fa male il petto e Dio solo sa come faccia il mio cuore a non essere ancora esploso. Non è esploso, ma si è spezzato. Si è frantumato in tanto piccoli pezzettini che hanno iniziato a fluttuare senza meta nel mio petto, non sapendo più dove andare e facendomi un male cane.
Sento che sta per scoppiarmi la testa. Continua a pulsare, e ormai le mie lacrime sono così forti da otturarmi le orecchie. Stringo forte i pugni. Mi sto bagnando la maglietta, le braccia, e il jeans all’altezza delle ginocchia. Ma non mi importa. Ormai il mio mondo è crollato.
Sento di aver perso qualcosa, qualcosa che non può tornare. Mi sento persa, inutile.
Mi sento tradita.
 
Non ho idea di quanto tempo io sia rimasta seduta lì a piangere.
So solo che quando i miei singhiozzi erano diminuiti e le lacrime rigavano calde le mie guance senza far rumore, alzai lo sguardo, e il sole stava tramontando. Dovevo essere rimasta lì tutta la mattinata, e anche tutto il pomeriggio. Il tempo era volato, ed io l’avevo passato a piangere.
Ma non avevo ancora finito. Perché la sola vista di quel cielo roseo mi fece tornare in mente il volto di John. So che non aveva senso, ma per me ce l’aveva. E ricominciai a piangere, singhiozzando, seppur stavolta più sommessamente.
Dopo qualche minuto, una mano si posò sulla mia spalla, facendomi sobbalzare.
Alzai lo sguardo, gli occhi gonfi di lacrime, e ciò che vidi mi lasciò un attimo senza parole. O meglio, chi vidi.
Matt, che mi scrutava teneramente con i suoi occhi verdi, si inginocchiò accanto a me. Mi passò una mano sui capelli.
<< Su, andiamo a casa >> mi disse.
Io ero troppo stanca e affannata per alzarmi. Lui lo capì, così mi prese in braccio e mi portò fuori dal bosco. Mi permise addirittura di posare la testa sul suo petto, continuando a singhiozzare, e non disse niente, neanche quando gli bagnai la maglietta.
In quel momento capii tutto. Mia doveva avermi cercato, per mari e per monti. Evidentemente non mi aveva trovato, e, disperata, aveva chiamato Matt, chiedendogli di cercarmi. Lui, ovviamente, aveva accettato.
Apprezzavo molto il fatto che era lì. Che era lì, con me. Ero scappata, senza ascoltare spiegazioni, senza che nessuno mi consolasse.
Ma ora, fra le sue braccia, mi rendevo conto di quanto in realtà fosse confortante avere accanto una persona vicina. Avere accanto un amico.
Mi portò a casa. Lui avrebbe anche voluto scortarmi alla porta, ma io rifiutai. Lo ringraziai per tutto e lui mi sorrise.
<< Di niente >> mormorò, gli occhi pieni di compassione. Non aveva spiccicato una parola per tutto il tragitto. Non aveva detto niente, non aveva accennato a John. A quanto pare, anche per lui era difficile da credere. In fondo, John era suo amico.
Aspettò che io aprissi la porta di casa, prima di riaccendere il motore e ripartire.
Io sono entrata come uno zombie.
Ed è così, che ora mi sto dirigendo per il corridoio.
Vado in cucina. Mary è seduta al tavolo, la testa fra le mani, preoccupata. Non appena mi nota sull’uscio, si alza di scatto.
<< Valeri… >> mormora.
Io non ce la faccio. Lascio cadere a terra lo zaino e corro in camera mia.
Sbatto con forza la porta e mi butto sul letto. Stringo forte il cuscino, affondandoci la testa, e ricomincio a piangere, a singhiozzare.
Dopo un po’, sento la porta della mia camera aprirsi piano. Mary entra e si siede accanto a me.
Mi posa una mano sulla spalla. << Valeri… >> ritenta di nuovo, ma i miei singhiozzi sono troppo forti, e lei non riesce a terminare la frase.
Se ora potessi vedere i suoi occhi, giurerei che sono preoccupati. << Cos’è successo?>> mi chiede, cauta.
Mi sembra strano che non lo sappia già. Possibile che Mia non glie l’abbia detto? Molto probabilmente no. Forse ha ritenuto più giusto che fossi io a parlagliene.
<< Mi dispiace >> singhiozzo. << Io… io… >> Non riesco a parlare. Le parole mi muoiono in gola.
<< Schh >> mormora Mary, accarezzandomi la schiena. Poi mi afferra saldamente la spalla. << Vieni qui.>>
Lentamente, mi alzo, guidata dalla sua stretta. Non appena sono seduta, Mary mi abbraccia.
Io affondo il viso nell’incavo del suo collo, e continuo a piangere. Più forte.
Mary non dice niente, si limita ad accarezzarmi i capelli e a stringermi a se. In qualche modo, il suo profumo mi rilassa.
Tento con tutte le mie forze di smettere di piangere, ma questo non fa che peggiorare la situazione, e sembra quasi che io abbia il singhiozzo.
Mary se ne accorge e mi posa una mano sulla nuca, accarezzandomi i capelli.
<< Piangi, bambina mia >> dice. << Piangi finché ne hai bisogno. Piangi finché non ti stanchi. Piangi finché non ti senti male. Piangi finché ne hai voglia.>>
E così faccio. Piango. Piango con tutto il fiato che ho in gola. Piango finché non mi fa male la gola, piango finché non mi bruciando i polmoni. Piango finché non mi sento troppo stanca perfino per respirare.
Mi faccio cullare dalle sue mani fra i mei capelli e dal suo odore.
Piango finché non mi rendo davvero conto che tutte quelle lacrime sono solo per John.

Angolo Scrittrice
Salve Gentee!!
Ecco qui, per voi, un nuovo capitoloo! :D

So che è un po' corto, e mi dispiace, ma dopo un po' non sapevo più cosa scrivere e così mi sono fermata qui.
So già che la maggior parte di voi mi sta odiando in questo momento, e che adesso mi trovassi di fronte a qualcuno si voi puzzerei già di pomodori, ma, ehi, che posso farci? Mia la storia, mie le idee, mie le cavolate che scrivo. Purtroppo questo capitolo era indispensabile :(
Ma state tranquilli. Mi rifarò con i prossimi ;)
Coomunque... Che ve ne pare? Vi è piaciuto? Anche se forse non è esattamente il capitolo che aspettavate, me lo lasciate un commentino? Vi pregooo! *w*
Aspetto con ansia i vostri pareri ^^
Di più non so che dirvi.
Un bacione! ;*
Alla prossima :D
La vostra
ValeryJackson

P.s. Sto scrivendo una nuova fanfiction per il fandom di Percy Jackson. Qualcuno di voi è interessato? ^^  

