Il giorno migliore di Eryca (/viewuser.php?uid=137266)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo-Non è una storia ma deve essere narrata ***
Capitolo 2: *** Parte I - Il tram ***
Capitolo 3: *** Parte II - Il fiume ***
Capitolo 4: *** Parte III - Lo zoo ***
Capitolo 5: *** Parte IV - La piazza ***
Capitolo 6: *** Epilogo - Non è una storia, ma doveva essere narrata ***
Capitolo 1 *** Prologo-Non è una storia ma deve essere narrata ***
Prologo
–
Non è
una storia, ma deve essere narrata
Ci sono vari
tipi di storie.
Le storie che
inducono gli ascoltatori a rizzare le
orecchie, sbarrare gli occhi e afferrare ogni singola parola, ogni
singola
lettera, congiunzione.
Le storie che
sono come musica. Note musicali infinite,
strofe poetiche e commoventi che ogni persona ascolta e apprezza.
Le storie
banali, quelle di cui si conosce già l’epilogo al
primo capitolo, ma riescono comunque a far innamorare, ridere, piangere
il
lettore.
Ci sono anche
storie che viaggiano sulle nuvole, si posano
sulle stelle e dormono un po’ nei cieli, facendo sognare il
lettore.
Ce ne sono a
milioni, di storie.
Ma questa non
può essere classificata in nessuna di esse.
Forse, questa,
non è nemmeno classificabile come storia.
Eppure deve
essere narrata.
*
Note
dell’autrice fuori di testa
Cari
lettori,
questo
prologo –con tutte le probabilità del caso- non vi
avrà lasciato che un senso
di confusione e spaesamento: non si capisce nulla. In realtà
si capirà solo alla
fine ciò che intendevo con queste parole di overture. Quindi
mettevi i cuori in
pace :D
Due
paroline su questa storia.
In
realtà, proprio come dice il prologo, non so se è
classificabile come storia. È
il racconto per iscritto di una giornata molto particolare, per il
protagonista
(che non avrà mai un nome, poverino xD), con in serbo molte
sorprese e nuovi
incontri.
Il
protagonista si sposterà in diversi luoghi, quindi ogni
capitolo sarà dedicato
ad un posto diverso e ad un tema particolare che
“l’eroe” dovrà affrontare.
Sono sei capitoli, compresi prologo ed epilogo, quindi è
molto corta come
storia.
“Ma
che problemi ha, questa?”, starete pensando, giustamente.
Bene,
se siete arrivati fino a qui senza scappare a gambe levate devo farvi i
miei
complimenti.
Comunque
sia, spero che questa storia possa piacervi o anche solo darvi una qualche emozione,
perché a me ha lasciato uno
strana sensazione e ho voluto condividerla con voi.
Seguitemi,
ragazzi, e lasciate un commentino. (Anche solo un “drogati di
meno”).
La
vostra Eryca.
(che
va a farsi rinchiudere in clinica psichiatrica).
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Capitolo 2 *** Parte I - Il tram ***
Parte I
– Il tram
La
meraviglia dell’attesa è attendere
Do uno sguardo
alla grossa signora accanto a me: il sedile
non è abbastanza spazioso per contenere il suo enorme
didietro, quindi occupa
anche metà del mio, costringendomi in uno spazio minuscolo.
Ogni
giovedì è la solita storia, le solite vecchie
facce
sbiadite dalla monotonia. Solita strofa di una canzone che non
è più in voga da
anni, ma sembra dover ripetersi all’infinito.
«Una
volta non ero così grassa, sai?» Mi guarda, la
signora
con il sedere abnorme, gli occhi piccoli e le palpebre cadenti.
Succede sempre
così: quando meno te lo aspetti, le persone
ti stupiscono, magari con un sorriso o, come in questo caso, con una
parola. Una
dichiarazione di coscienza, come a dirmi che è consapevole
di essere in
sovrappeso.
La guardo.
Guardo questa signora grassa e malinconica,
decadente come una di quelle case abbandonate di periferia. La guardo e
il
ricordo di una giovane donna dagli occhi vispi splende nelle sue iridi.
E il
suo sedere flaccido non ha più alcuna importanza.
