Il giorno migliore

di Eryca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo-Non è una storia ma deve essere narrata ***
Capitolo 2: *** Parte I - Il tram ***
Capitolo 3: *** Parte II - Il fiume ***
Capitolo 4: *** Parte III - Lo zoo ***
Capitolo 5: *** Parte IV - La piazza ***
Capitolo 6: *** Epilogo - Non è una storia, ma doveva essere narrata ***



Capitolo 1
*** Prologo-Non è una storia ma deve essere narrata ***


Prologo –

Non è una storia, ma deve essere narrata

 

 

Ci sono vari tipi di storie.

Le storie che inducono gli ascoltatori a rizzare le orecchie, sbarrare gli occhi e afferrare ogni singola parola, ogni singola lettera, congiunzione.

Le storie che sono come musica. Note musicali infinite, strofe poetiche e commoventi che ogni persona ascolta e apprezza.

Le storie banali, quelle di cui si conosce già l’epilogo al primo capitolo, ma riescono comunque a far innamorare, ridere, piangere il lettore.

Ci sono anche storie che viaggiano sulle nuvole, si posano sulle stelle e dormono un po’ nei cieli, facendo sognare il lettore.

Ce ne sono a milioni, di storie.

Ma questa non può essere classificata in nessuna di esse.

Forse, questa, non è nemmeno classificabile come storia.

Eppure deve essere narrata.

 

*

 

Note dell’autrice fuori di testa

Cari lettori,

questo prologo –con tutte le probabilità del caso- non vi avrà lasciato che un senso di confusione e spaesamento: non si capisce nulla. In realtà si capirà solo alla fine ciò che intendevo con queste parole di overture. Quindi mettevi i cuori in pace :D

 

Due paroline su questa storia.

In realtà, proprio come dice il prologo, non so se è classificabile come storia. È il racconto per iscritto di una giornata molto particolare, per il protagonista (che non avrà mai un nome, poverino xD), con in serbo molte sorprese e nuovi incontri.

Il protagonista si sposterà in diversi luoghi, quindi ogni capitolo sarà dedicato ad un posto diverso e ad un tema particolare che “l’eroe” dovrà affrontare. Sono sei capitoli, compresi prologo ed epilogo, quindi è molto corta come storia.

“Ma che problemi ha, questa?”, starete pensando, giustamente.

 

Bene, se siete arrivati fino a qui senza scappare a gambe levate devo farvi i miei complimenti.

Comunque sia, spero che questa storia possa piacervi o anche solo darvi una  qualche emozione, perché a me ha lasciato uno strana sensazione e ho voluto condividerla con voi.

Seguitemi, ragazzi, e lasciate un commentino. (Anche solo un “drogati di meno”).

 

La vostra Eryca.

(che va a farsi rinchiudere in clinica psichiatrica).

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Capitolo 2
*** Parte I - Il tram ***


Parte I – Il tram

La meraviglia dell’attesa è attendere

 

 

Do uno sguardo alla grossa signora accanto a me: il sedile non è abbastanza spazioso per contenere il suo enorme didietro, quindi occupa anche metà del mio, costringendomi in uno spazio minuscolo.

Ogni giovedì è la solita storia, le solite vecchie facce sbiadite dalla monotonia. Solita strofa di una canzone che non è più in voga da anni, ma sembra dover ripetersi all’infinito.

«Una volta non ero così grassa, sai?» Mi guarda, la signora con il sedere abnorme, gli occhi piccoli e le palpebre cadenti.

Succede sempre così: quando meno te lo aspetti, le persone ti stupiscono, magari con un sorriso o, come in questo caso, con una parola. Una dichiarazione di coscienza, come a dirmi che è consapevole di essere in sovrappeso.

La guardo. Guardo questa signora grassa e malinconica, decadente come una di quelle case abbandonate di periferia. La guardo e il ricordo di una giovane donna dagli occhi vispi splende nelle sue iridi. E il suo sedere flaccido non ha più alcuna importanza.

