PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

di gemini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo decimo ***
Capitolo 11: *** Capitolo undicesimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordicesimo ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindicesimo ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedicesimo ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassettesimo ***
Capitolo 18: *** CAPITOLO DICIOTTESIMO ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannovesimo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

NOTA INTRODUTTIVA: Questa fanfiction è un’AU. È uno dei miei primi tentativi, quindi spero che vi piaccia. Mi è stata ispirata dalla lettura dello stupendo romanzo di Daphne Du Maurier “Rebecca la prima moglie”, da cui è stato anche tratto un film di Alfred Hitchcock. Nella prima parte la storia è piuttosto simile, ma vedrete che presto se ne discosterà in parecchi punti. Aspetto con ansia i vostri commenti! Buona lettura!

 

DISCLAIMER: I personaggi di Capitan Tsubasa non appartengono a me, ma al loro creatore Yoichi Takahashi, e non vengono qui utilizzati a scopo di lucro.. La protagonista Kathleen e gli altri personaggi originali sono invece creazione della sottoscritta.

 

CAPITOLO PRIMO

 

Non dimenticherò mai la prima volta che misi piede a Villa Hutton. Non avevo mai visto, in tutti i miei venticinque anni di vita, una casa altrettanto bella…che dire bella, era magnifica. Immaginatevi un’immensa costruzione di pietra e mattoni, delle più belle sfumature del bianco e del beige, a picco sulla scogliera e circondata da un giardino immenso e lussureggiante. Un vero e proprio angolo di paradiso immerso nel verde.

Rimasi a bocca aperta, senza fiato, mentre l’automobile percorreva l’interminabile vialetto di ingresso, un ordinato vialetto di terra battuta circondato da piante e cespugli fioriti, e si avvicinava all’ingresso dell’abitazione.

Una lunga scalinata in pietra terminava con un largo atrio sul quale erano allineate almeno quindici persone, in rigorosa uniforme da domestici, proprio di fronte ad un enorme portone di legno massiccio sul quale erano raffigurate delle immagini che non riuscivo a distinguere.

“Questa è la mia casa, ora”, mi dissi, stentando quasi a crederci. Lanciai uno sguardo ad Oliver, che era seduto accanto a me in silenzio, e notai che aveva un’espressione quasi infastidita dipinta sul volto, mentre scrutava attentamente la fila di persone che ci attendeva di fronte alla sua casa.

-Questa dev’essere stata un’idea della signora Martin-, disse in tono torvo, lasciando trasparire chiaramente tutto il suo disappunto.

Cominciai a sentirmi angosciata, come se solo in quell’istante realizzassi che avrei dovuto affrontare immediatamente tutto il plotone dei domestici, senza aver avuto neanche il tempo di dare una prima occhiata all’abitazione. Iniziai a sudare freddo, mentre mi sforzavo di respirare lentamente e di prepararmi dentro di me a sorridere e a cercare di dare la miglior impressione possibile a tutte quelle persone. Mi sembrava che mi stessero fissando quasi minacciose, e istintivamente la mia mano cercò quella di Oliver per stringerla.

-Ho paura-, mormorai, con labbra tremanti.

Oliver mi lanciò un’occhiata rassicurante e sorrise. –Dovrai affrontarli tutti adesso, Kat. Avrei preferito evitartelo, ma è andata così-. Tacque per un istante e la sua espressione divenne più seria. –Ricordati che ora sei tu la padrona qui. Non farti intimorire da nessuno-, mi raccomandò.

Era facile da dire per lui, molto meno facile da fare per me. La mia vita era cambiata radicalmente nel giro di una settimana, in un modo che non mi sarei mai e poi mai aspettata. La nuova vita che mi stavo apprestando a cominciare a Villa Hutton non aveva nulla a che spartire con quella che avevo condotto fino a quel momento. Ero animata dalle migliori intenzioni e, soprattutto, sorretta dall’amore. L’amore intenso che provavo per mio marito. Ero convinta di aver finalmente trovato il paradiso di cui mio padre mi aveva tanto parlato quando ero bambina…come potevo immaginare che quella casa così splendida sarebbe stata per me un vero e proprio inferno?

 

Mi trovavo in Normandia da quasi un anno quando conobbi Oliver Hutton. Prima di allora avevo vissuto negli Stati Uniti, dove ero nata e cresciuta in una semplice e modesta famiglia del West. Mio padre era vicario, mentre mia madre insegnava in una scuola elementare. Poi, un anno prima, i miei genitori erano tragicamente morti in un incidente e io mi ero ritrovata sola al mondo. Per mia fortuna, o forse sarebbe più onesto dire per mia sfortuna, visto come venivo trattata, la zia Audrey, una cugina ricca di mia madre, mi aveva accolta in casa sua. Non come una figlia, sia ben chiaro, ma assumendomi come istitutrice di sua figlia Elizabeth, una bambina viziata e, per dirla tutta, piuttosto antipatica. La zia Audrey detestava gli Stati Uniti e, appena seppelliti i miei genitori, mi ero trasferita in Normandia insieme a loro. Occupavamo due grandi suite in uno dei più lussuosi alberghi di Le Havre, proprio sulla spiaggia. La zia e suo marito risiedevano in una di esse, mentre io dividevo l’altra insieme ad Elizabeth, che aveva appena compiuto quattordici anni e mi trattava continuamente dall’alto in basso, ricordandomi in ogni attimo che io non ero altro che una parente povera che si trovava lì grazie alla benevolenza dei suoi genitori. Quanto la detestavo!

Fu una vera e propria mano santa per me l’influenza che colpì quell’insopportabile bambina all’inizio di quell’ormai lontano mese di maggio. Il dottore, accorso immediatamente a visitarla, poiché zia Audrey era molto ansiosa per quel che riguardava la salute della sua unica figlia, disse che avrebbe avuto bisogno di almeno una settimana di assoluto riposo per potersi riprendere, e la zia sospese le nostre lezioni. Una mattina stavo oziando sulla terrazza dell’albergo, sorseggiandomi tranquillamente una spremuta d’arancia, quando vidi arrivare un’elegante automobile nera, la più bella automobile che avessi mai visto, e da essa scesero uno chauffeur in uniforme che si mise subito a scaricare tre grosse valigie e un uomo dall’aria distinta e triste allo stesso tempo. Appena sceso dall’automobile, l’uomo diede un’occhiata verso l’alto e i nostri sguardi si incrociarono per un istante. Provai un tuffo al cuore, un’emozione fortissima che non avevo mai sentito prima. Mi domandai chi fosse quell’uomo così bello ed elegante, e per quale ragione avesse un’espressione così malinconica, così venata di sofferenza. Indossava un paio di pantaloni grigi e una polo bianca, aveva dei magnifici capelli neri, curati e lucenti, e gli occhi più scuri che avessi mai visto. Era così affascinante…Fui la persona più felice del mondo quando, la stessa sera, vidi che si sedeva a cenare in un tavolo poco distante da quello al quale stavo cenando assieme agli zii (Elizabeth, fortunatamente, cenava in camera sua). Era solo ed indossava gli stessi abiti con cui l’avevo visto quel pomeriggio. Mangiava svogliatamente, sembrava completamente preso da altri pensieri. Non riuscivo a fare a meno di osservarlo, il mio sguardo era come calamitato da lui.

-Peter, guarda. C’è Oliver Hutton-, sussurrò la zia Audrey al marito, accennando con lo sguardo proprio al mio uomo misterioso. Per poco non mi strozzai con la mousse che stavo mangiando, mentre esultavo dentro di me. La zia lo conosceva, avrei potuto sapere chi era! Per la prima volta in vita mia, ringraziai il cielo di avermi dato zia Audrey.

Lo zio Peter guardò nella direzione indicata dalla moglie. –Sì, è proprio lui. Che strano vederlo qui!-, disse poi, pulendosi elegantemente la bocca con il tovagliolo.

Non riuscii più a trattenere la mia curiosità. –Lo conoscete, zia?-, domandai, cercando a tutti i costi di mantenere un tono il più possibile indifferente.

Zia Audrey mi guardò meravigliata, poi annuì. –Certamente. Si chiama Oliver Hutton ed è un ricco proprietario terriero inglese. Alcuni anni fa, quando lo zio lavorava in Inghilterra, abbiamo partecipato ad un paio di ricevimenti presso la sua villa…oh, una casa magnifica, che tu, mia cara, non potresti nemmeno immaginare. E lui era veramente un uomo molto distinto, uno splendido padrone di casa. Per non parlare di lei, sua moglie-, mi spiegò, con il solito tono sostenuto con il quale si rivolgeva a me, studiato appositamente per rendermi consapevole della mia inferiorità, della mia estraneità al loro mondo dorato.

Sentii un macigno piombarmi sul petto. Dunque era sposato…mi meravigliai io stessa del disagio che avevo provato a questa notizia. Cosa mi importava? Nemmeno lo conoscevo. Tuttavia, non potei fare a meno di domandarmi dove fosse sua moglie, dato che era arrivato inequivocabilmente solo.

-Già…una donna fantastica, la signora Hutton. Poveretta…non si meritava una fine così tragica-, proseguì lo zio Peter, senza accorgersi dell’interesse con cui ascoltavo ogni sua parola.

Fine? Dunque la signora Hutton era morta. Ecco perché Oliver era solo…ecco perché aveva un’espressione tanto triste. Poverino…sentii il cuore stretto dalla compassione, mentre lo osservavo mangiare lentamente un dolce nel suo cantuccio solitario.

-E’ morta?-, domandai timidamente.

La zia annuì. –Sì, poverina. Un anno fa, più o meno. È uscita di notte con la sua barca ed è stata sorpresa da una terribile tempesta. È scomparsa insieme al suo battello. Non sono stati più ritrovati né la barca, né il corpo. Un colpo spaventoso per Oliver. Egli adorava sua moglie-, disse, asciugandosi gli occhi che le erano diventati lucidi.

Oliver aveva già colpito profondamente la mia mente romantica di fanciulla giovane e ingenua, destinata probabilmente a rimanere zitella a causa della povertà, e il racconto della tragedia che era capitata a sua moglie non fece che accrescere il mio interesse. Morivo letteralmente dalla voglia di conoscerlo, di parlare un po’ con lui, ma non mi azzardavo a chiederlo agli zii. Temevo che potessero subodorare qualcosa, e zia Audrey sicuramente non ci avrebbe pensato due volte a dirmi che un uomo come Oliver Hutton era decisamente al di fuori della mia portata.

Ma non ci fu bisogno dell’aiuto di zia Audrey, perché fu il destino stesso a correre in mio aiuto, la mattina dopo.

Ero sul campo da tennis insieme alla zia Audrey. Detestavo il tennis e solitamente evitavo di giocarci, limitandomi ad assistere alle partite che la zia giocava insieme ad Elizabeth. Ma con Elizabeth ammalata, la zia non aveva nessuno con cui giocare e quindi mi aveva praticamente costretto a tenerle compagnia nel suo svago preferito. Ci stavamo appunto riposando al termine di una partita, quando vidi Oliver Hutton, al quale non avevo fatto altro che pensare per tutta la notte, fare il suo ingresso in campo con indosso una divisa bianca, che lo rendeva maledettamente affascinante. Arrossì e non osai avvicinarmi, mentre la zia Audrey avanzò verso di lui con un’espressione a dir poco svenevole, tendendogli con sussiego una mano.

-Signor Hutton! Lei non immagina che piacere vederla qui-, esclamò pomposa.

Oliver la guardò con una punta di imbarazzo, evidentemente aveva qualche difficoltà a riconoscerla. Tuttavia, da vero gentiluomo, mascherò la sua perplessità dietro un cortese sorriso, e ricambiò affabilmente la sua stretta di mano. –Il piacere è mio, cara signora-, rispose, mentre potevo immaginare dalla sua espressione che si stesse lambiccando il cervello nel tentativo di ricordare dove diavolo avesse visto quella donna.

-Si ricorda di me, spero! Sono Audrey Lancaster, io e mio marito abbiamo partecipato ad alcuni dei vostri ricevimenti, quando vivevamo in Inghilterra-, proseguì la zia, senza battere ciglio al pensiero che Oliver Hutton potesse non ricordarsi minimamente di lei.

-Oh, certo, certo, signora Lancaster! Che piacere rivedervi-, mentì lui senza il minimo sforzo, oltrepassando la zia per accedere finalmente al campo da tennis.

Naturalmente, Audrey non aveva intenzione di demordere, e continuò a trotterellare al suo fianco. –Siete qui in vacanza?-, domandò, e io pensai che aveva davvero poco tatto a rivolgere una domanda del genere ad un uomo che aveva da poco perduto sua moglie.

Come avevo previsto, infatti, il bel volto del signor Hutton si adombrò. –Più o meno. Avevo bisogno di allontanarmi da casa per un po’, per riprendermi-, disse gelido, abbassando lo sguardo e fingendo di controllare le condizioni della racchetta.

La zia sembrò essersi accorta della sua gaffe, e assunse immediatamente un’espressione contrita e dispiaciuta. –Certo, che stupida! Avete ragione! Perdonatemi, signor Hutton, non vi ho neanche fatto le mie più sentite condoglianze! Sono stata davvero addolorata per la scomparsa di vostra moglie-, disse, e io sentii un brivido percorrermi la schiena. Certo che zia Audrey, nonostante le sue arie da gran dama, non possedeva proprio la benché minima delicatezza.

Oliver divenne sempre più scuro in volto e abbozzò un sorriso di circostanza. Mi chiesi quanto sforzo gli costasse quel gesto. –Grazie, signora Lancaster. Ora scusatemi…non sono più molto avvezzo a stare in società in quest’ultimo periodo, e vorrei dedicarmi al tennis-, rispose freddamente, e la zia si irrigidì, comprendendo di aver fatto un passo falso che poteva compromettere irrimediabilmente i suoi rapporti col signor Hutton.

Oliver si allontanò a passi lenti, e proprio in quel momento il suo sguardo cadde su di me, che mi ero prudentemente tenuta a distanza dalla zia Audrey. Gli sorrisi timidamente e, con mio grande stupore, egli ricambiò il mio sorriso. Sentii il mio cuore battere furiosamente, come se volesse esplodere nel mio petto.

-E’ vostra figlia?-, domandò indicandomi, rivolto alla zia Audrey.

Vidi la zia assumere immediatamente un’aria esterrefatta, anche se mai avrebbe ammesso la sua disapprovazione davanti a lui. Evidentemente era costernata da come un uomo ricco e raffinato come Hutton avesse potuto scambiare me, la parente povera, addirittura per sua figlia! –No-, rispose tutta sdilinquita, -Mia figlia, povera cara, è a letto con l’influenza. Questa è Kathleen, una mia nipote che ho assunto come istitutrice dopo che è rimasta orfana-. Mentre mi presentava, mi guardava con aria di sufficienza, come a voler trasmettere anche al signor Hutton la certezza della mia inferiorità, della mia estraneità alla sua famiglia. Oliver evidentemente non parve pensarla come lei, dato che mi si avvicinò e mi porse la mano. Gliela strinsi con gioia, guardando trionfante la zia che sembrava a dir poco allibita.

-Molto piacere, Kathleen. Mi chiamo Oliver Hutton-, disse, con un sorriso talmente suadente che mi sentii sciogliere. Penso che fu proprio in quel momento che mi innamorai di lui, completamente, perdutamente, irrimediabilmente. Se solo avessi potuto sapere quali sciagure mi avrebbe portato questo amore, sarei fuggita mille miglia lontana da lui! Invece rimasi, felice come una pasqua davanti alle attenzioni che questo affascinante gentiluomo mi rivolgeva.

La zia Audrey volle a tutti i costi giocare una partita a tennis con Oliver, e lui accettò probabilmente, e non lo dico con vanità, per continuare ad osservarmi. Mentre giocava con mia zia, lo vedevo lanciarmi lunghe occhiate e mi sentivo al culmine della felicità. La mia fantasia si era già spinta mille volte oltre, e continuavo a immaginare il momento in cui il signor Hutton mi avrebbe invitato a cenare al suo tavolo e avrebbe cominciato timidamente a corteggiarmi. Poi mi ricordavo che lui aveva da poco perduto sua moglie in maniera tragica e mi sentivo in colpa per i miei sogni ad occhi aperti, così stupidamente infantili. Bastava però un’altra occhiata di Oliver per cancellare i miei sensi di colpa completamente, e farmi cominciare nuovamente a sognare. Giocava meravigliosamente a tennis, agile, scattante, elegante. Al suo cospetto zia Audrey, che pure era una discreta giocatrice, pareva un goffo sacco di patate.

Ero presa ad osservare con attenzione Oliver che ribatteva impeccabilmente un servizio, quando udii un forte gemito e il rumore di qualcosa che cadeva a terra. Vidi Oliver accorrere nella metà campo avversaria, e immediatamente mi accorsi che la zia era distesa sul terreno dolorante, e si stava massaggiando una caviglia con le guance rigate di lacrime.

 -Zia Audrey, state bene?-, domandai, accorrendo anch’io presso di lei.

Vidi la zia scuotere il capo con veemenza. La sua espressione era furiosa, ma il dolore era talmente forte da impedirle di parlare, e nonostante tutto lo ringraziai, perché sapevo che quando la zia era di cattivo umore solitamente mi aspettava tutta una serie di rimproveri. Mi sarei sentita terribilmente umiliata ad essere rimproverata davanti al signor Hutton.

-Deve trattarsi di una distorsione-, disse Oliver dopo averle dato un’occhiata alla caviglia, -Aiutatemi a tirarla su, Kathleen-, e mi sentii avvampare al solo udire il mio nome pronunciato dalla sua voce così calda e carezzevole.

Annuii, anch’io come zia Audrey incapace di parlare, e feci come mi aveva detto. Pochi minuti dopo la zia era seduta su una poltrona della hall e Oliver le aveva fasciato la caviglia. Il malumore era passato e ora lei lo stava guardando con evidente ammirazione.

-Come va adesso, signora?-, le domandò cortesemente, dopo aver dato gli ultimi ritocchi alla fasciatura.

La zia sorrise estasiata. –A meraviglia. Siete stato meraviglioso-, rispose.

Oliver abbozzò un sorriso. –Mi è capitato spesso, sapete. Patricia…mia moglie…si faceva male spesso, giocando a tennis-, e si rabbuiò immediatamente dopo aver pronunciato quel nome. Dall’intensità del suo sguardo capii che stava pensando a lei, e provai una fitta di dolore al petto. Patricia…dunque era così che si chiamava sua moglie. Doveva essere ancora molto legato al suo ricordo, se solo pronunciarne il nome bastava a sconvolgerlo così tanto.

-Bene, ora devo andare. Ci rivedremo questa sera a cena. Tanti auguri di pronta guarigione, signora Lancaster-, disse Oliver dopo qualche istante di silenzio, baciando cavallerescamente la mano di mia zia. Il suo sguardo poi si rivolse a me, e mi sorrise. –Arrivederci, signorina Kathleen-, mi disse in tono dolce, e io mi sentii mio malgrado avvampare.

-Arrivederci-, balbettai imbarazzata, sperando che zia Audrey non si accorgesse del mio turbamento, o sarebbero stati guai seri.

A cena però il signor Hutton non scese e io mi sentii sinceramente addolorata nell’immaginarlo solamente nella sua stanza, con la cena che si era fatto portare dal ristorante, mentre mangiava in silenzio e pensava a Patricia, oppure sfogliava l’album dei ricordi che aveva portato con sé e piangeva guardando mille immagini felici di sua moglie, immagini che non sarebbero mai più ritornate. Trascorsi la seconda notte insonne da quando lo avevo conosciuto, pensando continuamente a lui e chiedendomi che cosa stesse facendo in quel momento. La mattina dopo saltai la colazione e, approfittando del fatto che la zia Audrey aveva la caviglia immobilizzata, mi recai da sola al campo da tennis. Nulla da fare, era deserto.

Sentii il mio cuore sprofondare in una cupa amarezza, e a capo chino mi stavo nuovamente avviando verso l’albergo, quando udii qualcuno pronunciare il mio nome. Mi voltai di scatto, e quasi esplosi dalla felicità nel rendermi conto che era stato proprio Oliver a chiamarmi. Accorsi verso di lui sentendomi leggera come una farfalla.

-Siete sola stamani? Come sta vostra zia?-, mi domandò, mentre io notavo che indossava la tenuta da tennis e teneva in mano la sua racchetta.

-Sì, sono sola. La zia sta meglio, ma ha ancora la caviglia immobilizzata e non può giocare. Mia cugina Elizabeth è ancora a letto con l’influenza e io mi sto annoiando a morte-, risposi in tono brioso, cercando di far fruttare tutta la sfrontatezza dei miei venticinque anni appena compiuti.

Oliver sorrise. –Anch’io sono solo e mi sto annoiando. Che ne dite di una partita a tennis insieme?-, mi domandò.

Inutile dire che accettai immediatamente, anzi, era proprio con quello scopo che ero scesa sul campo da tennis nonostante l’indisposizione di zia Audrey. Avevo sempre detestato il tennis, ma ora sentivo di adorarlo se mi dava la possibilità di trascorrere del tempo in compagnia di Oliver Hutton. Al termine della partita, andammo nel bar dell’albergo per bere qualcosa insieme. Fu così che cominciò tra di noi un piacevole rapporto d’amicizia, e da quel giorno passammo un sacco di tempo assieme. Mentre la zia Audrey ed Elizabeth si riprendevano dai rispettivi malanni e lo zio Peter si dedicava ai suoi affari, io e Oliver giocavamo a tennis insieme, pranzavamo e cenavamo insieme, chiacchieravamo insieme e facevamo lunghe passeggiate. Il tempo passava ed io mi sentivo sempre più innamorata di lui. Anche se non avevo mai amato nessun uomo prima di allora, mi bastarono pochi giorni per dare nome a quell’ardente sentimento che nutrivo per il signor Hutton, a quel desiderio struggente di essere continuamente al suo fianco. Lo amavo da impazzire ed ogni momento trascorso insieme a lui era per me felicità allo stato puro. Era un uomo interessante, piacevole, insieme potevamo conversare di mille cose. Solo di una cosa non parlammo mai: di sua moglie, Patricia. Io non osavo chiedere nulla e lui non sfiorò l’argomento nemmeno una volta. Conscia del fatto che per lui si trattava sicuramente ancora aperta, mi rassegnai di buon grado alla presenza di questa zona d’ombra nel nostro rapporto. Ero disposta ad accettare qualunque cosa pur di restare al suo fianco, e pregavo soltanto che Oliver si innamorasse di me almeno un pochino. Non m’importava che mi amasse quanto aveva amato Patricia e nemmeno che mi amasse quanto lo amavo io. Bastava solamente un pochino. L’attenzione e la simpatia che lui manifestava nei miei riguardi tenevano accesa in me la fiammella della speranza, anche se Oliver non ebbe mai verso di me il benché minimo atteggiamento romantico.

La situazione era comunque per me molto positiva, quando la zia Audrey mi diede una notizia che gradii alla stregua di una tegola in testa. Invitandomi una sera nella sua stanza, circa una settimana dopo il suo incidente sul campo da tennis, mi spiegò che ormai Elizabeth era guarita e che gli affari dello zio in Normandia erano terminati, quindi che mi preparassi perché era imminente il nostro trasferimento a Parigi, dove zio Peter era atteso per un incarico molto importante. Mi sentii morire, poiché realizzai immediatamente che non avrei mai più rivisto Oliver. Non ebbi però il coraggio di dire nulla alla zia, che sicuramente non avrebbe pensato neanche per un istante di buttare all’aria i suoi piani per fare un favore a me, e neanche potevo sperare di non andare via con loro, perché non avevo altro modo di mantenermi. La zia mi dava vitto, alloggio e un piccolo stipendio come istitutrice di Elizabeth, e senza di lei io non avrei avuto nemmeno un tetto sopra la testa. Non potevo certo rimanere da sola in Normandia, anche se lo avrei desiderato con tutto il mio cuore.

Quella sera, come di consueto, cenai con Oliver, ma non ebbi il coraggio di dire nulla nemmeno a lui. Temevo di scorgere nei suoi occhi indifferenza di fronte a quella notizia che per me rappresentava una vera catastrofe, perché mi separava per sempre da lui. Egli però dovette aver capito che ero diversa dal solito, perché seguitava a fissarmi con espressione interrogativa.

-Cosa avete?-, mi chiese infine, dopo aver tentato invano di farmi uscire dal mio ostinato mutismo.

Mi strinsi nelle spalle. –Niente-, risposi, in modo tutt’altro che convincente.

Oliver era scettico. –Sentite, Kathleen, credo di conoscervi abbastanza bene ormai. Stasera avete qualcosa. Siete troppo diversa dal solito-, insistette.

Sospirai, e mi disposi a raccontargli tutto senza farmi troppe illusioni sulla sua reazione. Dovevo ammettere che era piuttosto improbabile che Oliver scoppiasse in lacrime alla notizia della mia partenza e mi implorasse di restare al suo fianco, anche se aveva mostrato di provare simpatia per me. In tono mesto, gli dissi che tra pochi giorni sarei partita per Parigi con la famiglia di mia zia, poiché gli affari di mio zio in Normandia erano terminati. Egli mi ascoltò in silenzio, senza battere minimamente ciglio, e sentii una stretta al cuore.

-Capisco…-, disse infine, sorseggiando del vino. Ecco, non gliene importa niente, pensai, sentendomi sommergere dall’amarezza. Tra pochi giorni ci saremmo salutati e io non lo avrei mai più rivisto. Magari ci saremmo scambiati gli indirizzi e promessi di riscriverci. Io gli avrei mandato una lettera al mio arrivo a Parigi, e chissà, forse avrei atteso invano una sua risposta mentre i miei giorni proseguivano sempre uguali, insieme alla zia Audrey ed Elizabeth. Lui invece, dove sarebbe stato lui? Sicuramente a casa sua, a Villa Hutton, circondato dalle cose che erano appartenute a Patricia e dai suoi ricordi…o forse avrebbe continuato a viaggiare, finché il dolore per la perdita di sua moglie non si fosse mitigato nel suo cuore.

Mentre io ero immersa in questi foschi pensieri, Oliver appoggiò il bicchiere sul tavolo e mi guardò dritto negli occhi. Arrossii di fronte all’intensità di quello sguardo.

-Siete felice con vostra zia, Kathleen?-, mi domandò quasi bruscamente. Il suo sguardo era tranquillo, pressoché impassibile.

Sospirai. –Che importa? Non ho altra possibilità. Non posso scegliere la vita che preferisco-, dissi tristemente, pensando a quanto sarebbe stato bello poter dire addio per sempre ai Lancaster e cominciare una nuova vita, finalmente libera. Una nuova vita, magari insieme ad Oliver Hutton…ma tutto ciò era destinato sicuramente a rimanere solo un bel sogno.

-Sbagliate. Un’altra possibilità la avete eccome-, insistette.

Mi accigliai. –E quale? Non ho denaro per mantenermi, signor Hutton, questa è la triste verità. L’alternativa a stare con la zia è finire sotto un ponte-.

Egli scosse il capo e mi prese una mano. Sobbalzai violentemente. La sua espressione era determinata, ma in fondo anche dolce. Sentii un profondo languore invadere tutto il mio corpo e la mia anima, ed istintivamente ricambiai la sua stretta.

-Potreste venire a villa Hutton insieme a me-, disse, dopo un periodo di silenzio che a me parve interminabile.

Una parte di me esultò, e per un attimo fui sul punto di rispondere immediatamente di sì. Andare a Villa Hutton avrebbe significato rimanere con lui per sempre. Mi imposi di rimanere con i piedi per terra, e assunsi un’espressione fredda e distaccata. –Avete bisogno di una segretaria o qualcosa di simile?-, domandai con circospezione.

Oliver scoppiò in una fragorosa e spontanea risata. Era la prima volta che lo vedevo ridere così di gusto, e non sapevo se sentirmi contenta oppure offesa. –Ma no, sciocchina. Vi sto domandando di sposarmi-, precisò, accarezzandomi piano le mani.

Il mio cuore si fermò per un istante, e rimasi letteralmente paralizzata sulla sedia. Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Non potevo aver veramente udito quel che avevo pensato di udire. Era sicuramente uno dei miei soliti sogni ad occhi aperti e presto sarebbe arrivato qualcuno, magari uno dei camerieri, a svegliarmi, e mi sarei resa conto senza ombra di dubbio che Oliver Hutton non mi aveva affatto proposto di sposarlo. Sbattei violentemente le palpebre una, due, tre volte, ma il viso di Oliver dolce e sorridente non scomparve. O cielo, era tutto vero! Era vero! Oliver Hutton mi aveva davvero chiesto di diventare sua moglie! Sua moglie! Era sì il mio solito sogno ad occhi aperti, ma questa volta si stava realizzando! Mi sentii travolgere da un’ondata di felicità, e solo l’espressione seria di Oliver mi trattenne dal buttargli le braccia al collo. Lo guardai sprizzando gioia da tutti i pori ed annuii, incapace di parlare perché un nodo mi serrava la gola.

-Accettate?-, domandò lui, continuando a sorridermi.

-Certo!-, esclamai, sentendomi la ragazza più felice e fortunata della terra, e già immaginando nella mia mente la vita meravigliosa che mi attendeva al suo fianco, a Villa Hutton. Se solo avessi saputo!

-Perfetto. Dopo cena verrò nella suite a parlare con vostra zia-, disse Oliver con aria soddisfatta, e ricominciò a mangiare come se nulla fosse.

Per un attimo provai un pizzico di delusione. Lui non mi aveva parlato di amore, non aveva fatto alcuna dichiarazione romantica…nemmeno aveva tentato di baciarmi. Mi aveva chiesto di sposarlo e aveva semplicemente aggiunto che avrebbe chiesto ufficialmente la mano alla zia. Cercai di stemperare la mia delusione dicendomi che la vita reale non era come i romanzi d’amore che tanto amavamo leggere io e mia madre, quando ancora vivevo negli Stati Uniti, ma non potevo non sentirmi defraudata di qualcosa. Volevo essere razionale e mi ripetevo che non c’era nulla di strano, Oliver aveva almeno dieci anni più di me ed era già stato sposato (ecco, il ricordo di Patricia si insinuava nuovamente nel mio cuore come una lama arroventata), non era certo il tipo da romantiche proposte di matrimonio in ginocchio. Lo amavo e lo avrei sposato, e avremmo vissuto insieme a Villa Hutton, per sempre felici e contenti come i principi e le principesse delle favole. Una favola, mio Dio…una favola…

 

Avrei dato qualunque cosa per vedere la faccia di mia zia Audrey quando Oliver le avrebbe annunciato il nostro prossimo matrimonio, ma il mio futuro marito mi negò anche questo piacere. Arrivati davanti alla porta della suite, disse che sarebbe entrato lui per primo a parlare con la zia, ed io sarei entrata solamente dopo. Rimasi una buona mezz’ora da sola sul pianerottolo, tormentandomi al pensiero di cosa avrebbe detto Oliver, di quale sarebbe stata la reazione di zia Audrey. Quali parole avrebbe usato? “Voglio sposare Kathleen, siamo molto innamorati”? Queste, queste sarebbero state le parole che avrei voluto sentire. Ma chissà perché, nel mio cuore sentivo che non le avrebbe affatto usate. Chissà perché voleva sposarmi..forse perché ero buona, docile, simpatica, e avrei potuto tenergli buona compagnia. Forse perché era stanco della vedovanza.

I miei pensieri furono interrotti dal rumore secco di una porta che si apriva, ed Oliver uscì dal pianerottolo con aria soddisfatta. –Tutto a posto, tua zia ha dato il suo consenso. Vorrebbe parlarti un attimo-, mi disse tranquillamente, come se avesse appena concluso brillantemente una trattativa di affari.

Mi accinsi ad entrare nella stanza di zia Audrey, ma prima mi voltai verso il mio fidanzato (che turbamento mi suscitava chiamarlo con questo nome!) e lo guardai intensamente. –Perché vuoi sposarmi?-, gli chiesi, usando per la prima volta il tu nel rivolgermi a lui.

Oliver rifletté per un istante, quasi soppesando le parole. –Perché mi piaci, Kathleen. Sei la prima persona che mi suscita sentimenti positivi da quando… da molto tempo-, si corresse bruscamente.

Chinai lo sguardo. Sapevo che avrebbe voluto dire “da quando Patricia non c’è più”, ma non aveva osato per rispetto nei miei confronti.

-Il pensiero di vederti partire e di rimanere senza di te mi era insopportabile, per questo ti ho chiesto di sposarmi-, proseguì, e mi guardò con dolcezza.

Non era una vera e propria dichiarazione d’amore, pensai con un pizzico di delusione, ma per il momento dovevo accontentarmi. Avevo tutta una vita per farlo innamorare perdutamente di me, l’importante allora mi sembrava aver raggiunto quel “pochino” al quale avevo tanto aspirato.

Sorrisi al mio futuro marito ed entrai nella stanza. La zia mi stava aspettando mollemente sprofondata in poltrona, e non appena mi vide mi squadrò con espressione severa.

-Sei sicura di quel che fai?-, mi domandò bruscamente.

Annuii, cercando di non far trasparire in alcun modo le insicurezze che seguitavano a torturarmi. –Sì. Lo amo molto, zia-.

Zia Audrey sospirò con aria grave e per un attimo mi parve sinceramente preoccupata per me. –Tu sei una bambina romantica e ingenua, Kathleen, e nemmeno immagini quel che ti aspetta. Lui è più anziano di te ed è già stato sposato-, mi rammentò.

Di nuovo il pensiero di Patricia. Lo allontanai, pur restando consapevole che avrei dovuto combattere con quel fantasma per il resto dei miei giorni. –Solo di dieci anni, zia. E sua moglie è morta-, ribattei con testardaggine.

Un altro sospiro da parte della zia. –Lui vive in un mondo molto diverso da quello nel quale sei cresciuta tu. Sarà molto dura per te ambientarti-, proseguì.

