Moments

di London is life
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** London i'm coming ***
Capitolo 3: *** Una nuovo vita ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***



" ... but you're perfect to me..." Ecco ci risiamo, la canzone finisce e incomincio a piangere. Ma non mi interessa, premo il testo rewind e la riascolto. Amo le loro voci, amo il modo in cui si uniscono fino a penetrarti nell'anima. Nelle loro parole mi dicono che sono bellissima e perfetta, mi guardo allo specchio, e tutto quello che vedo non è altro che un'orribile anatroccolo. Ogni pomeriggio mi rifugio qui, sulla casa sull''albero che mi costruì il nonno quando ero piccola, poco prima di morire. E li ascolto, li ascolto fino allo svenimento, ed è questo che mi fa andare avanti. Finito un'album, tocca al secondo e così fino alla sera, persa tra la loro musica e le loro parole, canto a squarciagola, nessuno può sentirmi, nessuno può disturbarmi. Siamo io e loro.  Decido che è ora di studiare, ma non ci riesco, un forte bruciore mi impedisce d'alzarmi. Alzo delicatamente la manica e lo vedo, un livido color violastro che si estende su tutto il braccio destro, il dolore è forte, così mi sdraio cercando di non pensarci. Non è la prima volta, ma oggi fà più male del solito, continuo a guardare quel livido,e urlo. Urlo dal dolore, urlo perchè sono stanca di questa situazione. Oggi a scuola mi hanno picchiata.  La campana della terza ora suona, è l'intervallo, attesa da migliaia di studenti ogni anno, ma così odiato da me. Le aule si svuotano, voci di ragazzi urlanti rimbombano sui muri, dalla porta entrano le loro risate. Eccomi, da sola al mio banco, quello in fondo. Ho 15 miuti, dallo zaino prendo l'ipod e li ascolto. Canto. La mia voce si mischia a quelle fuori, sorrido al pezzo cantato di Louis, mi emoziono quando tocca ad Harry, mi sorprendo ogni volta quando è il turno di Zayn, ora tocca a Liam e alzo gli occhi al cielo  pensando alla sua dolcezza, e per ultimo Niall, canto con lui e me lo immagino a fare merenda. Mancoano cinque minuti, metto via. So cosa stà per accadere, arrivano sempre, arrivano per farmi sentire male e godere mentre soffro. Ma oggi sono di più, sei o sette non ricordo,  mi vengono davanti e mi fanno alzare dalla sedia. All'inizio sono solo spintoni, ridono mentre strappano le foto dei miei idoli dal diario, e io penso le ristamperò anche oggi appena arrivata a casa. Li prendono in giro, li chiamano gay li insultano, ridono e continuano a spintonarmi. A volte si ferma tutto lì, con qualche livido, ma no oggi avevo detto basta. Iniziano a spintonarmi più forte fino a farmi cadere, continuano a picchiarmi, mentre intonano un ritornello. La campanella suona. Se ne vanno soddisfatti. Rimango stesa sul pavimento, per alcuni secondi, il braccio mi fa male ma non ci dò peso, raccolgo i pezzi di carta sotto al mio banco. In silenzio chiedo scusa ai miei idoli, guardo quei pezzetti di carta, e li infilo nello zaino. Quando alzo lo sguardo, vedo la professoressa che mi guarda, mi guarda ma non fà niente, la gente non fà niente. 

Mia madre sarebbe tornata tra poco, dovevo sbrigarmi in bagno, disinfettare il braccio e andare in camera. Lei non doveva sapere, fino ad ora non se n'era mai accorta, le altre volte erano lividi meno evidenti,  e poi non sarebbe servito a niente, nessuno poteva fare niente, quella era gente potente, con contatti da qualsiasi parte, nessuno poteva aiutarmi. Aprì la finestra del bagno per fare uscire quell'odore di disinfettante, corsi in camera, mi buttai sul letto e piansi. Piansi dal dolore, piansi perchè ero sola, le lacrime solcavano il mio viso, il trucco scendeva dagli occhi, avevo gli occhi gonfi, ma non era abbastanza dovevo sfogarmi mi ci sarebbero voluti altri minuti, con ogni lacrima buttavo via tutto questo. Rimasi sul letto, un tempo che mi parve un'eternità, servivano dei cerotti in casa, erano finiti, stasera sarei andata a conprarli, la farmacia era qui vicino. Intanto, per ora, la mia soluzione erano loro. Mentre li ascoltavo sussurai un GRAZIE, e il dolore per un attimo parve scomparire.

