Le prospettive

di grows
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Untitled (primo di una serie) ***
Capitolo 2: *** Untitled (secondo di una lunga serie) ***



Capitolo 1
*** Untitled (primo di una serie) ***


Avrebbe utilizzato la fotografia come tramite, tramite tra lei e l'esterno, a tratti incomprensibile se non tramite una lente.



Uno scatto, l'aria invernale, la luna in opposizione riflessa sui vetri della ferrovia, il ferro. Il ferro gelido, asettico, grigio, ordinato. Le sensazioni racchiuse in una serie di scatti ordinati, come la ferraglia ferroviaria.
Zoè era appena appoggiata ad una grata che la separava dal vuoto, appena sopra ad uno specchio d'acqua buio, in continuo movimento. Eugène appena dietro, impiedi, come a proteggerla alle spalle inconsciamente dal silenzio che li circondava, appena interrotto dal rumore prodotto dalla macchina fotografica e dai taxi che si incrociavano, ormai vuoti posti a chiudere la routine di una giornata sicuramente simile alla precedente o alla successiva. Avrebbero potuto far parte di una scena di un film muto, la poeticità dello spazio che li contornava, contrapposta al loro modo di viverlo distaccatamente non aveva bisogno di alcuna parola per essere arricchito.
Da sempre due cose caratterizzavano Zoè, la preferenza del diverso e l'attrazione verso il buio. Preferiva quindi la notte per agire, scoprire novità, ma ne era anche intimorita, dato l'assoluto governo del silenzio, di cui non sopportava il peso. Per questo Eugène era lì, la loro presenza era un conforto reciproco, non tanto per il senso di solitudine che altrimenti li avrebbe pervasi, ma più come presa di coscienza di quanto fossero uniti.
Lei mosse un passo verso sinistra, si voltò per assicurarsi che lui fosse ancora lì, ma certa che avrebbe trovato il suo sguardo ad osservarla distrattamente, come era solito. Un semplice cenno con la testa gli indicava di seguirla, lui lo fece. Non l'avrebbe comunque lasciata andare da sola, guidato dal senso di responsabilità che provava nei suoi confronti. Era una relazione atipica quella, non potrebbe nemmeno definirsi come tale, piuttosto uno scambio d'idee, due mentalità in un rapporto di simbiosi seppur tanto diverse, il tutto contornato da un aspetto puramente fisico che li portava a trascorrere insieme notti di piacere e perversione. Nulla in più, nessuno provava un amore nel senso più comune del termine.
Il silenzio venne interrotto da un treno merci, che scandiva con un ritmo perfetto i loro passi, Zoè prestava attenzione a quel suono, amava quando l'esterno si adeguava al suo modo di vivere andando a tempo con ogni sua azione. Si estraniò momentaneamente da quel contesto, continuando a camminare meccanicamente e fissando un punto all'orizzonte non ben definito, che diveniva sempre più sfocato man mano che vi si avvicinava. La macchina fotografica le scendeva lungo il fianco destro. In mente "You And Whose Army?". Calpestò una foglia, residuo di un autunno appena consumatosi, il rumore la riportò a quella che sembrava la realtà.
Eugène si distanziava da lei, rimanendo indietro di qualche passo, con la testa leggermente ruotata verso sinistra guardava la strada, come ad aspettare qualcosa o qualcuno.

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Capitolo 2
*** Untitled (secondo di una lunga serie) ***


La calma infusa da una nottata insonne e dal mattino successivo.

Il mattino seguente l'aria era umida, le nuvole annunciavano una pioggia più o meno imminente. Zoè ed Eugène si erano lasciati in tarda notte, dopo un tragitto in automobile durato meno di quanto loro avessero percepito. Zoè
dormì ben poco, le ore che separavano il rientro in casa dall'alba le trascorse a letto, senza mai prender sonno del tutto, l'abat-jour sul comodino accesa, in realtà mai stata spenta, accompagnava le sue notti sin dall'infanzia, e si spegneva soltanto all'alba, quando quella luce artificiale la infastidiva. La luce si rifletteva sulla copertina bianca del libro che più amava, 1984, poggiato lì accanto a lei da qualche giorno ormai, con l'intento di rileggerlo, come per ricordare i buoni propositi che ogni sera si rimandavano al giorno dopo.
Decise di lasciare quel nido caldo una manciata di minuti prima del sorgere del sole, le piaceva guardar fuori dalla finestra quando il sole non aveva ancora colpito con i suoi raggi taglienti le stradine che si aprivano alla sua vista, possibilmente stringendo tra le mani una tazza bianca, calda, ma non fumante di tè verde. Si fece strada nel corridoio sfruttando gli spiragli di luce (o buio) che prepotentemente entravano dalle piccole finestre, giunse in cucina e riscaldò l'acqua. Si accorse che poggiate sul bancone da cucina vi erano delle chiavi, le sue chiavi, quelle di Eugène. Riconobbe le chiavi di casa, le aveva tenute lei senza restituirle, ma non ricordando nemmeno perché l'avesse fatto. Si chiese come avesse fatto Eugène a non accorgersene, o se accorgendosene avesse preferito non disturbarla o chiamarla, ma non ci stese a pensare per altro tempo. A richiamare la sua attenzione fu un rumore che proveniva dal corridoio, Aramis si era svegliato, i passi del gatto a cui era già abituata richiamavano quotidianamente la sua attenzione, come un suono nuovo che giunge all'orecchio di un bambino, si fermava prestandogli attenzione ogni giorno. D'altra parte era l'unico suono emesso dall'animale, dato che il miagolio rauco spesso non giungeva all'orecchio di chi era intorno a lui.
Era presto, troppo presto per poter chiamare qualsiasi persona, ma Eugène non era una persona qualsiasi, avrebbero conversato a qualsiasi ora del giorno e della notte, senza particolari differenze. Odiava telefonare però, la trovava una cosa inutile, colma d'imbarazzo e parole (o silenzi) sconvenienti. Prese comunque il telefono e compose il numero, che sapeva a memoria, senza mai averlo imparato volontariamente, era l'abitudine. Rispose dopo parecchi squilli, a bassa voce disse
«Zoè» ci pensò, era la prima volta che sentiva la sua voce dal pomeriggio prima, pur avendo passato la sera insieme. «Le tue chiavi sono da me», disse. «Passo dopo», «Non sei rientrato a casa?» «Sono rimasto fuori, in giro», non le parve così strano «Sì, ti aspetto», e posò il telefono. Non l'avrebbe visto per un po', quindi decise di sedersi a leggere, guardando la città che si svegliava dal torpore notturno, accese lo stereo, Takk.

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