«Ero
bella. Sì. Ero bella.» Si guarda le scarpe, il
doppio
mento pronunciato è una visione raccapricciante. Assomiglia
ad un budino andato
a male, magari con la muffa. Sembra volare tra le nuvole, in cerca di
un
passato che non può ritrovare. In cerca di una sé
stessa andata perduta.
È
malinconica, questa donna budino.
Resto in
silenzio mentre il tram striscia come un serpente
per le strade della città.
In piedi, con la
mano che afferra l’apposito appiglio, il
solito barbone dai capelli unti e lo sguardo assente, perso in
chissà quale
pianeta di chissà quale galassia.
Mi guarda,
l’accattone, forse perché si sente osservato. E
rimango sconcertato, perché sembra avere in comune con la
donna budino la
malinconia.
Ma che cosa sta
succedendo, su questo tram?
Una ragazza dai
capelli biondi e il viso angelico chiama la
fermata. Chiama la fermata e si avvicina alle porte, attendendo.
Attendendo la
sua fermata. Il tram si arresta.
Scende, la
ragazza. Scende e sorride. È la sua fermata.
E io resto qui,
seduto.
E attendo.
Attendo la mia
fermata che, lo so, prima o poi arriverà.
Se non sapessi
che in un tempo futuro anche io scenderò da
questo tram, allora non starei più aspettando. E sarebbe un
problema, perché
l’attesa è il momento in cui ognuno di noi ricerca
sé stesso.
La meraviglia
dell’attesa è attendere.
Guardo fuori dal
finestrino, ma non c’è nulla di
particolarmente interessante, perché tutto ciò
che può attirare la mia
attenzione si trova all’interno del bus. La donna budino
tossisce
rumorosamente, sputa il suo catarro dentro un vecchio fazzoletto di
stoffa,
probabilmente utilizzato numerose volte, ma mai lavato.
«Ho
capito che ero invecchiata quando è morto il mio cane.
»
Mi guarda di nuovo, con quei suoi occhi infossati, la signora con il
sedere
grosso. Mi guarda e aspetta un mio cenno. Una gocciolina di sudore
scivola
sulla sua fronte e io la seguo stomacato.
«Ero
bello il mio cane, sai? Era uno di quei bastardini che
non sono né di una razza né di
un’altra. Come avrebbe detto il vecchio zio
Gerardo, era un meticcio schifoso ed inutile.» Mi guarda e
aspetta un mio cenno
di approvazione. Non lo trova. Va avanti. «Comunque sia,
quando è morto Bob –
il mio cane – ho capito che ero diventata vecchia. Era con me
da quasi quindici
anni, sai...» No. Non so. Ma non glielo dico. Rimango in
silenzio, la donna
budino continua a parlare sputacchiando, ma io non la sto ascoltando. A
volte,
però, abbiamo solo bisogno di pensare che qualcuno ci
ascolti, anche se non è
così, in modo da poter parlare. Parlare. Parlare. Parlare.
E io resto qui,
seduto.
E attendo.
Il tram si
ferma, ma so che non devo scendere qui. Saluto
allegramente l’accattone, che è smontato e ora mi
sta facendo un cenno con la
mano, il sorriso sotto la barba grigia. Spero che possa trovare
ciò che va
cercando.
La donna budino
continua a raccontarmi di suo zio Gerardo e
io provo una pena indescrivibile nei suoi confronti, perché
so che le manca
ancora molto alla sua fermata. Ha perso sé stessa, nel
passato. Ha perso sé
stessa negli anni.
Plin.
È la
mia fermata.
«Buona
permanenza, donna budino.» Mi alzo, lei mi guarda
interrogativamente, forse scioccata dal nomignolo che lo ho affibbiato.
L’autista
ha un capellino da basket blu, due grossi baffi
neri e gli occhi più vacui che io abbia mai visto in tutta
la mia vita. Lui
guida sempre. Ogni mattina si alza, smonta dal letto e guida. Sale sul
tram e
guida. Lui è l’uomo del tram.
È
l’uomo che attende.
Sorrido e scendo.
È la
mia fermata.
*
Per chi di
voi ha letto non posso fare altro che dire GRAZIE TANTE, anche
perché questa
storia è un vero e proprio viaggio mentale fatto di
sensazioni e astrattismo.
Vi è
piaciuta la donna budino? Sì? No? Fatemelo sapere, insomma!