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Capitolo 2
*** London i'm coming ***


<< Vanessa tesoro sono tornata >>

La sua voce rimbombò per tutta la casa. La sentì  brontolare mentre andava in cucina, e si versava l’ultimo goccio di tè rimasto nel bollitore.
Guardai la sveglia. Le 19.30; Possibile? Pensai.
Dovevo essermi addormentata. Cercai in fretta e furia di rifare il letto, un po’ come potevo, nascondendo sotto le coperte quella pila di antidolorifici e garze. Mi cambiai la maglia che portava i segni di quella mattina, e scesi.

La trovai già intenta a preparare la cena, mi offrì per  apparecchiare.
<< come è andata la scuola? >> mi chiese
<< come sempre >> dissi,  una gran bella merda, avrei voluto aggiungere, ma riuscì a sussurrare un << bene >>
Non volevo dare un’ altro dispiacere a mia madre, avevamo già troppi problemi in famiglia e non era il caso di addossarle anche i miei.

… poche ore più tardi…


<< Mamma, io vado >> le dissi dandole un bacio sulla guancia.
<< Tesoro, anche stasera? >> mi rispose, la guardai, e le sorrisi mentre mi infilavo il cappotto, << Mamma glielo ho promesso >> e prima che potesse rimproverami come ogni sera, ero già fuori.
Attraversai il centro, presi la via principale, e arrivai. Scavalcai il cancello, e mi diressi verso la collina. Ormai erano quattro anni che venivo ogni sera alla stessa ora.
Lui mi aspettava, era il nostro segreto.
Mi sdraiai sulla collina, il profumo dell’erba tagliata mi avvolse, rivolsi lo sguardo verso il cielo e mi rilassai. Rimasi così qualche minuto a godermi il bellissimo cielo stellato.

<< Ciao nonno >> sussurrai, accarezzando il marmo.
Gli parlai, di tutto quello che stava succedendo, mi confidai con lui, dicendogli come mi sentivo in quel momento. No, non sono completamente impazzita, ma dovete sapere che mio nonno era una delle persone più speciali che io abbia mai incontrato.  Insieme eravamo inseparabili, ogni sabato mi portava a pescare nel laghetto vicino a casa e poi tornavamo a casa a preparare la torta. La torta di mele. Riesco ancora a sentirne l’odore, e mi ricordo la mia faccia stupita la prima volta che cucinammo insieme. Risi. Ero consapevole che anche quella sera i ricordi sarebbero riaffiorati.  Mi mancava. Soprattutto in questo periodo così difficile. L’aria incominciò a farsi più fredda, e così decisi di tornare a casa. Era tardi e mamma si sarebbe preoccupata.

Quella mattina mi svegliai con un forte mal di testa, pur essendo domenica non riuscivo a rimanere a letto, così scesi giù in sala accesi la TV e… 
<< ahhhhhhhhhhhhhhh >> incomincia ad urlare come una matta, saltando  sul divano, rischiai quasi di tirare giù le tende.
<< Vanessa cosa c’è? >>  mi tirai su dal pavimento, dove ero caduta  nel inciampare nel divano, e vidi mia madre mezza addormentata che mi fissava. Incomincia ad indicare la televisione come una scema, e ballare. Vi tralascio i particolari. Quando ballo sembro un incrocio tra un lama e una scimmia.
<< Mamma MTV trasmette l’ up all night tour >> dissi incominciando a cantare. In quel preciso istante credo che mia madre si stesse domandando da dove venivo, e perché la sua quasi figlia diciottenne si comportava in quel modo. Non disse niente, tanto sarebbe stato inutile, e mi lasciò lì al mio destino di pazza scatenata. Mentre cantavo e mi divertivo non avrei mai pensato cosa sarebbe successo da lì a poco… qualcosa che avrebbe cambiato completamente la mia vita.

