Se Pagford potesse parlare

di Keyth
(/viewuser.php?uid=296635)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vecchi rancori ***
Capitolo 2: *** la famiglia ***
Capitolo 3: *** Ciccio ricorda ***



Capitolo 1
*** Vecchi rancori ***


Su, in cima alla collina appena fuori dalla cittadina di Pagford, si apriva un grande cancello in ferro battuto. Quel cancello, dai cardini leggermente arrugginiti, portava a uno dei luoghi più tristi della contea, al cimitero di Evergreen. Vicino all’entrata, posteggiata a cavallo tra due posti macchina, sostava una decappottabile grigia di seconda mano, con tettuccio aperto e chiavi ancora inserite.

Quando le vide, Rosamunde scosse la testa «Ricchi». Rose era una venticinquenne dai tratti tipicamente anglosassoni: naso piccolo e all’insù, capelli biondo rossiccio, occhi verdi e una tempesta di lentiggini su naso e guance. Stava andando a trovare la madre naturale, Terry, seppellita nel cimitero di Evergreen una decina di anni prima. Terry, disoccupata e tossicodipendente, aveva vissuto per anni ai Fields, un quartiere degradato al confine con Pagford in cui il sesso e la droga erano gli unici diversivi. Rosamunde si vergognava di sua madre, l’ultima volta che l’aveva vista, al centro di recupero di Bellchapel, quasi non l’aveva riconosciuta. Pallida ed emaciata, sembrava uno scheletro. Una maglietta lisa, fucsia con la scritta “Teenage dream” lasciava pensare che fosse un capo rubato, o al massimo ritrovato in qualche discarica.

Quella volta, Rose, si era fatta coraggio, e aveva deciso di andare a trovare la madre naturale che non vedeva da almeno dieci anni. Aveva pensato e ripensato a quella visita mille volte dopo che il centro di cura per tossicodipendenti di Bellchapel l’aveva contattata.

 

Gentile Rosamunde Chat,

sono Katherine Lux, psicoterapeuta, le scrivo per conto del Centro di recupero Bellchapel di Pagford. La contattiamo per informarla che sua madre, Terry Weedon, ha deciso di farsi ricoverare nella nostra struttura. Terry è “pulita” da due mesi, e dopo molte sedute di terapia ha deciso di voler ricucire i rapporti che ha rotto nel suo periodo buio con l’eroina. Le saremmo grati se si facesse avanti per incontrare Terry, che al momento non ha alcun contatto con parenti e familiari.

 

Se è interessata la prego di contattarmi al numero 055 9977 o alla mail katlux@bellechapel.com

Cordialità,

 

Katherine Lux

 

Rosamunde non si era lasciata illudere da quella lettera, sapeva che Terry non sarebbe mai cambiata, ma sarebbe rimasta una madre anaffettiva, che si era liberata in un modo o nell’altro dei figli, facendone adottare alcuni e abbandonando al loro destino tutti gli altri. A lei era andata anche troppo bene, all’età di cinque anni i servizi sociali l’avevano portata via da casa di Terry e l’avevano affidata alla famiglia Chat. I nuovi genitori, una coppia di cinquantenni che non era riuscita ad avere figli, l’aveva accolta a braccia aperte, educata con rigore, ma senza esagerare, e amata profondamente. Rose, così calma e posata, si chiedeva se la genetica esistesse. Cosa ne era dei geni “cattivi” di Terry, degli zii e dei nonni naturali? Era bastata una buona educazione per allontanarsi dai guai?

Dei suoi fratellastri non aveva mai avuto notizie direttamente, ma aveva visto spesso i loro nomi sulle cronache locali. Cheryl arrestata per rapina a mano armata tre anni prima, Mary arrestata per spaccio di droga, il cugino Dane messo in prigione per omicidio, Krystal suicidata con una dose di eroina e infine Robbie, che a soli tre anni era stato lasciato solo a vagare sulle rive di un fiume. Una fitta di vergogna aveva appena fatto arrossire Rose, ormai a pochi metri dalla tomba di Terry.

