Fly.

di Sar_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Always in the shadows. ***
Capitolo 2: *** Bad feelings. ***
Capitolo 3: *** Coming. ***
Capitolo 4: *** Dinner. ***
Capitolo 5: *** Evening. ***
Capitolo 6: *** Fight. ***
Capitolo 7: *** Gosh. ***
Capitolo 8: *** Halloween. ***
Capitolo 9: *** I'm here. ***
Capitolo 10: *** Just keep calm. ***
Capitolo 11: *** Kumquat. ***
Capitolo 12: *** Love. ***
Capitolo 13: *** Malaikat. ***
Capitolo 14: *** Neir. ***
Capitolo 15: *** Oliver. ***
Capitolo 16: *** Pressure. ***
Capitolo 17: *** Questions. ***
Capitolo 18: *** Red blood. ***
Capitolo 19: *** Soul. ***
Capitolo 20: *** Trust. ***
Capitolo 21: *** Unbroken. ***
Capitolo 22: *** Venenum. ***
Capitolo 23: *** Wonderland. ***
Capitolo 24: *** X: done. ***
Capitolo 25: *** You. ***
Capitolo 26: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Always in the shadows. ***


 

 

 

Chapter one: Always in the shadows.

 

 

Canzone consigliata per la lettura:

Brave New Girl

(Britney Spears)

 

 

 

Un vociare confuso risuonava nei corridoi della Beacon Hills High School.

Per tutti gli studenti della città, quello era il primo giorno di scuola.

Il cielo azzurro e limpido lasciava che gli ultimi raggi di sole dalla parvenza estiva riscaldassero la città e passassero attraverso le finestre dei corridoi e delle aule.

Una ragazza come le altre, senza niente che attirasse l'attenzione, si aggirava tra quei corridoi. Invisibile, normale.

Ero io.

Non sono mai stata una ragazza particolarmente carina, interessante, sicura di sé.

Cioè, non sono mai stata carina, interessante e sicura di me.

I miei capelli castani, lunghi fino a poco sotto le spalle e poco mossi non mi hanno mai differenziata dalle altre ragazze, né i miei insulsi occhi marroni. Mia madre lo chiama “color cioccolato fondente fuso”. Io lo chiamo “color cacca di Spina”*.

Sono sempre stata goffa e insicura, e la mia faccia rimane perennemente spalmata a terra, vista la mia scarsa capacità di camminare senza inciampare ogni tre passi.

La mia capacità di fare amicizia, poi, è paragonabile alla probabilità che uno dei teletubbies diventi uno spacciatore o un killer seriale:

Praticamente nulla.

Meglio non parlare della mia media scolastica, poi.

Praticamente sottozero, peggio delle temperature polari.

Mi avviai verso una fila di armadietti, con un post-it giallo stropicciato in mano. Sopra c'erano dei numeri.

Emma Lightwood

Armadietto n° 764

896-24-75

 

 

Il numero dell'armadietto e la sua combinazione.

Trovato il mio armadietto, mi ficcai il fogliettino in tasca con un sorrisetto soddisfatto e cominciai ad armeggiare con la rotellina della combinazione.

Dopo alcuni tentativi, riuscii ad aprirlo. Con un sospiro di sollievo cominciai a togliere dalla borsa i libri per riporli all'interno. Non avevo intenzione di buttare il fogliettino come alcuni studenti stavano già facendo, imparata la combinazione. Non ho mai avuto una buona memoria.

Finito di riporre i libri, appiccicai allo sportello dell'armadietto una piccola fotografia del mio cane *Spina (uno yorkshire terrier), un piccolo poster dei One Direction e una bacheca di sughero che arrivava fino al fondo dello sportellino, fatta su misura. Ci avrei attaccato dei foglietti con scritte le cose da ricordarmi, che altrimenti puntualmente avrei dimenticato. Come ho già detto, non ho mai avuto una buona memoria. Mentre appiccicavo la bacheca, sentii qualcuno arrivare accanto a me e cominciare frettolosamente ad armeggiare con l'armadietto. Incuriosita, sbirciai con la coda dell'occhio mentre la colla faceva presa, e rimasi paralizzata.

 

GIUDA BALLERINO, è lui!

 

Sentivo il cuore impazzire, tanto che temevo che lui potesse sentirlo.

Deglutii, ma non potevo darmela a gambe, visto che altrimenti la bacheca sarebbe caduta, rompendosi, e avrei dovuto farla da capo.

 

Parlami! Parlami! Oh no, non parlarmi! Non ora! Girati e vattene!

 

Presa dalla disperazione, tirai un pugno alla bacheca, come se in questo modo avesse potuto restare incollata meglio. L'anta però rimbalzò all'indietro, andando a sbattere contro l'armadietto alla mia destra con un gran fragore, e per poco non mi ritornò indietro spappolandomi la faccia. Per fortuna, lo fermai in tempo.

Volevo morire.

Lo vedevo fermo accanto a me, stupito, e sapevo di aver fatto una figura di merda. Non che lui non le facesse, ma è irrilevante.

Senza guardarlo negli occhi presi il libro di chimica, chiusi l'armadietto con uno schiocco e sgattaiolai verso l'aula.

 

Stupida bacheca.

Anzi, stupida memoria.

Anzi, stupida me.

Anzi, STUPIDO LUI!





L'autrice!

 

Eccomi, in tutto il mio splendore.

Beh, mi chiamo Sara.

*si gira verso la regia* che altro dico?

Vabè, se avete letto, visto che siete arrivati fino a qua, che ne dite di recensire? Eh? *occhioni dolci*

Vi voglio tanto, tanto bene <3

Il prossimo capitolo lo pubblico appena ricevuta la prima recensione.

Sarà MOLTO più lungo di questo, quindi preparate i pop corn.

Grazie per la vostra attenzione!

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Capitolo 2
*** Bad feelings. ***


 

 

Chapter two:  Bad feelings.

 

 

Appena entrai nell'aula di chimica, varie emozioni si sovrapposero.

 

Leggero sollievo.

 

Ero riuscita ad andarmene senza inciampare, mantenendo un minimo di dignità.

Almeno non ero fuggita a gambe levate, strillando come un'ossessa “È IL MIO VICINO D'ARMADIETTO!” come ero tentata di fare.

 

Angoscia.

 

Dopotutto, ero appena entrata nell'aula di chimica.

Quel giaguaro con le mestruazioni alias il professore stava appollaiato sulla cattedra, scrutandoci come se stesse decidendo una morte dolorosa per ognuno di noi. Mi avviai sul fondo, nel banco doppio più vicino alle finestre e lontano dalla cattedra. Ero una dei primi. Un minuto dopo, contemporaneamente al suono della campanella, arrivò la massa degli altri alunni, che spensero le risate appena intercettato il professore, con piccoli colpi di tosse o abbassando la testa.

 

Timore.

 

Nessuno sembrava deciso a sedersi accanto a me.

Non era una novità.

Qualcuno ogni tanto provava ad attaccar bottone, ma si scocciavano quasi subito delle mie risposte ironiche e secche.

L'ho già detto che non faccio subito amicizia, no?

Ma se quell'anno, il secondo, quando tutti hanno già fatto amicizia e formato i “branchi”, non fossi riuscita a farmi degli amici?

Non potevo stare per sempre con il cane o i figli dei vicini, (età media 4 anni).

 

Vergogna.

 

Cos'avrei fatto quando mi sarei ritrovata di nuovo accanto a lui, agli armadietti?

Ci avrei parlato?

Mi avrebbe parlato?

Avrei fatto altre figure?

Oh, ovvio che avrei combinato qualcosa di stupido e autodistruttivo.

Era dalla terza elementare che ero cotta di lui.

Il suo sorriso, i suoi occhi, la sua semplicità, mi ero innamorata di questo.

Ed ero rimasta sempre nell'ombra, cercandolo con lo sguardo nei corridoi, sbirciandolo durante chimica, storia e geografia (le lezioni che frequentavamo insieme), stalkerando la sua pagina facebook.

Ma lui non mi aveva mai notata.

E non mi era mai andato completamente giù.

 

Terrore.

 

Ma un momento.

Ero a chimica.

Questo voleva dire che lui era nell'aula.

La scrutai da cima a fondo, ma niente, lui non c'era.

In ritardo, per cambiare.

Il terrore aumentò quando mi resi conto che rimanevano solo tre persone senza compagno: lo strano ragazzo dark che passava gli intervalli nei bagni con la sua ragazza piena di piercing, un ragazzo in prima fila dritto davanti alla cattedra e io. La mia ultima speranza era McCall.

Dove c'era McCall, c'era anche lui.

Il terrore arrivò al culmine quando mi accorsi che era esattamente davanti a me.

Mi sfuggì un gemito di orrore.

 

No, non è possibile.

Non il PRIMO GIORNO!

 

Entrò di corsa, all'improvviso, guardandosi intorno come un cucciolo smarrito.

Cercava qualcuno.

Non cercava me.

Cercava Lydia.

 

Rabbia.

 

Feroce e distruttiva, cominciò a ribollirmi dentro, tanto che fui sul punto di alzarmi e tagliarle la testa tranciandola con il righello della lavagna, ma strinsi i pugni e mi conficcai le unghie nella pelle.

 

Dimenticavo: ho seri problemi a controllare i miei sentimenti.

Sono impulsiva e tendente alla fuga.

Come le lepri e i cerbiatti, solo meno carina e coccolosa.

 

«Stilinski, vedo che ha deciso di unirsi a noi!» esclamò il giagu... cioè, il prof.

 

«Ovviamente, non mi perderei mai una delle sue fantastiche lezioni, signore!» rispose Stiles, trotterellando fino al suo amico.

Si scambiarono un pugnetto amichevole, poi si sedette con noncuranza accanto a me.

 

Il mio respiro si fermò.

 

M'imposi di non fissarlo e cominciai a scarabocchiare sul blocco.

Magari, se avessi provato a parlargli...

No, dovevo aspettare.

Sono i ragazzi che fanno la prima mossa, no?

Sì, certo, nei libri harmony e nei film, ma non nella realtà.

Nella realtà, le ragazze timide e single rimangono timide e single.

Mi riscossi dai miei pensieri e mi accorsi che avevo disegnato una decina di “S”, in vari formati e con dei cuoricini attorno.

Sussultai, sbuffai e cominciai a cancellarle con il bianchetto.

 

Quanti anni hai, Emma, otto?

 

«Signorina Lightwood, spero che il suo nuovo compagno di laboratorio non stia già avendo un'influenza negativa su di lei. Anche se, in realtà, penso che la sua media non potrebbe peggiorare ulteriormente.»

 

Mollai il bianchetto e alzai lo sguardo.

Il professore era a un metro da me e Stiles, e incombeva sulla mia bassa statura come un falco accusatore.

Mi sforzai di sostenere il suo sguardo, come avrebbe fatto una ragazza coraggiosa, ma poi lo abbassai sul quaderno, voltando pagina e scrivendo in grande I cristalli”.

Il falco-giaguaro se ne tornò alla lavagna, scribacchiandoci lettere e numeri che mi risultavano incomprensibili. Strappai la pagina scarabocchiata e continuai a sbianchettarla, tentando di ignorare i borbottii e gli sguardi del resto della classe.

Stiles sembrò accorgersi di me solo in quel momento.

 

«Hey, tu sei quella dell'armadietto, giusto?» mi chiese a bassa voce, con un sorriso stampato in faccia.

Annuii, senza alzare lo sguardo.

Probabilmente, se l'avessi fatto mi sarei persa per sempre nei suoi lineamenti, o avrei respirato un po' del suo profumo, e sarei svenuta di botto.

Lo vidi sporgersi verso il mio banco, per osservare il foglio scarabocchiato.

 

«E chi sarebbe questo “esse”?» chiese incuriosito, appoggiando il mento su un pugno come un bambino.

 

Tu, idiota! Fui tentata di rispondergli, ma feci spallucce e risposi diversamente.

 

«Il mio...» la voce uscì roca. Tossicchiai, e quando stavo per completare la frase lo fece lui al posto mio.

 

«Ragazzo?» lo fissai. Niente, non c'era traccia di gelosia.

 

Che palle.

 

Alzò lo sguardo, visto che non rispondevo, e mi ritrassi appena mi resi conto di quanto eravamo vicini.

Più di quanto non lo fossimo mai stati.

 

«Hem... cane.» lui sembrò sorpreso, poi scoppiò a ridere.

Probabilmente pensava che stessi scherzando, che una ragazza non possa essere così sola.

Si sbagliava solo in parte.

Feci per parlare di nuovo, ma fui bloccata sul nascere.

 

«LIGHTWOOD!» sobbalzai, sorpresa e spaventata, al suono della voce tonante del professore.

 

«Mi sembrava di averla avvertita. Che ne direbbe di fare un salto in aula punizioni, dopo le lezioni?» oh, merda.

 

«Mi scusi, è colpa mia prof!» disse Stiles.

 

Mi stava difendendo!

 

E chi se ne frega della punizione, il mondo forse cominciava a girare nel verso giusto!

 

«Allora non le dispiacerà raggiungere la sua compagna, oggi pomeriggio...»

 

Meglio che niente! pensai, mentre Stiles si accasciava sulla sedia e si girava verso di me dicendo “Scusa” con labiale.

 

Scott, davanti a noi, ridacchiava.

 

Solo in quel momento mi ricordai che, in tutti quegli anni, non mi ero mai presentata a Stiles, mentre io sapevo praticamente tutto di lui.

 

La campanella suonò, e prima che potessi farlo i due si alzarono.

 

Stiles mi salutò con un cenno della mano tesa sulla fronte, come un capitano.

 

Io risposi allo stesso modo, probabilmente con un sorriso ebete sul viso che scacciai subito dopo che i due scomparvero oltre la porta.

 

Non avevo per niente fretta di andare a inglese. Lui non era nella mia stessa classe.

 

Raccolsi le mie cose lentamente e le ficcai in borsa. Ero rimasta l'ultima nell'aula.

 

L'ultima a parte il condor.

O era falco?

 

«Ah, Lightwood!»

 

Mi bloccai sulla porta.

 

«Se i suoi voti miglioreranno un po', potrei decidere di... creare un programma di tutoring. Il suo compagno di laboratorio si è reso disponibile per dei crediti giusto stamattina.»

 

Era... complicità, quella che era comparsa sul suo viso?

Stava cercando di scambiare il mio impegno nello studio con una maggior concentrazione di Stiles su di me?

Era davvero così disperata la mia situazione?

 

Non risposi. La mia espressione bastava.

 

Mi avviai a passo incerto verso l'aula di algebra, con l'aria di una che ha appena ricevuto una padellata in testa.

Mentre camminavo per i corridoi, mi fermai di colpo.

 

Compagno di laboratorio?

 

I compagni di laboratorio, solitamente rimanevano gli stessi per almeno il primo trimestre.

 

Avrei passato ogni singola ora di biologia vicina a lui.

 

E forse anche le ore di tutoring.

 

L'adrenalina cominciò a scorrermi nelle vene come un fiume in piena, mentre partivo in corsa verso una noiosissima lezione di algebra.

 

Il mio entusiasmo non svanì neanche quando caddi a faccia a terra, inciampando in un portaombrelli.

 

Mierda.




I'M BAAACK!

 

Okay, avete presente che avevo detto che avrei pubblicato giovedì?

Non ce l'ho fatta a resistere, HAHAHA

Siete state talmente dolci che ho dovuto pubblicare due giorni in anticipo.

Questo capitolo è molto più lungo del primo, e i prossimi saranno tutti di circa quattro pagine writer. Per capirci, il primo era di due e questo è di 6. Saranno una via di mezzo, ecco.

Il prossimo capitolo lo pubblicherò... mh, martedì?

E martedì sia.

Okay, da ora pubblicherò tutti i martedì, regolarmente.

Vi voglio bene, asghjkl <3

Sara.

 

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Capitolo 3
*** Coming. ***


Chapter three: Coming.


 


 


 


 

Il resto della giornata passò lentamente.
Molto lentamente.

Venni richiamata più volta dai professori, esasperati dalla mia scarsa attenzione.
Ma non m'importava.
Non m'importava più di niente.

Quando la campanella della fine delle lezioni smise di suonare, io ero già fuori dalla porta.

La tracolla rossa con le penne colorate, il quaderno degli appunti, il cellulare, la mini trousse e il blocco per gli schizzi mi rimbalzava sul fianco mentre sgusciavo tra gli studenti.

No, fermi tutti:

se vi state immaginando una ragazza che corre tra i corridoi evitando agilmente gli studenti cancellate l'immagine.

Sbattevo un po' ovunque, e finii quasi per terra un paio di volte.

Arrivai comunque a destinazione, con le braccia doloranti per aver scansato gli studenti.
Probabilmente in due minuti mi ero fatta un bel po' di nemici.

Il primo giorno.

Prima di entrare mi fermai. Mi affrettai verso il bagno delle ragazze, per bloccarmi davanti allo specchio.

Che schifo.

I capelli erano scompigliati, il lip gloss sparito, il correttore per le occhiaie dissolto nell'aria.

Rovistai in fretta nella borsa, tirai fuori i rossetti e il correttore e cominciai ad aggiustarmi. Un qualche specie di gocciolio rendeva quel bagno ancora più sgradevole. Non che fosse sporco o puzzasse, no, ma aveva un'aria... triste, e l'odore di candeggina era quasi insopportabile.


 

Mentre davo l'ultima passata rosata sulle labbra, mi accorsi che il rumore non era un gocciolio. Erano dei singhiozzi. Rimisi tutto in borsa, facendo rumore di proposito, e mi voltai verso i bagni.

Pensavo non ci fosse nessuno.


«Chi c'è?»
chiese una voce.


La riconobbi subito.
Lydia.
Non sapevo che fare.
Consolarla?
Darmela a gambe?
Scelsi la seconda.

Non avevo niente in particolare contro di lei, ma l'attenzione che le riservava Stiles, il modo in cui la guardava... faceva male. Molto. Era pura invidia, quella che provavo.

Mi voltai verso lo specchio un'ultima volta, mi aggiustai i capelli e uscii di corsa.


 

«Questo è il bagno delle ragazze.»


 

Non mi chiesi il perché di quella strana frase, volevo solo andarmene in aula punizioni.
La mia mente vorticava.
La sicura, bellissima, desiderata, intelligente, implacabile Lydia era rifugiata nei bagni a piangere.
Parti invertite, per una volta.


 

Quando varcai la porta, due ragazzi erano già dentro.

Uno era Stiles.

Il mio cuore fece una capriola.

«Si accomodi, Lightwood!»

Ebbi giusto il tempo di fare un sorriso a Stiles, che dovetti sedermi dietro di lui.
Ovviamente non potevo stargli accanto, era l'aula punizioni!

Passai l'ora tra lo spulciare il libro di chimica, scarabocchiare sul blocco e fissare la nuca del ragazzo.

Dopo mezz'ora, Stiles aveva già la testa appoggiata al banco.
Mi chiesi quante ore aveva passato in quell'aula.

Decisi che gli avrei fatto sapere il mio nome. Quella giornata non sarebbe finita, se non l'avessi fatto.

Scarabocchiai “Emma Lightwood, comunque. Piacere :)” sull'angolo della pagina, la strappai, ne feci una pallina malformata e gliela lanciai sul banco.

O almeno tentai.

Lo colpii sulla nuca, cosa che lo fece saltare in aria dallo stupore. Forse stava proprio dormendo, non era solo appoggiato sul banco.

Fui sul punto di scoppiare a ridere di me stessa, ma il professore avrebbe alzato gli occhi, preso il bigliettino e Stiles non avrebbe saputo il mio nome.

Lo vidi abbassarsi, avendo cura di non farsi sorprendere dal professore, raccogliere il foglietto accartocciato, aprirlo e girarsi verso di me.

Alzò il pollice, mi sorrise, e con le labbra compose la parola “Stiles”.


 

Come se non lo sapessi, cretino.


 

Oh, che labbra, però. Chissà com'erano al tatto...
Mentre ero persa nei miei pensieri, la porta si spalancò.

Tutti ci voltammo.

McCall?

«Professore! C'è un'emergenza nell'aula di chimica! È caduta un'ampolla, e ha fatto esplodere un lavandino e...» oh, ma chi credi d'incantare?

Il professore si alzò e corse verso la porta dell'aula, scansando Scott.

Prima di precipitarsi fuori, puntò il dito su di noi.


 

«NON MUOVETEVI! Se non vi trovo quando torno, resterete in punizione fino al diploma!» e corse verso il suo amato laboratorio.


 

Scott balzò verso l'amico.
Parlavano a bassa voce, e nonostante fossi dietro di loro non capii niente.

Udito da vampiro, insomma.


 

Vidi che all'improvviso i due si alzarono e corsero via, lasciando me e il ragazzo soli nella stanza.
Era sempre rimasto con la faccia rivolta verso la finestra, tranne quando Scott era entrato, ma non l'avevo guardato in faccia.


 

Lo vidi solo adesso.


 

Aveva degli occhi verdi-azzurri fantastici, e una zazzera disordinata di capelli biondi. I lineamenti erano dolci, le labbra carnose.
Fui sul punto di spalancare la bocca.

Cosa diavolo ci faceva un ragazzo così in aula punizioni?
Sembrava quasi... un 
angelo.

Era di sicuro più grande, forse del quarto anno.

Mi sorrise e si alzò. Si fermò in piedi in parte a me.

«Non scappi come quei due?»

All'inizio, capii qualcosa come “i tappi del bue”, poi caddi dalle nuvole.


 

«No, cioè, sì!»

Raccolsi le mie cose, e nell'enfasi del momento il blocco mi finì a terra. Lui lo raccolse e me lo porse.

Lo ringraziai e fuggii fuori.


 

MA CHE TI PRENDE? Mi chiese la vocina dentro la mia testa, mentre mi maledicevo. Stava ATTACCANDO BOTTONE!

C'era uno stragnocco davanti a me, che sembrava appena uscito da The Vampire Diaries, mi aveva parlato, e io ero scappata fuori.

Idiota.


 

Il mio telefono nella borsa vibrò.

Quando lo presi, vidi che c'era un messaggio di mia madre.


 

"Perché sei ancora fuori? Mi serve aiuto con la cena, oggi abbiamo ospiti. Compra gli asparagi mentre torni.


 

Asparagi? Bleah.


 

Esasperata, digitai velocemente un messaggio di risposta.


 

Sto arrivando.”


 

Il mio rapporto con mia madre equivaleva circa al rapporto tra Troiani e Greci.
Lotta, guerra, sangue... cose così.

E mentre oltrepassavo la soglia della scuola, pensai alla mattinata.

Pensai a quanto ero confusa e stranita, a tutte le cose belle e alle cose brutte che erano successe.

Pensai che, appena arrivata a casa, non avrei potuto mettermi pigiama e pantofole subito dopo la doccia, perché avevamo ospiti a casa.

E pensai a quanto faceva male cadere sul marciapiede e squarciarsi il labbro, mentre non guardavo dove mettevo i piedi per pensare, pensare e pensare.


 


 


 


 

Weeeee-ee!


 

Oggi mi sento zuccherosa.
Eccomi tornata con un nuovo capitolo.
Sì, lo so, sono ancora un po' noiosetti, ma abbiate pazienza: ancora due capitoli e verrà il bello.
Ah, se siete curiose sull'aspetto del ragazzo misterioso...

Guardate un po' qua: http://24.media.tumblr.com/e5f854136bf72721be709933d578bd3e/tumblr_mf7vlupWTp1s05rqqo1_500.gif

Sì, è proprio il Pettyfer. JKSDHFVJDSH
Il prossimo capitolo aspettatevelo martedì prossimo, ma potrei anche anticipare. Sì, probabilmente lo farò.
Abbiate pazienza, ragazze... tra poco vi darò delle opportunità per cominciare a shippare ;)
Un grazie a 
LauraCommy, scrittrice talentuosa E mia personale critica e correttrice, che mi legge pian piano i capitoli prima che li pubblichi. Passate da lei, è brava ;) (è anche la mia migliore amica, dovevo farle un po' di pubblicità, no?)

Ah, voglio anche proporvi una cosa: trovate una faccia per Emma!
Che ne dite? Vi do campo libero: spulciate negli archivi di we heart it, ribaltate tumblr, scandagliate nelle vostre cartelle. Emma è mediamente alta, ha capelli castani e occhi marroni. Mi raccomando, è una ragazza normale, non voglio strafighe o modelle.
È umana!
Un grandissimo abbraccio a chi mi segue, recensisce o entrambi, e sì, anche uno alle persone che leggono silenziosamente.

Sì, voglio bene anche a voi.
Tanto, tanto affetto,

Sara <3



 

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Capitolo 4
*** Dinner. ***


Chapter four: Dinner.

 

Non ho ancora idee per la canzone.

Scusate c':

 

Arrivata davanti alla porta di casa, con la borsa a tracolla sul fianco destro e la borsina della spesa con gli asparagi nella mano sinistra, sospirai.

L'ultima cosa che volevo fare in quel momento era entrare a casa, preparare la cena, magari litigare con mia madre e poi ricevere sconosciuti.

In casa mia.

Non mi è mai piaciuto ricevere ospiti.

 

Oh, come sei asociale, Emma! Disse una vocina nella mia testa, bussandomi sulla fronte.

 

La ignorai e abbassai la maniglia per entrare, ma mi accorsi che era chiusa a chiave.
Certe volte mia madre era proprio paranoica.

 

Rovistai nella borsa per cercare le chiavi. Poco dopo mi ricordai dove le avevo lasciate.
Sotto il banco.
In sala punizioni.
A scuola.

 

Con un ringhio di esasperazione, suonai al campanello tenendolo premuto per qualche secondo.
 

«MAAAAMMA?!» esclamai, impaziente.


Nessuna risposta.

Cominciai a preoccuparmi seriamente. E se le fosse successo qualcosa? Non la sopportavo, certo, ma... chi mi avrebbe sfamata, senza di lei? Mio padre non sapeva cucinare altro che i pancakes. E chi avrebbe portato il cane a fare i suoi bisognini?
Ripetei la scampanellata, picchiai forte sulla porta, ma niente, non rispondeva.
Intercettai la finestra della cucina aperta. Il davanzale mi arrivava alle ascelle, ma con un po' di spinta ci sarei riuscita.

Lanciai la borsa all'interno, poi appoggiai la borsina degli asparagi sul bancone accanto a quello davanti alla finestra, per non dover tornare a prenderne degli altri. Feci scrocchiare le nocche e mi appoggiai con i gomiti sul davanzale. Mi diedi una spinta con i piedi, mi avvinghiai con le mani alle ante e arrivai dentro fino alla vita.

 

«MAAAAAAAMMAAA?» urlai ancora, aggrappandomi al bancone della cucina. Feci leva per entrare, con i piedi che scalciavano inutilmente dietro di me.


Più che un ninja, sembravo una foca affamata.

Poi mia madre scese le scale, in accappatoio e con un asciugamano in testa a turbante, e si bloccò prima di finire gli scalini.
Sentii una risata, dietro di me, a qualche metro.
Ma ormai mi ero già data la spinta, e caddi in avanti, facendo una capriola e finendo a terra lunga e distesa.
Non bastava il labbro squarciato sul marciapiede, ovviamente.

 

«Emma? Ma che.. ti sembra... ma guarda il tuo labbro!» ma io non l'ascoltavo. Mi ero affacciata alla stessa finestra dalla quale ero rotolata giù, cercando chi aveva riso.

 

«Oh, ma che devo fare con te! Vai in bagno e sciacquati la faccia, il disinfettante è nel mio armadietto!»

 

Andai di sopra e mi guardai allo specchio. Il labbro era rosso, e il sangue secco si era appiccicato al mento.
Vedendolo, mi ero ricordata quanto faceva male.
Bruciava, da matti.
Sciacquai la faccia con dell'acqua gelida, poi disinfettai labbro e mento.
Anche se lividi e ferite mi comparivano velocemente, con gli anni il mio corpo aveva imparato a rimarginarli in meno tempo. Per quel labbro sarebbero bastati un paio di giorni.

Sentii il rumore famigliare dello zampettio di Spina sul pavimento. Dopo pochi secondi, infatti, la piccola Yorkshire svoltò l'angolo e mi corse incontro, abbaiando contenta e scodinzolando furiosamente.

La ringraziai dell'accoglienza con una carezza, e lei si buttò sul pavimento a pancia in su, sventolando la lingua fuori. Non resistetti e la riempii di coccole, mentre le parlavo con una vocina da deficiente.

 

«Sapessi cosa mi è successo oggi, patatona!» le dissi, grattandola sotto il muso.


Dopo averle dato un biscottino andai in camera e mi spogliai, buttando i vestiti sul pavimento. Lanciai le scarpe accanto al letto e mi lasciai cadere sulla sedia della scrivania, con addosso solo la biancheria.
Accesi il computer ed entrai su twitter, poi su facebook, diedi uno sguardo generale e poi mi alzai, mettendo quella vecchia carretta del mio computer in stand-by.

 

Entrai in doccia e lasciai che l'acqua mi lavasse via il sudore prodotto dalla scalata della finestra.
La feci durare il più possibile, nonostante sapessi che dovevo fare in fretta.
Ormai, la doccia era l'unico momento della giornata in cui potevo restare sola a pensare.


Appena uscita dal box doccia, sentii la leggiadra voce di mia madre proveniente dal piano di sotto.


«EEEMMAAAAA! SBRIGATI, HAI DIECI MINUTI PRIMA CHE ARRIVINO!»

 

Marciai verso l'armadio, presi un paio di jeans e una maglia rossa a maniche lunghe con scollo a V e recuperai dal porta gioielli un paio di lunghi orecchini d'oro, a forma di rombo.
Mi asciugai frettolosamente i capelli e indossai tutto.

 

La lucina del computer mi ricordò che era ancora in stand-by.
Quando accesi il monitor, vidi che qualcuno mi aveva scritto.

Stiles.

 

Ciao :)


Mi aveva aveva scritto, due minuti prima.

Il mio cuore fece una capriola, poi un'altra, un salto mortale e infine un numero al trapezio.

 

Ciao! Scusa, ero in doccia :)

Come va?

 

Digitai più veloce di un fulmine.

 

«EEMMAAA! SONO ARRIVATI!»

 

Mi mordicchiai una pellicina del pollice, mentre lui scriveva una risposta.

 

Bene, e scusa se ti abbiamo lasciata sola oggi, ma era importante :)

 

Oh, Giuda ballerino.
Mi aveva chiesto scusa.

 

Sentii il campanello suonare, e delle voci riempire la casa.

 

Tranquillo, non è importante!

Ci vediamo domani a geografia, giusto?

 

«Emma? Tesoro! Sono arrivati gli ospiti!» La voce di mia madre arrivò dolce, come immersa nel caramello. Tutto a causa della presenza degli ospiti, ovviamente. Come mentiva bene. Oh, quella dote l'avevo sicuramente presa da lei.

 

Non sapevo cosa fare.
Accogliere gli ospiti?
Piantare in asso Stiles?
No, no.
Non potevo. Non dopo tutti i miei sforzi per ottenere un semplice “ciao”.

Continuavo ad aprire e richiudere la finestrella della conversazione, come se potesse far scrivere Stiles più velocemente.
A forza di farlo, però, la pagina si bloccò.
Sussurrai imprecazioni, mentre chiudevo internet, mandando in palla il computer.
Cominciai a premere tasti a caso, colpire l'aggeggio infernale, maledirlo in tutte le lingue conosciute.
Finalmente google si aprì, e rientrai velocemente.

Non aveva ancora scritto.

Decisi che li avrei accolti, poi sarei tornata per qualche minuto da Stiles.
Non poteva succedere niente di male, no?
Mi alzai e mi lanciai verso le scale, per poi rallentare per non farmi vedere troppo frettolosa.

 

Non ero sola, in aula punizioni, pensai. C'era anche...

 

Lui.

E mentre lo fissavo con una faccia da pesce lesso, Stiles inviava il messaggio.

 

 

TAN TAN TAAN!

 

Okay. Non è asdfghjkl Emma?

Ho postato due giorni in in anticipo perché, *sob*, nei prossimi giorni sarò molto impegnata con la scuola, quindi domani di sicuro non sarei riuscita a farlo, e neppure martedì.

Ma ora passiamo al capitolo: Silver_17 mi aveva chiesto dei retroscena della famiglia di Emma. Beh, ha predetto il futuro magari, perché questo capitolo l'ho scritto un po' di tempo fa (sto finendo il n° 11) e ce ne sono abbastanza.

Riguardo al volto di Emma, beh, grazie a tutte quelle che hanno risposto!

La ragazza che più si avvicina alla mia idea di Emma è lei, Troian (grazie ad Hazel92):
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Adesso mettete in moto la vostra fantasia: toglietele una spanna d'altezza e aggiungetele delle forme. Et voilà!

Non è proprio perfetta, ma per ora potreste aiutarvi immaginandola più o meno così :)

Sta per arrivare il capitolo bomba, ragazze! Non vedo l'ora di farvelo leggere *O*

Grazie per avere letto questa umile FF, grazie a tutti quelli che hanno recensito, a quelli che mi hanno messa tra gli autori preferiti, a quelli che seguono la storia, a quelli che l'hanno messa nei preferiti e grazie anche ai timidoni che leggono in silenzio. <3

(Oh mamma, quanti ringraziamenti, meglio che mi fermo!)

Vi lascio con una gif ormonale del ragazzo misterioso c:

Love, Sara <3

 

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Capitolo 5
*** Evening. ***


Chapter five: Evening.

 

Era lui. L' “angelo”. Nel mio soggiorno.

 

«Allora, facciamo le presentazioni: Emma, Neir; Neir, Emma» disse mio padre, ancora in giacca e cravatta, come l'uomo accanto a lui.

Una donna alta, bionda e con gli occhi chiari lo fiancheggiava allegramente. Esprimeva grazia in ogni suo movimento.

 

Che invidia.

 

E davanti a loro c'era lui, Neir.

Mi sorrideva.

Deglutii.

 

«Andate alla stessa scuola, vero? Vi conoscerete, quindi! Che stupido, a non pensarci prima!» a parlare fu suo padre, questa volta, con tono incoraggiante.

Sembrava stesse spronando due bambini a rompere il ghiaccio.

 

Rispondemmo simultaneamente di sì.

Alzai lo sguardo e gli sorrisi, e lui fece lo stesso.

La tensione nell'aria si sarebbe potuta tagliare con un coltello.

 

«Su, noi vecchi accomodiamoci in sala da pranzo! C'è l'aperitivo già sulla tavola!» fu una delle poche, pochissime volte in cui mia madre disse la cosa giusta al momento giusto.

 

Gli adulti se ne andarono in sala da pranzo, che mia madre aveva appena finito di apparecchiare con la massima cura.

Dalla porta aperta si poteva vedere che il tavolo era stato aperto, allungandolo di un paio di metri, e sulla tovaglia c'erano dei bicchierini pieni di un liquido rosso-arancione. Al centro della tavola c'era un vassoio con delle tartine.

 

Il mio stomaco brontolò, ribellandosi, ma io ero decisa a rimanere in salotto con lui.

Mi voltai per fronteggiarlo, e me lo trovai davanti, che sventolava qualcosa di tintinnante.

 

Ci impiegai un po', ma alla fine riuscii a mettere a fuoco l'oggetto misterioso.

Le mie chiavi.

 

«Le hai lasciate sul banco.» si spiegò, guardandomi.

 

«Oh, beh, grazie.» presi le chiavi e le appoggiai sulla mensola.

 

Lui si sedette sul divano con nonchalance, alzando il braccio sullo schienale del divano.

 

Sedermi in parte a lui avrebbe fatto sì che, in qualche modo, lui mi "abbracciasse".

Mi sedetti dall'altra parte del divano.

Quando lo guardai, aveva in viso un cipiglio divertito.

 

«Non mordo, eh!» disse, mentre il mio cuore mi rimbombava nel petto.

 

No, non era possibile.

C'era qualcosa che non andava.

 

Feci spallucce, tolsi le pantofole e mi rannicchiai sul divano a gambe incrociate.

Il mento era appoggiato sui pugni, e mi puntellavo con i gomiti sulle gambe.

 

«Allora... ti piace scalare le finestre?» chiese, sorridendomi.

 

Io quasi soffocai con la mia stessa saliva, mentre deglutivo.

 

Mi ricordai della risata che avevo sentito, mentre avevo il sedere fuori dalla finestra e il resto dentro.

 

«Eri tuquesta volta, a bocca aperta ci rimasi davvero.

 

Lui ridacchiò.

 

«Abito poche case più in là, Emma.» rispose, con il tono che usa chi sta parlando con un bambino duro di comprendonio.

 

Ah.

 

«Okay, non sono pazza. Sul serio.» dissi, alzando le mani, come per dichiararmi innocente.

Lui ridacchiò di nuovo.