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


La sveglia suona, incessantemente.
Allungo svogliatamente la mano per tentare di zittire quel suono fastidiosamente squillante, ma ci metto un po’ per trovarla sul comodino ad occhi chiusi.
Non appena riesco a premere il pulsante per spegnerla, apro lentamente gli occhi. La flebile luce del sole che entra dalla tenda semi aperta mi acceca, così batto un po’ le palpebre, nel tentativo di abituarmici.
Mi strofino la faccia, con uno sbadiglio. Ho gli occhi gonfi, e sono distrutta.
I ricordi della sera precedente mi piombano addosso come un macigno di ferro. Sono rimasta tutta la notte a piangere, finché non ero talmente esausta da essere crollata. Non mi sono neanche svestita. Ho ancora i pantaloni sporchi di terra della sera prima.
Strizzo forte gli occhi e mi mordo le labbra, stringendo nel pugno il soffice lenzuolo.
Faccio un respiro profondo, e, reprimendo un singhiozzo, mi alzo di scatto.
Corro in bagno, mi spoglio, e mi butto sotto la doccia. L’acqua cade gelida sul mio viso, ma non ho intenzione di farla diventare calda. L’acqua fredda è più un toccasana, e, forse, è anche capace di far scivolare via i pensieri. O almeno, è di questo che tento di illudermi mentre mi insapono.
Quando esco, sono stanca morta, forse per via delle poche ore di sonno.
Non ho voglia di fare niente, oggi. Non ho voglia di asciugarmi i capelli. Non ho voglia di pettinarli. Non ho voglia di truccarmi. Dio solo sa dove trovo le forze di strisciare verso l’armadio di camera mia, con i capelli ancora gocciolanti, e infilarmi i primi vestiti che mi capitano sotto mano.
Strofino la testa con un asciugamano, sperando di rimuovere più acqua possibile, e quando riemergono tutti scompigliati e arruffati, me li pettino alla meno peggio con le mani.
Poi scendo di sotto. Per le scale, avverto un leggero profumino di uova strapazzate.
Mi fermo di colpo.
Mary non sa quello che è successo ieri. Sono tornata a casa, stanca e in lacrime, e lei è rimasta con me finché non mi calmassi, ma ogni volta che mi chiedeva che cosa fosse accaduto, io non riuscivo mai a rispondere, e riprendevo a piangere. Così, dopo la terza volta, ci ha rinunciato.
Le ho promesso che glie lo avrei detto il giorno dopo, ma ora non ho alcuna voglia di parlarne, ne di ricordarlo.
Faccio un bel respiro, e mi dirigo lentamente in cucina. Non appena mai madre si accorge che sono sul cipiglio della porta, si volta a guardarmi. Mi squadra, con un’espressione che non riesco a decifrare. O forse sono troppo stremata per farlo. << Ciao!>> esclama, sorridendomi. Io ricambio il saluto, così lei mi chiede: << Come stai?>>
Mi irrigidisco per un secondo. Non ho intenzione di farle capire ciò che è successo. Non ora, almeno. Mi dipingo sul volto il sorriso più grande che riesco a fare. << Bene!>> esclamo, forse con un po’ troppo entusiasmo. << Alla grande >> annuisco, con un po’ più di moderazione.
Lei annuisce, ma non aggiunge altro. Prendo un piatto dalla mensola e ci verso dentro un po’ di uova. Lei fa lo stesso e insieme ci sediamo a tavola.
Mangiamo in religioso silenzio. Lei finisce prima di me, per questo si alza e inizia a lavare i piatti. Io ingurgito lentamente. Non ho alcuna voglia di mangiare. Ma, dato che di solito non è così, credo che Mary si insospettirebbe. E questa è l’ultima cosa che voglio.
Quando ha finito, si siede accanto a me. Ho cercato di mantenere un’espressione perlomeno allegra per gran parte del tempo, e questo ha richiesto tutta la mia dedizione. Ma, ora che la osservo di nuovo, mi rendo conto di non essermi accorta dell’espressione pensierosa sul suo volto.
<< Mamma?>> le chiedo, corrucciando le sopracciglia. << Stai bene?>>
Lei sembra riprendersi, e annuisce appena. << Si… stavo solo… pensando >> dice.
Mi costringo ad ingoiare un’altra forchettata. << A cosa?>> dico, con la bocca piena.
<< A stasera. Sai… sono così agitata.>>
Aggrotto la fronte, non capendo. Non sentendo arrivare alcun commento da parte mia, si volta a guardarmi. << Ti sei ricordata, di stasera, vero?>> chiede in modo incalzante, inarcando un sopracciglio.
Sbuffo, sperando di non far capire che no, non me lo ricordo. << Ptf. Certo che me ne sono ricordata! Stasera… >> Cerco di pensare il più velocemente possibile. << È forse qualche festa nazionale?>> azzardo.
Mary fa roteare gli occhi. << Valeri. Per la miseria! Te ne ho parlato una settimana fa!>>
<< Di cosa?>>
<< Della cena…>> cantilena lei, sperando forse che questo mi aiuti a ricordare. Quando capisce che non è così, sbuffa. << Ho invitato Harry e John a cena qui, questa sera. Voglio cucinare per loro.>>
È come se mi fosse crollato il soffitto addosso. Non riesco a parlare. << Ah >> mormoro, atterrita.
Mary aggrotta la fronte, giocherellando con il suo anello. << Sei ancora d’accordo, vero?>>
Resto un attimo in silenzio. No. No che non sono d’accordo! John è un traditore, diamine! Uno sporco traditore. Ho pianto per lui tutta la notte. Sto facendo di tutto per non pensarlo. E adesso lui dovrebbe venire a casa mia? Con suo padre? No. No. E no. È fuori discussione. Non se ne parla.
<< Si, certo. Ovvio >> rispondo invece, con un falso sorriso. Stupida! Ma non ho scelta. Mary non sa niente, e da come ne parla, tiene a questa cena molto più che al fatto di respirare. Non posso rovinarle tutto. Non a causa mia. Non a causa sua.
Lei sospira, e solo ora mi accorgo che stava trattenendo il fiato. << Bene >> dice, sollevata. << Credevo avessi cambiato idea.>>
Cerco di farle un sorriso rassicurante, ma non mi riesce proprio, così lascio perdere.
La mente di Mary sembra improvvisamente andare a tremila giri, così veloce che riesco a vedere le rotelle del suo cervello correre in discesa. << Cavolo! Ho così tante cose da fare! Devo pulire la casa, e comprare il pane. Poi devo andare a comprare i pomodori, perché volevo fare il mio pasticcio di maccheroni, ma non posso farlo senza il pomodoro. E neanche senza i maccheroni. Dio, non so nemmeno se ci sono, i maccheroni. E se poi non ci sono devo riuscire a comprarli, e…>> Dopo questo, non sento più niente. Mi concentro sul piatto che ho davanti, schiacciando con la forchetta le uova strapazzate. La lascio sfogare, mentre un unico pensiero mi ronza per la testa. John. John in casa mia. Questo è un incubo.
Giuro, in questo momento, ho voglia di urlare.
Non mi accorgo neanche che Mary ha finito di parlare e che mi sta osservando.
<< Valeri?>> chiede. << Mi stai ascoltando?>>
<< Eh?>> Alzò gli occhi dal piatto, e incontro il suo sguardo. << Certo >> affermo, provando a mostrare compostezza. Ma vengo tradita bellamente dal tremolio della voce. Così me la sgranchisco e riporto l’attenzione sulle uova. << Certo. Stavo ascoltando.>>
Non ho idea dell’espressione che ha mia madre in questo momento, ma sono quasi sicura che stia inarcando un sopracciglio. Dopo un po’, la sento sospirare. << Scusami… >> mormora, amareggiata. << So che ti sto annoiando, ma, vedi, per me questo è molto importante. Sono quasi quindici anni che non trovo un uomo che… che mi faccia sentire speciale. E… >> Esita un secondo. << …E voglio che tutto sia perfetto.>>
Presa da un impeto di tenerezza, le prendo la mano e glie la stringo. << Lo sarà >> la rassicuro.
Lei mi sorride, gratificata, e ricambia la mia stretta.
Ho voglia di dirle tutto, ma non lo faccio. Non lo farò. Tiene davvero tanto a quell’uomo, e, seppur odio il figlio, non permetterò che questo ostacoli forse la sua vera prima storia d’amore.
Dopo qualche secondo, Mary aggrotta le sopracciglia, come se si fosse appena ricordata qualcosa. Mi guarda. << A proposito >> chiede, con fare interrogativo. << Che cosa ti è successo, ieri sera?>>
Mi irrigidisco di colpo. E adesso, cosa le dico? Mi alzo, e cerco di sembrare disinvolta mente scrollo le spalle. << Oh, niente di che. Solo un’interrogazione andata male.>>
<< Un’interrogazione?>> fa lei, scettica. Stingo gli occhi, ma per fortuna lei non può vedermi, perché sono girata verso il lavandino. << Stavi così male per un’interrogazione?>>
Mi mordo il labbro. No, certo che no. Non potevo inventarmene una migliore? << Beh… si >> balbetto, voltandomi lentamente. << Sai, era un’interrogazione molto importante, che mi avrebbe permesso la promozione assicurata, ma è andata uno schifo. La prof ha minacciato di bocciarmi. Io… >> Dalla sua espressione, capisco che non crede ad una sola parola di quello che dico. Metto su un sorriso tirato. << Io… vado…a … prendermi lo zaino!>> esclamo. E non aspetto neanche una sua risposta. Mi precipito in camera, sperando che lei non mi segua per farmi domande.
 