«Ero bella. Sì. Ero bella.» Si guarda le scarpe, il doppio mento pronunciato è una visione raccapricciante. Assomiglia ad un budino andato a male, magari con la muffa. Sembra volare tra le nuvole, in cerca di un passato che non può ritrovare. In cerca di una sé stessa andata perduta.

È malinconica, questa donna budino.

Resto in silenzio mentre il tram striscia come un serpente per le strade della città.

In piedi, con la mano che afferra l’apposito appiglio, il solito barbone dai capelli unti e lo sguardo assente, perso in chissà quale pianeta di chissà quale galassia.

Mi guarda, l’accattone, forse perché si sente osservato. E rimango sconcertato, perché sembra avere in comune con la donna budino la malinconia.

Ma che cosa sta succedendo, su questo tram?

Una ragazza dai capelli biondi e il viso angelico chiama la fermata. Chiama la fermata e si avvicina alle porte, attendendo. Attendendo la sua fermata. Il tram si arresta.

Scende, la ragazza. Scende e sorride. È la sua fermata.

E io resto qui, seduto.

E attendo.

Attendo la mia fermata che, lo so, prima o poi arriverà.

Se non sapessi che in un tempo futuro anche io scenderò da questo tram, allora non starei più aspettando. E sarebbe un problema, perché l’attesa è il momento in cui ognuno di noi ricerca sé stesso.

La meraviglia dell’attesa è attendere.

Guardo fuori dal finestrino, ma non c’è nulla di particolarmente interessante, perché tutto ciò che può attirare la mia attenzione si trova all’interno del bus. La donna budino tossisce rumorosamente, sputa il suo catarro dentro un vecchio fazzoletto di stoffa, probabilmente utilizzato numerose volte, ma mai lavato.

«Ho capito che ero invecchiata quando è morto il mio cane. » Mi guarda di nuovo, con quei suoi occhi infossati, la signora con il sedere grosso. Mi guarda e aspetta un mio cenno. Una gocciolina di sudore scivola sulla sua fronte e io la seguo stomacato.

«Ero bello il mio cane, sai? Era uno di quei bastardini che non sono né di una razza né di un’altra. Come avrebbe detto il vecchio zio Gerardo, era un meticcio schifoso ed inutile.» Mi guarda e aspetta un mio cenno di approvazione. Non lo trova. Va avanti. «Comunque sia, quando è morto Bob – il mio cane – ho capito che ero diventata vecchia. Era con me da quasi quindici anni, sai...» No. Non so. Ma non glielo dico. Rimango in silenzio, la donna budino continua a parlare sputacchiando, ma io non la sto ascoltando. A volte, però, abbiamo solo bisogno di pensare che qualcuno ci ascolti, anche se non è così, in modo da poter parlare. Parlare. Parlare. Parlare.

E io resto qui, seduto.

E attendo.

Il tram si ferma, ma so che non devo scendere qui. Saluto allegramente l’accattone, che è smontato e ora mi sta facendo un cenno con la mano, il sorriso sotto la barba grigia. Spero che possa trovare ciò che va cercando.

La donna budino continua a raccontarmi di suo zio Gerardo e io provo una pena indescrivibile nei suoi confronti, perché so che le manca ancora molto alla sua fermata. Ha perso sé stessa, nel passato. Ha perso sé stessa negli anni.

Plin.

È la mia fermata.

«Buona permanenza, donna budino.» Mi alzo, lei mi guarda interrogativamente, forse scioccata dal nomignolo che lo ho affibbiato.

L’autista ha un capellino da basket blu, due grossi baffi neri e gli occhi più vacui che io abbia mai visto in tutta la mia vita. Lui guida sempre. Ogni mattina si alza, smonta dal letto e guida. Sale sul tram e guida. Lui è l’uomo del tram.

È l’uomo che attende.

Sorrido e scendo.

È la mia fermata.

 

*

 

Per chi di voi ha letto non posso fare altro che dire GRAZIE TANTE, anche perché questa storia è un vero e proprio viaggio mentale fatto di sensazioni e astrattismo.