 

«Oh, ho dei seri dubbi al riguardo.» rispose, con un tono che la diceva lunga. «Per esempio, perché hai la faccia scorticata? Le ragazze normali non cadono ogni quattro virgola cinque secondi. Ma tu sei “speciale”!» pronunciò l'ultima parola marcandola bene, e accompagnandola facendo le virgolette con le dita.

Decisi di contrattaccare. Non potevo dargliela vinta. Almeno non senza aver spostato il discorso su un altro punto, buttandola sul ridere e distogliendo l'attenzione da me.

 

«Vogliamo parlare di “Neir”? Che nome è? Sembra uscito da un romanzo di Tolkien.» lui arricciò il labbro, mettendomi il broncio.

 

Mi fece venire in mente quando, a dieci anni, facemmo una recita a scuola.

Era una specie di promozione delle verdure, per convincerci a mangiarle. Non ebbe l'effetto sperato, ovviamente. Io ero una zucca, Stiles un cetriolo.

Era a-do-ra-bi-le nel suo costume, alto quasi il doppio di lui.

 

Smettila di pensare a Stiles, idiota!

 

«Emma? EMMA? Mi hai sentito?» Neir stava sventolando una mano davanti ai miei occhi, mentre io fissavo la mia pessima manicure.

Sobbalzai, sbattei gli occhi, e mi sentii arrossire.

 

«Oh, scusa... non ho sentito. Puoi ripetere?» chiesi, mordicchiandomi il pollice.

Lui alzò gli occhi al cielo, ma non sembrava arrabbiato. Era più divertito.

 

«Ho detto che è il nome di una stella. Mia mamma è un'astronoma.»

 

Ah, bello.

Il mio nome, in confronto al suo, era interessante come una patata bollita.

La mia pancia brontolò ancora.

 

«Scusa, hai fame, non me n'ero accorto. Andiamo di là.» sorridendo, mi prese per mano e mi scortò in sala da pranzo. Ebbi l'impulso di ritrarla, appena arrivati davanti ai nostri genitori, ma lui la teneva stretta, senza imbarazzo, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Sembravamo amici d'infanzia.

 

La sua mano era più grande e ruvida di quella di Stiles, ma dava più sicurezza. La mia, piccola e pallida, ci scompariva quasi completamente.

Un momento...

 

Hai pensato ancora a Stiles! Gracchiò la vocetta nella mia testa.

 

Mia madre, vedendoci arrivare, si alzò per servire il primo piatto.

 

Io e Neir ci sedemmo vicini.

 

Mangiammo, ridemmo, chiacchierammo tutti insieme.

Era da tanto tempo che non facevo una cena del genere.

 

Scoprii tante cose su Neir e la sua famiglia.

 

Mio padre e il suo erano colleghi di lavoro.

Sua madre lavorava nell'osservatorio astronomico a qualche chilometro dalla città, situato in una riserva, per evitare anche la minima traccia d'inquinamento luminoso. Diceva di aver scoperto una cometa, che probabilmente si sarebbe avvicinata alla Terra abbastanza da poterla vedere.

 

«Non le abbiamo ancora dato un nome» disse «ma, visto il tuo temperamento, cara, potremmo chiamarla Emma!» detto questo mi strizzò l'occhio, e le mie guance divamparono.

Non ero mai stata paragonata a una meteora.

Magari a un coniglio, o a un uccellino usato come piñata, o anche a una zucca marcia, ma a una cometa mai.

 

La cena finì in fretta, con mio grande dispiacere, e arrivò il momento di salutarci.

 

Accompagnammo gli ospiti alla porta, con sorrisi e strette di mano.

Il padre di Neir mi prese la mano e la baciò, da bravo galantuomo, provocando in me lo scoppio di una risatina scema. Ma la risatina si bloccò quando Neir, per salutarmi, mi abbracciò.

Fu un secondo, forse meno, mi strinse leggermente e poi mi lasciò andare.

 

Poi accadde tutto velocemente.

 

Loro se ne andarono, i miei tornarono in sala da pranzo per pulire, io me ne andai in camera.

Mi sedetti sul letto, e rivissi quel momento.

Avevo sentito una potente scarica elettrica che mi aveva attraversata, dai punti in cui il mio corpo aveva combaciato con il suo fino alle punte dei capelli e dei piedi.

Ma non era quella scarica.

Non era quella che sentivo quando Stiles mi sfiorava per sbaglio, nei corridoi.

Non era quella che sentivo quando mandavano i miei cantanti preferiti alla radio, e io cominciavo a cantarli a squarciagola.

Non era quella che sentivo da piccola quando sfrecciavo in bicicletta per le strade afose e deserte d'estate, e mi sembrava di avere il mondo ai miei piedi.

 

Piuttosto, sembrava che il mio corpo non la apprezzasse.

Come se ci fosse qualcosa di sbagliato.

Era il genere di scarica che senti quando sta arrivando una tempesta, il cielo è nero, il vento si alza e tu sai che devi tornare a casa, ma rimani lì, incantata, e ti lasci trasportare dai sensi.

Era piacevole, ma terribilmente sbagliato.

Come un tradimento.

Ma io ero sola. Terribilmente, tristemente sola, e forse ero anche troppo stanca.

Troppo stanca per ragionare, e per spegnere correttamente il computer che ancora mi aspettava lì, in stand by.

 

Allora mi lavai velocemente i denti, mi tolsi i vestiti, spensi l'aggeggio infernale direttamente dal bottone e m'infilai sotto le coperte.

Non avevo la forza di mettermi il pigiama.

 

Mi rannicchiai là sotto, e realizzai che era passato solo un giorno.

E in un giorno, tutte le mie certezze mi erano scivolate via, come sabbia tra le dita.

 

 

 

Hey, I just met you!

 

Shjsdhfcjkds.

Allora, eccomi tornata puntuale (posto definitivamente ogni 6 giorni).

Alloora: per quelle che non avevano capito bene chi fosse arrivato a cena, eccolo svelato: Neir, il “cesso a pedali” insomma.

Sì, ho cercato un nome possibile su wikipedia.

Non è illegale u.u

Grazie a todos, vi voglio un graaaaan bene <3

Nella prossima puntata... comincia l'azione!

Cioè, la nostra protagonista sfigatella diventerà ancora più sfigatella. Per cambiare HAHAHA

Bon, alla prossima.

Ho deciso il nome della ship di Stiles e Emma: Stemma!

Lo so, fa schifo. Ed era quello che avevo detto che non avrei usato.

Ma non ho trovato niente di meglio.

Tanti bacioni asdfghjkl,

Sara <3

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Capitolo 6
*** Fight. ***


Chapter six: Fight.

 

Episodio di riferimento:

Abominio

 

 

Faceva freddo, quella sera.
I giocatori poltrivano sulle panchine, discutendo con i due allenatori, chiacchierando, guardandosi intorno in cerca dei genitori.

Ero arrivata in anticipo. Troppo, in anticipo.

 

Infatti, ero l'unica spettatrice presente.
Accanto agli spalti, per metà al riparo nell'ombra, mi stringevo nella giacca spostando continuamente il peso da una gamba all'altra.

Mi guardavo intorno, cercando di tenere d'occhio Stiles, che trotterellava da una parte all'altra del campo.


«STILINSKI! Trovami subito Russell e portamelo qui, se si è dimenticato ancora i parastinchi lo uccido con le mie mani!» il coach Finstock diede una spinta a Stiles, per indirizzarlo verso gli spogliatoi.

 

«Certo coach! Ma, prima una cosa: se non lo trovo e lei si arrabbia, devo indossarli subito io i parastinchi o...» rispose Stiles, gesticolando.

 

Finstock lo fulminò con un'occhiata.


«Ricevuto. Corro.» gli voltò le spalle e sfrecciò via.

 

Io sorrisi.
Come si faceva a essere così dolci, in qualsiasi momento?
Cominciai a mordicchiarmi il pollice della mano destra, mentre iniziava ad arrivare qualche genitore.

All'improvviso, sentii la voce di Jackson.

Confabulava qualcosa con il ragazzo che andava in giro a fotografare la gente (non me, ovviamente) e il suo amico che gli correva sempre dietro.
Jackson sembrava particolarmente turbato.

 

Ma ha sempre le mestruazioni, quello lì? Sbuffò la solita vocina, dentro la mia testa.

 

La zittii e ricominciai a cercare Stiles.
Non erano affari miei, quelli.
Nemmeno se Jackson sembrava in procinto di staccargli la testa.

 

Oh, ma proprio lui doveva andare a cercare quel benedetto ragazzo dei parastinchi?

 

Decisi di sedermi sulle gradinate, perché la gente cominciava a radunarsi.
Alcune ragazze, probabilmente le fidanzate di alcuni dei giocatori, avevano dei cartelloni.

 

Go go cyclons!” diceva uno. Al centro, c'era il disegno di un ciclone.

 

Certo.
Come se avessimo speranze, contro quei colossi.
Si erano schierati dall'altra parte del campo, e fissavano i nostri giocatori.
Rabbrividii, solo al pensiero di dovermi lanciare contro uno di loro.
Uno di loro era particolarmente grosso.
Anzi, enorme.
I misteri della pubertà.

 

Mi sedetti in disparte, e finalmente Stiles arrivò.
Dietro di lui, un ragazzo alto e con i capelli castani camminava a spalle curve.
Il coach lo mandò subito in campo.

 

Anche se la nostra squadra aveva in campo i giocatori più grossi, il confronto era comunque più o meno quello di un branco di buoi con un gregge di pecore.

 

Sbaglia tattica, cominciò la vocetta. Non ha giocatori con una grande massa, quindi dovrebbe puntare su quelli veloci!

 

La zittii ancora.
Mi chiesi se avere una voce insistente nella testa fosse un problema da risolvere con delle visite dallo psicologo.
Forse avrei dovuto fare un salto dalla Morrell...
Questi miei ragionamenti furono interrotti bruscamente, perché qualcuno mi urtò.

 

«Scusa! Io... non volevo.» era il fotografo provetto, mister “io-ho-la-fotocamera-costosa-e-tu-no”.

Se ne andò, velocemente com'era venuto, e cominciò a fotografare gli spettatori.

 

La partita andò avanti. Noi segnavamo un punto e gli altri, in risposta, ne segnavano due. Il nostro portiere balzava da una parte all'altra, stremato, e la difesa veniva abbattuta velocemente dai golem avversari.

Dopo pochi minuti, già non ne potevo più.

Avevo perso di vista Stiles, ed era solo per vederlo giocare che mi ero presa il disturbo tornare a scuola fuori dall'orario delle lezioni, quindi non mi rimaneva un motivo per restare.

 

Questo è stalking, piccola Emma!

 

Vidi Scott che si scontrava con l' “abominio”, il giocatore grizzly della squadra avversaria.

Lo vidi cadere sulla sua stessa gamba, che si girò in un sol colpo, frantumando svariate ossa.

Tutto il campo trattenne il respiro.

Mi portai una mano alla bocca, spalancata dall'orrore.

 

Ouch.

 

In un attimo fu circondato da una ventina di persone, che tentarono di soccorrerlo.
Scesi anche io di corsa nel campo, e arrivai appena in tempo per vederlo rialzare, come se nulla fosse successo.

 

«Avrei giurato di sentire le tue ossa rompersi...» sentii dire da una donna.

 

Eravamo tutti a bocca aperta.

 

Detti per scontato che Stiles fosse lì intorno, visto che il suo migliore amico era appena stato fracassato sul campo, ma niente, lui non c'era.

Sparito, ancora.

 

Come sei egoista! riprese la vocina. Scott si fa male, e tu pensi solo a te stessa!

 

La testa cominciò a pulsarmi dolorosamente, all'improvviso.
Ero stanca, frustrata, e arrabbiata per la D in geografia di quel giorno.

 

E Stiles ancora non si vedeva!

 

Restai a vedere la partita ancora per un po', tanto per distrarmi, ma la stanchezza mi appesantiva gli occhi e gli arti.
Mandai tutti a farsi fottere (mentalmente, ovviamente) e mi diressi a grandi passi verso l'uscita del campo.
I grossi lampioni illuminavano tutto lo spiazzo erboso a giorno, con una luce bianca e quasi accecante, come quella degli ospedali.

Appena entrai nel parcheggio, invece, scoprii che lì era buio.
Certo, c'erano dei lampioni, ma erano più deboli e distanti tra di loro.

 

Ci misi poco a farmi coraggio e ad attraversarlo, diretta a grandi passi verso la macchina nera al centro del parcheggio.
Me l'aveva prestata mio padre, perché non si fidava di farmi tornare a casa a piedi tardi.

 

Sarei tornata prima del previsto, certo, ma era comunque buio, quindi non mi pentii di aver accettato, nonostante le mie pessime doti di guida.

 

Mi bloccai, all'improvviso.
Qualcosa aveva cozzato contro la carrozzeria di un'auto a poca distanza da me.
Mi guardai attorno, ma non vidi niente.
Mi voltai e accelerai il passo verso la mia auto, tirando fuori le chiavi dalla borsa.

 

Non è niente, mi ripetevo. Te lo sei immaginato. Ti stai auto-suggestionando.

 

Sentii ancora quel rumore, questa volta più vicino.
Qualcosa aveva colpito la portiera dell'auto accanto a me.
Cedetti alla paura e all'adrenalina, e cominciai a correre.
Correvo, con il fiato corto e le chiavi strette nella mano, che si stavano conficcando dolorosamente nella carne.
Ma non m'importava.
Volevo solo correre in macchina, chiudermici dentro e tornare a casa, infilarmi sotto le coperte e cominciare ad autocommiserarmi in silenzio.

Arrivai all'auto, e con un sospiro di sollievo infilai la chiave nella serratura.

 

Stupida, ti sei lasciata condizionare dal tuo stesso cervello. Hai ancora paura del buio?

 

Ridevo di me stessa, mentre giravo la chiave e tiravo la maniglia della portiera.

Qualcuno mi afferrò da dietro e mi scagliò a terra.
Le chiavi mi sfuggirono di mano, lanciandole lontano, mentre la borsa cadde accanto a me.
Sbattei violentemente la testa e cominciai a vedere annebbiato.

Mi girai a pancia in giù e tentai di alzarmi, puntellandomi sui gomiti, ma fui spinta violentemente di nuovo con la schiena sull'asfalto, facendomi rotolare con un colpo al fianco, sulle costole.

Qualcosa si ruppe nei dintorni della cassa toracica.
Dietro le palpebre, lampi di fuoco e tenebre si alternavano.

Facevo fatica a respirare, perché qualcosa, forse un piede, mi premeva sui polmoni.

Un urlo, però, mi uscì lo stesso.

Mi chiesi perché non prendeva semplicemente la borsa per poi andarsene.

La vocina nella mia testa, terrorizzata, mi suggerì che probabilmente non era un rapinatore, ma un assassino, o uno stupratore.

 

Sono futtuta. Oh, ti maledico, Stiles Stilinski! Tu e il lacrosse!

 

Il peso sui polmoni si dileguò.
Mi rannicchiai su me stessa, mentre le lacrime mi bruciavano negli occhi, tentando di uscire.

Forse era per il dolore, o per la disperazione, oppure per il profondo senso d'impotenza che mi assalì. Le ricacciai indietro.

Aprii gli occhi.

Dovevo fare ancora tante cose. Andare in moto, ubriacarmi, nuotare con i delfini, baciare Stiles... ah, e anche un'altra piccola cosa. Sì, ero vergine, e allora?

Non avevo ancora preparato gli omini di pan di zenzero, non ero andata in Europa nè a un concerto. E non avevo ancora baciato Stiles...

Mi costrinsi a tenere aperti gli occhi, mentre la figura scura e bassa si muoveva ondeggiando leggermente, accucciata accanto a me. Che aspetti? Mi chiesi. Che almeno facesse in fretta.

Quella che vidi, però, non fu la morte.

Fu qualcuno che scaraventava via il mio aggressore.
Era tutto avvolto da una nebbiolina bianca e indistinta, non capivo bene cosa stesse succedendo.

Sentivo dei rumori strani, però.
Dei colpi, un urlo, e qualcosa... qualcosa di strano. Era un... sibilo? Un ringhio?

Un altro suono mi perforò il cervello.

Mi rannicchiai ancora di più su me stessa, su un fianco, coprendomi le orecchie con le mani. Il dolore mi avvertì che non era stata una grande idea, viste le costole sbriciolate.

Mi aveva toccata solo due volte, ma dove l'aveva fatto aveva rotto tutto ciò che si poteva rompere.

Sei patetica gridò la vocina nella mia testa. Alzati e corri, idiota! Salvati!

Qualcosa di caldo e appiccicoso mi colava sulla nuca, scivolando lungo il collo e macchiandomi la giacca. Non volevo approfondire cosa fosse, avendo un terribile presentimento.
Un forte conato mi scosse.

Capii cos'era quel rumore così fastidioso.

L'allarme di un'auto.

Sentii delle voci, in lontananza.

I colpi, i grugniti e i... ringhi erano spariti.

 

Aprii gli occhi e vidi dei piedi, davanti ai miei occhi.
Mi spostai a pancia in su e scoprii che le voci non erano lontane.
Erano lì, e parlavano, ma non capivo cosa dicevano.
Strizzai gli occhi, mentre il dolore al ventre mi annebbiava i pensieri.

 

Grazie. Oh, grazie.

 

La mia testa vorticava, e i miei pensieri erano sconnessi.
Cominciai a chiedermi se ero morta, o pazza, o entrambe.
No, non ero morta, ne ero certa. Sentivo ancora il dolore.

Tanto dolore.

Una voce mi chiamò.

 

«Lightwood? EMMA!» misi a fuoco un po' la situazione.
Il coach Finstock era chino su di me, e mi fissava.
In tanti erano intorno a lui, e tutti mi fissavano, gesticolavano, parlavano.

 

«C-coach?» biascicai, aggrottando le sopracciglia.

 

Lui sospirò di sollievo. Lo sentii sul mio viso. Il suo alito sapeva di patatine al formaggio.

 

«Emma, non chiudere gli occhi. Sta arrivando l'ambulanza, non chiudere gli occhi, puoi aver subito un trauma cranico e... Emma? EMMA!»

 

Sono stanca. Voglio dormire. Lasciatemi stare...




It's Teen Wolf and you know it!

Ciao a tutti, belli e brutti!
Innanzitutto, mi scuso per non aver risposto alle vostre recensioni. Me ne sono completamente scordata, scusate +_+
Parliamo del capitolo. Ve l'avevo detto che la storia avrebbe finalmente preso una piega... soprannaturale, no?
Ecco, la nostra sfigatella si è imbattuta in ben due strani soggetti.
Chi sono? Beh, forse avete intuito... o forse no.
Hehe.
37 recensioni in 5 capitoli. Wow, siete delle meraviglie. Ben 22 persone seguono la storia!
Un grazie, un bacio e un abbraccio personale a tutti quelli che mi leggono, davvero, grazie.
Tra due capitoli c'è uno dei miei preferiti in tutta la storia,
jskdfjkl.
Ok, non vi metto fretta...
A giovedì prossimo, bellezze!
Per qualsiasi domanda, critica, chiarimento chiedete pure.
Se volete propormi le vostre storie vi do campo libero, non sono mica snob io, ceh!
Un altro abbraccione,
Sara
<3

p.s. date uno sguardo qua e capirete il titolo di questo angolo autrice, HAHAHA: 
http://www.youtube.com/watch?v=dD3nsdV0Gh8

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Capitolo 7
*** Gosh. ***


Chapter seven: Gosh.

 

Canzone consigliata per la lettura:

Drunk

Ed Sheeran

Sentivo ancora un rumore ripetitivo.

Questa volta non era l'allarme di un auto, né la sirena dell'ambulanza.

Era un bip soffocato, che si ripeteva ossessivamente, e mi dava sui nervi.

Capii da dove veniva, mi ricordai cos'era successo, e il bip aumentò di velocità.

Avevo il fiato corto, faticavo a respirare, e il rumore era sempre più veloce.

Attacco di panico.

Spalancai gli occhi, e vidi una donna che entrava nella stanza e armeggiava con degli aggeggi in parte a me. Mi prese la mano e cominciò a parlarmi.

 

Mi disse che non avevo niente di grave, solo un trauma cranico e qualche piccola costola rotta. Più che rotte, erano fracassate.

Svenendo avevo corso il rischio di entrare in coma, ma era tutto a posto.

Evidentemente, quelle cose erano all'ordine del giorno, lì.

 

«Qualcuno da lassù ti protegge» mi disse.

 

Oh, certo. Molto rassicurante.

 

Mi accarezzò i capelli per farmi calmare, e i bip diminuirono un poco di velocità.

Io arrossii.

Mia madre non faceva mai cose del genere, quindi non ero abituata al contatto fisico. La sensazione, però, era piacevole. Si alzò, sorridendomi, e la riconobbi.

Era alla partita, poco prima.

O forse il giorno prima, non sapevo quanto tempo fosse passato.

 

«Tuo padre è qua fuori, e... c'è anche un ragazzo. Se vuoi li faccio entrare.»

 

Stiles.

 

Scattai a sedere così velocemente che la flebo quasi mi uscì dal braccio.

Provai a parlare, ma avevo la gola secchissima, e tentare di proferir parola era come strusciarci contro carta vetrata. Sentivo in bocca il sapore del collutorio. Che me l'avessero fatto ingoiare mentre dormivo? Davvero puzzavo così tanto?

 

Richiusi la bocca con uno scatto e annuii, tesa come una corda di violino. Volevo vederlo, quasi più di mio padre.

Forse senza quasi.

 

Mi sistemai i capelli, all'improvviso preoccupata di essere attraente quanto uno straccio ammuffito.

 

Prima entrò mio padre, tutto sorridente.

 

Mi parlò di come ero stata brava, di come avevo combattuto per la mia lucidità, svegliandomi spesso.

 

Io non mi sentivo così. Non avevo fatto niente, ero stata soltanto sbalzata su e giù in un mare di oscurità in tempesta. Ogni tanto riaffioravo, ma era solo merito delle onde.

 

E poi, non mi ricordavo niente.

 

Restò un po' con me, chiamò mia madre e mi chiese se poteva prendere un caffè.

I miei genitori avevano fatto dei turni per restarmi vicino, e delle profonde occhiaie gli segnavano il viso.

 

Gli sorrisi, lo abbracciai e lo spedii alla macchinetta del caffè.

Mi diede un bacio sulla fronte e se ne andò.

 

Mio padre, nonostante fisicamente non mi assomigliasse per niente, era sempre stato il mio preferito. Anche se non ero in un fantastico rapporto neanche con lui, lo preferivo a mia madre. Quei momenti d'affetto però erano quasi del tutto assenti, in casa.

 

Io mi agitavo, ansiosa, nel lettino della stanza privata che mi avevano preso i miei. Doveva essere costata un po'.

 

L'analizzai con lo sguardo: era piccola. Il letto era al centro, con la testiera appoggiata ad un muro colorato di azzurro chiaro. La finestra alla mia destra era chiusa, ma le tendine erano scostate per lasciare entrare un po' di luce.

Fuori, il cielo era bianco di nuvole fitte. Il genere di fredda giornata in cui non piove, ma non c'è neanche il sole. Inutile. Come me.

 

Su un tavolino accanto alla finestra c'era un vaso con degli iris viola, che profumavano gradevolmente la stanzetta. I miei fiori preferiti.

 

La porta si aprì, e mi voltai di scatto.

 

Non era Stiles.

 

Era Neir.

 

La delusione arrivò come uno schiaffo, e il colpo fu peggiore di quello preso nel parcheggio.

 

Poi lui mi sorrise, e io feci lo stesso.

 

Insomma, lui era un bel ragazzo, era simpatico, e mi era venuto a trovare in ospedale...

 

«Hey! Come stai?» mi chiese, appostandosi ai piedi del letto, ficcando le mani in tasca.

 

«Sono in ospedale. Come credi che stia?» un sorriso amaro mi spuntò sulle labbra, mentre accartocciavo il lembo del lenzuolo. Per un attimo temetti di avergli risposto in modo troppo acido, ma ricambiò il sorriso.

 

Incrociai le gambe, per fargli spazio per sedersi, e indicai il letto con il dito «Dai, siediti e fammi un po' compagnia.»

 

Lui obbedì, incrociando le braccia.

Mi fissava, come se stesse cercando i segni della colluttazione che, per la cronaca, non era neanche avvenuta.

Mi ero semplicemente accartocciata sull'asfalto, pregando di non morire. Era incredibilmente difficile mantenere il controllo di sé stessi durante momenti del genere. Perché nei film sembrava così facile?

 

«Ah, hem...» mi portai una mano alla nuca. Non mi avevano tagliato i capelli, né avevano ricucito la ferita. Semplicemente non ce n'era più traccia. Forse non era così grave come sembrava, nonostante avessi perso sangue. La ferita era più interna. «No, non mi ha proprio picchiata...» parlarne era strano.

 

Lui annuì, improvvisamente serio.

 

«Cioè, mi ha tirata giù. Però... niente di irrecuperabile, insomma.» feci spallucce, massaggiandomi l'addome, dove le mie costole rotte piano piano guarivano, grazie all'operazione urgente.

 

Mi guardai le mani. Erano scorticate, per aver strusciato contro l'asfalto, ma erano state ripulite e idratate.

Accanto al letto vidi la mia borsa. Inclinai la testa, incuriosita.

 

Lui sorrise.

 

«Te... te l'ho presa io. L'ho trovata vicino alla macchina...» io ci rovistai dentro. Sentii un tintinnio.

 

Frugai ancora e le trovai.

Le chiavi.

 

Ma no, mi ricordavo benissimo che le chiavi fossero volate in aria.

Non erano nella borsa.

Allora perché non me l'aveva detto?

 

Paranoica, cominciò la vocetta ringrazialo e basta, e sii felice di essere ancora viva!

 

«Oh, beh... grazie.» stirai un altro sorriso, poi mio padre tornò con il suo bicchierino di caffè. Camminava guardando all'indietro, parlando con l'infermiera. Quando si voltò, sorpreso alla vista di Neir, fece un salto. Proprio accanto al mio letto.

E il caffè bollente mi finì sul braccio.

 

«Papà!»

 

«Emma! Mi dispiace!»

 

 

 

Soo cute c:

 

Eccomi tornata gurls!

Alloora, prima di tutto vorrei farvi notare una cosuccia: i titoli dei capitoli sono in ordine alfabetico! Chi l'aveva notato?

*grilli* *tosse*

Comunque.

Vi è piaciuto il capitolo? Spero di sì, anche se è un po' noioso rispetto ai prossimi, e pure più corto. Hehe.

Preparate le vostre testoline, perché nel prossimo ci saranno delle descrizioni che potrebbero farvi far esplodere le ovaie.

Non pensate troppo male, però! Hehe.

Oggi ce l'ho su con l' 'hehe'.

Una chicca per voi: gli iris sono anche i miei fiori preferiti.

Sì, so che non ve ne frega niente.

A mercoledì prossimo con il mio capitolo preferito, jkshdfs non vedo l'ora!

Un abbraccione enorme,

Sara <3

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Capitolo 8
*** Halloween. ***


Chapter eight: Halloween.

 


 

Ecco alcune canzoni che
potreste ascoltare andando
alla festa a Beacon Hills ;)


Adam Lambert / Pop that lock
P!nk/ Slut like you
Ke$ha/ Die Young






 

Le luci lampeggiavano, illuminando di arcobaleno tutto l'isolato.

Ancora prima del tramonto, il cielo azzurro diventava viola, blu, giallo, verde.

La musica si diffondeva nell'aria, facendo accelerare il battito cardiaco di chiunque ci passasse vicino.

 

Le macchine erano parcheggiate ovunque le si potesse lasciare.

Più ci si avvicinava alla casa, più il flusso di persone si faceva intenso, il volume della musica si alzava, le voci diventavano più forti e l'aria diventava frizzante.

 

Le temperature si erano stranamente alzate, arrivando perfino quasi ai venti gradi, come per permetterci di vestirci adeguatamente per la festa.

Parcheggiai a un isolato di distanza dalla villa, per poi avvicinarmici a piedi.

Ci andavo da sola, ovviamente.

 

Non avevo trovato il coraggio di chiederlo a Stiles.

Scott ci andava con Alison (e Stiles), Lydia probabilmente con Jackson, Neir con una ragazza del terzo anno che gli faceva gli occhi dolci nei corridoi.

 

Io, sola come un cane, speravo almeno di trovare quella ragazza con cui chiacchieravo ogni tanto a pranzo.

Lei mangiava solo cose sane per mantenere la linea, io mangiavo vegetariano.

Sospettavo comunque che il tofu della mensa della scuola contenesse pollo.

 

Ero quasi arrivata alla casa, e un ragazzo vestito da vampiro mi passò davanti. Si voltò e mi ringhiò, scoprendo i denti di plastica. Aveva delle lenti a contatto rosse talmente suggestive che indietreggiai di un passo, per istinto.

 

Evidentemente soddisfatto, mi fece l'occhiolino e corse dietro a un altro ragazzo con un'ascia conficcata nella schiena e la camicia macchiata intorno di vernice rossa.

 

Io ero ancora lì, ferma. Il ringhio del ragazzo mi aveva fatto ricordare quello terribile della sera dell'incidente. Incidente. Lo avevano chiamato così. Ma io sapevo che non era un fottutissimo incidente.

 

Mi lisciai il vestito, regolando il respiro. Era nero e mi arrivava alle ginocchia. Due spallini sottili gli impedivano di cadere, ma le braccia erano coperte da un copri spalle che arrivava poco sopra l'ombelico. Il tessuto di raso nero era coperto da un sottile strato di pizzo ricamato, che gli dava un effetto gotico. Nel punto in cui lo spallino destro incontrava il tessuto del vestito, una rosa nera abbelliva il tutto. (http://i49.tinypic.com/aavs7n.jpg) Un girocollo nero mi circondava il collo, e un braccialetto uguale mi ornava il braccio destro. (http://i50.tinypic.com/18c9df.jpg). Ai piedi avevo un paio di stivali neri che arrivavano quasi al ginocchio, con dei lacci di decorazione. Il tacco era troppo alto per me (otto centimetri, per me un chilometro), ma mi era stato imposto dalla ragazza della mensa. Com'è che si chiamava? Veronica? Sempre la solita pessima memoria. Me li aveva prestati per l'occasione. (http://i49.tinypic.com/243m49j.jpg)

 

«È Halloween, Emma. Ti vesti sempre così... da Emma! Sii un po' più sexy, per una volta!» e il pomeriggio stesso si era presentata a casa mia con dei vestiti, delle scarpe e degli accessori. Me li aveva fatti provare tutti. In varie combinazioni.

 

Mi sentivo a disagio, ma Jessica (o era Monica?) aveva ragione: i ragazzi mi guardavano in un altro modo. Mi sentivo quasi attraente.

 

Arrivai davanti alla villa. In giardino , scheletri e bare spuntavano un po' da ovunque. Pregando di non rovinare a terra a causa dei tacchi, mi avviai a passo lento all'interno. Era il caos. La gente ballava, rideva, e beh, pomiciava in ogni angolo del salone da ballo enorme che avevo davanti. Sul fondo, c'era un microfono che pendeva dal soffitto. Vi si stava avvicinando una ragazza vestita da diavolo. Beh, “vestita”... un body rosso le arrivava dalla scollatura a cuore che le copriva i seni fino all'inizio delle cosce, terminando in una sottospecie di pantaloncini, corti il più possibile. Sui capelli neri spiccava un paio di corna, e una coda a freccia ricurva verso l'alto le ballonzolava dietro la schiena a ogni ancheggiamento.

 

Zoccola.

 

Richiamò l'attenzione delle persone all'interno, mentre mi dirigevo verso il tavolo del buffet.

 

«Salve a tutti e grazie per essere venuti! Allora, cominciamo, che ne dite?» un'ovazione riempì la casa, mentre la gente accorreva dai corridoi e dalle scale che partivano dal salone. Quella villa era un enorme labirinto.

 

«Allora, questo è il salone principale. Ci trovate il buffet, e se vi perdete da sbronzi basterà seguire uno dei corridoi con le strisce di nastro adesivo sul pavimento per ritrovarvi qua. Capito?» risate e segni d'assenso dappertutto. «Perfetto. Il primo corridoio alla mia destra porta alla stanza dei film, dove fino all'alba verranno proiettati film dell'orrore. Il primo alla mia sinistra porta alle stanze stregate, ognuna con un rispettivo tema. Su per le scale ci sono la stanza delle maschere, dove potrete cambiare il vostro costume se non ne avete uno vostro o per qualunque altro motivo, la stanza senza luce, quella dei mostri e i bagni.» mentre parlava, alzava le braccia per indicare le direzioni da prendere. Fece per dare il via al deejay, poi però riafferò il microfono «Ah, dimenticavo! Divertitevi!» un urlo si levò nel salone, lei applaudì e tornò a scomparire tra la folla. La gente continuava ad arrivare.

Presi una tartina che sembrava innocua e la mangiai lentamente.

Per un po' alternai il conversare con qualche compagno di classe trovato qua e là e il mangiare stuzzichini.

 

Infatti, dopo un po' che ballavo mi avviai di nuovo al buffet.

Non avevo provato ancora quelle ai gamberetti.

Ne presi una, l'analizzai e poi le diedi un morso.

Quasi la asciai cadere per terra, quando entrò.

 

Era vestito tutto di nero, pantaloni, stivali, maglia attillati e giacca di pelle aperta. Un pugnale di plastica era infilato nella fondina da coltello all'esterno della coscia.

 

Era dannatamente sexy.

 

La mascella mi cadde per terra.

Il costume rilasciava testosterone per tutto il salone. Cominciai a sentire stranamente caldo. Come diavolo si era conciato? Non era il suo stile, era strano vederlo così.

Ma Giuda ballerino, era COSÌ SEXY!

 

Le spalle larghe e i muscoli sempre nascoste da stupide camice casual o t-shirt sbrindellate finalmente erano messi in vista.

Forse troppo.

Ma non ero assolutamente gelosa, io.

 

Poi, per me completamente insignificante, dopo di lui entrò McCall. Era travestito da licantropo, con tanto di peluria sulla faccia e zanne. Per il resto, indossava jeans e una giacca. Camminava curvo, come imbronciato.

Per me, non era un gran chè come travestimento. Ero abituata a Twilight io, dove i licantropi (in realtà mutaforma, ma tralasciamo) erano semplici ragazzi super muscolosi perennemente senza maglietta.

E tutti quei peli in faccia? Troppo poco realistico.

 

Stiles si lanciò verso il buffet. S'infilò in bocca una tartina simile a quella che avevo preso io, si voltò e mi vide.

 

«Fhao!» mi disse, scuotendo la mano allegramente.

Poi vide il resto, e alzò involontariamente le sopracciglia. «Oh, mh... bel costume!» ricominciò, dopo aver deglutito.

Io feci una riverenza «Anche il tuo! Beh...» sorrisi «Sinceramente, non ho idea di cosa tu sia.»

 

Lui sembrò stupito. «Ma come, non si vede? Sono un cacciatore del soprannaturale!» assunse un po' goffamente una posa da modello, e io scoppiai a ridere. «Okay, ho perso una scommessa con Scott. E lui l'ha persa con me.»

 

Solo in quel momento arrivò proprio McCall, scandagliando con lo sguardo nel salone.

 

«Ah, aspetta, tu sei un licantropo! Facile.» soddisfatta di aver indovinato, incrociai le braccia. Il braccialetto sfavillò sotto la luce del sole che proveniva dal portone e dalle enormi finestre, mischiata a dei fari violetti.

Lui guardò in cagnesco l'amico. Ha ha, cagnesco, capita?

 

«Colpa di Stiles. Saremmo acerrimi nemici, in teoria.» alzò gli occhi al cielo e afferrò un pasticcino alla marmellata, per poi addentarlo «Dovevamo centrare il canestro da metà campo. Nessuno dei due ce l'ha fatta, perché casualmente mi è arrivata una pallonata in testa.»

 

Stiles gli rispose subito «Senti, era perfettamente nelle regole. Non avevi specificato niente!»

 

Scott gli tirò un pugno giocoso alla spalla. «Io vado a cercare Alison. Ci vediamo dopo!» si congedò velocemente, ma non senza avermi sorriso.

 

Era sempre stato un bravo ragazzo.

 

Stiles riprese «Tu, invece, cosa saresti?» diede un'altra occhiata al mio vestito.

Sotto la cipria bianca, arrossii.

 

«Beh, non saprei. Una specie di cigno nero, non so. Mi ha aiutata una mia amica, e...» mi strinsi nella spalle, giocherellando con il braccialetto «è uscito questo. Secondo me è un po' troppo azzardato.»

 

Lui scosse la testa. «Oh mio Dio. Ti sei guardata intorno? Se tu sei azzardata, quelle altre sono...» gesticolò un po', e capii.

 

Zoccole, insomma.