 

Quella volta che dieci anni prima era andata a Bellchapel era poco più che una ragazzina. All’entrata aveva chiesto di vedere la signora Lux, e in pochi minuti una bella trentenne, capelli a spazzola corvini e abito rosso a fiori bianchi, l’aveva stretta caldamente «Allora sei venuta, Rosamunde Chat!». Sembrava la aspettasse da giorni. In fondo era passata solo una settimana dalla sua lettera.

«Sì, sono io. Sto cercando mia madre, Terry. Non penso che sappia che sto arrivando» aveva detto Rose con una certa sicurezza, senza che il tremore delle gambe la tradisse.

«No, non lo sa che sei qui. Ci sperava, ma è una donna molto pessimista e arrendevole. Non che non abbia i numeri per uscire dalle sue dipendenze, ovvio. Però..».

Rose aveva smesso di ascoltarla. Si era voltata a guardare il corridoio bianco, asettico, illuminato con le luci al neon. Un paio di infermiere vagavano per quello spazio senza tregua, trafficando con le cartelle cliniche. Da quel corridoio di affacciava almeno una decina di porte. In una di quelle, forse…

«Va bene, Rosie, andiamo!» la psicoterapeuta le aveva appoggiato una mano sulla spalla, e l’aveva spinta verso quel corridoio.

L’incontro con Terry, nello studio di Katherine Lux, era stato molto più che deludente. Quasi macabro. Rose era seduta su una poltroncina, dietro un tavolo basso, in una stanza che voleva ricordare un salotto di casa. Davanti a lei sedeva la madre naturale, capelli scombinati, maglietta fucsia e un piccolo livido sul braccio. «Ciao, cara, come stai?» l’aveva salutata Terry mentre si sedeva faticamente su un’altra poltrona. Rose aveva scrollato le spalle. Per il resto della seduta – perché di questo si trattava – aveva a malapena parlato. Probabilmente Terry si era anche scordata che lei esistesse. L’idea dell’incontro doveva essere venuta al Centro Bellchapel. Le gambe le continuavano a tremare per la tensione, ma la trepidazione che aveva provato per le strade di Pagford si era trasformata in disgusto. Come poteva essere imparentata con quel soggetto, così trasandato e assente? Come aveva fatto sua madre, Terry, ad abbandonare tutti i figli per l’eroina? Come aveva fatto a scegliere l’eroina?

 

Ma ora erano passati dieci anni, e il risentimento era svanito. Per Terry, morta di attacco cardiaco due anni prima, provava solo pena. Non aveva vissuto, la sua esistenza era stata un vegetare passivo. Aveva assistito alla nascita e alla morte dei suoi figli anestetizzata dalle droghe, probabilmente non aveva neanche mai sofferto davvero.

La tomba di Terry si trovava all’inizio del campo B, tra i pagfordiani e gli yarviliani morti negli ultimi dieci anni. La sua lapide era ingrigita dal tempo e poco curata. Rose si accucciò e cominciò a grattarla con una spugna. Le passate vigorose su quella lapide incisa erano un gesto liberatorio. La distraevano dalla desolazione di Evergreen, dove i suoi fratellastri, Krystal e Robbie, erano seppelliti, e le facevano dimenticare quanto fosse triste che Terry non avesse nessuno, oltre a lei, a portarle dei fiori al cimitero.

Sistemata la lapide, Rose si rimise in piedi. Sospirò, e come sempre si rimise sui suoi passi, verso l’uscita del cimitero. Passando per le stradine ciottolate di Evergreen non poteva far a meno di leggere le lapidi più fiorite. Mary Green, morta a Pagford nel 2005, amava i crisantemi; Louise Flight, morta a Yarville nel 2002, adorava i girasoli; Andrew Packmann, nato a Manchester, ma morto a Yarville nel 2010, sembrava tifare il Real Madrid dalla quantità di sciarpe lasciate sulla sua tomba.