Vi è piaciuta la donna budino? Sì? No? Fatemelo sapere, insomma! :D

Ringrazio chiunque di voi abbia letto, inserito la storia tra le Preferite, Ricordate o Seguite e chi ha recensito o lo farà! Grazie di cuore!

 

Un abbraccio,

Eryca.

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Capitolo 3
*** Parte II - Il fiume ***


Parte II – Il fiume

Lasciarsi indietro il passato è scorrere, come il fiume.

 

 


Guardo il tram scomparire tra le vie della città, mentre io rimango fermo sul marciapiede, l’asfalto che, come un lingua infuocata, ha mangiato ogni cosa che gli sta intorno.

Cemento, catrame. È artificiale, tutto questo. È come l’attrezzatura di scena per una grande pièce teatrale: stupenda, creata con cura, ma finta. Rappresentazione del reale.

E io, del reale, necessito.

Inizio a camminare al centro della strada, le macchine sembrano essere scomparse tutte d’un tratto ed io vado avanti. Cammino. Un passo. Un altro passo. Un passo. Un altro passo.

Camminare è un po’ come attendere, in fondo. Mi è sempre piaciuto muovermi, sin da bambino; odiavo usare la macchina, preferivo andare a piedi, correre. Sentirmi vivo. Reale. Poi, con il tempo, ho imparato ad apprezzare anche i mezzi di trasporto. Credo che sia per questo motivo che ho cominciato a prendere il tram.

Non c’è nessuno, in giro, sembra tutto così estremamente vuoto. D’un tratto, mi accorgo che l’asfalto non c’è più e nemmeno i casermoni in cemento armato. Dove sono? Com’è possibile che io non mi sia accorto di dove stavo andando? Ero troppo concentrato su me stesso per capire ciò che stava succedendo.

Alberi alti mi circondano, come se fossero delle enormi e vegetali guardie del corpo, sotto i miei piedi il terreno è fangoso ed erboso. Sono in un bosco. Non un bosco qualunque, ma uno di quelli che ti danno una sensazione ineguagliabile di intimità e magia.

Continuo a camminare, ora più lentamente, lanciando occhiate qua e là, interessato come sono all’ambiente che mi circonda. Succede, quando ci si trova in un luogo nuovo, che ci si senta come un bambino alle prese con il suo primo giocattolo. Sorpresa, stupore, curiosità.

Il terreno diventa ripido, ma io non mi fermo, perché sento di dover continuare. Anche se tutto sembra intimarmi di tornare all’asfalto, il mio cuore scalpita per tutta quella purezza, quella sincerità in mezzo ad un mondo di finzione. Come si può non rispondere al richiamo della natura?

Perché la vegetazione, quella che crediamo sia come i sassi, parla. Anzi, urla. Chiama con un’insistenza senza pari, eppure la maggior parte della popolazione è sorda. Non la sente. Ma come si fa a non udirla? A me fa quasi venire l’emicrania.

Sposto delicatamente una pianta che mi intralcia il passaggio – non voglio farle del male, dopotutto – e lo vedo.

Sta lì, a pochi passi da me. Anche lui sta chiacchierando, probabilmente con gli alberi seduti accanto a lui. È un vero e proprio spettacolo, alla quale tutto il resto del bosco sembra assistere. La foresta sembra tacere di fronte a lui.

Lui, il fiume. Il sovrano indiscusso della selva, con la sua maestosità e il suo scorrere, sempre e comunque, nonostante tutto il resto si fermi; non importa se gli alberi prendono fuoco: lui continua a correre, imperterrito.

Mi siedo sopra un masso che dà sul ruscello. Mi tolgo le scarpe e lascio che i miei piedi vengano bagnati dalla fresca acqua. Rispondo al richiamo della natura, sì.

«Non ti sei chiesto perché non ci sono animali, in questo bosco?» Alzo la testa. Sopra un albero rinsecchito, sta un piccolo gufo dai grossi occhi gialli. Ha l’aria fiera, incute timore, ma la sua voce è simpatica, socievole.

«Sinceramente no.»

Ride, il gufo. Non sapevo che potessero sorridere, ma, in fondo, sono tante le cose che non conosco, quindi non devo stupirmi. Sorrido anche io e non so il perché, ma questo animaletto mi mette allegria, con quei suoi occhi sproporzionati.