:D
Ringrazio
chiunque di voi abbia letto, inserito la storia tra le Preferite,
Ricordate o
Seguite e chi ha recensito o lo farà! Grazie di cuore!
Un
abbraccio,
Eryca.
|
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Capitolo 3 *** Parte II - Il fiume ***
Parte
II – Il fiume
Lasciarsi
indietro il passato è scorrere, come il fiume.
Guardo il tram scomparire
tra le vie della città, mentre io
rimango fermo sul marciapiede, l’asfalto che, come un lingua infuocata,
ha
mangiato ogni cosa che gli sta intorno.
Cemento, catrame. È
artificiale, tutto questo. È come
l’attrezzatura di scena per una grande pièce teatrale: stupenda, creata
con
cura, ma finta. Rappresentazione del reale.
E io, del reale, necessito.
Inizio a camminare al
centro della strada, le macchine
sembrano essere scomparse tutte d’un tratto ed io vado avanti. Cammino.
Un
passo. Un altro passo. Un passo. Un altro passo.
Camminare è un po’ come
attendere, in fondo. Mi è sempre
piaciuto muovermi, sin da bambino; odiavo usare la macchina, preferivo
andare a
piedi, correre. Sentirmi vivo. Reale. Poi, con il tempo, ho imparato ad
apprezzare anche i mezzi di trasporto. Credo che sia per questo motivo
che ho cominciato
a prendere il tram.
Non c’è nessuno, in giro,
sembra tutto così estremamente
vuoto. D’un tratto, mi accorgo che l’asfalto non c’è più e nemmeno i
casermoni
in cemento armato. Dove sono? Com’è possibile che io non mi sia accorto
di dove
stavo andando? Ero troppo concentrato su me stesso per capire ciò che
stava
succedendo.
Alberi alti mi circondano,
come se fossero delle enormi e
vegetali guardie del corpo, sotto i miei piedi il terreno è fangoso ed
erboso. Sono
in un bosco. Non un bosco qualunque, ma uno di quelli che ti danno una
sensazione ineguagliabile di intimità e magia.
Continuo a camminare, ora
più lentamente, lanciando occhiate
qua e là, interessato come sono all’ambiente che mi circonda. Succede,
quando
ci si trova in un luogo nuovo, che ci si senta come un bambino alle
prese con
il suo primo giocattolo. Sorpresa, stupore, curiosità.
Il terreno diventa ripido,
ma io non mi fermo, perché sento di dover continuare.
Anche se
tutto sembra intimarmi di tornare all’asfalto, il mio cuore scalpita
per tutta
quella purezza, quella sincerità in mezzo ad un mondo di finzione. Come
si può
non rispondere al richiamo della natura?
Perché la vegetazione,
quella che crediamo sia come i sassi,
parla. Anzi, urla. Chiama con
un’insistenza senza pari, eppure la maggior parte della popolazione è
sorda.
Non la sente. Ma come si fa a non udirla? A me fa quasi venire
l’emicrania.
Sposto delicatamente una
pianta che mi intralcia il
passaggio – non voglio farle del male, dopotutto – e lo vedo.
Sta lì, a pochi passi da
me. Anche lui sta chiacchierando,
probabilmente con gli alberi seduti accanto a lui. È un vero e proprio
spettacolo, alla quale tutto il resto del bosco sembra assistere. La
foresta
sembra tacere di fronte a lui.
Lui, il
fiume. Il sovrano indiscusso della selva, con la sua maestosità e il
suo
scorrere, sempre e comunque, nonostante tutto il resto si fermi; non
importa se
gli alberi prendono fuoco: lui continua a correre, imperterrito.
Mi siedo sopra un masso
che dà sul ruscello. Mi tolgo le
scarpe e lascio che i miei piedi vengano bagnati dalla fresca acqua.
Rispondo
al richiamo della natura, sì.
«Non ti sei chiesto perché
non ci sono animali, in questo
bosco?» Alzo la testa. Sopra un albero rinsecchito, sta un piccolo gufo
dai
grossi occhi gialli. Ha l’aria fiera, incute timore, ma la sua voce è
simpatica, socievole.
«Sinceramente no.»
Ride, il gufo. Non sapevo
che potessero sorridere, ma, in
fondo, sono tante le cose che non conosco, quindi non devo stupirmi.