L’aria, fuori, è pungente.
C’è un leggero venticello, e forse non è stata un’idea così geniale mettersi soltanto una felpa.
Ho le cuffie nelle orecchie, con la musica a tutto volume. Speravo di distrarmi. Ma non serve a niente. Semplicemente, a volte, il volume della musica dovrebbe superare quello dei pensieri. Peccato che i miei siano troppo incasinati perché questo possa capitare.
Entrare a scuola, poi, è uno strazio. Tutti i ragazzi si girano a guardarmi, e li vedo perfettamente mentre si voltano per mormorare qualcosa, nel momento in cui attraverso il corridoio. Non sento casa dicono, e non mi interessa. Ho già abbastanza problemi per conto mio.
Quando mi tolgo le cuffie e le riarrotolo intorno all’IPod, sento una voce chiamarmi per il corridoio.
<< Valeri!>> Alzo lo sguardo. Mia mi sta correndo incontro. Ha i capelli un po’ trasandati, ma questo non distoglie l’attenzione dal suo trucco perfetto. Quando mi raggiunge, mi fissa per un secondo. Poi mi abbraccia. << Sono così felice di rivederti! Si può sapere che fine hai fatto? Mi sono spaventata a morte. Ti ho inviato circa una trentina di messaggi!>> esclama, così rapidamente che faccio fatica a seguirla.
Quando finalmente mi libera da quell’abbraccio soffocante, sono libera di rispondere. << Mi dispiace >> mormoro, abbassando lo sguardo e togliendomi una ciocca di capelli dalla bocca. << Io >> Mi sgranchisco la voce. << Non ho acceso il telefono.>>
Mia mi guarda, ma non proferisce parola. Non mi chiede neanche come sto, e di questo le sono grata, perché sono stanca di mentire a quella domanda. Noto, comunque, un velo di preoccupazione attraversare i suoi occhi. Decido che forse il modo migliore per tranquillizzarla è convincerla che va tutto bene, così abbozzo un sorriso. << È stato Matt, a trovarmi >> le dico. << E poi mi ha anche riportato a casa. È stato gentile, da parte sua.>>
Mia sorride, lo sguardo perso nel vuoto. << Già, Matt è un tesoro. Quando non sono riuscita a trovarti, ero disperata. Temevo che ti fosse successo qualcosa, così ho chiamato Matt. Lui non ha fatto domande. Ha lasciato le prove della band, è salito in macchina, ed è stato al telefono con me nel tentativo di tranquillizzarmi. Mi ha davvero aiutata.>>
Annuisco. << Ha davvero un cuore d’oro.>>
Annuisce anche lei, ma non aggiunge altro. Scorgo sofferenza, nel suo sguardo. So che vorrebbe raccontarmi tutto. Di come sta bene con lui. Di quanto sia dolce. Di quanto lo ami. Ma so anche che non lo fa per paura che io mi offenda. E questo mi manda in bestia. Il silenzio comincia a farsi pesante. Da quando le cose fra noi sono diventate così imbarazzanti? Ci siamo sempre dette tutto, noi due. Che cos’è cambiato, adesso?
Con lo stesso silenzio che non si spezza, ci dirigiamo entrambe verso il mio armadietto. Io tengo gli occhi fissi sul pavimento, mentre lei giocherella con qualche sua ciocca di capelli.
Quando mi rendo conto che siamo arrivate, alzo lo sguardo. E lo trovo lì. Al suo armadietto, proprio accanto al mio, intento ad inserire la combinazione.
Mi fermo di botto. Mia mi guarda, incuriosita. << Che c’è?>>
Non faccio in tempo a rispondere, che John sposta lo sguardo, e i miei occhi incontrano i suoi. << Oh, merda…>> mormoro.
Faccio appena in tempo a vedere la sua bocca aprirsi per dire qualcosa, prima di voltarmi e iniziare a camminare velocemente per il corridoio. << Valeri, aspetta!>>
Non ho intenzione di aspettare.
<< Valeri, fermati. Ti prego!>>
Non ho intenzione di fermarmi.
Continuo a camminare impettita finché non sento una mano sulla spalla. A quel punto, mi volto di scatto. I miei occhi incrociano i suoi, e sono attraversata da un moto di rabbia.
<< Valeri, ti prego. Non scappare >> mi supplica.
<< Che vuoi?>> domando, brusca. Non ho intenzione di restare qui neanche un secondo di più.
<< Ti prego. Fammi spiegare.>>
<< Oh. E sentiamo. No, dai, sono curiosa, sentiamo. Che cosa vuoi spiegarmi?>> esclamo, con sarcasmo. << Vuoi forse spiegarmi perché la scuola è stata tappezzata da quella foto? O chi ha scattato quella foto? O come mai tu eri con lei in. Quella. Foto!>> Mi sento avvampare. E l’unica cosa che riesco a fare è urlargli in faccia.
<< Valeri, per favore. Devi ascoltarmi. Io…>>
<< Oh, non venirmi a dire ora le solite frasi fatte come “non è come pensi” o “c’è stato un errore” o “Io ti amo veramente”, John, perché non ci casco!>> lo interrompo, sputandogli in faccia le parole senza neanche riprendere fiato. << Ho visto abbastanza televisione da capire che quelle sono soltanto un mucchio di balle, e non ci risolvo niente a sentirne dire altre da te!>>  
<< Ma…>>
<< Risparmiami >> lo interrompo. Mi volto furiosa, e faccio per andarmene, quando la sua voce mi arriva di nuovo all’orecchio.
<< Ti prego, io…>>
<< No, John! Basta!>> gli urlo, voltandomi di scatto e fronteggiandolo, la rabbia che mi pulsa nelle vene. << Sono stanca, capito? Stanca! Stanca di avere gente intorno di cui non potermi fidare. Stanca di essere considerata sempre come l’ultima ruota del carro!>> La mia voce trema. << Ci ho messo >> Esito. << Ci ho messo… tutta la notte, per poter superare la cosa. Ho impiegato… delle ore, per convincermi del fatto che tutto questo non fosse reale. Ore, per anche solo provare a illudermi che non me ne importasse niente, e che non serviva piangere!>> Mi maledico mentalmente per il tentennamento della mia voce. Scandisco le ultime parole con molta ferocia. << Tu non hai idea di quello che ho passato.>> Gli punto un dito contro. << Tu non hai idea di quanto questo mi abbia fatto male! E se c’è una cosa che in questo momento vorrei è stare a chilometri di distanza da te solo per soffocare la voglia di tirarti un pugno in piena faccia!>> Mi sforzo in tutti i modi di reprimere le lacrime, ma la vista mi si appanna lo stesso. << Non mi interessa se i nostri genitori si amano >> dico, con freddezza. << Stasera per mia madre è una serata molto importante, e io ho permesso che vi invitasse a cena solo perché le voglio bene. Lei non sa niente, e mai lo saprà. Ma non provare a rivolgermi la parola. Non provare ad avvicinarti, non provare a guardarmi. Non provare nemmeno ad aprire la bocce perché “vuoi spiegarmi”>> Apostrofo le ultime due parole facendo le virgolette con le dita, accompagnate da un verso di scherno. << Perché non ti calcolerò. Sarà come se tu non esistessi, e per te sarà la stessa identica cosa. Sarai a casa mia, ma saremo come due estranei.>> Avvampo, le braccia strette lungo i fianchi, mentre lui mi guarda con la mascella irrigidita e una leggera espressione di dolore. I suoi occhi mi scrutano. Vorrei guardarlo con disprezzo, vorrei odiarlo con tutto il mio cuore. Ma non ce la faccio. Non mentre guardo quegli occhi blu che mi hanno sempre fatto tremare le ginocchia.
Gli lancio un’ultima occhiata, neanche lontanamente piena dell’odio che avrei voluto. << E lasciami in pace >> dico, fredda. Poi mi volto, e riprendo a camminare lungo il corridoio.
Stavolta, lui non mi segue.
Non appena svolto l’angolo, mi appoggio al muro, ansimante. Devo riprendere fiato. Dietro di me, sento un urlo di frustrazione e un pugno sbattuto violentemente contro l’anta di un armadietto.
La vista mi si appanna. Non posso credere di quello che ho appena detto. Di quello che ho appena fatto.
Mi copro il volto con una mano e faccio dei grandi respiri tremanti. Ho voglia di piangere, ma non lo farò. Ho smesso, con queste cose. Ho già versato troppo lacrime per lui, benché non se le meritasse. Basta essere un bersaglio così facile per gli altri. Basta mostrare a tutti la propria carne viva con la consapevolezza che quelli hanno in mano tanti stuzzichini. Basta.
Mi porto i capelli dietro la testa con entrambe le mani, facendo un bel respiro.
Basta piangere per persone che per me non lo faranno mai.
 