Piano piano Rose aveva diminuito il passo fino a fermarsi. Che ne era di Robbie? Quella povera creatura era stata un’altra vittima delle distrazioni di Terry e di Krystal, che stava calcando le orme di sua madre. Si guardò intorno, e cercò la zona più crudele di Evergreen, quella dei piccoli innocenti. Il campo C era per metà occupato da tombe ricoperte di fiori e giocattoli. C’erano molti piccoli uomini in quella fetta di cimitero, alcuni addirittura neonati, a cui avevano fatto appena in tempo a dare il nome e a fare una fotografia, e poi si erano spenti per qualche motivo.

Dopo aver passato in rassegna i nomi di quei bambini, rimaneva ancora una fila di tombe, le ultime prima che il cimitero si chiudesse con uno spesso muro di mattoni. Un rumore distrasse Rose, e le fece sollevare lo sguardo. Solo ora si accorgeva di un giovane, più o meno della sua stessa età, alto e biondo. Aveva i capelli un po’ lunghi, che gli cadevano sugli occhi. Portava un piumino con il cappuccio di pelo, aperto davanti, beige scuro. Ai piedi, un paio di Timberland, con cui stava schiacciando il mozzicone di una sigaretta ancora fumante. Il ragazzo era proprio davanti alla tomba di Robbie. «Salve» azzardò Rose. Lui fece un cenno del capo, bofonchiò qualcosa e, ancora con una rosa rossa in mano si allontanò, diretto verso l’uscita. Rose aggrottò le sopracciglia. «Ma cosa…?». Scrollò le spalle, e tornò a concentrarsi sul piccolo tumulo di terra che copriva Robbie. Si accucciò, e fu felice che quel suo primo incontro con il fratellastro, mai incontrato, non fosse crudo come quello con Terry. Sulla tomba di Robbie, pulita e ben tenuta, era posata una rosa bianca, bianco perdono. Rose passò una mano su quel fiore vellutato, e notò con piacere che era fresca, tagliata da poco. Si risollevò sulle gambe, e con un sospiro riprese il sentiero di ciottoli che portava all’uscita. L’aria di quel pomeriggio di Gennaio cominciava a raffreddarsi. Erano solo le quattro, ma il sole stava già calando all’orizzonte, lasciandosi dietro un’ombra scura di freddo. Con le mani in tasca, Rose oltrepassò il cancello di ferro, e svoltò verso sinistra. Un rombo di motore la fece rallentare. Davanti a lei quella macchina grigia decappottabile stava ripartendo con il ragazzo biondo alla guida. Si lanciarono uno sguardo, poi lui ripartì a gran velocità giù per la collina. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** la famiglia ***


«Katherine? Kathrine sei lì dentro?» chiese Rose bussando più volte alla porta.
«Sì, arrivo, arrivo!» rispose Katherine spazientita. «Che c’è?» chiese aprendo la porta e lasciando entrare Rosamunde.
«Sono stata al cimitero a trovare Terry..».
«Oh, brava. E allora?» sul viso di Katherine comparve un’espressione perplessa.
«Be’, poi per curiosità sono andata a cercare Robbie, suo figlio».
«Il tuo fratellastro, intendi?» chiese Kath cauta mentre tornava a sedersi alla sua scrivania.
«Sì, lui…» rispose Rose prendendo tempo.
Si sedette sulla sedia di fronte alla scrivania, e cominciò a giocherellare con la targa “Lux, psicoterapeuta” di Katherine. «Be’, ho visto un uomo. Cioè, un ragazzo. Sai chi potrebbe essere? Aveva più o meno la mia età, non può essere stato amico di Robbie, no?».
Kath tirò un sospiro «Non lo so Rosie, ha importanza?».
L’amica chiamava sempre Rosamunde “Rosie” quando provava a farla ragionare.
«No, non ce l’ha, ma mi ha sconvolto sapere che la famiglia Weedon per qualcuno è ancora… viva. Oltre che per me, intendo».
«Capisco» ponderò Katherine «non lo so, sinceramente. Sono passati almeno cinque anni dall’ultimo ricovero di Terry, non ricordo le nostre sedute così nitidamente. Se vuoi posso dare un’occhiata alla sua cartella, magari c’è qualcosa».
«Davverò?» si illuminò Rose «grazie Kath, sei un’amica!».
«Tranquilla» scrollò le spalle la psicologa alzandosi dalla sedia «scusa, Rosie, ma tra poco ho un paziente, ti dispiace se ci sentiamo più tardi?».
«Nessun problema, tranquilla, tanto devo tornare al lavoro…». Si salutarono sulla porta, e Rose imboccò quel corridoio bianco e sterile che l’aveva tanto intimorita nella sua prima volta a Bellechapel.
«EHI ROSIE?» la fermò Kath «me la dici una cosa? Perché ti interessa sapere chi è quel tizio?». Nella domanda non c’era malizia, ma pura curiosità, Rose ne rimase colpita.
 «Niente Kath, pensavo che magari…» sospirò «magari non tutti i miei fratellastri sono poco di buono… magari ho ancora qualche parente da qualche parte».
Rose si voltò, e tirò dritto verso l’esterno dell’edificio.
 