Sorrido
anche io e non so il perché, ma questo animaletto mi mette allegria,
con quei
suoi occhi sproporzionati.
«Poco tempo fa, vi è stato
un enorme incendio. Gli animali
sono fuggiti tutti. Non è rimasto nessuno.» Il suo tono si fa solenne.
«Gli
alberi piangevano disperati. La vegetazione era deturpata, sfigurata.
Molti
avevano perso i loro cari. E il fiume era rimasto solo.» Tengo gli
occhi fissi
sul piccolo volatile, sento che questa sua storia ha un senso profondo
ed
importante.
«Ora, però, è
ricresciuta.» affermo, guardandomi intorno:
gli alberi sono colmi di foglioline verdi e sotto di me l’erba struscia
sui
pantaloni. C’è di nuovo vita, qui. Lo vedo, lo sento.
«Credi che sarebbe potuta
rinascere se avessero continuato a
piangere le loro perdite? A leccarsi le ferite e ricordare malinconici
la loro
vita prima della catastrofe?» mi chiede l’animale, gli occhi gialli
fissi su di
me, in attesa di una risposta.
E allora capisco. «Sono
andati avanti. Come il fiume.»
Il mio amico sorride
soddisfatto e annuisce, rivolgendo la
sua attenzione al colosso che ci divide: il rio. Se la natura non
avesse
seguito l’esempio del fiume, adesso sarebbe nella stessa situazione
della donna
budino del tram, che continua a ricercarsi nel passato. E invece no, il
fiume
lascia indietro ciò che è stato e continua il suo cammino, lavando ogni
macchia
con la acqua linda e pura.
Il fiume non porta
rancore, non si attacca ai ricordi.
Il fiume è speranza. È
risurrezione.
Se solo la donna budino
potesse essere qui...
«E tu perché sei qui,
gufo?»
«Perché io non sono come
gli altri animali, scettici sul
fatto che questo bosco possa offrire loro cibo e riparo. Io ho dato una
seconda
possibilità alla foresta.»
Mi sembra chiaro ciò che
il mio amichetto stia cercando di
dirmi. Guardo la superficie cristallina del fiume e mi specchio in
esso: i miei
occhi sono sbiaditi dai fantasmi del mio passato, la mia anima è colma
di
cicatrici dovute agli eventi. E io, io continuo a vivere di questo
dolore,
crogiolandomi in esso.
Lasciarsi indietro il
passato è scorrere, come il fiume.
Lasciarsi indietro il
passato è provare, come il bosco.
Lasciarsi indietro il
passato è credere, come il gufo.
Lasciarsi indietro il
passato è vivere.
«Io sono vivo.» Mi accorgo
che il gufo è sparito, volato
chissà dove. So che il mio tempo, qui è terminato. Mi alzo.
E, mentre torno indietro
sui miei passi, do il mio saluto al
passato.
*
Angolo
Autrice
Carissimi
lettori,
è con
immenso piacere (e timore) che vi presento la seconda parte di questo
viaggio
(in tutti i sensi :P).
Spero vi sia
piaciuto e lo abbiate capito, nonostante sia un po’ particolare. Che ne
pensate
del gufetto? :D
Non ho molto
da dirvi, se non chiedervi di lasciare il vostro parere, perché per
l’autrice è
importante sapere cosa ne pensano i lettori della storia.
Un grande
abbraccio,
Eryca
|
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Capitolo 4 *** Parte III - Lo zoo ***
Parte
III – Lo zoo
Libertà
è sentirsi senza barriere nonostante si sia in gabbia
Sono di nuovo
sulla grande strada asfaltata, quella
principale, e l’incanto del bosco è un ricordo
magico dentro di me; ma, proprio
come ho imparato dal fiume, decido di non crogiolarmi nel passato.
Guardo al
presente. Che è questo cemento.
Porto avanti la
mia marcia senza meta, dicendomi che ormai
di tornare a casa non se ne parla: lo sento, oggi
c’è qualcosa di solenne
nell’aria, come se il vento mi stesse sussurrando
all’orecchio di continuare a
camminare e di non preoccuparmi, perché lui si
prenderà cura di me e mi porterà
dove avrò bisogno di essere. Si può contraddire
il soffio fresco della brezza?
No, non credo.