Finito il concerto, spensi e andai al piano di sopra. Mentre salivo le scale sentì mia madre parlare al telefono, così andai davanti alla porta e la osservai.
Attraversava la stanza andando avanti e indietro, si toccava i capelli fino ad arrotolarli tutti, le mani le tremavano. Assunse un tono di voce piú autoritario. Si voltò, e con un cenno mi fece segno di andare in camera mia. Ora ne ero sicura, stava parlando al  telefono con mio padre. Papà chiamava si e no due volte a settimana, e puntualmente mamma diventava nervosa, quasi insopportabile. Feci finta di non aver capito, e mi sdraia sul letto, anche se sapevo che non me lo avrebbe passato,

<< Perché  non me lo hai passato >> le gridai contro, in lacrime.
<< Non aveva niente da dirti >> mi urlò.
Sapevo che non era affatto vero, la raggiunsi e l’afferrai per il braccio;
<< Cosa voleva papà? >> le dissi  << dimmelo >> gridai.
<< Voleva che andassi da lui a Londra, ma gli ho detto di no >>
La guardai, non riuscivo a frenare le lacrime. Lei lo sapeva che era tutto ciò che volevo, che aspettavo quel dannato giorno da una vita, lei sapeva quanto desiderassi andare a Londra. Invece non aveva fatto niente, era li che sorrideva…
 << Tu non ci andrai Vanessa, scordatelo >> mi disse prima di uscire.

 Corsi in camera, abbracciai il cuscino e piansi. Per un attimo mi senti quasi svenire, pensai a mille modi per farla finita, pensai a un modo per scomparire e non dovere più sorbire tutto questo. Lei non capiva. Perché nessuno mi capiva. 
Accessi il cellulare, composi il numero, e lo chiamai.
C'era la segreteria. Così lasciai un messaggio. - ciao papà sono io, vienimi a prendere al aeroporto domani, sarò li nelle 8- chiusi la chiamata.
Feci un respiro profondo. Mia mamma non sarebbe rientrata prima delle undici. Aveva una cena di lavoro. A quell'ora sarei giá partita per  l aeroporto. So che non mi avrebbe mai perdonato. Ma doveva capire che a londra c era mio padre. A londra c era il mio sogno. ..

Sono sicura che mio padre, sentito il messaggio, aveva avvisato la mamma; perché la sentì rientrare molto prima del dovuto. Nascosi la valigia sotto al letto e mi infilai sotto le coperte, spensi la luce e feci finta di essermi addormentata.
Entrò. E si sedette vicino a me, sul letto.
Mentre mi accarezzava dolcemente i capelli, sentivo quel odore di fumo entrare nella stanza e bloccarmi il respiro. Mamma aveva ricominciato a fumare dopo la separazione, ormai era diventata come un droga per lei, ogni tanto se ne usciva con una scusa,  come per esempio vado a comprare del pane, e usciva. 
Ma io sapevo che in realtà era dietro l’angolo a fumare, una, due, sigarette, quante ne riusciva a sopportare. Lei sapeva che io  lo sapevo, ma non diceva niente, e io non domandavo più di tanto.
Mi alzai, e andai ad aprire la finestra. Osservai il cielo, come persa nei miei pensieri.
Questa volta toccava a lei incominciare, sarei stata in silenzio anche tutta la notte se era necessario.
<< Dove pensi di andare con questa? >>
Mi disse, mostrandomi la valigia piena di vestiti.
<< A Londra da papà. >>
Lei rise. La mia mamma aveva il sorriso più bello di tutti.
<< Ci tieni davvero così tanto? >>

Feci cenno di si con la testa.
Quante volte l’avevo stressata parlandole di Londra, quante volte tornata da scuola, le facevo vedere quello che avevamo fatto su quella città. Quante volte, forse infinite. E così feci quella sera. Misi sul letto tutte le foto che mi aveva spedito papà negli anni, e gliele mostrai, il London Eye, Buckingam palace, Sant Paul Cathedral, Carnaby Street… Le mostrai infinità di negozi, la metropolitana, ogni singola strada, ogni singola cosa di Londra mi affascinava.
Mi brillavano gli occhi anche solo a parlare di un semplice cartello stradale. 

<< Anche loro sono un’attrazione di Londra? >> rise mia madre mostrandomi una foto. La guardai: Harry, Zayn, Liam, Louis e Niall davanti alla casa del parlamento. Risi insieme a lei.

Ore 24.30
Io e mia mamma siamo in camera mia a guardarci un film, con due tazze di cioccolata calda, accoccolate sotto le coperte. Sul comodino c’è un biglietto aereo, per Londra. Sulla scrivania  lo zaino e accanto una mappa della città.
Ma sono sicura che se guardate bene, lì davanti alla porta, proprio lì, c’è una valigia, una valigia pronta per un viaggio.