 

Da così vicino, riuscivo a sentire il suo profumo, quello che tentavo sempre di non annusare per non andare in panico. Era qualcosa di indescrivibile. Era semplicemente... Stiles.

Spostai lo sguardo dal suo viso ai miei piedi, facendo una piccola tappa sui suoi addominali.

Sì, sapevo perfettamente che era da un po' che faceva esercizio fisico, ma i frutti del suo lavoro erano sempre nascosti da quelle fastidiosissime invenzioni chiamate vestiti.

 

Calma gli ormoni, Emma.

 

Ritornai a guardarlo in viso. Accanto ai suoi occhi color miele, si erano formate delle piccolissime rughe di espressione, come ogni volta che sorrideva.

Quando era sovrappensiero o particolarmente concentrato, si leccava appena il labbro inferiore.

 

Come fece in quel preciso momento.

Le gambe stavano per cedermi.

 

«No, davvero, sei...» continuò.

 

Non seppi mai cosa ero, secondo lui. Qualcuno mi prese per i fianchi e mi sollevò in aria. Strillai una volta come un'idiota, strizzando gli occhi e cercando di strapparmi via quelle mani.

Poi però sentii una risata, e la riconobbi subito.

 

«NEIR! Mettimi giù!» Stiles ridacchiava, guardando la scena.

 

Quella risata.

 

«Subito, madame!» mi riappoggiò a terra, e mi voltai.

Aveva indosso uno smoking nero, e sotto una giacca bianca. Il viso era bianchissimo, gli occhi segnati da scure occhiaie disegnate, e un paio di lenti a contatto gli rendevano le pupille piccolissime, mentre il resto dell'occhio era bianco.

 

«Oh, bel vestito!» mi disse, squadrandomi. Per la seconda volta, arrossii.

 

«Grazie! Anche il tuo, Mr. Addams.» risposi, mettendo le mani sui fianchi.

 

«Emma, ci vediamo dopo, okay? Divertiti!» sentii dire da Stiles. Probabilmente credeva che non m'interessasse più parlare con lui, ora che c'era Neir.

 

No, no, no! pensai, mentre una profonda angoscia m'invadeva velocemente.

 

Mi voltai appena in tempo per vederlo sparire nella folla ondeggiante.

Sbuffai, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, esasperata.

Mi girai ancora verso Neir, pronta a dirgliene quattro, ma una mano sottile mi afferrò il polso.

 

«Fantasma sexy, scusami, ma te la rubo io.» Marica! O era...oh, Giuda ballerino.

 

Lui rise, le fece l'occhiolino e si allontanò con la ragazza che lo aveva accompagnato, appena sbucata dal nulla.

 

Era un'occhiata di soddisfazione, quella che mi aveva lanciato? Credeva che volessi rubarle Neir? Oh, andiamo!

 

Ero appena arrivata, e già il mio cervello fumava.

Perché andava tutto più velocemente del solito?

Curiosa, guardai il costume della ragazza che mi aveva preso per il polso, quella dal nome che non ricordavo mai.

 

Era molto bella. Un vestito nero lucido e attillato la copriva interamente, a parte un'ampia scollatura a V. Le braccia erano scoperte, ma dei guanti in pelle nera le coprivano le mani. I capelli biondi erano raccolti in una crocchia, e sulla testa aveva un piccolo paio di orecchie da gatta. Una coda e dei tacchi vertiginosamente più alti dei miei finivano il vestito. Gli occhi erano contornati di nero, le labbra rosso carminio.

Già senza tacchi mi sovrastava di una spanna buona, ma così... sembravo un puffo.

Mi squadrò da capo a piedi, sorridente.

 

«Oh, era questo che intendevo. Perfetta.» Poi si avvicinò al mio orecchio «e quel tipo? È lui, quello per cui ti sei lasciata strapazzare da me per stasera?»

 

Neir? Oh, no.

 

Ma perché no? Diavolo, era bellissimo, simpatico, dolce, interessante. Eppure... no, no, no e ancora no!

 

«No, io... no, non è lui.» sbarrai gli occhi e tentai di correggermi «No! Cioè, non c'è nessu...» lei rise, e io risi con lei.

 

«Okay, ho capito. Lo dovrò scoprire da sola.» un sorriso che non prometteva niente di buono le spuntò sulle labbra.

 

Passò a rassegna il buffet con lo sguardo, trovò i beveraggi e mi ci trascinò. C'erano varie bottiglie, bicchieri e grosse coppe, piene di liquidi dei colori più strani. Blu, nero, viola, rosso sangue.

 

Bleah, coloranti.

 

C'erano delle targhette davanti a ogni alimento, per indicarne il nome.

Lei scelse una coppa nera nella parte degli alcolici (poche cose, in realtà, non lo erano), che si chiamava “ombra” riempì un bicchiere e me lo offrì.

 

Io scossi la testa. «Oh, no, io non bevo.» lei mi guardò incredula.

Il mio equilibrio, sia fisico che mentale, era già precario da sobria, figuriamoci da brilla!

 

«Emma, non hai dodici anni. È legale. Più o meno. E ti farebbe bene scioglierti un po'.» detto questo, scelse qualcosa per lei di più forte, un liquido rosso (“sangue”, molto originale) ne trangugiò un bicchiere in un colpo solo.

 

Scoppiò a ridere. «Oh, questo mi fa sbronzare ancora» appoggiò il bicchiere sul tavolo e incrociò le braccia. «Su, bevi. Solo un bicchiere. Non ti farà ubriacare, te lo giuro. Poi ti prometto che ti lascio in pace.»

 

Fissai il liquido nero e lo annusai. Beh, l'odore non era tanto male. Ne assaggiai un sorso, e lei mi incitò. Aveva un sapore dolciastro. Finii il bicchiere, e la stanza cominciò a girare. Mi aggrappai con forza al tavolo, aspettai qualche secondo e tornai a guardarla. Mi sentivo già più leggera.

Lei mi osservava. «Questo è lo spirito!» quando vide che mi ero ricomposta, prima diventò seria per qualche secondo, poi tornò a sorridere.

Una voce chiamò il nome di Erica.

 

Ecco come si chiamava!

 

«Aspetta qua un secondo. Devo fare una cosa. Non ti muovere!» e scappò in mezzo al tumulto.

 

Sospirai. Perché la gente continuava a trovarmi, parlarmi e poi scappare?

 

Sentii qualcosa di strano.

L'alcolico che avevo bevuto stava rifacendo il tragitto al contrario, ripartendo dal mio stomaco.

 

Mi misi una mano sulla bocca, mentre un forte conato mi scuoteva.

Dove aveva detto che erano i bagni?

Su per le scale! Mi ricordò la vocina dentro la mia testa.

 

Cominciai a correre. I conati si susseguivano, la testa mi girava, dei brividi violenti mi davano la pelle d'oca.

 

Quasi inciampai sugli scalini, ma feci in tempo ad arrivare al corrimano.

Che schifezza mi aveva fatto bere?

Forse era una reazione al mio organismo perennemente sobrio.

O forse era stato corretto con qualcosa di non tanto legale.

C'era da aspettarselo, a una festa così.

 

Il bagno con il contrassegno improvvisato delle ragazze era socchiuso. Spalancai la porta. Era vuoto.

Richiusi la porta alle mie spalle e mi buttai in ginocchio davanti al wc.

L'odore di candeggina aumentò i conati.

Non ci misi molto a cominciare a vomitare.

Quando il mio stomaco sembrò tornare nel verso giusto, mi lasciai cadere a sedere sul pavimento freddo.

 

Mi sciacquai la bocca ripetutamente con l'acqua fresca, ma subito ricominciarono i conati.

Tornai al wc e sentii dei passi fuori dalla porta.

 

«Emma? Stai bene?» era lei. Biascicai un “no”, e lei entrò.

Richiuse le porta alle sue spalle e mi si avvicinò.

Si bagnò una mano con l'acqua fresca e me l'appoggiò sulla fronte.

Vomitai ancora una volta, ma lei restava lì, a raffreddarmi la fronte.

 

Quando ebbi finito, mi sentii subito meglio.

Tirai lo sciacquone e andai di nuovo al lavandino, risciacquandomi innumerevoli volte la bocca.

 

Notai solo in quel momento che aveva una borsa con sé. Ci rovistò dentro e mi porse uno spazzolino ancora nuovo.

La guardai esterrefatta.

 

«Oh, dopo un po' che vai a feste come questa impari la lezione. Ho l'occorrente per ogni evenienza.» rispose semplicemente, appoggiando lo spazzolino sul ripiano di marmo. Poi estrasse anche una trousse piena di trucchi e una scatola di preservativi. Intendeva proprio ogni evenienza.

Intercettò la mia occhiataccia e alzò le mani, come se in arresto, poi rimise tutto in borsa tranne lo spazzolino.

C'era un dentifricio mezzo spremuto in un armadietto.

Mi lavai i denti, mentre lei aspettava, appoggiata al muro del bagno.

 

Non parlava, restava semplicemente a guardarmi.

 

Finii e sospirai, appoggiandomi al ripiano di marmo del lavabo.

Quando mi guardai per bene allo specchio, mi accorsi che ero persino più pallida di prima.

 

«La prossima volta che mi offri qualcosa da bere, ricordami di darmela a gambe o ucciderti.» la minacciai, ma poi le sorrisi, e lei fece lo stesso.

 

«Scusa, non pensavo ti facesse quell'effetto... meglio avvertire Susanne.» la guardai senza capire. «è la proprietaria della villa. La diavolessa...» alzò l'indice e il medio e le mise dietro la testa, mimando un paio di corna.

 

«Ah, capito. Sì, forse è meglio.» presi un asciugamano dall'armadietto e mi asciugai viso e mani.

 

«Ora che ti sei ripresa... c'è qualcuno che ti aspetta nella stanza della Luna.»

 

Oh, non ci credo.



Who lets Emma out? UH! UH-UH-UH!

Eeed eccomi tornata! Vi è piaciuto il capitolo?
Ma arriviamo alle cose importanti: VE LO SIETE IMMAGINATO LO STILES SEXY? Mlmlml.
Sbalzo temporale di un mesetto in cui Emma si aggiusta un po', festa di Halloween a Beacon Hills, tutti i teen agers si sono riversati in una grossa villa... non poteva non succedere qualcosa di brutto alla nostra piccola sfigatella, vero? HAHAHAHA no, ovviamente.

Pensavate che fosse successo abbastanza, dopo il saprete-dopo-cosa successo al suo stomaco... ma è solo l'inizio, piccole mie.

*risata satanica*
Bon, aspetto critiche, opinioni, pensieri... tutto quello che vi passa per la testa, scrivetemelo.
Ah, per farvi esplodere ancora di più l'apparato riproduttore...

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Non è dkjhfdsjk? Sì, lo è.

Grazie a tutti, ho raggiunto le 50 recensioni ** Vi amo, giuro.

Un bacione ENOORME, con un abbraccio (tramite Derek, se vi fa piacere... ;) hehe)

Vi voglio bene,

Sara <3

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Capitolo 9
*** I'm here. ***



Chapter nine:
I'm here.

 

 


Dopo essermi rifatta il trucco, io ed Erica uscimmo del bagno, affacciandoci dal soppalco con le scale che portavano al salone.

La festa era nel suo vivo. Le persone erano aumentate ancora, e dall'alto riuscii a intercettare qualcuno: vidi Scott e Allison che ballavano, lui licantropo e lei strega. Aveva un vestito nero che le arrivava alle ginocchia, un corto cappello a punta e dei nastri scuri che le allacciavano gambe, caviglie, braccia.

Accanto a loro passò Lydia, appariscente come sempre: un corto vestito verde chiaro luccicava come ricoperto di piccoli diamanti. Sulle spalle aveva un paio di piccole ma dettagliate ali.

 

Erica mi prese per mano e mi trascinò di sotto.
Non mi lasciò la mano neanche mentre attraversavamo la sala da ballo, probabilmente per non perdermi nella folla danzante.
La musica mi rimbombava nelle orecchie, e mi venne voglia di fermarmi lì e divertirmi un po'.
Erica però ancora non mi lasciava il polso.

Un ragazzo che frequentava biologia con me, Isaac mi pare, ci si affiancò mentre camminavamo. Era vestito come sempre, senza indossare un costume.

Mi guardò e sorrise.

Mi voltai e continuai a guardare avanti, mentre imboccavamo il corridoio che portava alle stanze stregate.

 

«Che stanza hai detto che è?» chiesi a Erica, mentre rallentavamo il passo e mi lasciava la mano, permettendomi di affiancarla.

 

«La stanza della Luna, Emma. È l'ultima in fondo.» rispose, allegra.

 

«Erica?» di nuovo quella voce. Era la stessa voce, maschile, che l'aveva chiamata prima del mio attacco di vomito.

 

Ci voltammo entrambe
Isaac era qualche metro dietro di noi. Accanto a lui c'era un armadio a muro, anche lui senza travestimento. Erano entrambi a educazione fisica con me.

 

«Isaac! Boyd!» Erica gli fece segno di seguirci.

 

Notando la mia espressione incredula, si spiegò «Sono miei amici, tranquilla. Ci divertiremo, vedrai!»

Quell'affermazione mi preoccupò un poco.
Ma era Erica, giusto?
Mi potevo fidare di lei, giusto?

 

Oltrepassammo la porta dritta davanti a noi nel corridoio.
Sulle porte ai lati, c'erano cartelli con scritte come “Dimora dei vampiri”, “Castello di Frankestein”, “Cimitero” e così via.

Quella in cui entrammo aveva una scritta bianca sopra.

 

Stanza della Luna

 

Appena entrammo, il motivo del suo nome mi fu subito chiaro.
Le vetrate lasciavano entrare la luce della luna, ben visibile e apparentemente più grande, che qualche giorno prima era stata piena. Sotto di esse, una grossa scrivania in legno faceva capire che quello era una specie di studio camuffato per la festa.

Sulle pareti, figure di lupi mannari in varie forme incutevano un certo timore.
Una scultura di un uomo lupo svettava al centro della stanza, talmente realistica che per un secondo sentii l'istinto di scappare.

La parte migliore della stanza, però, era il pavimento: era una specie di illustrazione delle fasi lunari, con lo sfondo che sembrava una vera e propria fotografia satellitare dello spazio.

Lui lo vidi dopo.

Era in una zona d'ombra tra due finestroni.
Non c'era la luce accesa nella stanza, quindi non l'avevo visto finché non si era mosso.

Verso di me.

Feci un passo indietro, spaventata, ma sbattei contro qualcosa.
Boyd era sistemato davanti alla porta e mi guardava in modo strano.
Come se si aspettasse che cominciassi a impazzire.

Ebbi un pizzico di paura.
La situazione era inquietante.

Cercai Erica, e la vidi poco distante da Boyd.
Si tolse le orecchie da gatta e sciolse i capelli boccolosi sulle spalle.

Mi sorrideva in modo rassicurante.

 

«Ascoltalo solo un secondo, va bene? Stai tranquilla.»

 

Sì, vai convinta, proprio.

 

Mi pentii in un secondo di tutto.
Di aver fatto amicizia con Erica.
Di essermi lasciata trascinare alla festa.
Di essermi fatta convincere a entrare lì.

Mi girai per fronteggiare l'uomo che mi veniva incontro.

Aveva i capelli scuri, e nella tenue luce lunare riuscii a identificare un paio di occhi particolari, sul verde. Aveva una leggera barba, e dei muscoli ben evidenti.

Qualcuno mi diede una spintarella, facendomi fare un passo avanti.

La tentazione era quella di rifugiarmi dietro le gambe di Boyd come una bimba dietro la mamma, ma alzai il mento, piantai i piedi a terra e decisi di mantenere la mia dignità, nonostante la stranezza della situazione.

 

«Scusa se ti ho spaventata, Emma, ma avevo bisogno di parlarti in privato.» disse con voce calda, e nel buio intravidi un sorriso scintillante.

 

Non abbassai la guardia.

 

«Cosa c'è? Velocemente, per favore, vorrei tornare alla festa.» il tono nella mia testa era spavaldo, sicuro. Quello che mi uscì era un po' tremante.

 

Ovviamente mentivo. Volevo solo andare ad accucciarmi sotto le coperte, al sicuro, in camera mia, mantenermi nella mia bolla di asocialità e coccolare il mio cane.

Non smise di sorridermi neanche per un secondo.

 

«Mi chiamo Derek.» si fermò.

 

Incrociò le braccia e mi squadrò da capo a piedi. Poi piantò lo sguardo sui miei occhi, intrecciandolo con il mio e impedendomi di distoglierlo.
Era terribilmente magnetico.
L'espressione esatta è magnetismo animale.

 

Derek, Derek... dove l'ho sentito?

 

«Ti sei sempre sentita fuori posto, vero?» manteneva un tono di voce calmo e rassicurante.

 

Proprio come gli stupratori prima di rapire le ragazze, gracchiò spaventata la vocina nella mia testa.

 

La soppressi.
Dove voleva arrivare quel tipo?
Sembrava la psicologa della scuola, la Morrell.

 

«Hai sempre saputo che eri... diversa, in qualche modo. O sbaglio?» si avvicinò ancora di un passo. Io rimasi perfettamente immobile.

Il battito cardiaco però aumentava, e i palmi delle mani cominciarono a sudarmi.

Resistetti alla tentazione di asciugarmeli e chiusi le mani a pugno.
Avevo raccontato tutto a Erica.
Le avevo parlato dei miei sogni, dei miei problemi, di tutto quello che mi opprimeva.
Mi sentii lievemente tradita.

 

«Senti, arriva al punto.» una vocina dentro di me, (non la solita) invece, diceva sì.


Diceva che odiavo tutto della mia vita.
La mia famiglia. La mia scuola. La mia città.
Sì, odiavo anche Stiles, in un certo senso.

Diceva che avrei fatto di tutto per cambiare vita.
Diceva che ero stufa di essere sempre sullo sfondo.
Anzi, se la vita fosse stata una recita, io sarei stata la “roccia n° 3”.

Diceva che, quando avevo chiuso gli occhi nel parcheggio, pensando futilmente di morire, nel profondo ero felice.
La vocina urlava che aveva ragione, che volevo qualcosa di più.

Ma io no.

Io ero ferma lì, e cercavo di tenermi stretta la mia lucidità mentale.

 

«No, non sbaglio.» continuò imperterrito «E scommetto che ti piacerebbe essere un po' più degli altri.» calcò il “più” con la voce «Più bella.» la mia mente corse a Erica. «Più forte.» Boyd. «Più veloce.» Isaac. «Più sicura. Vorresti essere... speciale.»

La vocina urlava.

Sì, sì!

 

Il mio cuore batteva forte.
Non dissi niente.

I miei occhi, però, chiedevano come.

 

«Voglio proporti una cosa.» disse. Era vicinissimo a me.

 

Io volevo che continuasse a parlare. Volevo diventare come Erica: desiderata, maliziosa, affascinante, popolare.
Lo desideravo ardentemente, a qualunque prezzo.
Intravidi uno scintillio rosso, nella penombra, ma non capivo da dove venisse.

 

«Emma!» era la voce di Neir. Veniva da dietro la porta.
Sobbalzai.
Quella voce mi ricordò cosa stava succedendo.

Ripercorsi i pensieri che avevo appena avuto, e rabbrividii.

Ma che diavolo stavo facendo?

Incrociai ancora lo sguardo di Derek, e capii al volo.
Capii che, se volevo che continuasse a parlarmi, che finisse la proposta, non dovevo rispondergli.
Dovevo stare zitta, aspettare che lui mi cercasse, non mi trovasse e ritornasse nel salone.

Sapevo che era la scelta giusta, ma la feci con riluttanza, e la mia voce tremò d'insicurezza.

 

«Neir! Sono qui!» feci un passo indietro, e vidi la sua espressione sorpresa.
Non si aspettava che rifiutassi.

 

Ebbi il terribile presentimento che i tre ragazzi lì con me c'entrassero un po' troppo in quella storia, e che non avessero rifiutato come me.

Qualcosa si scagliò con forza contro la porta. Boyd rimbalzò in avanti, e io mi spostai appena in tempo perché non mi cadesse addosso.

Feci per lanciarmi verso l'uscita, quando una mano mi afferrò il braccio.

Mi voltai e vidi Isaac che mi teneva stretta.
Strattonai, cercando di liberarmi, ma niente, non ci riuscivo.

Poi lo vidi.

Derek era cambiato.
Non era più quell'uomo affascinante dagli occhi verdi e i lineamenti duri.

Era... era un mostro.

I suoi occhi brillavano di un fantastico rosso carminio. Era quello, il riflesso che avevo visto.

Urlai.

Isaac mi strattonò verso di lui con forza ancora una volta, e mi ritrovai contro di lui. Sentii un gran fracasso, e lui mi tenne stretta da dietro, mi fece abbassare sul pavimento e mi coprì con il suo corpo.

Una scheggia mi ferì ugualmente una gamba.

La scrivania?

 

Qualcosa strappò via da me Isaac.

Mi voltai e vidi Neir che mi guardava preoccupato. Mi tese una mano per farmi alzare, e prima che la potessi afferrare Derek gli saltò addosso.

Lo buttò a terra e ringhiò.
Ma non era un ringhio qualsiasi.
Era l'incrocio tra il ruggito di un leone e il ringhio di un lupo, tutto shakerato per terrorizzarmi ancora di più.

Mi ricordò il ringhio della sera dell'incidente.
Era molto diverso, però.
L'altro assomigliava più a un sibilo.

Mi alzai.

Improvvisamente, mi trovai davanti Erica, Isaac e Boyd, che mi accerchiavano.
Li guardai uno per uno in faccia.
Erano come Derek.
Visi feroci, bestiali, assolutamente non umani.

Indietreggiai fino al muro, ma loro mi voltarono le spalle.
Erano concentrati su Derek e Neir.

Formarono un semicerchio attorno a me, rivolti verso i due.

Mi lanciai verso di loro, colpendoli e cercando di farmi strada.

Era completamente inutile: loro rimanevano immobili come statue, senza lasciarmi passare.

 

«Neir! Neir!» lo chiamai, preoccupata.

Lo stava uccidendo, ne ero certa.

 

I secondi passavano, e a me sembravano ore.
Io li colpivo, con tutta la mia forza, ma a loro non facevo neanche il solletico.
Isaac si voltò per farmi smettere, e io indietreggiai ancora.
Era terrificante, e la mia forza di volontà scemò a gran velocità.

Ci fu un suono terribile.

Un rumore di ossa spezzate.

Urlai ancora il suo nome.

Poi lo vidi alzarsi in piedi, stritolando il braccio di Derek.

Lo smoking era distrutto, e il sangue sgorgava da delle ferite sull'addome e sul viso.

Anche sulla schiena, delle profonde ferite gli lasciavano scoperta la carne.

 

«Era a noleggio, stronzo.» disse, con i denti stretti.

Derek si liberò tirandogli un calcio, poi si tenne il braccio, ringhiando, mentre quello si muoveva a scatti. Si stava... riparando?

 

Boyd fece per dar man forte a Derek, ma si fermò prima di arrivarci.

Il biondo aveva allargato le braccia, voltandosi verso di noi, e due enormi, piumate, bianche ali erano spuntate dalla sua schiena.

Erano ipnotizzanti e frusciavano, sbattendo leggermente, provocando un lieve spostamento d'aria nella stanza a ogni piccolo movimento. I bordi inferiori erano leggermente più scuri del resto, passando al bianco sporco e poi al grigio.

Fu troppo.

Scappai. Corsi a perdifiato fuori dalla porta, corsi, senza guardarmi indietro.

Andai a sbattere contro Stiles.

 

«Emma? Che sta succedendo là dentro?» mi chiese, mentre faticavo a respirare.

Scott era con lui.

Volevo avvertirlo, dirgli di darsela a gambe, dire a tutti di scappare, nonostante probabilmente mi avrebbero presa per pazza.

Non so se fu lo shock, il trauma alla testa che ritornava in superficie, la mia stupida scelta di non prendere più le medicine (non avevo avuto svenimenti o giramenti di testa, e mi ero sentita sicura) o semplicemente il miscuglio di emozioni, ma persi i sensi tra le sue braccia.





Hungry like the wolf!

 

 

Sì, mi piacciono i duran duran.

Vi è piaciuto il capitolo? Hdskfjs

Ho postato in anticipo perché... perché... perché avevo voglia, punto.

Baciatemi i piedi (?)

Ecco finalmente l'entrata in scena di Derek alias sono-figo-e-pure-lupo. Ma cosa vorrà mai da Emma? Non è già abbastanza sfigata di suo? NAAAAH. Perché la nostra piccolina? Cos'ha fatto di male?

Lo scoprirete nella prossima puntata!

Nah, non è vero, ci vorrà tanto per capirci qualcosa.

Ah, vorrei sottolineare una cosa: Emma è svenuta (per la seconda volta, picciola lei) e tra. le. braccia. di. Stiles. *tosse*

Bene, ora recensite, su, da brave <3

Vi ringrazio per aver letto, davvero, siete kdsjfjks, il primo capitolo ha raggiunto le 550 visite! Vi amo c:

Se mi volete seguire-aggiungere, su twitter sono @itsarabitches e su kik Sar_efp (se non conoscete kik, è tipo whatsapp, solo che hai il nome utente e non il numero di telefono, quindi mantiene la privacy)

Un abbraccio ancora più grande del solito,

Sara <3

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Capitolo 10
*** Just keep calm. ***


Chapter ten: Just keep calm.

 

 

Il primo ad arrivare, con il risveglio, fu l'olfatto.

Mi colpì all'improvviso, come uno schiaffo.

Avrei riconosciuto quel profumo tra mille.

 

Stiles.

 

Cosa ci faceva il profumo di Stiles nel mio letto?

 

Arrivò anche il senso del tatto, finalmente, che mi svegliò completamente, strappandomi dal tepore del sonno.

 

No, non era il mio letto. Il mio materasso era più duro, e il cuscino idem.

Sentii un pizzicorio fastidioso alla gamba destra.

 

Oh, la scheggia. Pensai, tranquillamente.

 

Con quel semplice pensiero, arrivò tutto.

 

Mi alzai di scatto, guardandomi intorno.

No, non era decisamente camera mia.

 

La stanza era in penombra, illuminata solo dalle luci della città, ma distinguevo comunque abbastanza bene l'insieme.

Le pareti erano grigie scure, e vi erano attaccati poster, disegni, quadri in bianco e nero.

Il letto era messo inclinato, all'angolo tra due parenti, con la testiera contro una specie di libreria. Contro una parete c'era una scrivania terribilmente disordinata.

 

Accanto al letto c'era una finestra, lasciata socchiusa, da cui entrava un po' d'aria fresca. Davanti ad essa c'era un piccolo telescopio.

 

Mi guardai. Indossavo ancora i vestiti della festa. Sulla gamba, dove mi si era conficcata la scheggia, c'era un cerotto con sopra dei piccoli t-rex azzurri.

 

Aggrottai le sopracciglia.

Dove diavolo ero finita?

 

Mi tolsi quei fastidiosi stivali con il tacco e cominciai a pensare, camminando avanti e indietro nella stanza.

 

Che era successo?

Cosa mi ero immaginata, cosa era vero?

Avevo fatto una bruttissima scelta a smettere di prendere le medicine.

Forse era tutta colpa delle medicine, sì.

Forse era stato un effetto collaterale...

E allora la scheggia?

 

Guardai il panorama dalla finestra.

Era notte fonda.

Contai le ore che avevo passato alla festa.

Sì, dovevo essere rimasta svenuta per... circa un'ora.

Doveva essere l'una di notte, circa.

Ero al secondo piano di una casa lontana di qualche isolato dal liceo.

 

Alzandomi sulle punte, riuscivo a vedere il tetto della mia casa, riconoscibile a causa del caminetto rosso.

 

Capii dov'ero.

 

Oh Giuda ballerino. Sono a casa di Stiles!

 

Riconobbi la via: ci passavo davanti in bicicletta ogni tanto, sperando di trovarlo senza maglia in giardino a falciare il prato.

Non succedeva mai.

 

Ecco perché il suo profumo è ovunque!

 

Contenta di aver trovato una soluzione, feci un passo indietro, con lo sguardo rivolto verso la finestra.

Peccato che la lampada sulla scrivania cadde a terra, tirandosi dietro il cavo, che a sua volta trascinò giù un portapenne.

 

Imprecai sottovoce e feci per raccogliere tutto, quando la porta si spalancò, illuminando di colpo la camera.

 

La luce mi ferì gli occhi, abituati al buio, e li sbattei ripetutamente finchè non riuscii a vedere meglio.

 

«Cos'è successo?» Scott teneva la maniglia. I suoi occhi corsero al casino a terra e alzò le sopracciglia.

 

Aveva ancora il travestimento.

 

Poi pensai a Erica, Boyd, Isaac e Derek, e a come erano incredibilmente simili al suo cosiddetto “travestimento”.

E vidi gli occhi gialli di Scott.

 

Feci un balzo indietro, afferrando la lampada da terra e puntandogliela contro.

Lui non connesse subito.

 

«Oh, capito! Lasciami...» cominciò.

 

«STAMMI LONTANO!» esclamai, tenendo la mia arma improvvisata ben stretta tra le mani, pronta a colpire.

 

Calcolando quanto avevo scalfito i tre poche ore prima, una lampada sarebbe stata ben poco efficace, ma era meglio che niente, no?

 

Lui fece un passo indietro.

Stiles apparve dietro di lui, con il fiatone.

 

«Che sta succedendo qua?» chiese, guardandoci.

 

«Ok. Calma.» Scott parlò lentamente, chiuse gli occhi e il suo viso tornò normale.

Fece di nuovo un passo avanti e io mi schiacciai contro la parete.

 

Anche Stiles si avvicinò.

«Emma! Tranquilla, Scott è un bravo cucciolo, non ti farà niente! Lasciaci spiegare!» Scott lo colpì con un pugno sopra la testa.

 

«Potete spiegarmi benissimo da là.» indicai la loro posizione, sulla porta, con un cenno del mento.

 

Stiles sbuffò.

 

«Davvero pensi che io sia pericoloso, Emma? Davvero?» esclamò, allargando le braccia.

 

Beh, in effetti.

Feci spallucce.

 

«Ok. Entra.»

 

Scott fece per seguirlo, e io alzai di nuovo la lampada.

 

«TU NO!» lui allora incrociò le braccia e si appoggiò allo stipite della porta.

 

«Prima di tutto, Emma, metti giù la mia lampada.» disse Stiles, avvicinandosi cautamente, come si fa con un animale braccato.

 

Io la fissai, riluttante. Era la mia unica difesa contro... quello.

 

«Per favore.» aggiunse.

 

Non potevo dirgli di no.

La appoggiai di nuovo alla scrivania.

 

Lui sorrise.

 

«Ora... che ne dici di venire giù in salotto, così... parliamo e ti spieghiamo tutto?»

 

Valutai l'offerta.

Stiles sembrava completamente a suo agio con Scott.

E di Stiles mi fidavo.

Quindi sì, potevo seguirli.

Ma facendo molta attenzione.

 

Stiles mi prese la mano e fece segno a Scott di andare.

Io lo seguii, incapace di proferir parola.

Mi sentivo un po' una bimba, ma la sua mano era...

Tutta la situazione era idilliaca.

Tralasciando la parte terrificante, ovviamente.

 

Mi venne in mente la mania della gente di prendermi per mano.

Neir, Erica, Stiles... era anche imbarazzante!

 

Mi guidarono giù per le scale, poi in un salottino arredato in modo semplice.

 

Sul tavolino erano appoggiati vari contenitori di cibo cinese, la maggior parte mezzi vuoti.

 

Il mio stomaco brontolò.

«Siediti, e... mangia, se vuoi.» disse Stiles, mentre Scott si sedeva su una poltrona accanto al divano.

 

Io mi sedetti a gambe incrociate sul divano, scelsi degli spaghetti di soia, delle bacchette e ne mangiai un boccone.

 

Stiles si sedette in parte a me.

«Allora...» cominciò, piagandosi con il busto in avanti e unendo le mani «Chiedi pure.»

 

Io alzai le sopracciglia.

 

«Sul serio? Ok, ma voglio la verità.» appoggiai la scatola degli spaghetti tra le gambe, nello spazio lasciato tenendole incrociate. Contai poi man mano le domande sulle dita «Chi erano quei tipi? Cosa volevano? Cos'è... successo, a Scott? Perché Neir aveva le ali? Perché sono qui e non in una clinica psichiatrica? Perché davvero, Stiles, mi state facendo impazzire. Tu, il tuo amichetto e... tutti gli altri.» riafferrai rabbiosamente la scatola e ricominciai a mangiare, frustrata.

 

I due ragazzi si guardarono.

 

Scott si sporse verso di me dalla poltrona «Aspetta, cosa? Chi aveva le ali?»

 

Io emersi dal mare di spaghetti.

 

«Oh, non le avete viste? Erano enormi.» i due mi guardavano confusi.

 

Stiles prese di nuovo la parola «Un problema alla volta. Allora... Scott è un licantropo. E anche Derek, Isaac, Erica e Boyd.»

 

Incrociai le braccia. «Ah. Licantropi.» le mie sopracciglia erano nuovamente sollevate.

 

Pensavano che fossi completamente rincoglionita?




Take the lamp!

 

Ho aggiornato in anticipo per la seconda volta. Perché? Perché domani non avrei potuto aggiornare, e mi scocciava farlo in ritardo c:

Allora, Emma è un po' traumatizzata... e ha dormito nel letto di Stiles. Dopo essere svenuta tra le braccia di Stiles. *coff coff*

Vabè, spero che vi sia piaciuto! Sinceramente stavo morendo mentre lo scrivevo c'':

Vi mando degli abbraccioni caldi caldi per riscaldarvi in queste giornate fredde,

Sara <3

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Capitolo 11
*** Kumquat. ***


Chapter eleven: Kumquat.

 

 

Il mio sguardo saltava da un ragazzo all'altro.

 

«E voi vi aspettate seriamente che vi creda?»

 

«Sì» risposero in coro, convinti.

 

«Licantropi.» ripetei, scandendo bene la parola.

 

«Sì. Con zanne e artigli.» Stiles avvicinò le mani al viso, piegate, come se fossero degli artigli ricurvi.

 

Più che un licantropo, sembrava un coniglietto.

 

«Mi hai visto, no? Sai che è la verità.» intervenne Scott.

 

E sì, poteva essere vero.
Ma era completamente, assurdamente al di fuori di ogni logica.

Guardai Scott, come aspettandomi che si trasformasse in un lupacchiotto come quelli di National Geographic.

 

«Quindi... ululi alla luna, diventi un grosso lupo cattivo quando è piena, rincorri gatti, ti sporgi fuori dal finestrino e tiri fuori la lingua... cose così?» chiesi, ancora scettica.

 

«Beh, non proprio. Non divento proprio... un lupo “lupo”. Divento... come prima, e ho i sensi super sviluppati. E io... io non ululo, e... no!» sembrava punto nel vivo.

 

«Oh, sì che ululi. Non ricordi...»

 

«STILES? Non aiuti.» lo zittì Scott.

 

«Comunque...» prese la parola il castano, leccandosi prima un labbro, concentrato «Erica, Boyd e Isaac sono nel branco di Derek, che è l'alfa. Per fare un branco, servono un alfa, un beta e altri due membri.» si fermò, per darmi la possibilità di assimilare pian piano le informazioni «In teoria, il branco doveva essere al completo. Aveva promesso che non l'avrebbe allargato. Non sappiamo perché stesse cercando di trasformare anche te.»

 

Alzai una mano per fermarlo.

 

«Voleva cosachiesi, confusa.

 

Parlava prima uno, poi l'altro, come passandosi la palla in una partita di lacrosse. Era evidente che erano amici da tanto tempo, sembravano una persona sola.
A rispondermi fu Scott.

 

«Lui... punta sull'insicurezza delle persone. Sulle loro debolezze. Propone qualità da super eroi, gloria, popolarità. Parla anche dei rischi, però. E propone un patto.» ascoltavo, avida di risposte.

 

Era tutto così... impossibile!
Una parte della mia mente era ancora fermamente convinta che fosse tutto un sogno.

 

«Lui ti morde, e tu entri a parte del suo branco.»

 

Avevo una domanda che insisteva per uscire dalle mie labbra.

 

«Ma tu non sei nel branco di Derek. Almeno, non eri là. Perché?» chiesi.

 

Lui non sembrò sorpreso della mia domanda.

 

«Io... diciamo che ho un altro branco.» e indicò con un cenno del mento Stiles, che gli mandò un bacio in risposta.

 

Scoppiai a ridere, mentre la tensione si scioglieva.
Scott sembrava sollevato del mio cambiamento d'umore.
Pensava forse che avrei tentato di ucciderlo di nuovo con la mia fedele lampada?