«Poco tempo fa, vi è stato un enorme incendio. Gli animali sono fuggiti tutti. Non è rimasto nessuno.» Il suo tono si fa solenne. «Gli alberi piangevano disperati. La vegetazione era deturpata, sfigurata. Molti avevano perso i loro cari. E il fiume era rimasto solo.» Tengo gli occhi fissi sul piccolo volatile, sento che questa sua storia ha un senso profondo ed importante.

«Ora, però, è ricresciuta.» affermo, guardandomi intorno: gli alberi sono colmi di foglioline verdi e sotto di me l’erba struscia sui pantaloni. C’è di nuovo vita, qui. Lo vedo, lo sento.

«Credi che sarebbe potuta rinascere se avessero continuato a piangere le loro perdite? A leccarsi le ferite e ricordare malinconici la loro vita prima della catastrofe?» mi chiede l’animale, gli occhi gialli fissi su di me, in attesa di una risposta.

E allora capisco. «Sono andati avanti. Come il fiume.»

Il mio amico sorride soddisfatto e annuisce, rivolgendo la sua attenzione al colosso che ci divide: il rio. Se la natura non avesse seguito l’esempio del fiume, adesso sarebbe nella stessa situazione della donna budino del tram, che continua a ricercarsi nel passato. E invece no, il fiume lascia indietro ciò che è stato e continua il suo cammino, lavando ogni macchia con la acqua linda e pura.

Il fiume non porta rancore, non si attacca ai ricordi.

Il fiume è speranza. È risurrezione.

Se solo la donna budino potesse essere qui...

«E tu perché sei qui, gufo?»

«Perché io non sono come gli altri animali, scettici sul fatto che questo bosco possa offrire loro cibo e riparo. Io ho dato una seconda possibilità alla foresta.»

Mi sembra chiaro ciò che il mio amichetto stia cercando di dirmi. Guardo la superficie cristallina del fiume e mi specchio in esso: i miei occhi sono sbiaditi dai fantasmi del mio passato, la mia anima è colma di cicatrici dovute agli eventi. E io, io continuo a vivere di questo dolore, crogiolandomi in esso.

Lasciarsi indietro il passato è scorrere, come il fiume.

Lasciarsi indietro il passato è provare, come il bosco.

Lasciarsi indietro il passato è credere, come il gufo.

Lasciarsi indietro il passato è vivere.

«Io sono vivo.» Mi accorgo che il gufo è sparito, volato chissà dove. So che il mio tempo, qui è terminato. Mi alzo.

E, mentre torno indietro sui miei passi, do il mio saluto al passato.

*

 

Angolo Autrice

Carissimi lettori,

è con immenso piacere (e timore) che vi presento la seconda parte di questo viaggio (in tutti i sensi :P).

Spero vi sia piaciuto e lo abbiate capito, nonostante sia un po’ particolare. Che ne pensate del gufetto? :D

Non ho molto da dirvi, se non chiedervi di lasciare il vostro parere, perché per l’autrice è importante sapere cosa ne pensano i lettori della storia.

Un grande abbraccio,
Eryca

 

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Capitolo 4
*** Parte III - Lo zoo ***


Parte III – Lo zoo

Libertà è sentirsi senza barriere nonostante si sia in gabbia

 

Sono di nuovo sulla grande strada asfaltata, quella principale, e l’incanto del bosco è un ricordo magico dentro di me; ma, proprio come ho imparato dal fiume, decido di non crogiolarmi nel passato. Guardo al presente. Che è questo cemento.

Porto avanti la mia marcia senza meta, dicendomi che ormai di tornare a casa non se ne parla: lo sento, oggi c’è qualcosa di solenne nell’aria, come se il vento mi stesse sussurrando all’orecchio di continuare a camminare e di non preoccuparmi, perché lui si prenderà cura di me e mi porterà dove avrò bisogno di essere. Si può contraddire il soffio fresco della brezza? No, non credo.