Ci sono giorni
in cui il divano diviene il mio migliore
amico e la tenda serrata la mia fidanzata. Sono giorni bui, giorni in
cui il
mondo mi è estraneo e il mio stesso corpo mi sembra
astratto. Ma oggi, oggi è
diverso. Lo sento.
Tiro un calcio
ad un sassolino che rotola veloce, fermandosi
poi ad un ostacolo avente l’aria di essere un grosso cancello
di ferro battuto.
Alzo gli occhi e, in effetti, è proprio un portone quello
che ho davanti. In
alto, tra gli spuntoni in metallo, sorge una scritta che ha un
ché di
apocalittico: Zoo.
Il vento ride
soddisfatto e mi scompiglia i capelli,
inducendomi a pensare che è un gran furbacchione.
Perché proprio lo zoo? Dovrei
aver capito che porsi domande non serve a nulla. Scrollo le spalle:
cos’ho da
perdere, dopotutto? Entro nel parco.
Mi ero
immaginato bambini con in mano coloratissimi
palloncini, mamme con tanto di passeggini e animo stanco, padri
scocciati con
orologi da polsi raffinati. E, invece, rimango deluso nel notare che il
luogo è
completamente deserto. Niente fanciulli, niente uomini di mezza
età e niente
casalinghe frustrate. C’è solo il vento, accanto a
me.
Di fronte a me
noto un chiosco con il tetto colorato a
strisce gialle e rosse, probabilmente dove i clienti possono acquistare
bevande
e gelati, durante le stagioni calde. Seguo la stradina in ciottolato,
lasciando
che il mio amico soffio mi porti dove vuole e snobbando esplicitamente
le offesissime
segnalazioni. Scusate, seguo il vento.
Mi mette in
soggezione, il rumore del silenzio: fa sì che
nulla oltre a lui parli e si autoproclama attore protagonista della
pièce,
cantando a squarciagola. Ha una voce cristallina, il silenzio.
Così trasparente
che a volte si confonde con il Nulla: è per questo motivo
che riusciamo a
sentire la sua pura melodia solamente se drizziamo le orecchie. Ma ne
vale la
pena. È la musica più soave che ci sia. Credo mi
stia ringraziando, il
silenzio.
Il vento mi fa
volare il cappello, credo si sia offeso
perché ho dato più attenzioni alla quiete che a
lui: è geloso. Rido e mi lascio
trasportare dalla mia guida incorporea, che scuote le foglie
inducendole a
scendere dalle brande per iniziare una danza incantevole: decine di
foglioline
eseguono perfetti grand plié intorno
a me, utilizzandomi come elemento scenografico.
D’un
tratto, il vento si placa. Mi arresto, perché è
questo
il posto in cui vuole che mi concentri. Davanti a me sta
un’enorme gabbia in
metallo, le sbarre così resistenti e spesse che sarebbe
impossibile per
qualunque essere vivente sfondarle.
Dal fondo della
gabbia spunta un grosso codone arancione a
strisce, l’ombra si prende gioco di me, però, e mi
impedisce di vedere il resto
della creatura. Quella coda, comunque, non mente e non ho bisogno di
vederla
alla luce del sole per capire che si tratta di una tigre. Una maestosa
tigre,
aggiungo quando finalmente si fa vedere.
Non ho mai visto
un animale tanto possente: grosse zampe in
grado di graffiare nel profondo la carne, denti capaci di strapparti il
cuore,
muscoli che le permettono di correre con agilità, orecchie
che captano il
minimo rumore e... due occhi di una tristezza immane, che non
trasmettono la
minima voglia di predare, ma solo di fuggire e correre, correre di
nuovo,
correre ancora, correre almeno per un’ultima volta.
Si siede, la
tigre dagli occhi sconsolati, proprio di fronte
a me. Solo la gabbia ci divide. Mi guarda e noto che le sue iridi sono
di uno
splendido verde acceso, uno di quelli che non potrai sicuramente vedere
su un
uomo. Sono occhi puri. Occhi senza tranelli, senza secondi fini. Occhi
animali.
L’uomo
si ostina ad usare l’aggettivo “umano”
per descrivere
un qualcosa di estremamente sensibile, con la capacità di
provare emozioni, mentre
invece “animale” lo utilizza quando vuole dare
l’idea di selvaggio, di rude e
apatico. Ma si sbaglia.