In realtà Rosamunde non aveva altro da fare. Da mesi il suo posto di giornalista all’Indipendent di Londra era diventato una misera collaborazione saltuaria. Che non era più una redattrice, però, a Kath non aveva avuto il coraggio di dirlo. Forse non c’era nemmeno bisogno, visto che se fosse stata ancora nella cronaca del giornale a quest’ora non avrebbe avuto tempo di passare dall’ufficio di nessuna amica. 
Salì i gradini della sua villetta a schiera, un regalo che le avevano pagato i suoi genitori adottivi, i Chat, con i risparmi di una vita. Girò la chiave nella toppa della porta in legno viola ed entrò in casa. Spike, il cucciolo di carlino preso qualche mese prima come consolazione di una storia e un lavoro finito, le andò incontro abbaiando «Shh, piccolo mostriciattolo, o farai arrabbiare i Devils» disse Rose ridacchiando, e battendo una mano sul tronco grasso di Spike. Si tolse la giacca, la sciarpa e si piegò a raccogliere la posta. Tre buste e un mare di pubblicità. Percorse l’angusto corridoio, superando la scala che portava alle camere da letto, e raggiunse la cucina. Sulla sinistra, un tavolo ancora apparecchiato per la colazione aspettava di essere ripulito da un paio di giorni. Rose si sedette sulla sedia a capotavola, e iniziò ad aprire le lettere. Quei tre mesi da disoccupata l’avevano fatta diventare una povera illusa. Ogni volta che riceveva una telefonata, raccoglieva la posta o apriva la mail aspettava qualche minuto per raccogliere le energie positive e riversarle sulle eventuali novità che il contatto aveva per lei. La prima lettera era una bolletta «CENTOTRE’ STERLINE per la luce?» tirò via il bollettino postale, e passò alla seconda. La busta conteneva almeno un paio di fogli, era spessa e scritta a mano. La aprì con il cuore in gola. Era del Yarvil and district Gazzettine. Non poteva essere. Allo Yarvil aveva mandato una lettera sei mesi fa, quando le cose all’Independent si stavano mettendo male e aveva cominciato a cercare disperatamente un altro lavoro. Non potevano averle mandato la lettera di rifiuto ora, dopo sei mesi. La aprì con cautela, ma ne strappò comunque un angolo «Accidenti». Era piegata in quattro.
 
Gentile signora Chat,
 
ci scusiamo per il ritardo nella risposta, ma la Redazione tutta dello Yarville and District Gazzettine spera non sia troppo tardi. Abbiamo letto con interesse il suo curriculum vitae, e pensiamo che lei sia più che idonea per ricoprire un posto vacante nella nostra squadra. Se la sua candidatura è ancora valida, la preghiamo di contattarci. Alla segreteria (055 8676) faccia il mio nome.
 