Guardo il mio riflesso nello specchio, con un sospiro.
Mia madre aveva ufficialmente deciso che per questa cena dovevamo vestirci in modo elegante, ed io non me l’ero sentita di contraddirla davanti a quegli occhi lucidi, così l’ho assecondata.
Indosso un vestito a tubino, aderente, rosso. Le maniche sono lunghe tre quarti, e la gonna mi arriva sopra al ginocchio. È molto semplice, eppure, con le scarpe con tacco dello stesso colore, fa la sua bella figura.
Mia madre mi ha anche costretto a truccarmi. Inizialmente non volevo farlo, ma poi ho capito che dirlo ad alta voce sarebbe stato strano. In fondo, tecnicamente parlando, stava sempre venendo a cena quello che dovrebbe essere il mio ragazzo, e se adesso lo fosse stato davvero, avrei cercato di sembrare carina.
È stato difficile comportarsi come se tutto fosse come prima. Alla fine mi ci ero così abituata che credevo davvero che lo fosse, e che quello fosse stato solo tutto uno stupido sogno, e che ero davvero felice di vedere in casa mia i capelli biondi di John.
Ma, purtroppo, tutte le mie illusioni sono svanite quando mi sono guardata allo specchio, e sono raggelata. Ma chi voglio prendere in giro? Tutto questo è vero, verissimo. Il mio ex ragazzo sta davvero per venire a cena da me, e io sto davvero facendo di tutto per evitare di pensare che si tratta proprio dello stesso ragazzo che mia ha tradita. E che lo ha fatto nel peggiore dei modi.
Sono così tanto sovrappensiero, concentrata a trattenere le lacrime, che non mi rendo neanche conto di Mary che mi osserva dal ciglio della porta con un sorriso sulle labbra.
<< Sei magnifica >> mi sussurra, con una nota di soddisfazione.
Faccio incontrare i nostri occhi scuri nel riflesso, tentando di abbozzare quello che dovrebbe sembrare un sorriso gratificante, ma che in realtà è solo pieno di dolore.
Lei mi raggiunge e si posiziona dietro di me, spostandomi di lato una ciocca di capelli e osservando la mia immagine allo specchio al di sopra della mia spalla.
Sento la sua mano delicata accarezzarmi la nuca, e vedo la sua espressione mutare da una soddisfatta a una nostalgica. Sospira. << Oh, tesoro. Sei diventata così grande. Sei una donna, ormai >> dice, con dolcezza. Non ci giurerei, ma i suoi occhi sembrano quasi tristi. << Ricordo ancora quando da bambina mi pregavi di farti la treccia.>>
Sorrido, a quel ricordo. Avevo si e no sette anni, e ogni volta che mia madre mi faceva quella treccia ricordo che mi sentivo più bella, più grande. Ora, forse, se ce l’avessi, sarebbe l’esatto contrario, e tornerei ad essere la bambina spensierata di un tempo. Il che non sarebbe male.
<< Ti va di farmela ora?>> le chiedo.
Il suo volto si illumina, e la sua bocca si allarga in un sorriso. << Ma certo!>> esclama. Poi corre frenetica in bagno per prendere spazzola e pettine e si mette all’opera. Ci mette si e no dieci minuti, ma il risultato è spettacolare.
Quando mi guardo allo specchio, stento quasi a riconoscermi. Inizia dall’alto a sinistra, per poi scendere sinuosa sulla mia spalla destra, in un incrocio di nastri e capelli.
Qualcuno suona al campanello. Mia madre sussulta sul posto, poi sembra riprendersi e si precipita giù per le scale.
Mentre mi accarezzo distrattamente la treccia, la sento gridare. << Valeri, vieni!>>
Perfetto, penso. Si va in scena.
Mia madre sembra eccitata mentre saltella davanti alla porta come una scolaretta farebbe davanti al negozio dove vendono la sua bambola preferita.
Mi guarda, con un sorriso raggiante, come per darmi l’ok. Poi apre.
Il sorriso di Harry mi esplode immediatamente in faccia.
<< Ciao!>> esclama mia madre, buttandogli le braccia al collo e lasciandogli un bacio a fior di labbra. << Che bello avervi qui.>>
<< Il piacere è tutto mio >> risponde lui, gentile come al solito.
Solo in quel momento Harry sembra notarmi, e mi regala un bel sorriso. << Ciao Valeri!>>
<< Salve, signor Smith >> dico, cercando di sembrare entusiasta.
Lui scuote la testa, ridendo. << Ti ho detto mille volte di chiamarmi Harry.>>
<< Come vuol… vuoi, Harry.>> E sorrido.
Poi, lui porge a mia madre un vassoio avvolto dalla carta stagnola. << Ho portato il dolce.>>
<< Oh, fantastico!>> esclama lei, prendendolo in mano. << Vado subito a metterlo in frigo!>>
E poi, entra John. Il mio cuore sembra perdere un battito, e sento inspiegabilmente una fitta allo stomaco. Tristezza? Dolore? No, solo rabbia. Rabbia per non poterlo prendere a schiaffi.
Ci scambiamo uno sguardo, e, se il mio è gelido, il suo fatica ad essere indifferente.
Abbasso lo sguardo, e solo allora mi rendo conto dello strano silenzio che è calato sulla stanza.
Guardo di sfuggita mia madre, e noto che sia lei che Harry ci guardano un po’ interdetti. Ma perché?
Poi tutto mi è chiaro. Oh, giusto. Noi dovremmo essere fidanzati.
Decido che forse è meglio mandare avanti quella scena.
<< Ehi!>> esclamo, forse con un po’ troppa enfasi. Metto in mostra tutti i denti nel sorriso più largo che riesco a fare e gli scocco un bacio sulla guancia. << Che bello avervi qui.>>
John, anche se all’inizio sembra stupito, poi sembra aver capito le mie intenzioni, perché sorride e mi avvolge la vita con un braccio. << Anche per noi. Vero papà?>>
Harry annuisce, come se si fosse appena dimenticato quanto successo poco prima.
Mia madre sorride a entrambi. << Valeri, falli accomodare. Io porto questo in cucina.>>
Mentre io porto i due nella sala da pranzo, mia madre si precipita in cucina, per uscirne poco dopo con un altro vassoio in mano, che emana un’invitante profumino.
Sto per sedermi accanto ad Harry, quando mia madre arriva e dice: << Oh, no, cara. Siediti accanto a John.>>
Credo di aver esitato per un secondo di troppo, prima di obbedire evitando di incrociare il suo sguardo.
E se, mentre Mary posa in vassoio al centro del tavolo esclamando << Il mio speciale pasticcio di maccheroni!>> e si siede accanto ad Harry e i due si scambiano sorrisi e risate, fra me e John cala il silenzio. Un silenzio freddo. Glaciale. Io non voglio guardarlo in faccia, e lui probabilmente si è ricordato che non voglio neanche che lui guardi me. Per questo mastico i miei maccheroni senza sentirne davvero il sapore.
La cena si svolge alla grande, per quanto alla grande si possa svolgere con il ragazzo che odi seduto accanto a te, ma mia madre è felice, e questo mi basta. E dopo il rustico, il baccalà e la frittata, mia madre porta in tavola una speciale torta ripiena, o, come la chiama lei, “La torta della meraviglie”.
<< Scusate >> mormora imbarazzata, mentre la taglia. << Non sapevo avreste portato dei dolci, per questo ne ho cucinato uno io.>>
Mette una fetta in un piatto e lo posiziona davanti a John. Lui lo assaggia e sgrana gli occhi. << Wow, è buonissima!>> Poi sorride al padre. << Altro che la nostra crostata bruciacchiata.>>
Tutti ridono, e anch’io mi sforzo di sorridere, mentre ognuno addenta la sua fetta di torta.
Quando anche questa è finita, siamo tutti sazi. Vedo Mary ed Harry scambiarsi un’occhiata, e mi chiedo perché, quando Harry parla.
<< Ragazzi, credo che sia arrivato il momento di spiegarvi il perché di questa cena.>>
Già, ditemelo il perché!, penso, anche se la mia curiosità e il mio buon senso mi impongono di stare zitta.
Mia madre sospira. << Valeri, per favore, puoi sparecchiare la tavola? Abbiamo bisogno di parlarvi con calma.>>
Inarco un sopracciglio, un attimo interdetta. Poi lentamente mi alzo e inizio a sparecchiare. Ma che gli prende? Cos’hanno di tanto importante da dirci? Non vorranno mica sposarsi! Non vorranno mica… oh, dio. Non pensano mica di andare a vivere insieme, vero? Perché credo che non lo sopporterei…
Inizio ad impilare i piatti, quando Harry mormora al figlio: << John, aiutala.>>
No!
John fa per prendere un piatto, ma io lo afferro con entrambe le mani. << No. Faccio da sola >> dico, brusca.
Lui, comunque, non molla la presa. << Valeri. Voglio solo aiutarti.>>
<< Ti ho detto di no.>>
<< Valeri, io…>>
Gli strappo con forza il piatto dalle mani, ma, nel farlo, urto accidentalmente un bicchiere con il gomito. Ed è anche uno del servizio buono di mia madre.
Sto per stringere gli occhi nel sentire il vetro rompersi in mille pezzi, quando sono costretta a sgranarli. Perché John lo afferra al volo.
Ok, va bene che lui è allenato, che ha dei buoni riflessi e quant’altro, ma questo è davvero impossibile!
Insomma, ha fermato il bicchiere a pochi centimetri dal pavimento. Con uno scatto, senza uno sforzo. E inoltre, è riuscito a non far cadere neanche una goccia d’acqua a terra.
Lo fisso, sbalordita ed interdetta, mentre lui lo riposa lentamente sul tavolo. Vedo Mary ed Harry scambiarsi un’occhiata nervosa.
Inarco un sopracciglio, ancora sconvolta per ciò che ha fatto John. << Come hai…>>
<< Oh, mio figlio ha sempre avuto degli ottimi riflessi >> interviene il padre.
John si pulisce le mani molto probabilmente sudate sui pantaloni. << Credevo lo sapessi già.>>
Adesso basta. Afferro tutti i piatti e, impettita, mi dirigo verso la cucina.
Una volta lì li butto nel lavandino ed inizio a lavarli, senza neanche preoccuparmi di indossare i guanti.
Mentre sto ancora lavando il quarto bicchiere, sento dei passi dietro di me.
Non ho bisogno di voltarmi per capire chi è.
<< Mio padre ha detto di aiutarti >> mormora John.
Faccio un lungo sospiro, chiudendo gli occhi. << Ti ho già detto che non ho bisogno del tuo aiuto.>>
<< Devono dirci una cosa importante. Secondo te che cos’è?>>
Aggrotto la fronte, pensierosa. << Non ne ho idea.>>
<< Mentre tu lavi i piatti magari io posso… >>
E poi il suono più assordante che io abbia mai sentito mi invade le orecchie.
È squillante, acuto, insopportabile. Mi perfora i timpani, mi trapana il cervello. Con un grido di dolore mi piego sulle ginocchia, tappandomi le orecchie e stringendo occhi e denti. Dietro di me, sento John lamentarsi e forse fare lo stesso.
Ma, nonostante le mani a coprirle, il suono arriva comunque. Anche se ovattato. Mi sembra di essere un una bolla d’acqua. Tutto è confuso, e l’unica certezza che ho è che il cervello sta sbattendo violentemente contro la mia scatola cranica minacciando di uscire.
Sento le mie mani bagnarsi. Ho la fronte imperlata di sudore, e continuo a soffocare dei lamenti fra i denti stretti, mentre Harry e Mary si precipitano in cucina.
Non appena lei si china su di me, sento qualcosa colarmi lungo il braccio. Osservo le mie mani, e mi rendo conto che sono sporche di sangue. Il mio sangue.
Poco più in là, John sembra essere nella mia stessa situazione.
<< Oh, no >> sento mormorare a Mary, nonostante il suono arrivi distante. << Dovete andarvene. Presto!>> grida.
<< Mamma… che succede?>> cerco di balbettare. Lei mi afferra per un polso e mi trascina di sopra.
<< Presto, Valeri!>> esclama, notando che io faccio resistenza. << Non c’è tempo!>>
Non ci capisco più niente. Un attimo prima ero in cucina che lavavo i piatti, e un attimo dopo sono in camera mia, con le orecchie sanguinanti e un rumore assordante che mi rimbomba nella testa, a guardare mia madre aprire un borsone e buttarci dentro tutte le mie cose.
<< Mamma!>> esclamo. Non so cos’altro dire.
È in assoluto il borsone più grande che io abbia mai visto, e la metà è occupata solamente da tutti i miei vestiti. << Mamma, che succede!>>
<< Valeri! Non c’è tempo!>> esclama lei, scrollandomi per le spalle. I suoi occhi sono iniettati di sangue. << Dovete andarvene!>> continua a ripetere, mentre butta nel borsone la mia macchina fotografica e il mio album dei disegni. << Dovete andarvene di qui!>>
<< No! mamma, devi dirmi che cosa sta succedendo!>> insisto. Lei prende il mio libro pieno di foto e lo butta dentro. << Mamma!>> Mi ignora anche stavolta. << Mary!>> urlo.
Lei si gira. Ha già riempito la mia borsa con tutte le mie cose, e la mia stanza sembra ormai quasi vuota. Mi guarda, come se quello che sta per dire le costasse uno sforzo enorme. È sull’orlo delle lacrime. << Valeri. Valeri, mi dispiace >> singhiozza. << Avrei dovuto dirtelo prima, avrei dovuto metterti in guardia. Scusami, scusami. Ma ora non posso spiegarti. Devi solo fidarti di me. E devi andare con Harry.>>
Poi corre in camera sua e torna nella mia con qualcosa in mano. Quando lo riconosco, ho un tuffo al cuore. È lo scrigno di quando ero piccola. Quello che non sono mai riuscita ad aprire. Quello che avevo quasi dimenticato. Quello che Mary ha sempre tenuto nascosto. Accanto a lui, stretta nel suo pugno, c’è anche la lettera.
La guardo sbalordita, senza capire. << Ma cos… >> esclamo, mentre lei li butta nel borsone e lo chiude. << Ti aiuteranno a capire >> dice, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. << E poi servono a te. Capirai molto presto come usarli.>>  Mi lancia il borsone, che, nonostante sia pesante, prendo al volo, e inizia a spingermi giù per le scale.
<< Ora devi andare!>> grida. << Va con loro. Va!>>
In lontananza sento uno stridio di gomme sull’asfalto, o forse è solo la mia immaginazione. Fatto sta che mia madre si gira terrorizzata verso la strada. << Dovete andare!>> esclama, il volto dipinto dal panico. << Va con Harry, con lui sarai al sicuro!>>
<< No!>> urlo, gli occhi offuscati e la voce strozzata dalle imminenti lacrime. << No, non voglio!>>
<< Valeri, devi >> insiste lei.
<< Vieni con noi!>>
Scuote la testa. << Non posso.>>
<< Perché?!>> La disperazione si sta lentamente facendo largo nel mio cuore. << Perché, no? Tu devi venire!>>
<< Valeri, mi dispiace >> mormora. Qualcosa di affilato mi punge il braccio, ma il dolore è affievolito dalle lacrime che mi solcano il volto.
<< Dimmi almeno perché?>> grido. << Perché me ne devo andare?! Perché non puoi venire?!>>
Mary mi accarezza i capelli con entrambe le mani, poi mi bacia la fronte, tremando e soffocando i singhiozzi. << Presto sarà tutto più chiaro. Presto capirai tutto >> mormora. Alza lo sguardo. << Ma per ora devi cavartela senza di me.>>
<< No >> mormoro, scuotendo con forza la testa. Gli occhi che bruciano. << No, io… come farò senza di te?! Io non posso. Non ne sono capace!>>
<< Oh, Valeri >> mormora, con dolcezza, mentre mi accarezza una guancia e cerca di farsi forza. Mi guarda intensamente negli occhi. << Tu non hai idea di che cosa sei capace.>>
Poi, tutto precipita. Qualcuno mi afferra da dietro, e mentre io mi divincolo e urlo di lasciarmi andare, il dolore alla testa si fa più lancinante. Guardo mia madre sul ciglio della porta, che mi osserva facendo fluire le lacrime.
Sembra addolorata da ciò che sta succedendo, ed io continuo a non capire.
Ma più che non capire, sono disperata. Distrutta. Affranta. Sfinita.
Fuori intemperia un temporale, e dei fulmini squarciano il cielo mentre la pioggia mi bagna velocemente i capelli, confondendosi con le mie lacrime.
Vorrei urlare con tutto il fiato che ho in gola, ma non ho la forza per farlo. Sento il battito del cuore pomparmi nelle orecchie.
Continuo a piangere, disperata. Tutto questo non può essere vero. È solo un brutto sogno. Un altro!
Eppure sembra così reale. E mentre l’immagine di mia madre che piange addolorata si offusca sempre di più davanti ai miei occhi, il mio corpo si fa pesante, ed io sprofondo improvvisamente nel buio.
 