Io credo che sia
il contrario.
E questa gabbia
– questa tigre dagli occhi tristi – ne è
la
prova schiacciante.
Io, io sono
un animale, allora. Non voglio essere umano, no. Io mi sento animale,
io sono animale, perché
provo emozioni,
perché condivido la rassegnazione della tigre,
perché non sarei in grado di
ridurre un essere così maestoso ad un animale senza
speranze.
Perché
io, io non
sono capace di imprigionare la libertà.
La tigre mi
guarda. «Credo di aver conservato un barlume di
libertà, nel mio cuore» mi dice. I suoi occhi
verdi sono umidi, luccicano come
le stelle notturne. «Libertà è sentirsi
senza barriere nonostante si sia in
gabbia», finisce. E
con quelle parole
malinconiche, la tigre dagli occhi tristi lancia un ultimo ruggito di
dolore,
mi dà la schiena e sparisce nell’ombra, tornando a
leccarsi le ferite
dell’anima.
Libertà
è sentirsi senza barriere nonostante si sia in gabbia.
Il vento torna a
scompigliarmi i capelli. Mi sta dicendo che
il mio tempo qui è terminato, il mio viaggio deve
continuare, non posso
fermarmi qui per sempre. Ma, in fondo, una parte del mio cuore
– quello libero
– se l’è preso la tigre dagli occhi
tristi e lo conserverà con cura e
dedizione. Perché lei è animale.
Ciao
amica mia.
E, con
l’animo che ha acquistato un sentimento nuovo, torno
sui miei passi pensando alla docile tigre dagli occhi malinconici.
*
Angolo
Autrice
Queste
note vogliono essere esplicative del capitolo, ovviamente, ma
soprattutto
rispondere ad alcune domande che credo siano utili per capire meglio il
testo;
mi farebbe piacere, insomma, farvi entrare un poco nella mia mente:
1-
1. A cosa pensavo mentre scrivevo questo
capitolo? Al mio paese. Il mio piccolo paesino di montagna che potrebbe
essere
rappresentato con lo zoo e la gabbia che tengono prigioniera la tigre.
2-
2. Che cosa dovrebbe rappresentare la tigre? Me.
Ma non solo, anche tutte le persone che, proprio come la sottoscritta,
si
sentono chiuse in una gabbia, schiavizzate da un paese troppo chiuso e
persone
troppo ottuse o da una società che non le dà
sbocchi.
3-
3. Perché la scelta di uno zoo per
parlare di
libertà? Perché il modo migliore per far capire
quanto essere liberi sia importanti
è parlare di prigionia. L’uomo brama la sua
libertà quando ne è privato.
4-
4. Perché la tigre è
rappresentata con
sentimenti? Credo sia abbastanza chiaro, anzi, quasi palese, ma forse
è meglio
soffermarsi: la tigre rappresenta la persona oppressa, quindi quella
che è
schiacciata dalle sue stesse emozioni, ed ecco perché gli
uomini vengono
descritti senza sentimenti.
Spero di
essere stata abbastanza chiara, di avervi fatto ragionare su queste
questioni,
perché per me sono più che importanti: credo che
ognuno di noi abbia il diritto
di essere una persona libera, di potersi esprimere nel
migliore dei modi
senza essere giudicato pazzo o essere imprigionato da inutili
pregiudizi.
Grazie per
aver letto e un grosso abbraccio,
Eryca.
|
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Capitolo 5 *** Parte IV - La piazza ***
Parte
IV – La piazza
È un
virus, la solitudine.
Non
c’è bisogno di dire che sono nuovamente sulla
ormai nota
strada asfaltata, dove convoglia ogni viaggiatore perduto e spaesato.
Il mio
animo è ancora in subbuglio a causa dell’incontro
con la tigre dagli occhi
tristi. Dove mi porterà il vento, ora?
Ci sono quelle
mattine in cui ci si alza, ci si lavano i
denti con la solita cura e precisione, si scelgono i pantaloni
più comodi per
poter affrontare la lunga e stressante giornata, ci si prepara
l’usuale
colazione con biscotti e latte macchiato, e poi, invece, la sorte ci
gioca uno
scherzo demenziale e ci porta a camminare senza meta per la
città, guidati da
un soffio fresco e puro. Pensavo che sarebbe stata una noiosa giornata
come
tutte le altre, sì. Le giornate migliori, in fondo, sono
quelle inaspettate,
quelle che, da apatiche, si trasformano in emozionanti e commoventi.