Cordiali saluti,
 
Andrew Price
 
Gli altri fogli erano tenuti insieme da un punto di spillatrice. Una era una pagina di Wikipedia con la storia del Yarville and district Gazzettine, la seconda un memorandum sulle regole dello Yarville, la terza un elenco di nomi dei redattori del team. «…nella nostra squadra» rilesse con aria sognante Rose. «Ommioddio, è un miracolo!». Rovistò in fretta nella borsa, e tirò fuori il suo caro vecchio Nokia, qualche squillo, e poi la risposta «Rose? Che succede?» «Kath, non puoi capire! Mi hanno presa allo Yarville and district Gazzettine!». «Oddio. Davvero? E il tuo posto all’Independent?». Calò qualche secondo di silenzio «Be’, mi ha stufato, in fondo scrivevo solo brevi e didascalie…». «Ehm, sì, ok. E allora quando inizi?» chiese Kath leggermente confusa.«Non so ancora, adesso chiamo. In effetti devo ancora fare il colloquio, però mi considerano interessante e più che idonea! Sono dentro, me lo sento!». Kath sorrise. Non era da Rose farsi prendere dall’entusiasmo prima del tempo. 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Ciccio ricorda ***


La redazione dello Yarville era al fondo di Church Road, al confine con la cittadina di Pagford. Si trovava in un edificio basso, di tre piani. Non era il New York Times, ma i sorrisi della segretaria all’entrata facevano ben sperare. Rose si avvicinò al lungo bancone che faceva da reception «Salve, sono Rosamunde Chat. Dovrei incontrare il signor Andrew Price, dovrebbe lavorare qui…». «Sì, direi che lavora qui, signora Chat. Secondo piano, bussi alla porta di legno alla sua sinistra» la segretaria ammiccò, e tornò sulle sue scartoffie. Rose oltrepassò la porta scorrevole che le si era appena aperta alle spalle, e imboccò le scale. Al secondo piano si aprivano due porte, in quella a destra, a vetri, si poteva vedere parte dell’open space della redazione. Un paio di uomini piuttosto in carne discutevano tra loro in tono concitato, con camicie aperte e maniche arrotolate. A sinistra sulla porta di legno era appuntata una targa di ottone con la parola “Direttore” incisa in blu. Rose si sistemò la gonna del tailleur, leggermente corta, e si decise a bussare.
«Un attimo» sbuffò l’uomo dietro la porta. Bofonchiò qualcosa, e dopo pochi secondi aprì. «Buongiorno, lei deve essere Rosamunde Chat» sorrise «io sono Andrew Price, direttore dello Yarville and district Gazzettine». Le allungò una mano e la invitò ad entrare.
«Va bene caro, io vado…» una donna bellissima, alta e con i capelli color oro si alzò da una poltrona in fondo alla stanza, salutò con un cenno del capo Rose, diede un bacio leggero sulle labbra del marito e uscì con il suo tailleur di bouclè rosa, lasciando un velo di profumo nell’aria. Rosamunde arrossì, e anche Andrew «Lei era mia moglie, Gaia Bawden, si occupa della sezione “spettacoli” qui al Gazzettine». «Oh, certo» tagliò corto Rose. Santo cielo, si era dimenticata di ripassare l’elenco dei redattori.
 