La odiai con tutte le mie forze. Perché continuava a rigirare il dito nella piaga, andando a toccare proprio i miei punti deboli? Cercai di convincermi che era solo invidiosa per la grande fortuna che mi era toccata, sposare un uomo così affascinante e ricco, proprio io, la parente povera!

-Mi adatterò-, insistetti, sostenendo il suo sguardo con fierezza.

La zia abbassò lo sguardo, vinta. –Lo spero proprio, bambina. Lo spero proprio-, disse, e poi mi congedò, annunciandomi che Oliver aveva deciso che saremmo partiti il giorno successivo.

Fu senza il minimo dispiace che salutai zia Audrey, zio Peter ed Elizabeth. Ero grata loro per avermi accolta dopo la morte dei miei genitori, ma anche ben contenta di lasciarli, sicura che mi aspettava una vita migliore. Solo più avanti avrei ricordato le parole di mia zia, e mi sarei resa tristemente conto di quanto esse erano state profetiche.

 

Il nostro matrimonio fu celebrato a Dover due giorni dopo la proposta di Oliver. Fu una cerimonia molto semplice, alla presenza solamente di un giudice di pace e di sua moglie. Niente chiesa, niente invitati, niente confetti, niente abito bianco. Niente di niente.

-Una cerimonia del genere io l’ho già avuta-, mi aveva detto Oliver freddamente, quando gli avevo domandato se ci saremmo sposati col rito religioso oppure no. Mi sentii profondamente ferita, sia perché egli pareva considerarmi inferiore rispetto a Patricia, sia perché per me, figlia di un vicario, sarebbe stato molto importante sposarmi in chiesa. Ma decisi di fare buon viso a cattivo gioco, consolandomi col pensiero che sarei diventata la moglie di Oliver, cosa che avevo desiderato dal primo momento che l’avevo visto.

Ci fermammo per la notte in un lussuoso albergo di Dover, mio marito aveva deciso che la mattina dopo saremmo subito ripartiti in direzione di Villa Hutton, che, mi spiegò, si trovava in Cornovaglia. Niente viaggio di nozze, dunque, pensai incassando l’ennesima delusione, dopo aver sognato una meravigliosa vacanza in qualche spiaggia della Costa Azzurra, io e lui da soli, felici come due sposini.

Attendevo con ansia la prima notte di nozze, ignorando che mio marito aveva prenotato per noi due camere separate. Trascorsi ore ed ore a prepararmi e farmi bella, indossando una camicia da notte bianchissima con una profonda scollatura che avevo comprato in gran segreto in una boutique di Dover, truccandomi sapientemente il volto e raccogliendo i capelli in uno chignon per assumere un’aria più adulta. Durante i preparativi, fantasticavo su come sarebbe stato magnifico essere stretta tra le forti braccia di Oliver, baciata dalle sue labbra che avevo solamente potuto sfiorare al termine della nostra cerimonia nuziale, a quanto sarebbe stato meraviglioso diventare una cosa sola con lui e dormire abbracciati tutta la notte. Ma le ore passavano e mio marito non arrivava. Trascorsi la notte insonne, girandomi e rigirandomi tra le lenzuola di seta fresche e profumate e versando lacrime amare per quel matrimonio che ora più che mai sembrava essere una farsa. Sarebbe stato sempre così, per tutta la mia vita? La nostra sarebbe stata solamente un’unione di facciata, e Oliver si aspettava da me soltanto che gli tenessi compagnia, docile come un animale domestico?

La mattina dopo scesi a colazione pallida e tirata. Oliver era già seduto al tavolo, tranquillo e fresco come una rosa, e stava sorseggiando una spremuta d’arancia e sfogliando un quotidiano. Mi accolse con un sorriso luminoso, e mi baciò dolcemente su una guancia. Mi sentii bruciare dall’umiliazione…erano ben altre le attenzioni che avrei desiderato ricevere da mio marito.

-Buongiorno, mia cara. Hai dormito bene?-, mi chiese gentilmente, ma le sue parole mi suonarono come una squallida presa in giro.

Lo squadrai freddamente, cercando di controllare il tremito della mia voce. –Ti ho aspettato invano tutta stanotte. Perché non sei venuto? Era la nostra prima notte di nozze-, dissi in tono di rimprovero.

Mio marito mi sorrise senza scomporsi. Mi accarezzò piano una guancia e poi mi strinse una mano, guardandomi con espressione affettuosa. –Non volevo ferirti, tesoro. Ma voglio che la nostra prima notte di nozze avvenga a casa, a Villa Hutton, non in un alberghetto qualunque-, mi rispose, in tono pacifico ma determinato.

Sentii la mia rabbia sbollire lentamente davanti alla dolcezza del suo sguardo e mi rilassai, cercando di comprendere le sue ragioni. Magari era giusto così, mi ripetevo, e nel giro di un’ora ero praticamente convinta che Oliver avesse pienamente ragione. Sarebbe stato molto più bello unirci per la prima volta a casa nostra, il luogo dove avremmo trascorso il resto dei nostri giorni insieme, dove si sarebbe svolta la nostra meravigliosa favola. Cominciai a sentirmi impaziente di raggiungere Villa Hutton, certa che, una volta giunti lì, la nostra esistenza in comune avrebbe cominciato a scorrere liscia come l’olio e il nostro amore sarebbe definitivamente esploso.

Non potevo sapere allora quanto mi sbagliavo…

 

Fine primo capitolo

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

Ringrazio infinitamente Betty, Scandros e Kla87, che hanno recensito il mio primo capitolo. Grazie di tutto cuore, ragazze! Continuate a seguirmi!

 

CAPITOLO SECONDO

 

Scesi dalla macchina subito dopo mio marito, cercando di controllare il tremito delle mie gambe. Inspirai profondamente. La casa era bellissima, stupenda, ancora più splendida di quel che avessi immaginato, ma non riuscii a gustarmela come avrei voluto, perché la bella immagine di fronte a me era guastata dalla presenza di tutta quella schiera di persone che attendevano il nostro arrivo disposti ordinatamente in fila in cima alla scalinata di pietra. I domestici di Villa Hutton, immaginai, e mi umettai nervosa le labbra, sperando di riuscire a fare una buona impressione. Dentro di me, sentivo che tutti mi avrebbero paragonato alla scomparsa Patricia, e che mai avrei potuto reggere il confronto…ma volevo comunque fare una figura dignitosa.

Mentre salivo la scalinata di pietra al braccio di Oliver, sentendomi addosso gli sguardi di tutte quelle persone, li passai velocemente in rassegna. L’uomo alto, magro e piuttosto anziano, impeccabilmente vestito di grigio, doveva essere il maggiordomo…e il ragazzo accanto a lui, con un cappello piuttosto malconcio in testa, un grembiule macchiato di verde ed un paio di cesoie in mano era sicuramente il giardiniere.

Ma chi mi colpì più di tutti fu lei…forse perché fin dalla prima occhiata avvertii che ella mi fissava con un’ostilità che sconfinava nell’odio profondo, e sentii un brivido gelido serpeggiarmi lungo la schiena.

Era ritta come una statua di fronte a tutti. Una donna piccola e magra, con una crocchia di capelli grigi raccolti sulla sommità della nuca ed un’espressione piuttosto severa. Pallida come una morta, era completamente vestita di nero e l’unica nota di vita erano gli occhi scuri, scintillanti, penetranti…occhi animati da una fiammella di rancore che mi fece mancare il fiato per un istante.

-Bentornato, signore-, disse la donna, facendo un breve inchino in direzione di Oliver, che ricambiò il suo saluto con un freddo e cortese cenno del capo.

Ero aggrappata al suo braccio con tutte le mie forze e cominciavo a sudare freddo. Non ero abituata ad avere a che fare con tutte quelle persone, non ero abituata ad essere una padrona di casa e mi sentivo completamente a disagio. Avrei preferito mille volte conoscerli uno alla volta, affrontare le cose per gradi, ma non era stato possibile. Lanciai un’occhiata disperata a mio marito ed egli, comprendendo il mio smarrimento, tentò di rassicurarmi con un’occhiata.

-E’ stata un’idea vostra, signora Martin?-, domandò Oliver con voce gelida, accennando vagamente con una mano a tutto lo schieramento di servitori.

La donna annuì con aria compita. –Eravamo tutti ansiosi di accogliere il nostro signore di ritorno dal suo lungo viaggio…e di conoscere la nuova signora Hutton-, rispose con una voce piatta ed atona, e poi mi squadrò con una lunga occhiata. Mi sentii raggelare, come se venissi trapassata da quegli occhi di ghiaccio.

Mio marito sospirò. –Ormai è fatta. Questa è Kathleen Hutton, mia moglie-, mi presentò semplicemente, invitandomi a fare un passo in avanti.

Abbozzai un sorriso, sentendomi spaurita come una scolaretta al suo primo giorno di lezioni. Non stavo facendo una gran figura, me ne rendevo conto, ma ero talmente imbarazzata e timorosa che non sarei riuscita ad essere brillante nemmeno sforzandomi. Del resto, non era mai stato nel mio carattere essere particolarmente brillante. Con i miei genitori avevo condotto una vita molto modesta, del tutto priva di occasioni mondane, e alle feste della zia Audrey ricoprivo il ruolo di istitutrice di Elizabeth, quindi non mi era richiesta chissà quale presenza di spirito.

La donna vestita di nero si fece avanti e mi tese una mano. La sua stretta era fredda e viscida come il tocco di un serpente. –Io sono la signora Martin, la governante. Le do il benvenuto a Villa Hutton a nome di tutta la servitù, signora-, mi disse. La sua voce era gentile, ma riuscivo a percepire l’ostilità che era nascosta dietro la sua apparente cortesia.

Cercai di convincermi che era solo frutto della mia immaginazione e le sorrisi nel modo più spontaneo che mi riuscì. –La ringrazio, signora Martin. Spero che potrò contare sulla sua preziosa collaborazione in questi primi giorni qua, finché non mi sarò ambientata-.

La signora Martin mi scoccò un’altra occhiata penetrante. Era evidente che non le ero piaciuta, ma aveva troppo rispetto di mio marito per farlo capire. –Ma certo, signora. Sono qui per servirla-, rispose glaciale, e rivoltomi un altro breve inchino indietreggiò per riunirsi alla fila dei domestici.

Mio marito mi presentò brevemente gli altri membri della servitù: Frank, l’anziano maggiordomo, un uomo talmente compito da sembrarmi finto; l’altezzosa Daniela, la cameriera capo; Jason, il giardiniere, l’unico che accompagnò la stretta di mano ad un sorriso franco e sincero, che mi colpì positivamente; Leonard, il garzone, e via via tutti gli altri.

Cercai di sorridere e di riuscire simpatica a tutti, consapevole del fatto che gli occhi neri e freddi della signora Martin continuavano ad essere fissi su di me, e alla fine quello sforzo mi lasciò completamente stremata. Quando finalmente entrammo in casa, Oliver si recò in biblioteca per controllare la corrispondenza arretrata, e mi disse di seguire la signora Martin che mi avrebbe accompagnata nella mia stanza. Sebbene la prospettiva di restare da sola con quella donna mi atterrisse, cercai di mostrarmi forte e obbedii docilmente. Salii le scale in silenzio dietro alla signora Martin, che camminava con passo spedito e sicuro, sentendomi più una nuova cameriera assunta in prova nella grande casa che la moglie del padrone. Di nuovo, mi assalii il timore di essere del tutto inadeguata per quel ruolo, e mi tornarono alla mente, colpendomi come tante frecce acuminate, le parole della zia Audrey. Non aveva avuto tutti i torti nel dire che io e Oliver provenivamo da due mondi completamente diversi, e forse ero una sciocca ad illudermi che l’amore potesse sopperire a molte mancanze.

Fu con grande meraviglia che misi piede per la prima volta in quella che sarebbe stata la mia stanza. Era la camera più grande che avessi mai visto in vita mia, persino più grande della suite in cui avevo alloggiato in Normandia insieme alla cugina Elizabeth. Le pareti erano dipinte di un tenue color azzurrino che mi piacque subito moltissimo, al centro della stanza troneggiava un grande letto matrimoniale ricoperto di una stupenda trapunta ricamata dello stesso colore delle pareti, l’arredamento era completato da un grande armadio bianco, da una cassettiera con sopra un grande specchio e da un piccolo scrittoio. Accanto allo scrittoio, si apriva una grande finestra che dava sul meraviglioso parco di Villa Hutton e che offriva una splendida vista sul lussureggiante giardino, sugli alberi da frutto, sui magnifici cespugli fioriti. Mi guardai attorno entusiasta, come una bambina che sia entrata per la prima volta in un castello come quelli delle favole.

-E’ meravigliosa-, mormorai estasiata, e certo in quel momento i miei occhi stavano scintillando di felicità. La signora Martin, immobile sulla porta, continuava a guardarmi con la sua espressione rigida e impassibile.

-Sono contenta che sia di vostro gusto, signora. Sapete, queste stanze dell’ala orientale sono state rimesse a posto da poco. Nessuno aveva mai abitato in quest’ala della villa prima di oggi-, disse con la sua solita voce inespressiva. Mi parve di cogliere però una sorta di lampo di sfida nei suoi gelidi occhi scuri.

-Oh, mi dispiace allora che vi siate dati tutto questo disturbo. Sarei stata benissimo anche nell’ala occidentale-, risposi, continuando ad ammirare con lo sguardo la mia nuova, magnifica stanza, così simile a quella di una principessa.

-E’ stato il signor Hutton ad ordinare espressamente di preparare questa stanza per voi. Egli dormirà nella stanza accanto, come vedete lì c’è una porta comunicante. Anche quella camera è stata messa a nuovo recentemente-, continuò la signora Martin, accennando ad una piccola porta a fianco dell’armadio.

-Quindi non è la sua stanza consueta?-, domandai incuriosita, sentendomi oltremodo lusingata dal fatto che mio marito avesse fatto rimettere a nuovo addirittura un’ala della villa appositamente per me.

La donna mi squadrò con occhi di ghiaccio. C’era perfidia in quegli occhi, pensai, mentre il mio corpo si irrigidiva mio malgrado. –Egli non ha mai alloggiato nell’ala orientale prima d’ora. Le stanze di quest’ala sono le più piccole della Villa. Questa stanza, ad esempio, è la metà della camera da letto dell’ala occidentale. La più bella stanza di tutta la casa.-, rispose.

Avvertii una punta di disagio a queste parole, e per scrollarmi di dosso questa brutta sensazione spalancai la finestra e mi affacciai ad ammirare il panorama, rimanendo incantata dalla bellezza dell’immenso giardino di Villa Hutton, con i suoi tanti fiori di mille colori diversi. –C’è un bellissimo panorama, qua…peccato che non si veda il mare. Da quest’ala della casa non si direbbe affatto che siamo così vicini al mare, non trova?-, dissi in tono allegro.

La signora Martin non batté ciglio. –Il mare è piuttosto lontano da questa parte della Villa. Le stanze dell’ala occidentale invece sono proprio a picco sulla scogliera. Dalla stanza da letto dell’ala occidentale di cui le parlavo si vede solo il mare, nient’altro che il mare. Sapete-, e fece una piccola pausa, guardandomi quasi con cattiveria, -quella era la stanza della signora Patricia-.

Mi sentii raggelare. Quella donna voleva umiliarmi, era evidente. Patricia aveva vissuto nella stanza più bella di tutta la casa, quella con la vista sul mare, la più grande, con gli arredamenti più sontuosi. Io le ero evidentemente inferiore, per questo mi era stata assegnata una camera più piccola e meno elegante, nell’ala più remota della Villa. Era riuscita a stemperare con poche parole tutto l’entusiasmo che la vista di quella magnifica camera aveva suscitato dentro di me. Per un istante provai un fiotto d’odio profondo per la signora Martin, certa che dietro quell’espressione apparentemente impassibile stesse covando una profonda soddisfazione.

Cercai di riassumere un contegno. –Vi ringrazio, signora Martin. Siete stata profondamente gentile a condurmi fino alla mia stanza, e la camera mi piace moltissimo. Ora potete andare, non voglio disturbarvi oltre-, le dissi in tono freddamente cortese.

-Come volete. Daniela sistemerà le vostre cose e si prenderà cura di voi fino a quando non sarà arrivata la vostra cameriera-, ribatté la signora Martin, austera.

Arrossii. –Non ho una cameriera…ma sono sicura che Daniela, se è pratica della casa, saprà servirmi benissimo-, risposi, cercando di nascondere la mia vergogna.

La vecchia governante mi fissò dubbiosa, con evidente disprezzo. –Non so per quanto si potrà andare avanti così…una signora del vostro rango non può non disporre di una cameriera personale-, disse, in tono profondamente critico.

Il mio volto divenne ancor più rosso e caldo. –Se credete allora, potreste provvedere voi, signora Martin…qualche ragazza giovane, che abbia voglia di imparare…-, balbettai quasi, sentendomi la creatura più meschina di questo mondo. Ero consapevole di aver fatto davvero una magra figura agli occhi di quella donna.

-Come volete voi, signora-, rispose la signora Martin, e dopo avermi rivolto un breve inchino se ne andò, con la sua andatura curva e triste. Mi domandai quale fosse la ragione dell’ostilità che palesemente nutriva nei miei confronti. D’accordo, aveva sicuramente notato che ero alquanto inesperta come padrona di casa, che ero una persona molto modesta…ma perché detestarmi a quel modo? Non riuscivo proprio a capire.

Comunque, dopo essermi cambiata e rinfrescata, scesi in salotto, dove mi aspettava mio marito. Anche Oliver si era cambiato, e pareva perfettamente a suo agio disteso comodamente sul divano, con un bicchiere di brandy in mano. Mi domandò di sedermi insieme a lui, e presi posto su di una poltrona con aria timorosa, sentendomi per l’ennesima volta in quella lunga giornata un’ospite in una casa che non mi apparteneva affatto.

-Ti piace la tua stanza?-, domandò, guardandomi con affettuosa benevolenza.

Annuii, mentre il mio sguardo si illuminava. –Oh certo. È veramente stupenda…ma non dovevi disturbarti a far rimettere a nuovo tutta l’ala orientale-, risposi.

L’espressione di Oliver si adombrò, ed io mi morsi la lingua, temendo di aver fatto un’imperdonabile gaffe. –Ho deciso che vivremo lì. Voglio stare il più possibile alla larga dal mare-, rispose in tono gelido, e io avrei voluto sprofondare al ricordo di come Patricia fosse scomparsa in mare. Almeno, questo era ciò che aveva detto lo zio Peter, perché Oliver non mi aveva mai parlato della sua prima moglie, e tantomeno delle circostanze della sua tragica morte.

-Capisco…-, mormorai contrita, e rimasi seduta in silenzio a capo chino, tormentandomi nervosamente con le dita l’orlo della gonna.

Trascorse qualche istante in cui nessuno dei due parlò, e l’atmosfera di quel salotto cominciò a sembrarmi opprimente.

-Domani avremo visite, Kat-, mi annunciò improvvisamente Oliver, rompendo quell’atmosfera carica di tensione.

Mi irrigidii involontariamente, quasi spaventata dall’inattesa notizia. Visite? Quali visite? Parenti o amici di mio marito, non c’era alcun dubbio. Era ovvio che prima o poi avrebbero voluto fare la conoscenza della sposa. Temevo però di non sentirmi ancora pronta…era già stato così terribile affrontare la servitù! Ma non volevo dare una delusione a mio marito, e così abbozzai un sorriso completamente ipocrita, fingendomi davvero felice della cosa.

-Davvero? E chi viene a trovarci?-, esclamai in tono forzatamente gaio, mentre in cuor mio desideravo profondamente scomparire e non dover affrontare più niente e nessuno. Cominciavo già a sentirmi un’intrusa che dava fastidio a tutti, ed era una sensazione insopportabile.

-Mio cugino, Julian Ross, insieme a sua moglie Amy. Mi ha scritto una lettera annunciandomi che verranno a colazione domani. Sono molto curiosi di conoscerti-, mi spiegò brevemente, per poi rivolgermi un sorriso rassicurante. –Stai tranquilla, Kat. Julian ti piacerà, vedrai. Siamo cresciuti insieme ed è come un fratello per me. Uno di questi giorni, poi, dovremo pur andare a trovare mia madre-.

-Tua madre?-, domandai, profondamente intimorita al pensiero di conoscere mia suocera. Le suocere mi erano sempre state dipinte come una vera e propria calamità, soprattutto da zia Audrey, che detestava con tutto il cuore la madre dello zio Peter e non vedeva l’ora che l’orribile vecchietta tirasse finalmente le cuoia.

Oliver annuì, con espressione grave. –Vive in una tranquilla casetta non molto distante da qui insieme ad un’infermiera e ad una governante che l’accudiscono a tempo pieno. Purtroppo cinque anni fa ha avuto un brutto incidente cadendo da cavallo ed è rimasta invalida. E’ bloccata sulla sedia a rotelle e ogni tanto perde la lucidità-, mi disse, mentre il suo sguardo diventava profondamente triste.

-Oh mi dispiace tanto!-, esclamai. Provai una profonda sincera per la signora Hutton, costretta a vivere in quelle condizioni, e mi sentii terribilmente in colpa per aver avuto paura di lei. Quella poveretta non avrebbe potuto farmi proprio nulla di male.

Mentre conversavamo, mi guardavo attorno. Era il salotto più bello che avessi mai visto prima…i divani bianchi in pelle, il tavolino di marmo, le credenze in legno massiccio, tutti i vasi da fiori e gli oggetti preziosi che adornavano la stanza…era magnifica. Chiunque avesse scelto l’arredamento di quel salone, doveva essere stata una persona dotata davvero di un ottimo gusto, pensai, provando la stessa estasi artistica che avevo sperimentato prima entrando nella mia nuova camera, forse ancora più forte.

Mio marito notò la mia espressione incantata, e mi sorrise. –Ti piace questo salotto?-, mi domandò con voce dolce.

Annuii, profondamente ammirata. –E’ bellissimo…l’hai arredato tu?-, domandai istintivamente.

Oliver si rabbuiò, e scosse lentamente il capo. –No. È stata Patricia-, disse semplicemente e in fretta, come se anche solo accennare alla sua prima moglie fosse troppo doloroso per lui.

Mi sentii nuovamente imbarazzata e rattristata e non dissi nulla, mentre tra noi scendeva un nuovo silenzio ancora più plumbeo del precedente.

In quel momento, per fortuna, la porta del salone si spalancò, ed entrò un servitore trasportando il carrellino per servirci il the pomeridiano. Alzai gli occhi per guardarlo, e mi resi conto che il giovane che era appena entrato mi era sconosciuto. Non lo avevo veduto prima nella schiera di domestici che attendevano il nostro arrivo in cima alla scala di pietra, e, meravigliata, lo osservai con maggiore attenzione. Era un bel ragazzo alto e bruno, e i suoi tratti somatici mostravano chiaramente che non era europeo. Sembrava un indiano, o forse un sudamericano. Come ho già detto, era molto alto, e aveva la carnagione più abbronzata e scura che avessi mai visto in vita mia. Gli occhi erano neri e profondi, e avevano un che di misterioso e di affascinante, che si intonava perfettamente con il colore ambrato della sua pelle, aveva una corona di capelli scuri, ricci e ribelli, che scendevano disordinatamente fino a metà collo, e delle bellissime mani grandi con dita lunghe ed affusolate. Indossava una camicia bianca che metteva in risalto, oltre all’incarnato color cioccolata, anche il suo torace ampio e muscoloso, e un paio di pantaloni neri. Ci servì il the in silenzio, con gesti misurati ed eleganti, e provai un certo turbamento nel rendermi conto che era senza dubbio l’uomo più attraente che avessi mai visto in vita mia.

-Grazie Carlos-, mormorò distrattamente Oliver, prendendo in mano la sua tazza di the.

Il giovane cameriere rispose con un inchino, e prima di lasciare il salotto mi rivolse un’occhiata lunga e penetrante, che mi lasciò profondamente turbata. Aveva uno sguardo bellissimo, uno sguardo veramente caldo ed avvolgente. Mi sentii avvampare violentemente e mi affrettai ad abbassare lo sguardo sulla mia tazza di the, per celare il mio imbarazzo.

Carlos uscì dal salone con il passo elegante e sinuoso di un leopardo, e tra me e mio marito cadde nuovamente un imbarazzante silenzio, mentre entrambi sorseggiavamo il nostro the alla ricerca di qualcosa da dire.

-Non ho visto quel ragazzo tra la servitù, prima-, dissi infine cercando di mantenere una certa noncuranza, ansiosa di saperne di più su quell’uomo così attraente.

-Chi, Carlos? Si chiama Carlos Santana e vive qui da più di vent’anni. Credo che sia sudamericano, ma non l’ho mai saputo con certezza. È stato trovato mentre vagava sulla spiaggia, penso che i suoi genitori l’abbiano abbandonato. Aveva appena dieci anni ed era tutto lacero e sporco. Mia madre ne ebbe compassione e lo accolse in questa casa, lo istruì come servitore e lui rimase qui. Non ha mai detto una parola, quindi nessuno conosce la sua storia-, mi spiegò.

-E’ muto?-, domandai, provando uno struggente senso di pietà per lui. Era come se me lo vedessi davanti, a dieci anni, magro, sporco e scalzo, mentre vagava sulla spiaggia cercando disperatamente i suoi genitori, che forse erano morti, o forse lo avevano abbandonato. Povero Carlos…solo al mondo…capivo bene come doveva essersi sentito, perché anch’io avevo sperimentato quell’orrenda sensazione dopo la scomparsa dei miei genitori, e avevo continuato a provarla anche dopo essere stata accolta in casa della zia. Mi aveva accompagnata finché non ero diventata la moglie di Oliver e avevo finalmente costruito una nuova famiglia, una famiglia che speravo con tutto il cuore potesse essere felice come quella in cui ero cresciuta.

-Sì, oppure non vuole parlare. Fatto sta che non ha mai detto una parola da quando è arrivato in questa casa. È stata mia madre a decidere il suo nome-, rispose Oliver, addentando uno dei biscotti che Carlos ci aveva portato insieme al the.

-Poveretto…certo è stata una fortuna per lui capitare qua…e tua madre è stata molto buona ad accoglierlo-, dissi, prendendo anch’io un biscotto e cominciando a mangiucchiarlo svogliatamente.

Oliver annuì, sorseggiando il suo the. –Mia madre è una donna molto buona e generosa, sempre pronta ad aiutare il prossimo…o almeno lo era, prima che l’incidente la riducesse in quello stato-, rispose, mentre un’ombra di tristezza attraversava il suo viso.

Concluso il rito del the, salii in camera mia per riposarmi. Ero molto stanca fisicamente e, soprattutto, mentalmente. Non avrei mai immaginato che la mia prima giornata a Villa Hutton sarebbe stata così pesante…e il giorno dopo sarebbero arrivati il cugino di Oliver e sua moglie…

Entrata nella mia stanza, mi affacciai alla finestra, e vidi Carlos passeggiare in giardino, accompagnato da due grossi cani, di una razza che da quella distanza non riuscii a riconoscere. Rimasi ad osservarlo a lungo, spinta da una sensazione fortissima che io stessa non capivo da dove derivasse. Quando lui però sollevò lo sguardo e lo rivolse nella mia direzione, mi ritrassi istintivamente dalla finestra e mi misi a sedere sul letto con il cuore che martellava furiosamente. Cercai di respirare profondamente e di calmarmi. Il mio battito cardiaco stava lentamente tornando alla normalità, quando qualcuno bussò alla porta della mia stanza, facendomi sobbalzare violentemente.

-Avanti-, dissi con voce tremula.

La signora Martin fece il suo ingresso, con le braccia che reggevano una pila di asciugamani candidi.

-Vi ho portato degli asciugamani puliti, signora-, disse atona, appoggiandoli sulla cassettiera.

-Grazie, signora Martin-, risposi, sperando che non si accorgesse del mio stato di agitazione.

La vecchia fece un breve inchino e si avviò nuovamente alla porta, ma io mi udii mentre, con mia stessa sorpresa, chiamavo il suo nome per fermarla. Ella si voltò, e mi squadrò con aria interrogativa.

-Siete in questa casa da molto tempo?-, domandai, senza capire chiaramente cosa mi spingesse a rivolgerle una simile domanda.

La signora Martin mi fissò meravigliata. –Non tanto quanto Frank o altri domestici-, rispose sibillina. Fece una breve pausa, in cui mi rivolse una lunga occhiata penetrante. Sospirò e aggiunse: -Venni qui con la signora Patricia, come sua cameriera personale, quando ella si sposò. L’avevo allevata fin da bambina-. La sua voce si incrinò lievemente su queste ultime parole, mentre finalmente il velo di mistero che aveva accolto il suo atteggiamento scostante nei miei confronti si squarciava ed io capivo perché ella mi detestava così tanto. Era stata la cameriera personale di Patricia, l’aveva allevata quando era bambina e poi l’aveva seguita a Villa Hutton quando ella si era sposata con Oliver. Doveva averla amata come una figlia, e sicuramente la sua morte così tragica e improvvisa l’aveva gettata in un profondo stato di prostrazione. Ecco perché mi odiava. Perché avevo preso il posto della sua adorata Patricia. Non detestava tanto me, quanto quello che rappresentavo. Per un istante provai pena per lei, doveva esser stato veramente duro per quella povera vecchia vedermi entrare in quella casa come moglie di Oliver, vedermi camminare per le stanze che erano appartenute a Patricia e pensare che lei invece giaceva morta chissà dove…già, perché, stando a quello che mi aveva raccontato zio Peter, anche se c’era stata una cerimonia funebre il corpo di Patricia non era mai stato ritrovato, così come non era mai stato ritrovato il  battello con il quale ella era annegata.

-Sentite, signora Martin…Io spero che noi due potremo diventare ottime amiche. Non desidero altro che rendere serena la vita di mio marito, e spero proprio che voi mi aiuterete in questo scopo. So di poter contare su di voi per quel che riguarda la gestione della casa e questo mi è di molto conforto, perché vedete, finora sono vissuta in un modo molto diverso e sono certa che non potrei mai cavarmela da sola-, le dissi con il cuore in mano, augurandomi di tutto cuore che ella decidesse finalmente di deporre le armi e di far cessare quell’inutile ostilità. Odiare me non avrebbe riportato in vita Patricia.

La vecchia mi guardò freddamente, senza mutare di una virgola la sua espressione. –Certo, signora-, mormorò, e se ne andò dalla stanza senza aggiungere altro. Con una stretta al cuore, capii che il mio tentativo di riconciliazione era andato a vuoto, e mi venne voglia di piangere. Era tutto maledettamente difficile, mille volte più difficile di quel che avevo immaginato. Mi affacciai nuovamente alla finestra, ma Carlos non era più in giardino, e provai un’inspiegabile quanto struggente sensazione di abbandono.

Pensai che un bagno caldo mi avrebbe rilassata, così presi uno degli asciugamani dalla pila che mi aveva portato la signora Martin e mi recai nella stanza da bagno, a cui si accedeva da un’altra porticina del tutto simile a quella che metteva in comunicazione la mia camera con quella di mio marito Oliver. Cominciai a far scorrere l’acqua calda nella vasca, e vi gettai dentro i sali da bagno. Mi spogliai e mi immersi, godendomi la sensazione di relax che mi regalava l’acqua tiepida mentre scorreva lentamente lungo il mio corpo nudo. Chiusi gli occhi e improvvisamente comparve davanti a me il viso bruno di Carlos, con la stessa espressione che aveva quando mi aveva guardata prima, mentre si congedava dopo avermi servito il the. Li riaprii di scatto, chiedendomi cosa mi fosse mai saltato in mente. Oliver era mio marito, avrei dovuto vedere lui, e non Carlos. Mi dissi che avevo veduto Carlos perché lo sentivo molto simile a me…anch’io mi sentivo sola al mondo e abbandonata da tutti, nonostante fossi sposata da nemmeno una settimana. Mi sentivo completamente estranea da quando avevo messo piede in quella casa: lì dentro niente mi apparteneva, io ero un’ospite, non la padrona. Lì dentro nemmeno mio marito mi apparteneva più…ammesso che mi fosse mai appartenuto prima.

Cercai di allontanare da me quei pensieri infausti, ripetendomi che Oliver mi amava, che mi aveva sposato perché mi voleva bene e che avremmo avuto una vita perfettamente felice insieme, nonostante il ricordo incombente di Patricia e la sgradevole presenza della signora Martin. Provai a pensare alla fatidica notte di nozze che stavolta si stava inevitabilmente avvicinando, e mi dissi che dopo quella notte io e Oliver ci saremmo sentiti finalmente più uniti. Grazie a quella convinzione e all’effetto rilassante del bagno caldo, cominciai a sentirmi meglio, e i miei muscoli tesi presero finalmente a sciogliersi.

 

La mia prima notte di nozze…già, la mia prima notte di nozze. Fu il momento forse più deludente della mia vita, e mi sentii ancora più infelice di quando avevo trascorso da sola nella mia stanza d’albergo la prima sera dopo essermi sposata.