Questi
sono i giorni migliori. La svolta c’è stata quando
ho messo il piede fuori dal
palazzone in cui abito e mi sono reso conto che, al posto della solita
passeggiata, avrei aspettato il tram. Poi c’è
stata la donna budino, il
vagabondo, il fiume e il gufo, il vento che mi ha guidato, la tigre
dagli occhi
tristi e ora di nuovo questa strada asfaltata. Che cosa magnifica, il
caso!
Sussurra nel mio
orecchio, il vento. «Andiamo, andiamo.»
Sento l’eco della parola appena pronunciata espandersi
nell’aria, come se in
realtà quel soffio gelido non smettesse mai di bisbigliare,
ma continuasse
nelle sue particelle infinitesimali.
Mi faccio
condurre per la grande via dal mio accompagnatore,
che si porta dietro una piccola nube di polvere, quasi a non voler
rimanere
solo. Avrà una moglie, il vento? Mi dico che forse non
è il caso di
domandarglielo, sono domande personali, dopotutto.
Io e il mio
amico camminiamo fianco a fianco, lui
consapevole, io ignaro. Lui inconsistente, io materia. Lui reale, io
anche. Zigzaghiamo
come due corridori tra i corsi della città, percorrendo
viottoli dimenticati
dalla società che, in fondo, dimentica un po’
troppo.
Abbandoniamo le
vie desolate e ci inoltriamo nel centro
città, dove il traffico inizia a prendere possesso della
scena, urlando con i
suoi clacson, scalpitando con i suoi mezzi di trasporto, impazzendo con
i suoi
pedoni distratti. Mi chiedo perché la mia guida mi abbia
portato nel fulcro
della vita mondana, dove teatro e confusione sono protagonisti. Non ho
mai
amato la folla, il delirio; ho sempre prediletto la calma e la pace.
Sono un
uomo solitario. Lo sono sempre stato.
Adesso sono
proprio nel bel mezzo della ressa, tra Barbie e
i suoi sacchetti di Gucci, l’uomo d’affari e il suo
auricolare all’orecchio, i
bambini accompagnati dalle maestre con gli occhi di falco.
Perché, vento?
Perché?
Lo sento ridere,
il bastardo. «Ancora un piccolo sforzo,
suvvia» farfuglia. Continua a spingermi, adesso con
più insistenza, mentre mi
faccio spazio tra la moltitudine di corpi sudati, profumati,
puzzolenti,
freschi. Odori, sensazioni. Tutto insieme.
Mi rendo conto
che l’emblema della falsità è proprio
il
centro città e le sue vetrine ne sono la dimostrazione, con
i manichini
agghindati alla perfezione, i trucchi a nascondere il vero viso delle
persone,
i vestiti firmati a confondere, i tacchi alti per sembrare meno bassi.
Questo è
il teatro, è il travestimento e il vento lo sa, me lo sta
urlando.
Finalmente
arrivo a destinazione: la grande piazza centrale,
decorata da una magnifica fontana rinascimentale, un palazzo degno di
Versailles e un marasma di persone.
Sono al centro
della calca. La giacca di un’anziana signora
mi ha appena sfiorato il braccio. Ora, quello zingaro si sta
avvicinando per
fare l’elemosina, ma io non ho soldi, così alzo la
mano in segno di scuse e mi
sposto sulla sinistra, perché non voglio rogne. Un gruppetto
di adolescenti
ride esageratamente, mentre la maggior parte di loro fumano avidamente
dalle
sigarette che, molto probabilmente, neanche apprezzano troppo, ma
comprano per
poter sentirsi più grandi, più partecipi della
finzione del centro città.
Vicino a me, una coppia di innamorati si bacia teneramente sulla bocca,
baci
lievi e casti, non vogliono dare fastidio alla gente: li invidio, si
amano.
E io?
Io, in tutto
questo, mi rendo conto di essere circondato da
persone, di poter sentire voci, discorsi, profumi, sensazioni, gesti.
Sono al
centro della vita. Sono in compagnia.
Sono solo. Solo
come non mai.