Poche ore dopo alla porta di Andrew bussò Stuart Wall. «Ehi Ciccio, come stai?» il direttore scattò in piedi, e andò ad abbracciare l’amico che non amava bussare. «Bene Arf, un po’ stanco» «E stanco di cosa?» Andrew scoppiò in una risata, battendo una mano sulla spalla di Stuart. «Simpatico. Senti, ti va una birra?». I due amici si guardarono «Ti raggiungo tra un quarto d’ora Ciccio, lo sai che sono l’ultimo a uscire da qui…».
Stuart lo aspettò sulla porta, fumando una sigaretta dopo l’altra. «Su, andiamo» incalzò Andrew mentre si chiudeva la cerniera del piumino. Salirono sulla decappottabile di Ciccio, e raggiunsero la loro birreria di fiducia.
«Allora, Nocciolina, sempre tanto lavoro?» chiese Stuart al primo sorso di birra «Oh, Ciccio, non rompere. Quel soprannome avrà vent’anni, e poi da quando ti interessa del mio lavoro?». «Il soprannome ha tanti anni come la tua allergia alla frutta in guscio, Arf» tagliò corto Stuart. «Va be’, insomma, come stai? Qualche problema?» «Ora non posso nemmeno più prendere una birra con il mio migliore amico?». Ad Andrew ronzarono per un attimo le orecchie: Stu non gli aveva mai detto esplicitamente che era il suo “migliore amico”. Doveva essere grave.

«Senti, andrò al punto, ma non giudicare». Stuart tirò un sospiro. Si era chiesto per tutto il giorno se fosse il caso di parlarne con qualcuno, non amava piagnucolare come una femminuccia sulla spalla di Andrew, che da sempre lo considerava il più forte della loro coppia. Preferiva che l’amico indovinasse il suo stato d’animo e si adattasse, come sempre. Ma quelle domande nate al cimitero continuavano a ronzargli in testa, quel volto coperto di lentiggini, così bello, così fresco, l’aveva letteralmente sconvolto. «Non lo so, Arf, sono confuso. Oggi ho avuto una visione mentre ero al cimitero». «Cimitero? Come al cimitero?» Andrew si risistemò sulla sedia, a disagio. «Sì, al cimitero. Andavo a trovare quella nostra amica». Ciccio arrossì. «Parli di Krystal? Ciccio non c’è niente di male» a Andrew scappò quella rassicurazione, e Stuart si sentì ancora più in imbarazzo. «Comunque – si affrettò ad aggiungere – cosa vuol dire una visione? Hai perso qualche rotella?» Andrew tirò una gomitata d’intesa all’amico, versandosi un po’ della birra del boccale sulla mano. «Sono confuso, Arf» ripeté «insomma, c’era una ragazza sulla tomba di Robbie oggi». «Di Robbie o di Krystal?» «Cambia qualcosa?» ruggì Stuart. A Andrew non era mai venuto in mente che l’amico pensasse ancora all’incidente di dieci anni prima, quando un bambino era annegato nel fiume di Pagford, e Krystal, una delle tante fiamme di allora, si era suicidata. Per gli anni appena successivi alla tragedia si erano limitati a parlarne come “l’incidente”, termine vago e sterile. Invece Ciccio andava ancora a pagare il suo pegno per essere sopravvissuto a quella tragedia e a quella vergogna.

Fu quando lo Yarville titolò la notizia «Una drogata uccide nel fiume il fratello» che Andrew ebbe la vocazione. Non voleva diventare giornalista, ma piuttosto entrare in quella fortezza editoriale, così piccola, che però sapeva controllare l’informazione di città e distretti. Voleva averla in pugno, e limitare tutti i danni che in quegli anni aveva fatto. Come avevano potuto, quei giornalisti di provincia, storpiare così l’accaduto? Krystal non era una drogata, non si era mai fatta più di qualche canna. Aveva una madre drogata, ma di questo si vergognava e si dannava, non aveva certo intenzione di seguirne le tracce. E il termine “uccide” per titolare l’annegamento fortuito di Robbie era stata una vergogna. È vero, nell’articolo il giornalista spiegava come fossero andate le cose, ma non erano molti i cittadini che leggevano più delle prime due righe. Il titolo era tutto, e quelle matrone pettegole e ignoranti che vivevano a Pagford ne avevano costruito sopra un’antologia di bugie.