 

«Beh, io devo tornare da mia madre. Penso che mi ucciderà. Ne riparleremo oggi pomeriggio, magari, va bene?» disse Scott, alzandosi.

 

Io m'irrigidii.

 

«Oh. I miei. Dovrei essere già tornata...»

 

Stiles mi lanciò qualcosa in grembo.
Il mio cellulare.

Alla festa lo tenevo nella tasca nascosta tra le balze del vestito, sul fianco.
Tentai di non arrossire.

 

«Eri svenuta, sono entrato nel panico e...» Stiles si grattò la nuca «Ho mandato un messaggio a tua madre dicendo che dormivi da un'amica.»

 

Oh.

 

La scusa reggeva abbastanza.
Ed ero anche terrorizzata all'idea di tornare a casa, ora che sapevo.

 

«Io.. beh, dormirò sul divano» disse, arrossendo leggermente.

 

Oh, Giuda ballerino.

Il mio cuore batteva fortissimo.
Avrei dormito ?

Scott ridacchiò.
Ebbi il pessimo presentimento che lui l'avesse sentito.
Super sensi da lupo, insomma.

Da rossa diventai bordeaux.

 

«Vengo verso le due, a dopo ragazzi!» e sgattaiolò veloce fuori dalla porta.

 

Lo odiai.
Io affondai il viso negli spaghetti.

 

«Ehi, hai del sangue sul vestito» commentò il ragazzo, facendomi abbassare lo sguardo. Era vero. E non era mio.

 

Che schifo.

 

«Oh, merda. Me l'aveva prestato...» la frase rimase sospesa a metà.

Cosa avrei fatto con quei vestiti? Come glieli avrei restituiti? Li avrei buttati? Sì, la seconda. Tanto non eravamo già più in buoni rapporti, io ed Erica.

Lui sembrò rimuginarci su.

 

«Ti posso dare un passaggio a casa per prendere qualcosa da metterti...» cominciò.

 

Io scossi la testa «No, i miei mi farebbero restare là, e io... non voglio.» incrociai di nuovo le braccia, involontariamente, in un gesto di auto-protezione.

 

Avevo una paura bestia dei... di quelli là.
E se avessero fatto del male anche alla mia famiglia?
Va bene che non eravamo esattamente in buoni rapporti, ma... non ci odiavamo fino a quel punto.
Lì mi sentivo molto più al sicuro.

Lui tornò a pensare. Lo guardavo, mentre si passava una mano sui radi capelli, cercando una soluzione.

 

«Mh. Beh, ti potrei prestare qualcosa di mio. Certo, ti starebbero larghi i miei vestiti, ma... sempre meglio del sangue di licantropo.»

 

Tornai tesa, al suono di quella parola.
Lui se ne accorse, ma fraintese.

 

«Scherzavo, sono stato inopportuno, scusa, sarebbe strano...» e si alzò.

 

Io raddrizzai la schiena.

 

«Oh, no, hai capito male! Va... va bene.» farfugliai.

 

Imbarazzante.

Vidi la sorpresa nei suoi occhi color nocciola, tendenti al miele grazie all'illuminazione calda della stanza.

 

«Io... vado a farmi una doccia, scegli pure qualcosa dal mio armadio. Quando hai sonno... beh, sai dov'è la stanza.»

 

Terribilmente imbarazzante.

Annuii, lui si alzò ed andò di sopra.
Il mio cuore batteva forte come un tamburo.

Dopo poco tempo, sentii il rubinetto della doccia che si apriva.

 

Non pensare a ciò a cui stai per pensare. Distraiti. Distraiti ORA!

 

Afferrai il telecomando e accesi la televisione, cercando di concentrarmi sul telegiornale notturno.
P
arlavano della festa. Una donna con dei lisci capelli neri stava in piedi con il microfono in mano davanti all'entrata della villa.
Sullo sfondo, si scorgevano dei poliziotti che parlavano con dei ragazzi.

 

«Una festa di Halloween tra teen agers, stasera, si è trasformata in un vero incubo» stava dicendo «Siamo in diretta dal luogo di quella che doveva essere una delle più grandi feste dell'anno. In una stanza della villa è scoppiata una violenta rissa, mentre nelle bevande sono state ritrovate tracce di una droga leggera che induce all'abbandono totale della tensione» forse era quello che avevo bevuto... ma no, non era stato quello, assolutamente no.

 

La tensione ce l'avevo eccome.

 

«Inoltre, la scientifica ha rilevato tracce di una nuova sostanza, potenzialmente tossica, che non è stata però identificata. Vi terremo aggiornati sulla situazione durante la nottata.»

 

Sostanza potenzialmente tossica?

 

Bingo.

Finii gli spaghetti e appoggiai la scatola vuota sul tavolino.
Lasciai accesa la televisione, sperando che il rumore mi tenesse lontana da pensieri... poco opportuni, e salii le scale.
Tornai nella camera di Stiles. Il bagno era proprio accanto.
A passo veloce entrai nella stanza.

 

Cominciamo con la maglia.

 

Aprii il primo cassetto che mi trovai davanti, e feci centro al primo colpo.
Varie t-shirt erano ammucchiate disordinatamente all'interno.
Presi quella che sembrava più stretta, rossa, e me la buttai in spalla.

 

Ora servivano dei pantaloni.
Aprii il cassetto sotto.

 

Boxers.

 

Lo richiusi di scatto, come se contenesse tarantole, e cambiai armadio. Ce n'era infatti un altro, sulla parete accanto.
Avevo ragione: appesi c'erano vari pantaloni.
Ne scelsi un paio di una tuta.

Chiusi la porta, buttai tutto sul letto e mi sfilai il vestito, lasciandolo cadere a terra.
Infilai velocemente maglia e pantaloni e mi guardai allo specchio.

 

Ero a casa di Stiles. In camera sua. Indossavo i suoi vestiti.

E non era un sogno!

 

Alzai lo scollo della maglia e me lo portai al viso.
Il suo profumo era ovunque.

I capelli non mi piacevano. Erano disordinati e crespi.
Il portapenne era ancora a terra.
Rimisi tutto a posto sulla scrivania, poi presi una matita e la usai per farmi uno chignon improvvisato.
Soddisfatta del mio lavoro, scesi di nuovo di sotto, con il vestito in mano.
Presi un sacco della spazzatura, ce lo infilai dentro e lo richiusi, poi lo buttai nel cesto.

Feci appena in tempo a sedermi sul divano e a prendere un mandarino cinese da sbranare che la porta si aprì.

 

«Stiles? Quando sei tornato? Eri alla festa, no? Non ti ho visto...»

 

Oh, merda. Lo sceriffo Stilinski.

 

Me ne ero completamente dimenticata.

Stiles probabilmente aveva previsto che sarebbe rimasto con gli altri agenti alla villa.

C'era qualcosa che quel ragazzo programmava correttamente?

La porta era dall'altra parte del piano terra, rivolta verso lo schienale del divano.

Per un secondo ebbi la tentazione di restare lì accucciata e nascondermi.
Poi, pensai che non stavo facendo niente di sbagliato, in fondo, e forse lui mi poteva aiutare, forse sapeva, e mi voltai verso destra, per sporgermi e farmi vedere.

Lo sceriffo, però, era già accanto al divano, e mi guardava come se fossi un panda su un triciclo.

 

Ops.

 

Mi guardò.
Lo guardai.

 

«Salve, sceriffo.» dissi.

 

Mi guardò.
Lo guardai.

 

«Salve... hem.» non sapeva cosa dire. Neanche io.

 

«Stiles?» chiamò.

 

«È in doccia... signore.» gli dissi.

 

Lui alzò le sopracciglia.

 

Stai zitta, Emma, che è meglio.

 

Sentii un rumore di passi al piano di sopra.
Dopo qualche secondo, uno Stiles con addosso solo i pantaloni del pigiama scese di sotto.
Sul petto nudo luccicavano ancora delle goccioline d'acqua, e i corti capelli erano più scuri, ancora umidi.

Il mio cervello cominciò a ballare la quadriglia, mentre i miei ormoni se ne andavano per i fatti loro.
Per poco non svenni.

 

Bravo, Stiles, davvero. Sei un idiota.

 

«Papà!»

 

Ci guardammo.
Solo in quel momento mi resi conto di come la situazione potesse sembrare.

Eravamo soli in casa.
Indossavo i suoi vestiti.
Lui era seminudo.

Cominciai ad avere tanto, tanto caldo.

 

«Stiles, posso parlarti un secondo... di là?» lo sceriffo indicò la cucina con il pollice.

 

«Certo! Solo un secondo, prendo un...» e fece per prendere il mandarino cinese che restava, nella scatolina da dove l'avevo preso anche io.

 

«Ora, Stiles.»

 

Il ragazzo mi lanciò un'occhiata, poi si alzò e seguì il padre, che lo prese per una spalla e lo trascinò in cucina.

Io restai lì seduta, mentre la giornalista ricominciava a parlare.
L'ultima cosa che mi restava era cominciare a sbucciare il mio mandarino.

 

Sono nella merda. Pensai, mentre me ne lanciavo uno spicchio in bocca.




Spring brakers!


Non c'entra niente, ma AMO tutte le protagoniste di quel film. In più, beh, è il 1 marzo! *O*
Tra poco inizia la primavera! La stagione dei fiori, dei colori, della nascita e del buonumore...
E lo inauguro con questo capitolo, dopo 7 giorni di intenso studio cwc
Vi è piaciuto? Spero di sì! Solo 3 recensioni allo scorso capitolo, sigh.
Questo è più lungo e più "movimentato", quindi spero che vi abbia soddisfatte!
Confesso che anche io ho fatto pensieri non consoni scrivendo del baby Stilinski sotto la doccia HAHAHA
Ok, mi ritiro c':
Un bacione enorme a tutti,
Sara
<3

Ah, per la cronaca, se ve lo siete chieste, il kumquat è il mandarino cinese. Sì, ero a corto di parole con la K. **

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Capitolo 12
*** Love. ***


 

 

 

Chapter twelve: Love.

 

 

Cucina Stilinski.

 

 

 

Suo padre lo teneva per la spalla.
Appena arrivarono in cucina lo lasciò, standogli davanti con i piedi ben piantati a terra, e gli fece cenno di chiudere la porta.

 

«Andiamo, Stiles. Conosci le regole!» disse, incrociando le braccia, con sguardo esasperato, ma comunque con un sottofondo di sorpresa.

 

«Scusa non ricordo, potresti rinfrescarmi la memoria?» chiese il ragazzo, stringendosi nella spalle.

 

Lo sceriffo alzò gli occhi al cielo.

 

«Niente ragazze in casa se siete soli. O almeno non senza avermelo chiesto, o avermi avvertito!» nonostante le parole di rimprovero, sembrava lievemente divertito.

 

«Era importante.» si giustificò Stiles, mentre s'inventava una scusa che reggesse per la presenza della ragazza in casa.

 

L'uomo sospirò.

 

«Oh, beh, immagino.»

 

Lanciò uno sguardo alla porta della cucina, chiusa, e abbassò la voce.

 

«Almeno...» cominciò, tenendo lo sguardo basso, imbarazzato «Avete usato... sai...» emise un lieve colpo di tosse «le... protezioni?»

 

Il liceale sbarrò gli occhi.

 

«Oh mio Dio, papà! Noi non...» farfugliò, ad alta voce, gesticolando ampiamente. Poi abbassò anche lui il tono della voce, perché lei non li sentisse «Lei non... no! Papà, no!»

 

Lo sceriffo si raddrizzò, con un altro colpetto di tosse.

 

«Oh, beh, pensavo... sai, i vestiti, e tu senza...» borbottava. Poi rise «Oh, non fa niente.»

 

Stiles si grattò il collo.
Questo genere di conversazione padre-figlio non era mai stato affrontato con scioltezza.

 

«Ma... ti guardava in un modo, pensavo...» no, non sembrava voler rinunciare all'affrontare l'argomento.

 

«È impegnata? Perché... non sembrava, sai.» tentò ancora. Non sapeva come fargli capire cosa intendeva senza essere troppo esplicito.

 

Il ragazzo era confuso.

 

«Cosa intendi?» chiese, con un cipiglio confuso.

 

Lo sceriffo aveva in viso un'espressione incredula e divertita allo stesso tempo.

 

«Cosa intendo? Figliolo, ti mangiava con gli occhi!»

 

Stiles, sorpreso, arrossì.

 

«Mi... cosa?»

 

L'uomo rise. Si appoggiò con il profilo al muro «è carina.»

Stiles si schiarì la voce.
Era lui quello più imbarazzato, ora.

 

«Beh, penso di sì.»

 

Lui aveva sempre pensato a Lydia.
Solamente a lei.
Ogni altra ragazza veniva oscurata dalla sua presenza.
Ma ne valeva la pena?
Valeva davvero la pena di torturarsi così, per una che non l'avrebbe mai amato?
Stiles sapeva benissimo che non ce l'avrebbe mai fatta, a conquistare la rossa.
Lei amava Jackson.

Ma era davvero sicuro di amarla?
Sì, la cercava da anni.
Ma era davvero innamorato di lei, o rincorreva semplicemente un sogno?
Era amore, o solo una sbandata molto lunga?

Si sentiva così stanco.
Stanco di amare senza essere ricambiato.
Stanco di fare da dog sitter a quei lupacchiotti, tenendosi strette le piccole cose della vita quotidiana che gli ricordavano cos'era normale, da umani e cosa no.
Stanco di cercare risposte e non trovarle.

Poteva provare... provare a starle un po' più vicino.
E forse, qualcosa avrebbe potuto nascere.

Sì, poteva essere felice anche lui, per una volta.
Ne aveva il diritto, no?E beh, sì, pensandoci, Emma era carina.

Ed era nell'altra stanza.

 

Forse doveva soltanto lasciarsi un po' andare, lasciarsi trasportare dalla corrente e vedere cosa succedeva.

Poi, una vocetta maligna gli ricordò del ragazzo alla festa.
Quel belloccio biondo che l'aveva sollevata in aria.
E se ci fosse stato qualcosa, tra i due? Se avesse capito troppo tardi?

No, non poteva darsi per vinto ancora prima di iniziare.

 

 

Salotto Stilinski.

Emma.

 

 

 

 

Mi martoriavo con i denti il labbro inferiore, nervosa, mentre un borbottio confuso veniva dalla cucina.
Non sapevo come funzionavano queste cose, tra uomini.

Insomma, se fosse successo a casa mia probabilmente Stiles si sarebbe beccato un colpo di pistola in testa, ma... io ero una ragazza.
Stiles un ragazzo.

 

Ma dai? La vocina nella mia testa si ripresentò.

 

Ebbi la tentazione di andare alla porta e origliare, ma la soppressi.

Un'ombra sfrecciò veloce davanti alla finestra del salotto.
Saltai in piedi, spaventata, mentre già aprivo la bocca per chiamare Stiles.

Proprio in quel momento, i due uscirono dalla cucina.

Stiles non si era ancora infilato una maglietta.
Un brivido mi scrollò ancora.

 

«Beh, Emma...» cominciò lo sceriffo «Mi dispiace non averti dato un'accoglienza proprio educata, ma sono molto stanco, e quando lo sono divento scorbutico. Potrò rimediare, domani mattina?» mentre parlava sorrideva, gioviale.

 

L'atmosfera si era decisamente capovolta.
Cosa gli aveva raccontato Stiles?

Annuii.

 

«Ehm... Buonanotte, signore.»

 

«Buonanotte» disse infine, sorridendo, e salì le scale.

 

Guardai Stiles.

Mi alzai, e cominciammo simultaneamente a borbottare, fino a che ci fermammo e cominciammo a ridere.

 

«Ti spiego domani.» mi disse, sussurrando.

 

Io annuii.

 

«Beh, io...» sussurrò, guardando prima me e poi il divano.

 

Gli intralciavo la strada.

 

«Oh!» andai verso la scale, in modo di lasciargli libero il passaggio tra il tavolino pieno di scatole vuote di cibo e il divano. «Scusa.»

 

Lui ridacchiò ancora.

 

Poi si sedette sul divano, guardandosi attorno.
Quando trovò ciò che cercava, una coperta sottile, se la sistemò sopra le gambe.
Aspettava che me ne andassi.

 

«Sei sicuro? Cioè, non sembra comodissimo...» ogni scusa era buona per restare un po' di più con lui.

 

Lui fece spallucce.

 

«A meno che non vuoi che dorma con te...» e mi strizzò l'occhio.

 

COSA?

 

Poi capii.
Scherzava.
Ovviamente.

Troppo tardi, costrinsi una risatina nervosa a uscire.

 

«Buonanotte» dissi, per poi praticamente scappare su per le scale.

 

Entrai nella stanza, chiusi la porta, mi sciolsi i capelli e mi buttai sul suo letto.

Era tutto complicato.
Come avrei fatto con Stiles?
Lui era così... irraggiungibile.
Ogni volta che ci avvicinavamo un po', per un motivo o per l'altro venivo letteralmente strappata via da lui.
A volte in senso non solo figurato.

Mi raggomitolai nel lenzuolo: profumava di lui. Come tutto, lì.
Una tristezza profonda mi assalì.

Non sarei mai stata il genere di ragazza che piaceva a uno come lui.
Una ragazza come Lydia.

Ero combattuta tra lo scoppiare in lacrime, incazzarmi e scoppiare a ridere.
La situazione era... bizzarra.
Per non ride un grandissimo casino.

Mi morsi il labbro.
Avevo bisogno di gridare.
Buttare fuori tutta la tensione emotiva che mi stava divorando dall'interno.
Era troppo, per me.
Forse era troppo per qualunque essere umano.


Ops.


Essere umano?


Non ero più sicura di chi fosse umano e chi no, e di cosa significasse realmente.
Mi morsi il labbro più forte.

Tirai un pugno al cuscino, esasperata.

Quando rilassai la mascella e mi leccai il labbro screpolato, mi accorsi che me l'ero morso talmente forte da farne uscire il sangue.
Lo strofinai via con la mano, sperando di non macchiargli il cuscino.

 

Davanti a casa Stilinski, qualcuno, nascosto all'ombra di un albero, sentiva l'odore del sangue.
Inspirandolo profondamente, valutava il da farsi.
Ne valeva la pena?

Sì.

Aveva bisogno del suo aiuto, se voleva vincere.

Aveva bisogno del suo asso nella manica.

La sua malaikat.

 


OMG, who's the bad guy?

Ciao a tutti!
Non ricordavo se avevo postato giovedì o venerdì, quindi potrei essere un giorno in anticipo... ma lasciamo stare.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi abbia fatto almeno sorridere (sì, dico soprattutto a te, Silver_17!)
Questi giorni sono INFERNALI, e trovo pace solo stando qua su efp! Grazie a tutti quelli che continuano a leggere le mie modeste Fan Fiction, grazie davvero <3
Sono felice del fatto che vi siete "ripresi", avevo paura che con quelle sole 3 recensioni del capitolo scorso-scorso (?) mi steste dicendo che vi eravate stufati... e invece no, siete ancora qua. Vi voglio taanto bene!
No ma... il discorso dello sceriffo. Cioè, e io a ridere come una rincretinita mentre lo leggevo! Ricoveratemi, oddio.

Adesso corro a finire il capitolo dell'altra FF che ho in cantiere, altrimenti posterò in ritardo!

Tante ma tante coccole,
Sara <3

P.S. Sta per entrare in scena un nuovo personaggio, da come avrete capito... come se le cose non fossero già complicate, eh? Per sapere come andrà a finire... restate con noi! *sigletta*

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Capitolo 13
*** Malaikat. ***


 

Chapter thirteen: Malaikat.

 

Canzone consigliata:
Ed Sheeran / Little bird




6 ottobre 1028.
Inghilterra.

 

Ero al centro di una piazza. Mi sembrava quasi di essere dentro una bolla. I suoni mi arrivavano alle orecchie come ovattati. Ero in braccio a qualcuno, ero piccola e mi sentivo vulnerabile. Ero una bambina. Avevo cinque anni. Come lo sapevo? Lo sapevo e basta.
La persona a cui ero in braccio, una donna, urlava. Chiamava aiuto. Ma aiuto da parte di chi? Tutti ci guardavano con disprezzo, e io volevo proteggerla, perché... perché...
Sbattei contro un muro mentale. Quell'informazione non mi arrivava.
Che vestiti strani che indossavano, quelle persone. Che colori spenti, che aspetto... antico. Sembravano venire dall'epoca medievale.
D'un tratto la bolla scoppiò, e le mie orecchie furono ferite dai forti rumori.
Me le tappai con le manine.
Urla.
Accuse.

«Amante di Satana! Figlia degli inferi!» urlava un uomo con una pala in mano, e fece per avvicinarsi. Era vecchio. Mi faceva paura. Mi strinsi tra le braccia della donna, stringendo con la manina un lembo della sua veste e affondandoci il viso. Profumava di buono. L'atmosfera cambiò, sentii il suo battito cardiaco accelerare.
Alzai lo sguardo.
Un uomo si era frapposto tra noi e lui.
Il contadino indietreggiò di un passo, travolto dalla codardia, rimescolandosi alla folla.
Aggredire una donna e una bambina andava bene, ma affrontare faccia a faccia un uomo con dignità no?

Qualcosa li spaventò a morte.
Me ne accorsi perché saltarono indietro tutti simultaneamente, come scottati.
Non capivo perché.
Poi il mio sguardo si posò sull'uomo che ci aveva protette.
Due enormi, splendide ali bianche e piumate gli erano comparse sulla schiena, squarciando la camicia logora che lo copriva. Erano talmente candide che guardarle faceva male agli occhi.
Erano bellissime.
Venni posata a terra e trascinata all'indietro, tirata per la manina.
Ero in quel corpo, ma non potevo comandare i movimenti né i pensieri...
Era frustrante.
Vidi le mie braccia allungarsi verso la donna, protestando, volevo (o meglio il mio corpo voleva) essere ripresa in braccio.
Ma lei scuoteva la testa, e piangeva, piangeva disperatamente.

«Malaikat! Vai con tuo padre, tesoro. Vai con tuo padre!»

Padre?
Avevo freddo, tanto freddo.

«Malaikat! Obbedisci, per una volta! Corri da tuo padre!» e io lo feci. Corsi verso l'uomo. Lui mi prese in braccio al volo e guardò la donna. Mi stringeva forte contro il suo petto caldo, bollente.

«Ti amo, Margareth! Ti amo!» sentii un forte spostamento d'aria, e venni sbalzata in alto.

Vidi la donna, la folla e la piazza allontanarsi sempre di più.
La gente urlava.
Quando ormai erano piccoli puntini scuri al centro del gruppo di case, li vidi mentre la circondavano, e poi non la vidi più.
Sentii qualcosa che mi punzecchiava la schiena, all'altezza delle scapole, facendomi male.
Il petto dell'uomo era scosso dai singhiozzi.
Le lacrime vorticavano nel vento.

Malaikat!”

Di chi era quella voce? Cosa significava?

Malaikat!”

 

Quando mi svegliai, il cuscino era bagnato fradicio.
Mi strofinai via le lacrime con il dorso della mano.
Tirai su con il naso e mi guardai attorno.
Ero a casa di Stiles, giusto.

Scivolai giù dal letto, barcollante e confusa da quel sogno così strano e vivido.
Aprii la porta, e un profumo delizioso di pancakes mi fece brontolare la pancia.
Spostai i capelli dietro le spalle e scesi le scale.

Padre e figlio erano già a tavola.
Lo sceriffo era in piedi davanti ai fornelli, il ragazzo apparecchiava il tavolo con piatti e posate.

 

«Buongiorno, principessa!» esclamò Stiles, sorridente e fischiettante.

 

Quel semplice saluto mi fece avvampare le guance di rosso.

 

«Buongiorno!» risposi, andandomi a sedere a tavola.

 

Gli altri due mi imitarono, posando sul tavolo ogni tipo di sciroppo e condimento possibile per quella colazione.
Quando lo sceriffo stappò il contenitore del cioccolato, il figlio gli lanciò un'occhiataccia,

 

«Papà.» lo ammonì, strappandoglielo di mano e piazzandogli davanti il barattolo del miele, più sano.

 

L'uomo borbottò qualcosa in protesta, ma finì per accettare lo scambio.
Io mi accontentai dello sciroppo d'acero, versandone una piccola dose sulla deliziosa e morbida colazione.
Il mio stomaco brontolò di nuovo.

Cominciammo a mangiare, sorridenti, lanciandoci ogni tanto tutti e tre delle occhiate lievemente imbarazzate.

 

«Allora... oggi è domenica. Niente scuola. Che programmi avete?» chiese lo sceriffo, dopo aver deglutito un bel boccone di pancakes.

 

Guardai Stiles.

 

«Oh, tra qualche ora verrà qua Scott a prenderci, poi... faremo un giro, forse al bowling.»

 

Bowling?

 

Aveva la benché minima idea di quanto potessi essere pericolosa con una palla da bowling in mano?
Sia per me che per la gente attorno?

Notando che mi ero fermata con la forchetta a mezz'aria, Stiles mi guardò.

Dal suo sguardo capii che non saremmo affatto andati al bowling.

E io avevo in mente una destinazione precisa, a cui avrei dato la priorità assoluta.

 

Neir.

 

 

 

 

 

 

 


Io, Stiles e Scott camminavamo sul marciapiede, parlando a mezza voce.
Io ero in mezzo, Stiles dalla parte delle case e Scott con un fianco rivolto alla strada.
La formazione aveva il preciso obiettivo di proteggermi.

Ma proteggermi da cosa? Da chi?
Di chi mi potevo fidare?

 

«Allora... cosa gli chiederai, appena arriveremo a casa sua?» chiese Scott, alla mia destra, con le mani nelle tasche della giacca.

 

Io mi strinsi nelle spalle.

 

«Oh, non so, qualcosa tipo... “Hey, hai presente quando mi hai salvato la pelle dai licantropi e ti sono spuntate delle ali sulla schiena? Mi spiegheresti come diavolo è potuto succedere, visto che questi due non lo sanno?”» ironizzai, gesticolando.

 

Scott sbuffò.

Non avevo ancora raccontato a nessuno del mio sogno, visto che non mi sembrava particolarmente importante.
In fondo, poteva essere soltanto un insieme di immagini confuse elaborate dalla mia mente dopo lo shock.
Immagini viste poche ore prima inserite a caso in un contesto immaginario.
Tipo le ali.

Rabbrividii.

 

«Che casa è?» chiese ancora Scott, guardandosi attorno.

Io mi fermai.
 

«Beh, non lo so. So solo che abita in una di queste case.» ammisi.

 

Scott aggrottò la fronte.

 

«Dicci il suo cognome, almeno, così lo cerchiamo sulla targhetta...» si fermò, vedendo la mia espressione.

 

«Ok, allora come cavolo lo troviamo? Suoniamo a tutte le porte e chiediamo di un ragazzo-uccello?» esclamò, visibilmente preso in cotropiede.

 

Si aspettava che avessi un piano.
Una minima pianificazione di ciò che avrei fatto e detto una volta oltrepassata la soglia di casa Stilinski.
Ma non ero mai stata proprio un asso nel progettare.

 

«Non ti mettere a ululare, adesso. Troveremo una soluzione.» lo schernii, dandogli una spintarella con i fianchi.

 

Lui rimbalzò un po' un là, sorpreso, poi sorrise e scosse la testa.

 

«Guida tu, allora.» e con un gesto ampio della mano a indicare il quartiere un mezzo inchino mi sbolognò la responsabilità della riuscita o del fallimento della “spedizione”.

 

Stiles era stranamente pensieroso.
Incrociai il suo sguardo e, in una domanda muta, gli chiesi cosa gli prendesse.

Lui fece di no con la testa, ficcò le mani nelle tasche dei jeans e riprese a camminare.

Guardò la casa dall'altra parte della strada, scrutando le finestre, aggrottò la fronte e parlò.

 

«Per caso, il tuo amichetto non sa cos'è una maglietta e si allena in palestra?»

 

Lo guardai come se stesse delirando.

Poi seguii il suo sguardo.

Una finestra al piano di sopra aveva le tendine spalancate, e Neir si vedeva anche da là, a petto nudo, fermo a pochi passi dalla finestra, voltato di profilo.

Arrossii, imbarazzata da quella vista, e marciai fino alla casa.



My little bird!

Ok, eccomi qua, puntuale come sempre u.u
Vi è piaciuto il capitolo? In teoria, la seconda parte (quella separata dallo spazio) doveva essere l'inizio del prossimo capitolo, ma hodeciso di allungare un po' questo e accorciare l'altro, così sono lunghi uguali :)
In questi giorni sono completamente fuori uso: domani escono le date di Taylor Swift del Red Tour! Non sto più nella pelle, da Swiftie che sono <3 (so che non c'entra niente, ma dovevo condividerlo con voi meraviglie, lol)
In più, oggi ho incrociato per i corridoi il ragazzo che mi piace, quindi sono ancora più felice *O*
Ma avete visto? 78 RECENSIONI! Wow, io vi adoro. Non avete idea di come m'illuminate ogni volta **
Nel prossimo capitolo ci saranno degli sviluppi che daranno il via a "una serie di sfortunati eventi", quindi... restate con noi! *sigletta*
Sì, ce l'ho su con questa "sigletta". Devo ricoverarmi, lo so.
Grazie per aver letto, siete djskfhsd.
Un bacione,
Sara <3

p.s. Vi siete intrippate ancora di più sulla parola "Malaikat"? HAHAHAHAHAHA i know, sono cattifa ewe
Saprete tutto, abbiate pazienza... *risata malvagia*

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Capitolo 14
*** Neir. ***



Chapter fourteen: Neir.




Ero vestita in modo più appariscente del solito: un paio di leggings neri con sopra un paio di pantaloncini, una maglia a maniche lunghe arancione con stampo semplice e sopra una giacca di finta pelle nera. Cercavo di farmi notare da Stiles, ovviamente. Per essere novembre, le temperature erano ancora stranamente tiepide.

Ai piedi avevo le mie fedeli scarpe da ginnastica, e sulla spalla una borsa nera con delle borchie, regalatami pochi mesi prima da mia madre.

I due ragazzi mi avevano dato uno strappo veloce a casa con la jeep di Stiles, dove mi ero lavata per bene, vestita, avevo passato un filo di trucco ed ero uscita di nuovo di casa, con i due che mi aspettavano sul vialetto.

Ai miei genitori non avevo spiegato niente, né perché mi avessero accompagnata quei due né perché indossassi quei vestiti.
Avevo accennato a un certo fratello della mia amica (entrambi immaginari) ed ero volata di nuovo fuori.

Suonai al campanello, con i due dietro di me.

La madre di Neir aprì la porta.

 

«Emma?» mi guardò sorpresa, con un sorriso cordiale in volto, lisciandosi il grembiule. Stava cucinando? Sembrava appena uscita da una serie tv degli anni cinquanta.

 

«Ehm, sì, signora. Neir è in casa?» vidi il suo sguardo trapassare Scott da un lato all'altro, mentre ignorava completamente Stiles.

Sembrava ci fosse abituato, però.

 

«Oh, certo, te lo chiamo subito.» si scostò dalla porta, in modo da lasciarci liberi di entrare «Entrate, su! Stavo facendo il thè! Ho preparato anche un dolce, vedrete che buono...» io obbedii, mentre i due mi seguivano.

 

La casa aveva un arredamento semplice ma grazioso, in cui era evidente il tocco femminile. Un centrino qua, una statuetta di una fatina là.
Completamente diversa da casa Stilinski.

Mi diressi verso il divano che intravedevo dall'entrata, mentre la donna saliva le scale.

Mi sedetti sui morbidi cuscini in ciniglia, al centro del divano.

I due mi affiancarono di nuovo.

 

«Ok, mi state irritando ora.» Scott stava per rispondere, ma la donna tornò.

 

«Mi spiace ragazzi, ma lascia salire soltanto Emma. Credo che dovrete aspettare qua, se non vi dispiace...»

 

Col cavolo.

 

Cercai aiuto nei due cani da guardia che avevo accanto, che mi fissavano.

Non sapevano che fare.

 

«La aiuto con il thè?» Stiles si alzò e trottò in cucina, seguito dalla donna evidentemente preoccupata che facesse disastri.

 

Scott mi fece voltare verso di lui, prendendomi per le spalle «Se ti serve qualcosa, se vuoi andartene, qualunque cosa, dillo. Ti sentirò.»

 

Annuii.

Super udito, giusto.

Mi alzai e mi avviai incerta verso le scale.

Il primo scalino scricchiolò leggermente sotto il mio peso, come nei film horror.

Salii gli altri velocemente, e al piano di sopra vidi tutte le porte chiuse tranne una.

Una band che non conoscevo suonava in sottofondo una musica soft rock. Mi affacciai sulla stanza: la camera di Neir aveva le pareti azzurre, tante finestre e un letto matrimoniale al centro, contro la parete.

Lungo i muri c'erano una grossa libreria ricolma di libri e una scrivania.

Neir era seduto sul letto, curvo su se stesso, le mani giunte e le gambe leggermente divaricate. Si era messo una maglietta.

Quando feci un passo a sinistra per spostarmi davanti alla porta aperta, lui alzò la testa con uno scatto.

Sembrava notevolmente sorpreso.

 

«Pensavo che mia mamma avesse le allucinazioni» disse, alzandosi e camminando verso di me.

 

Io feci qualche passo indietro, fu più forte di me: sfiorai con la schiena la ringhiera delle scale e mi fermai.

Lui strinse i pugni, agitato, poi tornò indietro, ma non si risedette.

 

«Scusa. Io...» si passò una mano tra i capelli «Non volevo spaventarti, sai, con...»

 

Mi guardò, ansioso. Io ero ancora indecisa.
Non sapevo se fidarmi di lui.
D'un tratto, il mio piano improvvisato faceva ancora più schifo.

Tornai sulla soglia della stanza.
Quando capì che da me non avrebbe ottenuto altro, sospirò e si risedette sul bordo del letto, in fondo.

 

«Forza. Impazzisci.» allargò le braccia, poi le lasciò ricadere.

 

Non capivo.

 

«Urla, sfogati, prendimi a pugni. Sono stato un'idiota. È tutta colpa mia, lo so. Ma io... non sapevo che sarebbe successo.» si torturava le mani, stringendole convulsamente. «Non volevo che soffrissi. Non eri pronta. Ma lui no, ha dovuto farlo. Non mi ha ascoltato. Nessuno mi voleva ascoltare.» parlava velocemente. E io non capivo assolutamente nulla.

 

Poi aggrottò la fronte e arricciò il naso.

 

«Come... tu profumi.» lo disse come se fosse una cosa fuori dal mondo.

 

Strabuzzò gli occhi.

 

«Sei ancora umana.» non mi lasciava il tempo di aprire bocca «Sei UMANA!» esultò, saltando di nuovo in piedi.

 

Poi sbiancò.
Sembrava che avesse visto un fantasma.

 

«Devi andartene. ORA!» marciò verso di me.

 

Spaventata per l'ennesima volta, indietreggiai fino ad andare a sbattere contro il muro.
Mi prese per il polso.

Fui sul punto di chiamare aiuto, chiedere a Scott di venirmi a prendere all'istante, che un forte fracasso si propagò dal piano di sotto.

Vidi i muscoli della sua mascella tendersi, e capii che stava digrignando i denti.

Mi lasciò il polso e feci per sgattaiolare verso la porta, ma lui si spostò ancora qualche centimetro più avanti, schiacciandomi contro il muro.
Ci separava solo un soffio.
Trattenni il respiro.

Si stava togliendo la maglietta?

 

«Neir? Che diavolo stai facendo?» chiesi.

 

Lanciò la maglia sul pavimento e mi avvolse la vita con un braccio, portandomi verso la finestra.

 

«Non fare domande! Ti spiegherò dopo.»

 

Capii qualcosa.
Dovevamo andarcene di lì.
Perché restando eravamo in pericolo.

Stiles e Scott erano di sotto.

Qual'era il pericolo maggiore?
Neir o qualunque cosa ci fosse di sotto?

Cercai di scivolare via dalla sua presa, ma mi teneva stretta.

 

«No! Stiles! Scott!» esclamai, prima che mi tappasse la bocca.

 

«Zitta! Ti prego!» spalancò la finestra e mi prese per i fianchi, sollevandomi e appoggiandomi sulla tettoia.

 

Sentii dei passi salire le scale di corsa.
Molti passi.
Di molte persone.
Molto veloci.

Neir si aggrappò al davanzale proprio mentre un uomo entrava nella stanza con una balestra in mano, e gli sparava una freccia nel collo.

Lui sbarrò gli occhi, boccheggiò e crollò a terra, immobile.

Urlai, mentre l'uomo si avvicinava alla finestra.

Valutai la possibilità di lanciarmi giù dal davanzale, mentre arrivavo sul bordo.

Era un salto di sei metri circa.
Sarei sopravvissuta? Sì.
Quante ossa mi sarei rotta? Sarei stata in grado di proseguire?