«Perché,
vento?» urlo disperato, questa volta ad alta voce,
così che il diretto interessato possa sentirmi e
rispondermi, darmi una
spiegazione. Me la merito.
«Questa
è solitudine. Non vedi?» soffia «Queste
persone
credono di potersi sentire meno sole fingendo. Ma è
solitudine, questa. È la
solitudine peggiore. La vedi?»
Scuoto la testa.
«Non la vedo, vento. Io la sento.» Ed è
vero. Non è un osservazione, ma è una sensazione
che entra nella pelle,
nell’anima e nel cuore, penetra i miei organi interni e
prolifica
nell’intestino, come un verme, e sta lì, vive a
mio discapito. È un virus, la
solitudine. Un epidemia, in questo caso. E io non posso fermarla.
Come si
può credere di combatterla con la finzione? Recitare
una parte di teatro, uscendo con gli amici e ridendo, non
aiuterà a sentirsi
meno solo, anzi, amplificherà in maniera acuta questa
condizione. Diventerai la solitudine.
Mi sento come la
tigre dagli occhi tristi: sola al mondo,
chiusa in una gabbia. Come posso fare per fuggire da questa
società? Tutta
questa gente sola mi mette un senso di disperazione addosso, come un
vestito,
la sento su di me.
«Vento,
vento, amico mio...» chiamo angosciato «...basta,
ti
prego...portami via.» Il vento non ride, questa volta, ma
sento che piange in
silenzio, senza che nessuno oltre a me lo possa sentire.
È
triste di questa solitudine, il vento. Lui è abituato a
viaggiare solo, nonostante sia in compagnia, perché le
persone lo percepiscono
ma non lo considerano: deve soffiare forte e fare disastri,
perché la gente si
accorga della sua presenza. Il vento è solo e ha voluto
farmi provare tutta la
sua depressione.
«Capisci
ora?» Un goccia mi sfiora la guancia e mi rendo
conto che il cielo sta piangendo per il suo caro amico, condannato ad
un’eternità di invisibilità.
«Ho
sempre capito.»
Mi prende la
mano, il soffio, e mi porta via, cercando di
allontanarmi da tutta quell’ emarginazione. Senza successo,
però.
Perché
la solitudine è in me.
*
Note
Non ho
intenzione di aggiungere parole
superflue: credo che il testo parli da sé.
Questo era
l’ultimo capitolo, il prossimo e
conclusivo sarà solamente il prologo, per chiudere in
bellezza – si spera –
questa piccola follia.
Grazie a chi mi
segue,
un abbraccio,
Eryca.
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Capitolo 6 *** Epilogo - Non è una storia, ma doveva essere narrata ***
Epilogo
–
Non è
una storia, ma doveva essere narrata
È
stato un cammino, questo giorno. Dentro di me, dentro
l’uomo, dentro la natura, dentro gli animali, dentro il
mondo.
Non so bene che
cosa sia stato, perché sia successo o come
sia successo. Mi sembra tutto un ricordo lontano, sfocato, come quando
ci si
sveglia e si ricorda a malapena il sogno appena fatto. È una
sensazione di
malinconia.
Ho conosciuto la
donna budino, il tram e la sua attesa.
Ho conosciuto il
gufo, il fiume e il suo lasciarsi indietro
il passato.
Ho conosciuto la
tigre, lo zoo e il suo senso di libertà
distorto.
Ho conosciuto il
vento, la piazza e la sua solitudine.
Ho conosciuto,
ascoltato, imparato.
Ce ne sono a
milioni, di storie.
Ma questa non
può essere classificata in nessuna di esse.
Forse, questa,
non è nemmeno classificabile come storia.
Eppure doveva
essere narrata.
*
Note
Eccoci arrivati
alla fine finissima di questa
storia. Spero di avervi fatto riflettere su alcuni argomenti e spero di
non
essere stata troppo folle! xD
Non ho molto da
dirvi, se non ringraziare
ognuno di voi per aver letto e recensito questa piccola pazzia; per me
è stato
un onore avere dei lettori – anche se pochi –
perché non ne aspettavo
assolutamente: è stata una vera sorpresa, quindi sono molto
contenta.
Grazie ancora a
tutti, in particolare ad aniasolary che
ha corretto l’intera
storia e mi ha spronata a renderla pubblica. <3
Un abbraccio,
la vostra Eryca.
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