Angolo Scrittrice
Ciaoo Ragazzi!! :D
Visto? Sono riuscita a pubblicare! Scusate il ritardo :S... in realtà questo capitolo era pronto già da tempo, ma non sono riuscita a pubblicarlo prima (Causa scuola e mio padre che aveva "bisogno" di internet -.-)
Anyway, che ve ne pare? Finalmente ora si sta entrando di più nel vivo della storia. Ormai manca poco *w* ihih!
Beh, in realtà non ho molto da aggiungere, perchè credo che questo capitolo parli da solo. Me lo lasciate un commentino, vero? *^* vi preeeegooo... :3
Fatemi sapere cosa ne pensate. Bello brutto o neutro che sia, non importa ;)
Ook... Ho finito. Valeria se ne va ;*
Un bacione a tutti quanti!
Votre
ValeryJackson :)

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


<< No!>> urlo, gli occhi offuscati e la voce strozzata dalle imminenti lacrime. << No, non voglio!>>
<< Valeri, devi >> insiste lei.
<< Vieni con noi!>>
Scuote la testa. << Non posso.>>
<< Perché?!>> La disperazione si sta lentamente facendo largo nel mio cuore. << Perché, no? Tu devi venire!>>
<< Valeri, mi dispiace >> mormora. Qualcosa di affilato mi punge il braccio, ma il dolore è affievolito dalle lacrime che mi solcano il volto.
<< Dimmi almeno perché?>> grido. << Perché me ne devo andare?! Perché non puoi venire?!>>
Mary mi accarezza i capelli con entrambe le mani, poi mi bacia la fronte, tremando e soffocando i singhiozzi. << Presto sarà tutto più chiaro. Presto capirai tutto >> mormora. Alza lo sguardo. << Ma per ora devi cavartela senza di me.>>
<< No >> mormoro, scuotendo con forza la testa. Gli occhi che bruciano. << No, io… come farò senza di te? Io non posso. Non ne sono capace!>>
<< Oh, Valeri >> mormora, con dolcezza, mentre mi accarezza una guancia e cerca di farsi forza. Mi guarda intensamente negli occhi. << Tu non hai idea di che cosa sei capace.>>
 