Avevo chiesto a Daniela di portarmi la cena in camera, scusandomi con mio marito per la mia assenza, e dopo aver mangiato velocemente avevo cominciato i preparativi. Avevo acceso delle candele e le avevo disposte sulla cassettiera per dare un’atmosfera romantica alla stanza, avevo indossato la stessa camicia da notte bianca e scollata che mi rendeva davvero sensuale ed affascinante e avevo raccolto i capelli in uno chignon sulla sommità della nuca, lasciando però che qualche ciocca mi ricadesse attorno al viso. Mi ero anche truccata, seppur lievemente: un filo di mascara sugli occhi e un rossetto rosso e lucido sulle labbra, per renderle più invitanti. Indossai sopra la camicia da notte una lunga vestaglia bianca di pizzo, semi-trasparente, e mi disposi ad attendere l’arrivo di Oliver, sentendomi eccitata ed impaziente come mai in vita mia. I particolari di quella notte così tanto attesa si animavano di vita propria nella mia mente e mi scorrevano davanti agli occhi come tanti fotogrammi: egli sarebbe entrato e sarebbe rimasto subito ammaliato alla mia vista, stentando a credere che potessi trasformarmi in una creatura così seducente, la più bella che avesse mai visto in tutta la sua vita. Mi avrebbe preso tra le braccia con dolcezza e poi mi avrebbe baciata appassionatamente, sussurrandomi all’orecchio che mi amava, oh sì, che mi amava da morire. La vestaglia sarebbe scivolata lentamente a terra, seguita immediatamente dopo dalla mia camicia da notte, mentre Oliver mi baciava teneramente il collo. Mi avrebbe fatta distendere dolcemente sul letto, ammirando la mia nudità alla luce delle candele, e avrebbe cominciato a baciarmi ed accarezzarmi dappertutto, con infinito ardore. Poi si sarebbe spogliato anche lui e con delicatezza mi avrebbe posseduta, rendendoci una cosa sola adesso e per sempre. Sarebbe stato bellissimo, e dopo la passione ci saremmo addormentati l’uno tra le braccia dell’altro, svegliandoci allo stesso modo il mattino dopo, quando il sole avrebbe cominciato a filtrare attraverso le tende. Sarebbe stato così, ne ero certa.

Sentii la porta che metteva in comunicazione le nostre stanze aprirsi con un rumore secco, e sobbalzai, con il cuore che batteva furiosamente. Mi alzai in piedi e mi rassettai nervosamente la vestaglia, mentre mio marito, con indosso un elegante pigiama scuro, faceva il suo ingresso nella mia camera da letto. Gli andai incontro felice, ed egli mi strinse tra le braccia con espressione indecifrabile e mi baciò. Le sue labbra erano morbide ed esigenti, ed io risposi con passione al suo bacio, stringendomi forte a lui fino a far aderire completamente i nostri corpi, mentre pensavo con gioia che quel che avevo immaginato stava diventando finalmente realtà. Le cose invece andarono molto diversamente.

Mentre mi baciava, Oliver mi condusse verso il letto e mi fece segno di sdraiarmi. Quando fui completamente distesa, mi sollevò la camicia da notte fino alla cintola, mentre con le mani accarezzava frettolosamente il resto del mio corpo. Sembrava che dovesse assolvere a tutti i costi ad un compito per lui infinitamente penoso. Passai le mani lungo la sua schiena, tentando di infilarle sotto il suo pigiama, certa che presto si sarebbe spogliato, per consentirmi di accarezzare direttamente la sua pelle, ma egli non lo fece. Si limitò ad abbassare lievemente i pantaloni per estrarre il suo membro, che appariva già rigido e pulsante. Si mise a cavalcioni sopra di me e mi penetrò quasi bruscamente, per poi chinarsi a baciarmi distrattamente sulle labbra mentre cominciava a muoversi dentro di me. Mi serrai le labbra per non gridare per il dolore improvviso che aveva attraversato il mio corpo, e serrai le mie braccia attorno alle spalle di Oliver, stoicamente, mentre egli continuava a muoversi a ritmo sempre più veloce senza degnarmi di uno sguardo, senza baciarmi, senza accarezzarmi. Provai un’infinita delusione…possibile che fosse questo fare l’amore? Ma se non stavo provando nessun piacere, niente…La realtà era completamente diversa dai miei sogni, non c’era traccia di passione, di desiderio, di abbandono nei gesti di mio marito. Stava semplicemente assolvendo al suo dovere coniugale e ad un’insopprimibile esigenza fisiologica, ma senza alcuna partecipazione, come se stesse possedendo una sconosciuta.

Lo sentii gemere pesantemente sopra di me, mentre un fiotto di un liquido caldo e denso mi scorreva tra le gambe, nel punto in cui egli si trovava. Dopodiché, Oliver cadde esausto sul mio petto, senza dire una parola. Avevo voglia di piangere, ma non lo feci. Aspettai un gesto, una parola da parte di mio marito, qualcosa che desse un significato a ciò che era appena successo tra di noi, ma non accadde niente di tutto questo. Oliver si rialzò, si tirò su i pantaloni e scese dal letto come se nulla fosse successo.

-Buonanotte-, mi disse in tono freddo, quasi formale, senza neanche guardarmi in faccia, per poi andarsene nella sua stanza senza aggiungere altro.

Rimasi immobile sul mio letto, sentendomi sommergere da una profonda amarezza, e quando egli si fu richiuso la porta dietro le spalle lasciai finalmente le lacrime libere di scorrere. Era tutto così penoso, così nauseante…altroché renderci più uniti, mi sentivo più distante che mai da Oliver, anche se avevamo fatto l’amore. Ammesso che potesse chiamarsi così quello che avevamo fatto, perché io di amore ne avevo visto ben poco in quella furiosa galoppata senza desiderio. Mi alzai, sistemai la camicia da notte e mi recai in bagno, dove cominciai a far scorrere l’acqua calda nella vasca, sempre continuando a piangere. Oliver non mi aveva detto nulla, non mi aveva praticamente toccata né baciata, mi aveva semplicemente usata finché non aveva raggiunto il piacere e poi mi aveva accantonata come se fossi stata un oggetto. Chissà, forse aveva pensato a Patricia mentre si muoveva dentro di me, e aveva immaginato che fosse suo il corpo che lo stava accogliendo. Provai una stretta al cuore. Mi spogliai e mi immersi nella vasca, cominciando a sfregarmi nervosamente con il sapone per cancellare ogni traccia dell’accaduto. Mi sentivo sporca, come se, anziché essere stata a letto con mio marito, uno sconosciuto si fosse approfittato di me. Era inutile che mi dicessi che la prima volta per una donna era sempre deludente, perché non nutrivo alcuna speranza che le successive sarebbero state migliori, ammesso che ce ne fossero state. Oliver aveva assolto ai suoi doveri coniugali, ma non mi sentivo sua moglie più di quanto non mi fossi sentita tale questa mattina. Ero estranea a lui, a quella casa, alla servitù, a tutti. Non ero io la padrona di casa. La padrona era ancora Patricia. Potevo sentire la sua presenza, impalpabile ed invisibile eppure vibrante, incombente, maledettamente reale. Potevo sentirla nel cuore di Oliver, negli occhi gelidi della signora Martin, nel salotto che lei stessa aveva arredato…ovunque. Era anche nel mio letto, dove mio marito mi aveva posseduta pensando a lei.

Uscii dalla vasca e, avvolta in un grande asciugamano bianco, tornai a distendermi sul letto. Scoppia in singhiozzi, detestando profondamente me stessa e il mondo intero. Avevo voluto seguire il mio cuore e mi ero sposata con Oliver nella certezza ingenua che insieme saremmo stati felici, e ora la cruda realtà si stava barbaramente dipanando davanti ai miei occhi, guardandomi con la stessa espressione impassibile della signora Martin.

Una vocina dentro di me mi disse che non sarei mai stata felice in quella casa, mai. Patricia non mi avrebbe mai permesso di prendere il suo posto.

Piangendo tutte le mie lacrime, mi addormentai.

 

Mi svegliai il mattino dopo con un feroce mal di testa e un violento senso di oppressione al petto. Andai in bagno a sciacquarmi il viso, mentre gli eventi della notte appena trascorsa mi tornavano alle mente rinnovando il mio dolore, e guardai la mia immagine allo specchio. Ero mortalmente pallida e con gli occhi profondamente cerchiati di scuro. Somigliavo terribilmente ad uno zombie. Cercai di nascondere questi brutti segni con il trucco, e stavo pensando a cosa indossare quando sentii bussare alla porta. Era la signora Martin, venuta ad avvertirmi che il signor Ross e sua moglie erano appena arrivati e mi stavano aspettando in salotto. Mi sentii morire, ricordandomi che il cugino di Oliver sarebbe venuto a conoscermi proprio quel giorno…ed io ero in quello stato pietoso. Mi sforzai di sorridere e di nascondere il mio malumore ed indossai un abito bianco a fiori rossi, piuttosto allegro, lasciando i miei lunghi capelli castani sciolti sulle spalle.

Scesi di sotto e raggiunsi il salone, dove mio marito, come sempre impeccabile, stava già intrattenendo i nostri due ospiti. Li raggiunsi, cercando di apparire come una giovane sposa serena e felice, nonostante il tormento che dentro mi stava lacerando l’anima.

Oliver mi salutò affettuosamente con un bacio sulla guancia e mi prese per mano. –Julian, Amy, questa è mia moglie Kathleen. Loro, cara Kat, sono mio cugino Julian e sua moglie Amy-.

Li salutai con gentilezza e Julian mi porse subito la mano, che strinsi con calore. Era un bell’uomo, molto rassomigliante ad Oliver nel volto e nei modi. Alto, ben piantato e con un’espressione serena e rassicurante, aveva un viso piuttosto pallido dai lineamenti regolari, grandi occhi scuri e i capelli castani tagliati corti. Mi sorrise cordialmente e mi fece immediatamente un’ottima impressione.

La signora Ross era una donna minuta e piuttosto carina. Indossava un semplice abito giallo da mattina, era molto più bassa del marito e di corporatura snella. Aveva un viso pallido dai lineamenti delicati, quasi cesellati, grandi occhi di un intenso blu scuro e i capelli lisci, di un color castano chiaro vagamente tendente al rosso, che portava lunghi fino alle spalle. Mi porse una mano piccola e dalle dita affusolate, e io la strinsi sorridendo.

Mi sentii gelare quando vidi l’espressione con cui Amy mi stava fissando. Un’espressione fredda, carica di disprezzo, mentre i suoi occhi blu scintillavano di disapprovazione.

La stessa espressione della signora Martin…

 

Fine secondo capitolo

 

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO TERZO

 

Porsi la mano alla signora Ross muovendomi come un automa, mentre con espressione smarrita scrutavo la sua espressione sprezzante. Avvertivo a pelle che quella donna mi detestava, anche se non riuscivo a comprenderne il perché. Mi dissi che sicuramente doveva esserci di mezzo Patricia, perché mi guardava esattamente come aveva fatto la signora Martin quando mi aveva vista scendere dall’automobile, soltanto il giorno prima.

Amy me la strinse frettolosamente, e non ricambiò affatto il mio timido accenno di sorriso. Mi ritrassi al fianco di Oliver, che continuava a sorridermi in modo rassicurante, come a dirmi che non c’era nulla di cui avere timore. Ma il ricordo della notte appena trascorsa mi impediva di fidarmi completamente di lui, anche se era mio marito. Lo sentivo estraneo. Mi sentivo un’intrusa, del tutto fuori luogo in mezzo a persone che per me erano delle perfette sconosciute.

Andammo a sederci in salotto. Oliver e Julian cominciarono subito a conversare, come due amici affiatati che non si vedono da un sacco di tempo. Io tenevo gli occhi bassi, tormentandomi l’orlo del vestito che indossavo. Sentivo gli occhi di Amy, così carichi di freddezza, fissi su di me, e avrei desiderato con tutta me stessa dire qualcosa, qualunque cosa, ma alla mente non mi veniva nemmeno la più squallida delle banalità. Speravo anche che lei parlasse, ma la signora Ross invece continuava a scrutarmi in silenzio, senza nemmeno accennare ad aprire bocca.

Dopo qualche minuto, entrò la signora Martin con il vassoio del the. Lo depose sul tavolo, proprio di fronte a noi, e rivolse ad Amy un luminoso sorriso.

-Amy cara! È un piacere vederti qui dopo tanto tempo! Come stai?-, disse in tono materno, così diverso dal tono distante e carico di disprezzo con il quale si rivolgeva a me.

La giovane donna ricambiò il sorriso dell’anziana governante con un’espressione dolcissima, che mi fece notare che era molto più carina di come mi fosse apparsa prima. –Il piacere è mio, Marty cara, volevo venire a trovarti ma poi…sai com’è, non me la sono sentita. Comunque ora sto molto meglio, grazie. E tu?-, rispose affabilmente.

Rimasi sbigottita nel notare la confidenza che esisteva tra Amy e la signora Martin. Addirittura si davano del tu, dovevano essere veramente molto intime. Poi mi tornò alla mente quel che la vecchia mi aveva detto la sera prima…che era stata la cameriera personale di Patricia. Mi convinsi ancora di più che doveva esserci stato un legame davvero molto stretto tra la signora Ross e la prima moglie di Oliver, e questa era la ragione dell’odio che ella sembrava provare per me. Esattamente la stessa ragione per cui la signora Martin mi detestava tanto.

Lo sguardo della governante si rabbuiò, mentre accarezzava lievemente i capelli chiari di Amy. –Meglio, ma non mi sono ancora rassegnata…-, sussurrò a mezza voce, guardandomi di sottecchi come a sfidarmi a reagire in qualche modo. Era palese che stessero parlando della tragica scomparsa di Patricia. Sentii il mio corpo irrigidirsi, ma non dissi nulla. Mi sentivo completamente esclusa dalla situazione, come se fossi un fantasma in quel salotto e non una persona in carne ed ossa. Mio marito e suo cugino stavano continuando a parlare fittamente, Amy chiacchierava confidenzialmente con la governante, entrambe unite da un profondo affetto per Patricia e da un altrettanto profondo risentimento nei miei confronti, ed io stavo lì immobile sul bordo del divano, come una spettatrice. Avrei voluto alzarmi e correre in camera mia, tanto la mia presenza lì non importava a nessuno, ma la mia dignità mi trattenne dal farlo. Mi morsi le labbra nervosamente e rimasi lì, ferma come una statua.

Sentii Amy sospirare. –Ti capisco, sai, Marty…nemmeno io mi sono ancora rassegnata-, disse, e la sua voce quasi si spezzò. Alzai lo sguardo per un istante e vidi una lacrima spuntare negli occhi della signora Martin. La vecchia si accorse che la stavo guardando e salutò in tutta fretta Amy, dicendole che doveva tornare in cucina. Se ne andò tutta impettita, guardandomi con occhi di ghiaccio.

Mi feci forza ed affrontai lo sguardo di Amy. Nel suo viso non c’era traccia di disponibilità nei miei confronti, ma ora eravamo cugine e quindi dovevo assolutamente trovare un punto di accordo con lei. Volevo riuscire a tutti i costi ad ambientarmi in quella casa, in quel mondo, era l’unica possibilità che avevo per essere felice con mio marito.

-Oliver e vostro marito sembrano andare molto d’accordo, signora Ross-, esordii timidamente. Sperai con tutte le mie forze di aver scelto l’argomento di conversazione più giusto. Immaginavo che Amy avrebbe sorriso e mi avrebbe invitato a darle del tu e chiamarla per nome, che diamine ormai eravamo parenti e non dovevano esistere questi formalismi tra di noi! Ci saremmo versate del the e lei mi avrebbe raccontato qualche aneddoto sull’infanzia e l’adolescenza dei nostri mariti, poi, quando Oliver e Julian avessero finito di parlare, saremmo andati tutti insieme a fare una passeggiata in giardino. Al termine della visita io ed Amy saremmo state amiche per la pelle, questo era lo scenario che mi auguravo di tutto cuore.

-E’ naturale. Sono cresciuti insieme-, rispose invece seccamente la signora Ross, versandosi una tazza di the e cominciando a sorseggiarla con aria infastidita.

-Quindi è come se fossero fratelli-, insistetti, cercando di non mostrarmi scoraggiata. Era solo questione di rompere il ghiaccio, mi ripetevo, presto sarebbe andato tutto a meraviglia.

Mi sentii morire invece quando vidi il volto di Amy incupirsi, ed i suoi occhi blu fiammeggiare d’odio mentre mi guardava. –Avete fratelli, Kathleen?-, mi domandò freddamente, con la tazzina del the sospesa a mezz’aria.

Scossi la testa timidamente. C’era uno strano bagliore nei suoi occhi, che mi incuteva una profonda soggezione. Mi sentii nuovamente a disagio e inadeguata.

-Allora non potete parlare di cose che non conoscete-, sentenziò la giovane donna lapidaria, sorseggiando il suo the con estrema lentezza.

Rimasi profondamente ferita da questa sua glaciale osservazione e chinai nuovamente lo sguardo, sentendomi la persona più meschina su questa terra. –Avete ragione-, balbettai, al colmo dell’infelicità.

Amy sospirò, e per un attimo mi parve sinceramente contrita, mentre il suo sguardo si perdeva in giro per la stanza. –Scusatemi, Kathleen. Non dovevo essere così brusca con voi-, disse a bassa voce, e si passò una mano tra i lunghi capelli rossi.

Le sorrisi, con quella che però risultò null’altro che una smorfia nervosa. –Non preoccupatevi-, mi affrettai a ribattere, cercando a tutti i costi di ottenere la sua approvazione.

-Come vi sembra Villa Hutton?-, mi domandò Julian, che aveva senza che ce ne fossimo accorte finito di chiacchierare con Oliver e si era versato nel frattempo una tazza di the.

Gli sorrisi con gratitudine, contenta che avesse intavolato una nuova conversazione. –Bellissima-, risposi, illuminandomi in volto. –L’abitazione è a dir poco meravigliosa, per non parlare poi del giardino, il luogo più bello che abbia mai veduto in vita mia. Non ho ancora avuto modo di visitarlo tutto, ma sono certa che potrò godermi delle fantastiche passeggiate nei prossimi giorni-.

Il giovane mi sorrise affabilmente, e notai che sembrava molto più ben disposto nei miei confronti di quanto non fosse sua moglie. Mi sentii rinfrancata, perché fino a quel momento avevo avuto la spiacevole sensazione di camminare su un terreno minato.

-Praticate qualche sport, Kathleen?-, mi chiese ancora.

Scossi il capo. –No, nessuno in particolare-, ammisi, un po’ vergognosa. –Non cavalco, non gioco a golf, niente di tutto questo. Però mi piace molto camminare. E nuotare, sì, mi piace molto anche nuotare. Non ho ancora visto la spiaggia di Villa Hutton però. Spero che non ci siano correnti troppo forti nella baia-, disse con entusiasmo. Solo dopo aver parlato mi resi conto di quel che avevo detto, e le guance mi divennero di fiamma. Arrossì violentemente, maledicendomi per la mia stupidità, mentre vedevo i volti di Oliver e di Amy diventare praticamente di pietra, e lo stesso Julian assumere una strana espressione.

Aprii la bocca per scusarmi, ma non uscì nessuna parola. Non sapevo cosa dire. Come avevo potuto dimenticarmi che Patricia era annegata nella baia in una notte di tempesta?

Fu Julian, e non lo ringrazierò mai abbastanza, a spezzare la tensione che la mia incauta frase aveva generato nel salotto. –Purtroppo qua non è la zona migliore per nuotare, Kathleen. Però potete sempre chiedere a vostro marito di costruirvi una piscina, in fondo lo spazio in giardino non manca, vero cugino mio?-, disse sforzandosi di utilizzare un tono brioso, e batté una mano sulla spalla di mio marito.

Oliver abbozzò un sorriso, anche se il suo volto era ancora piuttosto cupo. –Non è una cattiva idea, Julian. Ci penserò sopra-, rispose, cercando anch’egli di utilizzare una tonalità di voce neutra. Avvertii però in essa un leggero tremito, e nel mio cuore parve allargarsi una crepa.

-Amy mi chiedeva con insistenza di costruirla a casa nostra, almeno fino ad un anno fa. Ultimamente invece non vuole nemmeno sentir parlare di piscine o di nuotare-, osservò Julian, accarezzando lievemente la mano di Amy.

La moglie lo fulminò con lo sguardo. –Immagino non sia difficile capire il perché, Julian-, disse con la stessa voce fredda con cui si era rivolta a me poco prima, quando mi aveva domandato se avessi o meno dei fratelli.

Suo marito si irrigidì, ma le rivolse un’occhiata di scuse. –Avete già conosciuto Tom Becker, Kathleen?-, mi domandò, cambiando immediatamente discorso. Mi chiesi se anch’egli avesse provato la sensazione di camminare su un terreno minato, o se stesse semplicemente cercando di rendermi la conversazione meno penosa.

Scossi la testa, piuttosto confusa. Non avevo la più pallida idea di chi fosse Tom Becker, non l’avevo mai sentito nominare. Rivolsi un’occhiata interrogativa a mio marito.

-Dovrebbe passare a trovarci più tardi-, disse Oliver rivolto al cugino. Poi si voltò verso di me e mi sorrise, anche se capivo perfettamente che si trattava di un sorriso completamente falso. Mio marito non aveva alcuna voglia di sorridere in quel momento, era palese. Sicuramente dentro di lui era ancora rimasta la frase infelice che avevo detto pochi minuti prima. –Tom Becker è il mio socio in affari. Ti piacerà, è un uomo fantastico. Siamo amici fin dall’infanzia. Ci conosciamo praticamente da sempre-, mi spiegò.

-Quante ne abbiamo combinate noi tre da ragazzi!-, sospirò Julian, con la stessa espressione nostalgica di ogni persona che si stia lasciando andare per un attimo ai ricordi. –Ora sembriamo delle persone a modo, Kathleen, ma vi assicuro che allora eravamo davvero terribili. Te lo ricordi, Amy?-, disse poi rivolgendosi alla moglie, mentre io realizzavo che mio marito, suo cugino e la signora Ross si conoscevano fin dalla più tenera età. Conclusi che anche Oliver e Patricia dovevano conoscersi da parecchio tempo, probabilmente erano stati prima compagni di gioco, poi intimi amici durante la giovinezza ed infine erano diventati marito e moglie. Era stata la donna della sua vita, in tutti i sensi. Quel pensiero mi fece provare un’amarezza sconfinata.

La giovane fece un pallido sorriso. –Eccome se mi ricordo. Erano davvero tempi felici, quelli-, disse a bassa voce, e nei suoi occhi comparve una tristezza che andava ben oltre la semplice nostalgia del passato, degli anni d’oro della giovinezza. Era la tristezza data dal ricordo di qualcuno che si era amato e purtroppo perduto. Conoscevo bene quell’espressione, perché era la stessa che avevo io quando ripensavo ai miei genitori. Amy stava pensando a Patricia in quel momento, e dagli sguardi di Oliver e Julian capii che anche loro stavano facendo lo stesso. Ero decisamente di troppo lì. Io ero l’estranea, mentre Patricia era ben presente, indelebilmente viva nei loro ricordi, perché finché c’è chi prova amore per loro i defunti non sono mai realmente scomparsi dal mondo in cui i loro cari continuano a vivere. Essi restano ancora lì, invisibili ed impalpabili ma più reali che mai, perché la morte non spezza i legami familiari resi eterni dall’amore. Mi sembrava quasi di avvertire la presenza di Patricia accanto a me, la vedevo seduta sul divano, evanescente come un’ombra ma allo stesso tempo dannatamente reale, che sorseggiava con eleganza la sua tazza di the e chiacchierava allegramente con Amy, con il tono confidenziale ed intimo che ella aveva usato prima con la signora Martin. Ecco, la solita, detestata, inevitabile impressione: non ero io la padrona di casa. La padrona di casa era ancora Patricia.

Bussarono alla porta del salotto, e pensai che fosse la signora Martin che veniva a riprendere il vassoio del the. Mi sentii venire meno, perché quella donna era l’ultima persona che desideravo vedere in quel momento. Con mio grande sollievo però, non fu l’anziana governante a fare il suo ingresso nella stanza, ma Carlos. Non so dire il perché, ma mi parve quasi che la sua presenza mi avesse portato un po’ di luce. Senza dire una parola, rigido ed impeccabile come sempre, vestito come il giorno prima e con la stessa aria inavvicinabile, nonostante fosse solamente un cameriere, Carlos si avvicinò al tavolo e, dopo averci salutato con un cenno del capo, raccolse velocemente il vassoio del the, per poi avviarsi nuovamente verso la porta. Prima di andarsene, mi sembrò che mi rivolgesse un’occhiata lunga e penetrante, come se stesse cercando di comunicarmi qualcosa attraverso il linguaggio degli occhi. Provai una sorta di fremito nel petto, ma mi dissi che era stato solamente frutto della mia immaginazione.

Decidemmo di uscire a fare una passeggiata in giardino. L’aria era fresca e profumata ed io inspirai profondamente, cominciando a rilassarmi. Non saprei dire il perché, ma il giardino era la parte di Villa Hutton che sentivo più mia, quando ero fuori, in mezzo ai fiori e alle piante, così vitali, così rigogliosi, mi sentivo in pace con me stessa e con il mondo. Non avevo ancora avuto il coraggio di recarmi alla spiaggia. Era un timore ridicolo quello che avevo, lì non ci sarebbe stato certo il fantasma di Patricia ad attendermi, ma quando mi avviavo sulla stradina che conduceva verso il mare sentivo che il cuore cominciava a martellarmi violentemente nel petto e le mie gambe non riuscivano più a muovere nemmeno un passo.

Notai che l’espressione della signora Ross si era fatta ancora più nostalgica. Si avvicinò ad un cespuglio di lillà e cominciò ad accarezzarli lievemente con la punta delle dita, e vidi che gli occhi le si stavano riempiendo di lacrime. Provai per un istante una compassione fortissima per lei: doveva aver amato moltissimo Patricia. Avrei voluto avvicinarmi, dirle qualcosa, ma avevo paura di essere allontanata, perché sentivo a pelle che ella mi detestava. Chissà, forse col tempo sia lei che la signora Martin avrebbero accettato l’idea che Patricia fosse morta e che io fossi diventata la signora Hutton al suo posto. Lo speravo con tutto il cuore, altrimenti temevo che quella casa sarebbe diventata invivibile, per me.

Suo marito le andò vicino e le mise le mani sulle spalle. Amy si voltò verso di lui ed abbozzò un sorriso, la sua fragilità le si leggeva chiaramente sul volto e mi fece quasi tenerezza.

-E’ veramente bello questo giardino. Mi piace molto-, dissi timidamente, stanca di quell’insopportabile silenzio che non voleva saperne di rompersi.

Oliver si guardò intorno, e per un attimo lessi nei suoi occhi la stessa nostalgia che avevo visto prima in quelli della signora Ross. Ecco, ora sta pensando a Patricia, mi dissi, provando un’acuta fitta di gelosia. Sta ricordando quando passeggiavano insieme per i viottoli del giardino, raccogliendo fiori da disporre nei vasi in salotto. La sta rivedendo mentre, con un paio di cesoie in mano ed un cappello di paglia in testa, sta dando disposizioni al giardiniere per piantare una nuova aiuola. Patricia, Patricia e sempre Patricia. Per me stava diventando una vera e propria ossessione.

Ma ecco che l’espressione nostalgica svanì dallo sguardo di mio marito, ed egli mi venne vicino mettendomi un braccio intorno alle spalle e stringendomi forte a sé. Mi sentii sommergere dalla felicità, e lo guardai radiosa. Oliver ricambiò il mio sorriso. –Hai ragione, Kat, è splendido. Ma è stato un po’ trascurato ultimamente. Potresti occupartene tu, se ti va-, mi suggerì.

Mi sentivo così leggera che mi parve di volare. Mio marito mi stava chiedendo di occuparmi del giardino, mi stava affidando la cura di una parte della sua casa, e per me era come se mi stesse donando un pezzo del suo cuore. Voleva che io mi occupassi del giardino, presto ci sarebbe stata la traccia del mio passaggio a Villa Hutton, e speravo che col tempo le mie tracce sarebbero state talmente tante non dico da cancellare, ma perlomeno da oscurare quelle di Patricia, la mia invisibile nemica. Per la prima volta da quando avevo messo piede in quella casa, mi sentii veramente la moglie di Oliver e la padrona della villa, e provai un sentimento di autentica felicità.

-Ma certo, tesoro. Me ne occuperò più che volentieri. Ho già alcune idee in testa-, risposi, mentre il mio sguardo si illuminava e percorreva tutto il giardino, pensando già febbrilmente ad alcune modifiche da apportare.

-Sono sicuro che verrà fuori un parco meraviglioso-, rispose Oliver con dolcezza, e mi sentii quasi esplodere il cuore notando che mi stava guardando come…come se mi amasse. Ma certo, mio marito mi amava! Come avevo fatto a dubitarne? Anche il ricordo di quella notte stava cominciando a svanire…doveva essere stato l’effetto del ritorno a Villa Hutton, di tutti i ricordi spiacevoli che quella casa conteneva, oppure era stata la mia inesperienza a farmelo sentire distaccato mentre non era affatto così. La nostra vita matrimoniale sarebbe andata a gonfie vele, ne ero assolutamente sicura. Di nuovo, stavo nascondendo le mie paure sotto una montagna di illusioni.

Istintivamente guardai in direzione di Amy, e vidi che ella mi stava rivolgendo un’occhiata carica di disprezzo, a dir poco raggelante. Non doveva aver approvato la decisione di Oliver di affidare il giardino alle mie cure, e per un attimo mi sentii nuovamente vulnerabile davanti all’odio quasi palpabile di quella donna, di cui invece avrei desiderato essere amica. Poi mi dissi che dovevo essere forte e non lasciarmi prendere dallo sconforto. Il tempo avrebbe sistemato ogni cosa, dovevo crederci con tutte le mie forze e non farmi mai abbattere da niente. Patricia era morta e non poteva farmi del male. Né Oliver né gli altri potevano dimenticarla, ma presto tutti loro si sarebbero rassegnati alla sua scomparsa e mi avrebbero accettata come legittima signora Hutton. Amy compresa.

-A voi piace occuparvi del giardino, signora Ross?-, le domandai cortesemente, cercando nuovamente di creare una breccia nel muro di fredda ostilità che Amy aveva eretto intorno a sé.

-Moltissimo-, rispose la signora Ross, ma nella sua voce non c’era traccia di entusiasmo. Era evidente che si stava sforzando di essere educata con me. –Ho iniziato ad occuparmi del giardino quando ancora vivevo con i miei genitori. Io e mia sorella lo facevamo insieme ed eravamo riuscite a creare un piccolo capolavoro. Poi ho praticamente rimesso a nuovo il giardino di Villa Ross, quando mi sono sposata. Ma non è neanche lontanamente bello come questo-, proseguì, e nuovamente la nostalgia si impadronì dello sguardo, rattristandolo e facendola apparire più vecchia dei suoi trentaquattro anni.

-Ah, voi avete una sorella? Vi invidio proprio, signora. Deve essere veramente bello-, dissi, non sapendo quanto mi sarei pentita della mia ingenuità.

Amy mi guardò sconcertata, come se ritenesse assurda la mia domanda. Guardò prima suo marito, che mi parve altrettanto allibito, e poi Oliver, che rispose alla sua occhiata con un’espressione di scuse ed un’alzata di spalle. Cominciai a sentirmi profondamente angosciata. Avevo capito di aver detto qualcosa di sbagliato, di tremendamente sbagliato, ma non riuscivo a capire che cosa. Per quale motivo non avrei dovuto parlare della sorella della signora Ross? Mi sembrava un argomento di conversazione assolutamente innocuo. Ricordai però la freddezza con cui Amy mi aveva chiesto se avessi dei fratelli, e cominciai a sudare freddo. Evidentemente c’era qualcosa che non sapevo…qualcosa di cui Amy e Julian credevano fossi a conoscenza, lo si capiva dal modo in cui guardavano Oliver, dallo sconcerto che traspariva dai loro volti, e che invece mio marito mi aveva tenuto nascosto. Ma che cosa, maledizione? La serenità d’animo di pochi istanti prima era ormai soltanto uno sbiadito ricordo, mi sentivo nuovamente piena d’ansia ed inadeguata, come se mi fossi presentata ad un esame importante senza conoscere nemmeno una risposta.

Oliver sospirò e mi guardò con espressione contrita. Immediatamente, per tutta risposta, il mio corpo divenne rigido, come se fosse stato fatto di pietra.

-Devo scusarmi con te, Kat, e anche con Julian ed Amy perché non ti ho detto una cosa importante. Vedi, Kathleen…Amy non è solamente la moglie di mio cugino, ma è anche…era…la sorella di Patricia-, disse, e dalla sua voce traspariva il profondo disagio che stava provando.

Rimasi immobile come una statua di sale, raggelata dalla notizia che avevo appena ricevuto. Amy era la sorella di Patricia…ora capivo tutto. La sua confidenza con la signora Martin, la freddezza con cui mi aveva domandato se avevo dei fratelli, la sua reazione quando avevo nominato sua sorella, e persino il suo disprezzo nei miei confronti. Sicuramente lei aveva pensato che io sapessi, mentre Oliver invece non mi aveva detto nulla, limitandosi a presentarmela come la moglie di suo cugino Julian. Non lo biasimavo per aver taciuto, anche perché sapevo come sarebbero andate le cose se me lo avesse detto prima, mi conoscevo ed ero consapevole che sarei stata tesa il doppio di quanto lo ero già per quell’incontro e che non avrei saputo minimamente come comportarmi con Amy. Mi sentivo però una stupida. Avevo inanellato una gaffe dietro l’altra durante quell’incontro, e come una bambina ingenua avevo sperato di poter stringere amicizia con la signora Ross, un’amicizia che non sarebbe mai stata possibile, perché io sarei stata sempre e comunque la donna che aveva preso il posto di sua sorella, nella sua casa e nella vita di suo marito. Sarebbe sempre stato difficile per lei vedermi passeggiare nel giardino che era stato di sua sorella, curare le piante e i fiori come lei e Patricia avevano fatto insieme prima di sposarsi, bere the al fianco di Oliver…chissà quante giornate simili aveva trascorso in questa casa prima che Patricia morisse, e chissà che dolore terribile doveva essere perdere una sorella in quel modo. Non avevo mai avuto fratelli o sorelle, quindi non potevo capire fino in fondo il dramma che aveva vissuto Amy.

-Oddio! Mi dispiace, non sapevo!-, esclamai quasi inorridita, quando fui in grado di recuperare l’uso della parola, passato il primo istante di shock. Abbassai istintivamente lo sguardo, non mi sentivo abbastanza forte da guardare la signora Ross e suo marito negli occhi.