Mi lanciai un'occhiata alle spalle.
Era salito sul davanzale.

Guardai di sotto: c'era Scott, circondato da una decina di persone. Tossiva, respirando affannosamente. Da dove erano spuntati?

Lo vidi alzare lo sguardo.
Mi avrebbe presa al volo?

Feci il passo nel vuoto.
Mi tolse il fiato, e mi sentii persa, come quando sali una scalinata e non ti accorgi che gli scalini sono finiti, e il tuo piede rimane sospeso nel nulla.
La mano dell'uomo afferrò l'aria.

Sentii il colpo, ma non mi ruppi niente. Come avevo sperato, Scott mi aveva afferrata.

Forse potevamo scappare.

Mi alzai, lui mi prese per in braccio e saltò, sorpassando la cerchia di persone e arrivando in strada.

 

Stiles.

 

Mi appoggiò a terra e cominciò a correre per la strada, barcollando, come ubriaco, ma io non ce la feci.
Dov'era?
Mi guardai attorno, stordita.

Poi lo vidi.

Due uomini lo tenevano per le braccia, costringendolo in ginocchio, nel giardino di Neir.

Scott mi afferrò di nuovo per la maglia, per farmi correre.

 

«Lo prendo io! Vai!» urlò, mentre mi spingeva con forza verso la strada e si scagliava goffamente contro due uomini, strappandogli di mano degli oggetti che non riconobbi. I suoi occhi lampeggiavano di giallo.

 

Mentre mi voltavo, vidi uno degli uomini del giardino puntarci con la balestra e tirare due frecce, precise contro di noi.
Caddi a terra, paralizzata, mentre tante persone parlavano e correvano, e dei furgoni neri parcheggiavano in strada.




M.I.B= Man In Black!


Eccomi tornata, puntuale (quasi) come sempre! Ho ritardato solo di qualche ora, su u.u
Allora, chi sono questi qua? Perché sono così tanti? Cosa vogliono da Emma? Cosa c'entra Neir con tutto questo?
Ma soprattutto: PERCHE' NEIR SI E' RIMESSO LA MAGLIETTA?
Tutto nella prossima puntata di Wolfero (??)
E' stata una settimana difficile, capitemi! c":
Sappiate che vi voglio veramente bene, siete tutti fantastici: ogni giorno aumentano le visualizzazioni e le recensioni! kjdsjkfjdhdk.
<3
Il prossimo capitolo lo metterò domenica o lunedì, vedremo! 
Non vedo l'ora che arrivi giovedì: andrò a Milano! Visiteremo la città, il planetario, un museo... che figata.
(Abito a un'ora da Milano e non ho mai visto il Duomo, ma vi rendete conto?)
Un abbraccione,
Sara
<3

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Capitolo 15
*** Oliver. ***


Chapter fifteen: Oliver.

 

 

«Buongiorno, principessa!» una voce maschile e allegra mi svegliò.

 

Spalancai gli occhi.

 

Era la stessa cosa che mi aveva detto Stiles quella mattina.
Mi venne voglia di sferrare un pugno spaccando una mascella.

Ero seduta su una sedia dura e scomoda, mezza scivolata verso il basso.
Raddrizzai la spina dorsale dolorante, appoggiandola per bene contro lo schienale della sedia.

Strizzai gli occhi, scrutando nella penombra: la stanza in cui mi trovavo era piccola, con una sola finestra che la illuminava debolmente. Forse era prima mattina, o tardo pomeriggio.

 

C'era qualcuno, davanti a me.

 

Incrociai le braccia, con muta sorpresa: non ero legata.
Perché?
Cosa stava succedendo?
Chi erano quelli? Scagnozzi di Derek?
No, no. Era assurdo.

 

«Mi dispiace per la rozzezza, ma era l'unico modo. Spero non mi considerai subito un cafone.» disse. Era seduto di fronte a me, chino in avanti, e mi osservava.

 

Aveva i capelli neri e ordinati, gli occhi verde scuro e la pelle chiara.
Gli diedi una trentina d'anni, o poco meno.

Parlava in modo strano, educato, come se fossimo a un colloquio di lavoro.

 

«Chi sei? Dove sono i miei amici?» chiesi, nervosa e spaventata.

 

L'ultima volta che li avevo visti, Neir era svenuto, Scott quasi soffocato e Stiles immobilizzato.

E se gli avessero fatto del male?

Strinsi i pugni.

 

Non fare domande stupide. Fatti vedere spavalda, sicura. La vocina nella mia testa, dopo tanto silenzio, tornò a farsi sentire.

 

«Oliver Silver. Piacere.» sorrise e mi tese la mano.

 

La guardai con disprezzo, e lui la tirò indietro, senza però smettere di sorridermi.

 

«Oh, come vuoi.» raddrizzò la schiena e si leccò le labbra «I ragazzi sono al sicuro. Non li abbiamo toccati.»

 

Il sollievo mi assalì. Non volevo credere che mentisse.
Stavano bene.
Mi fissava, come se potessi trasformarmi in Hulk da un momento all'altro.

 

«Vi ha mandati Derek? Ho già detto di no. Non sono interessata!» risposi secca, mentre la stanza cominciava a girare.

 

Avevo perso i sensi troppe volte per i miei gusti in quel periodo.
Non mi faceva affatto bene.
Non avrebbe fatto bene a chiunque.
Avevo bisogno delle mie pillole.

Strizzai le palpebre, aspettai che la testa smettesse di girare e li riaprii.
Lui era ancora lì, immobile, ma l'espressione era cambiata.
Sembrava confuso.

 

«Derek? Derek Hale?» chiese. Poi rise. «Oh, no. Certo che no. Siamo... dell'altra squadra, più o meno» e mi strizzò l'occhio.

 

Derek Hale.

 

Ecco chi era. L'uomo indagato per le morti...
Ma era stato scagionato, giusto?
Non era lui il responsabile.

 

«Che squadra? Qualcuno vuole spiegarmi qualcosa? È terribilmente irritante, quando la gente intorno a te ti parla di cose che non capisci, e pretende che tu sappia tutto... io sto per impazzire!» esplosi, affondando le dita tra i capelli. Ero sull'orlo di una crisi di nervi.

O forse la crisi era già in atto.
Forse ero già pazza.

Lui si schiarì la voce.

 

«Su, non è il caso di comportarsi così» il tono era quasi quello di un rimprovero.

 

Sì, gli avrei rotto il naso volentieri.

Digrignai i denti e scattai in piedi.
Lui non batté ciglio.

Mi voltai e mi indirizzai verso una porta, aspettandomi di essere seguita. Niente, non si muoveva.
Afferrai la maniglia e la abbassai. La porta non si mosse.

La strattonai con più forza, ma non funzionò.
Ovviamente era chiusa a chiave.

 

«Mi dispiace, non posso lasciarti andare. Prima devi rispondere a delle domande.» mi disse, stando là seduto. «Ti sarei molto grato se tornassi a sederti» e m'indicò la sedia.

 

Io incrociai le braccia e mi appoggiai alla porta, piantando per bene i piedi a terra.
Non mi sarei mossa per nulla al mondo.

Lui alzò gli occhi al cielo.

 

«Teen agers.» soffiò, esasperato. Si alzò anche lui, standomi però a debita distanza.

 

«Come ti dicevo, mi serve che tu mi chiarisca qualche dubbio.» disse, sorridendomi in modo incoraggiante «Derek Hale, che tu stessa hai nominato, ti ha... proposto qualcosa, giusto?» chiese, con un singolo gesto della mano, un ricciolo nell'aria «Cosa, precisamente?»

 

Mi fissava, squadrandomi dalla testa ai piedi e ritorno.

 

«Voleva...» cominciai. Volevo risposte, e lui sembrava sapere esattamente ciò che stavo per dirgli. Quindi, forse sapeva anche qualcosa che io stessa non conoscevo. Ne ero quasi certa. «come si dice... Umh.» quella parola pizzicava contro la lingua, non mi era ancora familiare, con quel significato «Trasformarmi.»

 

Lui annuì.

 

«E non l'ha fatto. Perché?» non volevo rispondere a quelle domande. Mi mettevano a disagio. E volevo vedere i miei amici.

 

«Gli ho detto di no.» risposi, secca. Il suo sguardo passò dalla curiosità a qualcosa di strano, luccicante. Incredulità? ...Stima?

 

«Notevole!» esclamò, mentre un largo sorriso gli spuntava in viso.

 

«Perché? Perché rifiutare quei doni? Quel potere?» potere. Lui ne era bramoso. A quella parola, mi aspettavo di vederlo sbavare come un cane davanti a un osso.

 

Non sapevo cosa rispondere. Feci spallucce.

 

«Non sono interessata.» Balle. M'interessava. Ma non volevo diventare così. Il potere ha sempre un prezzo, e io non ero disposta a pagarne uno così grande. E poi, la vita in compagnia (o meglio, in branco) non mi era mai piaciuta. Nonostante mi crogiolassi nell'autocommiserazione, la solitudine mi coccolava.

Da sola, non avevo capi, comandi, limitazioni.
Ma neanche legami profondi, o persone da proteggere.

Lui scosse la testa.

 

«Scusa, non è di questo che dovrei parlarti. Sto terribilmente divagando.» sorrise ancora. Che uomo strano.

 

«Il punto è questo: tu hai qualcosa che Derek Hale vuole.» si avvicinò. «Ma cosa?» allargò le braccia, teatralmente. «Devi solo dirmelo. Poi potrai tornare dai tuoi cari. Tutto tornerà alla normalità, e sarai protetta. Ma prima devi dirmelo. Semplice, no?» annuì alle sue stesse parole «devi solo parlarmene.»

 

Non gli credevo affatto. Ma comunque non faceva nessuna differenza. Non lo sapevo nemmeno io, cosa voleva da me. Scott me l'avrebbe detto, se l'avesse saputo.

 

«Non lo so.» dissi, e ficcai le mani nelle tasche dei pantaloncini.

Volevo sembrare piccola piccola, innocua.

Lui s'irrigidì.

 

«Come, non lo sai? Non ti hanno detto niente?» era rigidamente cordiale. Inquietante.

 

Ogni fibra del mio corpo mi gridava di andarmene.
Ma dove? Come?

Feci di no con la testa, e lui strinse le labbra.

 

«Non è una bella cosa mentire, sai?» disse.

 

Io non mi aspettavo quella reazione.

 

«Non sto mentendo!» esclamai, schiacciandomi contro la porta.

 

Lui sospirò.

 

«Peccato. È un vero peccato.» rispose.

 

Convincilo!

 

«Te lo giuro. Io non so niente. E nemmeno i miei amici! Forse Neir, ma...» mi fermai di botto. Avevo detto troppo. Per proteggere me stessa, avevo messo nei guai Neir.

 

Idiota!

Lui annuì, sorridendomi.

 

«Visto? Non era tanto difficile.» si avvicinò e mi diede una pacca sulla spalla.

 

Io tentai di impedirgli di oltrepassare la porta, ma lui con nonchalance mi sollevò di peso, mi spostò, uscì e richiuse la porta.

Mi maledissi, per non essermi buttata sul cibo e non essere ingrassata tanto da non essere sollevata come un uccellino.
E non ero neanche magra, dannazione!

Che fare?
In che guaio mi ero cacciata? Cosa volevano tutti da me?
Ero al centro di una guerra non mia.

 

Oh, Giuda ballerino.

 

Cercai di raffreddare la mente, mentre mi dirigevo a grandi falcate verso la finestra.

Oltre il vetro, vedevo una strada asfaltata che passava accanto all'edificio, di cui non riuscivo a riconoscere l'aspetto o l'ampiezza, e una lunga pianura erbosa, senza alberi, che si stendeva per circa un chilometro, ad occhio e croce.

Niente boschi.
Niente alberi.
Niente protezione.

Anche se, per miracolo, rompendo la finestra non avessi attirato l'attenzione di qualcuno e fossi riuscita a scappare, mi avrebbero avvistata di sicuro.

Che luogo perfetto, per una segregazione.

Troppe domande mi si affollavano nella testa.
Per l'ennesima volta, mi sentii inutile, impotente e portatrice di soli guai.
Ma non mi sarei arresa, no.
Questa volta avrei combattuto, mi sarei fatta volere.

 

Perché Emma Lightwood ha le palle.

 

Mi sedetti a terra, sotto la finestra, raccolsi le gambe contro il petto, le circondai con le braccia e cominciai a formulare un piano.





Somebody needs help? Super(stiles) is here!

Eccomi con un nuovo capitolo! Non ha l'azione di quello precedente, ma spero vi abbia fatto intuire qualcosa su chi siano quelle persone in nero che sanno tutto tranne chi (o cosa) sia Emma... chi vuole intendere intenda! (gli altri in camper)
Ok, HAHAHAHAHAHAHA la finisco, giuro, era per allentare la tensione.
Finalmente settimana prossima ci sono le "vacanze"... avrò tempo per scrivere la nuova storia che mi sta girando in testa da un bel po', che però terrò top secret per molto tempo, visto che non so neanche come andrà a finire (ripeto, non ho niente di scritto)
Vi mando tanto affetto,
Sara <3

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Capitolo 16
*** Pressure. ***


Chapter sixteen: Pressure.





Canzone consigliata:
Dog days are other / Florence & The machine  




Ero in un bosco. La luce filtrava tra i rami, creando lo scenario di una favola. Saltellavo e ridevo, facendo scricchiolare i rametti e le foglie sotto i miei piedi. L'uomo, mio padre, era accanto a me, e sorrideva. Sapevo che non lo faceva da tanto tempo, quindi ne ero felice anche io. Avevo smesso di fare domande sulla mamma, perché ogni volta lui s'intristiva, e smetteva di parlare. Non mi piaceva.

Quando uno scoiattolino mi sfrecciò davanti, lanciai un gridolino di eccitazione.
Lui rise. Per la prima volta da una settimana, rise.
Entrammo in una radura. Lui mi prese per mano e mi fece fermare. Alzai lo sguardo, curiosa, lo vidi mentre scandagliava con lo sguardo nello spiazzo erboso. Eravamo lì per incontrare qualcuno. Me l'aveva detto la sera prima, mentre mangiavamo la lepre abbrustolita sul fuoco da campo che avevamo ingurgitato mentre lo stomaco brontolava fino a far male.
Mio padre sapeva cacciare bene. La cacciagione lì, però, consisteva soprattutto in conigli, scoiattoli e cerbiatti, gli ultimi praticamente impossibili da prendere senza un arco. Quando mangiavamo gli scoiattoli io mi sentivo in colpa, perché me li faceva avvicinare con il richiamo che mamma mi aveva insegnato. Loro si aspettavano di trovare delle compagne, e invece mio padre li prendeva da dietro e gli spezzava il collo.

Non sentono niente”, mi diceva.

Misha!” chiamò una voce, che veniva da dietro di noi.

Amon!” esclamò mio padre, voltandosi.

L'uomo che aveva parlato era alto, con una volta barba scura dello stesso colore dei capelli, che era molto simile, se non identico, a quello dei capelli di mio padre.

Gli occhi però erano marrone scuro, al contrario di quelli celesti dell'alato.

I due si abbracciarono, sorridenti. Amon si piegò, arrivando alla mia scarsa altezza.

E questa? È Malaikat?” chiese, mentre io mi aggrappavo ai pantaloni del genitore, nascondendomi dietro le sue gambe.

E' proprio vero, ha i tuoi occhi, fratello. I capelli però sono di Margareth.” prese un ricciolino castano tra le dita, poi mi diede un buffetto sulla guancia.

Io gli feci una linguaccia.

Ritornò in piedi, mentre mio padre ricominciava a parlare.

L'hanno presa, Amon. Margareth. Me l'hanno portata via.” la sua voce era strozzata, deformata dal dolore che tanto teneva nascosto per proteggermi “Mi siete rimasti solo voi fratelli e Malaikat.

Mi dispiace, Misha. Purtroppo, non porto buone notizie.” una farfallina attirò la mia attenzione. Smisi di guardare i due uomini, mi lasciai cadere a sedere nell'erba e la guardai mentre svolazzava tra i fiori, battendo le mani. Ridevo, e la mia risata angelica e gioiosa si spandeva nella radura, in contrasto con l'umore improvvisamente cupo dei due.

Nostro fratello, Eyael... ha fatto il nostro stesso errore.

Anche lui...

Suo figlio ha quasi sterminato un intero villaggio, Misha. Eyael è stato quasi costretto a ucciderlo.

Per gli Spiriti.

Si sono rifugiati nelle montagne rocciose, a Nord.

Siamo tutti nascosti, allora. E la tua Annabel, e il piccolo Lycos? Come stanno?

La farfallina volò via. Gemetti il mio dispiacere, e cominciai a strappare fiorellini.

Stanno bene, per fortuna. Potrete stare con noi nella foresta per quanto vorrete.

 

Malaikat!”

 

L'immagine divenne sfocata, non sentivo più le voci dei due uomini.
Sentii il pavimento freddo della “cella” sotto di me.

 

Malaikat!”

 

No, no. Era così bello, sognare. Non volevo svegliarmi.

 

Emma! Insomma!”

 

Grugnii, infastidita, mentre mi svegliavano.
Mi faceva male il sedere, e così mi accorsi di essermi addormentata sul pavimento.

 

Emma! Svegliati, pigra adolescente!”

 

Cercai con lo sguardo nella stanza chiunque avesse parlato.
Niente, non c'era nessuno.

 

Non sono lì, Emma. Sto parlando nella tua testa. E no, non sei pazza.”

 

Pensai di avere le traveggole.
Mi alzai, con gli arti intorpiditi dalla scomoda posizione, e mi stiracchiai.
Il mio stomaco brontolò.

 

So come farti uscire, Emma.”

 

Mi fermai con le braccia a mezz'aria.

 

Come? Chi sei?” “A tempo debito. Prima però devi promettermi una cosa.”

 

Non ci pensai su troppo.

 

Spara.” “Non andrai a cercare i tuoi amici.” “COSA?”

 

Scossi la testa. Poi mi ricordai che stavo parlando nella mia testa con una voce invadente che, evidentemente, solo io potevo sentire, quindi mi risedetti a terra e mi rannicchiai come prima, fingendo di dormire ancora.
Nessuno aveva aperto lo spioncino della porta, quindi nessuno sapeva che ero sveglia.

 

Li faremo uscire dopo. Per farlo, però, tu mi servi fuori di lì.”

 

Valutai l'offerta. Sì, potevo farcela. Li avrei salvati. Per una volta nella mia vita, ero disposta ad obbedire a degli ordini.

 

Ci sto. Facciamo in fretta.”

 

Perfetto. Sapevo che non sei tanto stupida da rifiutare.”

 

Ho detto in fretta.”

 

Certo, peperina! Allora. Quand'è l'ultima volta che sei andata in bagno?”

 

Aggrottai la fronte. Che razza di domanda era?

 

Umh. Beh, non lo so. Stamattina... no, ieri mattina.”

 

Quanto tempo era passato?

 

Ok. Chiedi di andare in bagno.” “E poi?” “Intanto esegui!”

 

Sospirai.
Mi alzai e andai a bussare alla porta.

 

«C'è qualcuno?» qualcosa si mosse e grugnì, dall'altra parte della porta.

 

«Cosa c'è?» chiese una voce maschile e burbera.

«Devo...» tossicchiai «Mi serve il bagno.»

 

Un borbottio, uno sbuffo.
Lo scatto della serratura.

L'uomo che mi aprì era alto e grosso, con una barba castana e trascurata e un livido sotto l'occhio.
Era vestito completamente di nero.

Mi fece segno di seguirlo.

 

Fatto. Adesso?” “Vai in bagno.” “Eh?” “Fidati di me, potrebbe passare del tempo prima che tu veda un bagno. Tranquilla, non vedo nessuna immagine e non percepisco nessuna frase che tu non mi mandi spontaneamente.”

 

Lanciai un'occhiata all'uomo che mi scortava.
Guardava dritto davanti a sé.

Mi scortò davanti a una porta come tutte le altre del lungo corridoio grigio: bianca, con la maniglia nera, fredda e poco rassicurante.

Entrai e lui fece per seguirmi.
Lo fulminai con un'occhiata.

 

«Tranquillo, non tenterò di scappare entrando nel water e tirando l'acqua.» e gli chiusi la porta in faccia.

 

Trovai anche una chiave.
Non sarebbe servita a tenerlo fuori in caso di emergenza, ma almeno a ritardarlo sì.

Il bagno era piccolo, ma con tutto l'occorrente.
Dopo aver finito, mi lavai mani, faccia e braccia, facendo colare il poco di trucco che mi era rimasto.
Sfregai per bene con l'acqua fredda fino a quando tutto il nero non se ne fu andato.

 

Ora?” chiesi, nervosa, scandagliando nella mia mente alla ricerca della voce sconosciuta.

 

Ora spacchi la finestra.” “Mi prenderanno, lo sai. Non sono veloce.” “No, non uscirai dalla finestra. Ti nascondi dietro la porta. Appena lui si affaccia per prenderti, tu esci e lo chiudi dentro. Talmente prevedibile da risultare imprevedibile.”

 

Avrebbe funzionato? No, no, era impossibile scappare. Altrimenti i ragazzi ce l'avrebbero già fatta. Dov'erano? Come stavano? Cosa stavano facendo a Neir? Aveva parlato? Lo stavano... torturando?

 

Una forza invisibile mi spingeva verso il corridoio, volevo con tutta me stessa andare a prendere i miei amici e tirarli fuori da quel casino.
Ma non potevo.
L'avevo promesso alla voce pazza.

 

Spacca la finestra! Hai poco tempo!”

 

Mi guardai intorno, cercando qualcosa con cui rompere il vetro. Trovai solo una saponetta alla lavanda.

Aprii gli armadietti e non trovai ancora nulla con cui avrei potuto romperla.
Poi, vene l'illuminazione.
Guardai dietro il lavandino e trovai quello che cercavo: un bullone, grosso e di metallo. La fortuna era dalla mia parte: dopo essermi massacrata la mano e aver quasi perso la forza del braccio sinistro, riuscii a svitarlo.
Lo soppesai con la mano.
Sì, poteva andare.
Lo lanciai con tutta la forza che avevo verso la finestra, e vi si conficcò per un soffio, provocando delle crepe tutte attorno.

 

«Che succede là dentro?» chiese l'uomo dietro la porta.

 

«Niente, niente.» risposi, con la gola secca. Mi avvicinai alla finestra e le diedi un calcio. Poi un altro, e un altro ancora.

 

Lo sentii cercare di aprire la porta, scuotendola con forza.

 

Ci misi più forza, e la finestrella si spaccò.
Feci appena in tempo a coprirmi il viso con le braccia, che le schegge di vetro schizzarono da tutte le parti.
Corsi accanto alla porta girai la chiave, la tolsi, l'uomo entrò.
Io mi schiacciai contro la parete, coperta dalla porta stessa, sperando che non mi vedesse.

Lui entrò e si scagliò verso la finestra, affacciandosi e guardando lo spiazzo erboso, cercandomi.

Sfrecciai fuori dalla porta.
Lui mi sentì, ma troppo tardi: quando la raggiunse avevo già estratto la chiave, l'avevo infilata nella toppa dalla parte opposta, chiudendolo dentro e stavo sfrecciando per il corridoio.

 

Dall'altra parte!”

 

Ma come? Dall'altra parte c'è la mia...” come chiamarla? Cella?

 

Vai!” frenai e tornai indietro, correndo a perdifiato e ripassando davanti alla porta. L'uomo chiamava aiuto.

 

Veloce! Gira a destra!”

 

Obbedii, mentre mi guidava in quell'edificio immenso.

Mi bloccai davanti a una porta, quando sentii la sua voce.

 

«Sei umano. Perché stai con quelli? Potresti avere una vita normale, sai?»

 

«Vai. Al. Diavolo!» sbuffò Stiles.

 

Il mio cuore cominciò a galoppare.

Sentii un grugnito, poi un colpo.
Aveva tirato un pugno alla porta.

Sobbalzai, spaventata.

 

Non fermarti! Stanno già arrivando!”

 

Sentii dei passi dietro l'angolo.

Mi morsi il labbro, sussurrai uno “scusa” e ricominciai a correre.

 

L'uscita di emergenza! Forza!” spinsi la porta antincendio, e l'allarme mi perforò le orecchie.

 

Dopo un secondo, l'aria fredda mi colpì, e una sferzata di vento gelido mi fece volare i capelli davanti alla faccia.

Inspirai profondamente.

 

Dove?”

 

Negli alberi!”

 

Quali alberi?” la pianura erbosa si stendeva a perdita d'occhio. All'orizzonte, una città e delle colline.

 

Beacon Hills?

Casa.

 

Dietro l'edificio! Presto!”

 

Ricominciai a correre, con i polmoni che bruciavano e il dolore al ventre che aumentava. Non ero abituata alle corse lunghe. Ero veloce nello scatto, ma ero pessima nella resistenza. Il coach Finstock mi aveva fatto delle lezioni private (ovviamente a pagamento e contro la mia volontà) ma non erano servite a niente. Le mie capacità atletiche erano pari a quelle di un orso in letargo. In compenso, almeno un professore aveva imparato il mio nome.

 

Scusa. È colpa mia: occupando spazio tra i tuoi pensieri, posso aumentare le tue distrazioni... tu corri.”

 

Tentai di accelerare, ma tutto il io corpo mi doleva. Finalmente, lo vidi: un boschetto, a una trentina di metri dall'edificio, sul retro.
Quella visione mi diede nuovo vigore.

 

«Eccola!»

 

«Forza, prima che ci voli via!»

 

Oh merda.

 

Erano dietro di me.
E si avvicinavano.

Correvo, ma la mia andatura rallentava inesorabilmente.
Quando arrivai al bosco, ero senza fiato.

Fu l'adrenalina a spingermi tra gli alberi.
Correvo, sgusciando tra un albero e un altro, con i rami e gli arbusti che mi graffiavano braccia e gambe, mentre i passi erano sempre più vicini, sempre di più.

Poi, un fracasso enorme: mi voltai.

Un grosso albero era caduto a terra, tagliando la strada agli uomini.
Restai a bocca aperta.

 

Merito mio. Ora vai!”

 

Non ci pensai due volte.
Ricominciai a correre.



Run, babe! Run!


Eccomi tornata! Scusate se ho ritardato di due giorni, ma sapete, in tempo di festa... 
Coomunque, spero che vi sia piaciuto il capitolo! Ho appena scoperto di aver sballato TUTTI i nomi dei capitoli da qui in poi, quindi... AIUTO ç.ç Vi giuro che se venite qua ad aiutarmi vi faccio leggere tutta la FF in 'premiere' +.+
Ok, ok, devo calmarmi. Se non ho risposto a qualche recensione scusatemi, ma ho proprio la testa fra le nuvole!
Ora, parlando del capitolo: who the fuck is questa voce nella sua testa? Dove sono finiti gli altri? Stiles sta bene? Dove sta finendo Emma? Stiles sta bene? La polizia li sta cercando? Stiles sta bene? *tosse* vabè.
Ora vado ad immergermi in un mare di grammatica e spagnolo. Sob. AIUTO!
Un bacione,
Sara
<3

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Capitolo 17
*** Questions. ***


 

 

Chapter seventeen: Questions.

 

 




Canzone cosigliata:

What the water gave me / Florence & The Machine


 


 

 

 

Correvo, mentre la voce mi guidava. Sinistra, destra, dritto, torna indietro per confondere le tracce.

L'albero li aveva rallentati, ma non avevano smesso di seguirmi.

 

Non ce la facevo più.

 

Ora vai verso nord!”

 

E dove cazzo è il nord?”

 

Girati un po' verso sinistra!”

 

Ma ormai mi ero fermata. Mossi qualche passo in quella direzione, poi crollai a terra. Il sangue mi pulsava nelle tempie, i polmoni bruciavano e la milza stava per esplodere.

 

In ginocchio, affondai le mani nelle foglie fresche e umide depositatesi sopra il terriccio.

Mi tolsi la giacca e tirai su i capelli, in modo da far raffreddare la nuca.

 

Avevo caldo.

Sapevo che se mi fossi scoperta troppo, però, mi sarei ammalata.

Non potevo permettermelo.

 

Alzati! Non sono sicuro che non ti stiano più seguendo!”

 

No.”

 

Tremavo tutta per stanchezza.

 

Ci sei quasi!”

 

Quasi DOVE?”

 

Vai verso nord e basta!”

 

Grugnii e mi aggrappai a un albero, per rialzarmi.

Tirai su con il naso e mi guardai attorno.

 

Nord.

 

M'incamminai, l'andatura lenta e strascicata, le orecchie non più così vigili da poter cogliere movimenti a una decina di metri da me.

 

Se mi avessero trovata in quel momento, non sarei stata capace di scappare.

 

Dopo il caldo, arrivò il freddo.

Cominciai a tremare.

Il gelo penetrava sotto i vestiti e arrivava alle ossa, scuotendomi violentemente in un tremore costante.

 

Era arrivato l'inverno, finalmente.

Nel momento meno opportuno.

 

Sentii il cervello improvvisamente vuoto, come gonfio d'aria.

La voce se n'era andata.

Mi bloccai, preoccupata, scandagliando nella mia mente alla ricerca di quella presenza fastidiosa.

 

Hey? Ora dove vado?”

 

Silenzio.

 

Riprovai a chiamarlo, ma niente, se n'era andato.

 

Merda. No, no!

 

Mi guardai intorno, e sentii dei passi.

Quanti erano? Due, forse... tre?

 

Cercai un nascondiglio attorno a me, e trovai una roccia in pendenza che faceva al caso mio.

Mi ci buttai dietro, rannicchiandomi in modo da non lasciare nessuna parte del corpo fuori dalla sua protezione.

Ero scomodissima.

 

«Dov'è?» chiese una voce femminile.

 

Scricchiolio di foglie sotto le scarpe, respiri.

Il mio cuore batteva come impazzito.

 

«Non lo so. La vedi?» un uomo.

 

Erano due, quindi: un uomo e una donna.

 

«Proviamo di là. Magari ha deviato per il sentiero.» propose la donna.

Sentii dei passi allontanarsi.

Contai dieci secondi.

Venti.

Un minuto.

Deglutii e sbirciai sopra la roccia.

 

Un uomo di colore, calvo e vestito di nero aspettava davanti alla roccia, sorridendo.

 

La donna era qualche metro dietro.

Aveva anche lei la pelle scura, con lunghi capelli neri e un fisico da far invidia.

 

Mi fissavano.

Mi avevano presa in giro.

 

Il respiro mi si strozzò in gola. Mi alzai goffamente e ricominciai a correre.

 

Aiutami! Per favore! Mi hanno trovata!”

 

Non ebbi nessuna risposta.

Qualcuno mi afferrò per le spalle, tenendomi stretta.

Io mi dimenai, tirai una gomitata all'indietro.

Un suono spiacevole precedette la mia liberazione.

Ricominciai a correre.

 

«Aspetta!»

 

Contaci.

 

«Aspetta! Non siamo dei loro! Siamo con voi! Conosco Scott!»

 

Ebbi una mezza idea di fermarmi.

La scartai, e continuai a correre, nonostante la stanchezza.

No, non sarei resistita per più di... un minuto.

Due, con l'aiuto dell'adrenalina.

 

«Possiamo aiutarti a liberare i tuoi amici!» provò la donna.

 

Correvo, con loro alle costole.

Come avevo sospettato, dopo poco ricominciai a rallentare.

 

Qualcuno mi abbracciò da dietro, impedendomi ogni movimento, e mi sollevò.

 

«Scusa, ma devi ascoltarci!»

 

Scalciavo, mi dibattevo, ma lui non si muoveva.

Mi arrivò davanti la donna.

Tentai di tirarle un calcio, e grugnii la mia frustrazione quando la mancai.

 

Focalizzando meglio l'attenzione sul suo viso, me la ricordai: la incrociavo spesso nei corridoi. La professoressa Morrell. Una volta avevo avuto una mezza idea di andare a fare una seduta da lei, ma poi l'avevo scartata. E se poi mi avessero presa in giro, dandomi della pazza? No, no. Il consulente scolastico era per i matti o i disadattati.

 

«Non siamo dei loro» mi disse, con il fiatone «vogliamo le stesse cose! Calmati!» smisi di scalciare, e lui mi rimise a terra.

 

Quando lo guardai di nuovo, lo riconobbi: era il veterinario di Beacon Hills, Deaton.

Ci avevo portato Spina per la vaccinazione e la sterilizzazione.

 

Era un brav'uomo.

Ma chi conoscevo davvero, in quella città?

 

«Ti portiamo all'ambulatorio e ti spieghiamo tutto. Va bene?»

 

Annuii.

Nessuno sembrava in grado di darmi risposte, e se loro sapevano qualcosa... beh, non potevo dirgli di no. E poi, avevo scelta?

 

Cominciammo a camminare, a passo svelto, in silenzio.

Ero stanchissima, ma cercavo comunque di tenere il passo.

Inciampavo spesso, ma uno dei due era sempre pronto ad afferrarmi al volo prima che cadessi a terra.

 

Sbucammo all'improvviso in strada: davanti a noi, una grossa auto nera ci aspettava.

 

Salimmo in macchina: lui alla guida, lei al posto del passeggero e io dietro.

 

«Chi erano quelli?» chiesi.

 

«Cacciatori. Li hanno chiamati gli Argent.» rispose Deaton.

 

Prima di mettere in moto si voltò, e notò la mia espressione incredula.

 

«Argent? La famiglia di quella rammollita di Allison? Li hanno chiamati loro?» non aveva senso, per me.

 

Deaton rise.

Aggrottai la fronte.

Non trovavo la situazione divertente in alcun modo.

 

«Gli Argent sono una famiglia di cacciatori, originaria della Francia. “Argent” in francese significa argento» spiegò la professoressa Morrell «I Silver sono una grande famiglia di cacciatori provenienti dall'ovest degli Stati Uniti. Il clan è composto da all'incirca una ventina di membri, e ognuno di loro ha ricevuto un addestramento per diventare una macchina da guerra fin dalla tenera età. Non è il loro territorio di caccia questo, ed è per questo motivo che pensiamo che li abbiano chiamati gli Argent. Come rinforzi.» parlava sporgendosi verso i sedili posteriori, con un'espressione seria e calcolata.

 

«Rinforzi?» la mia mente cominciò a lavorare «Rinforzi... per cosa?»

 

La sua espressione si fece grave.

 

«Non lo sappiamo. Ma dev'essere qualcosa di molto pericoloso.»

 

 

 


Don't freak out!

Ciao a tutti! Eccomi, questa volta puntuale, dopo sei giorni c:
Ecco la comparsa di due personaggi che fino ad ora non erano comparsi: Il dottor Deaton e la professoressa Morrell. Alla fine della seconda stagione, infatti, sembrano rivelarsi molto più che semplici bravi lavoratori... e io ho dato la mia interpretazione!
Insomma, questi due hanno dato un passaggio alla nostra povera ragazza, sfinita, sudata, stremata e preoccupata. Come finirà? Lo so solo io OuO ...e quell'idiota di LauraCommy, che non recensisce mai solo perché ha già letto tutto. E pensare che ti ho pure dedicato una fanfic, tsk. 
Insomma, sarei felice se mi lasciaste una recensioncina, ecco tutto!
Un bacione,

Sara <3

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Capitolo 18
*** Red blood. ***


 

Chapter eighteen: Red blood.

 





Canzone consigliata:

Spectrum / Florence & The Machine





 

Una scampanellata ci accolse mentre entravamo nell'ambulatorio del dottor Deaton.

Ci guidò dietro il bancone, in una stanza con al centro un tavolo operatorio.

 

«Allora. Come ti abbiamo detto, non sappiamo cosa vogliono i cacciatori e il branco di Derek da te, ma possiamo provare a scoprirlo...» prese un portachiavi da una tasca della giacca e usò una delle molteplici chiavi per aprire un cassettino. Da esso estrasse una chiavetta, che attaccò al suo portatile.

 

«Cosa c'è in quella chiavetta?» chiesi.

 

«Un bestiario. Siediti lì, per favore.» e m'indicò il tavolo operatorio.

 

«Lì?» lo fissai, riluttante «ma è... puzza di cane!»

 

Entrambi mi guardarono.

Obbedii e mi sedetti sul tavolo.
Era alto, e per poco non riuscivo a sfiorare il pavimento con i piedi.
Presi a dondolarli avanti e indietro, come una bimba.

 

«Un bestiario?» a cosa gli serviva?

 

Oh.

 

«Ma io sono umana. L'ha detto anche Neir!» mi sporsi in avanti, per sbirciare lo schermo del computer «Quando li andiamo a prendere? Non possiamo lasciarli là!» non riuscivo a smettere di parlare.

 

Ero nervosa, spaventata, preoccupata per i miei amici, e un tizio che mi aveva recuperata dal bosco mi stava puntando una luce nell'occhio.