Mi sveglio di soprassalto, drizzandomi a sedere con uno scatto.
Sono fradicia di sudore, che mi bagna tutti i vestiti, incollandomeli addosso. Il cuore mi batte a mille.
Intorno a me è tutto buio. O sono io a non vedere? Sono diventata forse cieca?
Sbatto più volte le palpebre, ma la situazione non cambia. Sto tremando dalla testa ai piedi, e ho una forte sensazione di nausea e vertigini. Una sensazione di formicolio mi risale dalle gambe, alle braccia, al collo. Il mio respiro è più che superficiale, e sono sicura che sto andando in iperventilazione.
Non ho più padronanza del mio corpo, che è scosso da degli spasmi inquietanti e irregolari.
Stringo forte sia denti che occhi. Mi sento soffocare, come se fossi spinta da qualcuno sott’acqua e mi mancasse lentamente il respiro.
Chiudo con forza il lenzuolo nei pugni, forse troppo forte, perché sento le unghie conficcarsi nei palmi.
Respira, Valeri. Respira.
Tento di fare dei respiri profondi ma non funziona. Il formicolio aumenta.
Respira, cazzo!
Comincio ad ansimare. Ma che cosa mi sta succedendo?
Mi concentro sul battito irregolare del mio cuore, e irrigidisco i muscoli sperando di fermare i brividi.
Non so quanto tempo passi. Due minuti. Forse dieci.
Fatto sta che dopo un po’ il mio cuore inizia a rallentare, e il mio respiro si fa un po’ più regolare. Faccio dei grandi respiri, mentre la sensazione di formicolio svanisce e i brividi mi abbandonano.
Quando, finalmente, riesco a calmarmi, sento il sudore imperlarmi la fronte e colarmi lungo la colonna vertebrale.
È finita, mi ripeto. È finita.
Lo sento, è finita davvero, anche se continuo ad avere un po’ di nausea.
Lentamente, apro gli occhi. Anche la momentanea cecità se né andata, e ora sono libera di vedere chiaramente ciò che ho davanti.
Ma… dove sono?
Mi guardo intorno, disperata. Sono in una stanza. Una camera da letto.
Intorno a me, alcuni mobili in mogano la decorano, regalandole una certa tetralità. Qualche poster vecchio e strappato tappezza i muri rigorosamente bianchi, e l’unico spiraglio di luce che illumina la stanza è offerto dalla finestra accanto al letto coperta da una logora tendina verde smorto.
Il letto su cui sono seduta, poi, è molto piccolo e abbastanza scomodo.
Questa non è casa mia, penso, nel panico. Dove mi trovo?
All’improvviso, la porta si apre con un cigolio.
Mi volto di scatto, e il mio cuore perde un battito quando il volto di Harry fa capolino nella stanza.
In questo momento, tutti gli avvenimenti della sera prima mi travolgono come un muro di mattoni. Sgrano gli occhi.
Lui fa un passo verso di me, ma io cerco di indietreggiare, con il solo risultato di allontanare da me le coperte con i talloni.
<< Valeri >> mormora.
<< Che cosa vuoi?>> esclamo, spaventata.
Lui alza le mani in segno di resa. << Tranquilla, non voglio farti del male.>> Si siede sul bordo del letto, abbastanza lontano da poterlo toccare ma abbastanza vicino da vedere i suoi occhi scuri scrutarmi con attenzione. Cerco di reprimere l’impulso di scappare.
<< Come stai?>> mi chiede, con tono apprensivo.
<< Dov’è mia madre?>> domando invece io, maledicendomi per il tremolio della mia voce.
Harry fa un grosso sospiro, prima di distogliere lo sguardo. << Se n’è andata.>>
Una mano invisibile mi attraversa il petto, facendosi largo fra i miei polmoni e stringendomi il cuore in una morsa d’acciaio. << Stai mentendo >> dico.
Harry non alza lo sguardo. << No, non lo sto facendo.>> Il suo tono è molto più pacato di quanto riuscissi a immaginare. << Se n’è andata, Valeri. E l’ha fatto per il tuo bene.>>
<< No!>> esclamo, la vista appannata. << No, lei non può essersene andata. Non mi avrebbe mai lasciato sola!>> dico, forse più per convincere me che Harry.
Quando lui apre la bocca per parlare, ho paura di ciò che sta per dire. << Mi dispiace >> mormora. Alza lo sguardo e mi guarda. << Te l’ho detto, l’ha fatto per il tuo bene.>>
<< Ma perché?!>> Delle lacrime calde mi solcano il viso. << Perché dovrebbe averlo fatto? Perché poi mi ha lasciato proprio con voi?!>>
Harry apre la bocca per parlare, ma sembra esitare. Lo fa di nuovo, ma la richiude ancora, stringendo le labbra in una linea sottile. << È complicato da spiegare.>>
Lo guardo, con gli occhi sgranati. << Complicato?>> ripeto, scioccata. << Complicato?>> Ora sono davvero furiosa. << Mi portate con la forza via da mia madre e mi rinchiudete in una stanza per non so quanto tempo. Che cosa c’è di complicato?>>
<< È stata tua madre ad affidarti a noi >> ribadisce.
Lo fisso, sconvolta. << Voi siete pazzi >> mormoro, allontanandomi un po’ di più da lui. << Tutto questo non è normale!>>
<< Senti, so che può sembrarti strano e che molto probabilmente non ci credi, ma devi fidarti di noi.>>
<< Perché dovrei farlo?>>
<< Perché ti stiamo salvando la vita.>>
<< E perché dovreste farlo?>> Quasi lo urlo. Lui mi scruta un attimo con i suoi occhi scuri. Poi li incatena ai miei.
<< Perché tu sei speciale.>>
Il silenzio cala nella stanza. Mi impongo di sostenere il suo sguardo, ma è molto più arduo di quanto pensassi.
Restiamo a fissarci per alcuni minuti, ed è la prima volta, credo, che non so davvero cosa dire. Ne cosa pensare.
Sembra sincero. Estremamente sincero. Ma mi ha pur sempre portato via da casa mia. E ancora non riesco a capire una cosa.
<< Dove sono?>> chiedo, senza distogliere lo sguardo.
Un angolo della sua bocca si alza in un sorriso storto. << In casa mia.>>
Sento la gola secca, ma formulo lo stesso un’altra domanda. << Dov’è andata mia madre?>>
Harry sospira, scuotendo leggermente la testa. << Non lo so >> sussurra. Sembra davvero triste.
Irrigidisco la mascella. Mi gira la testa. << Non voglio restare qui.>>
Harry mi guarda, con un sopracciglio inarcato. Quando si accorge che non sto mentendo, le inarca entrambe. << Stai scherzando?>> Noto un certo divertimento nella sua voce. << Non sei tu che decidi, qui.>>
Spalanco la bocca, indignata. << Ma certo che si! Io non sono di tua proprietà.>>
<< Oh, si che lo sei >> esclama, alzandosi dal letto. << Tua madre mi ha dato il compito di proteggerti ed io lo farò.>>
Mi alzo anch’io e gli vado incontro. << Mi prendi in giro? Io non prendo ordini da nessuno.>>
<< Da oggi si.>> C’è serietà, nella sua voce, e dai sui occhi capisco che non sta affatto scherzando. << So che per te tutto questo è inconcepibile. E che vuoi andartene. E che non ci capisci niente. E che speri che tutto questo sia un sogno. Ma non è così.>> Fa un passo verso di me, ed io mi sforzo di non indietreggiare. << Tu devi restare. Sai che devi farlo.>> fa una breve pausa. << Se non vuoi farlo per te almeno fallo per Mary. >>
Mary. Mary…
Questo è un colpo basso. Basta quel nome per farmi vacillare. Davvero lei voleva questo? Davvero ha preferito mettermi nelle mani di un perfetto sconosciuto invece che portarmi con se? Davvero? Forse si. Ma perché? Perché?
Faccio un respiro tremante. << Dimmi solo perché sono qui.>>
<< È una storia un po’ lunga >> afferma, con un sorriso dolce. << Ma ti prometto che non appena sarà il momento non tralascerò nessun particolare.>>
Lo guardo negli occhi, e gli credo. Certo, mi rode il fatto di non poter sapere tutto il resto. Perché mi trovo qui. Che cosa sta succedendo. Ma so che, se lo ha deciso mia madre, forse dovrei provare a vedere come vanno le cose. Male che va posso sempre scappare.
Annuisco, leggermente, abbassando lo sguardo.
Dopo un po’, lui si sfrega le mani. << Bene!>> esclama, come se non fosse successo niente. << Prendi il tuo borsone, ti mostro la casa.>>
Mi volto, e noto che il mio borsone è accanto ai piedi del letto. Lo raccolgo e, con riluttanza, seguo Harry fuori dalla porta.
Potrò anche aver accettato il fatto di dover restare qui per un tempo indeterminato, ma se pensano che la convivenza sarà facile, allora si sbagliano di grosso. Non mi fido di loro. Pensavo di conoscerli, e invece si sono rivelati tutto il contrario di ciò che immaginavo. Penso di non conoscere neanche mia madre. In questo momento, non mi fido di nessuno.
È per questo che, mentre lui mi mostra il salotto, la cucina e il bagno, io osservo tutto con freddezza, con distacco. E credo anche con una certa smorfia di disgusto.
Saliamo al piano di sopra, salendo per delle strette scale alquanto soffocanti.
Harry apre una porta all’inizio del corridoio. << E questa è camera mia >> esclama, permettendomi di guardarci dentro. << Questo qui è un bagno, e questo una sorta di stanzino.>> Mi indica un’altra serie di porte, ma io non lo ascolto. Quando arriviamo alla fine del corridoio ci fermiamo di fronte a due camere opposte.
<< Questa è la camera di John >> dice, indicando quella alla nostra destra. Una sensazione di nausea mi attanaglia lo stomaco. John. Avevo dimenticato che c’era anche lui.
<< E questa… >> Apre la porta alla nostra sinistra e mi invita con un cenno ad entrare. << Questa sarà la tua camera.>>
Entro, senza lasciar trapelare alcuna emozione. Mi guardo intorno. La camera è spenta, e vuota, e tutto ciò che c’è è un logoro letto e qualche mobile scuro. Osservo le pareti, sfiorandole con il palmo della mano, e mi viene un attacco di nostalgia ripensando a quelle della mia vera camera, piene di poster e fotografie. Qui c’è qualche poster, ma sono tutti vecchi e stracciati.
Quando guardo la parete accanto la porta noto un buco enorme, grande quanto un pallone da basket.
Harry mi guarda con un sorrisetto da quel buco. << Carina, eh?>>
Faccio una faccia disgustata, e copro quel buco con uno scatto, utilizzando il poster mezzo staccato che prima occupava quella parte di muro.
È un poster di Buck Buchanan, il giocatore di football. Deve avere circa quarant’anni, perché lui è morto negli anni novanta e, qui, era ancora un ragazzino. Osservo la foto con il capo leggermente inclinato.
Sembrava stanco, ma felice. Molto probabilmente stava esultando dopo una qualche vittoria. Perché non è così facile essere felici come lui?
Sono così immersa nei miei pensieri che non mi accorgo neanche di Harry al mio fianco. << Possiamo toglierli, se vuoi >> dice, alludendo ai poster.
Irrigidisco leggermente la mascella. << No >> dico, con tono freddo. << Questo qui voglio lasciarlo. Tutti gli altri portali via.>>
Harry annuisce e stacca un poster di Anastacia dal muro.
Sospiro, lancio un’ultima occhiata a Buck Buchanan e poi butto il mio borsone sul letto. Lo apro, e inizio a svuotarlo di tutte le mie cose. Vestiti, matite, trucchi. Tutto. Quando sfioro il mio libro di foto mi viene una fitta di dolore, così lo lascio lì.
Mi accorgo che all’appello manca qualcosa. Aggrottò la fronte.
<< Dov’è il mio scrigno?>> chiedo. Harry non mi risponde, così cerco meglio. << E la lettera?>>
Sento il rumore di un foglio che si strappa, così mi volto a guardarlo. << La cena sarà pronta fra venti minuti. Questi poster sono davvero orribili. Dovrebbero censurarli.>> Li strappa ancora e cerca di cambiare discorso.
<< Harry, ti ho fatto una domanda >> insisto. << Dove. È. Il. Mio. Scrigno.>> Scandisco lentamente ogni parola.
Harry mi guarda, e accenna un sorriso falso. << Io… ti lascio sola >> dice. E si precipita fuori dalla porta.
Lo seguo, allibita. << Hai rubato le mie cose?>> esclamo. O peggio. << Hai frugato fra le mie cose?!>>
<< Beh, io non direi proprio “frugato” >> si giustifica, mimando con le virgolette l’ultima parola. << Hai dormito per un pomeriggio intero, non sapevo cosa fare.>>
Dalla mia faccia credo si capisca che sono assolutamente indignata. << Cosa?>> esclamo. E poi ancora. << Un pomeriggio? Come ho fatto a dormire un pomeriggio?>>
<< Beh, ieri sera non facevi altro che agitarti e gridare, così abbiamo dovuto sedarti.>>
<< Mi avete drogata?>> Non posso credere alle mie orecchie.
Lui fa spallucce. << Non era niente di che, non ti preoccupare.>> La sua noncuranza mi fa imbestialire. Prima che riesca ad urlargli in faccia i peggiori insulti lui si precipita giù per le scale.
<< Preparati. Ti chiamo per la cena!>> dice.
Lo osservo, le guance rosse per la rabbia, finché non sparisce dalla mia visuale.
Pesto un piede a terra, con un grido di frustrazione e mi precipito in camera mia. Sbatto con così tanta forza la porta che il poster di Buck Buchanan si stacca di nuovo dal muro, lasciando libero quell’enorme buco.
Non ce la posso fare. Mi butto sul letto e affondo la testa nel cuscino.
È terribile. È un incubo. Tutto questo non può essere reale.
Mia madre non se n’è andata.
Io non vivrò in una casa che non è la mia.
Questo non sarà il letto dove dormirò.
Io non sono stata ingannata.
No, non lo sono.
E allora perché mi sembra tutto così reale?
Perché sento questo lacerante vuoto nel petto?
 