-Non preoccupatevi, Kathleen. Voi non sapevate nulla. Io e Amy credevamo che glielo avessi detto, Oliver-, intervenne Julian, cercando in ogni modo di minimizzare l’accaduto. Sicuramente dentro di lui il rispetto per suo cugino e per le sue scelte si stava scontrando con l’amore e la comprensione nei confronti della moglie, che sicuramente non aveva affatto apprezzato l’idea di Oliver di risposarsi.

-Avrei dovuto, hai ragione…ma non avrei voluto rendere questo incontro ancora più imbarazzante per mia moglie-, si scusò mio marito, ed io notai di sottecchi che Amy si era irrigidita e aveva fatto una smorfia quando egli si era riferito a me con l’appellativo “mia moglie”.

-Io non so come scusarmi, signora Ross, credetemi. Ma non sapevo che voi foste la sorella di…-, e qui mi interruppi, perché non riuscivo ancora a pronunciare il nome di Patricia, il fantasma che continuava ad incombere sulla mia felicità.

Amy mi squadrò freddamente, ma non c’era più traccia di ostilità nei suoi occhi blu. Vi leggevo piuttosto rassegnazione ed un’infinita tristezza. Anch’ella mi fece una gran pena, come prima la signora Martin. Come potevo biasimare queste due donne, che avevano perduto una persona a loro cara ed ora si trovavano al suo posto una perfetta sconosciuta? Come potevo chiedere loro di non considerarmi un’intrusa e di accogliermi a braccia aperte? Era impossibile. Ero io stessa la prima a considerarmi un’estranea in una casa in cui nessuno aveva richiesto la mia presenza. Nessuno a Villa Hutton aveva bisogno di me, forse nemmeno mio marito. Forse anche lui stava solamente cercando un surrogato dell’adorata Patricia, e a quel pensiero mi parve che il mio cuore si stesse lacerando.

-Non preoccupatevi, Kathleen, anzi. Scusatemi voi. Pensavo che sapeste-, mormorò a bassa voce, voltandosi a guardare suo marito alla ricerca di conforto.

Julian le fu immediatamente accanto e l’abbracciò teneramente, lasciando che la moglie appoggiasse la testa nell’incavo della sua spalla. Era una visione talmente tenera che mi si strinse il cuore. L’amore che provavano l’uno per l’altra era qualcosa di evidente, di quasi tangibile, entrambi rappresentavano per il proprio compagno un sostegno, un rifugio, qualcuno su cui poter sempre contare nei momenti belli come in quelli brutti, con assoluta fiducia e con la sicurezza di essere sempre accolti e compresi. Questo era il rapporto che avrei voluto avere io con mio marito, ed istintivamente mi girai a guardare Oliver, quasi implorandolo di darmi un segno del suo amore per me. Se solo lui mi fosse venuto vicino e mi avesse stretto a sé come aveva appena fatto Julian con sua moglie, dicendomi, senza bisogno di parole, che non dovevo avere paura di nulla, che tutto andava bene e che lui era accanto a me per proteggermi, forse quell’ansia insopportabile che mi tormentava mi avrebbe lasciata in pace e sarebbe svanita finalmente nel nulla. Ma mio marito non fece niente di tutto questo. Rimase immobile nella sua posizione, come se anche lui non sapesse bene che cosa fare, e si limitò a rivolgermi un sorriso vagamente rassicurante, che mi parve assai più una beffa che un conforto. Mi sentii piena di delusione. Non mi amava, mi dissi nuovamente. Mi voleva bene, mi apprezzava, forse la mia presenza in Normandia l’aveva fatto sentire meglio, per questo mi aveva sposata. Ma ora non eravamo più in Normandia, eravamo a casa sua, a Villa Hutton, nel luogo in cui ogni cosa ed ogni persona gli rammentava sua moglie, e forse lì la mia presenza era più un ingombro spiacevole che una fonte di benessere e serenità.

Deglutii profondamente e raccolsi tutto il mio coraggio prima di parlare nuovamente con Amy. Volevo farle lo stesso discorso che avevo fatto alla signora Martin ed assicurarle che non era mia intenzione prendere il posto di sua sorella, ma solo vivere felicemente insieme a mio marito, e che speravo che io e lei, col tempo, saremmo potute diventare buone amiche.

-Sentite, signora Ross, io..-, esordii timidamente, ma mi fermai quando vidi che, proprio dietro di me, era apparsa la signora Martin affiancata da un uomo che io non conoscevo. Era un bell’uomo, alto, dalla corporatura snella e scattante, con i capelli castani spettinati e gli occhi scuri dall’espressione gioviale. La governante parve intuire che era accaduto qualcosa di spiacevole, ed il suo sguardo interrogativo passò dal mio viso pallido e sconvolto, all’espressione contrita di mio marito, per poi fermarsi sugli occhi lucidi di lacrime della signora Ross.

-E’ accaduto qualcosa, Amy cara?-, domandò dolcemente, rivolgendomi un’occhiata carica di rimprovero, come se io fossi stata in qualche modo la responsabile del malessere di Amy.

-Desiderate qualcosa, signora Martin?-, chiese Oliver in tono secco, stroncando sul nascere la risposta della cognata.

Il viso della vecchia divenne scarlatto, ma immediatamente si ricompose ed assunse nuovamente quella sua aria impassibile ed austera. –E’ arrivato il signor Becker, signore-, disse in tono compunto, introducendo il nuovo arrivato, che intanto stava osservando la scena senza probabilmente capirci nulla.

E così era lui Tom Becker, il socio in affari di mio marito di cui aveva prima parlato Julian. Vidi Oliver celare il disagio per quanto era accaduto poco prima dietro un affabile sorriso e salutare l’amico con un abbraccio e una pacca sulla spalla, mentre la signora Martin si congedava, non prima di avermi ancora una volta fulminata con lo sguardo.

-Bentornato, Oliver, amico mio! Sono rimasto di stucco quando ho ricevuto la tua lettera. Dimmi, dov’è la tua bella sposa?-, chiese allegramente Tom. Aveva un sorriso molto dolce e contagioso, che non potei evitare di ricambiare quando Oliver me lo portò davanti, e mi presentò come sua moglie Kathleen.

Lessi una profonda e del tutto inaspettata ammirazione nello sguardo di Tom Becker e ne fui intimamente compiaciuta e sollevata, perché non erano state tante le persone che fino a quel momento mi avevano accolto senza un’occhiata sprezzante e carica di disprezzo. Il suo sguardo mi percorse da capo a piedi, ma senza alcuna aria da scrutatore, e c’era qualcosa in quello sguardo che mi fece quasi venire i brividi…lo stesso effetto che mi aveva fatto la prima occhiata di Carlos.

-Piacere di conoscervi, signor Becker-, dissi, sorridendogli e porgendogli la mano.

Con mia grande sorpresa, anziché stringermela, Tom mi prese la mano e se la portò alle labbra, baciandola con dolcezza. I suoi occhi brillavano ed io mi sentii arrossire improvvisamente. –Il piacere è mio, signora Hutton-, rispose. Poi si voltò verso Oliver e gli diede un’affettuosa pacca sulla spalla. –Congratulazioni, amico mio. È davvero un fiore di ragazza!-,esclamò. Ero contenta che almeno il signor Becker mi apprezzasse. Finalmente c’era qualcuno in quella casa con cui forse sarei riuscita a stringere un legame di amicizia. Era davvero un sollievo per me, dato che avevo ormai cominciato a pensare che nessuno a Villa Hutton sarebbe stato disposto ad accettarmi e che tutti, dai servitori agli amici e parenti di mio marito, mi avrebbero vista solamente come un’orrida usurpatrice del posto dell’amata ed indimenticabile Patricia. Non riuscivo proprio a fare a meno di pensare a lei, non l’avevo mai conosciuta ma si era insinuata nella mia mente come una vera e propria ossessione.

Amy tossicchiò, come per far notare la sua presenza. Tom si accorse di lei solo in quel momento e il suo volto divenne violaceo. Effettivamente era stato piuttosto indelicato da parte sua rivolgermi un apprezzamento così esplicito davanti alla sorella della defunta prima moglie. Al diavolo, ero veramente stupida! Riuscivo a sentirmi in colpa anche per il semplice fatto di aver ricevuto un complimento, come se non fosse stato giusto! In fondo quelle persone erano lì per conoscere me, la nuova signora Hutton, e non per una commemorazione funebre di Patricia. Se Amy non si sentiva ancora pronta a fronteggiare il fatto che suo cognato avesse deciso di rifarsi una vita, forse avrebbe dovuto aspettare prima di venire a conoscermi.

-Oh, Amy, Julian, ci siete anche voi. Non vi aspettavo di trovarvi qui-, disse Tom cercando di ridarsi un contegno. Baciò la mano della signora Ross come prima aveva fatto con me ed abbracciò amichevolmente suo marito.

-Eravamo curiosi di conoscere la sposa-, rispose Amy in tono vagamente sarcastico.

-Beh, devo ammettere che anch’io lo ero. La notizia mi ha lasciato alquanto di stucco-, ribatté Tom, interrompendosi poi di botto per non rischiare di fare qualche osservazione che avrebbe potuto ferire i sentimenti di Amy.

-Desiderate del the, signor Becker? Posso chiamare la signora Martin-, domandai in tono affabile, desiderosa di mostrare a Tom che non ero solo un fiore di ragazza, come mi aveva definito lui, ma anche un’abile padrona di casa, insomma, la moglie perfetta per il suo amico e socio. Volevo ottenere la sua approvazione con tutte le mie forze, volevo assolutamente compiacerlo.

Il signor Becker mi rispose con un brillante sorriso e scosse la testa. Dovevo riconoscere che era davvero un bell’uomo, forse anche più bello di mio marito, e quando sorrideva era davvero affascinante. Era un fascino diverso da quello di Oliver e anche da quello di Carlos. Tom aveva uno sguardo aperto, franco, sorridente, lo sguardo limpido e sereno di una persona tutto sommato soddisfatta di sé e della propria esistenza. Oliver era più malinconico, più sofferente, aveva un’espressione più profonda e grave, ma forse era anche dovuto alla dolorosa esperienza che aveva affrontato, un’esperienza che avrebbe segnato sicuramente chiunque. Carlos invece aveva il fascino del mistero, aveva quello sguardo ombroso e sfuggente, da bel tenebroso, che non mancava mai di fare colpo. Mi sorpresi per quelle osservazioni, degne di una ragazzina adolescente…ero una donna sposata ormai, dovevo provare interesse solo per mio marito e non degnare di uno sguardo gli altri uomini.

-No, grazie, signora Hutton. Ho preso il the prima di venire qua-, mi rispose intanto Tom.

-Capisco. Desiderate allora fermarvi a pranzo?-, insistetti.

Egli si scambiò una rapida occhiata con Oliver, ed anche mio marito lo invitò a restare. Come me, doveva aver compreso anche lui che l’arrivo di Tom aveva un po’ alleggerito l’atmosfera di tensione che si era creata dopo la sua rivelazione su Amy, e voleva prolungare il più possibile la sua presenza rassicurante. Il signor Becker allora sorrise e disse che accettava volentieri l’invito.

-Rimanete anche voi, vero signora Ross?-, domandai speranzosa rivolta ad Amy, con uno sguardo che conteneva una muta supplica.

Ella mi parve combattuta. –Non saprei…i bambini sono soli con la governante-,  disse titubante, cercando appoggio da suo marito. Era la prima volta in tutta la giornata che nominava i suoi figli…i nipotini di Patricia, pensai immediatamente, odiando di nuovo me stessa. Chissà quanti ne aveva e quanti anni avevano…chissà se assomigliavano alla zia, e se sapevano che lo zio si era nuovamente sposato…chissà se Patricia aveva desiderato avere dei figli e se lei ed Oliver avevano fatto dei tentativi. Da parte mia, sognavo fin da piccola di avere almeno tre bambini, ma non mi sembrava certo la situazione migliore per parlare del mio desiderio. Con infinita pena, mi domandai se mio marito avrebbe mai desiderato avere un figlio da me.

-Andiamo, cara, possiamo benissimo rimanere. Thomas e Melanie sono in ottime mani, dovresti imparare a stare più tranquilla-, la rassicurò suo marito, e capii che Julian intendeva convincerla ad accettare il mio invito. Nulla tra noi era stato chiarito, a causa dell’arrivo di Tom, e qualora se ne fossero andati i nostri rapporti sarebbero stati più tesi che mai.

Amy sospirò. –D’accordo. Allora accettiamo volentieri l’invito, Kathleen-, rispose, senza però mostrare il minimo segno di disgelo nei miei confronti.

-Bene. Vado a dare disposizioni in cucina-, dissi, e mi allontanai in direzione della casa. Quando attraversai il portone provai quasi un senso di sollievo, non riuscivo più a sostenere la tensione che si respirava in giardino, stavo recitando una parte indossando una maschera quando dentro invece avrei desiderato solamente correre in camera mia e sfogare in un bel pianto tutte le emozioni di quella lunghissima, interminabile mattinata. Ma non potevo farlo, come padrona di casa avevo dei doveri ed era mio compito portarli a termine fino in fondo. Chiamai a raccolta tutte le mie forze residue ed entrai in cucina sperando di non imbattermi nella signora Martin. Non avrei retto di trovarmi faccia a faccia con quella donna.

Per mia fortuna, non c’era traccia della vecchia in cucina. C’era solamente Carlos, seduto ad un vecchio tavolo con in mano un bicchiere di vino rosso. Non si sforzò nemmeno di nascondere che stava bevendo quando io feci il mio ingresso nella stanza, limitandosi a fissare su di me i suoi grandi occhi neri come la pece. Dato che non parlava, immaginai che quello sguardo fosse il suo modo di chiedermi che cosa desideravo.

-Il signor Becker ed i signori Ross si trattengono a pranzo con noi-, gli riferii con un fare altezzoso per il quale mi detestai. Volevo assolutamente mantenere le distanze con quell’uomo misterioso che suscitava in me delle emozioni del tutto indecifrabili.

Il cameriere annuì col capo, poi si alzò e prese dalla credenza un altro bicchiere. Lo riempì di vino rosso e me lo porse, con uno strano luccichio negli occhi. Scossi la testa in segno di diniego, ma egli continuò ad insistere. C’era una strana determinazione nel suo sguardo, per lui sembrava davvero importante che bevessi quel bicchiere che mi aveva offerto, anche se non comprendevo il motivo. Alla fine presi il bicchiere, lo portai alle labbra e bevvi tutto il vino rosso in un’unica sorsata. Era veramente ottimo. Ringraziai Carlos con un sorriso, e anch’egli mi sorrise. Aveva un sorriso conturbante, che cercava di comunicare qualcosa ma allo stesso tempo ne celava il significato. Avvertivo che c’era un mistero dietro quell’uomo, un mistero che mi turbava e mi attraeva allo stesso tempo.

Uscii dalla cucina sentendomi ancora lo sguardo di Carlos puntato addosso ed un profondo turbamento si era impadronito della mia anima. Stavo ancora pensando a lui quando arrivai in giardino. Sentii che Oliver e gli altri stavano parlando sottovoce, e ad un certo punto Amy fece il mio nome.

Aguzzai le orecchie, cercando di capire di cosa stessero parlando.

-Ma, a me non sembra neanche più di tanto-, disse Tom Becker, presumibilmente in risposta a quel che aveva detto Amy poco prima e che io non ero riuscita a sentire.

-Nemmeno a me-, affermò perentorio mio marito.

-Io invece credo che tu l’abbia sposata anche per questo, Oliver. Non puoi aver già dimenticato Patricia. Hai forse scordato quanto vi amavate? Quella ragazza non può aver preso il suo posto nel tuo cuore!-, ribatté la signora Ross, con un tono accorato che penetrò dritto nel mio cuore come una lama arroventata.

-Non ho affatto scordato Patricia, Amy, e non la scorderò mai-, affermò seccamente Oliver. Proprio le parole che avevo sperato di non sentirgli mai dire…per un attimo mi sembrò di spezzarmi per il dispiacere, poi mi dissi cercando di essere razionale che non potevo pretendere che Oliver dimenticasse una donna che aveva amato così tanto e per tanto tempo. Patricia avrebbe sempre occupato uno spazio del mio cuore, dovevo imparare a convivere con questa idea, anche se non sarebbe stato facile. –Solo ho pensato che fosse giusto tentare di rifarmi una vita, o sarei impazzito. Quando Patricia è morta, pensavo che sarei morto anch’io invece…invece malgrado tutto continuavo a vivere, a respirare, a mangiare. Esistevo ancora. Ho semplicemente creduto che Kathleen fosse la persona giusta per tentare di rifarmi una vita, tutto qua-, proseguì mio marito, con una determinazione nella voce che da un lato mi fece piacere, ma dall’altro mi turbò non poco.

Udii Amy sospirare profondamente. –Non credo che sia la persona giusta. E poi…ripeto che secondo me non potrà aiutarti a dimenticare Patricia, anzi, te la ricorderà sempre di più ogni giorno che passa-, disse.

-Basta, Amy, è un discorso inutile. Sono d’accordo con Tom e tutto quello che hai detto è solo frutto della tua immaginazione. Non è per questo che ho sposato Kathleen. E ti prego di essere più gentile che potrai con lei in futuro. Dopotutto è mia moglie-, tagliò corto Oliver.

Con passi tremanti, uscii dal cespuglio dietro il quale mi ero nascosta e mi avvicinai a loro, sperando che non si fossero accorti che stavo spiando non vista la loro conversazione. Mi incollai un sorriso di convenienza sul viso e dissi, col tono più cortese che mi riuscì, che avevo informato la cucina della loro presenza a pranzo. Le gambe mi tremavano troppo perché riuscissi a reggermi in piedi a lungo, così proposi di rientrare ed andare a sederci in salotto. Tutti accettarono di buon grado, e Tom si avvicinò a me cominciando a chiacchierare del più e del meno. Mentre rispondevo il più gentilmente possibile, sforzandomi di apparire affabile e simpatica, la mia mente vagava altrove, ponendosi una serie di domande, una più inquietante dell’altra. Cosa aveva affermato Amy prima del mio arrivo, e perché sia Tom che Oliver avevano negato con tanta convinzione? Perché lei aveva affermato che la mia presenza a Villa Hutton avrebbe ricordato Patricia a mio marito sempre di più ogni giorno che passava? Non riuscivo proprio a comprendere. E soprattutto…la domanda più terribile di tutte…perché mio marito mi aveva sposata?

 

Fine terzo capitolo

 

Probabilmente non riuscirò più ad aggiornare questa fanfic prima della mia partenza, dal momento che sabato parto. Starò a Creta fino al 7 agosto, quindi do appuntamento a tutti voi al mio ritorno. Un bacione e grazie a tutti quelli che hanno commentato la mia storia! Mi raccomando, fatemi sapere le vostre opinioni anche su questo capitolo!

 

Ps: ringrazio Scandros per avermi dato un validissimo suggerimento!

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO QUARTO

 

Per fortuna, quella interminabile giornata volse finalmente al termine. Forse stavo peccando di maleducazione, ma provai un enorme sollievo quando Amy Ross e suo marito Julian ci salutarono e si allontanarono da Villa Hutton a bordo della loro automobile. La signora Ross mi strinse la mano con estrema freddezza, rivolgendomi un’occhiata gelida che annullava completamente ogni mia residua speranza di riuscire, un giorno, a stringere con lei un legame amichevole. Ora che sapevo che era la sorella di Patricia, riuscivo a comprendere il motivo della sua ostilità, ma ne ero comunque ferita. Non era colpa mia se Patricia era morta. Non ero stata io a voler prendere il suo posto, eppure toccava a me pagare le conseguenze della scelta di Oliver di risposarsi. Per un attimo provai una sorta di indefinito rancore nei confronti di mio marito, e mi tornarono alla mente le profetiche parole di zia Audrey, quando lui le aveva annunciato le nostre prossime nozze. Mi sfiorò il pensiero che stessi cominciando a pentirmi del mio matrimonio, e lo allontanai immediatamente, con fastidio. Mi dissi nuovamente che si trattava solamente di pazientare per qualche tempo, e poi tutto sarebbe andato a meraviglia. Le persone che mi stavano intorno dovevano solo abituarsi alla mia presenza, tutto qui. Mio marito in primis.

Anche Tom Becker lasciò Villa Hutton insieme ai signori Ross, e fu l’unico a salutarmi con sincero ed autentico calore. Mi piaceva quell’uomo così sensibile ed educato. Sentivo che provava per me rispetto e benevolenza, e questo mi era di notevole conforto. Ero contenta di aver trovato una persona che mi appoggiasse in mezzo a questa ostilità. Soprattutto dopo che avevo sentito venir meno il sostegno di Oliver. Mentre salutavo Amy, avevo guardato di sottecchi mio marito, ed egli aveva distolto immediatamente lo sguardo quando aveva sentito i miei occhi fissi su di lui. Aveva continuato a conversare con Julian facendo finta di nulla, e anche dopo che i Ross se n’erano andati aveva continuato a comportarsi come se niente fosse successo. Non disse una parola sugli eventi di quella giornata, anzi, non disse proprio nulla. Andò a rinchiudersi nel suo studio senza nemmeno salutarmi e ordinò che la cena gli fosse servita là. Sentivo che mi stava evitando, e con una stretta al cuore mi chiesi se ciò dipendesse dalla conversazione che avevo udito di nascosto, tornando dalla cucina. Di che cosa stava parlando Amy? Quel dubbio continuava a tormentarmi incessantemente, non avevo pensato ad altro per tutto il giorno. Per un attimo fui tentata di bussare alla porta dello studio e di chiederlo direttamente a mio marito, in modo da mettere definitivamente a tacere quell’interrogativo tanto assillante, ma mi mancò il coraggio.

Mi sedetti sul divano del salotto e rimasi lì da sola e in silenzio per lungo tempo. Cominciava a fare buio, ma non avvertii l’esigenza di accendere la luce. Mi sentivo sola e spaventata e mi veniva quasi da piangere, ma non so perché le lacrime non riuscivano a sgorgare dai miei occhi. Quei primi giorni a Villa Hutton erano stati veramente terribili per me…sapevo dall’inizio che sarebbe stata duro, ma non immaginavo quanto. Una strana ansia mi lacerava l’anima, come una premonizione sinistra. Era come se qualcosa di terribile incombesse sul mio matrimonio…cercai di allontanare quella sensazione da me, dicendomi che era solo frutto della mia immaginazione.

La luce del salotto si accese improvvisamente, facendomi sobbalzare. Mi alzai in piedi di scatto, e quando mi voltai mi trovai di fronte la signora Martin, pallida ed imperturbabile nel suo consueto abbigliamento scuro, con una strana luce nei gelidi occhi neri.

-Scusatemi signora…non volevo spaventarmi-, mi disse con voce atona, scrutando attentamente il mio viso, mentre io cercavo affannosamente di ricompormi.

Scossi la testa, sforzandomi in tutti i modi di mostrarmi tranquilla. –Non preoccupatevi…ero immersa nei miei pensieri…desiderate qualcosa, signora?-, chiesi precipitosamente, pentendomi subito dopo per essermi rivolta alla mia governante con tanta servile deferenza.

Mi parve che un ghigno sarcastico deformasse per un istante il volto spettrale della signora Martin, ma forse fu solo un’impressione, perché un istante dopo quella donna aveva riassunto la sua consueta aria impassibile e distante. –Volevo solamente chiedervi se devo portarvi in tavola la cena, signora. Suo marito ha chiesto che gli fosse portata nel suo studio e volevo sapere quali erano le vostre intenzioni-.

L’idea di cenare da sola sotto gli occhi della signora Martin mi fece precipitare in uno stato di completo terrore, e sentii immediatamente il mio stomaco chiudersi. Feci cenno di no con il capo. –Vi ringrazio, signora Martin, ma non ho fame. Non desidero cenare questa sera. Ho un po’ di mal di testa e penso che me ne andrò subito a letto-, risposi.

-Capisco. Buonanotte allora-, disse la vecchia con un tono supremamente indifferente, e dopo aver accennato un inchino nella mia direzione se ne andò, spegnendo nuovamente la luce.

Tornai a sedermi sul divano. Mi odiavo per non riuscire a comportarmi con la signora Martin nel modo che si confaceva ad una padrona di casa, per non riuscire a mostrarmi autoritaria verso di lei, ma quella donna mi incuteva soggezione. Davanti a lei mi sentivo come una scolaretta disubbidiente al cospetto della direttrice del collegio e provavo quasi l’irrefrenabile impulso di sottomettermi. Era assurdo, ed ero certa che Patricia non si era mai comportata con tanta servile deferenza nei confronti né della signora Martin né di qualsiasi altro membro della servitù, ma non riuscivo a fare altrimenti. Del resto, mi dissi con una punta di amarezza, fino a poco tempo prima non c’era molta differenza tra me ed una qualsiasi domestica. Dovevo portare rispetto ed obbedienza alla zia Audrey proprio come ora le cameriere di Villa Hutton dovevano portare a me, ed ora che il mio ruolo si era capovolto mi rendevo conto di non essere proprio portata ad occupare posizioni di comando. Mia zia aveva ragione. Il mondo in cui viveva Oliver era molto diverso da quello cui ero abituata io, ed ambientarmi era più faticoso del previsto.

Stanca di affliggermi con questi foschi pensieri, decisi di ritirarmi nella mia stanza. Mi spogliai, indossai la camicia da notte e mi infilai sotto le coperte, sperando che il sonno giungesse presto a regalarmi il sollievo cui tanto anelavo dopo quella giornata così tremenda. Ma il sonno tardava ad arrivare e i pensieri invece continuavano a vagare per la mia testa come una girandola impazzita. D’improvviso mi chiesi se quella notte mio marito sarebbe tornato nuovamente nella mia stanza. Con angoscia, mi resi conto che non avevo alcuna intenzione di rivivere la terribile esperienza della mia prima notte di nozze. Era stato così umiliante…mi ero sentita così sporca, come se fossi stata una prostituta e Oliver mi avesse sfruttata per soddisfare i suoi bassi piaceri, senza trovare nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia. Mi aveva trattata come un oggetto, senza la minima considerazione per i miei sentimenti, e questo mi aveva ferita moltissimo. Se fosse tornato nella mia stanza e si fosse di nuovo comportato in quel modo, l’avrei respinto, mi proposi battagliera, decisa a difendere la mia dignità a tutti i costi.

Ma non ebbi alcun bisogno di opporre resistenza a nessuno, perché quella notte mio marito non apparve per nulla nella mia camera. Era ormai notte fonda, ed io ancora non riuscivo ad addormentarmi, quando sentii dei rumori provenire dalla camera a fianco, e realizzai che molto probabilmente Oliver stava andando a dormire proprio in quel momento. Il mio corpo si irrigidì istintivamente, temendo che da un momento all’altro la porta che metteva in comunicazione le nostre due stanze si aprisse e mio marito facesse il suo ingresso in camera, con la stessa espressione fredda e distaccata della notte precedente. Ma la porta non si aprì e presto i rumori nella stanza affianco si spensero. Tirai un sospiro di sollievo, e finalmente cominciai a scivolare nel sonno, abbandonandomi con piacere e voluttà tra le braccia di Morfeo.

 

La mattina dopo, a colazione, Oliver mi disse che era giunto secondo lui il momento che cominciassi a fare qualche visita di cortesia ai nostri vicini più prossimi. Mi irrigidii all’istante, tremando quasi con orrore all’idea di essere sbandierata in tutti i salotti della zona, di essere squadrata da capo a piedi da nobili annoiati che finalmente trovavano qualcosa che spezzasse la loro squallida monotonia, di essere praticamente sezionata e confrontata in tutti i particolari con la defunta Patricia, ed inseguita dagli echi dei commenti che senz’altro avrebbero fatto su di me non appena mi fossi chiusa alle spalle la porta della loro abitazione. Avevo sempre detestato le visite di cortesia, fin da quando andavo a restituirle insieme a zia Audrey, e in quella particolare situazione mi sembravano ancora più insostenibili.

-E’ proprio necessario?-, domandai in tono supplichevole, mentre mio marito continuava a spalmare la marmellata sulla sua fetta biscottata senza nemmeno guardarmi, come se ciò che aveva appena detto fosse stata un’ovvietà.

Oliver alzò per un istante la testa e mi rivolse un’occhiata colma di meraviglia. –Certo che è necessario. In zona sono tutti ansiosi di conoscere la nuova signora Hutton, ma troppo educati per presentarsi alla nostra porta-, mi spiegò con tono piatto, prima di mettere in bocca la sua fetta biscottata e versarsi una tazza di the.

Sembrava tranquillissimo, mentre io dentro ero completamente in subbuglio.

-Sì, capisco, ma…non è un po’ troppo presto?-, cercai di insistere. Se proprio non potevo evitare quella terribile incombenza, speravo almeno di riuscire a rimandarla il più possibile. Chissà, forse col passare del tempo avrei cominciato a sentirmi preparata psicologicamente, e quella prospettiva non mi sarebbe più apparsa come un terrificante incubo.

 -Presto? A me non sembra-, rispose Oliver in tono distaccato, sorseggiando il suo the con l’espressione più imperturbabile di questo mondo.

Sospirai, inghiottendo svogliatamente una fetta biscottata ricoperta di marmellata alle ciliegie. A quanto pareva, non c’era proprio modo di scampare a quella terribile prova. –D’accordo, allora. Quando cominceremo?-, dissi con voce piatta, ormai completamente rassegnata.

Mio marito prese il quotidiano e lo aprì. –Oggi stesso, mia cara. Nel pomeriggio, subito dopo pranzo, faremo almeno due o tre visite-, rispose, cominciando a sfogliare il giornale che reggeva in grembo.

Mi morsi le labbra per non esprimere tutta la mia disapprovazione. Oliver non mi aveva dato neanche la possibilità di discutere a proposito di queste visite. Aveva deciso che si sarebbero fatte e mi aveva messo di fronte al fatto compiuto. Questo suo comportamento mi irritava molto, ma era chiaro che sfortunatamente non potevo farci nulla, e quindi mi conveniva far buon viso a cattivo gioco.

Per tutto il resto della mattinata, mio marito si rinchiuse nel suo studio per gestire i suoi affari. Non uscì fuori neanche una volta fino all’ora di pranzo, e tantomeno mi domandò come avevo intenzione di trascorrere la giornata. Mi sentii trascurata e profondamente delusa, ma cercai di risollevarmi e di organizzare la mattinata in modo da non sentire la sua mancanza. In fondo, mi dissi, cercando di lenire la mia amarezza, Oliver era un uomo molto importante ed impegnato, ed era naturale che non potesse dedicarmi tutto il suo tempo. Quante volte, in fondo, avevo visto lo zio Peter rinchiudersi nel suo studio a lavorare, mentre zia Audrey si occupava dei suoi ricevimenti e dei suoi enti di beneficenza? Sicuramente Oliver si comportava così anche quando era sposato con Patricia, quindi non dovevo meravigliarmi o tantomeno offendermi, il mio compito era solamente quello di disporre al meglio del mio tempo libero e trascorrere momenti sereni nella mia nuova casa.

Non ero mai stata né sola né oziosa durante tutta la mia vita, quindi all’inizio mi sentii smarrita. Salii nella mia stanza e passai in rassegna tutto il mio guardaroba, chiedendomi che cosa avrei dovuto indossare per le visite di cortesia. Mi resi tristemente conto che non possedevo nulla all’altezza. Nessuno dei miei vestiti somigliava anche solo lontanamente ai meravigliosi abiti che sfoggiava zia Audrey quando riceveva in casa o andava a fare visita ai loro ricchi conoscenti. Non avevo mai tenuto in gran conto ciò che indossavo, e quindi non mi era neanche passato per la mente di domandare a mio marito di acquistarmi dei nuovi vestiti, ma ora mi rendevo conto che il mio attuale guardaroba non era all’altezza della mia nuova posizione di moglie di Oliver Hutton. Purtroppo per quel pomeriggio era troppo tardi. Sospirai, pensando che stare lì a rimirare i miei vestiti non serviva a nulla, se non a deprimermi ancora di più. Anche restando lì ferma per tutto il giorno, non sarei riuscita a far diventare magicamente le mie modeste cose degli abiti di gran classe, adatti alla signora che probabilmente i vicini di casa si aspettavano di incontrare.

Richiusi mestamente le ante dell’armadio e a capo chino uscii dalla mia stanza, decisa a recarmi in biblioteca. Avrei preso un buon libro da leggere e sarei andata a sedermi in giardino, cercando di sgombrare la mente dai cattivi pensieri che già mi stavano rovinando la giornata.

Forse accadde perché camminavo soprappensiero, ma d’un tratto mi accorsi di trovarmi in un corridoio che non avevo mai visto. Era un corridoio piuttosto grande, ma anche un po’ tetro. Il pavimento era di marmo e tutto era immerso nella semioscurità. Potevo però scorgere, anche se a fatica, dei grossi dipinti incorniciati d’oro appesi alle pareti, che erano probabilmente di un color rosa antico, e dei grandi vasi di porcellana poggiati su alcuni tavolini di legno massiccio, tutti desolatamente vuoti. Sembrava un corridoio disabitato. Vi si affacciavano molti usci, ma nessuno di questi era aperto.

Cominciai a provare una certa angoscia, senza riuscire a spiegarmene il motivo, e istintivamente affrettai il passo, sperando di giungere il prima possibile al termine di quel corridoio. Ma sembrava che fossi finita in un labirinto, perché le porte continuavano a ripetersi sempre uguali sui entrambi i lati, senza che io riuscissi a scorgere un’uscita. Ero in preda al panico ormai, il cuore cominciava a martellarmi violentemente nel petto, e quando sollevai una mano per ravviarmi i capelli mi accorsi che era scossa da un violento tremito.