E accanto… la loro foto.
 
 

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Capitolo 3
*** Una nuovo vita ***


Finalmente ero arrivata. Ero a Londra. Mi guardai un po’ intorno incredula, poi dallo zaino tirai fuori il biglietto, con il numero e la via della nuova casa di papà. Presi le valigie e mi diressi fuori dal aeroporto. Ero smarrita. Era la prima volta, che viaggiavo in aereo,  e per di più ero sola. Sola in questa grande città.  E allora chiamo il primo taxi, e mi faccio portare in giro.  Giriamo  la città diverse volte. Poi è ora di scendere. Peccato.

Big Ben. Ore 12.30. Sebbene  fossero i primi mesi di marzo,  il sole quella mattina sembrava splendere più del solito, e non si vedevano nuvole al orizzonte. Strano, pensai, alla fine anche in una città famosa per la sue piogge, può uscire il sole, magari fosse così per le persone. E ora da che parte dovevo andare?

Non feci in tempo a tirare fuori la cartina, che venni quasi investita da una folla di ragazze che correvano verso Piccadilly Circus. Non ci misi molto a capire. Loro.
Come una marionetta guidata da fili invisibili, mi gettai tra la folla; era come se le mie gambe sapessero già da che parte andare, dovevo solo seguirle. Mi feci spazio tra la folla e finalmente li vidi, loro, in mezzo alla folla, loro con i quei sorrisi intenti a firmare autografi. In fretta e furia cercai una penna, un’agenda. Niente. Neanche un insignificante foglio di carta.
Una foto. Cercai il telefono, ma tra uno spintone e l’altro mi finì a terra, dovetti sacrificare i miei pantaloni nuovi, così mi misi a cercarlo.  Venni calpestata almeno tre volte, alcune delle ragazze mi erano cadute sopra e avevo qualcosa di appiccicoso infilato sotto la scarpa.
Persa la speranza, sentì qualcosa di caldo sfiorarmi la mano.
“Stavi cercando questo?.”
Avrei potuto riconoscere quella voce tra mille.
“ Harry… “ sussurrai.

“Signorina, signorina insomma si svegli.”
Aprì gli occhi. Facce che mi guardavano con fare interrogativo.
“Signorina l’aereo è atterrato, la preghiamo di scendere.” mi disse una seconda volta l’hostess.
La guardai una seconda volta, mezza addormentata. Apri immediatamente lo zaino. Il telefono era lì, senza nessun graffio.  Pantaloni puliti. Mi sfiorai la mano.
E fu allora che, a malincuore, mi resi conto che era stato solo un sogno.
Ma un sogno perfetto.