 

«Girati dall'altra parte. Prenderò un piccolo campione di sangue.» sbiancai.

 

Nove volte su dieci, pochi secondi dopo questa frase svenivo.
Le mie visite mediche erano un incubo, per me, per i miei genitori e per i dottori. Il sangue mi faceva sempre strani effetti, soprattutto se mi veniva tolto.

Quando ero stata aggredita ero troppo stordita per vederlo, ma se l'avessi fatto avrei cominciato a vomitare a getto.

Deglutii e mi voltai dall'altra parte, togliendomi la giacca e tirando su la manica della maglia.

 

«È solo per essere sicuri al cento per cento. Non ti devi assolutamente preoccupare.»

 

Cercai di non perdere la testa.

 

«Al mio tre. Uno, due.»

 

Aia.

Tipico. Mai fidarsi dei medici.
Tolse l'ago e mi voltai, mentre mi tamponava il braccio con un batuffolo di cotone. Lo fissò con un pezzo di scotch e si avviò verso un tavolo da lavoro.

La Morrell, intanto, faceva scorrere le pagine del bestiario.

 

«Niente?» chiese Deaton.

 

«Niente. Te?» «Zero.»

 

Entrambi sospirarono, simultaneamente.

I minuti passavano, e io non potevo fare a meno di pensare a Stiles, seduto in una stanza buia, mentre Oliver lo colpiva, gli diceva di parlare, e lo colpiva ancora...

Sobbalzai.

 

«Il sangue non reagisce a niente, nemmeno al sorbo degli uccellatori, l'ultima spiaggia. È al cento per cento umana.» stava dicendo Deaton, con un leggero sorriso.

 

Annuii. «Ve l'avevo detto!»

 

La Morrell fermò la sua ricerca.

 

«Allora perché lei? Cos'ha di speciale?» chiese, incrociando le braccia e squadrandomi da capo a piedi.

 

Decisi di non prenderlo come un insulto, ma come una cosa positiva.

 

«Aspettate. Potrei provare con... sì, proverò con quello.» rovistò tra delle boccette e ne prese una dalla polvere marrone-rossastra. «Pensavo di averne di più... ma non importa. Gli Horklump sono creature simili a funghi note nel folklore inglese. Si nutrono di vermi, e gli esseri umani (a parte cacciatori e... gente come noi) ne sono all'oscuro. Fino a un decennio fa erano considerati innocui, dai pochi al corrente della loro esistenza...» si tolse i guanti di lattice e indossò un paio di guanti da fabbro, spessi e resistenti. Seguì una mascherina, e ci fece segno di indietreggiare.
Ci schiacciammo contro la parete opposta.

 

«Fino a quando un biologo inglese non li pestò e ridusse in polvere. Ne uscì un potentissimo veleno. Se inalata, sfiorata o iniettata, questa polvere è letale. Porta a morte immediata. Solamente la polvere, però, e la cosa è interessante. Ma sulle creature soprannaturali... beh, ha un effetto diverso.» mi ritrassi. Che voleva fare? Soffiarmela addosso e vedere se morivo, come prova finale della mia umanità? Era per caso fuori di testa?

 

«È una specie di... radar. È in grado di intercettare la presenza del soprannaturale. Se somministrato oralmente nella giusta dose, lo neutralizza per qualche minuto, dopo aver provocato un lieve malessere. Né troppo, né troppo poco. Non è utilizzato dai cacciatori per eliminare i licantropi perché... beh, è molto più costoso che fruttuoso, in quanto molto raro, ed è considerata anche una barbaria verso le creaturine. In più, è un rischio per ogni essere umano nei paraggi... per questo non l'ho utilizzato subito.» lasciò cadere un pizzico di polvere nella capsula petri dove aveva messo il sangue prelevato.

 

Tenevamo il fiato sospeso.

 

«Se c'è anche la benché minima traccia di soprannaturale nel tuo sangue, la polvere dovrebbe farlo diventare verdognolo. Altrimenti, non succederà niente.» spiegò.

 

Contammo i secondi.
I minuti.
E non successe niente.
Sorrisi.

 

«E siamo da capo...»

 

Un rumore di sfrigolio attirò la mia attenzione.

Il sangue stava... bollendo?
Produceva delle bollicine bianche.
Mi coprii la mano con la bocca.

La polvere cominciò a sparire.
Si tramutava in bollicine, che scoppiavano e così scomparivano.
Dopo una ventina di secondi, il sangue era diventato ancora più rosso di prima.

 

Restammo tutti immobili.

 

«Che diavolo è successo?» chiesi, con un filo di voce.

 

«Non ne ho idea» fu la risposta che ricevetti.

 


 

 


 

Base del clan Silver.

Stanza n° 13

 

 

Oliver Silver, attuale capo clan, era seduto al lungo tavolo insieme ai membri anziani delle due famiglie di cacciatori.

 

«Quanti anni ha? Quindici? Sedici? Tenete in gabbia due mutaforma ma non siete in grado di trattenere una ragazzina umana?» Proruppe Gerard, il capo clan degli Argent, picchiando forte un pugno sul tavolo di legno antico, che scricchiolò spiacevolmente.

 

Era stato lui a convocare i Silver.
Parlava di un ritrovato speciale, una specie in estinzione, un asso nella manica che tutti volevano avere.
I cacciatori, i licantropi, gli stregoni.
Tutti volevano quella ragazza.

Ma perché?

O Gerard non voleva ancora rivelarlo realmente per “non provocare un passa parola tra i nemici”, oppure non ne aveva idea neanche lui.

 

«Da come la descrivevi al telefono, Gerard, non è una semplice ragazzina umana. Sembrava un'arma atomica, nelle tue favolette.» a parlare, con tono sprezzante, di sfida, era stato Ben, del clan dei Silver. Lui, sua moglie e il figlio piccolo erano stati trascinati fin lì con gli altri. «Ma cos'è, in realtà? Noi li proteggiamo, gli umani! E ci stai costringendo a segregarne uno! Un ragazzino completamente innocuo! Se ci hai disturbati per una semplice esca, un capro espiatorio...» fu interrotto dall'anziano cacciatore.

 

«Calmati, Benjamin. Lei è un'arma atomica. Diciamo soltanto che... dobbiamo accenderle la miccia. E si da il caso che io abbia scoperto come.




 

 

 

 

Walking on sunshine!

 

Da me cominciano le belle giornate, sdklfdskl **
Comunque, eccomi qua con un nuovo capitolo! Mh, all'ultimo ci sono state solo 2 recensioni? Che vi ho fatto di male? ç.ç
Vabe, non ho niente da dire... lol. Oggi non ho ispirazione!
Facciamo così: non posto fino a che lo scorso non arriva a tre recensioni e questo a quattro! Dai, fatevi valere amori miei! <3
Un abbraccio,

Sara <3

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Capitolo 19
*** Soul. ***


 

Chapter nineteen: Soul.

 

 


 

Canzone consigliata:
No light, no light / Florence & The Machine
(fatela partire quando vedete il 
*)

 

 




Tremavo dall'impazienza.

 

 

«Avete trovato qualcosa?» chiesi, sporgendomi verso i due che setacciavano nella libreria di Deaton.

 

«Non credi che se avessimo trovato qualcosa te l'avremmo detto?»

 

Sbottai in risposta, ma non me la presi tanto.
Tutti e tre eravamo sconvolti da quello che il mio sangue aveva appena fatto.

Deaton aveva ipotizzato che fossi stata contaminata in qualche modo, ma da cosa era ancora impreciso.

Vista la totale assenza di “super poteri”, era impossibile che fossi una creatura soprannaturale.
E fin qui, tutto a posto.

Il punto cruciale stava nel capire il perché della reazione del sangue alla polvere.
Pur nelle sue grandi conoscenze, il veterinario non riusciva a trovare una spiegazione.

Il sangue aveva letteralmente annientato il veleno, e con quello anche tutte le impurità del sangue stesso, disinfettandosi.

Ebbi un'illuminazione.

 

«L'ospedale!»

 

Entrambi si voltarono.

 

«Sono andata in ospedale, qualche settimana fa. Forse mi hanno somministrato qualcosa...»

 

Deaton scosse il capo.

 

«Il tuo corpo l'avrebbe già espulso, Emma. È passato troppo tempo.»

 

Delusa, tornai ad accasciarmi sulla poltrona del veterinario.

Sentii la suoneria di un cellulare.

Scattammo tutti contemporaneamente, raddrizzando la schiena, tesi come corde di violino.

 

«È un messaggio di... Scott?» Deaton aveva preso in mano un cellulare dalla parvenza indistruttibile, e lo fissava con un'espressione incredula.

 

Mi lancia verso di lui, strappandoglielo di mano.

 

A casa Hale nella riserva a mezzanotte. Niente violenza, solo parole. -Oliver

 

Lo feci leggere ai due.

 

«Oh, no. No, no, no.» disse Deaton, mentre riponeva il cellulare in tasca.

 

Io e la Morrell eravamo senza parole.

 

«Come “no”? Certo che ci vado!» sbottai, con le mani sui fianchi.

 

Lui emise un verso esasperato «è chiaro come il sole che è una trappola, Emma! Ora abbiamo una vaga idea del perché tu sia importante per loro. Giocano sporco, quei cacciatori. Fanno promesse contorte, in modo che tu pensi di essere al sicuro anche se non è vero, e le rispettano. No, Emma. Non ci andrai. Ci serve un piano.»

 

La donna gli mise una mano sulla spalla «Sai che rispetto molto le tue decisioni, ma questa volta sono contraria.» io la guardai con gratitudine «loro andranno armati? Bene, lo saremo anche noi. Hanno un umano con loro. Non possiamo rischiare.»

 

«Siamo in minoranza.» controbatté l'uomo.

 

«Non dobbiamo per forza andare soli.»

 

«No.»

 

Io quasi mi misi a saltellare per l'impazienza.

 

«Cosa? Chi ci può aiutare?»

 

A rispondermi fu la donna.

 

«Il branco.»


 

 

23:47

Riserva di Beacon Hills

 


*
 

 

L'aria gelata mi pizzicava la pelle del viso.
Mi ero coperta come meglio potevo: oltre alla giacca di pelle, la Morrell mi aveva dato un paio di guanti neri e una sciarpa verde scura.
I capelli erano sciolti, in modo da coprirmi la nuca dagli spifferi.

Aspettavamo, sul luogo dell'incontro: uno spiazzo aperto, poco ampio, accanto ad un burrone, sul lato ovest della riserva.
Lì noi tre attendevamo il branco di Derek.
Era bastato un squillo al cellulare e tutto era sistemato.

Il veterinario aveva lasciato le chiavi nel quadro, in caso di fuga tempestiva.

Arrivarono dagli alberi.
Derek, alla sua destra Isaac, alla sua sinistra Erica e Boyd.

 

«Niente morsi, Derek. Da nessuno del tuo branco.»

 

Erano quelli, gli accordi. Dovevano solo farmi da scudo, un motivo per far esitare i cacciatori prima di attaccarci.
Dopotutto, tutti volevamo la stessa cosa: non dovevo essere presa dai cacciatori.

 

«E tu.» Deaton mi puntò il dito contro. «Non fare l'eroina. Niente sacrifici, niente offerte, niente patteggiamenti. Tu stai in silenzio e basta.»

 

Ouch, beccata.

 

«E tu.» il suo dito venne puntato verso Derek «se la situazione degenera...»

 

«Isaac la porterà via. È il più veloce.» concluse l'alf. Mi guardava in modo strano. Come un bambino guarderebbe un biscotto al cioccolato posto su un ripiano troppo alto per arrivarci.

 

Si accarezzò il mento, dove la barba cresceva trascurata, pensieroso.

 

«Che spreco.» mi sembrò di sentirlo mormorare.

 

Poi, velocissimi, formarono un cerchio attorno a me.
Derek e Deaton davanti, Isaac dietro, gli altri a chiudere il cerchio.

Erica era accanto a me.

 

«Mi dispiace. È il mio alpha, Emma...» sembrava realmente dispiaciuta.

Quella ragazza non smetteva mai di stupirmi.

 

Feci spallucce.

 

«Non importa, Erica. Con tutto quello che è successo... non posso fartene una colpa.»

 

Lei sembrò sorpresa.

 

«Non sei arrabbiata? Davvero?» le strinsi la mano.

 

«No. Siamo amiche, dopotutto.»

 

Non pensai che, probabilmente, lo eravamo diventate soltanto perché era stato Derek a imporglielo.
Eravamo amiche e basta.
Avevamo gli stessi gusti musicali, io ridevo alle sue battute e lei alle mie... mi aveva dato autostima e coraggio, nonostante il brutto tiro.
E cos'è l'amicizia, se non una montagna russa costante?

Arrivammo davanti a un rudere.
Era una casa vecchia, devastata. Riconobbi i segni di un incendio.

I cacciatori erano là.

Schierati, immobili, gli occhi puntati sul punto da cui sbucammo dagli alberi.
In prima fila, un vecchio che riconobbi come Gerard, il nonno di Alison ( nonché nuovo preside della scuola), Oliver e una donna.
Era alta, con lunghi capelli scuri e i lineamenti dolci.

Erano tutti armati, chi più chi meno.
Gerard allargò le braccia.

 

«Grazie per essere venuti!» esclamò, con un grosso sorriso sulle labbra.

Che uomo viscido.

 

Vedevo tutto dallo spazio tra Derek e Boyd.
Mi sentivo come il presidente degli Stati Uniti con la sua scorta.
La situazione era solo leggermente diversa.

Faticavo ancora a credere che la colpa di tutto quel trambusto fosse mia.

Ci spostammo davanti a loro, a una decina di metri di distanza.

 

«Dovete liberare i ragazzi. Non avete alcun diritto né dovere verso di loro.» sentii dire da Deaton, con tono diplomatico e calmo.

 

«Oh, certo. Non dobbiamo proteggere la città?»

 

«Non sono pericolosi.»

 

«No, non loro.» sbirciai ancora, e rabbrividii, quando vidi che gli occhi di una trentina di cacciatori mi cercavano, relativamente al sicuro dietro all'alpha.

 

«Non ancora...»

 

Cosa intendeva? Non ero ancora pericolosa? Ovviamente. Ma lo sarei diventata?
No, mai. Non sarei mai stata un mostro, un'anomalia...

 

«Uno di loro è umano. Gli umani devono restarne fuori...» Derek fu interrotto.

 

«Fuori? Quel ragazzo ne è dentro fino al collo!» un'altra voce. Oliver.

 

«Non importa. Quei ragazzi non hanno commesso alcun errore. È già un giorno che non si fanno vedere in città, Gerard. E se la polizia intervenisse? L'umano che avete preso, Stiles, è il figlio dello sceriffo. Lo sapete, vero?»

 

Un mormorio confuso si diffuse tra i cacciatori.
Furono zittiti da una voce che non riconobbi.

Sbirciai ancora una volta.
La formazione si stava aprendo, e dalla massa dei cacciatori stavano uscendo due persone: Scott e Neir.

Ero felicissima.
Sorrisi.

 

«Ragazzi!» esclamai, senza neanche pensarci.

 

Poi, vidi che erano soli: Stiles non c'era.
E dei fucili erano puntati alle loro teste.

 

«Ne manca uno.» disse Derek.

 

«È alla base. L'hai detto tu, no? È umano... dovrebbe stare fuori da queste discussioni. Giusto, Emma?» Gerard mi sorrise.

 

Se fossi stata un lupo, avrei ringhiato. Ma ci pensarono gli altri.

 

«Brutto vecchio bastardo...» mi lasciai sfuggire.

 

Isaac saltò in avanti, tappandomi la bocca.
La situazione era già abbastanza tesa, e io stavo peggiorando la situazione.

Tutto il mio corpo, però, mi urlava di andare da quel matusalemme e mollargli un cazzotto sul naso.

Tirai una gomitata al ragazzo, alla bocca dello stomaco.
Lui si piegò in due e cadde a terra.

 

Rimanemmo tutti a bocca aperta.
I cacciatori non potevano aver visto, no... ma probabilmente avevano sentito.

Come avevo fatto?

Riuscii a farmi strada, sgusciando sotto il braccio di Derek, e uscendo dal cerchio.
Sentii Isaac tossire. Ero parecchio dispiaciuta, ma mi sarei scusata dopo.

Deaton mi avrebbe fatta fuori. Poco ma sicuro.

 

«Ma che diavolo vuoi?» sbottai, rivolta al vecchio. «Insomma, sono umana, dannazione.» cosa potevamo fare? Non avrei mandato i miei amici al macello.

 

«Se proprio ti servo.. beh, basta chiedere, no?»

 

Lui sorrise, cordiale.

 

«Sapevo che avresti fatto la scelta giusta. Immagino già il tuo prezzo, però... siamo ovviamente disposti a restituire i tuoi amici.»

 

«Emma! Non fare l'idiota!» Neir.

 

Il ragazzo mi guardò con rabbia.

Ero importante, per quelle persone.

Per alcuni, non ero semplice merce di scambio.
Ero un'amica.

 

L'uomo che lo affiancava alzò il fucile per colpirlo in viso con il calcio.
Neir chiuse gli occhi, aspettando il colpo.
Io feci un passo avanti.

La donna con i capelli neri che fino a quel momento non aveva parlato, alzò la mano con uno scatto, e lui fermò il fucile.

 

«Jeremiah. Fermo.» camminò verso di me, fermandomisi davanti.

 

«Sei disposta a gettare la tua libertà per... quelle cose? Quegli esseri striscianti, che lacerano la nostra società dall'interno?» sembrava disgustata e affascinata allo stesso tempo.

 

«Sinceramente, non sono loro le creature disgustose, qui.» le risposi, con lo sguardo tagliente.

 

La mia voce sembrava acido.

Lei sbarrò gli occhi.

 

«Piccola...» sibilò. Chiuse gli occhi, riprese il controllo, li riaprì.

 

Si spostò di lato e mi mostrò il gruppo di cacciatori con la mano, invitandomi a raggiungerli.

Sentii una mano afferrarmi il braccio, per l'ennesima volta.
Quando mi voltai, vidi Erica.

Mi guardò in modo strano.
Supplicante.

 

«No, Emma. Non fare cazzate. Troveremo un altro modo. Porteremo Stiles a casa, ma non per perdere te.»

 

Se avessi potuto, le avrei sorriso.
Ma non potevo, non in quel momento.
Ero indecisa.

Quel momento, quel mio leggero indugiare, accese la miccia.

Mi accorsi troppo tardi della freccia che sibilava, volando verso di noi.
Probabilmente era velenosa come le altre, intinta in quel fluido paralizzante che mi aveva messa KO.

Erica la prese al volo, mentre io mi voltavo e intercettavo l'arciere: era nascosto sugli alberi.

Scoppiò il caos.

Erica scagliò la freccia verso le fila dei cacciatori.
I lupi si lanciarono all'attacco, e così i Silver e gli Argent.
Notai che Allison non c'era. Dov'era? Non si era schierata con la sua famiglia? Era rimasta neutrale?
Scott e Neir approfittarono della confusione per dar man forte al branco.
I due umani sfoderarono dei coltelli.

 

Ero al centro di una guerra.
La guerra mi seguiva.
Dolore. Sangue.

E se la guerra mi seguiva, beh... dovevo andarmene.

 

Vidi Isaac prendere a pugni un cacciatore, Neir che tirava un calcio sull'addome a un altro, Derek che ne lanciava via uno come se pesasse quanto una pallina da tennis.

Nonostante la super forza, eravamo in minoranza.
Non raggiungevamo neanche la metà del loro numero.

Cominciai a correre, con una direzione precisa.

Non se ne accorsero neanche, con tutto quel trambusto.
Quando raggiunsi il limite degli alberi, urlai per farmi notare.

Diversi visi si voltarono verso di me.
Isaac fu il primo a corrermi incontro, per cercare di portarmi via, come aveva detto a Derek.

Ma io ero soddisfatta della quantità di distrazione provocata, e cominciai a correre tra gli alberi.

L'importante era aver evitato il massacro.
Volevano me, no?
Beh, che mi venissero a prendere!

Li sentivo dietro di me.
Erano maledettamente tanti.

Raggiunsi la macchina di Deaton, ci saltai dentro e girai la chiave.
Imboccai velocemente il sentiero, lasciandomeli alle spalle.
Nello specchietto retrovisore, vidi il branco correre verso il bosco.

Come avevo previsto (beh, più che altro sperato), i lupi si erano caricati in spalla i due umani, mantenendo la temporanea alleanza.
Presto sarebbero stati tutti al sicuro.

Mancava solo Stiles.

 

Brava ragazza. Sapevo che non avresti fatto la scelta sbagliata.”

 

Con tutto quel casino, non avevo neanche notato che la voce era ritornata nella mia testa. Ne avvertivo la presenza.

 

Hai voglia di fare un salto da me? Non ti troveranno, qui... in più, posso darti delle risposte.”

 

Guidami.”





Show must go on!




Ciao a tutti, belli e... no, scherzavo, siete tutti favolosi *w* 
Cooomunque... ho aggiornato un giorno in ritardo, sperando in qualche recensioncina in più... ma niente cwc 
Vabè, avevo troppa voglia di aggiornare... quindi, in questo sabato sera noiosissimo passato a casa a guardarmi la settima stagione di Supernatural, ho deciso di postare. Però dai, su, a questo voglio più di 3 recensioni! Al primo ce ne sono 11, calando così tanto mi deprimete <3
Bon, comunque vi ringrazio davvero TANTO per aver letto. Ogni visualizzazione in più è un altro pezzettino del mio cuore che vomita arcobaleni (??)
Oddio, ho mangiato troppo.
Vi mando tutti gli abbracci che sono capace di mandarvi e vi lascio con qualche immagine del clan Silver... così, giusto perché non ho niente da fare u.u

Oliver: 
Image and video hosting by TinyPic Cacciatrice sconosciuta:  Image and video hosting by TinyPic

Un bacio,
Sara <3

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Capitolo 20
*** Trust. ***


Okay ragazze, una nota prima di cominciare: in questo capitolo la narrazione da parte di Emma sarà breve. Il capitolo è incentrato sul racconto (che tra poco leggerete) che è la mia personale versione delle origini di tutto. Copiate qualcosa e vi spezzo le manine.

Bon, vi amo tutti e buona lettura <3

 


 

Chapter twenty: Trust.

 

 


Musica consigliata:
Crystallize / Lindsey Stirling

 





Dopo pochi minuti che ero alla guida, cominciò a nevicare.
I fiocchi delicati danzavano davanti al parabrezza, dando un'aria da favola al bosco che mi sfrecciava accanto.

 

Ora dove?”

 

Vai a sinistra, nel bosco. Conta dieci secondi, poi gira a destra.”

 

Non chiesi il perché di quella strana indicazione.
Niente mi sorprendeva più, ormai.

Arrivai al decimo secondo, ma alla mia sinistra c'erano soltanto alberi.

 

Ehm...” “Gira a sinistra, ho detto.” “Ma...” “Gira!”

 

Premetti l'acceleratore con la punta del piede, andando piano verso gli alberi.
Mi aspettavo di tamponarlo dolcemente, ma ci passai attraverso.

Oltre essi, un loft dalle ampie vetrate era comparso, in mezzo a un prato circondato dagli alberi.

Ero stupefatta.

Non lo sentii più. Parcheggiai davanti alla casa e scesi, tremante per il freddo.
Corsi verso l'entrata e bussai, incerta.


«Entra!» quella voce, ormai, la attribuivo a una presenza nella mia testa. Sentirla dal vivo mi stranì un po'.

 

Obbedii, abbassando la maniglia.
L'arredamento lo avevo già visto da fuori, ma dall'interno della casa faceva un effetto diverso: un po' ovunque erano distribuite fontanelle artificiali, pareti a cascata con cromoterapia, pianticelle, candele.

L'atmosfera era suggestiva.

Camminai all'interno, oltrepassai una parete che tagliava a metà il corridoio, lasciando libera la metà sinistra per passare oltre, e mi ritrovai nel salotto: un divano bianco era posto contro la parete, ad angolo, e accanto ad esso c'era una poltrona dello stesso stile e colore. L'arredamento era moderno, con tavoli trasparenti, un caminetto bianco e dalle linee morbide, fiori colorati qua e là.

Sul divano, c'era lui.

Si alzò, sorridente, porgendomi la mano.

 

«Irima. Molto piacere di conoscerti. Di persona, intendo.»

 

Aveva la pelle lievemente scura, i lineamenti dal sapore leggermente asiatico e un gran sorriso bianco candido. Il suo accento era morbido, cadenzato. Indossava dei pantaloni color tortora dal taglio elegante e un maglione bianco dall'apparenza soffice.

 

«Tu sei...» cominciai, impacciata.

 

«Voi ci chiamate in tanti modi. Potrei essere... uno stregone, ecco.» il sorriso si allargò ancora di più.

 

Mi fece segno di accomodarmi sul divano, e io lo feci.
Sul tavolo, c'erano una teiera e due tazze.

 

«Ci sarà tempo per parlare di me. Ora, devi concentrarti su di te. Su, bevi.» versò il thè nelle tazze, e me ne porse una. «è un infuso speciale. Diciamo che... aiuta a ricordare.»

 

Lo annusai. Aveva un profumo buonissimo. Floreale e speziato insieme. Lo sorseggiai, e il mio stomaco brontolò furiosamente. Da quanto tempo non mettevo qualcosa sotto i denti? Ventiquattr'ore? In pochi secondi, avevo ingoiato tutto quel liquido bollente.

Lui rise.

 

«Chiudi gli occhi, Emma.»

 

Un improvviso torpore mi pervase.
Mi accoccolai sul divano, buttando la testa all'indietro e chiudendo gli occhi.
Tirai su le gambe, incurante delle macchie che le mie scarpe avrebbero potuto lasciare sul divano bianco.

E iniziò.

 

In un paese racchiuso in una valle tra dei monti, abitava una popolazione pacifica, prosperosa e molto attaccata alle proprie leggende.
Il sovrano aveva tre figli. In ordine di nascita: Amon, Misha, Eyael. Amon era il guerriero migliore, il più saggio dei tre perché maggiore. Era il più attaccato alla patria. Misha era un corridore veloce, e avanzava con agilità su qualunque terreno (montagne, paludi, campi). Il figlio di mezzo sperava un giorno di andarsene dalla valle, ed esplorare il mondo esterno. Eyael era il minore, il più astuto di tutti. Erano merito suo le strategie delle poche battaglie, gli ingegnosi meccanismi d'irrigazione dei campi, il commercio stabile del paese.
Un anno, una terribile siccità colpì la popolazione. Non piovve per ben tre mesi. I tre fratelli si offrirono di andare sulla montagna più alta della catena, il Monte dell'Angelo, dove una leggenda raccontava che l'Angelo, un giorno, sarebbe sceso per aiutare il popolo. Il viaggio era molto pericoloso, e il rischio era di non tornare più, ma a loro non importava. Volevano solo che il loro popolo non morisse. Dopo giorni, settimane di cammino, giunsero sulla fredda cima del monte. Per dodici ore pregarono l'Angelo di venirgli in aiuto, senza riposare, senza mangiare né bere.
L'angelo, meravigliato dalla forza di volontà dei giovani, discese in loro aiuto.
I fratelli fecero la loro richiesta, e immediatamente il cielo si riempì di nuvole nere, e piovve, piovve per tre giorni. La gente, nel paese, festeggiava.
Nel frattempo, sulla montagna, l'Angelo propose un patto ai tre fratelli: poiché erano stati coraggiosi e altruisti, avrebbero potuto chiedere ognuno una dote speciale, purché non la tramandassero, perché restasse una concessione unica e divina.
I tre accettarono di buon grado. Amon chiese la forza e la potenza dei lupi, per proteggere il paese dagli invasori. Misha chiese le ali delle aquile, per avere libertà ed esplorare l'unico ambiente che gli era ostile: l'aria. Eyael, invece, chiese la furtività e l'astuzia dei serpenti, per ampliare le sue capacità nei commerci, negli scambi, nello studio.
Così, i tre fratelli tornarono al paese.
Fu solo felicità, fino alla prima luna piena. Quel giorno, era stata allestita una festa in onore dell'Angelo. Tutti e tre i fratelli conobbero delle donne, e vi passarono la notte, innamorandosene. Da quelle tre coppie, nacquero dei figli: Amon e Eyael ebbero due maschi, Misha una femmina. I tre fratelli divisero il villaggio, ormai espanso, in tre parti staccate, ai tre lati della valle.
Dopo i primi mesi vita, la natura della prole scoppiò: il piccolo Kanima, figlio di Eyael, perse il controllo. Tutto il villaggio li giudicava e li scherniva, perché il minore aveva perso in un duello d'onore contro un uomo del villaggio. Il desiderio di vendetta del padre era così forte che condizionò anche il bimbo: in una sola notte, sgusciando fuori dalla culla, massacrò mezza della sua frazione di villaggio nel sonno. La madre li ripudiò entrambi. Il padre lo portò via, e insieme si rifugiarono sulle montagne.
Il piccolo Lycos, il figlio di Amon, a causa della sua forza strabiliante, a otto anni era già destinato ad essere il capo della seconda frazione, e non solo per la discendenza sanguinea. Tutti erano sottomessi a suo padre. Lycos, con l'avvento dell'adolescenza, diventò sempre più avido di potere. Uccise un suo rivale, per assicurarsi il comando, pensando che fosse la cosa giusta. Disperati per l'amore provato per il figlio, i genitori lo portarono nei boschi, e lì s'insediarono. Rimasto solo, Misha non fu più accettato. Dopo la morte del padre, il popolo delle tre frazioni del villaggio, guidato dalla paura cieca, decise di eliminarli tutti e tre. La moglie, Margareth, fu uccisa, ma Misha riuscì a salvare la bimba, e volò via. L'Angelo, quando vide che i fratelli avevano disobbedito alle sue condizioni, s'infuriò. Poiché tutto era cominciato da una notte di Luna piena, a quella per sempre i loro discendenti sarebbero stati schiavi: durante ogni plenilunio, la loro natura si sarebbe rivelata, e mai più avrebbero potuto vivere tra gli umani.

 

Fu come risvegliarmi bruscamente dal sonno.
Appena la voce dello stregone cessò di raccontare, sobbalzai sul divano.

 

«Cosa significa? Irima, cosa c'entra questo con...»

 

Lui sembrò sorpreso che io non capissi.

 

«Emma, ti devo spiegare tutto? Ti credevo più perspicace.» appoggiò la tazza sul tavolino di cristallo, sospirando, come scocciato «Malaikat, la bambina che hai sognato, è una tua antenata. Sei la mille-volte-pro-nipote di Misha.»

 

Rimasi impassibile.

 

«Scusa, ma ti sbagli.»

 

Lui non sorrise, come faceva prima. Anzi, sembrò ancora più infastidito.

 

«Ah, sapevo che era troppo facile. Sei testarda. Non riesci proprio a vedere quello che è esattamente davanti al tuo naso.» mi schioccò le dita davanti agli occhi, e rimbalzai indietro con il busto.

Ero convintissima delle mie motivazioni.

 

«Ma se questa cosa si tramanda con la discendenza, anche Neir, in teoria, dovrebbe valere quanto me. Invece lo trattano come i licantropi. E parlando di licantropi, dovrebbero essere tutti discendenti di...» cercai di ricordarmi il nome «Amon. Com'è possibile? Si riproducono come i conigli? In più, nessuno dei miei genitori è per metà poiana.» sbottai.

 

Lui sembrò offeso dalle mie parole, come se l'avessi insultato.

 

«Tutte le persone di cui parli... sono stati tutti morsi, da persone morse a loro volta. Beh, a parte Hale... ma è un'altra storia. Ah, anche il povero Jackson... la sua situazione dipende da altro. Tu ce l'hai nel sangue. Loro sono coincidenze, tu sei la regola. Tutti sono affascinati da te, dalla tua particolarità. Tutti i prodotti delle discendenze di Amon, Misha e Eyael.» parlava come se stesse citando la Bibbia.

 

«Riguardo i tuoi genitori, beh, ho indagato. I registri dell'ospedale sono troppo accessibili, a proposito. So che sei già abbastanza sotto shock...» il suo viso rimase impassibile «ma tuo padre è sterile, Emma. I tuoi genitori hanno usufruito di una... donazione.»

 

La mascella mi cedette, e spalancai la bocca.
Mia madre aveva fatto l'inseminazione artificiale?

 

«Ma...» boccheggiavo, in cerca d'aria «no! Me l'avrebbero detto. Non è una serie tv latina scadente, questa è...» stavo per dire “la vita reale”.

 

Ma non avevo più idea di cosa fosse reale e cosa no.
Abbassai la testa, stringendola tra le mani.

 

«Oh, non fare la melodrammatica. Non è come scoprire di essere adottati. È la natura...» lo bloccai, alzando una mano.

 

«Zitto. Stai zittosibilai.

 

I discendenti di Eyael...

Scavai tra le immagini che poco prima mi erano apparse in testa. Un uomo-serpente. Sibilava...
L'aggressione.
Non voleva farmi del male.
Voleva osservarmi.
Frantumandomi le costole.
Come un cane troppo forte che gioca con un bimbo.

Era la goccia che fece traboccare il vaso.
Che situazione di merda.

Mi alzai e marciai verso la porta.

 

«Dove vai? Tutta la città vi cerca, Emma!»

 

Aprii la porta.
Il vento faceva vorticare dolcemente i fiocchi di neve, in buffe coreografie.
L'aria fredda mi schiaffeggiò con forza.

 

«Vado a prendere quel coglione di cui sono innamorata.»





"The story of us looks a lot like a tragedy now!"


Eccomi! Scusate se non ho risposto a nessuna recensione questa settimana, ma sono stata molto impegnata... (non sono proprio entrata su EFP in realtà o.o) in compenso, anche se non ve ne frega niente, ho preso 7 e mezzo in spagnolo *O*
Vabè, allora... il capitolo: come vi ho anticipato all'inizio, è una mia... "rivisitazione" delle origini dei mutaforma. Lo so, è un casino... ma ho avuto l'approvazione di due ragazze nello wolf pack, quindi spero vi soddisfi c:
Qualcosa è stato rivelato... insomma, è una bomba, una cosa dura da digerire... quant'è vicina Emma al crollo? Quanto ancora puo' sopportare? Cosa succederà alla base dei cacciatori? Tutto puo' ancora succedere. 
Ringrazio chi legge, chi recensisce, chi inserisce nelle categorie... insomma, siete tutti fantastici, anche se leggete silenziosamente <3
Ogni visualizzazione in più è una scarica di endorfine! Davvero, grazie.

Vi mando tutti gli abbracci che volete, e...
CHE LA FORTUNA POSSA SEMPRE  ESSERE A VOSTRO FAVORE.

Sara <3

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Capitolo 21
*** Unbroken. ***


 

Chapter twentyone: Unbroken.

 

 



Canzone consigliata:
Hold on / Adam Lambert




Parcheggiammo sul sentiero, al riparo a una ventina di metri dall'inizio dello spiazzo erboso.

 

«Dobbiamo sbrigarci. Gli altri cacciatori stanno per tornare.» cominciò lo stregone.

 

Chiuse gli occhi, concentrandosi.

 

«Sento il loro calore. Ce ne sono... pochi. Possiamo farcela. Uno a ogni entrata, uno gira per i corridoi... no, due. Due sono... no, uno è davanti a una stanza. Uno è dentro.»

 

Stiles.

 

«È lui. Come lo portiamo fuori?»

 

«Facciamo fuori...» vide la mia espressione scandalizzata, e si corresse «va bene. Tramortiamo quello all'entrata più vicina, andiamo nel corridoio, mettiamo KO anche l'altro e ce la filiamo con il tuo Romeo.»

 

La riuscita dell'impresa era improbabile. Impossibile.
Ma da come l'aveva descritta lui, sembrava facile.

Uscimmo dall'abitacolo e c'incamminammo a passo felpato (io almeno tentai) verso la fine degli alberi.

Lui mi diede un piccolo sacchettino di tela in mano.

 

«Rende semi-trasparenti. Dura dieci minuti. Tienilo a contatto con la pelle, non mollarlo mai.»

 

«Semi? In che senso semi chiesi allarmata, ma lui era già partito in quarta verso l'edificio.

 

«Scusi?» esclamò.

 

Io gli corsi dietro.
Ero perfettamente visibile, almeno ai miei occhi.

L'uomo all'entrata posteriore cercò con lo sguardo fino a trovare Irima.
Lo trapassò con un'occhiata.

Lo stregone, però, continuava ad avanzare.
Arrivò davanti a lui, conversando normalmente.

 

«Mi sa indicare la strada per la città? Mi sono perso.»

 

Il cacciatore fece per aprire bocca, ma sbiancò. Boccheggiò, si portò le mani alla gola e cadde a terra.
Non l'aveva neanche sfiorato.