Stavo quasi per scoppiare in lacrime, quando vidi la luce filtrare da una porta spalancata sul lato destro del corridoio. Rassicurata, varcai la soglia senza pensarci due volte, e mi ritrovai in una stanza grande almeno il doppio della mia e lussuosamente arredata. Le pareti erano dipinte di un raffinato color pesca e adornate di parecchi dipinti. I mobili erano tutti in legno massiccio di colore scuro, ed erano davvero mobili di gran classe. Il letto era a baldacchino, sormontato da una grande tenda dello stesso colore delle pareti, e rosa era anche la trapunta che vi era poggiata sopra, impreziosita da splendidi ricami dorati. Accanto al letto vi era un piccolo comodino con sopra una splendida abat-jour di porcellana, appoggiata al comodino vi era una spazzola d’argento. Il mobilio della stanza era completato da un alto cassettone e da un armadio a quattro ante. Era una camera bellissima e raffinata, ed una strana sensazione si impadronì di me, rendendomi inspiegabilmente nervosa. Sentii un rumore provenire dall’esterno, e d’istinto mi avvicinai alla finestra e mi affacciai. Sotto di me, il mare agitato da alti cavalloni si manifestava in tutta la sua imponenza, le onde si frangevano rumorosamente sulle bianche scogliere e gli spruzzi salmastri arrivavano quasi fino a bagnarmi il viso.

Solo mare…da quella finestra non si vedeva nient’altro che il mare…

Con il respiro che cominciava a farsi affannoso, cominciai a guardarmi intorno, i miei occhi frugavano tutta la stanza cercando ansiosamente un indizio che potesse confermarmi quello che già sapevo. Poi vidi la spazzola d’argento poggiata sul comodino e la presi in mano. Vidi le due iniziali incise sul manico…P.H….Patricia Hutton

Quella era la stanza di Patricia…

 

Mi sedetti sul letto, cercando di riprendermi dalla sorpresa, mentre mi domandavo come avessi fatto a finire proprio nella stanza di Patricia. Dunque, questa era la famosa Ala occidentale di Villa Hutton, di cui mi aveva parlato la signora Martin il giorno che ero arrivata. E questa era la tanto decantata stanza di Patricia, la camera più bella di tutta la casa…beh, dovevo ammettere con un pizzico di amarezza che quella donna aveva perfettamente ragione. Quella stanza era a dir poco meravigliosa e la mia, che tanto avevo ammirato quando l’avevo veduta per la prima volta, in confronto sembrava davvero insignificante.

Ero ancora profondamente immersa nei miei pensieri, con la spazzola saldamente in mano, quando improvvisamente udii il rumore di una porta che si chiudeva di scatto. Sobbalzai e istintivamente mi sollevai in piedi, arrossendo come una bambina colta in fallo. La spazzola mi scivolò giù dalle mani e cadde a terra con un tonfo sordo, mentre io mi voltavo con il cuore che mi batteva furiosamente e mi ritrovavo davanti il viso pallido e spettrale della signora Martin, che mi fissava con uno strano luccichio di esultanza nei gelidi occhi neri.

-Si…signora Martin-, balbettai, provando l’improvvisa ed inspiegabile urgenza di giustificarmi, di giustificare la mia presenza in quel luogo nel quale sentivo di non avere il diritto di essere. –Scusatemi io…credo di essermi persa-. Cercai di abbozzare un sorriso, ma tutto quello che mi uscì fu una smorfia nervosa e spaventata. Mi vergognavo da morire e desideravo ardentemente che la terra si spalancasse ai miei piedi, proprio in quell’istante, e mi inghiottisse, così non avrei dovuto sostenere lo sguardo per me terrificante della vecchia governante.

-Non dovete scusarvi, signora. Voi siete la padrona qui dentro, e avete il diritto di girare come e quando vi pare. Anzi, se volevate visitare questa stanza, non avevate che da chiedermelo ed io ve l’avrei mostrata-, mi disse, con il suo solito tono di voce piatto e indifferente, che però mi parve al momento velato come di una sfumatura di sarcasmo.

-Oh…beh sì certo…magari un’altra volta mi farete visitare tutta l’ala occidentale, signora Martin, ma ora debbo proprio andare… mio marito mi sta aspettando-, mentii, avvertendo l’improvviso ed ineluttabile desiderio di andarmene il prima possibile da quella stanza. Via, lontano, lontano soprattutto dalla signora Martin.

Ma ella si piazzò proprio davanti alla porta, fissandomi con uno sguardo che mi fece venire i brividi. Sforzandomi di mantenere saldo il mio autocontrollo, tentai di scansarla, ma la signora Martin mi afferrò un braccio, con una luce malvagia negli occhi. Sentii un brivido scorrermi lungo la schiena, e compresi che non sarei uscita da quella stanza finché ella non lo avesse deciso.

-Non mentite, signora Hutton…so bene che vostro marito è nel suo studio a lavorare e non vi sta affatto aspettando. Non siate puerile-, mi disse con voce roca ed alterata, sospingendomi verso il grande letto che troneggiava al centro della camera. –So bene che volevate curiosare in questa stanza, che avete desiderato vederla fin dal primo giorno che siete arrivata alla Villa. Allora perché adesso volete andarvene così? Già che siete qua, vi mostrerò tutto, cara signora-.

La sua mano bianca ed ossuta accarezzò lievemente la trapunta dai ricami dorati, ed i suoi occhi si inumidirono. Un’espressione di struggente nostalgia si dipinse sul suo volto, che mi parve vecchio e stanco come non mai, e in quell’istante provai una pena profonda per lei. –Ho lasciato tutto come l’ultimo giorno che ella ha vissuto qui, sapete? Tutto. Questa coperta era la sua preferita. Quando si insudicia, io stessa provvedo a lavarla e rimetterla al suo posto. Era l’ultimo regalo che le aveva fatto sua madre prima di morire, e vi era affezionatissima-.

Avevo un groppo in gola e non riuscivo a rispondere. Continuavo a fissare la trapunta come ipnotizzata e ad ascoltare ciò che la signora Martin mi raccontava, con quel tono lento e soffuso di rabbiosa malinconia.

Sollevò il cuscino e prese tra le mani quella che riconobbi essere una camicia da notte di seta, di un color bianco candido. Sul colletto erano ricamate con un filo dorato le iniziali di Patricia…ancora quel P.H…

-Questa ella l’indossava l’ultima notte che trascorse qua, prima di…prima di scomparire. Toccatela, sentite quanto è ancora morbida e soffice-, proseguì, mettendomi con la forza la camicia da notte in mano e quasi costringendomi ad accarezzare lievemente la stoffa. –Non l’ho mai fatta lavare. Vi è ancora rimasto il suo profumo…quel suo profumo così delicato, così buono. Glielo aveva regalato suo marito anni prima, e da allora non volle usare nessun’altra marca di profumo, perché quella era la preferita del signor Oliver. Era qua sopra sul cuscino, quell’ultima notte…l’avevo preparata io per lei…ma lei non la indossò mai, povera la mia signora. Mai…-, la sua voce si ruppe in un singhiozzo ed una lacrima scese furtiva lungo la sua guancia rinsecchita. La signora Martin se l’asciugò immediatamente e sospirò profondamente. –Non me lo perdonerò mai…mai finché vivrò, di non essere stata alla Villa quella sera. Ero stata da Amy, la signora Ross, perché la sua bambina era malata ed aveva bisogno di aiuto. Era stata proprio la signora Patricia a chiedermelo, ma le avevo promesso che sarei rientrata prima di cena. Poi invece Amy mi chiese di trattenermi a cenare con loro e quando tornai mi dissero che la signora era uscita con la barca…nonostante quel brutto tempo…se ci fossi stata io, le avrei detto di non andare ed ella mi avrebbe ascoltato…mi ascoltava sempre la mia Patricia…sempre…-. La vecchia si sedette sul letto e si prese la testa tra le mani, devastata dalla commozione e dal dolore che quei ricordi facevano rinascere in lei a viva forza. Curva e tremante, sembrava così indifesa che ne ebbi una gran pietà. Mi sedetti al suo fianco e allungai una mano per accarezzarla, ma ella mi respinse bruscamente, e poi si alzò in piedi guardandomi con occhi di fuoco. Era lo stesso sguardo pieno di disprezzo che mi aveva rivolto quando avevo messo piede per la prima volta a Villa Hutton, ma in più potevo scorgervi anche una rabbia cieca ed inesprimibile. In quel momento ella mi stava odiando, pensai con certezza.

Tuttavia, bastò un’occhiata al letto sul quale io ero seduta per far scomparire ogni traccia di furia dal suo volto e farvi ricomparire la mestizia di qualche istante prima. Raccolse da terra la spazzola che io avevo lasciato cadere quando ella era entrata nella stanza, e la accarezzò come se fosse stata un tesoro prezioso. Io trattenevo il respiro, sperando che la signora Martin si decidesse finalmente a lasciarmi andare via da quella stanza, la cui atmosfera stava diventando per me sempre più irrespirabile.

-Sapete…-, riprese infatti a parlare, mentre il suo sguardo si faceva sempre più distante. –Sono stata io ad allevarla da bambina, e mi sono sempre presa cura di lei. Era una bambina così affettuosa…un po’ birbantella, sì, era un vero e proprio maschiaccio ed io la rimproveravo, le dicevo che doveva diventare più composta, più aggraziata, più femminile…come sua sorella Amy, che era stata sempre la più mansueta delle due. Ma Patricia non mi ascoltava. Oh, era così allegra, così piena di vita. Ed io la amavo come una figlia. Vedete…io persi mio marito durante la guerra…non era neanche un anno che eravamo sposati quando egli morì. Non avevamo avuto figli, e poco dopo di lui persi anche i miei genitori. Ero distrutta e non avevo più voglia di continuare a vivere, quando un’amica mi trovò lavoro come governante presso la famiglia Gatsby. La signora Gatsby aveva due bambine piccole ed era molto cagionevole di salute, aveva bisogno di qualcuno che l’aiutasse ad accudire le figlie. Quel lavoro mi salvò la vita…e la piccola Patricia divenne per me la figlia che non avevo mai avuto-, le lacrime ormai le rigavano senza alcun controllo il viso, ma il suo tono di voce, anche se dolente, era fermo e pacato. Teneva gli occhi fissi sulla spazzola, come si stesse rivolgendo più a se stessa che a me. Mi sentivo davvero triste. Era evidente che quella donna aveva amato moltissimo Patricia, quasi come fosse stata sua madre, e che per lei era impossibile riuscire ad accettare che un’altra donna prendesse il suo posto. La comprendevo sì…ma, anche se mi sentivo tremendamente egoista a formulare simili pensieri in quel frangente, davanti a quella povera donna distrutta dal dolore, non riuscivo a fare a meno di preoccuparmi per me stessa e per il mio futuro.

-Quando si sposò con il signor Oliver-, stava intanto proseguendo la signora Martin, -volle a tutti i costi che io la seguissi e che venissi a vivere a Villa Hutton insieme a lei. “Io non vado da nessuna parte senza di te, Marty cara”, mi diceva, con la sua consueta, dolcissima testardaggine, ed io fui ben contenta di seguirla perché per me era inconcepibile il pensiero di vivere senza di lei. Ve l’ho detto, era come una figlia per me. Provò tante cameriere, ma nessuna riusciva a soddisfarla. Diceva che stava bene solamente con me, che solo io riuscivo a capirla. Così rimasi sempre accanto a lei…sempre…finché ella morì…-. La vecchia prese ad accarezzare la spazzola con gesti lievi e dita tremanti. Calde lacrime cadevano sul manico che portava incise le iniziali di Patricia. –Quante volte le ho spazzolato i capelli con questa…infinite…aveva dei capelli così belli la mia Patricia, così neri e lucidi. Un anno prima di morire, ella se li tagliò. Disse che erano più comodi, che le pareva di essere tornata alla sua adolescenza. Il signor Oliver si dispiacque un po’, perché gli piacevano molto le lunghe chiome di sua moglie, ma sono sicura che anche a lui parve di ritrovare la Patricia ragazzina e spensierata di cui si era innamorato in gioventù. Qualche volta glieli spazzolava lui i capelli…e quando passavo davanti alla porta della stanza li sentivo che ridevano felici, e lui la prendeva scherzosamente in giro…-

Mi sembrò quasi di vedere nitidamente di fronte a me il quadretto che la signora Martin stava descrivendo, ad eccezione del viso di Patricia che rimaneva in ombra. Osservavo la grande specchiera posta su un lato del letto e vi vedevo riflesso Oliver che, seduto sul letto con in mano la grande spazzola d’argento, era intento a pettinare la lunga chioma corvina di sua moglie. Ella era seduta dinnanzi a lui, con indosso la camicia da notte bianca e una vestaglia dello stesso colore, e rideva, con una risata spensierata, allegra e argentina. Quell’immagine così carica di amore e di dolcezza mi provocò un’acuta fitta di gelosia che parve dilaniarmi il cuore. Cercai di distogliere lo sguardo dalla specchiera sperando che quella visione se ne andasse rapidamente com’era venuta, ma qualunque oggetto in quella camera recava inesorabilmente la traccia del passaggio di Patricia e mi faceva sentire un’intrusa, nient’altro che un’intrusa.

-Signora Martin-, dissi timidamente, sperando di trovare delle parole adatte alla situazione. Non volevo restarmene lì in silenzio come una spettatrice passiva, ma non sapevo nemmeno che cosa dire.

Ella mi guardò con espressione carica d’ira, i lineamenti del volto stravolti ed induriti dall’odio. C’era una tale furia repressa in quegli occhi che per un attimo ebbi paura di lei e temetti sinceramente che volesse farmi del male, che volesse punirmi per essere lì a Villa Hutton al posto di Patricia, per essere viva mentre la sua adorata era morta e non avrebbe più fatto ritorno a casa.

-Lo sapete, cara la mia signora Kathleen? Egli non è più stato lo stesso da quando ha perduto sua moglie. Prima era un uomo allegro, gioviale, sempre pronto a ridere e scherzare, e questa casa era sempre piena di ospiti. Ora è ridotto ad essere l’ombra di se stesso. Non ve ne siete accorta? Egli soffre, è inquieto. I primi tempi, dopo la disgrazia, lo sentivo ogni notte camminare su e giù per il corridoio come una belva in gabbia. Oh, mi sembrava quasi di leggere i suoi pensieri…egli sperava che lei tornasse, che aprisse la porta di casa e gli dicesse che non era affatto morta, che era stato tutto un brutto sogno…egli pregava per questo e si tormentava, perché l’aveva amata più della sua stessa vita, e tuttora la ama…egli non potrà mai dimenticarla, mai…-, sibilò rabbiosamente.

Se ella mi avesse pugnalata dritto al cuore, non sarebbe riuscita a farmi più male di così. Le sue parole penetravano dentro di me come mille lame acuminate e mi sembrava quasi di soffocare, di non riuscire più ad insufflare aria nei miei polmoni. La signora Martin, con indicibile freddezza, stava dando voce a tutti i miei timori più segreti e nascosti, a tutti i pensieri che mi tormentavano giorno e notte, da quando avevo messo piede a Villa Hutton e avevo cominciato a sentire mio marito sempre più assente e lontano da me.

Incapace di ribattere, rimasi immobile tormentandomi nervosamente con le dita l’orlo della mia gonna, sperando che ella smettesse di parlare e mi lasciasse scappare via, lontano da lei, dal suo astio nei miei confronti, dal fantasma di Patricia, e soprattutto dalla dolente certezza che ella, seppur morta, conservava ancora un posto nel cuore di mio marito…anzi, egli ancora le apparteneva, nonostante avesse sposato me.

-Deve aver sperato, quando ha conosciuto voi…deve essersi illuso che voi poteste prendere il suo posto. Povero sciocco, povero! Ha guardato solo la superficie, senza pensare che Patricia è unica ed inimitabile, e voi non potrete mai essere neanche la sua squallida brutta copia! Ma comincia già a rendersene conto, e per questo vi evita. L’illusione è già terminata, cara la mia Kathleen, e ora vedervi gli è divenuto insopportabile. Ha capito anche lui che il vostro bel visino non è sufficiente a reggere il peso di un matrimonio-, esclamò con livore, per poi esplodere in una risata malevola e gonfia di astio.

Impallidii, mentre la mia mente si domandava ansiosamente quale fosse il significato nascosto dietro le sue parole. Superficie? Visino? Di cosa stava parlando? Intuivo che si trattava senz’altro della ragione per cui Oliver mi aveva sposato, e che doveva esserci un collegamento con il discorso che mio marito aveva fatto la sera prima con Amy, Julian e Tom Becker. L’angoscia tornò nuovamente ad attanagliarmi, e per un istante pensai che forse sarebbe stato meglio non sapere, perché intuivo che conoscere la realtà avrebbe inflitto un ulteriore colpo al mio cuore già messo così a dura prova in quei primi giorni di matrimonio. Ma poi mi dissi che qualunque cosa, anche la peggiore del mondo, sarebbe stata da preferire alla completa incertezza. Dovevo avere una risposta a quella domanda che ormai per me era diventata un terribile assillo…perché Oliver mi aveva sposata? Dentro di me, ero certa che la signora Martin conoscesse la risposta…o perlomeno, una possibile risposta.

Ella dovette notare il mio sguardo dubbioso ed interrogativo, perché rise più forte e mi rivolse uno sguardo di eloquente compatimento. –Vedo che non mi capite. Eh, voi siete una ragazzina ingenua e romantica, e forse nella vostra giovanile inesperienza vi siete davvero illusa che Oliver vi amasse…che vi avesse sposata per amore, o quantomeno per attrazione. Povera, piccola illusa…egli non vi ama. Non vi ha mai amato e mai vi amerà, ve lo assicuro, perché una sola donna detiene il possesso del suo cuore, e quella donna non siete voi. È Patricia. Solamente lei, per l’eternità, viva o morta che sia. Egli in voi ha amato solamente il suo riflesso. Continuate a non capire? Povera cara, allora dovrò essere io a farvi vedere per quale motivo vostro marito ha scelto proprio voi come sua moglie, quando avrebbe potuto avere ai suoi piedi donne molto più affascinanti, ricche e adatte al suo ceto sociale. Aspettate un secondo-.

Si avvicinò al cassettone di legno massiccio ed aprì l’ultimo cassetto, dal quale estrasse qualcosa di grande e rettangolare, che intuì essere una cornice. Lo ripulì con delicatezza dalla polvere, e compresi che ciò che ella voleva mostrarmi era un ritratto. Il cuore prese a battermi più velocemente, poiché avevo capito che doveva trattarsi senz’altro di un ritratto di Patricia. Finalmente sarei riuscita a darle un volto, avrei dovuto essere contenta…perché invece quella dilagante inquietudine, quell’angoscia che mi faceva tremare le gambe e mi spingeva a desiderare di andarmene il più possibile lontano da lì?

-Il signor Oliver ha ordinato di toglierlo dal salone quando voi siete arrivata in questa casa, poiché non voleva turbarvi. Io invece penso che sia un vostro diritto vederlo. Questa è la signora Patricia-, mi spiegò la signora Martin.

Poi girò il ritratto affinché potessi vederlo, e quando trovai il coraggio di alzare lo sguardo, per poco non caddi a terra svenuta. Un grido di sgomento fuoriuscì spontaneamente dalle mie labbra e mi portai una mano alla bocca nel vano tentativo di trattenerlo. Continuavo a scrutare il ritratto pallida e tremante, sforzandomi al contempo di ignorare l’espressione soddisfatta e trionfante che la signora Martin mi stava in quel mentre rivolgendo.

L’unica differenza era l’espressione del viso, aperta, franca e spontanea, senza quella velatura di timidezza che mi aveva sempre fatta apparire più triste e smorta. Uno sguardo più allegro, più vivace, privo di quelle ombre che appesantivano i miei lineamenti. Ma, a parte questo particolare…i capelli, gli occhi, i lineamenti del volto…sembravano praticamente gli stessi. La donna del ritratto mi assomigliava come una goccia d’acqua…era come se mi trovassi davanti ad un’immagine che mi mostrava come sarei potuta essere io all’età di trent’anni. Sembrava un macabro scherzo, e per qualche istante mi illusi che davvero lo fosse, ma l’espressione della signora Martin non lasciava spazio ai dubbi. La donna del ritratto era Patricia. Ed io sembravo una sua versione più giovane, più timida…e sì, aveva ragione la governante, più sbiadita. Perché io non avevo nulla di quel brio, di quella vivacità, che rendeva il suo volto così accattivante. Io ero la sua squallida brutta copia, come mi aveva definito la signora Martin poco prima.

Ora cominciavo a capire…perché Oliver era rimasto colpito da me quando mi aveva vista per la prima volta. Perché, quando mi aveva chiesto di sposarlo, aveva detto che ero stata la prima donna a suscitare in lui delle emozioni da quando ella era morta. Cosa aveva voluto dire Amy la sera prima, quando avevano parlato di me convinta che io non stessi ascoltando. Questa era la vera ragione allora…ecco perché Oliver mi aveva sposato. Perché gli ricordavo, malgrado le evidenti differenze, la Patricia che lui aveva amato e sposato anni prima…l’unica donna che possedesse il suo cuore, ora e per l’eternità…viva o morta che fosse…

Sentii le lacrime salirmi rapidamente agli occhi, ma non volevo dare alla signora Martin la soddisfazione di vedermi piangere. Mi sforzai di trattenere i singhiozzi e corsi via da quella stanza più rapidamente che potei, pallida come un cencio e a malapena in grado di reggermi in piedi. Questa volta, la vecchia non mi ostacolò in nessun modo, anzi, mi lasciò andare via senza muovere un dito, continuando a reggere in mano con devozione il ritratto di Patricia. Seguì la mia fuga con il suo sguardo derisorio e trionfante, mentre io correvo verso la mia stanza come se avessi avuto le ali ai piedi, ed una volta giunta a destinazione mi lasciavo cadere sul letto dando sfogo a tutte le mie lacrime.

 

Non so nemmeno io dove trovai la forza, poche ore dopo, di raggiungere mio marito per pranzare insieme a lui. Non so dove trovai la forza di lasciarmi riempire il piatto dalla signora Martin, che ovviamente non fece il minimo cenno in presenza di Oliver a quanto accaduto quella mattina, e non so nemmeno come riuscii a mangiare. Quando Daniela aveva bussato alla porta della mia stanza per avvisarmi che il pranzo era pronto, per un istante avevo avuto la tentazione di dirle di riferire a mio marito che non stavo bene e che preferivo saltare il pasto. Poi pensai che egli avrebbe potuto crederla una scusa per evitare le visite di cortesia che tanto avevo mostrato di temere, e allora mi mancò il coraggio. Mi sciacquai il viso sperando di riuscire a cancellare le tracce del pianto che mi ero appena fatta, mi truccai leggermente gli occhi e scesi dabbasso cercando di recitare meglio che potevo la parte della giovane sposa serena e tranquilla. Fortunatamente, Oliver mi degnò a malapena di un’occhiata distratta e non si accorse che c’era qualcosa che non andava. Per la prima volta mi sorpresi ad essere contenta dell’indifferenza che mio marito manifestava nei miei confronti, perché non me la sentivo di riferirgli cos’ era successo quella mattina nella stanza di Patricia. Temevo che la mia confessione avrebbe potuto minare per sempre il fragile equilibrio sul quale si reggeva il nostro matrimonio, e anche se ormai ero consapevole del vero motivo per cui Oliver mi aveva sposata, non volevo perdere mio marito. Ormai lui rappresentava l’unica sicurezza della mia vita, l’unico punto di riferimento che avessi al mondo, e avevo troppa paura di ritrovarmi sola ed abbandonata per chiarire come stavano realmente le cose tra di noi. Temevo che se ne avessimo parlato, saremmo giunti alla conclusione che il nostro matrimonio era stato un terribile errore, ed io mi sarei ritrovata in mezzo ad una strada. E poi, l’amore per mio marito non era affatto svanito dal mio cuore, anche se ora ero consapevole, al di là di ogni sciocca e patetica illusione che mi ero fatta, di non essere ricambiata. Cercai di risollevarmi il morale dicendomi che non dovevo considerare la mia somiglianza con Patricia come qualcosa di negativo, ma che anzi, questo fatto poteva essere un ottimo punto di partenza per costruire la mia futura felicità insieme ad Oliver. Egli mi aveva sposata perché aveva ritrovato in me qualcosa della donna che tanto aveva amato, e forse, se io mi fossi impegnata, sarei riuscita a diventare come Patricia e a farmi amare anch’io da lui. Non tanto quanto aveva amato lei, probabilmente…ma mi sarebbe bastato ottenere solo un po’ d’amore da lui, mi sarei accontentata anche di qualche briciola, pur di leggere nei suoi occhi un sincero affetto nei miei confronti.

Volevo che mio marito mi amasse, e affinché ciò accadesse dovevo diventare il più possibile simile alla tanto decantata Patricia. A partire da quello stesso giorno, e dalle visite di cortesia che mi attendevano. Dovevo mettere da parte la mia stramaledetta timidezza e mostrarmi brillante, simpatica e socievole. Dovevo apparire come una giovane donna sicura di sé, elegante e spontanea. Se fossi riuscita a suscitare l’ammirazione dei vicini di casa che saremmo andati a visitare, sicuramente avrei colpito anche mio marito, ed egli avrebbe cominciato a guardarmi con occhi diversi.

Non mi rendevo conto di quanto tali propositi significassero andare contro il mio carattere, snaturare la vera Kathleen nel tentativo di farla diventare una persona diversa…una persona che io non ero e che non sarei mai potuta diventare. In quel momento mi ponevo solo un obiettivo: diventare come Patricia ed ottenere così l’amore di Oliver.

Rimasi in silenzio per tutta la durata del pranzo, rimuginando questi pensieri tra me e me, e dopo che Frank ebbe servito il caffè, mi alzai da tavola cercando di dipingermi sulle labbra il migliore dei miei sorrisi.

-Vado a prepararmi, caro, così possiamo partire per il nostro giro di visite-, dissi dolcemente a mio marito, sforzandomi di nascondere l’angoscia che quell’idea ancora mi procurava, nonostante tutti i buoni propositi che mi ero fatta.

Oliver annuì, appoggiando lentamente la sua tazzina sul piattino, e mi rivolse un sorriso compiaciuto e soddisfatto che mi riempì di orgoglio. –Bene, vedo che l’idea non ti ripugna più come stamattina. Ne sono contento. Ti aspetterò in salotto, Kat-, rispose, e si alzò per andare ad accomodarsi su uno dei grandi divani del salone.

Impiegai quasi un’ora per prepararmi con estrema cura, non avevo mai dedicato così tanto tempo alla cura della mia persona in tutta la mia esistenza. Buttai all’aria tutto il mio guardaroba, alla ricerca disperata di qualcosa di adatto all’occasione, o quantomeno di più decente rispetto al resto del mio vestiario. Alla fine scelsi un grazioso abito di seta azzurrino con stampati dei fiori bianchi, un abito smesso di zia Audrey che ella mi aveva regalato l’anno prima, da indossare per prendere parte insieme alla cugina Elizabeth ai suoi ricevimenti. Non era un granché però, e mi dissi che avrei dovuto provvedere già il giorno seguente a farmi inviare da Londra alcuni cataloghi di abbigliamento per rinnovare il mio guardaroba, perché non intendevo certo apparire sciatta o trascurata.

Raccolsi i miei lunghi capelli in uno chignon fissato con delle forcine sulla sommità della nuca, un’acconciatura che mi dava un’aria piuttosto seria e rigida e mi faceva apparire più vecchia della mia età, e cominciai a truccarmi con attenzione, maledicendo la mia esperienza per quel che riguardava il make-up. Stesi sul volto il fondotinta, accompagnandolo con una passata di cipria, misi sugli occhi un ombretto azzurro intonato al colore del mio vestito, ed infine mi dipinsi le labbra con un rossetto color rosa acceso che mi donava molto. Quando ebbi terminato i preparativi, rimasi più che soddisfatta. Non somigliavo affatto alla piccola ed intimidita Kathleen che aveva messo piede per la prima volta a Villa Hutton, sembravo una donna molto più affascinante e matura, e dentro di me mi sentivo già un pizzico più somigliante alla Patricia del ritratto.

Rinfrancata, scesi dabbasso e raggiunsi in salotto mio marito, che mi stava aspettando con impazienza leggendo il suo quotidiano.

-Finalmente! Ti stavo dando per dispersa!-, esclamò Oliver alzandosi in piedi appena sentì il rumore dei miei passi, e quando si voltò e mi vide, nel suo sguardo si dipinse un’espressione di stupore e le sue labbra si aprirono in un sorriso che mi fece sentire al settimo cielo.

-Però…ne valeva la pena. Sei bellissima!-, mi disse con ammirazione, venendomi vicino. Mi prese una mano tra le sue e mi baciò con dolcezza su una guancia. –Andiamo?-, mi chiese poi, con gli occhi che sembravano brillare come due diamanti.

Ero la persona più contenta del mondo in quel momento. I miei sforzi stavano già dando i risultati sperati. Avevo cominciato a trasformarmi nella persona che Oliver desiderava avere al suo fianco, ed egli mi aveva ripagato con la sua ammirazione. Non mi aveva mai detto che ero bellissima, fino a quel momento, ed ora io mi sentivo veramente tale. Sarebbe andato tutto per il meglio, mi dissi euforica. Tutti mi avrebbero ammirata, sarei stata accolta in società come una regina e presto anche mio marito avrebbe completamente perduto la testa per me.

La ruota del destino stava cominciando a girare in mio favore…forse avrei dovuto ringraziare la signora Martin, per avermi mostrato il ritratto di Patricia.

Com’ero sciocca ed ingenua….provo quasi compassione di me stessa nel ricordare come mi sentivo felice ed estasiata quel giorno, quando presi Oliver a braccetto e mi avviai insieme a lui verso la nostra automobile.

Ero pronta ad entrare nella fossa dei leoni.

 

Fine quarto capitolo

 

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO QUINTO

 

Mio marito bussò in modo vigoroso alla porta della casa del vescovo della contea. Io sentivo il cuore in gola, coi battiti accelerati, mi sudavano copiosamente le mani e mi sforzavo di mantenermi calma tenendomi aggrappata al braccio di Oliver. Egli appariva calmo e vagamente annoiato, come se per lui quelle visite non fossero altro che una tediosa formalità. Io invece mi sentivo completamente in tumulto, ma del resto non me ne meravigliavo. Chissà quante volte Oliver aveva compiuto delle visite di cortesia insieme a Patricia, mentre per me era praticamente la prima volta. Speravo solo di fare buona impressione alle persone che avrei conosciuto nel corso di quella sicuramente interminabile giornata.

La mente ogni tanto mi ritornava alla lussuosa stanza a picco sul mare, al ritratto di Patricia e alle parole dure come pietre della signora Martin…non dovevo più pensarci, o mi sarei davvero convinta di non essere all’altezza di mio marito, di non essere in grado di renderlo felice. Non era affatto così. Sarei diventata la moglie perfetta, proprio come lo era stata Patricia, e presto Oliver mi avrebbe amata con tutto il cuore. Dovevo ad ogni costo aggrapparmi a questo pensiero per riuscire a rimanere a galla.

L’imponente portone dell’abitazione si aprì, e comparve una cameriera sulla quarantina, impeccabile nella sua divisa nera con grembiulino e crestina bianca. Il suo volto ossuto e spigoloso si illuminò quando riconobbe mio marito.

-Signor Hutton! Che piacere rivedervi-, esclamò ossequiosa, senza degnarmi neanche di uno sguardo, come se fossi stata trasparente.

Oliver ricambiò il sorriso, e in tono educatamente distaccato domandò se il vescovo e la signora fossero in casa.

-Il signor vescovo non c’è, ma la signora si trova in salotto. Vado subito ad avvertirla, vedrete che sarà contentissima di avervi qua-, si precipitò a rispondere la donna, e poi si avviò con passo svelto verso una porta in fondo al corridoio, presumibilmente quella del salone in cui si trovava la signora Campbell. Mi sentivo frastornata e tesissima, come se fossi in procinto di sostenere un esame importante con l’inquietante presentimento di essere bocciata. Mi domandai che tipo fosse quella donna e che accoglienza mi avrebbe riservato. Una parte di me si illudeva, piuttosto stupidamente, che la signora avesse qualche impedimento per cui non avrebbe potuto vederci, anche se sapevo benissimo che non sarebbe stato così.

Pochi minuti dopo infatti la cameriera fece ritorno presso di noi e, rivolgendo l’ennesimo ampio sorriso colmo di ammirazione a mio marito, ci invitò a seguirla. In pochi istanti fummo introdotti nel salotto della signora Campbell.

Era una stanza molto ampia e confortevole, con le pareti dipinte di un tenue giallo alle quali erano appesi molti quadri dal gusto raffinato, un elegante mobilio di legno massiccio di colore scuro e due grandi divani dello stesso giallino delle pareti. Su uno di questi divani era seduta una donna di mezz’età, vestita con un abito nero ornato da colletto e polsini di pizzo e con i capelli spruzzati di grigio raccolti in una crocchia dietro la nuca. Con mia fortuna, notai che non aveva affatto un’aria arcigna, ma sembrava anzi piuttosto materna e cordiale. Tuttavia, il tremito delle mie gambe non accennava a placarsi, e strinsi più forte il braccio di Oliver mentre entravamo nel salone, e la moglie del vescovo si alzava in piedi con un sorriso ancora più ampio e luminoso di quello della sua cameriera.

-Signor Hutton!-, esclamò con voce briosa, avvicinandosi a mio marito e stringendogli calorosamente una mano. –Che gioia rivedervi! Sapevo che eravate tornato dal vostro viaggio e proprio l’altra sera discutevo con mio marito se fosse il caso di venirvi a trovare alla Villa! Speravo proprio di ricevere una vostra visita. Ho pensato molto a voi negli ultimi tempi, e sono veramente contenta di trovarvi in così splendida forma! Eravate così sciupato l’ultima volta che vi vidi!-, disse, squadrando mio marito da capo a piedi con espressione compiaciuta. Io stavo al suo fianco in silenzio, aspettando umilmente di essere presentata.