Mi ero già fatta riconoscere, non male come inizio. Pensai.
E allora, ancora con i pensieri fissi in quel sogno, andai a recuperare i bagagli, e salì sul primo autobus, diretto in centro.  Dopo pochi minuti arrivai, e ora non mi restava altro che trovare la via. Quella mattina papà era al lavoro, e non sarebbe rientrato prima delle 3 del pomeriggio. Ci eravamo già accordati su tutto, sarei andata a casa, la chiave era sotto lo zerbino, avrei scongelato la pizza, e mi sarei arrangiata. Già mi immaginavo il frigo pieno di surgelati, o addirittura vuoto. Mio padre e il cibo non andavano certo a braccetto.
 Ma Londra era così grande, e io così piccola. Ok, forse sto esagerando un po’, ma orientarsi era praticamente impossibile. Gente che correva da tutte le parti, taxi ovunque, signori in giacca e cravatta che si precipitavano alla metro, gente che assaliva i negozi. E intanto tra me e me pensavo, ma questi inglesi neanche al ora di pranzo stanno fermi?
Mentre passavo davanti ad HMV, vidi seduta sul muretto una ragazza, i suoi capelli biondi le scendevano lisci sulla schiena, ad ogni persona che passava, lei alzava il capo e sorrideva, aveva un grazioso cappello e un vestitino a fiori. Mi sedetti vicino a lei.
“ Ciao…” le dissi.
Ma a quanto pare non mi aveva sentita. E allora mi sedetti davanti a lei.
“ Ciao, scusa se ti disturbo, ma sono appena arrivata.” Le dissi. Finalmente si accorse di me, perché si tolse le cuffie dalle orecchie.
“ Sto cercando Oxford city, mi potresti aiutare?” le chiesi sorridendo.
Lei mi sorrise a sua volta, mi prese sotto braccio e iniziò a trascinarmi via.
“ E così sei una turista.” Disse senza mai smettere di sorridere.
“ Io sono Sybille, piacere.” Disse fermandosi e porgendomi la mano.
“Vanessa.” Sussurrai.
“Solo vanessa?” mi chiese.
“ Vanessa Barker”
“ Ma quindi hai origini inglesi.”
“ Solo per parte di mio padre, e il tuo cognome?” Le chiesi, mentre cercavo di starle dietro, era incredibile quanto correva.
“ Quando verrà il momento te lo dirò.” Ci fermammo davanti a un bar, ero esausta, da quanto stavamo camminando? Guardai, Sybille tirare fuori dalla borsa un penna e scrivere qualcosa su un foglietto.
“ Questo è il mio numero, spero di rivederti presto, ciao amica.” Mi porse il biglietto. Ci salutammo. E dopo averla ringraziata almeno un centinaio di volte, entrai in casa di mio padre.
Non sapevo bene cosa aspettarmi, era la prima volta dopo tanto tempo, così presi la chiave da sotto lo zerbino, e entrai.
Incredibile quanto la casa fosse enorme. Rimasi qualche minuto interdetta davanti alla porta a osservare tutto, a catturare ogni minimo particolare. Ogni cosa in quella casa mi ricordava papà, ogni mobile, ogni oggetto, se pur insignificante.  Come avevo previsto il frigo era completamente vuoto, solo qualche uova, un limone. Tirai fuori la pizza da scongelare, appoggiai le valigie e mi diressi al piano di sopra. Diedi un’occhiata al bagno, passai davanti alla camera di papà, e poi al suo studio, fino ad arrivare a un’altra camera in fondo al corridoio.
Aprì delicatamente la porta, ed entrai.
Sul letto c’era un piccolo pacchetto e una lettera. Tipico di papà. Pensai. Anche quando ero piccola comunicavamo tramite lettere o disegni. Mi sedetti sul letto e incomincia a leggere.

Ciao tesoro,
come vedi la passione per scrivere lettere non mi è passata. E ora mentre scrivo nel mio studio ti immagino, mentre leggi questa lettera, immagino la mia bambina che è cresciuta, i suoi capelli ora saranno più lunghi, le sue passioni saranno cambiate, il suo carattere sarà diverso, ma il suo sorriso sarà sempre lo stesso. Quel sorriso che ogni sera quando tornavo a casa, non vedevo l’ora di vedere, quel sorriso che mi è mancato in questi anni lontani. Anni che son diventati mesi, mesi che son diventati giorni, e ora sono minuti. Minuti. Quelli che ci separano. Perché ora sei qui. Non puoi capire quanto sia stato doloroso per me andare avanti senza di te. Sapere che non ti sarei stato accanto nei tuoi giorni più difficili, nei giorni in cui piove, nei tuoi giorni più importanti. Sapere tutto questo mi faceva male. Soffrivo dentro. Scusa ancora, per il frigo vuoto, ma se non ricordo male dovrebbe esserci qualcosa da mangiare. Ah dimenticavo, oltre alla lettera, lo vedi quel disegno nella busta? Te lo ricordi, me lo disegnasti il giorno in cui mi trasferì a Londra. Da allora lo porto sempre con me; per avere una parte di te in me.
Non vedo l’ora di abbracciarti.
                                                     Ti bacio il tuo papà.”

Maledetto papà. Era riuscito a farmi piangere. Rigirai tra le mani la lettera, e la lessi così tante volte fino ad impararla a memoria.
Poi scartai il pacchetto. Sorrisi guardando quel maglione orribile che mi aveva regalato. Non si poteva guardare, ma sapevo che era un regalo fatto con il cuore. Me lo infilai. Come ero buffa. Sembravo un uovo di pasqua.
Non feci in tempo a iniziare a svuotare le valigie, che suonarono alla porta. Papà.
Corsi subito giù dalle scale, mi sistemai i capelli, sbirciai fuori dalla finestra. Strano la macchina non c’era. Sistemai un po’ tutto e poi finalmente andai ad aprire.
“ Ciao..” mi disse.
Ma questa volte ne ero sicura, non era un sogno.
 
 
 
 
 
 

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