Non mi rendo neanche conto di essermi addormentata finché non sento dei pugni battere con forza contro la porta.
<< Valeri! Sbrigati. La cena è pronta!>> grida Harry, la voce ovattata dal legno.
Schiudo leggermente gli occhi e, dopo essermi stiracchiata, cerco di ritrovare la salivazione mangiucchiandomi la lingua impastata.
Con un sospiro, mi alzo. Ho gli occhi gonfi. Non ricordo di aver pianto. Forse l’ho fatto senza pensarci, o forse mi sono sfogata nel sonno. Fatto sta che devo avere un aspetto orribile. Non che mi interessi più di tanto.
Prendo la spazzola che prima di crollare avevo accuratamente poggiato sul comodino e mi pettino alla meno peggio. Sento le gambe pesanti, e la testa mi fa un male cane, ma mi impongo comunque di aprire la porta e scendere le scale.
Solo quando salto l’ultimo gradino mi rendo conto di avere davvero una gran fame. Entro in cucina con gli occhi bassi, poi mi blocco di colpo non appena li alzo.
John è seduto su uno sgabello accanto alla penisola, mentre Harry sta finendo di cucinare.
John mi guarda. Avevo quasi dimenticato che c’era anche lui, e ora che l’ho visto mi sto pentendo di essere scesa.
Non può essere vero. Davvero dovrò trascorrere il resto dei miei giorni con il ragazzo che odio e che mi ha fatto soffrire? Si, certo.
Se prima non scappo.
Non faccio in tempo a voltarmi e ad andarmene che Harry si gira verso di me e mi sorride.
<< Finalmente!>> esclama, entusiasta. Toglie la padella dal fuoco e versa in un piatto un po’ di uova strapazzate.
Lo fisso, con sguardo neutro. Lui mi indica con un cenno una sedia. << Coraggio, siediti.>>
Sono tentata di rifiutare, ma poi sento il mio stomaco brontolare e non ce la faccio. Lancio un ultima occhiataccia a John, e lui abbassa lo sguardo sul suo piatto. Decido di non guardarlo mai più per il resto della serata.
Mi avvicino riluttante a uno dei tanti sgabelli e mi siedo il più lontano possibile da lui. Beh, in realtà, il più lontano possibile da entrambi.
Guardo il mio piatto di uova strapazzante e sento l’acquolina salirmi in bocca. Eppure non riesco a mangiare.
<< Queste uova sono davvero squisite >> si vanta Harry, sornione.
<< Perché sono qui?>> domando, all’improvviso. Harry sospira e chiude un attimo gli occhi, come se se l’aspettasse già e la cosa gli dia molto fastidio. << Voglio sapere perché sono qui >> ripeto.
<< Già, vorrei saperlo anch’io >> borbotta John, sottovoce.
Cerco di reprimere l’impulso di alzarmi e menargli uno schiaffo stringendo i pugni mentre fisso Harry.
Quest’ultimo mi guarda. << Te l’ho già detto, Valeri. Ti spiegherò tutto a tempo debito.>>
<< Ma non è giusto!>> sbotto, adirata. << Come pretendi che in questo modo io possa fidarmi di te? Dici che è stata mia madre a volere che venissi qui, ma chi mi dice che non mi hai rapita e che hai intenzione di uccidermi?>>
Non ci giurerei, ma vedo Harry soffocare una risata. << Sei molto diffidente, vero?>> chiede.
Esito un attimo. << Solo delle persone che mi nascondono le cose.>>
Accanto a me, sento John irrigidirsi, e afferrare un pezzo di uovo dal piatto con un po’ troppa forza.
Harry sospira, coprendosi la bocca con una carezza. Mi guarda. << Credo che dovrai abbassare un po’ l’armatura, signorina. Altrimenti così non andiamo da nessuna parte.>>  È forse un rimprovero? Non ci credo. Prima mi nasconde la verità e poi mi rimprovera. Roba da pazzi.
Sento la rabbia infiammarmi le guance, e allontano il piatto con uno scatto. << Non ho fame >> dico, a denti stretti.
Harry mi guarda con un sopracciglio inarcato, poi fa finta di niente e continua a mangiare. Sembra che non gli interessi quello che voglio veramente. Sembra quasi che i miei siano i capricci di una bambina viziata. Ma non è affatto così.
Continuo a fissarlo, con la mascella contratta.
<< Se non hai fame vai a dormire >> dice, dopo un po’. << Devi essere stanca.>>
Alzo un angolo della bocca in un sorriso storto, amaro. << Ho dormito tutto il pomeriggio >> gli ricordo. << Non credo di aver bisogno di dormire.>> Ci penso un po’. << Anche se domani devo andare a scuola.>>
<< Oh, no >> esclama lui, scuotendo divertito la testa. << Tu non vai a scuola.>>
Sento gli occhi sgranarsi così tanto che temo escano fuori dalle orbite. << Scusami?>> Mi sporgo sul tavolo. Non ho sentito bene?
<< Hai capito benissimo >> afferma lui. << Non torni a scuola. Ne domani, ne mai.>>
Spalanco la bocca, scioccata.  << Non puoi impedirmi di andare a scuola!>>
<< Oh, si invece >> dice. << L’ho appena fatto.>>
Sento John soffocare una risata, mentre sulla mia faccia si forma un’espressione indignata. << Non puoi dirmi quello che devo fare.>>
<< Si che posso.>> Indica il soffitto sopra di noi con la forchetta, inarcando le sopracciglia. << Mia la casa, mie le regole.>>
Boccheggio un attimo in cerca della cosa giusta da dire, ma non ho parole. <<  Tu non… tu non puoi togliermi l’istruzione.>> Calco l’ultima parola come se fosse quella il motivo principale per cui voglio tornarci.
Lui sembra pensarci un attimo, poi annuisce. << Hai ragione.>> Si caccia in bocca un altro po’ di uova. << Domani chiamerò un’insegnante privato.>>
<< Davvero?>> chiedo, scioccata.
<< Davvero?>> fa John. Sembra più scioccato di me.
<< Davvero >> ripete Harry.
Sento montare la rabbia. << Ma perché non posso andare a scuola?>> chiedo, furiosa.
<< Perché è troppo p… >> comincia, poi si blocca. Sembra esitare un attimo. Apre la bocca per dire qualcosa, poi la richiude e irrigidisce la mascella. << Non ci andrai, punto e basta.>>
Apro la bocca per controbattere, ma lui mi precede. << Da questo momento in poi non andrai più a scuola e non uscirai di casa. Scordati il computer e il telefonino. Non voglio che tu abbia contatti con l’esterno. Almeno fino a nuovo avviso.>>
Mi prende in giro? Cos’è, un carcere?
Rido, di una risata nervosa. Starà sicuramente scherzando. Perché sta scherzando, vero? Quando mi accorgo che non sta ridendo con me, torno seria e sento montare il panico. Oh, cavolo. Non sta scherzando.
<< Ma… ma… >> balbetto. Sono scioccata. Sono sconvolta. Sono adirata. Non può impedirmi di uscire. Non può controllare la mia vita come se fossi una marionetta del suo stupido gioco. Non può. Non può. Non può!
E invece si, certo che può.
Perché dalla sua espressione seria capisco che ne ha le piene capacità, e perché immagino che non sia così facile ingannarlo.
Finisce di mangiare le sue uova, poi si alza, sciacqua il piatto nel lavandino e lo mette ad asciugare. Si volta a guardarmi, le mani poggiate contro i bordi del lavandino, lo sguardo serio. Stringe un attimo i denti.
<< Mi dispiace, Valeri >> mormora. Sembra davvero dispiaciuto, eppure non riesco a sciogliermi. << Ma tutto quello che faccio lo faccio solo per il tuo bene.>>
Per il mio bene? Per il mio bene? Quante volte ho già sentito questa frase quando poi non era vera? Come fa tutto questo ad essere fatto per il mio bene?
Harry sospira, poi ci saluta con un cenno e si avvia per le scale, diretto in camera sua.
Restiamo io e John, in un silenzio che mi sembra assordante. Le mie uova strapazzate sono ancora davanti a me, raffreddate, e pure non riesco a mangiarle. John, invece, finisce le sue, e quando lo fa si alza e imita Harry in quello che dovrebbe essere un lavaggio alla meno peggio.
Dopo di che, si gira a guardarmi. << Sai, non va neanche a me il fatto che tu stia qui >> esclama, stizzito. Mi limito a fulminarlo con lo sguardo. << Non ne capisco il senso! Ma so che se Harry sta facendo tutto questo, lo sta facendo per un motivo preciso. Mi fido di lui.>> Mi guarda intensamente negli occhi, e dopo un po’ devo trattenere l’impulso di abbassare lo sguardo. Quelle sfere blu sono più che penetranti. << E dovresti farlo anche tu >> conclude. Ci guardiamo, poi lui esce dalla cucina e va verso le scale, lasciandomi sola.
La stanza viene avvolta di nuovo dal silenzio.
Non riesco ancora a credere che tutto questo stia capitando proprio a me. Perché? La mia vita non era forse abbastanza incasinata?
Forse John ha ragione, forse dovrei davvero provare a fidarmi di lui. Eppure non ci riesco! Perché? Perché mi sta nascondendo qualcosa. Perché sono lontana kilometri da casa e perché non vuole dirmi il motivo. Perché vuole segregarmi in casa ma non mi dice il perché. Perché… perché… Già, davvero. Perché?
In altre circostanze mi sarei fidata ciecamente di Harry, proprio come faceva mia madre. Proprio come ha fatto mia madre. Ho sempre provato simpatia per lui, e lui è sempre stato gentile con me, anche oggi, quando mi sono svegliata.
E allora perché? Forse è un atteggiamento di ripicca. Forse la cosa che mi da più fastidio non è la lontananza da mia madre o il suo silenzio. Forse la cosa che più mi da fastidio è John. La sua presenza. La sua casa. I suoi occhi sulla mia schiena.
Forse è solo che non riesco ad immaginare di dover convivere con la persona che mi ha fatto soffrire, piangere, crollare. Non riesco a credere di dover vivere nella stessa casa della persona che mi ha spezzato il cuore. Che mi ha rovinato la vita, che mi ha sfruttata senza il minimo ritegno. Che mi ha tradita nel peggiore dei modi, e che mi ha fatto perdere tutta la fiducia in me stessa. Che mi ha fatto costruire una corazza che ora non riescono a scalfire neanche gli altri.
Eh, già. Quella persona. Forse è questo il vero problema.
E ci rimugino sopra, mentre entro in camera, mi butto sul letto e provo invano di prendere sonno senza neanche togliermi i vestiti.
 