Oliver sorrise affabilmente alla signora. –Vi ringrazio, signora Campbell. È sempre un piacere venire a visitarvi, e vi assicuro che siete la prima persona che sono venuto a trovare dopo il mio ritorno. Ma permettete che vi presenti mia moglie Kathleen-, disse, accennando con il capo verso la mia direzione.

Abbozzai un timido sorriso, mentre la moglie del vescovo si voltava verso di me come se avesse notato solo in quel momento la mia presenza. La vidi impallidire per un istante e sbattere furiosamente le palpebre, e compresi non senza una punta di sgomento che anch’ella doveva aver notato la mia somiglianza con la defunta Patricia, che avevo volutamente accentuato con la scelta dell’abbigliamento per quel giro di visite. Ero già profondamente turbata quando, fortunatamente, la signora Campbell riuscì a riassumere un contegno e mi sorrise cordialmente, tendendomi una mano con calore, anche se non era ancora riuscita a dissimulare del tutto il suo imbarazzo.

-E’ un vero piacere conoscervi, signora Kathleen. Ero davvero curiosa di incontrare la nuova signora Hutton. Complimenti, Oliver, è davvero una ragazza graziosa-, si precipitò ad affermare, mentre io mi limitavo a ricambiare la sua stretta di mano, incapace di dire anche solo una parola.

La signora ci invitò ad accomodarci sul divano e cominciò a conversare affabilmente con mio marito, che le stava raccontando del suo viaggio in Francia e di come ci eravamo conosciuti. Io stavo in silenzio, tormentandomi con le dita l’orlo del vestito, e mi sentivo tremendamente a disagio e fuori posto. Notavo che ogni tanto la moglie del vescovo mi lanciava delle occhiate di sfuggita, ma io tenevo gli occhi ostinatamente bassi ed evitavo di incontrare il suo sguardo. Non ero avvezza a stare in società e non sapevo cosa dire o fare per inserirmi nella conversazione. Avevo sperato nell’aiuto di mio marito, ma Oliver continuava a discorrere con tutta tranquillità, con il savoir-faire di una persona che si trova esattamente nel suo habitat naturale. Dallo stupore che si leggeva chiaramente negli sguardi che la signora Campbell mi lanciava, deducevo con chiarezza quello che stava pensando: che come aspetto ero straordinariamente simile a Patricia, ma che come personalità ero davvero tutta un’altra cosa. Ero sicura che Patricia non fosse mai rimasta in silenzio durante una visita di cortesia, comportandosi come se fosse una bella statuina, e che tantomeno avesse mai sfoggiato l’aria timorosa ed imbarazzata che dovevo avere sicuramente io. Mi prese immediatamente un grande scoramento. Mi ero illusa per un istante che mascherandomi come se fossi stata Patricia, con il vestito, il trucco, la pettinatura che mi facevano sembrare più vecchia e più raffinata di quel che in realtà ero, avrei potuto diventare come era lei, ma la realtà era ben diversa. Io ero io, la timida ed inesperta Kathleen, e nessun abito avrebbe mai potuto modificare il mio carattere. Eppure, non potevo sperare di essere accettata ed apprezzata nell’ambiente in cui viveva mio marito per quella che ero. Oliver stesso sarebbe stato il primo a disprezzarmi. Ma cosa dovevo fare? Non riuscivo a snaturare me stessa e a diventare quella che non ero, anche se tentavo disperatamente, ma desideravo con tutto il cuore ottenere l’approvazione di mio marito e delle persone che mi stavano intorno. Un compito evidentemente al di sopra delle mie capacità.

-Riceverete molto in Villa, signora Hutton?-, domandò improvvisamente la moglie del vescovo rivolgendosi a me.

Sobbalzai violentemente, e dal calore che sentii salirmi improvvisamente al volto dedussi che dovevo anche essere arrossita. Mi diedi della sciocca, e cercai di farmi coraggio, dicendomi che questa poteva essere la grande occasione di fare il mio debutto nella società in cui sarei vissuta d’ora in poi. –Veramente, non so ancora…io e Oliver non ne abbiamo ancora parlato-, fu tutto quello che riuscii a dire timidamente, continuando a torcermi affannosamente le mani. Rivolsi di sottecchi un’occhiata a mio marito, sperando che intervenisse in mio aiuto, ma Oliver non parve avvedersene e rimase in silenzio.

Una strana espressione si dipinse sul volto segnato dalle rughe della signora Campbell, ma fu subito rimpiazzata da un cordiale sorriso, un evidente tentativo di mettermi a mio agio del quale le fui estremamente grata. –Spero proprio che continuerete a dare le splendide feste che hanno sempre animato la vostra casa, signora. Mi ricordo ricevimenti meravigliosi che si sono tenuti a Villa Hutton. Feste in giardino, feste nel salone…la casa era sempre stracolma di gente e ci si divertiva moltissimo-, proseguì la donna, mentre il suo viso si illuminava nel ricordo dei bei tempi trascorsi.

Vidi mio marito irrigidirsi impercettibilmente, e dalla sua reazione intuii, senza che nessuno me lo dicesse, che l’organizzazione di queste feste doveva senz’altro spettare a Patricia. Mi sembrava di vedermela davanti agli occhi mente stilava coscienziosamente la lista degli invitati, scriveva gli inviti su eleganti cartoncini profumati e dava disposizioni alla servitù su come addobbare il salone e il giardino, su come disporre i fiori, su come servire le portate a tavola. E poi la vedevo durante la festa, al braccio di Oliver, elegantissima e radiosa in un magnifico abito da sera, come quelli che tante volte avevo potuto ammirare alle feste di zia Audrey, mentre si accertava che tutto andasse per il meglio, mentre stringeva con calore le mani agli ospiti, bella e altera come una regina, la regina della festa. Doveva essere stata una donna molto popolare e sicura di sé, pensai, con una punta di invidia che non fui proprio in grado di reprimere, malgrado mi rendessi conto che era davvero abominevole provare invidia nei confronti di una persona che era morta, ed in un modo tanto tragico per giunta. Provai ad immaginare me stessa al suo posto, durante una festa a Villa Hutton. Provai a figurarmi mentre accoglievo gli ospiti e tutti si complimentavano con me per lo splendido ricevimento che avevo organizzato, mentre alzavo il calice ricolmo di champagne per ringraziare tutti i convenuti nel corso della cena, mentre inauguravo le danze insieme a mio marito, con gli occhi di tutti gli invitati fissi su di noi e luccicanti di ammirazione. Non ci riuscii.

-Cercheremo di fare il possibile, signora Campbell…non ho mai organizzato una festa in vita mia e spero di esserne all’altezza-, mormorai timidamente, tenendo lo sguardo basso mentre Oliver non diceva nemmeno una parola e aveva un’espressione a dir poco di pietra.

-Oh voi siete così giovane, mia cara signora, sono certa che imparerete in brevissimo tempo. E comunque non c’è fretta, anche se ammetto che qua in zona abbiamo tutti nostalgia delle magnifiche feste che si svolgevano a Villa Hutton-, proseguì la moglie del vescovo imperterrita, senza avvedersi minimamente né del mio imbarazzo né della fredda e composta disapprovazione di mio marito.

-Lo immagino…-, sussurrai, cercando disperatamente un modo di cambiare discorso, senza tuttavia riuscirvi.

-Almeno l’usanza del ballo in costume la manterrete, mi auguro! Non ho mai veduto una festa altrettanto bella in vita mia!-, esclamò la donna, e il suo sguardo si fece sognante.

Non riuscii ad evitare di assumere un’espressione meravigliata, perché non avevo mai sentito parlare di questo ballo in costume e non avevo la minima idea di che cosa si trattasse. Mio marito si lasciò sfuggire un sospiro molto simile ad un gemito, anch’egli evidentemente infastidito da tutto questo discorrere di feste. Era chiaro che egli non aveva alcuna intenzione di ripristinarle, forse gli avrebbero ricordato troppo Patricia, e la signora Campbell mancava veramente di tatto insistendo così tanto. Questa storia del ballo in costume però attirò inesorabilmente il mio interesse, sentivo di voler a tutti i costi saperne di più.

-Ballo in costume?-, domandai cortesemente.

La moglie del vescovo apparve a dir poco sbalordita. –Come? Vostro marito non ve ne ha mai parlato? Sono stupefatta, signor Hutton! Il ballo in costume è una festa che si è sempre svolta tradizionalmente tutti gli anni a Villa Hutton, da quando vostro marito si era sposato con…con la sua prima moglie, insomma. Una festa meravigliosa, a dir poco! Spero proprio che manterrete quest’usanza, cara signora. Lo scorso anno ovviamente è saltata, ma noi tutti ci auguriamo che quest’anno si possa riprendere, è il divertimento più sontuoso che abbiamo da queste parti-, mi spiegò con entusiasmo, senza notare che Oliver era violentemente sbiancato e si stava mordendo le labbra per non parlare, probabilmente per evitare di mandare al diavolo l’inopportuna signora Campbell.

Dunque, era come avevo immaginato. Si trattava di una festa ideata personalmente da Patricia. Forse ripristinare questa festa così amata dalla gente del luogo mi avrebbe fatta accogliere a braccia aperte dalla società della zona, sarebbe stato un modo di dimostrare a loro e anche a mio marito che anch’io ero capace di organizzare ricevimenti e di farmi apprezzare, proprio come Patricia, che anch’io potevo essere un’abile padrona di casa, malgrado la mia giovane età e la mia totale inesperienza. Mi sentii fremere dal desiderio di organizzare questo tanto decantato ballo in costume e dovetti trattenermi dall’annunciare immediatamente alla moglie del vescovo che l’avrei accontentata, che mi sarei subito attivata per allestire il ricevimento del minor tempo possibile. Quello che mi trattenne fu l’espressione gelida di mio marito.

-Beh…mi sembra un’ottima idea…che ne pensi, caro?-, domandai titubante, detestando l’idea di mostrarmi così sottomessa agli occhi della signora Campbell, ma incapace di prendere un’iniziativa personale senza tenere conto del parere di Oliver.

Mio marito mi fissò con occhi di ghiaccio. –Non so se è una buona idea-, disse seccamente.

Mi morsi le labbra, sentendomi per un istante profondamente infelice.

-Ma sì, è un’ottima idea, signor Hutton! Tutti qua in zona lo desiderano, e poi credo che vostra moglie abbia il diritto di avere una festa in suo onore, non trovate?-, insistette la signora Campbell, sfoderando il più affascinante e persuasivo dei suoi sorrisi.

L’espressione di Oliver si ammorbidì, anche se in modo appena percettibile. –Ci penserò su, signora Campbell, ve lo prometto. Ora io e Kathleen dobbiamo andare. Siamo attesi per altre visite-, disse, celando dietro un sorriso freddamente educato la sua rabbia nei confronti della moglie del vescovo ed alzandosi precipitosamente in piedi. Dopo un attimo di sbigottimento, io feci lo stesso, rivolgendo alla signora un timido sorriso.

-Ve ne andate così presto?-, fece la donna in tono dispiaciuto, alzandosi anch’ella in piedi. Sul suo volto si dipinse un’aria di sgomento, come se improvvisamente cominciasse a temere di aver detto qualcosa di inopportuno e di aver urtato i sentimenti di mio marito.

-Sì, purtroppo dobbiamo andare-, rispose imperterrito Oliver, dandomi il braccio ed avviandosi con passo deciso verso la porta dell’abitazione.

-Comunque vi attendiamo a Villa Hutton, signora Campbell. Saremo lieti di ricevere una vostra visita-, aggiunsi io in tono cordiale, complimentandomi con me stessa per la composta dignità con cui avevo formulato questa frase.

La moglie del vescovo mi sorrise e mi strinse cordialmente una mano. –Ma certo, verrò il prima possibile. Piacere di avervi conosciuta, signora Hutton-.

Dopo esserci scambiati gli ultimi convenevoli, io e mio marito abbandonammo la casa dei Campbell e ci avviammo silenziosamente verso la nostra automobile. Oliver rimase in silenzio per tutto il tragitto, mentre io mi sentivo intimamente angosciata. Quelle visite di cortesia si stavano rivelando ancora più difficili di quel che avevo immaginato, e la mia tensione nervosa cresceva anziché allentarsi. Vedere poi mio marito così scuro in volto e pensieroso non mi era affatto d’aiuto, anzi, contribuiva ad acuire ulteriormente il mio turbamento.

Le visite successive non andarono affatto meglio, anzi, le cose se possibile non fecero che peggiorare. Speravo che, nel corso della giornata, avrei superato il mio imbarazzo e sarei riuscita a sciogliermi, ed invece mi sentivo profondamente a disagio sotto gli sguardi scrutatori che mi rivolgevano tutte le persone che andavamo a visitare. Mi sentivo squadrata da capo a piedi, osservata, messa sul piatto di una bilancia, e questo mi inibiva completamente. Rimanevo seduta sui divani dei vari salotti, pallida ed impacciata, tormentandomi l’orlo del vestito con le dita e mordendomi le labbra, lambiccandomi il cervello alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, da dire che però non veniva mai fuori. Facevo la figura della bella statuina mentre mio marito conversava affabilmente, anche se l’ombra che si era insinuata nei suoi occhi dopo la visita alla moglie del vescovo non si dissipò mai per tutto il corso della giornata, ed intervenivo nella conversazione soltanto se ero direttamente interpellata. Non che in quel caso riuscissi però ad intavolare un bel discorso, anzi, rispondevo a monosillabi e con frasi precostituite come se fossi stata lì per un colloquio per ottenere un posto da governante, e non per una visita di cortesia. Maledicevo la mia timidezza, ma non riuscivo a fare altrimenti. Mi sentivo estranea a quell’ambiente, goffa, sgraziata, povera di spirito, e ricevevo come pugnalate gli sguardi colmi di stupore e di educata disapprovazione che tutti, nessuno escluso, tributavano in mia direzione. La scena si ripeteva sempre identica, sempre seguendo lo stesso, scontato copione. Appena mi vedevano, mi squadravano con viva meraviglia, indubbiamente colpiti dalla mia straordinaria somiglianza, esteriormente parlando, con la defunta Patricia. Poi, man mano che i minuti passavano, si accorgevano di quanto fossi differente da lei, di quanto fossi insipida, insignificante e maldestra in confronto a lei, e sicuramente si domandavano per quale motivo mio marito avesse deciso di sposarmi. O forse in cuor loro lo sapevano già, proprio come lo sapevo io: perché assomigliavo a Patricia, fisicamente, perché gli ricordavo lei, e forse perché si era illuso, considerata la mia ingenuità e la mia giovane età, di riuscire a plasmarmi ad immagine e somiglianza della sua perduta moglie. Anch’io avevo sperato che fosse possibile, prima che quelle visite mi sbattessero in faccia la dura realtà: mai, non sarei mai riuscita a diventare come Patricia, per quanti sforzi avessi potuto compiere. Mai. Sarei sempre rimasta la sua squallida brutta copia, proprio come aveva detto la signora Martin. Ero certa che tutte le persone che avevo incontrato quel giorno mi giudicassero proprio così: una squallida brutta copia.

 

Avevo il morale sotto i tacchi quando feci finalmente ritorno a Villa Hutton. Cominciava già ad imbrunire quando l’autista fermò la macchina all’ingresso del vialetto che conduceva alla nostra casa e io ed Oliver scendemmo, entrambi mesti e con i volti tirati, come se avessimo sostenuto chissà quale terribile prova. Stavolta mio marito non mi diede il braccio, ma si avviò davanti a me con passo deciso, tenendo le mani nelle tasche, immerso in chissà quali pensieri. Evidentemente la nostra vicinanza di prima era stata solamente una sceneggiata ad uso e consumo dei vicini, pensai con profonda amarezza, avviandomi a passo lento e strascicato dietro di lui, facendo dondolare tristemente la mia borsetta. L’andatura curva e stanca di Oliver mi colpì profondamente, e solo in quel momento mi resi conto di quanto doveva essere stato penoso anche per lui affrontare quel giro di visite. Rivedere dopo tanto tempo tutti quei volti noti, quelle case che tante volte aveva visitato in compagnia di Patricia, fermandosi a conversare amabilmente e a prendere il the, stavolta però con la consapevolezza che non c’era sua moglie accanto a lui ma un’altra donna, una donna che le somigliava solo esteriormente ma che non era affatto in grado di prendere il suo posto in società. Riandare con la memoria all’ultima volta che aveva visto quelle persone, sicuramente al funerale di Patricia…rivederseli di fronte vestiti di nero e con l’espressione triste e compunta, gli occhi lucidi di lacrime mentre gli stringevano la mano esprimendogli tutto il loro cordoglio per una tragedia così drammatica, per una perdita così crudele…era stato sicuramente terribile per Oliver, più di quello che egli poteva immaginarsi, altrimenti non avrebbe mai inflitto a se stesso e a me una così dura prova. Lo vedevo immerso in un dolore che non mi apparteneva, in un senso straziante di perdita che io potevo solo immaginare, poiché non lo avevo vissuto direttamente sulla mia pelle, e lo sentivo tremendamente lontano da me, come se fosse un estraneo e non l’uomo che avevo sposato. Era questo che mi faceva più male, più ancora del fallimentare esito di quel pomeriggio di visite, più ancora della certezza di aver fatto una pessima impressione. Io ero un’intrusa in quella casa, in quella società, in quella contea…ero un’intrusa nella vita di quelle persone, e soprattutto ero un’intrusa nella vita di mio marito. Continuavo a camminare con il cuore gonfio di pena, chiedendomi se un giorno quella terribile sensazione di estraneità mi avrebbe lasciata e se avrei potuto finalmente guardare a Villa Hutton come alla mia casa, e alle persone che mi circondavano come ai miei amici.

Appena entrammo, mio marito andò a rinchiudersi nel suo studio proprio come la sera precedente, senza dirmi una parola, ed io compresi che desiderava rimanere solo. Prima di entrare in quella stanza in cui io mai avevo osato mettere piede, domandò alla signora Martin di servirgli anche quella sera la cena lì, e vidi un’espressione di perfida esultanza negli occhi di quella donna all’udire quella parole. Subito dopo aver annuito in direzione di Oliver, si voltò a guardare me, frugando con evidente compiacimento il mio volto pallido e tirato e le mie labbra corrucciate. Sentivo che dentro di lei stava gongolando, che stava esultando perché per l’ennesima volta mi ero scontrata contro il fatto che non ero assolutamente all’altezza di prendere il posto della perfetta, meravigliosa Patricia, e provai un violento moto di rabbia contro di lei. Avrei voluto gridarle di andarsene, di stare alla larga da me, di scomparire per sempre dalla mia vista, ma ancora una volta la mia dannata timidezza ebbe il sopravvento, e fui io a chinare la testa per prima, ancora una volta sopraffatta da quella donna che mi odiava e che voleva distruggermi.

-Volete che vi serva la cena in sala da pranzo, signora?-, mi domandò in tono mellifluo, senza sforzarsi nemmeno di nascondere la sua perfida esultanza.

Scossi la testa. Mi sentivo un nodo allo stomaco e desideravo solamente essere lasciata in pace, starmene da sola in un luogo dove nessuno, né mio marito, né la signora Martin, né nessuno degli abitanti di quella stramaledetta contea potesse raggiungermi. –No, signora Martin, non ho fame. Esco a fare una passeggiata-, risposi in tono mite, prima di gettare la mia borsetta nel divano ed uscire precipitosamente da Villa Hutton, seguita dallo sguardo gelido della governante.

Anche se sentivo gli occhi pizzicarmi, mi sforzai di trattenere le lacrime e di mantenere un’andatura normale finché non mi fui allontanata dal campo visivo di quella terribile donna. Quando fui certa che ella non poteva più vedermi, cominciai a correre il più veloce che potevo, senza meta, accecata dalle lacrime e con il petto squassato dai violenti singhiozzi. Piangevo dando sfogo a tutto il mio sconforto, alla mia disperazione, all’orribile senso di solitudine che mi attanagliava l’anima, e con straziante rimpianto ripensavo alla mia infanzia negli Stati Uniti e ai miei cari genitori, agli unici momenti felici della mia sventurata esistenza, troppo presto terminati e svaniti per sempre.

Senza accorgermene, ero arrivata fino alla spiaggia. Sentii il rumore delle onde che si frangevano con violenza sugli scogli, e quando alzai gli occhi mi trovai di fronte la vasta e sconfinata distesa del mare che si estendeva davanti ai miei occhi. Inspirai la brezza salmastra che mi solleticava le narici, e di colpo provai un senso di beatitudine e di rilassatezza che mi rinfrancò il cuore. Il mare mi provocava sempre quest’effetto. Mi bastava annusare il profumo di sale che esso emanava quasi impercettibilmente ed ascoltare per qualche istante il dolce sciabordio delle onde, perché tutte le pene che opprimevano la mia anima si dissolvessero e la pace tornasse ad impadronirsi di me. Ero certa che fosse stato il cuore a condurmi in questa direzione.

Mi sedetti sulla battigia umida, disinteressandomi del fatto che avrei potuto rovinarmi il vestito, e cominciai a giocherellare con la sabbia facendomi scorrere alcuni granelli tra le dita, come se fossi stata una bambina piccola. Con la mente ritornai alla prima volta che ero stata portata al mare dai miei genitori, quando avevo solo cinque anni, e provai un’acutissima fitta di nostalgia. Le lacrime ripresero a velare il mio sguardo. Mi portai le ginocchia al petto e, poggiando la fronte su di esse, ricominciai nuovamente a piangere. Stavolta però non era il pianto disperato e violento di pochi istanti prima, ma era un pianto tranquillo, che lavava via le mie ambasce e mi riportava lentamente un barlume di serenità.

Piansi a lungo in quel luogo pacifico e solitario, in quel profondo silenzio rotto solo dal frangersi delle onde sugli scogli. Piansi finché non ebbi più lacrime da versare e quando mi asciugai gli occhi con una manica del vestito mi resi conto con sollievo che mi sentivo davvero molto meglio. Mi stava anche tornando l’appetito ed il ricordo di quell’orribile giornata stava pian piano sbiadendo nella mia mente, come qualcosa di lontano e sfocato che non apparteneva più al presente e che andava dimenticato il più in fretta possibile.

Stavo per alzarmi, quando vidi un’ombra avanzare lentamente sulla battigia. Qualcuno stava camminando con passo lento ma deciso, mentre l’acqua gli lambiva delicatamente i piedi. Non riuscivo a distinguere a chi appartenesse quella sagoma circondata dall’oscurità, ma cominciai a sentire il cuore battermi più forte nel petto ed una strana sensazione di aspettativa farsi largo dentro di me. Per un attimo pensai che fosse mio marito, ma mi bastò un’occhiata ai suoi abiti per rendermi conto che era impossibile. La figura che mi si stava avvicinando indossava un paio di pantaloni arrotolati sui polpacci ed una camicia, probabilmente bianca, aperta sul torace. Era a piedi nudi ed era indubbiamente una figura maschile. Sussultai, rendendomi conto che entro pochi istanti l’ombra mi avrebbe raggiunta e sarebbe stata proprio di fronte a me.

Una parte di me mi suggeriva di alzarmi e di andarmene, in fondo non sapevo di chi si trattasse e correvo il rischio che lo sconosciuto potesse aggredirmi. Un’altra parte invece mi gridava con forza di rimanere, ed io, non so perché, scelsi di ascoltare quest’ultima.

Le nuvole che fino a quel momento avevano oscurato la luna si dileguarono, ed un pallido raggio lunare illuminò proprio il viso dell’ombra che mi si stava avvicinando, rivelando il volto abbronzato e disteso di Carlos Santana.

Ebbi un tuffo al cuore, mentre i nostri sguardi si incrociavano mio malgrado. L’espressione degli occhi scuri e profondi del bel cameriere sudamericano mi turbò profondamente. Avrei voluto distogliere lo sguardo, ma ero come ipnotizzata dal nero di quelle iridi quasi incandescenti e così continuai a fissarlo, come per esprimere un muto richiamo. Carlos si fermò, ricambiando il mio sguardo con un’espressione indecifrabile, che mi fece scorrere un brivido intenso lungo la schiena.

Restammo immobili così, a fissarci senza né parlare né muoverci, per un lunghissimo istante. Poi le sensuali labbra di Santana si aprirono in un sorriso decisamente seducente, ed egli si mosse con decisione verso di me. Non feci in tempo a muovere un dito che egli era già seduto al mio fianco, e mi guardava fisso con un’espressione che mi metteva completamente in subbuglio. Era indubbiamente un uomo bellissimo, pensai, non riuscendo a fare a meno di soffermarmi con lo sguardo sul suo torace muscoloso messo in evidenza dalla camicia bianca e sbottonata, sui lineamenti perfetti del suo viso, sulla massa setosa dei suoi riccioli castani. Aveva il fascino dell’animale selvatico ed era completamente diverso da mio marito, ma mi intrigava irresistibilmente. Non avevo mai provato un’attrazione così forte e magnetica per un uomo in tutta la mia vita, e appena me ne resi conto caddi in uno stato di panico completo.

Carlos allungò una mano in direzione dei miei capelli, e con poche mosse rapide mi tolse tutte le forcine, facendo ricadere la mia folta chioma castana sulle spalle, selvaggia e spettinata. Io distolsi lo sguardo da lui imbarazzata, sentendomi completamente nuda ed indifesa davanti all’espressione così intensa di quegli occhi penetranti, ma egli mi mise due dita sotto il mento spingendomi a voltarmi verso di lui.

Aprii la bocca per dire qualcosa, ma dalla mia gola inaridita non uscì alcun suono. Sperai che fosse lui a dire qualcosa per rompere quel silenzio così imbarazzante per me, ma poi ricordai quello che mi aveva detto Oliver, e cioè che da quando aveva messo piede a Villa Hutton per la prima volta, Carlos non aveva mai detto una sola parola.

-Io…devo andare-, balbettai vagamente intimorita, cercando di riprendere il controllo del mio corpo e di costringere me stessa ad allontanarmi da quella spiaggia e da quell’uomo che avvertivo come decisamente pericoloso.

Egli scosse la testa con espressione decisa, e prese una ciocca dei miei capelli cominciando a giocherellare e ad attorcigliarsela intorno alle dita. I suoi occhi continuavano ad essere fissi su di me ed il mio turbamento cresceva di istante in istante.

Lo guardai con aria interrogativa, e Carlos per tutta risposta mi sorrise. Sembrava considerare quel che stava accadendo tra noi come un gioco incredibilmente eccitante, e dovetti ammettere con me stessa che anche dentro di me la paura e l’agitazione stavano lasciando velocemente il passo ad una inspiegabile euforia.

-Mio marito mi sta aspettando-, farfugliai, pur essendo conscia che in realtà non desideravo affatto andarmene, ma egli continuò a guardarmi con quello strano sorriso, come se volesse comunicarmi che in realtà sapeva benissimo che avevo mentito, e che Oliver era rinchiuso dello studio senza neanche domandarsi dove fossi e cosa stessi facendo in quel momento.

Carlos lasciò andare la ciocca di capelli e cominciò ad accarezzarmi piano una guancia. Il suo tocco era dolce e delicato, come se stesse sfiorando qualcosa di assolutamente prezioso da trattare con cura. Anche se mi rendevo conto che era decisamente sconveniente, mi abbandonai con un sospiro a quella carezza, che tanto avevo desiderato ricevere in quei giorni per me così tristi e carichi di angoscia. Lasciai che le mani di Carlos mi sfiorassero teneramente il viso, con dei gesti così sensibili, così dolci che provai una sorta di struggimento e di languore. Ero così affamata di affetto, mi resi conto…affetto che non avevo finora ricevuto da mio marito, mi dissi, ripensando con umiliazione alla squallida notte di nozze che avevamo trascorso insieme. Talmente affamata di affetto da abbandonarmi senza remore alle carezza di uno sconosciuto, di un domestico, senza curarmi di cosa egli avrebbe potuto pensare di me. Tenevo gli occhi chiusi ed assaporavo con ogni fibra del mio essere il contatto con le dita calde e morbide di Carlos, dita fin troppo affusolate per essere quelle di un cameriere, che esploravano audacemente il mio viso, che percorrevano ammalianti il contorno delle mie labbra, che scendevano impudicamente a stuzzicare la pelle sensibile del collo, ed intanto provavo sensazioni nuove, sensazioni insopprimibilmente fisiche, che mi facevano tremare e sussultare, che suscitavano in me paura ma anche una del tutto sconosciuta sensazione di euforia, una gioia segreta che avevo sperato di sperimentare insieme ad Oliver, ma che invece si era trasformata in pena e sofferenza durante il nostro unico incontro intimo.

La mia mente continuava a suggerirmi di allontanarmi immediatamente da quella spiaggia, prima che potesse succedere qualcosa di irreparabile, ma il mio corpo non voleva saperne di ascoltarla, e continuava a godersi le dolci attenzioni di Carlos come se il solo pensiero di privarsene fosse a dir poco inconcepibile.

Sollevai lo sguardo per incontrare nuovamente gli occhi scuri e caldi di Carlos, e vi scorsi dentro una scintilla di desiderio che mi fece tremare. Mi inumidii ansiosamente le labbra, e vidi la sua espressione mutare impercettibilmente. Socchiusi gli occhi come guidata dall’istinto, mentre la bocca umida di lui si posava dolcemente sulla mia, e le nostre lingue si intrecciavano dando vita al più appassionato dei baci.

Mi sentii quasi sciogliere mentre egli mi stringeva tra le sue forti braccia, accarezzandomi arditamente la schiena, senza smettere un solo istante di baciarmi. Ricambiavo il suo bacio con un ardore, con una passione che non avrei mai creduto di possedere, incapace di staccarmi dalle sue dolci ed impudenti labbra. Continuavo a ripetermi che era una follia, un’assurdità, ma le mie mani si muovevano come animate da una volontà propria lungo la schiena ampia e muscolosa di Carlos, accarezzandola, insinuandosi tenere e maliziose tra i suoi riccioli scuri, giocherellando con i suoi capelli, sfiorandogli freneticamente il viso e le spalle.

Ci staccammo solo per qualche istante per riprendere fiato, entrambi rossi in viso ed accaldati, per poi riprendere a baciarci con la stessa irrefrenabile urgenza. Non riuscivamo ad allontanarci l’uno dall’altra, come se le nostre bocche fossero due calamite che si attiravano magneticamente, come se tra noi fosse scoccato una sorta di incantesimo. Dentro di me, pur nella consapevolezza di stare facendo qualcosa di sbagliato, provavo un inebriante senso di euforia. Mi sentivo per la prima volta desiderata, con quell’intensità che tanto avevo agognato durante i miei sogni romantici, e poco mi importava se l’uomo che mi voleva con tanto ardore non era mio marito, ma un perfetto sconosciuto.

Carlos mi fece distendere lentamente sulla sabbia umida, e si allontanò un istante da me, rivolgendomi un’occhiata così appassionata che il cuore mi balzò diritto in gola e quasi mi venne da piangere per la commozione, perché nessuno mi aveva mai guardata così in vita mia. Poi prese ad accarezzarmi lentamente le gambe al di sotto della stoffa del mio vestito, sorridendomi maliziosamente.

Ricambiai il suo sorriso, mentre il mio corpo era agitato da sensazioni per me del tutto nuove e sconosciute, ma a dir poco magnifiche. Tesi le mie braccia verso di lui ed egli vi si abbandonò. Lo serrai al petto con la forza di una tigre e le nostre labbra si unirono di nuovo, con passione, con furore, mentre le mani di lui salivano lungo il mio corpo fino ad arrivare a sfiorarmi il seno.

Avevo caldo, caldissimo, mi sembrava che scorresse lava nelle mie vene al posto del sangue, e tutto quello che desideravo era tenere Carlos stretto contro di me, vicino a me, di modo che non potesse mai lasciarmi sola. Cominciai a sbottonargli i pochi bottoni ancora chiusi della camicia bianca, ed egli se la tolse, prima di distendersi nuovamente sopra di me e cominciare a passarmi le labbra sul collo. Mi lasciai sfuggire un gemito, e mi inarcai ancora di più verso di lui, desiderosa di far aderire completamente i nostri corpi.

Fu allora che sentii qualcosa di duro e palpitante premere contro il mio fianco, ed il mio corpo reagì istintivamente diventando rigido come un blocco di marmo. Ricordai la mia prima notte di nozze con Oliver ed il dolore lacerante che avevo provato quando lui era entrato dentro di me. Sentii che avevo completamente perso il controllo di me stessa e che stavo arrivando ad un punto di non ritorno ed ebbi paura. La lava nelle mie vene si trasformò in ghiaccio, ed il sogno nel quale avevo vissuto fino a quell’istante si tramutò in pochi secondi in un incubo.

Carlos si accorse dell’improvvisa angoscia che si era dipinta sul mio volto, divenuto pallido e stravolto, e si allontanò per un istante da me, con espressione smarrita. Ne approfittai per alzarmi in piedi di scatto, dopo aver raccolto da terra tutte le mie forcine. Respiravo affannosamente e volevo con tutte le mie forze allontanarmi da quella spiaggia il più velocemente possibile. Carlos raccolse la sua camicia e se la infilò, continuando a fissarmi senza capire cosa mi era accaduto nel giro di qualche rapidissimo istante. Gli rivolsi un’ultima occhiata, completamente sconvolta, e poi fuggii con un gemito. Corsi il più velocemente che potevo, sentendomi addosso lo sguardo di lui, e solo quando fui arrivata a pochi metri dall’ingresso di Villa Hutton mi fermai, cercando di ricompormi prima di rientrare in casa.