Ci sono giorni in cui il divano diviene il mio migliore amico e la tenda serrata la mia fidanzata. Sono giorni bui, giorni in cui il mondo mi è estraneo e il mio stesso corpo mi sembra astratto. Ma oggi, oggi è diverso. Lo sento.

Tiro un calcio ad un sassolino che rotola veloce, fermandosi poi ad un ostacolo avente l’aria di essere un grosso cancello di ferro battuto. Alzo gli occhi e, in effetti, è proprio un portone quello che ho davanti. In alto, tra gli spuntoni in metallo, sorge una scritta che ha un ché di apocalittico: Zoo.

Il vento ride soddisfatto e mi scompiglia i capelli, inducendomi a pensare che è un gran furbacchione. Perché proprio lo zoo? Dovrei aver capito che porsi domande non serve a nulla. Scrollo le spalle: cos’ho da perdere, dopotutto? Entro nel parco.

Mi ero immaginato bambini con in mano coloratissimi palloncini, mamme con tanto di passeggini e animo stanco, padri scocciati con orologi da polsi raffinati. E, invece, rimango deluso nel notare che il luogo è completamente deserto. Niente fanciulli, niente uomini di mezza età e niente casalinghe frustrate. C’è solo il vento, accanto a me.

Di fronte a me noto un chiosco con il tetto colorato a strisce gialle e rosse, probabilmente dove i clienti possono acquistare bevande e gelati, durante le stagioni calde. Seguo la stradina in ciottolato, lasciando che il mio amico soffio mi porti dove vuole e snobbando esplicitamente le offesissime segnalazioni. Scusate, seguo il vento.

Mi mette in soggezione, il rumore del silenzio: fa sì che nulla oltre a lui parli e si autoproclama attore protagonista della pièce, cantando a squarciagola. Ha una voce cristallina, il silenzio. Così trasparente che a volte si confonde con il Nulla: è per questo motivo che riusciamo a sentire la sua pura melodia solamente se drizziamo le orecchie. Ma ne vale la pena. È la musica più soave che ci sia. Credo mi stia ringraziando, il silenzio.

Il vento mi fa volare il cappello, credo si sia offeso perché ho dato più attenzioni alla quiete che a lui: è geloso. Rido e mi lascio trasportare dalla mia guida incorporea, che scuote le foglie inducendole a scendere dalle brande per iniziare una danza incantevole: decine di foglioline eseguono perfetti grand plié intorno a me, utilizzandomi come elemento scenografico.

D’un tratto, il vento si placa. Mi arresto, perché è questo il posto in cui vuole che mi concentri. Davanti a me sta un’enorme gabbia in metallo, le sbarre così resistenti e spesse che sarebbe impossibile per qualunque essere vivente sfondarle.

Dal fondo della gabbia spunta un grosso codone arancione a strisce, l’ombra si prende gioco di me, però, e mi impedisce di vedere il resto della creatura. Quella coda, comunque, non mente e non ho bisogno di vederla alla luce del sole per capire che si tratta di una tigre. Una maestosa tigre, aggiungo quando finalmente si fa vedere.

Non ho mai visto un animale tanto possente: grosse zampe in grado di graffiare nel profondo la carne, denti capaci di strapparti il cuore, muscoli che le permettono di correre con agilità, orecchie che captano il minimo rumore e... due occhi di una tristezza immane, che non trasmettono la minima voglia di predare, ma solo di fuggire e correre, correre di nuovo, correre ancora, correre almeno per un’ultima volta.

Si siede, la tigre dagli occhi sconsolati, proprio di fronte a me. Solo la gabbia ci divide. Mi guarda e noto che le sue iridi sono di uno splendido verde acceso, uno di quelli che non potrai sicuramente vedere su un uomo. Sono occhi puri. Occhi senza tranelli, senza secondi fini. Occhi animali.

L’uomo si ostina ad usare l’aggettivo “umano” per descrivere un qualcosa di estremamente sensibile, con la capacità di provare emozioni, mentre invece “animale” lo utilizza quando vuole dare l’idea di selvaggio, di rude e apatico. Ma si sbaglia.