 

«Emma? Lascia un secondo il sacchettino.»

 

Lo misi in tasca, inorridita.

 

«Come... cosa gli hai fatto?»

 

Lui si strofinò le mani, soddisfatto.

 

«Gli ho tolto la capacità di respirare.»

 

Mi guardò in faccia di nuovo.

 

«Non è morto! È solo svenuto!»

 

Fischiettando, scavalcò il corpo inerme del cacciatore ed aprì la porta.

Riafferrai il sacchettino e lo seguii, sussurrando una scusa all'uomo, anche se ero consapevole del fatto che non mi potesse sentire.
Nonostante quello che avevano fatto a me e ai miei amici, mi sentivo comunque in colpa.
Dopotutto, loro erano solo pedine dei "capi famiglia".

L'aria all'interno aveva un odore di chiuso e oppressione.
Probabilmente era soltanto una mia impressione, un'associazione frutto della mia mente.

Ci addentrammo nel corridoio, a passo felpato.
Dei passi ritmici risuonavano alla nostra sinistra.
L'uomo che girava per i corridoi era appena passato.

Contammo tre secondi, sulle dita, per avere una distanza di sicurezza.

 

A destra. La stanza è di là.”

 

Annuii.
La capacità di comunicare con il pensiero poteva risultare molto utile.

Cercavo quasi di non respirare, per non fare nemmeno il minimo rumore.
Ci fermammo dietro un angolo.

Sbirciai dall'altra parte: una cacciatrice era appostata davanti a una porta.

Dentro, un tump ritmico m'inquietò non poco.

 

«Devo fare pipì!» sentii esclamare dall'interno.

 

Il mio cuore cominciò a galoppare.
Ero tentata di slanciarmi in quella direzione, ma fortunatamente Irima mi trattenne.
Volevo tirarlo fuori di lì, volevo rivedere i suoi occhi nocciola e quel viso dolce, ma capace di farmi impazzire.

Poi, i passi diventarono più vicini.
Rivolsi un'occhiata terrorizzata a Irima: avevamo contato male?

Eravamo in trappola: dietro un cacciatore, davanti una cacciatrice.
Che fare?

 

Lei è più gracile. Via lei, prendiamo il ragazzo, usciamo e ce la filiamo.”

 

Deglutii. Era rischioso.
Ma che scelta avevamo? Avevo deciso io di fare quella mossa azzardata.

Abbiamo fatto trenta... facciamo trentuno.”

Vidi la donna sbiancare. Si portò una mano alla gola, piegò il busto in avanti.
Scattai in corsa verso di lei, la spinsi e la lanciai per terra.

Lei stramazzò sul pavimento. Non seppi trattenermi: la spinsi di lato con un piede. La soddisfazione di aver prevalso (anche se con un grande aiuto) su uno di quei parassiti era grandissima.

Volevo prenderla a calci. Sentivo la furia che cresceva. Da dove veniva? C'era sempre stata? Come mai avevo cambiato opinione su di loro così velocemente?

Un tonfo. L'altro uomo era a terra.
Irima era sfatto, visibilmente stanco, e goccioline di sudore gli inumidivano la fronte. Non aveva più energie. Avevamo poco tempo.

Spalancai la porta.

Stiles era seduto a terra, contro la parete, e faceva rimbalzare contro la parete una pallina da tennis.

La reincarnazione di dottor House.

Lo vidi alzare lo sguardo verso di me e sbattere gli occhi, incredulo.

 

«Emma?»

 

Si alzò goffamente, lasciando cadere la pallina.
Aveva un livido scuro su una guancia, le labbra aride, i vestiti sciupati.
Era rimasto un giorno là dentro, ma sul suo corpo i segni erano quelli di una settimana di reclusione.

Io gli corsi incontro e l'abbracciai.
Non ci pensai: lo strinsi forte, più che potevo, affondando il viso nella sua camicia stropicciata.

Lui restò rigido per qualche secondo, poi mi restituì l'abbraccio, imbarazzato.
Sarebbe stato il paradiso in Terra, la gratificazione totale, se solo la situazione fosse stata diversa.

Mi sciolsi, lo presi per mano e lo strattonai verso la porta, senza una parola.
Fuori, lo stregone era appoggiato al muro, ansimando lievemente.
I due a terra tossicchiavano, mentre si rialzavano.

Irima ci vide, raccolse le forze e ci seguì indietro, verso la porta.

Ci precipitammo fuori.

Mi pietrificai per l'orrore, con una gamba sollevata a mezz'aria.
I cacciatori stavano tornando. Una trentina di uomini e donne ci venivano incontro, e appena ci videro sentii risate, esclamazioni di sorpresa, fischi.

Dopo che la volpe era uscita a caccia e la lepre gli era scappata, tornando indietro se l' era ritrovata nella tana.

Tastai le tasche dei pantaloni, e lo trovai.
Quel maledetto sacchettino!
Gli aprii la mano e lo appoggiai tra le sue dita.
Niente, non scompariva. I dieci minuti erano già passati.
Quel sacchettino era completamente inutile, ormai.

Irima mi poggiò una mano sulla spalla.

 

Posso provare un'ultima cosa.”

 

Muovi il culo.”

 

Strinsi forte la mano di Stiles.

Era finita, sì. Mi avevano presa.
Almeno Stiles sarebbe tornato a casa.
E io? Cosa avrebbero fatto?
Mi avrebbero sparato in testa, per essere sicuri che non mi trasformassi in un abominio?
Ci avevo provato, a far uscire tutti illesi.
Ma evidentemente non era destino che io avessi una bella vita.
O una vita, semplicemente.

Un oggetto volò in aria, uno scoppio fortissimo, e una nebbia verdognola si diffuse nell'aria.
Era quello il piano di Irima?
Una nebbia da fuga in stile ninja?

Mi voltai, ma lui non c'era più.

Stiles mi strattonò, e cominciai a correre.
Sentii l'impatto contro i cacciatori, che non ci videro arrivare.
Correvo più veloce che potevo.

Stiles cadde a terra, strattonato, lanciando un'imprecazione.
La sua mano scivolò via dalla mia.
Mi voltai. Gerard era dietro di me.

 

Oh Cristo. Avrà ottant'anni, questo. Quante cose riesce a fare?

 

Qualcosa scintillò nella sua mano. Stiles si rialzò e lo buttò a terra. Ma aveva già ficcato quella cosa scintillante nel mio collo.

Una siringa.
Sentii l'ago punzecchiare la pelle, e non capii.
Non capii fino a quando non arrivò il dolore.

Bruciante, soffocante, terribile.
Insopportabile.

Lo vidi voltarsi ed andarsene. Tutti lo seguirono.
Cosa faceva? Perché tutti ci lasciavano lì?

Stiles mi strappò via la siringa dal collo e tentò di farmi camminare verso gli alberi, ma non ce la facevo.
Crollai in ginocchio, con il respiro affannoso, gli occhi sbarrati.

Il dolore era ovunque.
Lo sentivo spandersi da quel punto del collo, attraverso le vene, dappertutto.

 

«Là... la macchina.» ansimai.

 

Poi, i sensi si annebbiarono.
Tutto arrivò attutito.
Non stavo morendo, non stavo svenendo, stavo subendo il peggior dolore che avessi mai provato.

Nessun rumore, nessun odore, nessun colore.
Solo la leggera, vaga, lontana pressione delle braccia di Stiles sul mio corpo, mentre mi sollevava.

Io vagavo nell'oblio della sofferenza cieca.



Just hold on!

Buon 1 maggio a tutti! Allora, ho aggiornato in anticipo perché... avevo voglia. Lol. Allora, siete scandalizzate? Sì, lo so. Mi merito tutti gli insulti che volete c': Coomunque, voglio dirvi una cosa:
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KSHDFKJSHDFJKDSDKJS. Lo amo troppo. Ah, shoutout a Dylan (?): guardate la 2x23 di New Girl, c'è dentro anche lui! E il titolo è 'virgins' quindi... ci sarà da ridere HAHAHA Niente, mi dileguo ragazze! ... dovevo dire una cosa, ma ora mi sono dimenticata. Mmh.
Tanto amore,
Sara <3

 

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Capitolo 22
*** Venenum. ***


 

Chapter twentytwo: Venenum.





Canzone consigliata:
Breathe of life / Florence & The Machine

 

Era tutto nero. Il buio ero ovunque, mi soffocava, angosciava.
Ma il dolore... quello era molto peggio.

Sentivo delle voci. Era l'unico senso che ancora rimaneva attivo; flebile, ma attivo.
Non sapevo se urlavo. Dentro di me, lo facevo.
Bruciava tutto il mio corpo.

 

«Oh mio Dio... OH MIO DIO!»

 

Era lui. Stiles.

 

«Derek? Mi serve De... passami Deaton! No, i... Derek! La senti?»

 

Lo sentivo nel mio corpo, doleva da morire.
Ma morire sarebbe stato il paradiso, un balsamo in confronto a quello.

 

«Alla clinica! Forse... DEVO COSA?»

 

Ancora il buio.

Non riuscivo a capire niente.
Quanto tempo passasse, dove fossi...

Altre voci.

 

«Cos'è successo?» «Le ha ficcato una siringa nel collo, e ha cominciato a urlare!» «Quanto tempo fa?» «Non lo so! Oddio, falla smettere!» «Calmatevi tutti!»

 

Ci fu un piccolo istante, in cui sentii il dolore scemare. Tirai un profondo respiro, credendo, sperando che quell'inferno fosse finito.

Ma poi arrivò tutto.
A partire dal petto, mi squarciò, e fu peggio di stare su un rogo.
Poteva esistere un dolore così profondo che non portasse alla morte?

 

«Cosa succede ora?» «Oh, no.» «Cosa?» «La vuole trasformare!» «Ma è possibile?» «Credo sia appena arrivato al suo cuore... il veleno del morso è più lento del sangue, nell'avanzare. Ma è troppo tardi.» «Ascoltatela! Dobbiamo fare qualcosa!»

 

Tante voci, forti, ma comunque distanti.
Coperte da qualcosa di assordante.

Ero io.

Io che urlavo.

 

«Oh mio Dio!» «Non dovrebbe andare così! Con noi non è stato così!» «Lei è diversa... lo sapete.» «Diversa? Come diversa?» «Zitto, idiota! Se fossi arrivato prima te l'avrei spiegato!!» «Zitto tu, rapace!» «Non ce la faccio più, o la fate smettere o me ne vado!» «Vattene allora!»

 

Riconoscevo solo la voce di Stiles. Le altre il mio cervello non riusciva ad elaborarle. Avevo caldo. Un caldo terribile.
Se non era l'inferno quello, cosa lo era?
C'era qualcosa di peggio?

Anche gli occhi mi bruciavano.
Capii solo dopo che stavo piangendo.

 

«Emma! Ce la farai, ok?» «Finirà presto!» «Ci può sentire?» «Non lo so, sembra che la stiano frantumando pezzo per pezzo! Non so neanche se sa di essere viva!» «Non morirà, vero?» «No, ovviamente no!» «Forse...» «Zitto, Derek! STAI ZITTO!»

 

Volevo solo che finisse.
Volevo che tutto finisse, volevo la pace.
Mi sembrava che non fossi mai stata bene, come se quel dolore terrificante mi torturasse da sempre.

Poi, il nero mi accolse in un freddo abbraccio, e ci affondai con immenso sollievo.

 




I sensi tornarono lentamente. Il primo fu l'udito, che era stato l'ultimo ad andarsene.

 

«Vai a casa... non sì è svegliata fino ad ora, non lo farà presto...»

 

Olfatto.

 

Un odore intenso di candeggina e medicinali. Sudore. Shampoo? E il profumo di Stiles. Respirai forte dal naso, tenendomi aggrappata alla lucidità.

 

«No, non sono stanco.»

«Stiles, stiamo noi due con lei. Ci sono gli altri fuori...»

«Ho detto che non me ne vado, Erica. Dottor Deaton, le dia altra morfina.»

«Non gliene darò altra. Potrebbe essere pericoloso. E non so neanche se sta facendo effetto...»

 

Uno sbuffo.

 

«Almeno non sembra che la stiano sbranando. Non urla più. Quindi funziona.»

 

Tatto.

 

Ero indolenzita un po' ovunque.
L'eco del dolore cocente risuonava in sottofondo nelle ossa, nei muscoli e nei tendini, ma era una bazzecola in confronto a quello che avevo passato prima.

La mano destra era occupata. Da un'altra mano.

La mossi leggermente, per recuperare il controllo del mio corpo.
Mossi anche le dita dei piedi nelle scarpe, inarcai leggermente la schiena.

 

«Doc! Si sta svegliando! Te l'avevo detto!»

 

«Emma?»

 

Socchiusi un occhio.
Tre persone erano chine su di me. Stiles, Erica e il dottor Deaton.

Deglutii.

 

«Come ti senti?»

 

Mi schiarii la gola e mi misi a sedere.
Mi sentivo strana.

 

«Mh. Bene.» con un forte scalpiccio, il branco e Neir si precipitarono dentro.

Tutti mi fissavano.

 

«Bene?» Erica mi aveva parlato con un tono stranito.

Si voltò verso Neir «è normale? Perché è...»

 

Lui scosse la testa.

 

«Non... lei...» alzai le sopracciglia. Che stava succedendo?

 

Mi ricordai di quello che avevano detto.
Veleno.

 

Oh Dio.

 

«Oh, aspettate.» sbarrai gli occhi.

Mi guardai: niente, ero la stessa di sempre.

 

Stiles mi lasciò la mano.
Neir mi si avvicinò e si sporse verso di me.
Tirò su con il naso, pensieroso.

Mi stava annusando?

 

«No, sei... non sei più...» cercava le parole.


Lo afferrai per la maglia e lo avvicinai al mio viso, con lo sguardo più minaccioso che trovai.

 

«Non sono cosail silenzio gravava nella stanza.

 

Mi guardò serio.

 

«Non sei più umana, Emma. Puz... odori di... volatile.»

 

Ero a bocca aperta.
Lo lasciai, incredula.

 

«Odoro di cosa gli diedi una spinta che lo fece barcollare all'indietro e cadere con il sedere a terra. Saltai giù dal tavolo operatorio, e Derek mi si parò davanti.

 

«Controllati.» disse, con voce calma e suadente.

Inchiodò lo sguardo del mio, senza lasciarmi passare, piantato come un muro che mi separava dagli altri.

Diedi una spinta anche a lui, ma fece solo un passo indietro.

Non ci avevo messo tanta forza, volevo solo sfidarlo.

 

«Controllarmi? Un vecchio pazzo mi ha appena iniettato della merda nel sangue, puzzo di volatile, ho passato un inferno nelle ultime ore e tu mi dici di controllarmi?» gli diedi un'altra spinta.

Nessuno sembrava voler intervenire.

 

«Devi essere ancora più scemo di quanto pensassi!»

 

Sentivo la rabbia ribollirmi dentro.
Lui mi fissava, impassibile.

 

«Non sei tu. Controllalo. È normale, ci siamo passati tutti.»

 

Sentii un gorgoglio in gola.
L'impulso era quello di ringhiargli.
Quello che uscì, però, non era esattamente un ringhio.
Era acuto, ma comunque terrificante, a bocca spalancata.
Talmente brutto che mi spaventò, e sobbalzai, coprendomi la bocca.

 

«Capito, ora?»

 

Disse, sorridendo strafottente.

Gli tirai un pugno sulla mascella. Il colpo gli fece scattare la testa di lato.
Tutti emisero un secco respiro mozzato, per la sorpresa.

C'era del sangue, sulla sua guancia. Mi guardai la mano: degli artigli ricurvi mi erano spuntati al posto delle unghie.
Il lungo graffio che gli avevo lasciato sulla guancia era profondo, e ne sgorgava copiosamente lo scuro liquido rosso.
Dopo nemmeno un secondo, vidi prendermi una spalla, alzarmi, afferrarmi una gamba e lanciarmi contro il muro.

 

«Derek!» Erica gli era saltata sulla schiena, graffiandogli il viso e artigliandolo con le gambe.

Lui se la scrollò di dosso come una mosca fastidiosa.

Mi rialzai e avanzai di un passo, tenendo le braccia allargate e inclinate un po' all'indietro, il busto eretto, la schiena dritta, cercando di aumentare la mia statura. Era una posizione di attacco.

Lui si piegò sulle gambe, ringhiando, mentre gli occhi diventavano rossi e delle zanne poco carine gli uscivano prepotentemente dalle labbra.

Stavo per lanciarmi verso di lui, ma Stiles si mise in mezzo.

 

«Finitela!» esclamò, rabbioso.

 

Sorpresa, portai indietro la gamba e rilassai i muscoli delle braccia, mentre gli artigli si ritiravano.

Io deglutii.
Era provato.
Non ero più umana.
Ero un abominio, uno scherzo della natura.

Tutta la furia di prima scemò all'improvviso, l'adrenalina cessò di scorrermi nelle vene e mi sentii distrutta.

 

«Cosa diavolo è successo?» chiesi, anche se lo sapevo benissimo.

 

Non era quello, ciò che volevo sapere.
Volevo sapere cosa sarebbe successo nel futuro.

Erica mi affiancò, mi avvolse con il braccio e mi portò verso una sedia.
La ringraziai con un sorriso.

 

Stai diventando bipolare, Emma?

 

«Sei... come me. All'incirca.» disse Neir, senza avvicinarsi di nuovo. Si era rialzato e appoggiato contro il muro. Mi sentii in colpa per avergli voluto staccare la testa. A morsi.

 

«Che significa “all'incirca” chiesi, tirando su le gambe, premendole contro il petto, e abbracciandole. Lo sguardo guizzava sui presenti. Stiles, Erica, Boyd, Derek, Deaton, Neir. E gli altri? Probabilmente erano andati a dare spiegazioni.

 

«Quando mi sono trasformato» ricominciò il biondo «le... ali mi sono spuntate subito. A te invece... tu ti sei fermata ad artigli e denti. E... so di Misha.»

 

Denti? MISHA?

 

«Gli uccelli non hanno denti... e come fai... solo tu?» constatai, confusa.

Lui sorrise.

 

«I lupi non hanno gli occhi rossi e non guariscono super velocemente. Eppure... e comunque no, anche alcuni di loro.» Derek gli lanciò un'occhiataccia, Boyd ci fissò visibilmente confuso.

 

Annuii, e mi accorsi solo in quel momento di quanti tasselli del puzzle stessero andando a posto. Ripercorsi gli ultimi due mesi.

L'aggressione.

Avevo già collegato il mio aggressore a un discendente di Eyael, oppure a qualcuno morso da uno di loro... ma l'altra persona? Quella che mi aveva salvata?

 

«Dopo la partita» cominciai, sicura «quando sono stata...» lasciai vagare la frase «c'era qualcun altro. Chi era?» sperai di essermi fatta capire.

 

Neir fece spallucce.

 

«Prego.» disse, e io mi sentii inondare dalla gratitudine.

 

La festa.

 

«Alla festa di Halloween.» quella semplice, corta frase parlava da sé.

 

Erica abbassò lo sguardo, Boyd incrociò le braccia.

 

«Non sei stata male per caso. C'era... abbiamo messo nella roba nella coppa del punch nero..»

 

Derek la zittì «Giravano voci su una... un'arma. Una persona pericolosa qua a Beacon Hills, oltre a Jackson. Il kanima. Quello che ti ha attaccata. Quando Erica mi ha detto che eri stata male, ho pensato che fossi già trasformata... ma avrei dovuto farlo io. Ora però sei il cucciolo di Gerard, e non sappiamo neanche da dove saltava fuori quella siringa.» sbuffò infine, la mascella tirata, lo sguardo accusatorio.

Ignorai la frecciatina.
Pensai a quello che aveva detto Irima su Derek. “Sono stati tutti morsi, da persone morse a loro volta. Beh, a parte Hale...”
Fissai Derek.

 

«Tu ci sei nato. Lo sei sempre stato. Perché io no? Perché ci è voluto il veleno?»

 

Lui scrollò le spalle.

 

«Perché il cielo è blu? Perché gli adolescenti sono idioti?» disse di rimando, alzando gli occhi al cielo. Mi venne voglia di dargli un altro pugno. Più forte del primo. «È così e basta. Non lo so. Chiedilo al tuo amico Houdini.»

 

Gli lanciai un'occhiata tagliente. Stiles aveva raccontato agli altri della presenza di Irima, allora.

 

«Durante l'adolescenza si forma la corteccia prefrontale...» cominciò Stiles, per rispondere all'ultima domandaposta da Derek. Poi vide tutti gli sguardi che si posarono su di lui, e finì per scrollare le spalle a sua volta..

 

Deaton mi fissava dall'altro capo della stanza. Non parlava, semplicemente sorrideva. Ma perché? Era così divertente la mia situazione disperata?

Erica tossicchiò leggermente.

La vidi gesticolare con la coda dell'occhio.

 

«Vi... lasciamo soli, ok? Noi siamo qua fuori, se avete bisogno di qualcosa.» disse, per poi dare una spintarella a Boyd, che mi sorrise, alzò due volte le sopracciglia velocemente, ammiccando, si voltò e uscì.

 

«Perché?» chiesi. Non sapevo neanche cosa intendesse con “soli”. Chi, io e Neir, per parlare della nuova me? O io e Derek, per lasciarmelo pestare in pace?

Rimanemmo nella stanza solo io, Derek, Erica e Stiles.

 

«Sai... per prima» disse lei, abbassando lo sguardo sulla punte sue scarpe.

 

Aggrottai la fronte.

 

«Prima cosa?»

 

Per la prima volta nella mia vita, sentii qualcosa di simile a una risata uscire dalle labbra di Derek.

 

«Non ricordi proprio niente, vero?» mi chiese, pungolandomi.

Passai lo sguardo sui presenti, disorientata.
Erica cercò di trascinarlo fuori, e lui la lasciò fare, ma non prima di avermi ammiccato come Boyd.

Eravamo rimasti solo io e Stiles, che evitava il mio sguardo.

 

«Stiles? Mi spiegheresti?» ero stufa di quei giochetti.

 

Lui restò dov'era, a un paio di metri da me, dondolando da una parte all'altra.

 

«Umh.» cominciò, impacciato «quando, sai... stavi...capito, no?»

 

Annuii, incoraggiandolo a continuare.

 

«Tu... mi tenevi la mano. E mi chiamavi.»

 

Oh.

 

Abbassai anche io lo sguardo, imbarazzata.
Feci per giustificarmi, montarci su una scusa, ma lui mi bloccò ancora prima che potessi cominciare. Evidentemente le mie sventure non erano ancora finite.

 

«Emma... mi hai detto che mi ami. Più... più volte.»

 

Ero pietrificata.

 

Che figura di merda.

 

Mi visualizzai in preda all'agonia, mentre gli stringevo la mano ossessivamente, tenendomici aggrappata come ad un salvagente, mentre gli confessavo i miei sentimenti davanti a un intero branco di licantropi.

Non era esattamente così che me l'ero immaginato.

Mi morsi il labbro, desiderando di essere ancora svenuta sul tavolo operatorio dell'ambulatorio veterinario. Lui mi si avvicinò.

 

«È vero?» chiese, abbassandosi davanti alla mia sedia.

Volevo scomparire. Sotterrarmi. Soffocarmi con la maglia. Prendermi a pugni in testa fino a perdere i sensi.

 

«Emma?» cercò di richiamare la mia attenzione.

 

Io tenevo lo sguardo fisso sulle mie ginocchia.

 

«È vero?» riprovò.

Non riuscii a fare altro che annuire.
Far uscire gli altri era stato completamente inutile.
Potevano benissimo sentirmi, tutti tranne il veterinario.

Lui mi sollevò il viso con un dito.
Sbattei le palpebre, stranita.
Che faceva?
Si avvicinò ancora, e capii cosa voleva fare. Il mio cuore cominciò a battere talmente forte che sembrava volermi uscire dal petto e volare via.

Si mise sulle ginocchia, in modo da potersi sporgere meglio. La mano che non mi teneva il viso andò ad afferrare il bracciolo della sedia.
Socchiuse gli occhi, avvicinandosi. Era impacciato, goffo, indeciso.

E così dannatamente perfetto.

Mi sporsi anche io verso di lui, socchiusi gli occhi e feci entrare in contatto le nostre labbra.

Il mondo cominciò ad esplodere.
Ogni parte di me sprigionava elettricità, e mi aspettavo che i capelli stessero per rizzarsi come dopo una scossa elettrica.
Le sue labbra erano morbide e calde, dolci sulle mie.

Il bacio non durò più di qualche secondo, ma per me fu il paradiso.
Feci appena in tempo a guardare quegli occhi color miele, che un applauso si levò dall'esterno, con tanto di fischi.

 

«Idioti» bisbigliai, certa che potessero sentirmi.



Owwwh. AWWWW.
Awww. Era da tantissimo che volevo postare questo capitolo <3
Sorpassiamo la "trasformazione", la rissa etc e arriviamo alla parte più importante:
SI. SONO. BACIATI. Il primo bacio di entrambi! JKFSDKFDSFKS sì, sto fangirlando anche se sono io l'autrice.
Comunque... ho postato un giorno in ritardo, convinta di essere in perfetto tempismo... me ne sono accorta solo ora, scusate cwc
Sono allegrissima perché sono tre giorni che non vado a scuola e niente... un po' mi annoio, ma non importa c:
Ma.. ma.. 6 RECENSIONI? Mi fate andare in cortocircuito il computer, ragazze/i! Vi amo, mamma mia!
Un'ultima cosa, che non c'entra con il capitolo ma spero mi perdonerete...
chi ha sentito l'ultimo album di Demi Lovato?
JFDSKLFHDSJKFSD mi sta dando l'ispirazione per la prossima FF ;)
Colgo l'occasione per aprire un concorso:
TROVA IL TITOLO!

Vi spiego: sto scrivendo la seconda parte di Fly, e mi serve un titolo... ma non riesco a trovarlo! Quindi chiedo aiuto a voi: mi serve un titolo di una parola, possibilmente un verbo, in modo da mantenere una somiglianza con, appunto, "Fly.". Vi mando un bacio e un grosso ringraziamento,
Sara <3

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Capitolo 23
*** Wonderland. ***


Chapter twentythree: Wonderland.

 



Canzone consigliata:
Avril Lavigne / My Happy Ending




 

La jeep scivolava dolcemente sulle strade della cittadina, con un leggero borbottio in sottofondo. Non era esattamente un veicolo romantico, ma... anche una carriola mi sarebbe andata bene, pur di passare del tempo con lui.

Io tenevo gli occhi fissi sulla strada.
Beh, almeno ci provavo.
Ogni tanto sbirciavo alla mia sinistra, verso Stiles, che stringeva il volante come se ne valesse della sua stessa vita.

Tirò su con il naso e si schiarì la voce.

 

«Umh. Allora... ti senti diversa?» chiese, tamburellando con le dita sul volante.

 

Io feci spallucce.

 

«In realtà no. Sono più impulsiva, come avrai notato, ma... a parte gli artigli... no, non mi sento particolarmente diversa.»

 

Deglutii. Avevo la gola secca.
Lui annuì, e il suo tentativo di iniziare una conversazione andò definitivamente a vuoto.

Sapeva già la strada per andare a casa mia, mi ci aveva accompagnata pochi giorni prima, quindi non ci fu neanche bisogno che gli dessi indicazioni.

Parcheggiò davanti a casa mia, e il silenzio divenne opprimente.
Sospirai.
Che fare?

 

«Beh, grazie.»

 

Feci per scendere, che sentii una lieve risata da parte sua. Era strana, soffocata, tirata. Mi voltai per vedere cos'aveva, rivolgendogli uno sguardo interrogativo.

 

«Scusami, è che...» si passò una mano sulla testa, accarezzando quei radi capelli «è ironico, no?»

 

Accentuai il mio sguardo idiota da “che-diavolo-stai-dicendo?”

 

«Cioè... dopo tutto quello che è successo, ti accompagno a casa come se niente fosse, quasi come se ti riportassi a casa da un appuntamento. Ma è cambiato tutto, e... come fai... come fate? Pensavo che fosse solo perché sono umano, ma... tu lo sei, lo eri fino a poco fa, e... dio, non è normale!» lo vidi incupirsi, e volevo bloccarlo, ma il fiume di parole ricominciò a scorrere «Non sei più umana, e l'hai presa così... è stato come se ti dicessero che hai preso D in un compito! Non sei andata fuori di testa, non hai cominciato a spaccare tutto, non hai tentato di ucciderci... sei rimasta un po' con lo sguardo nel vuoto, hai fatto due domande e... tutto a posto, ora ti sto riportando a casa e vissero tutti felici e contenti! Domani torniamo a scuola, è un martedì come tanti e p...» gli misi una mano sulla bocca.

 

«Fermati.» dissi, secca.


Stava stringendo il volante talmente forte che le nocche erano sbiancate, e vedevo i muscoli delle braccia tendersi sotto la camicia.
Gli accarezzai il braccio più vicino a me, mentre pensavo a cosa dirgli.
Ma aveva ragione.

Era tutto orribile, strano, e non era normale, non era giusto che la prendessimo alla leggera. Ma che potevo fare? Se avessi perso il controllo definitivamente, se avessi cominciato a sfogarmi su ogni cosa che mi capitasse a tiro, avrei letteralmente distrutto tutto.
Non potevo permetterlo. Dovevo sostenere la situazione, essere forte, non potevo dare questa soddisfazione a quei bastardi dei cacciatori.

Un pensiero mi accese la mente.

Per Stiles, quella era la quotidianità. L'unico umano in mezzo a creature soprannaturali, piccolo e terribilmente fragile.

Da quanto sosteneva quel peso?
Settimane?
Mesi?
Anni?

All'improvviso mi sentii stupida ed egocentrica.
Ogni parola che volevo pronunciare sembrava sbagliata, inopportuna.

Lasciai scorrere la mano dal suo braccio alla sua mano, la sfiorai leggermente.

 

«Penso... penso che, se mi permettessi di fare come hai detto tu, mi comporterei da egoista. Perché fingendo che tutto sia normale, restando forte... proteggo chi mi sta vicino dal crollare.»

 

Non parlavo di me.
Almeno, non solo.

Gli strinsi la mano, che mollò la presa dal volante dell'auto.

Alzai lo sguardo verso i suoi occhi color miele e mi sentii sciogliere.

 

«'Notte, Stiles» dissi, e uscii dall'abitacolo.

 

Aprii la porta di casa, e grazie a un udito super fine che non avevo chiesto, e di cui avrei fatto volentieri a meno, lo sentii rispondermi con un soffio impercettibile a orecchie umane.

 

«'Notte, Emma.»

 

Mise in moto e partì.


 

 

 

 

 

Sbattei la porta della camera talmente che forte che una fotografia appesa al muro si staccò dalla parete e cadde sul parquet.
La chiusi a chiave e mi lanciai sul letto, mentre le lacrime cominciavano a scorrere.

Era immaturo piangere per un litigio con i propri genitori dopo aver cambiato la propria natura?
Probabilmente.

Appena entrata, ero stata assalita da domande e rimproveri. Io avevo risposto chiedendo di mio padre. Avevo detto che sapevo che non era il mio genitore biologico. Calato il silenzio, ero corsa nella mia stanza.

Morsi forte il cuscino, mentre i singhiozzi mi scuotevano. Sentii male alle gengive.
Mi misi a sedere, strofinando il dorso della mano sugli occhi per scacciare le lacrime.

Il cuscino era rotto, l'imbottitura squarciata.
Portai la mano alla bocca e sentii qualcosa di appuntito: i denti.
Le lacrime scorrevano ancora di più, come un fiume in piena.

Lanciai via il cuscino e mi accartocciai sopra il lenzuolo.

Perché tutte a me?
Perché non potevo semplicemente vivere normalmente, come tutte le adolescenti?

Tirai un pugno al materasso.
No, no. Avevo odiato profondamente la mia vita.
Non riuscivo a decidere quale fosse il lato peggiore della mia esistenza.

Sentii il sapore del sangue, e mi accorsi che mi ero ferita il labbro con i miei stessi denti.
Grugnii la mia esasperazione, e mi sfiorai il labbro sanguinante.

Il bacio tornò prepotentemente nella mia mente, e chiusi gli occhi, assaporandone il ricordo.

Ecco. Era per quello che continuavo a lottare. Per lui.
Mi strofinai il viso con la manica della maglia, sporcandola di lacrime e sangue.

Mi addormentai così, di botto, sperando in un sonno pacifico che non arrivò. Furono incubi, pieni di zanne, siringhe, urla, sangue e morte.
E Stiles era sempre lì, e mi chiamava, chiedeva aiuto, ma o non riuscivo a raggiungerlo. Mi strappavano via da lui e mi lanciavano nel buio.





Where's my happy ending?

 

 

Eccomi tornata, amori miei! <3
Ho aggiornato in anticipo perché, beh... 7 recensioni! Parlano da sole **
Andiamo al capitolo: Emma è andata in crisi, Stiles anche ma sembra cercare di non darlo a vedere, i cacciatori stanno tramando qualcosa e... è tutto un casino. Chi riesce a vedere una via d'uscita è bravo. E la cosa migliore è che... andrà anche peggio!
Mi scuso per la pessima grafica dell'angolo autrice dello scorso capitolo, ma ogni tanto qualcosa fa le bizze .-.
Vi mando un bacio e vi aspetto al prossimo capitolo, domenica o lunedì prossimo! c:

 

Sara <3

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Capitolo 24
*** X: done. ***


Chapter twentyfour: X: done.

 

 



Canzone consigliata:
Mikky Ekko / Who Are You Really


 

Correvo. Correvo nel bosco, stringendo a me un fagottino piangente. Sentivo i capelli lunghi che mi schiaffeggiavano il viso con l'aiuto dei rami degli alberi, che non potevo spostare a causa delle mani occupate. 
Sapevo di non avere scampo.
L'accampamento era fatto per tenere gli altri fuori, ma riusciva perfettamente a tenere noi dentro. Avevano preso tutti i bambini. Tutti tranne il mio Edward. La terza generazione di mostri era stata quasi completamente rapita. La seconda, a cui anche io appartenevo, era ormai passata in secondo piano. Per noi, le scelte erano uccidere o scappare. “Nessun prigioniero”.
Li sentivo dietro di me. Una decina, forse più, che volevano lui. Mio figlio. Generato con un umano, come lo ero stata io. Piangeva, disperato, ignaro di quello che stavo facendo. Gli alberi erano troppo fitti per aprire le ali, ed io ero troppo lenta per sfuggirgli. Rimandavo l'inevitabile: una lotta all'ultimo sangue. Mio marito forse era stato risparmiato, in quanto essere umano e di sesso maschile, al contrario di mia madre. Forse quello poteva salvarlo. Ma io? Un mostro, e perlopiù donna, in una società dove le donne valgono meno di niente... inciampai in una radice, a mi voltai sulla schiena in modo da proteggere il bambino. Con il respiro affannato e i graffi che già cercavano di rimarginarsi, mi rimisi in piedi e ricominciai a correre. Erano troppo vicini. Con le lacrime che mi scorrevano sul viso, lasciai che i denti acuminati si facessero strada tra le mie labbra. Feci attenzione a non ferire il piccolo con i miei artigli. Avrebbe fatto otto mesi tra un giorno. Nel caso della mia probabile morte, l'avrebbe allattato una nutrice, e gli avrebbero parlato della sua madre ribelle, un mostro, che aveva ucciso gran parte del villaggio, e tentava di uccidere il suo unico figlio, temendo che le si rivoltasse contro... tutte menzogne, ma che l'avrebbero di certo convinto ad odiarmi, a odiare la sua stessa specie... e diventare un'arma di guerra. Mi fermai quando raggiunsi lo strapiombo. Di lì, saltando, avrei potuto volare via. Mi resi conto, però, che non volevo scappare. Volevo vendicare la mia gente. Volevo uccidere. Mi voltai e poggiai il bimbo avvolto nella stoffa dietro un cespuglio. Lo avrei ripeso dopo, portandolo via. Prima, però, avrei ridotto il più possibile il numero di persone che potevano minacciarlo in futuro. Lasciai che la semi-trasformazione si compisse: gli artigli si allungarono ancora di più, i denti si affilarono, gli occhi da rapace li individuarono a distanza di una decina di metri tra alberi, fogliame, animali che fuggivano. Sentii le ali che premevano per uscire, ma non c'era spazio, così le tenni a bada. Ben conscia di quello che stavo per fare, lasciai uscire l'istinto animale di protezione materna e di furia omicida e lo lasciai scorrere, inondandomi di energia pura e semplice. Ora non ero più Malaikat, figlia amata, moglie amante e madre devota, membro di una piccolissima comunità felice e armoniosa. Ero la guerra. La morte. Il primo uomo uscì dal folto erboso, armato fino ai denti di ogni oggetto tagliente disponibile. Con la mano protesa in avanti, aspettai che si lanciasse verso di me. Gli artigli penetrarono nella sua carne, afferrarono il suo cuore ancora pulsante e glielo strapparono via dal petto, mentre gli altri uscivano dagli alberi. Lanciai giù dal burrone il cadavere del primo e mi avventai sui primi due che mi si pararono davanti, tranciandogli la gola con gli artigli...