Angolo Scrittrice.
Ciaoo! :D
Prima di dire qualunque cosa, voglio scusarmi. So che sono in forte ritardo, ma, come credo ben capite, la scuola mi sta uccidendo, e fra compiti, piscina e palestra, il tempo per pubblicare è davvero poco. In realtà questo capitolo era già pronto da un po', ma non ho avuto tempo di postarlo.
Detto questo, devo ammettere che è stato un parto. Per due motivi: il primo è che è un capitolo abbastanza complicato, perch Valeri si ritrova catapultata in una nuova situazione del tutto assurda per lei, e non ne capisce neanche il motivo. Ho cercato in tutti i modi di descrivere al meglio il suo stato d'animo, che passa dalla paura, allo shock, alla frustrazione alla non completa rassegnazione. Anche la parte iniziale era molto importante, quando Valeri si risveglia e prova quelle strane sensazioni, ma non vi dico nè che cos'ha e nè perchè è importante, perchè lo scoprirete da soli. ;D Il secondo motivo è che mentre lo scrivevo avevo paura di deludere le vostre aspettative, e che questo non fosse esattamente il capitolo che aspettavate, e che quindi non vi sarebbe piaciuto.
La domanda è: vi è piaciuto? Che ne pensate? Fatemi sapere, perchè ci tengo molto alla vostra opinione.
By the way, ora mi sembra giusto ringraziarvi tutti quanti, tutti voi che avete messo la storia fra preferite, ricordate e seguite, a tutti voi lettori silenziosi, a tutti voi che avete commentato. Ma un grazie speciale va a
WingsFly, che commentando il capitolo precedente è riuscita a scaldarmi il cuore *w*
Grazie di cuore!
Bene, ora credo sia il momento di andare. Spero di aggiornare il prima possibile. :D
Un bacione enorme, alla prossima
La vostra
ValeryJackson

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