Io credo che sia il contrario.

E questa gabbia – questa tigre dagli occhi tristi – ne è la prova schiacciante.

Io, io sono un animale, allora. Non voglio essere umano, no. Io mi sento animale, io sono animale, perché provo emozioni, perché condivido la rassegnazione della tigre, perché non sarei in grado di ridurre un essere così maestoso ad un animale senza speranze.

Perché io, io non sono capace di imprigionare la libertà.

La tigre mi guarda. «Credo di aver conservato un barlume di libertà, nel mio cuore» mi dice. I suoi occhi verdi sono umidi, luccicano come le stelle notturne. «Libertà è sentirsi senza barriere nonostante si sia in gabbia», finisce.  E con quelle parole malinconiche, la tigre dagli occhi tristi lancia un ultimo ruggito di dolore, mi dà la schiena e sparisce nell’ombra, tornando a leccarsi le ferite dell’anima.

Libertà è sentirsi senza barriere nonostante si sia in gabbia.

Il vento torna a scompigliarmi i capelli. Mi sta dicendo che il mio tempo qui è terminato, il mio viaggio deve continuare, non posso fermarmi qui per sempre. Ma, in fondo, una parte del mio cuore – quello libero – se l’è preso la tigre dagli occhi tristi e lo conserverà con cura e dedizione. Perché lei è animale.

Ciao amica mia.

E, con l’animo che ha acquistato un sentimento nuovo, torno sui miei passi pensando alla docile tigre dagli occhi malinconici.

*

 

 

Angolo Autrice

Queste note vogliono essere esplicative del capitolo, ovviamente, ma soprattutto rispondere ad alcune domande che credo siano utili per capire meglio il testo; mi farebbe piacere, insomma, farvi entrare un poco nella mia mente:

1-      1. A cosa pensavo mentre scrivevo questo capitolo? Al mio paese. Il mio piccolo paesino di montagna che potrebbe essere rappresentato con lo zoo e la gabbia che tengono prigioniera la tigre.

2-      2. Che cosa dovrebbe rappresentare la tigre? Me. Ma non solo, anche tutte le persone che, proprio come la sottoscritta, si sentono chiuse in una gabbia, schiavizzate da un paese troppo chiuso e persone troppo ottuse o da una società che non le dà sbocchi.

3-      3. Perché la scelta di uno zoo per parlare di libertà? Perché il modo migliore per far capire quanto essere liberi sia importanti è parlare di prigionia. L’uomo brama la sua libertà quando ne è privato.

4-      4. Perché la tigre è rappresentata con sentimenti? Credo sia abbastanza chiaro, anzi, quasi palese, ma forse è meglio soffermarsi: la tigre rappresenta la persona oppressa, quindi quella che è schiacciata dalle sue stesse emozioni, ed ecco perché gli uomini vengono descritti senza sentimenti.

Spero di essere stata abbastanza chiara, di avervi fatto ragionare su queste questioni, perché per me sono più che importanti: credo che ognuno di noi abbia il diritto di essere una persona libera, di potersi esprimere nel migliore dei modi senza essere giudicato pazzo o essere imprigionato da inutili pregiudizi.

 

Grazie per aver letto e un grosso abbraccio,

Eryca.

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Capitolo 5
*** Parte IV - La piazza ***


Parte IV – La piazza

È un virus, la solitudine.

 

Non c’è bisogno di dire che sono nuovamente sulla ormai nota strada asfaltata, dove convoglia ogni viaggiatore perduto e spaesato. Il mio animo è ancora in subbuglio a causa dell’incontro con la tigre dagli occhi tristi. Dove mi porterà il vento, ora?