 

Saltai in piedi sul letto, gli occhi spalancati, il respiro affannoso.
Il lenzuolo matrimoniale era umido e a brandelli, e anche gli altri cuscini erano squarciati. Era tutta opera mia. Rovistai nei cassetti del comodino e trovai il piccolo quaderno nero rilegato con cura. Ne accarezzai la copertina con affetto, poi afferrai frettolosamente la penna che ne penzolava, attaccata a un filo dorato da pacchi regalo, e cominciai a scribacchiarci furiosamente. Scrissi tutto. Tutto quello che era successo in quei giorni, ogni minima cosa. Ogni orribile sogno.

Rilessi poi le pagine precedenti. Quelle in cui parlavo della mia vita schifosa: i brutti voti a scuola, lo scarsissimo numero di amicizie, e Stiles. Stiles era ovunque. Il suo nome era sempre accostato ad un cuoricino, un epiteti continua.

C'era una pagina, su cui avevo scritto delle frasi e disegnato accanto dei quadretti. Erano le “cose da fare prima di morire”.

Ne avevo spuntate solo due con una X rossa:

12) Diventare vegetariana X

13) Prendere la patente X

Ce n'era una, la prima cosa segnata nell'elenco era “Baciare Stiles”. Prima c'era scritto “Sposare”, ma a tredici anni l'avevo cancellato e corretto. Con il cuore gonfio di una strana sensazione, tracciai una grossa X anche su quello.

Mentre sfogliavo il diario, un'improvvisa e fortissima fitta alla testa me lo fece sfuggire di mano. Durò un secondo, forse meno, ma mi tolse il fiato.

 

«Emma? Esci... per favore.» mia madre.

 

Grugnii in risposta, e un'altra fitta mi fece quasi esplodere il cervello.

 

Malaikat.”

 

Scossi la testa.

 

«Emma... andiamo, possiamo parlarne? Sono ore che sei chiusa lì dentro...»

 

Aprii un cassetto del comodino e ci buttai dentro il diario, con le mani tremanti.

 

Emma.”

 

Lasciami in pace!”

 

Strappai via dal letto il lenzuolo distrutto, ammucchiandoci dentro i cuscini e facendo un grosso fagotto. Dovevo buttare tutto.

 

Vieni. Ti posso proteggere.”

 

Irima? No, no. La voce mentale di Irima era soffice, s'insinuava nella mia mente bussando alla porta. Quella, la porta non l'aveva neanche vista. Era entrata e basta.

Aveva senso rispondere? Con Irima funzionava. Potevo stabilire una specie di contatto telepatico, per quanto rimandasse a Star Trek.

 

Ti mostrerò cosa puoi fare. Vieni.”

 

Sentii un sospiro forte fuori dalla porta, poi dei passi che si allontanavano.
Lo combattevo con tutte le mie forze. Restava lì, però. Prepotente, insistente, insopportabile.

 

Sai che non ti meritano. Perché ti ostini a essere sottomessa? Non preferiresti comandare? Un esercito, magari?”

 

No! Vattene!”

 

Ero di nuovo là, con quegli uomini. Presi la testa di uno e la sbattei contro un albero. Il sangue mi macchiava le mani, il viso, i vestiti. Tranciai la gola di un altro con gli artigli. Lanciai uno nel burrone con un calcio. Un taglio al fianco sgorgava sangue, ma non m'importava: presto si sarebbe rimarginato.

 

Smettila!”

 

Non era possibile. Quelle cose... succedevano solo nei miei sogni. Irima mi aveva trasmesso una specie di visione, certo, ma era accanto a me, e mi stava raccontando tutto. Come faceva quello, invece, a distanza di chissà quanto, a bombardarmi di immagini quasi senza sforzo?

 

Lo scenario era cambiato. Sopra di me, delle casette di legno costruite sugli alberi. L'erba era accarezzata da delle scalette a pioli di corda, che permettevano di salire a chi non aveva le ali. Eravamo tutti lì: Amon, la moglie e il figlio, ormai uomo, più vecchio di me di una manciata d'anni. Poco più in là, altre tre persone: un uomo alto, con capelli bianchi e lineamenti spigolosi, che insegnava a un ragazzo a tirare di scherma. Cosa quasi inutile, in quanto il ragazzo possedesse i poteri del padre, anche se in quantità minore. Erano Eyael e il figlio. Accanto a me, un uomo rideva, parlando con delle persone. Alcuni umani avevano deciso di schierarsi con noi nella nostra piccola guerra. Alcuni semplicemente curiosi, altri speranzosi di ricevere il morso. Quell'uomo si girò e mi sorrise. Mi prese la mano. Lanciò un'occhiata a mio padre, poco lontano, con le ali spalancate, e mi lasciò la mano. Ridemmo insieme.

Lo cacciai via di nuovo.

 

Lasciami entrare. Lascialo scorrere...”

 

Ero appena fuori dal perimetro dell'accampamento. Il ponte che collegava la piccola isola alle terre del villaggio era davanti a me, e dall'altro capo due uomini mi osservavano. Stavo andando a prendere i gigli. Quelli crescevano appena aldilà del ponte... ci avevano scoperti. Avevano trovato l'accampamento, nonostante l'impegno impiegato nel nasconderlo. Non dovevano dirlo agli altri. Non potevo permetterlo. Lasciai cadere il cesto e corsi. Corsi oltre il ponte, e loro scapparono via. Io spiegai le ali, le usai come vele e gli balzai addosso. Le punte delle ali, acuminate come rasoi, gli graffiarono la schiena. Io feci il resto. In pochi secondi, tutto era sangue. Mi schizzò in viso, e chiusi gli occhi. Non mi sentivo in colpa. Li lanciai giù dal ponte. Dovevo occultare i corpi. Dovevo tenere tutti al sicuro.

 

Me ne buttò addosso un altro.

 

L'uomo è accanto a me. Mi sorride, mi dà un bacio dolce. La nostra nuova casa sugli alberi è più grande di quella che dividevo con mio padre: è per tre. Vedo la sua mano scendere dal mio viso fino al mio ventre, e accarezzare il rigonfiamento ormai evidente della mia pancia. Sono quattro mesi...

 

E un altro.

 

Gli uomini armati sono appena arrivati. L'uomo mi dà in braccio Edward, sguaina la spada e salta giù dalla casa. Ma io non posso scappare. Non posso lasciarlo lì. Mi affaccio e vedo che sta combattendo. È un eroe. È coraggioso, temprato dal duro addestramento della battaglia. Atterra tre uomini. Uno lo colpisce al braccio. Alza lo sguardo verso di me. Mi sorride. Poi lo uccide, con un gesto fluido del polso, colpendolo al polpaccio e poi dritto al cuore. Rivedo il suo viso. È Stiles. No, no, è quell'uomo... è mio marito. No, è il marito di Malaikat...

 

Gridai e lo buttai fuori. Le orecchie si tapparono e caddi sul fagotto di lenzuola con un tonfo. Avevo bisogno di aiuto. Non li avevo mai visti così vividi, non mi ero mai sentita così... viva e presente nei sogni. Con la mente, mandai un messaggio a banda larga. Avevo bisogno di Irima.




Look at the sun.


Alloora, salve a tutti c: Mancano così pochi capitoli alla fine... mamma mia, non mi ci fate pensare! 
Comincio con lo scusarmi per non aver risposto ad alcune recensioni (l'ho scoperto stamattina, ero sicurissima di averlo fatto!) e quindi vi ringrazio direttamente qua: GRAZIE
<3
Parliamo del capitolo: c'è qualquadra che non cosa. Ma cosa non quadra? E quadra non cosa? Eh, povera Emma... e povero Boyd. Boyd? O-OH. Io non vi ho detto niente... non parlatene a Sara, vi prego! ...
Sì, sto delirando un pochino, ma è colpa (merito) della strabiliante velocità con cui la terza stagione si avvicina! Mancano DUE settimane, quattordici giorni precisi! 
E vogliamo parlare del trailer? ... No, seriamente, parliamone, perché dal sito che hanno dato su twitter non lo lascia vedere in Europa. Quindi noi... aspettiamo. Anche se l'attesa ci logora, keep calm girls cwc
Un abbraccio e a domenica,
Sara
<3

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Capitolo 25
*** You. ***


Chapter twentyfive: You.




 


Canzone consigliata:
Bridgit Mendler / Hurricane


 


Presi la giacca ed uscii di casa, vestita e truccata. Erano le cinque di mattina. Non ero più riuscita a dormire, soprattutto per la mancanza di lenzuola e cuscini integri. Così, avevo avuto parecchie ore per girare per la stanza, aspettando che chiunque venisse, non avendo a disposizione un cellulare, sequestratomi dai cacciatori. Dopo un po', mi ero decisa a prepararmi molto in anticipo per la scuola. Mentre mi vestivo, mi ero guardata allo specchio, cercando qualche cambiamento con più attenzione.

Niente, il mio corpo era sempre lo stesso.
Neanche una curva che fosse andata al posto giusto... eppure, Erica era cambiata... forse era stata solo un'eccezione, chissà. Così avevo deciso di cambiare stile, o almeno provarci. Dopo svariati tentativi, Indossai un paio di jeans attillati blu, una maglia a righe bianche e verdi con scollo a V, la mia giacca di eco-pelle preferita e... un paio di tacchi. Non tanto alti, ovviamente, ma era l'unico paio di scarpe con il tacco mio in tutta la casa. Non li avevo mai messi... ma ero cambiata, e forse, beh, i super poteri mi avrebbero aiutata con il mal di piedi. Se mi fossi sentita a disagio, avrei sempre potuto ritornare al vecchio, anonimo e amato look.

Era in qualche modo buffo, tornare alla routine dopo dei giorni del genere.
Ma non potevo saltare ancora la scuola, dopotutto ero ancora umana... in alcuni aspetti. Sfruttai il tempo a disposizione per farmi una camminata. La giacca, compagna di mille avventure, era aperta. Le mani erano ficcate nelle tasche e il marciapiede scorreva lento sotto i miei piedi.

Sul fianco, avevo la borsa a tracolla con dentro il necessario per la scuola.

La destinazione era la casa di Irima, ma mi trovai ferma davanti a casa di Stiles.
Guardai l'orologio che avevo al polso: le cinque e mezza. Conoscendolo, dormiva ancora. Era troppo presto per andare a scuola, era troppo presto per tutto. Mi sedetti sul marciapiede e fissai la finestra della sua camera. Era buia. Per dieci minuti rimasi seduta lì, lasciando vagare la mente e mandando messaggi intermittenti allo stregone, fino a quando non si accese una luce al piano terra. M'irrigidii quando vidi la sagoma del padre del ragazzo girare per la stanza. Mi nascosi dietro la siepe, sperando che non mi vedesse. Dopo pochi minuti aprì la porta. La volante era parcheggiata dall'altro lato del vialetto rispetto a dove ero nascosta. Mi passò accanto e aprì la portiera. Prima di entrare, si fermò.

 

«Per la cronaca... Stiles è ancora a letto. Mi va bene tutto, a patto che nessuno ritardi a scuola...» vidi la sua guancia, da dietro, muoversi a formare quello che doveva essere un sorriso. Poi salì sulla volante e partì.

 

Cosa mi aspettavo, dallo sceriffo? Che non mi scoprisse?
Però aveva detto che andava bene.
Quindi, potevo benissimo entrare e buttarlo giù dal letto.

Imboccai il vialetto e mi fermai davanti alla porta.

Un'idea prese forma nella mia mente: forse potevo provare una cosa...

Mi spostai fino ad andare sotto la finestra della stanza di Stiles.
C'era un appiglio al davanzale, ma era quasi cinque metri più in su.

Raccolsi le mie energie, piegai le gambe, mi molleggiai e saltai, con le braccia tese verso l'alto.
L'elevazione fu di una trentina di centimetri, poi ricaddi in piedi.
Emisi un gemito di delusione. Mi aspettavo più una cosa alla Jacob Black...

Riprovai, e con mia grande sorpresa mi ritrovai sul davanzale della sua stanza.
Entusiasta e sconvolta, persi l'equilibrio e caddi all'indietro, ritrovandomi aggrappata alla grondaia. Una specie di squittio spaventato mi uscì dalle labbra, visto che non potevo assolutamente urlare.
Mi ri-aggrappai al davanzale e mi tirai su, rotolando sulla moquette.

L'umano era sdraiato sotto il lenzuolo, una mano che penzolava giù dal materasso, l'altra adagiata sul cuscino. Indossava un pigiama blu, che riuscii a distinguere perfettamente nonostante il buio. Vedevo ogni particella di polvere sui mobili, ogni lieve movimento dei suoi muscoli facciali... sognava. La coperta lo copriva fino a metà busto. Le labbra erano socchiuse, l'espressione rilassata e in pace.

 

Mi accucciai accanto a lui, sedendomi sui talloni.

 

«Sveglia!» sussurrai.

 

Lui non si mosse di un millimetro.

 

«Stiles? Su, alzati!»

 

Lui aggrottò la fronte e si girò dall'altra parte.

 

«Mamma... cinque minuti!»

 

Sbarrai gli occhi.

Mamma?

Sapevo benissimo della triste storia di sua madre, morta quando lui era ancora un bambino. Per un lungo periodo, Stiles aveva sofferto di attacchi di panico. Sono cose che si sanno, in una piccola contea. I miei genitori erano andati a fare le condoglianze allo sceriffo, portando anche me, che ovviamente non capivo un accidente di quello che stava succedendo: ero piccolissima.

Sospirai e gli picchiettai sulla fronte con un dito.

 

«Stiles.» dissi, a voce più alta. Lui grugnì.

Cavolo, svegliarlo era sembrato molto più facile.
Scossi la testa.

 

«Io ci ho provato con le buone...» gli diedi una spinta e lo feci rotolare giù dall'altra parte del letto.

 

Sentii il tonfo e il gemito di dolore.
Borbottò qualcosa, poi il suo viso assonnato spuntò da dietro il materasso.

Mise a fuoco la situazione, poi sbarrò gli occhi.

 

«Oh, no! Anche tu! Oh mio Dio, no!» si ributtò steso a terra.

 

Io rimasi ferma.
Probabilmente l'espressione sulla mia faccia era simile a quella di un gatto che fissa un topo che balla la quadriglia con indosso un sombrero.

 

«Anche io cosa?» chiesi, rimettendomi in piedi.

Lui fece lo stesso.

 

«Ho una PORTA, io! La finestra non... oh!» sbuffò, poi si appoggiò con il corpo al muro dietro di sé.

 

«Che ci fai qui?» chiese. Il tono non era scontroso, solo... curioso.

 

Io feci spallucce.

 

«Tuo padre mi ha fatta entrare. Più o meno.» mi avvicinai a lui e lo squadrai da capo a piedi. In quel momento, mi sentivo diversa. Molto più... impulsiva. La sentivo. Dentro di me, che mi mandava degli impulsi costanti al cervello: la trasformazione. Stava facendo impazzire il mio organismo. Il mio umore in poche ore era cambiato drasticamente una decina di volte.

In quel momento... volevo letteralmente saltargli addosso.
E non esattamente nel senso cattivo.

Feci un passo verso di lui.
Lui alzò le sopracciglia. Era ovvio che non capisse il mio comportamento.
Insomma, fino al giorno prima ero una ragazza timida, con cui aveva scambiato un piccolissimo e innocente bacio... ora sembrava che volessi divorarlo.

Mi leccai le labbra.

 

«Dormito bene?» chiesi, inclinando leggermente la testa per poi sorridere.

 

Lui annuì. Poi si voltò, dandomi le spalle, per prendere dei vestiti dall'armadio e lanciarli sul letto. Un paio di jeans, una t-shirt e una camicia larga a quadri blu e azzurri... Arricciai il naso e cominciai a rovistare nel cassetti.

Quando trovai qualcosa che mi aggradava, esclamai un «A-ha!» e glielo lanciai in braccio.

Era una maglia semi-aderente blu notte, con tre bottoncini che partivano dal collo fino ad arrivare all'incirca ai pettorali, che potevo lasciargli accostare ai jeans. Stiles non aveva certo la massa muscolare del migliore amico, ma quella poteva aiutare a mettere in risalto quel poco che aveva. Lui la guardò stupefatto.

 

«Questa? Non sapevo neanche di averla...» borbottò.

 

Io lo spinsi verso il bagno.

 

«Muoviti, metti tutto. Io ti aspetto giù.» e gli chiusi la porta alle spalle. Soddisfatta del mio lavoro, scesi di sotto e aprii il frigorifero. Trovai una bottiglia di birra, un limone, mezzo panetto di burro, due uova, una fetta di prosciutto, una bottiglia di latte e mezzo cartone di succo d'arancia.

 

Ero a conoscenza delle doti culinarie del ragazzo, ma anche della sua pessima organizzazione. Forse, però, potevo ricavarci dei pancakes.

Sospirando, presi le uova e richiusi lo sportello del frigorifero.
Rovistando nei cassetti, trovai anche il resto dell'occorrente: farina, lievito e zucchero. Lo sciroppo d'acero lo trovai nell'armadietto dei detersivi, ma non me ne curai più di tanto.

Mentre i pancakes erano sul fuoco, sentii dei passi scendere le scale.
Lui era lì, lievemente a disagio ma perfetto.

Deglutii, nervosa.

 

«Pancakes?» sorrise e prese due piatti, avvicinandomisi.

 

Il suo profumo era ancora più sconvolgente. Era molto più forte del giorno prima, e avvertivo anche il calore emanato dal suo corpo. Sentivo perfino l'odore del suo dentifricio.

Mi tolsi la giacca, improvvisamente accaldata, e la appesi allo schienale di una sedia.

 

«Io ho già fatto colazione» mentii. Non avevo per niente fame, anzi. Mi stava quasi per venire da vomitare.

 

Lui fece ancora spallucce e rimise il secondo piatto e la seconda forchetta a posto.

Mi voltai, e il mio sguardo scivolò esattamente dove una brava ragazza non dovrebbe guardare. Mi morsi il labbro e mi voltai proprio mentre anche lui si girava verso di me, per andare a sedersi.

Gli feci scivolare la colazione nel piatto, gli versai un bicchiere di succo d'arancia e mi sedetti davanti a lui.

Mangiò con voracità, senza curarsi granché della presenza di una ragazza.
Quando ebbe finito, trangugiò il bicchiere di succo, e si accorse che lo stavo fissando. Con noncuranza mi alzai e mi diressi verso la porta.

Lui mise frettolosamente le stoviglie nel lavandino e mi corse dietro.

 

«Non è un po' presto? Sono le... sei e mezza! La scuola inizia tra un'ora e mezza!» prima di raggiungere la porta mi voltai e incrociai le braccia. Lui si fermò davanti a me, quasi andando a sbattermi contro.

 

«Va bene. Allora che vuoi fare?» chiesi, avvicinandomi. Lui, preso alla sprovvista, fece un passo indietro e andò a sbattere contro il muro.

 

«Non saprei... oggi ho il compito di storia...» disse, stringendosi nelle spalle.

 

Annuii.

 

«Propongo io?» lo interruppi, alzando gli occhi al cielo, fingendomi pensierosa. Mi avvicinai ancora. Non ero esattamente io quella. Non ero mai stata così sicura, e quel sorriso pieno di malizia che mi era appena spuntato sulle labbra... non era mai stato mio. Ma la “nuova” me... mi spaventava.

I tacchi mi permettevano di arrivare quasi alla sua altezza. Stringendolo contro il muro, gli accarezzai la mascella, scesi alla spalla, trattenni la voglia di slacciare quei bottoncini. Dovevo tenere gli ormoni a bada.
Lui non reagiva. Non capivo: non era attratto da me?

Andai avanti. Con una mano mi sostenevo sulla sua spalla, l'altra la feci scivolare dietro la sua nuca, in modo da farlo sporgere verso di me.

Mi guardava. Quegli occhi color miele... li avevo sognati per così tanto tempo.

La mano che era sulla sua spalla scivolò sul petto. Lui avvicinò il suo viso al mio, e mi allungai di più, in modo da riuscire ad arrivare alle sue labbra.

Il fuoco si accese. Le sue labbra erano morbide, dolci a contatto con le mie. Ma io non volevo la dolcezza. Le schiusi, cercando di forzare le sue. Non ci volle tanto per ottenere ciò che volevo: il fuoco divampò, e da fiammella diventò un incendio incontrollato. Gli mordicchiai il labbro, estasiata. Feci aderire di più il mio corpo al suo, cercando più contatto. Lo desideravo con tutta me stessa.

Le sue braccia mi avvolsero, e sembrava che fossi stata creata apposta per accoccolarmici dentro.
Lo sentii che si staccava dal muro, e per un momento temetti di aver esagerato.

Ma poi sentii le sue mani girarmi, e quella con la schiena al muro diventai io.
Sorrisi sulle sue labbra.
Approfondii ancora di più il bacio. Non volevo respirare, anche se ne sentivo il bisogno. Dopo qualche secondo ancora, dovetti staccarmi.

Avevamo entrambi il respiro affannoso.

Non capivo più niente. Non mi sentivo confusa, disorientata, anzi: era tutto perfettamente vivido. Sentivo il battito cardiaco di Stiles veloce e incontrollato. Quel semplice dettaglio mi mandò ancora di più su di giri.

 

«C'è ancora tanto tempo» sussurrai al suo orecchio. Le mani scivolarono entrambe ai bottoncini della maglia. Slacciai il primo, poi lui sospirò e mi prese le mani, allontanandole da sé e premendole lievemente contro il muro.

 

Non me l'aspettavo. Potevo liberarmi, ovviamente, ma non volevo.

 

«Che c'è?» chiesi. Sentivo le guance rosse, avevo un caldo terribile.

 

Lui non mi guardava in faccia. Fissava le sue scarpe, senza spostarsi.

 

«Oddio, non riesco a credere a quello che sto per dire» il tono era quasi quello di un piagnucolio. «Emma... questa non sei tu. Devi fermarti.»

 

Non mi aspettavo neanche una risposta del genere. Avevo voglia di battere i piedi a terra e protestare come una bambina.

 

«Certo che sono io! Emma Lightwood, in carne e ossa!» esclamai, cercando il suo sguardo. Finalmente, alzò gli occhi fino a incrociare i miei. Non riuscivo a decifrare la sua espressione.

 

«No, che non lo sei. È... è il morso, Emma. Anche se tecnicamente non ti hanno morsa... ma il punto è lo stesso.»

 

Ah. Pensava che mi comportassi così solo per la trasformazione. Ma non era affatto così.
Giusto?

 

«Stiles! No! Io... pensi che tu mi piaccia perché non sono più umana?» ero sconvolta.

 

Lui fece spallucce, liberandomi le mani. Sì, la pensava così.

 

«Stiles! Cretino!» gli diedi una spinta che lo fece barcollare indietro «tu... tu mi piaci da praticamente sempre! Non dirmi che sei così scemo da non averlo capito! Speravo che mi parlassi ogni giorno a scuola, Stiles. Dalla terza elementare!» allargai le braccia, mentre le parole uscivano come un fiume. Lui strabuzzò gli occhi.

 

«Ma... Neir...» balbettò.

 

«Che c'entra lui? Non mi è mai piaciuto, Stiles! Chi mi piace sei tu, sei sempre stato tu!» incrociai le braccia, e all'improvviso volevo darmi piccola piccola e scomparire. Gli avevo appena confessato i miei sentimenti! Certo, per dirgli ti amo ci sarebbero probabilmente voluti altri mille anni, oppure una trasformazione dolorosa come quella appena subita...ma era già tanto.

 

Aspettai una risposta, ma non arrivava.
Mi sentii gelare.

 

«Okay» dissi. Alzai le mani e mi girai, marciando verso la porta. Per un attimo rimase immobile, poi lo sentii corrermi dietro.

 

«Emma!» spalancai la porta e percorsi il vialetto. «Emma! Scusami!» mi prese per i polsi da dietro, per fermarmi, e mi spinse verso di sé per non farmi correre via. «Non me l'aspettavo, tutto qui! Scusami!» mi liberai e mi voltai.

 

«Dillo, Stiles.» gli ordinai, piantando il mio sguardo nel suo.

 

Glielo vidi in faccia, che non capì.

 

«Se... se non pensi a me in quel modo, basta dirlo. Te lo giuro: me ne andrò subito e rimarremo amici. Ma devi dirmelo.» avevo il terrore di cosa mi avrebbe risposto, ma era indispensabile che sapessi subito cosa volesse.

 

«E sarei io, l'idiota?» mi rispose. Ridacchiò, mentre io lo guardavo con confusione. «tu mi piaci, Emma. Penso solo che la trasformazione ti abbia resa un po'... ehm... istintiva, diciamo così.»

 

Arrossii. Era vero.
Sospirai ancora, abbracciandolo e affondando il viso nella sua maglia.

 

«Scusa. Ti sono praticamente saltata addosso.» borbottai, con la voce attutita contro il suo petto.

 

Sentii il suo torace vibrare con una risata. «Quella parte andava bene!»

 

Mi scostai, guardandolo incredula. Gli tirai un pugno sul petto, poi mi diressi verso la scuola, con lui che mi rincorreva.


Asdfghjkl.


Non sono bellissimi? Yeah. Coomunque, ragazze, con mio sommo dispiacere v'informo che questo è il penultimo capitolo! Sigh.
Ma no problem, la storia continua
<3
(tanto non gliene frega a nessuno, Sara, sei solo tu la psicopatica affezionata alla sua stessa storia!)
Shht, zitta, coscienza.
Allora, dopo giorni e giorni di grige nuvole e piogge incessanti, ecco finalmente che qua da me spunta il sole! Quindi beh, allegria! E se da voi non è spuntato, pazienza, ve lo porto io con la telecinesi!
La scuola è quasi finita... balliamo tutti insieme la conga! Anche se io odio l'estate perché odio il caldo, la pelle che si scurisce (ma prima, nel mio caso, si ustiona), i capelli che si schiariscono, e doversi scoprire... mi piace solo perché ci si puo' immergere nell'acqua per ore e nessuno ti guarda male se vai in giro con un ventilatore portatile. (soffro davvero davvero TANTO il caldo, ragazze, anche in primavera cwc)
Vi auguro tanta tanta fortuna con le ultime verifiche e spero che nessuno sia bocciato o rimandato, al contrario di me lol
Un enorme barbabbraccio (?),
Sara
<3

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Capitolo 26
*** Epilogo. ***


 

 

Epilogo

 

 

 

 

Canzone consigliata per la lettura:
Val Emmich / Don't wanna go home

 

 


«Riprova!» esclamò Derek, dall'altra parte della radura. Sbottai in risposta.

 

«Non funziona!» risposi.

 

Stavano tentando in tutti i modi di farmi completare la trasformazione, ma quelle maledette ali non spuntavano in nessun modo. Avevano provato a farmi arrabbiare, a farmi combattere, a farmi disperare...

Irima era scomparso. Non si faceva vedere da due settimane, ormai.
Jackson era diventato un licantropo. Gerard, ferito, era scappato.

Tutti avevamo delle domande in mente: era possibile guarire dal morso senza uccidere? Se Jackson era guarito, come caso eccezionale, potevo farlo anche io? Era davvero un caso eccezionale? E il resto del branco? La storia di Irima era vera? Perché non mi trasformavo completamente? Perché la mia trasformazione era stata così dolorosa e difficile?

Tante domande senza risposta.
In più, mancavano pochi giorni alla mia prima luna piena.

Jackson tentò di tirarmi un pugno. Io lo afferrai e lo girai, strappandogli un gemito di dolore. Scott ridacchiò.

Il biondo si liberò e mi tirò un calcio, proiettandomi una decina di metri indietro. Strusciai con la schiena sull'erba. La t-shirt si macchiò di verde, come i jeans.

Sfruttai quel momento per assicurarmi che i lacci delle scarpe da ginnastica fossero a posto, stringendoli. Durante gli “allenamenti” (in genere un'ora era dedicata a farmi spuntare le ali, mai riuscito, mentre per il resto restavo “in panchina” con Stiles a fare il tifo) distruggevo ogni volta più di un capo d'abbigliamento.

 

«Già stanca, piccola?» ironizzò Jackson, andandomi incontro con passo deciso e un sorriso di sfida sulle labbra.

 

Mi spolverai i jeans con noncuranza.

 

«Te l'avevo detto che io non picchio le ragazze, Derek. Ci vado giù duro...» mi porse la mano, per aiutarmi dal alzarmi.

 

La presi e la tirai forte, facendolo cadere.
Mi rialzai e gli diedi un calcio, facendolo rotolare per alcuni metri nell'erba.

Si mise a quattro zampe e ringhiò, mentre cominciava a trasformarsi. Io sorrisi e lasciai che mi uscissero artigli e denti. Sentii un cuoricino umano accelerare i battiti, una decina di metri più in là.

Cominciammo entrambi a correre, pronti a distruggerci a vicenda.
L'impatto mi tolse il respiro. Lo avvolsi con le gambe e cominciai a graffiargli la faccia, lasciandogli dei segni rossi, a tratti sanguinanti.

 

«Non me lo rovinare troppo, Emma!» sentii dire da Lydia. Risi e gli tirai un pugno allo stomaco.

 

Cercò di strapparmi via da lui, ma io tenni duro: continuai a tirargli pugni, e la metà andava a vuoto.
Dopo qualche tentativo, riuscì a lanciarmi a terra.

 

«Okay, basta! Stop! Fine!» sentii dire da Stiles. Ci voltammo tutti verso di lui: io, Jackson, Boyd, Erica, Isaac, Derek, Scott, Lydia e Peter. All'ultimo non ero ancora riuscita ad abituarmi: lo consideravo terribilmente inquietante, e con me neanche Lydia lo apprezzava granché. Mi avevano anche spiegato il perché, e quello aveva peggiorato ancora di più il mio parere su di lui.

Stiles mi corse incontro e mi aiutò ad alzarmi.

 

«Potevi dirlo subito che sei geloso, Stilinski!» esclamò Jackson, ritornando normale e dandogli una forte pacca sulla schiena.

 

Lui lo ignorò.

 

«Ho un'idea!» disse Lydia, frizzante, lasciandosi circondare con un braccio da Jackson. «E se provassimo con Stiles?»

 

Io e il ragazzo ci guardammo.
Voleva farlo combattere?

Lui? Stiles Stilinski?

 

«Mi spiego: abbiamo provato a farla trasformare con la forza bruta, facendola andar fuori di testa, e non ha funzionato. Proviamo ad aggiungerci un sano acceleramento di battiti con l'amore!» continuò la rossa.

 

«Ha ragione! Possiamo provare!» commentò.

 

«Io usavo Allison come àncora per restare umano... potresti provare ad ottenere l'effetto contrario!» rispose Scott, fissando il terreno.

 

Feci spallucce, mentre Stiles imitava Jackson e mi abbracciava.

 

«Vai, casanova!» esclamò Isaac, battendo le mani.

 

Io sbuffai, facendo per incamminarmi verso di loro.
Stiles mise una gamba accanto alla mia, prendendomi di sorpresa e facendomi cadere all'indietro, ma tenendomi una mano sulla schiena.

Mi ritrovai il viso a un centimetro dal suo, in un perfetto casqué.

Sentii dei fischi provenire dal branco, e avvertii lo sguardo severo di Derek su di me. La considerava anche lui come un' “ultima speranza”. Si aspettavano che gli ormoni mi facessero trasformare?

Oh, beh... non mi dispiaceva, affatto.

Stiles mi baciò, come faceva di solito, e io intrecciai le braccia dietro la sua testa.
Sentii la risatina di Lydia, i commenti maliziosi di Erica...
Approfondii, lasciando scorrere l'adrenalina, mentre il battito accelerava.

Sentii gli artigli che uscivano, e stetti ben attenta a non ferirgli il collo.
Trattenni i denti per non tranciargli la lingua.

Stava funzionando!

Forse era perché avevo appena lottato...

Ma la trasformazione finì lì.

Il bacio continuò per svariati secondi, e i commenti si trasformarono in piccoli colpi di tosse.

 

«Okay. Non ha funzionato... scollatevi, voi due!» sentii dire da Derek.

 

«Lasciali fare, sono così carini!» ribatté Erica.

 

Stiles mi rimise in piedi, senza staccarsi da me.
Risi sulle sue labbra, mentre dondolavamo da un piede all'altro.

Era tutto bellissimo. Non m'importava di nient'altro, tutto l'orrore dell'universo era fuori dalla mia bolla. Finalmente avevo trovato il mio posto nel mondo: tra le sue braccia.

Il mio compito era proteggerlo. Tutto il resto sfumava attorno a me.

La mia vita era finalmente giusta.

 

 

 

Magazzino n° 23

Zona industriale di Redding, California

03:33 a.m.

 

 

 

«Aata! Le candele!»

 

«Arrivo, Gaudl!»

 

Dodici persone, tra uomini e donne, si stavano riunendo attorno a una triskele disegnata sul pavimento. Non era una triskele semplice: per tracciare quelle linee era necessaria una grande forza spirituale e tanta convinzione.

Le candele furono disposte lungo le linee della spirale, le persone si spostarono in cerchio attorno ad essa. Tutti cominciarono ad intonare una preghiera in una lingua antica e gutturale, tenendosi per mano.

 

«Padrone! Il tuo umile popolo ti chiama in appello!» una voce si levò dal mucchio.

 

La terra cominciò a tremare. Le fiammelle delle candele si allungarono fino a scottare il soffitto.
Una voce risuonò nell'edificio, facendo tremare il cuore nel petto dei presenti e vacillare la loro volontà.

 

«Gaudl! L'hai trovato?»

 

L'uomo deglutì.
La donna accanto a lui gli tirò una gomitata.

 

«Sì, Signore.»

 

Silenzio.

La voce soggiunse ancora, all'improvviso, scuotendo le persone lì riunite fin nelle viscere.

 

«Bene. Che aspetti, allora? Riportami indietro.»






E vissero tutti felici e... no, un momento.
Poverini. Non riusciranno mai ad essere felici.

"Carry on my wayward, son!"

Aaaah. Beh, eccoi arrivati alla fine di questa storia... Mi mancherà.
I sequel non sono mai la stessa cosa del primo, vero?
Mi sono davvero affezionata, e devo ringraziare tutte le fantastiche persone che l'hanno letta, tutte quelle che l'hanno recensita e principalmente Erika, la fondatrice di EFP. Senza di lei non avrei mai capito di essere in grado di far piacere le mie storie alla gente, e quindi avrei mollato la scrittura. Invece ora sto scrivendo un libro, e me ne stanno venendo in mente tanti altri... che, prima o poi, spero di terminare. Grazie, grazie e ancora grazie. E' tutto merito vostro, tutto dedicato a voi.
*scoppia a piangere* è che vi voglio cooosì beeeene!

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Beh, la seconda parte comincerò a pubblicarla a luglio, non so precisamente quando.
Lunedì inizia teen wolf, sulle televisioni americane! Armiamoci di streaming e guardiamocelo in lingua originale con i sottotitoli, perché mi sa che lo manderanno in onda qua su fox solo a settembre, come l'anno scorso o.o
Vi lascio con la trama della seconda parte e tanto tanto affetto, perché il cuore mi sta diventando pesante.
Vi voglio bene!

 

Emma e Stiles sono finalmente una coppia. Anche se la ragazza non riesce mai a portare a termine la trasformazione, ha acquisito le qualità soprannaturali dei membri del branco. La città è scesa in una calma inquietante, dopo la fuga di Gerard, e tutto va relativamente bene. Ma è soltanto la quiete prima della tempesta: chi attendeva nell'oscurità ha ottenuto ciò che voleva, usando gli abitanti di Beacon Hills come pedine, ed è pronto a scatenare finalmente la guerra sanguinosa che da tempo stava cercando di far scoppiare. Tra passioni, violenti scontri e amicizie tradite, cosa ne sarà del lato umano e fragile della ragazza che, come un funambolo, si tiene a malapena in equilibrio sopra un baratro di oscurità e crollo sia fisico che mentale?


Un'ultima cosa:
Siete perfette. Ricordatevelo, tenetelo a mente, perché nessuno può dirvi il contrario. Nessuno può permettersi di criticare le vostre magnifiche imperfezioni, davvero. Siate forti e continuate imperterrite a seguire i vostri sogni e se, come me, non sapete ancora quali sono, ricamateli nella vostra mente con calma. La vita magari non è una sola, ma non è una scusa per sprecarla. Siamo a giugno: divertitevi, ridete, fate amicizia e lasciate che l'estate sciolga quel peso che avete sullo stomaco!

Tanti abbracci e tanti baci,
Sara
<3


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