«Ti dicevo…» intervenì Ciccio infastidito dalla distrazione di Andrew «che oggi, al cimitero, ho incontrato una ragazza. Mentre si avvicinava ho pensato fosse bellissima, una visione…» sul viso di Arf comparve un sorriso malizioso che cercava complicità «…ma poi ci ho pensato Andrew, non potrebbe essere mia sorella? Arf, ti ricordi quando hai fatto quelle ricerche per me, nell’archivio del giornale? Dicevi che la mia madre naturale qualche anno dopo avermi dato in affidamento aveva avuto una figlia, ti ricordi?». “Ci risiamo”, pensò Andrew «Ciccio, Ciccio, ferma! Stai sognando, hai capito? Avevi giurato di smetterla con le ricerche, hai perso anni della tua vita dietro la tua famiglia d’origine, devi smetterla. La tua famiglia sono gli Wall, Cubicolo e Tessa, sono loro che ti hanno cresciuto, gli altri sono sconosciuti. Sco-no-sci-ti» scandì sempre più accaldato. «Ma Arf, non capisci… Veniva verso di me, aveva un’aria incantata quando mi ha guardato. Forse ha visto qualcosa, forse mi cercava!». «Ma Stuart, sveglia! Era sulla tomba di Robbie, cosa c’entri tu? Come fai a pensare che fosse lì per te? Non lo sapevo nemmeno io che frequenti il cimitero, figurati tua sorella!». Ciccio restò in silenzio. In resto della serata fu piatto, e venne interrotto, con il sollievo di Arf, da una telefonata di Gaia che chiedeva al marito di tornare a casa. «Va bene caro, io vado…» una donna bellissima, alta e con i capelli color oro si alzò da una poltrona in fondo alla stanza, salutò con un cenno del capo Rose, diede un bacio leggero sulle labbra del marito e uscì con il suo tailleur di bouclè rosa, lasciando un velo di profumo nell’aria. Rosamunde arrossì, e anche Andrew «Lei era mia moglie, Gaia Bawden, si occupa della sezione “spettacoli” qui al Gazzettine». «Oh, certo» tagliò corto Rose. Santo cielo, si era dimenticata di ripassare l’elenco dei redattori.
 