Ci sono quelle mattine in cui ci si alza, ci si lavano i denti con la solita cura e precisione, si scelgono i pantaloni più comodi per poter affrontare la lunga e stressante giornata, ci si prepara l’usuale colazione con biscotti e latte macchiato, e poi, invece, la sorte ci gioca uno scherzo demenziale e ci porta a camminare senza meta per la città, guidati da un soffio fresco e puro. Pensavo che sarebbe stata una noiosa giornata come tutte le altre, sì. Le giornate migliori, in fondo, sono quelle inaspettate, quelle che, da apatiche, si trasformano in emozionanti e commoventi. Questi sono i giorni migliori. La svolta c’è stata quando ho messo il piede fuori dal palazzone in cui abito e mi sono reso conto che, al posto della solita passeggiata, avrei aspettato il tram. Poi c’è stata la donna budino, il vagabondo, il fiume e il gufo, il vento che mi ha guidato, la tigre dagli occhi tristi e ora di nuovo questa strada asfaltata. Che cosa magnifica, il caso!

Sussurra nel mio orecchio, il vento. «Andiamo, andiamo.» Sento l’eco della parola appena pronunciata espandersi nell’aria, come se in realtà quel soffio gelido non smettesse mai di bisbigliare, ma continuasse nelle sue particelle infinitesimali.

Mi faccio condurre per la grande via dal mio accompagnatore, che si porta dietro una piccola nube di polvere, quasi a non voler rimanere solo. Avrà una moglie, il vento? Mi dico che forse non è il caso di domandarglielo, sono domande personali, dopotutto.

Io e il mio amico camminiamo fianco a fianco, lui consapevole, io ignaro. Lui inconsistente, io materia. Lui reale, io anche. Zigzaghiamo come due corridori tra i corsi della città, percorrendo viottoli dimenticati dalla società che, in fondo, dimentica un po’ troppo.

Abbandoniamo le vie desolate e ci inoltriamo nel centro città, dove il traffico inizia a prendere possesso della scena, urlando con i suoi clacson, scalpitando con i suoi mezzi di trasporto, impazzendo con i suoi pedoni distratti. Mi chiedo perché la mia guida mi abbia portato nel fulcro della vita mondana, dove teatro e confusione sono protagonisti. Non ho mai amato la folla, il delirio; ho sempre prediletto la calma e la pace. Sono un uomo solitario. Lo sono sempre stato.

Adesso sono proprio nel bel mezzo della ressa, tra Barbie e i suoi sacchetti di Gucci, l’uomo d’affari e il suo auricolare all’orecchio, i bambini accompagnati dalle maestre con gli occhi di falco. Perché, vento? Perché?

Lo sento ridere, il bastardo. «Ancora un piccolo sforzo, suvvia» farfuglia. Continua a spingermi, adesso con più insistenza, mentre mi faccio spazio tra la moltitudine di corpi sudati, profumati, puzzolenti, freschi. Odori, sensazioni. Tutto insieme.

Mi rendo conto che l’emblema della falsità è proprio il centro città e le sue vetrine ne sono la dimostrazione, con i manichini agghindati alla perfezione, i trucchi a nascondere il vero viso delle persone, i vestiti firmati a confondere, i tacchi alti per sembrare meno bassi. Questo è il teatro, è il travestimento e il vento lo sa, me lo sta urlando.

Finalmente arrivo a destinazione: la grande piazza centrale, decorata da una magnifica fontana rinascimentale, un palazzo degno di Versailles e un marasma di persone.

Sono al centro della calca. La giacca di un’anziana signora mi ha appena sfiorato il braccio. Ora, quello zingaro si sta avvicinando per fare l’elemosina, ma io non ho soldi, così alzo la mano in segno di scuse e mi sposto sulla sinistra, perché non voglio rogne. Un gruppetto di adolescenti ride esageratamente, mentre la maggior parte di loro fumano avidamente dalle sigarette che, molto probabilmente, neanche apprezzano troppo, ma comprano per poter sentirsi più grandi, più partecipi della finzione del centro città. Vicino a me, una coppia di innamorati si bacia teneramente sulla bocca, baci lievi e casti, non vogliono dare fastidio alla gente: li invidio, si amano.

E io?

Io, in tutto questo, mi rendo conto di essere circondato da persone, di poter sentire voci, discorsi, profumi, sensazioni, gesti. Sono al centro della vita. Sono in compagnia.

Sono solo. Solo come non mai.