Mi rassettai la gonna ed i capelli meglio che potei e cercai di inspirare profondamente per far cessare il violento tremito delle gambe. Entrai dentro casa sforzandomi di non fare rumore, terrorizzata all’idea di cosa avrebbero potuto pensare mio marito, o anche qualcuno della servitù, vedendomi in simili condizioni. Non sembrava esserci nessuno nei paraggi, e tirai un sospiro di sollievo. Mi stavo avviando lentamente verso le scale che conducevano alla mia stanza da letto, quando vidi la porta della sala da pranzo aprirsi e scorsi l’inconfondibile sagoma vestita di nero della signora Martin comparire sulla soglia. In preda all’angoscia, corsi il più velocemente possibile su per la scalinata, mentre la vecchia, udito il rumore, alzò immediatamente lo sguardo, fortunatamente senza riuscire a vedermi. Mi precipitai lungo il corridoio più velocemente che potei, temendo che ella potesse decidere di seguirmi, ed entrai come una furia nella mia stanza, chiudendo a chiave sia la porta affacciata sul corridoio sia quella che metteva in comunicazione la mia camera con quella di mio marito, perché proprio non avrei saputo come fare ad affrontarlo se quella sera avesse deciso di venire da me.

Appoggiata contro lo stipite della porta, ripresi ad inspirare profondamente nel tentativo, quasi completamente vano, di riprendere il controllo di me stessa e delle mie emozioni. Non riuscivo a scacciare dalla mia mente l’immagine di Carlos, dell’espressione dolce e penetrante dei suoi occhi scuri, del suo corpo muscoloso e levigato, e continuavo mio malgrado ad evocare la struggente sensazione delle sue carezze e dei suoi baci appassionati, desiderando riviverli con una forza che quasi mi terrorizzava. Mi chiesi cosa mi avesse spinto a scappare in quel modo, se fosse stata la paura di avere un contatto intimo con un uomo dopo la terribile esperienza con Oliver o se fosse stato il senso di colpa nei confronti di mio marito. Ero stata ad un passo dal tradirlo con un cameriere, pensai inorridita da me stessa, eppure, anche se ero devastata dal senso di colpa, una parte di me pensava con rimpianto alle magnifiche sensazioni provate tra le braccia di Carlos e desiderava quasi correre nuovamente da lui.

No, non dovevo neanche pensarlo. Dovevo stare alla larga da Carlos Santana e mandarlo al diavolo se avesse nuovamente tentato di avvicinarsi a me in quel modo. Io ero la padrona e lui il mio servitore, questo era l’unico legame che poteva esistere fra di noi, nient’altro. Ciò che era accaduto quella notte sulla spiaggia era stato solamente un colossale errore, e fortunatamente ero riuscita a fermarmi in tempo, prima di commettere qualcosa di irreparabile. Non sarebbe accaduto mai più. Ero la moglie di Oliver, e l’unico uomo che aveva il diritto di sfiorarmi era mio marito…anche se lui non mi aveva mai baciato o accarezzato come aveva fatto Carlos.

Andai nella mia stanza da bagno e cominciai a far scorrere l’acqua calda nella vasca, versandovi sali da bagno profumati alla lavanda. Volevo cancellare dalla mia pelle i segni dei baci e delle carezze di Carlos, lavare via il suo odore, sperando che l’acqua portasse via anche il desiderio che ancora avevo di lui e del suo tocco così speciale.

Mi spogliai e mi immersi nella vasca colma fino all’orlo, assaporando la sensazione di beatitudine che mi dava lo scorrere dell’acqua sulla mia pelle nuda. Ma quando chiusi gli occhi per rilassarmi completamente, fu nuovamente l’immagine di Carlos a comparire nella mia mente, con quello sguardo carico di desiderio che pareva uscito da un sogno, e che invece era stato reale…

 

Fine quinto capitolo

 

Dedico questo capitolo a tutte le persone che mi hanno commentato e recensito! Scusate se sono lenta nell’aggiornare le mie fanfic, ma purtroppo ho ricominciato a studiare e ho poco tempo libero a disposizione. Dopo il 4 ottobre spero di tornare ad essere più solerte! Un bacione a tutti!

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Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO SESTO

 

Trascorsi una notte praticamente insonne, combattuta tra il rimorso per essere arrivata ad un passo dal tradire mio marito, dopo poco più di una settimana di matrimonio, e la nostalgia delle calde ed appassionate braccia di Carlos Santana. Continuavo a girarmi e rigirarmi nel letto senza riuscire a trovare pace, e più di una volta sorpresi me stessa, con somma indignazione, a fantasticare su come sarebbe stato trascorrere la notte insieme a Carlos anziché nella mia stanza, da sola e senza riuscire a dormire. Mi sentivo veramente meschina a formulare certi pensieri, degni di una sciocca adolescente alla prima cotta e non di una donna sposata, ma per quanto mi sforzassi non riuscivo ad allontanarli dalla mia mente.

Era l’alba quando decisi di alzarmi dal letto e prepararmi per scendere dabbasso, sperando con tutto il cuore di riuscire a mantenere il mio proposito e di rimanere il più possibile alla larga dal bel cameriere sudamericano che aveva destato in me un simile turbamento. Mi guardai allo specchio e notai che avevo veramente una brutta faccia. Ero pallida e tirata e avevo gli occhi cerchiati da profonde occhiaie violacee, sicuramente regalo della notte passata completamente in bianco. Mi sciacquai con attenzione il viso, decisi di lasciare i capelli sciolti e cominciai a truccarmi con cura, nella speranza di riuscire a mascherare il più possibile le tracce della mia insonnia. Non avrei sopportato un altro sguardo di commiserazione da parte della signora Martin.

Indossai una sottana bianca a pieghe ed un golfino rosa, misi il piccolo girocollo di perle che mi era stato lasciato in eredità dalla mia povera mamma, e che aveva un valore più affettivo che economico, e scesi di sotto decisa a rilassarmi con una passeggiata in giardino prima della colazione.

Quando arrivai in salotto però ebbi la sorpresa di trovare seduto sul mio divano Tom Becker, intento a leggere un quotidiano con espressione assorta. Indossava un paio di pantaloni beige ed un pullover a rombi e portava un paio di occhiali da vista che gli davano un’aria vagamente intellettuale. Non appena udì il rumore dei miei passi, alzò lo sguardo dal giornale che stava leggendo e mi rivolse un sorriso luminoso e pieno di calore.

-Buongiorno, signora Hutton. Accomodatevi, venite a tenermi compagnia. Sono venuto per discutere di alcuni affari con Oliver, ma mi hanno detto che sta ancora dormendo e ho deciso di aspettarlo qua in salotto-, mi disse affabilmente, facendomi cenno di entrare. Non doveva capitare tutti i giorni di imbattersi in una padrona di casa che rimaneva immobile sulla soglia del proprio salotto come una domestica impaurita in attesa del permesso per entrare, pensai con amarezza e rabbia verso il mio carattere irresoluto, ma Tom Becker non me lo fece pesare e si rivolse a me con squisita gentilezza. Accettai volentieri il suo invito, perché quell’uomo mi era davvero simpatico. Era l’unica persona che mi avesse offerto senza riserve la sua amicizia e gliene ero profondamente grata.

Sfoderando il migliore dei miei sorrisi, andai a sedermi proprio di fronte a lui, decisa a mostrarmi almeno davanti al socio in affari di mio marito come una donna brillante e socievole. Almeno con Tom non sarebbe stato difficile, visto che sapeva come mettermi a mio agio.

-Vedo che siete mattiniero, signor Becker-, gli feci notare, usando il tono più allegro che mi riuscì.

Egli mi sorrise. –Mi piacciono le prime ore del mattino. C’è come un’aria particolare, che mi fa sentire felice, ma non saprei dirvi il perché. Non mi immaginavo che voi foste mattiniera invece…sarà che Oliver è sempre stato un vero dormiglione!-, e rise. Aveva una risata davvero piacevole, argentina ma non volgare.

Mi venne spontaneo ridere insieme a lui. –Quando vivevo con mia zia, non mi era consentito essere una dormigliona. Comunque non mi sveglio quasi mai all’alba, ma stanotte non ho dormito bene, quindi eccomi qua-, spiegai, complimentandomi con me stessa per la disinvoltura che stavo mostrando.

-Come vi trovate qua a Villa Hutton, Kathleen?-, domandò improvvisamente Tom, guardandomi dritta negli occhi con un’espressione diretta che mi sorprese non poco.

Avrei voluto dirgli che andava tutto benissimo e che non ero mai stata così felice in vita mia, ma dinnanzi alla sincerità di quello sguardo non fui capace di mentire, e mi lasciai sfuggire un profondo sospiro carico di preoccupazione. –E’ più difficile di quello che mi aspettavo, a dire il vero-, ammisi, chinando il capo per evitare che il signor Becker si accorgesse che i miei occhi erano diventati improvvisamente lucidi.

Tom sospirò ed il suo sguardo si fece tutt’ad un tratto triste. –Lo temevo, sapete, fin da quando Oliver mi scrisse per comunicarmi che si era risposato. Immagino che vi riferiate soprattutto alla signora Martin e ad Amy-, disse in tono tranquillo, guardandomi con aria estremamente comprensiva.

Per un attimo provai l’irrefrenabile impulso di confidarmi con lui e di dirgli che era l’atteggiamento di mio marito a farmi stare male, più che tutto il resto, di dirgli che sapevo che mi aveva sposata solo perché assomigliavo a Patricia e sperava perciò che un giorno potessi diventare una donna come lei, raccontargli della nostra squallida prima notte di nozze e della freddezza con cui lui mi trattava, ma mi trattenne la lealtà verso l’uomo che avevo sposato. In fondo, Tom era il migliore amico di Oliver e non sarebbe stato corretto sfogarmi proprio con lui a proposito di mio marito. Avrei messo anche Tom in una situazione imbarazzante e mi sarebbe dispiaciuto, visto quanto era stato gentile e disponibile nei miei confronti. Così mi limitai ad annuire, serbando tutti quei tristi pensieri dentro di me.

-La signora Martin mi odia-, mormorai, dando voce all’altra spina che avevo nel cuore, il palese risentimento della governante, decisa a rendermi in ogni modo la vita impossibile.

Tom mi sorrise con aria rassicurante. –Dovete darle tempo, Kathleen-, mi disse in tono dolce, -ha allevato Patricia fin da quando era bambina e l’amava come una figlia. Perderla è stato terribile, un vero shock, e pensate a quanto possa essere difficile per lei vedere un’altra donna al suo posto-.

-Lo capisco-, dissi tristemente, -ma non è solo questo. Quella donna mi odia, vi dico, e non avrà pace finché non mi avrà scacciata per sempre da Villa Hutton-.

-Sciocchezze!-, esclamò il signor Becker. –Ora siete voi la legittima moglie di Oliver e nessuno vi scaccerà da qui. Vostro marito non lo permetterà-, cercò di tranquillizzarmi, nonostante la mia espressione in quel momento fosse decisamente scettica.

-Mio marito non mi ama!-, stavo per gridare, quando udii un rumore di passi nel corridoio e vidi proprio Oliver fare il suo ingresso nel salone. Ringraziai mentalmente Dio per avermi trattenuto dentro quelle terribili parole ed abbozzai un sorriso in direzione di mio marito, che però non mi degnò neanche di uno sguardo e si limitò a salutare stancamente Tom, prima di sedersi sul divano proprio accanto a me. Sperando che non avesse ascoltato la conversazione tra me e il suo socio, scrutai ansiosamente la sua espressione, e rimasi piuttosto sconvolta nel notare che aveva uno sguardo ancora più stanco e tirato del mio, che era pallidissimo e aveva l’aria di non dormire da secoli. Provai una stretta al cuore, e mi chiesi se quello stravolgimento non fosse la conseguenza del terribile giro di visite del giorno prima.

-Ti senti bene?-, gli domandai in tono preoccupato.

Oliver si voltò verso di me e mi rivolse un pallido sorriso. –Sì, solo non ho dormito molto bene stanotte. Forse abbiamo esagerato a fare tutte quelle visite in un giorno. Oppure avevi ragione tu, era troppo presto-, disse con un profondo sospiro.

Gli strinsi affettuosamente una mano, sperando di riuscire a trasmettergli l’amore che nonostante tutto provavo per lui, ma non ebbi la reazione che speravo. Mio marito si limitò a sorridermi con gratitudine, e poi si rivolse a Tom domandandogli il motivo della sua presenza a Villa Hutton a quell’ora del mattino.

-Dovevo discutere con te di un affare importante, Oliver. C’è un piccolo problema da risolvere, e finché non sistemiamo questa faccenda è tutto bloccato-, disse Tom, assumendo immediatamente un tono professionale che mi riempì di ammirazione e tirando fuori alcuni documenti dalla valigetta che aveva con sé.

L’espressione di Oliver si fece seria, mentre esaminava i documenti che il socio gli aveva porto con occhio critico. –Andiamo a discuterne nel mio studio, e poi faremo colazione tutti insieme-, disse infine, alzandosi in piedi e dirigendosi fuori dal salotto.

Tom si alzò per seguirlo. –A dopo, Kathleen-, mi disse cortesemente, rivolgendomi un altro dei suoi gradevoli sorrisi.

Sorrisi anch’io, in modo del tutto spontaneo. –A dopo-, risposi, mentre osservavo i due uomini dirigersi verso lo studio di mio marito, che si trovava a pochi passi dal salotto, e una volta entrati richiudersi la porta alle spalle.

Una volta rimasta da sola, decisi di mettere in atto il proposito che avevo formulato prima e mi avviai verso il giardino. Cominciai a passeggiare lungo il viottolo, cercando di tenere il più possibile la mente sgombra dai pensieri, anche se mi fu impossibile non interrogarmi sul motivo per cui Oliver non era riuscito a dormire. Con tremenda angoscia, mi chiesi se non si fosse pentito di avermi sposata. Probabilmente le visite del giorno prima gli avevano fatto capire con assoluta chiarezza che non sarei mai riuscita a diventare come Patricia e che quindi era del tutto inutile continuare a vivere al mio fianco. Del resto, era impossibile anche l’idea di divorziare, sarebbe stato uno scandalo fin troppo grande per quella tranquilla cittadina di provincia, e Oliver non sarebbe stato in grado di sopportarlo. Era evidente che comunque mio marito era infelice al mio fianco, altrimenti non avrebbe avuto quell’aria così tirata e sofferente…proprio come l’avevo io, perché anch’io non potevo certamente dirmi felice, anzi. La felicità era quanto di più lontano potesse esistere dal mio attuale stato d’animo, e ormai, nonostante l’ottimismo che mi aveva accompagnata all’inizio del mio matrimonio, cominciavo a disperare che sarei mai riuscita ad essere felice a Villa Hutton. Forse restando insieme io e Oliver ci saremmo fatti solamente del male a vicenda. Forse il nostro matrimonio era stato davvero un terribile errore, altrimenti non si spiegava come fossi potuta finire così facilmente tra le braccia di Carlos Santana, un uomo di cui sapevo solamente che era sudamericano, che non parlava e che lavorava come domestico nella casa di mio marito. Magari dovevo andarmene, proprio come desiderava la signora Martin, in fondo ero ancora giovane e avrei potuto rifarmi una vita, accanto ad un uomo che mi amasse per quello che ero e non perché somigliavo alla sua perduta moglie. Ma sapevo con certezza che non avrei mai trovato il coraggio di farlo. Ci avevo già pensato nei giorni precedenti, e avevo concluso che non sarei mai riuscita ad abbandonare Oliver e quello che ormai lui rappresentava per me: la mia famiglia, l’unico punto di riferimento che avessi al mondo. Non sarei mai stata in grado di badare a me stessa, avevo bisogno di qualcuno al mio fianco che mi aiutasse ad affrontare il mondo e senza Oliver sarei stata perduta, proprio come una barca in balia della tempesta…che straordinaria, drammatica coincidenza che mi fosse venuto in mente proprio questo paragone. Una barca in balia della tempesta…così si era spenta Patricia, così se n’era andata questa creatura perfetta, amata da tutti, di cui io ero solo un’inutile ed inadeguata sostituta. Potevo continuare a vivere così per il resto dei miei giorni? Potevo sopportare di essere costantemente disprezzata da coloro che mi circondavano solo perché non ero un’altra persona, ma ero io, Kathleen Hutton? No, non potevo, ma non potevo neanche abbandonare l’unica casa e l’unica famiglia che avessi al mondo. Non ce la facevo, avevo bisogno di mio marito come dell’aria che respiravo, forse perché continuavo disperatamente ad amarlo, forse perché una famiglia era quello che desideravo sopra ogni altra cosa. Cosa dovevo fare? Ribellarmi, fare in modo che le persone che mi circondavano imparassero ad accettarmi per quello che ero, anche se ero diversa da Patricia? Era l’unica possibilità che avevo per riuscire a sopravvivere in quell’ambiente. Ma ci sarei mai riuscita? Il mio carattere timido, indeciso ed irresoluto non mi era certo di aiuto. Sarebbe stato tutto più facile se avessi saputo di poter contare sul sostegno incondizionato di mio marito, ma Oliver era il primo a non amarmi per quello che ero realmente, e forse sarebbe stato il primo ad opporsi se avessi deciso di mostrare la mia vera personalità, senza più sforzarmi di essere un’imitazione, comunque sempre malriuscita, di Patricia. La testa mi stava per scoppiare, continuavo a pormi domande senza riuscire ad avere delle risposte, continuavo a tormentarmi senza riuscire a trovare una soluzione che mi permettesse di liberarmi dalle angosce che mi attanagliavano e di uscire da una situazione che stava diventando per me sempre più insostenibile.

Ero talmente persa nei miei pensieri da non rendermi conto che le mie gambe, come spinte da una volontà propria, si stavano dirigendo nuovamente verso la spiaggia, e proprio come era successo la sera prima, me ne accorsi soltanto quando udii il rumore delle onde che si spegnevano sulla battigia e che si frangevano contro le alte scogliere.

Solitamente il mare aveva un effetto rilassante su di me, ma quel mattino vedere la spiaggia mi portò immediatamente alla memoria gli eventi della sera precedente, quel che stava per accadere tra me e Carlos, e venni immediatamente assalita dal panico. Decisi di invertire immediatamente la mia direzione di marcai e di fare ritorno verso la Villa, quando, proprio come la notte prima, vidi una figura comparire praticamente dal nulla e camminare velocemente verso di me.

Era proprio lui, Carlos. Vestito esattamente come la sera prima e con gli stessi occhi neri e penetranti che mi guardavano intensamente.

Volevo andarmene via, il più lontano possibile da quella spiaggia, ma nuovamente le mie gambe sembravano come paralizzate e non obbedivano agli ordini lanciati dal mio cervello. Intanto Carlos si avvicinava sempre di più, senza mai smettere di guardarmi, ed era ovvio che entro pochi istanti sarebbe stato proprio di fronte a me. Come potevo sperare di resistergli, se già sentivo il cuore in tumulto e tutto il mio essere sembrava quasi liquefarsi davanti all’intensità di quello sguardo incandescente?

Carlos era ormai a pochi metri da me, quando finalmente riuscii a trovare la forza di liberarmi dall’incantesimo che pareva avermi incatenata su quella spiaggia e ad andarmene. Cominciai a correre a perdifiato, più veloce che potevo, in direzione della Villa, senza mai voltarmi perché sapevo che, se mi fossi voltata, mi sarei precipitata senza un istante di ripensamento tra le sue braccia, implorandolo di farmi provare nuovamente quelle magnifiche sensazioni che mi aveva regalato la notte prima sulla spiaggia, e che mi avevano fatto sentire per la prima volta che valeva la pena di essere viva solo per poter ricevere le sue carezze.

Per tutto il tempo in cui correvo, fui consapevole dello sguardo di Carlos fisso su di me, dei suoi occhi neri che mi scrutavano sperando che io trovassi il coraggio di tornare indietro e di fare quel che realmente desideravo fare. Ma non lo feci. Non tornai indietro, e solo quando fui arrivata a pochi passi dall’ingresso della Villa mi voltai, sperando che egli non mi avesse seguita. Non c’era nessuno dietro di me. Tirai un sospiro di sollievo e mi sforzai di ricompormi, ma sobbalzai violentemente quando mi voltai nuovamente in direzione della casa e mi trovai di fronte, appollaiata sulla scalinata di marmo come un avvoltoio, la nera figura della signora Martin. Con somma ansia, la vidi scrutare le mie guance arrossate, il mio respiro affannato dalla lunga corsa e le mie scarpe impolverate dalla sabbia sottile della spiaggia.

-Vi sentite male, signora?-, chiese con quel suo tono mellifluo che avevo cominciato a detestare, almeno quanto lei detestava la mia presenza.

Scossi precipitosamente la testa, sperando che ella non sospettasse neanche lontanamente il motivo del mio turbamento. Strano, ma ero più terrorizzata all’idea che la signora Martin scoprisse ciò che era accaduto tra me e Carlos che all’idea che lo scoprisse mio marito. Quella donna era capace di suscitarmi un terrore che andava oltre le mie aspettative…forse per il palese odio che ella nutriva nei miei confronti, forse perché a pelle avvertivo che ella non aspettava altro che l’occasione propizia per distruggermi definitivamente e sbarazzarsi di me.

-No, grazie, signora Martin. Va tutto bene-, risposi, fingendo una sicurezza ed una disinvoltura che erano quanto di più lontano esistesse dal mio reale stato d’animo in quel momento.

La vecchia mi scrutò con aria dubbiosa, ma preferì non insistere. –La colazione sarà servita tra pochi minuti. Il signor Hutton e il signor Becker sono ancora nello studio-, disse, riassumendo con incredibile rapidità la sua espressione gelida ed impassibile.

-Perfetto. Grazie, signora Martin-, ripetei, passandomi nervosamente una mano tra i capelli nel tentativo, decisamente malriuscito, di celare il mio nervosismo. Oltrepassai la vecchia governante e mi avviai verso la mia stanza, decisa a darmi una sciacquata veloce al viso prima di colazione, perché era ovvio che non potevo presentarmi in quello stato davanti a mio marito e a Tom. Mi lavai il viso con foga, mi risistemai il trucco e mi sedetti sul letto inspirando profondamente e ripetendomi che l’unica cosa da fare era stare il più lontana possibile da Carlos Santana, visto l’effetto sconvolgente che mi faceva.

Quando mi sentii più tranquilla, mi ravviai i capelli col pettine e mi apprestai a scendere di sotto, ma avvertii qualcosa dentro di me che mi spinse ad affacciarmi alla finestra. Proprio lì sotto, nel giardino, vidi Carlos, con le mani infilate in tasca e lo sguardo rivolto verso l’altro…non ci voleva molto per capire che stava guardando proprio verso di me. Sentii nuovamente un tuffo al cuore e le mie gambe si fecero molli quando i nostri occhi si incrociarono per un istante, che fu poco più di una frazione di secondo, ma che a me parve un tempo infinitamente lungo. Tirai con violenza le tende, sperando con quel gesto di cancellare anche dalla mia mente la sua immagine, e mi avviai con passo rapido e deciso verso la sala da pranzo, dove già erano arrivati Oliver e il signor Becker, ancora intenti a discutere animatamente di lavoro.

Ci sedemmo tutti e tre a tavola, mentre Frank entrava con il carrello della colazione e la sua solita espressione compunta, ossessivamente identica a se stessa ogni singolo giorno dell’anno. Cominciò a servirci, mentre i due uomini continuavano a parlare dell’importante affare che stavano per concludere ed io giocherellavo nervosamente con il tovagliolo, come una bambina annoiata. Frank mi versò del the nella tazza, ed io gli domandai se per cortesia potevo avere un po’ di latte. Il maggiordomo annuì con deferenza e suonò un minuscolo campanellino d’argento che portava seminascosto nella tasca della sua divisa. Immediatamente, come se si fosse trattato di un gioco di prestigio, la porta della cucina si aprì…e non fu Daniela o la signora Martin a comparire come mi sarei aspettata, ma proprio Carlos. Mi sentii improvvisamente avvampare e subito dopo gelare, e mi affrettai a distogliere lo sguardo per rivolgerlo verso la mia tazza di the, mentre Frank diceva al cameriere che la signora desiderava un bricco di latte. Guardai di sfuggita in direzione di Carlos, e lo vidi annuire e rientrare in cucina senza un attimo di esitazione. Anch’egli mi guardò di sottecchi, con quei suoi occhi neri e penetranti che sembravano giungere fino al centro del mio cuore e del mio corpo. Scomparve dalla mia vista per qualche istante, e poi me lo ritrovai accanto mentre mi porgeva il bricco di latte che avevo richiesto.

-Grazie-, farfugliai imbarazzata, allungando la mano per prenderlo nella speranza che Frank non si accorgesse del mio turbamento.

Le nostre dita si sfiorarono, ed avvertii come una scossa elettrica propagarsi lungo tutto il mio corpo. Istintivamente ritrassi la mano, e il bricco di latte finì a terra andando in mille pezzi.

-Oh cielo!-, balzai in piedi, contrita e profondamente imbarazzata. Frank mi fissò con espressione sbalordita, probabilmente chiedendosi come fosse potuta accadere una cosa simile, e anche Oliver e Tom smisero per un istante di parlare e guardarono verso la mia direzione per capire cosa fosse successo. Rossa in viso come un peperone, mi chinai a terra per raccogliere i frammenti del bricco, ma Carlos, che era stato l’unico a non mutare affatto espressione dopo il piccolo incidente, mi fermò con un cenno deciso della mano e prese a raccoglierli lui uno per uno con estrema delicatezza, continuando a guardarmi di sottecchi con un’intensità che non faceva che accrescere la mia intima agitazione.

-Scusatemi, io sono mortificata! Non capisco come sia potuto succedere!-, esclamai mortificata, torcendomi nervosamente le mani e guardandomi intorno con espressione colpevole, come una bambina che era stata appena colta in fallo.

Carlos abbozzò un sorriso come per dire che non era accaduto nulla di irreparabile e anche Oliver mi guardò con aria rassicurante. –Stai tranquilla, Kat. Era solo uno stupido bricco!-, mi tranquillizzò, allungando una mano per stringere la mia e confortarmi.

Tornai a sedermi sforzandomi di apparire rasserenata e lasciai che mio marito mi accarezzasse affettuosamente la mano, ma non riuscivo a staccare i miei occhi da Carlos, che nel frattempo aveva finito di raccogliere i cocci e si era rialzato in piedi. Senza staccare il suo sguardo del mio viso, ci salutò con un cenno del capo e ritornò in cucina, da dove uscì pochi istanti dopo con un altro bricco colmo di latte. Stavolta però non me lo diede in mano, ma con un sorriso malizioso lo appoggiò direttamente sul tavolo, rivolgendomi uno sguardo dolce come una carezza che mi fece ribollire il sangue nelle vene.

La colazione riprese come se quel piccolo incidente non si fosse mai verificato, ma io stentavo a riacquistare il controllo di me stessa. Mentre mangiavo svogliatamente, fingendomi interessata ai discorsi di Oliver e Tom, continuavo a lanciare di sfuggita delle occhiate in direzione della cucina, nel timore di vedere ricomparire Santana da un momento all’altro. Ma egli non si fece più vedere, e appena terminata la colazione, dopo che mio marito e il suo socio furono tornati al lavoro, corsi a rinchiudermi nella mia stanza, decisa con ancora più convinzione a stare alla larga da Carlos Santana e dai suoi occhi così dannatamente uguali a dei tizzoni ardenti.

 

Trascorse così una settimana durante la quale feci l’impossibile per evitare di incontrare Carlos, riuscendo però nel mio intento. Non osai più fare richieste durante la colazione o il pranzo, temendo che Frank potesse chiamare proprio lui, e nel corso delle lunghe e solitarie passeggiate con le quali tenevo occupate le mie giornate evitai accuratamente di recarmi alla spiaggia. Talvolta, affacciandomi alla finestra, lo scorgevo che passeggiava in giardino e fissava ostinatamente nella mia direzione, ma quando ciò accadeva tiravo le tende e mi immergevo nella lettura di un libro, o correvo a farmi un bagno caldo, qualunque cosa che mi impedisse di pensare, e soprattutto di pensare a lui.

Pian piano, cominciai a sentirmi serena e tranquilla, e anche a vedere la mia vita da un punto di vista più ottimista. Non avevamo ricevuto visite, né Oliver aveva più parlato di andare a trovare qualcuno dei vicini, con mia grande gioia. Avevo evitato il più possibile di rivolgere la parola alla signora Martin, ed ella aveva rispettato questa mia volontà: continuava a guardarmi con i suoi occhi gelidi e carichi d’odio ogni volta che mi incrociava, ma sembrava per lo più ignorarmi proprio come io ignoravo lei. Mi ero tenuta alla larga dall’ala occidentale di Villa Hutton e soprattutto dalla stanza di Patricia e non erano più arrivate lettere o notizie da Julian ed Amy Ross. L’unica persona che veniva a trovarci alla Villa era Tom Becker, con il quale si stava instaurando giorno dopo giorno uno splendido rapporto di amicizia che mi rendeva molto soddisfatta. Anche con mio marito le cose sembravano andare meglio, era meno distaccato e freddo nei miei confronti e qualche volta mi aveva persino accompagnato nelle mie passeggiate in giardino. Dopo la prima notte di nozze non aveva più messo piede in camera mia, e mi dicevo che questo non aveva poi una gran importanza e che era meglio lasciare tempo al tempo. Un po’ mi rattristava la totale mancanza di baci ed affettuosità da parte sua, e non posso negare che talvolta, durante le mie notti solitarie, mi ritrovavo a pensare a mio malgrado alla passione con cui Carlos mi aveva tenuto fra le braccia quella notte in spiaggia, ma poi mi dicevo che era molto meglio dormire sola che subire un’altra volta un’umiliazione cocente come quella della prima ed unica notte passata con Oliver. Notte alla quale cercavo il più possibile di non pensare, perché era una ferita ancora aperta nel mio cuore.

Insomma, trascorse una settimana abbastanza serena, senza particolari scossoni, e giunse una splendida domenica di sole. Io e mio marito uscimmo a fare colazione in giardino, sotto una grande quercia millenaria che, mi raccontò Oliver, era lì prima ancora che la Villa venisse costruita. Il bel tempo aveva un effetto positivo su di me e quel giorno mi sentivo particolarmente di buon umore. Ero quieta, tranquilla, quasi felice e la vita sembrava schiudersi davanti a me carica di promesse. Stavo sorseggiando il the in assoluto relax, quando mio marito mi disse che riteneva fosse giunto il momento che io conoscessi sua madre.

Mi irrigidii per un istante, assalita da tutta una serie di timori uno più fosco dell’altro. La prospettiva di conoscere la madre di Oliver, ossia mia suocera, mi intimoriva non poco. Temevo di non farle una buona impressione e di nuovo mi assalì la paura di essere messa a confronto con Patricia e di uscirne sconfitta…proprio ora che il suo fantasma stava lentamente cominciando a svanire dalla mia mente, e stava cessando di rappresentare per me un’ossessione! Avrei voluto rifiutare quest’incontro, ma non sapevo me farlo senza offendere la sensibilità di mio marito…dopotutto, si trattava di sua madre, ed era evidente che egli le era molto legato!

Poi però ricordai quello che Oliver mi aveva raccontato di sua madre…ricordai che la povera signora Hutton era rimasta paralizzata in seguito ad una caduta da cavallo, e mi sentii veramente meschina per aver provato timore al pensiero di incontrarla. Era doveroso da parte mia, come moglie di Oliver, andare a porgere i miei saluti a quella donna così sfortunata. Così accettai e quel pomeriggio, dopo pranzo, io e mio marito ci mettemmo in viaggio per andare a trovare sua madre, che abitava a pochi chilometri di distanza da Villa Hutton insieme ad un’infermiera personale e ad una governante che l’accudivano.

La zona in cui viveva Maggie Hutton era molto tranquilla e verdeggiante. La sua casetta era linda e graziosa e sorgeva in un minuscolo paesino in periferia a pochi passi da un grande bosco. L’arredamento dell’abitazione era semplice e confortevole, e anche il giardino era ben curato. Venne ad aprirci l’infermiera, la signora Hayes, una donna alta e robusta dall’aspetto franco e cordiale, con i capelli castano scuro tagliati corti e due grandi occhi color grigio metallico.

-Benvenuti. Vi porto subito dalla signora-, ci disse in tono spiccio, stringendoci vigorosamente le mani e facendoci strada fino al salotto. Maggie Hutton si trovava lì, seduta sulla sua sedia a rotelle sistemata accanto alla portafinestra che dava sul giardino, di modo che ella potesse godere della luce del sole. Indossava una vestaglia rosa di seta e aveva sulle gambe un plaid. Appena sentì il rumore della porta che si apriva, si voltò incuriosita e il suo volto pallido e smagrito si illuminò quando riconobbe suo figlio.

-Oh, Oliver! Finalmente sei tornato da me!-, esclamò con voce carica di commozione, tendendo le braccia scarne verso il figlio, che si precipitò ad abbracciarla e la baciò amorosamente su entrambe le guance.

Io non osai avvicinarmi e rimasi timorosa sulla soglia a fianco della signora Hayes, guardando con attenzione mia suocera. Assomigliava moltissimo ad Oliver, e doveva essere stata proprio una bella donna quando era ancora in salute. Il suo corpo conservava ancora un vago sentore di quella che doveva essere stata una figura snella ed elegante, i lineamenti del suo viso erano minuti e regolari, aveva dei bellissimi occhi castani ancora molto espressivi, una bella bocca dalle labbra carnose e i capelli ricciuti, ora tagliati cortissimi, dovevano essere stati un tempo folti e rigogliosi. Quando si staccò da suo figlio, guardò in direzione della porta con espressione stupida, e poi rivolse a mio marito un’occhiata interrogativa. Egli le sorrise e mi fece cenno di avvicinarmi. Andai timidamente verso di loro e abbozzai un sorriso in direzione della signora Hutton, che intanto mi stava scrutando da capo a piedi, evidentemente anch’ella colpita dalla mia somiglianza con la defunta nuora.

-Questa, mamma, è mia moglie Kathleen-, mi presentò Oliver, mettendomi una mano sulla spalla.