Poche ore dopo alla porta di Andrew bussò Stuart Wall. «Ehi Ciccio, come stai?» il direttore scattò in piedi, e andò ad abbracciare l’amico che non amava bussare. «Bene Arf, un po’ stanco» «E stanco di cosa?» Andrew scoppiò in una risata, battendo una mano sulla spalla di Stuart. «Simpatico. Senti, ti va una birra?». I due amici si guardarono «Ti raggiungo tra un quarto d’ora Ciccio, lo sai che sono l’ultimo a uscire da qui…».
Stuart lo aspettò sulla porta, fumando una sigaretta dopo l’altra. «Su, andiamo» incalzò Andrew mentre si chiudeva la cerniera del piumino. Salirono sulla decappottabile di Ciccio, e raggiunsero la loro birreria di fiducia.
«Allora, Nocciolina, sempre tanto lavoro?» chiese Stuart al primo sorso di birra «Oh, Ciccio, non rompere. Quel soprannome avrà vent’anni, e poi da quando ti interessa del mio lavoro?». «Il soprannome ha tanti anni come la tua allergia alla frutta in guscio, Arf» tagliò corto Stuart. «Va be’, insomma, come stai? Qualche problema?» «Ora non posso nemmeno più prendere una birra con il mio migliore amico?». Ad Andrew ronzarono per un attimo le orecchie: Stu non gli aveva mai detto esplicitamente che era il suo “migliore amico”. Doveva essere grave.
«Senti, andrò al punto, ma non giudicare». Stuart tirò un sospiro. Si era chiesto per tutto il giorno se fosse il caso di parlarne con qualcuno, non amava piagnucolare come una femminuccia sulla spalla di Andrew, che da sempre lo considerava il più forte della loro coppia. Preferiva che l’amico indovinasse il suo stato d’animo e si adattasse, come sempre. Ma quelle domande nate al cimitero continuavano a ronzargli in testa, quel volto coperto di lentiggini, così bello, così fresco, l’aveva letteralmente sconvolto. «Non lo so, Arf, sono confuso. Oggi ho avuto una visione mentre ero al cimitero». «Cimitero? Come al cimitero?» Andrew si risistemò sulla sedia, a disagio. «Sì, al cimitero. Andavo a trovare quella nostra amica». Ciccio arrossì. «Parli di Krystal? Ciccio non c’è niente di male» a Andrew scappò quella rassicurazione, e Stuart si sentì ancora più in imbarazzo. «Comunque – si affrettò ad aggiungere – cosa vuol dire una visione? Hai perso qualche rotella?» Andrew tirò una gomitata d’intesa all’amico, versandosi un po’ della birra del boccale sulla mano. «Sono confuso, Arf» ripeté «insomma, c’era una ragazza sulla tomba di Robbie oggi». «Di Robbie o di Krystal?» «Cambia qualcosa?» ruggì Stuart. A Andrew non era mai venuto in mente che l’amico pensasse ancora all’incidente di dieci anni prima, quando un bambino era annegato nel fiume di Pagford, e Krystal, una delle tante fiamme di allora, si era suicidata. Per gli anni appena successivi alla tragedia si erano limitati a parlarne come “l’incidente”, termine vago e sterile. Invece Ciccio andava ancora a pagare il suo pegno per essere sopravvissuto a quella tragedia e a quella vergogna.
Fu quando lo Yarville titolò la notizia «Una drogata uccide nel fiume il fratello» che Andrew ebbe la vocazione. Non voleva diventare giornalista, ma piuttosto entrare in quella fortezza editoriale, così piccola, che però sapeva controllare l’informazione di città e distretti. Voleva averla in pugno, e limitare tutti i danni che in quegli anni aveva fatto. Come avevano potuto, quei giornalisti di provincia, storpiare così l’accaduto? Krystal non era una drogata, non si era mai fatta più di qualche canna. Aveva una madre drogata, ma di questo si vergognava e si dannava, non aveva certo intenzione di seguirne le tracce. E il termine “uccide” per titolare l’annegamento fortuito di Robbie era stata una vergogna. È vero, nell’articolo il giornalista spiegava come fossero andate le cose, ma non erano molti i cittadini che leggevano più delle prime due righe. Il titolo era tutto, e quelle matrone pettegole e ignoranti che vivevano a Pagford ne avevano costruito sopra un’antologia di bugie.
«Ti dicevo…» intervenì Ciccio infastidito dalla distrazione di Andrew «che oggi, al cimitero, ho incontrato una ragazza. Mentre si avvicinava ho pensato fosse bellissima, una visione…» sul viso di Arf comparve un sorriso malizioso che cercava complicità «…ma poi ci ho pensato Andrew, non potrebbe essere mia sorella? Arf, ti ricordi quando hai fatto quelle ricerche per me, nell’archivio del giornale? Dicevi che la mia madre naturale qualche anno dopo avermi dato in affidamento aveva avuto una figlia, ti ricordi?». “Ci risiamo”, pensò Andrew «Ciccio, Ciccio, ferma! Stai sognando, hai capito? Avevi giurato di smetterla con le ricerche, hai perso anni della tua vita dietro la tua famiglia d’origine, devi smetterla. La tua famiglia sono gli Wall, Cubicolo e Tessa, sono loro che ti hanno cresciuto, gli altri sono sconosciuti. Sco-no-sci-ti» scandì sempre più accaldato. «Ma Arf, non capisci… Veniva verso di me, aveva un’aria incantata quando mi ha guardato. Forse ha visto qualcosa, forse mi cercava!». «Ma Stuart, sveglia! Era sulla tomba di Robbie, cosa c’entri tu? Come fai a pensare che fosse lì per te? Non lo sapevo nemmeno io che frequenti il cimitero, figurati tua sorella!». Ciccio restò in silenzio. In resto della serata fu piatto, e venne interrotto, con il sollievo di Arf, da una telefonata di Gaia che chiedeva al marito di tornare a casa.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1504667