«Perché, vento?» urlo disperato, questa volta ad alta voce, così che il diretto interessato possa sentirmi e rispondermi, darmi una spiegazione. Me la merito.

«Questa è solitudine. Non vedi?» soffia «Queste persone credono di potersi sentire meno sole fingendo. Ma è solitudine, questa. È la solitudine peggiore. La vedi?»

Scuoto la testa. «Non la vedo, vento. Io la sento.» Ed è vero. Non è un osservazione, ma è una sensazione che entra nella pelle, nell’anima e nel cuore, penetra i miei organi interni e prolifica nell’intestino, come un verme, e sta lì, vive a mio discapito. È un virus, la solitudine. Un epidemia, in questo caso. E io non posso fermarla.

Come si può credere di combatterla con la finzione? Recitare una parte di teatro, uscendo con gli amici e ridendo, non aiuterà a sentirsi meno solo, anzi, amplificherà in maniera acuta questa condizione. Diventerai la solitudine.

Mi sento come la tigre dagli occhi tristi: sola al mondo, chiusa in una gabbia. Come posso fare per fuggire da questa società? Tutta questa gente sola mi mette un senso di disperazione addosso, come un vestito, la sento su di me.

«Vento, vento, amico mio...» chiamo angosciato «...basta, ti prego...portami via.» Il vento non ride, questa volta, ma sento che piange in silenzio, senza che nessuno oltre a me lo possa sentire.

È triste di questa solitudine, il vento. Lui è abituato a viaggiare solo, nonostante sia in compagnia, perché le persone lo percepiscono ma non lo considerano: deve soffiare forte e fare disastri, perché la gente si accorga della sua presenza. Il vento è solo e ha voluto farmi provare tutta la sua depressione.

«Capisci ora?» Un goccia mi sfiora la guancia e mi rendo conto che il cielo sta piangendo per il suo caro amico, condannato ad un’eternità di invisibilità.

«Ho sempre capito.»

Mi prende la mano, il soffio, e mi porta via, cercando di allontanarmi da tutta quell’ emarginazione. Senza successo, però.

Perché la solitudine è in me.

 

*

Note

Non ho intenzione di aggiungere parole superflue: credo che il testo parli da sé.

Questo era l’ultimo capitolo, il prossimo e conclusivo sarà solamente il prologo, per chiudere in bellezza – si spera – questa piccola follia.

Grazie a chi mi segue,

un abbraccio,

Eryca.

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Capitolo 6
*** Epilogo - Non è una storia, ma doveva essere narrata ***


Epilogo –

Non è una storia, ma doveva essere narrata

 

È stato un cammino, questo giorno. Dentro di me, dentro l’uomo, dentro la natura, dentro gli animali, dentro il mondo.

Non so bene che cosa sia stato, perché sia successo o come sia successo. Mi sembra tutto un ricordo lontano, sfocato, come quando ci si sveglia e si ricorda a malapena il sogno appena fatto. È una sensazione di malinconia.

Ho conosciuto la donna budino, il tram e la sua attesa.

Ho conosciuto il gufo, il fiume e il suo lasciarsi indietro il passato.

Ho conosciuto la tigre, lo zoo e il suo senso di libertà distorto.

Ho conosciuto il vento, la piazza e la sua solitudine.

Ho conosciuto, ascoltato, imparato.

Ce ne sono a milioni, di storie.

Ma questa non può essere classificata in nessuna di esse.

Forse, questa, non è nemmeno classificabile come storia.

Eppure doveva essere narrata.

 

*

 

Note

Eccoci arrivati alla fine finissima di questa storia. Spero di avervi fatto riflettere su alcuni argomenti e spero di non essere stata troppo folle! xD

Non ho molto da dirvi, se non ringraziare ognuno di voi per aver letto e recensito questa piccola pazzia; per me è stato un onore avere dei lettori – anche se pochi – perché non ne aspettavo assolutamente: è stata una vera sorpresa, quindi sono molto contenta.

Grazie ancora a tutti, in particolare ad aniasolary che ha corretto l’intera storia e mi ha spronata a renderla pubblica. <3

 

Un abbraccio,

la vostra Eryca.

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