-Lieta di conoscerla, signora-, dissi educatamente, chinandomi verso di lei per baciarla affettuosamente su una guancia.

Maggie si lasciò baciare, ma continuò a fissarmi con aria dubbiosa. –Non sapevo che ti fossi sposato-, esclamò accigliata, guardando alternatamente me e suo figlio come se ci fosse qualcosa che non riusciva a capire.

-Beh, ho voluto farti una sorpresa! E ora ti ho portato mia moglie!-, replicò mio marito imperturbabile, continuando a tenermi la mano sulla spalla, un gesto rassicurante che apprezzai moltissimo, anche perché ero molto nervosa e sentivo che le gambe cominciavano a tremarmi mio malgrado.

-Devo dire che è stata davvero una sorpresa. Comunque, sedetevi, mia cara…Kathleen, vero? Oh, sei sempre il solito briccone, Oliver! Sedetevi, cara, e lasciatevi guardare meglio! Siete davvero un fiore di ragazza!-, disse la signora, con uno sguardo più affabile e materno che mi rassicurò. L’infermiera ci raggiunse con passo svelto e porse a me e mio marito due sedie, sulle quali ci accomodammo. Anche la signora Hayes si sedette a fianco di Maggie, tenendole una mano appoggiata sulla maniglia della carrozzella.

-Visto che sorpresa vi ha fatto il vostro figliolo?-, disse con il suo tono bonario e semplice.

-Già! Comunque me ne rallegro…era tanto tempo che non lo vedevo più sorridere, ora invece mi sembra sereno!-, ribatté mia suocera in tono allegro, battendomi affettuosamente una mano sul ginocchio.

Cominciai a sentirmi rinfrancata dalla sua accoglienza e le sorrisi con spontaneità, mentre Oliver le raccontava come ci eravamo conosciuti in Normandia e della nostra improvvisa decisione di diventare marito e moglie.

-Sentito che storia romantica, eh, Maggie? Quel che si dice un colpo di fulmine!-, commentò scherzosamente la signora Hayes, ridendo in maniera piuttosto rumorosa.

-Davvero! Non pensavo…comunque sono contenta…Ma parlatemi un po’ di voi, Kathleen-, mi sollecitò la signora Hutton.

Presi timidamente a raccontarle di come era stata la mia vita prima di conoscere suo figlio. Le parlai dei miei genitori, della mia infanzia trascorsa con loro nel West e della loro straziante perdita. Gli occhi di mia suocera si inumidirono quando le raccontai della morte di mio padre e mia madre, mi parve sinceramente commossa e provai un empito di affetto per quella donna così evidentemente buona e dolce. Poi le parlai di zia Audrey, della cugina Elizabeth e della vita che avevo condotto in Europa insieme a loro, finché non avevo conosciuto Oliver e ci eravamo sposati.

-Beh, ve lo siete proprio meritata, bambina! Avete sofferto così tanto-, esclamò Maggie asciugandosi gli occhi con un lembo della sua vestaglia, e anche la rude signora Hayes mi sembrava colpita dal mio racconto.

-E dimmi, Oliver…le hai già presentato tuo cugino Julian?-, domandò poi la signora rivolgendosi a suo figlio.

-Sì, mamma. Lui ed Amy sono venuti a trovarci poco dopo il nostro ritorno a Villa Hutton-, rispose Oliver, mentre io mi irrigidivo impercettibilmente sentendo nominare la signora Ross.

-Come stanno Julian ed Amy? E i bambini?-, domandò Maggie, e Oliver cominciò a parlarle della famiglia di suo cugino. Io rimanevo ad ascoltare in silenzio, e intanto apprendevo che Julian e sua moglie avevano due figli di sei e quattro anni, un maschietto e una femminuccia, e che la bambina era piuttosto cagionevole di salute e dava frequenti preoccupazioni ai suoi genitori.

In quel momento udimmo aprirsi la porta di ingresso ed una signora di mezz’età, bassa e rotondetta, si affacciò sulla soglia del salone per salutarci. Era la signora Winnicott, la governante che insieme alla signora Hayes si occupava di mia suocera. Maggie le chiese di prepararci il the e la signora scomparve immediatamente in cucina. Rimasi colpita da quella donna, anche se l’avevo vista solo per un attimo, perché aveva un’espressione così bonaria e materna…ben diversa da quella gelida e scostante della signora Martin.

-Speriamo che Melanie si riprenda presto-, sospirò la signora Hutton, appoggiando stancamente il capo sullo schienale della sua seggiola a rotelle.

-E gli affari come vanno, signor Hutton?-, domandò l’infermiera, con il tono confidenziale consentito solo alle persone che si conoscono da ormai lungo tempo.

Oliver prese allora a raccontarle delle trattative che stava conducendo con il suo socio, il signor Becker, mentre sua madre teneva gli occhi chiusi e pareva assopirsi. Ricordai che mio marito aveva detto che sua madre, oltre ad essere paralizzata, ogni tanto perdeva la lucidità, ma a me la signora Maggie sembrava perfettamente lucida e cosciente.

Oliver stava ancora discorrendo con la signora Hayes, quando la signora Winnicott fece il suo ingresso nel salotto con il carrellino del the. Preparò quattro tazze e le riempì fino all’orlo, poi batté lievemente sul braccio della signora Hutton, che aprì gli occhi e prese con un sorriso la tazzina dalle mani della sua governante.

Mentre sorseggiava il suo the, prese a guardarsi intorno, e quando il suo sguardo cadde su di me, il suo volto assunse una strana espressione.

-Mia cara, voi abitate a Villa Hutton ora?-, mi chiese, con un tono secco ben diverso da quello bonario che aveva utilizzato con me fino a pochi istanti prima.

Rimasi un po’ stupita da questo cambiamento così repentino, ma risposi di sì con tranquillità.

Maggie parve accigliarsi. Guardò con aria interrogativa verso suo figlio. –Come mai?-, gli domandò, con una voce dalla quale trapelava un’assoluta meraviglia.

Anche Oliver parve stupito. –Ma che domande fai, mamma?-, chiese meravigliato.

-Vive a Villa Hutton perché ora lei e il signor Oliver sono sposati, Maggie-, intervenne la signora Hayes in tono dolce, sistemando il plaid sulle gambe dell’invalida.

La signora Hutton inarcò violentemente le sopracciglia. –Sposati? Ma che diamine andate dicendo? È impossibile!-, gridò in tono stizzoso, poggiando violentemente la tazza sul piattino, con un tale impeto che alcune gocce di the le schizzarono addosso, macchiandole la vestaglia di seta rosa.

Impallidii violentemente ed istintivamente guardai in direzione di mio marito, ma anche lui pareva non comprendere che cosa stesse succedendo a sua madre.

-Chi è questa ragazza? Io non la conosco! Oliver! Dov’è Patricia? Che ne hai fatto di lei?-, quasi urlò rivolgendosi a suo figlio e travolgendolo con un fiume di parole.

Rimasi immobile come se mi avesse colpita un fulmine, mentre mio marito fissava sua madre come impietrito, con gli occhi sbarrati e le labbra tremanti. –Mamma…Patricia è…-, farfugliò a fatica, come se fosse troppo per lui riuscire a dire “Patricia è morta”.

-Dov’è Patricia? Dov’è? Chi è questa ragazza? Le assomiglia ma non è lei! Io voglio Patricia! VOGLIO LA MIA PATRICIA!-, gridava intanto la signora Hutton, dibattendosi in preda ad una vera e propria crisi isterica.

La fissai impressionata. Il suo volto era diventato paonazzo, i lineamenti del tutto sconvolti, aveva gli occhi fuori dalle orbite ed iniettati di sangue e si agitava sulla sedia a rotelle come se fosse stata posseduta dal demonio. La signora Winnicott cercava in tutti i modi di tenerla ferma, mentre l’infermiera frugava in una grande scatola del pronto soccorso, con espressione preoccupata. Alla fine estrasse una siringa carica di un liquido biancastro e fece cenno alla governante di scoprire il braccio della signora, che intanto continuava a dimenarsi con tutte le sue forze, con un’energia insospettabile in un corpo così minuto e provato. Iniettò il liquido nella vena di Maggie ed ella parve immediatamente calmarsi e si afflosciò sulla carrozzella come un fantocci di pezza.

-Mi dispiace che abbiate dovuto assistere a questo increscioso episodio, signora. Purtroppo ogni tanto le prendono questi brutti attacchi-, si scusò la signora Hayes in tono contrito.

Non riuscii a dire neanche una parola in risposta. Guardai il viso pallido della signora Hutton, che continuava a respirare affannosamente e a tremare, e sentii le sue grida riecheggiarmi nella mente come un eco impazzito. Lei non voleva me, voleva Patricia…la sua Patricia. Era apparsa gentile e disponibile all’inizio, ma era bastato un momento perché tutto si cancellasse…nel suo cuore, nella sua memoria, io non ero presente. Ero una perfetta estranea per lei. Era Patricia l’unica moglie di suo figlio che lei riconosceva.

Razionalmente mi rendevo conto che non dovevo dare un gran peso a quel che era successo, perché la signora Maggie era malata e non era lucida quando aveva avuto l’attacco isterico, ma questo non impediva che mi sentissi profondamente ferita ed amareggiata.

-Scusate!-, esclamai, e corsi via, fuori da quella casa. Arrivata al cancello del giardino, mi ci appoggiai e cominciai a piangere. Un pianto più di rabbia che di dolore, con il quale maledicevo la sfortuna che sembrava continuare ad accanirsi contro di me, proprio quando speravo di essere riuscita a trovare finalmente un barlume di serenità.

Mio marito mi raggiunse e mi mise un braccio intorno alla vita, stringendomi a lui. –Mi dispiace-, mi sussurrò all’orecchio, mentre appoggiava la testa sulla mia spalla.

Scossi la testa, senza riuscire a smettere di piangere. –Non è colpa tua-, sussurrai con voce spezzata, sentendo che neanche il suo conforto riusciva a lenire in alcun modo la mia amarezza.

-Avevo dimenticato…quanto ella fosse affezionata a Patricia…andavano sempre a cavalcare insieme, prima che mia madre avesse l’incidente-, disse, quasi rivolto più a se stesso che a me. –Ti chiedo scusa-.

Sentivo che Oliver era veramente dispiaciuto, ma in quel momento non me ne importava niente. Mi stava abbracciando e mi teneva stretta a lui, era il primo gesto spontaneo di affetto che avesse mai avuto nei miei confronti…ma io non provavo assolutamente nulla. Il vuoto, l’indifferenza più totale.

Era come se mio marito fosse per me un perfetto estraneo.

Ero completamente sola.

 

Fine sesto capitolo

 

Oggi dev’essere successo un miracolo…ben due capitoli in una giornata! Wow!^__^

Volevo inoltre comunicare ai miei lettori che, fino al 4 ottobre, data in cui terminerò finalmente i miei esami (si spera!), andrò avanti probabilmente solo con questa fanfic, perché ho pochissimo tempo a disposizione a causa dello studio. Spero di riuscire a scrivere più capitoli possibile, ma fino a quella data non garantisco nulla. Per quanto riguarda l’altra mia ff “Per amore, per denaro e per vendetta” e il seguito attesissimo di “On the road” (non me ne sono dimenticata, non temete!^__^) purtroppo dovrete aspettare fino alla metà circa di ottobre, quando avrò, si spera, più tempo libero da dedicare alle fanfiction!

Un bacione e un ringraziamento a tutti!

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo settimo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO SETTIMO

 

Quella notte, mio marito tornò nella mia stanza per la prima volta dopo tanto tempo. Ancora sconvolta dagli eventi del pomeriggio, avevo dimenticato di chiudere a chiave la porta che metteva in comunicazione le nostre due camere da letto prima di coricarmi, ed era passata da poco la mezzanotte quando la sentii aprirsi con un rumore secco. Anche se avevo gli occhi chiusi, non stavo affatto dormendo, e li spalancai immediatamente, giusto in tempo per vedere Oliver che si infilava sotto le coperte e si sdraiava al mio fianco, cingendomi la vita con un braccio e appoggiando la testa sulla mia spalla.

Mi sorpresi io stessa della totale indifferenza che provavo e non osai muovermi. Oliver continuò ad accarezzarmi dolcemente. –Kat, sei sveglia?-, mi sussurrò all’orecchio, ma io non risposi. Il ritmo accelerato del mio respiro tuttavia mi tradì, e in pochi istanti mi ritrovai mio marito sopra di me, che armeggiava per togliermi la camicia da notte.

Con un sospiro, decisi di lasciarlo fare. Stavolta egli fu più dolce dell’altra volta, vagamente più affettuoso, ma ero io ad essere completamente non partecipe. Non provavo neanche lontanamente le sensazioni che avevo sperimentato sulla spiaggia con Carlos, mi sentivo vuota e apatica e desideravo solamente che tutto finisse al più presto e che Oliver se ne andasse, lasciandomi di nuovo da sola. Non avvertivo dentro di me nessun calore, nessuna dolcezza, neppure quando sentii che Oliver era arrivato all’orgasmo. Rimasi immobile e muta per tutto il tempo, fissando il soffitto e chiedendomi come mai mio marito era diventato nel giro di una giornata un estraneo ai miei occhi.

Finalmente quella tortura finì. Oliver mi guardò con una strana, indefinibile espressione dipinta sul volto e con gli occhi velati di tristezza, ma non disse nulla. Si limitò a darmi un bacio sulla guancia augurandomi la buonanotte, prima di fare ritorno nella sua stanza. La sua andatura china e mesta mi riportò alla mente quella del giorno in cui avevamo compiuto insieme il primo giro di visite di cortesia, e capii che anche lui stava provando la stessa desolazione che sentivo io dentro di me.

Quando la porta si fu richiusa alle spalle di mio marito, accesi la piccola abat-jour che stava sul mio comodino e alzandomi dal letto andai a guardarmi allo specchio. Con la camicia da notte bianca e i capelli sciolti ed arruffati sembravo una bambina, molto più giovane della mia età. Mi osservai a lungo, con attenzione. Quella ero io. Quella era Kathleen. La donna del ritratto era un’altra persona, era Patricia, ed io non sarei mai potuta diventare lei. Me lo aveva fatto capire chiaramente la signora Hutton con il suo grido disperato. “Le somiglia molto, ma non è lei! Voglio la mia Patricia!”, aveva urlato in preda all’isteria, e le sue parole avevano squarciato il velo che mi ottenebrava la vista e mi avevano svelato inesorabilmente la verità. Potevo sforzarmi, mascherarmi, recitare e fingere di essere un’altra persona con me stessa e con gli altri, ma in realtà sarei sempre rimasta io e non mi sarei mai trasformata in Patricia, nella vera Patricia che tutti avevano amato e che ora rimpiangevano. Oliver era venuto nella mia stanza quella notte sperando di consolarmi, di ripagarmi con un’ora di amore (ammesso che quel che era successo tra noi potesse veramente essere chiamato così) della sofferenza che mi avevano arrecato le parole di sua madre, ma non c’era stato calore né tenerezza tra di noi, ogni giorno che passava eravamo sempre più estranei, sempre più distanti e questo mi faceva male, male da morire. Ero stata disposta a diventare un’altra persona pur di salvare il mio matrimonio, senza accorgermi che così invece lo stavo distruggendo definitivamente.

Mi accarezzai lentamente una guancia, sospirando. Ora basta. Basta fingere, basta lottare contro il fantasma di una donna che era morta, morta e sepolta. D’ora in poi sarei stata solamente me stessa, Kathleen Hutton. Gli altri avrebbero dovuto accettarmi per quello che io ero, compreso mio marito. Patricia era morta e la legittima signora Hutton ero io.

 

Il mattino dopo mi svegliai sentendomi serena e ristorata. Indossai un paio di jeans e una maglietta di cotone e lasciai i capelli sciolti. Quando mi guardai allo specchio, riconobbi finalmente la vecchia Kathleen di un tempo, che negli ultimi tempi pareva essere scomparsa nel nulla, e fui davvero soddisfatta dalla mia immagine riflessa. Scesi dabbasso per la colazione canterellando allegramente e raggiunsi Oliver in sala da pranzo. Lo trovai come sempre intento a leggere il suo giornale, con quell’espressione distaccata che ormai era diventata talmente abituale e scontata da non farmi più stare male. Lo salutai con voce allegra. Mi sentivo sicura di me, un’altra persona. Era così bello essere se stessi, pensai, chiedendomi come avessi potuto anche solo concepire l’idea di diventare una donna che non ero.

-Ho una fame!-, esclamai in tono brioso, sedendomi a tavola proprio di fronte a mio marito.

Oliver sollevò gli occhi dal quotidiano e mi guardò con aria stupita e vagamente accigliata. Immaginavo che non avrebbe apprezzato il mio abbigliamento, troppo casual per la soffocante raffinatezza di Villa Hutton, ma non me ne importava nulla. –Buongiorno, Kat. Ti vedo di buon umore stamattina-, commentò pacatamente.

Sorrisi. –Sì. Mi sento proprio bene-, dissi, sostenendo il suo sguardo carico di disapprovazione con aria quasi di sfida. Con mia grande soddisfazione, fu lui ad abbassare gli occhi per primo.

Mi aspettavo da parte sua un qualche commento sul mio abbigliamento, o sull’evidente cambiamento rispetto al giorno prima, ma Oliver invece non disse nulla e restammo in silenzio finché non entrò Frank con il carrello della colazione.

Tutto si svolse esattamente come le altre mattine, ma ero io a sentirmi diversa. Mi pareva quasi di rinascere, di ritornare alla vita dopo un lungo periodo trascorso completamente in oblio. Mangiai di gusto la mia colazione e mentre sorseggiavo il mio the proposi a mio marito di accompagnarmi a fare una passeggiata fino alla spiaggia.

-Verrei volentieri, Kat, ma purtroppo non posso. Ho molto lavoro da sbrigare-, rispose invece Oliver, senza nemmeno alzare gli occhi dal suo piatto.

Avvertii un pizzico di delusione, ma reagii con una scrollata di spalle. –Oh beh, peccato! Vorrà dire che andrò da sola!-, dissi tranquillamente, imburrandomi un’altra fetta biscottata.

-Quindi ti sei vestita comoda per passeggiare-, commentò Oliver fingendo un disinteresse che in realtà contrastava con l’espressione nervosa dei suoi occhi.

Lo guardai mostrandomi trasecolata. –No. Mi sono vestita così perché questi sono gli abiti che mi piace indossare-, risposi, addentando pacatamente la mia fetta.

Il viso di mio marito fu percorso da un fremito, ma egli rimase imperturbabile. –Capisco ma…sarebbe sconveniente se arrivasse qualcuno e ti trovasse vestita così, cara Kat-, mi fece notare Oliver, con un lampo di disapprovazione nei suoi occhi castani.

-Sconveniente?-, replicai allibita. Era dunque sconveniente che io fossi me stessa, che smettessi di essere una pallida imitazione di Patricia? Non potevo crederci, era a dir poco inaudito.

-Sì, insomma…siamo una famiglia molto in vista qui nella contea e da noi ci si aspetta una certa classe. Se i vicini venissero in visita e trovassero mia moglie con quei pantaloni addosso, come una qualunque ragazzetta di provincia…beh, sarebbe un danno alla nostra immagine. Al prestigio della famiglia, della Villa-, farfugliò mio marito imbarazzato.

Non riuscivo davvero a credere alle mie orecchie. Praticamente mio marito mi stava accusando di danneggiare il prestigio degli Hutton, e solamente perché avevo smesso di camuffarmi come se stessi imitando Patricia. Il mio intuito femminile mi diceva che era una bugia, che la realtà era che Oliver non accettava la mia decisione di essere finalmente me stessa e di smetterla di atteggiarmi a pallida imitazione della sua prima moglie. Lui voleva che mi sforzassi di assomigliare il più possibile a Patricia, affinché potesse continuare a crogiolarsi nell’illusione di averla ancora al suo fianco, ma io non avevo più intenzione di farlo. Io ero così, e se i vicini di casa mi consideravano una qualunque ragazzetta di provincia, beh, non me ne importava nulla. Ero io la donna che mio marito aveva scelto di sposare e quindi doveva accettarmi per ciò che ero realmente. E se non voleva farlo, poteva pure andarsene al diavolo. Non intendevo continuare a trascorrere il resto dei miei giorni nella finzione solamente per elemosinare da lui una briciola di quell’amore che molto probabilmente non era neanche in grado di amarmi. E comunque, volevo essere amata per me stessa, per quello che io, Kathleen Hutton, rappresentavo, e non perché ero la brutta copia di una donna perfetta che non esisteva più.

-Mi dispiace, Oliver, ma io intendo vestirmi come mi pare e piace. Non me ne importa nulla di quello che possono pensare gli abitanti della contea, e non penso che i miei pantaloni possano intaccare sul serio il prestigio della tua famiglia-, risposi seccamente. Scostai la sedia dal tavolo e mi alzai, fissando mio marito con occhi fiammeggianti. Oliver sembrava a dir poco allibito, stentando a riconoscere nella giovane donna battagliera che gli stava di fronte la ragazza timida e sottomessa che aveva sposato a Dover. –Ora se vuoi scusarmi, ho finito la mia colazione e vado a passeggiare. Buon lavoro!-, aggiunsi, e senza attendere la sua risposta me ne andai in fretta e furia dalla sala da pranzo.

Mentre mi avviavo verso il portone della Villa, incrociai la signora Martin, che stava scendendo in quel momento dalle scale, ma non la degnai nemmeno di un’occhiata. Uscii con passo svelto e risoluto, senza lasciarmi scomporre dallo sguardo gelido ed attonito allo stesso tempo della governante che mi sentivo chiaramente addosso. Quando fui sul vialetto che conduceva in direzione della spiaggia, inspirai profondamente e mi complimentai con me stessa per l’atteggiamento che avevo tenuto con mio marito nella sala da pranzo. Finalmente avevo smesso di essere una bambola priva di volontà. Ero stanca di subire umiliazioni ed ingoiare rospi senza dire o fare nulla, di sentirmi in colpa solo perché non ero Patricia. Non era giusto, e non lo avrei mai più tollerato.

Continuai a camminare a ritmo sostenuto, finché non raggiunsi la spiaggia ed inspirai a fondo la fresca brezza salmastra, che mi regalò la consueta sensazione di benessere e di tranquillità. Un cauto ottimismo si fece largo nel mio cuore. Si sarebbe tutto sistemato. Presto coloro che mi stavano attorno avrebbero cominciato ad apprezzarmi per quello che ero. Dovevo solo dimostrare, in qualche modo, che non ero inferiore a nessuno, nemmeno alla mitica Patricia. E al diavolo le lamentele di mio marito sui miei vestiti, e anche l’ostilità della signora Martin! Potevo vivere benissimo anche senza l’amicizia di quella donna, che tra l’altro non mi era neanche simpatica.

Raggiunsi la scogliera e mi sedetti, lasciando che gli spruzzi delle onde che si frangevano contro gli scogli salissero fino a schizzarmi il viso. Chiusi gli occhi per godermi a fondo quella sensazione di pace e di beatitudine, e per la prima volta da quando ero arrivata a Villa Hutton mi sentii quasi felice. Quando riaprii gli occhi, vidi qualcuno uscire dall’acqua e mi meravigliai, perché sapevo che era tutt’altro che sicuro fare il bagno nella baia, date le forti correnti che agitavano le acque. Dalla meraviglia passai poi all’agitazione, quando riconobbi il torace muscoloso di Carlos Santana, che era appena emerso incredibilmente simile ad un dio greco, con il fisico possente cosparso di goccioline d’acqua, i capelli bagnati e spettinati ed indosso solo un paio di slip bianchi. Sentii il cuore arrestarsi per un istante e poi cominciare a battere a ritmo forsennato. Trattenni istintivamente il respiro, sperando che Carlos non si accorgesse di me. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo corpo così perfetto ed attraente, ed una vaga sensazione di eccitazione si stava lentamente ed inesorabilmente impossessando di me. Dovetti ricorrere a tutto il mio autocontrollo per non assecondare il desiderio di strapparmi di dosso i vestiti e correre a gettarmi in acqua insieme a lui. Era sbagliato, assurdo, completamente folle, ma volevo quell’uomo. Lo volevo con un’intensità che mi spaventava, fin dal primo momento in cui l’avevo visto, anche se solo in quel momento, vedendolo uscire dall’acqua come un’apparizione, avevo trovato il coraggio di ammetterlo a me stessa. Era assurdo, continuavo a ripetermi febbrilmente, ricordando a me stessa che ero sposata ed innamorata di mio marito, ma questo non riusciva a far cessare la dirompente attrazione fisica che provavo nei confronti del bel cameriere sudamericano, un’attrazione che non avevo mai provato per nessun altro in vita mia, nemmeno per Oliver.

Carlos prese a camminare lentamente lungo la riva e andò a distendersi sul bagnasciuga, reclinando il capo all’indietro. Era così sensuale che credetti di morire, mentre il mio respiro diventava sempre più affannoso e le mie mani si aggrappavano disperatamente agli scogli per impedirmi di precipitarmi da lui all’istante e di implorarlo di fare l’amore con me. Lo desideravo terribilmente, ma non potevo farlo, la mia coscienza me lo vietava severamente. Come avrei potuto, dopo essermi abbandonata a lui, tornare a casa e guardare in faccia mio marito, senza sentirmi la più orrenda delle sgualdrine? Avevo appena deciso di cominciare una nuova vita, e non potevo inaugurarla con un tradimento. Dovevo resistere a tutti i costi, anche se per me era una tortura, per quanto deliziosa, osservare i gesti di abbandono di Carlos, del tutto inconsapevole del mio sguardo fisso su di lui, e pensare che non avrei mai potuto toccarlo, e che mai più avrei potuto assaporare le sue inebrianti carezze ed i suoi baci appassionati.

In quel momento Carlos, come se avesse in qualche modo percepito la mia presenza, o forse chissà, magari aveva avvertito l’intensità del mio sguardo fisso su di lui, si voltò nella mia direzione e mi vide. Immediatamente, un sorriso compiaciuto si dipinse sul suo volto bruno e affascinante, e sventolò una mano per salutarmi. Arrossii furiosamente, come una bambina colta in fallo, e alzai timidamente una mano per ricambiare il suo saluto. Per un attimo ebbi paura che si alzasse e mi raggiungesse, e già tremavo al pensiero che probabilmente non sarei riuscita a resistergli se egli mi avesse anche solo sfiorato. Inconsciamente però mi rendevo conto che era quello che volevo, che lui venisse da me e mi prendesse appassionatamente tra le braccia, e questi desideri contraddittori mi gettavano in uno stato di profondo turbamento.

Tuttavia, non accadde nulla. Carlos continuò come niente fosse a starsene disteso sul bagnasciuga, poi, quando si fu asciugato, recuperò i suoi vestiti che aveva lasciato a pochi metri dalla riva, si rivestì con gesti estremamente lenti e sensuali e se ne andò in direzione della capanna a pochi metri dalla Villa nella quale viveva, non prima di avermi nuovamente salutato con un cenno della mano. Nello sguardo che mi rivolse prima di allontanarsi, colsi chiaramente una sfumatura di rimprovero che mi lasciò interdetta per un attimo. Poi capii. Carlos desiderava che io lo raggiungessi, ma non lo avevo fatto. Non avevo trovato il coraggio di seguire la voce del cuore, che mi gridava di andare da lui. Non potevo seguirla. Non ero più una ragazzina. Ero una donna sposata e non potevo permettermi colpi di testa.

Rimasi ancora un po’ seduta sulla scogliera, finché non cominciai ad annoiarmi e allora decisi di fare ritorno verso casa. L’immagine di Carlos seminudo che usciva dall’acqua però era rimasta impressa a fuoco nella mia mente e non voleva andarsene, anzi, durante il pranzo continuava a sovrapporsi continuamente a quella seria e compassata di mio marito, che sedeva di fronte a me con addosso uno dei suoi impeccabili pullover e mangiava con esasperante lentezza, conversando del più e del meno. Erano due uomini completamente diversi. Oliver era un vero gentiluomo alla vecchia maniera, educato, elegante, raffinato, un uomo avvezzo a vivere nella migliore società e a seguire scrupolosamente le buone maniere e le convenzioni sociali. Carlos era rude, selvatico, passionale ed istintivo, un uomo da sempre abituato a vivere ai margini della società e ad occuparsi da solo di se stesso, un uomo che seguiva solamente i propri desideri e il proprio istinto e si disinteressava completamente della morale comune. Forse era proprio questo a renderlo così attraente ai miei occhi, il fatto che egli disprezzasse quelle rigide norme sociali dalle quali io mi sentivo ingabbiata, soprattutto ora che ero diventata la signora Hutton, la moglie di uno degli uomini più in vista di tutto il paese. L’irruente spontaneità di Carlos mi attirava perché in fondo l’invidiavo, perché anch’io avrei voluto essere come lui, libera come il vento, invece ero solamente una giovane donna timida e impacciata che trascorreva i suoi giorni nel tentativo di ottenere l’approvazione degli altri.

Pensavo che Oliver avrebbe in qualche modo cercato di proseguire, durante il pranzo, la discussione che avevamo cominciato quella mattina a proposito del mio abbigliamento, ma non fu così. La nostra conversazione fu come al solito monotona e senza slanci, uno scambio di battute piatto e banale come stava diventando il nostro matrimonio, malgrado tutti i bei sogni che avevo nutrito quando ci eravamo sposati. Forse era così per tutti. Dopo un po’ di vita in comune, l’abitudinarietà e la consuetudine prendevano il posto degli ideali romantici e ci si rassegnava ad una piatta convivenza, a parlare del più e del meno e ad alternare luoghi comuni a lunghi silenzi. Mi chiesi se anche per Oliver e Patricia fosse stato così, oppure se era la nostra unione a non funzionare. Magari era un matrimonio come tanti altri, e dall’esterno nessuno avrebbe dubitato che eravamo una coppia felice e soddisfatta, ma io non potevo fare a meno di sentirmi immensamente triste, perché dopo neanche un mese di matrimonio io e mio marito ci comportavamo già come se non avessimo più niente di nuovo ed interessante da dirci.

I nostri giorni trascorrevano così, sempre uguali. Oliver trascorreva tutta la giornata nel suo studio a lavorare, talvolta da solo, talvolta insieme a Tom Becker, le cui visite a Villa Hutton costituivano per me l’unico piacevole diversivo. Tra di noi si era instaurata una profonda amicizia, come se ci conoscessimo praticamente da sempre, e mi ero davvero affezionata a questo uomo mite, dolce e generoso. Quando veniva a trovare mio marito per questioni di lavoro, non mancava mai di trattenersi almeno un’oretta insieme a me per conversare e prendere il the insieme, e parlare con lui non era mai né banale né noioso. Mi raccontava di ricevimenti a cui aveva partecipato, dell’ultimo spettacolo che aveva visto a teatro, della partita a golf che aveva disputato e vinto contro il figlio del vescovo. Anch’io avrei voluto fare un po’ di vita sociale, partecipare a qualche festa o andare a teatro, ma Oliver sembrava non avere nessuna voglia di uscire dalla Villa e di vedere gente ed io non avevo abbastanza coraggio per insistere. Da quando avevo smesso di cercare di imitare Patricia, Oliver mi ignorava ogni giorno di più, parlandomi solo quando era strettamente necessario. Era venuto un altro paio di volte nella mia stanza, di notte, forse spinto più da un’esigenza fisiologica che da uno slancio amoroso nei miei confronti, ma i nostri frettolosi accoppiamenti al buio erano stati sempre profondamente deludenti per entrambi, e quando mio marito tornava nella sua camera lo sentivo passeggiare a lungo su e giù per la stanza inquieto. Io trascorrevo le mie giornate passeggiando nel giardino, leggendo o prendendomi cura dei fiori. Tutti i giorni mi recavo sulla scogliera, sperando segretamente di rivedere Carlos, ma non lo avevo più incontrato. Non lo avevo più visto nemmeno in Villa e, quando avevo domandato discretamente sue notizie a mio marito, mi era stato riferito che si stava occupando di alcuni lavoro di manutenzione presso l’abitazione della signora Maggie, mia suocera. Oliver era stato altre volte a visitare sua madre, ma non mi aveva più domandato di accompagnarlo e nemmeno io gliel’avevo chiesto.

Tutto procedeva così, ossessivamente sempre uguale, ed io mi sentivo allo stesso tempo serena e nauseata dalla piatta monotonia in cui si stava consumando la mia esistenza. Un mattino però arrivò un biglietto della signora Campbell, la moglie del vescovo, che annunciava che sarebbe passata a visitarci nel pomeriggio.

La notizia non mi diede alcuna gioia, anzi, il pensiero di riceverla mi era francamente insopportabile, ma non potevo certo dirle di non venire e così feci buon viso a cattivo gioco e salii nella mia stanza a cambiarmi. Indossai un grazioso abitino bianco che mi dava un’aria fresca e giovanile, mi truccai leggermente e, dopo aver preso in considerazione diverse acconciature, decisi di lasciarmi i capelli sciolti sulle spalle. Durante il pranzo Oliver, che si era mostrato ancora più scontento di me alla notizia della visita della signora Campbell, mi disse che era a dir poco oberato di lavoro e che pertanto non avrebbe potuto trattenersi a lungo a conversare con noi. Provai un moto di fastidio davanti a quell’abbandono da parte di mio marito e alla puerilità della scusa che aveva utilizzato per sottrarsi a quell’impegno che non entusiasmava neanche me, ma feci finta di nulla e con un sorriso gli assicurai che me la sarei cavata magnificamente anche da sola.

La moglie del vescovo arrivò verso le due del pomeriggio, con un orrendo cappellino verde con tanto di veletta e una mantellina adornata da piume di struzzo. Mi salutò calorosamente come se fossimo intime amiche da chissà quanti anni, in uno schioccare fragoroso di baci, avvolta in una nuvola di profumo dolciastro e nauseabondo. Oliver le strinse la mano dicendole che era davvero contentissimo di ricevere la sua visita, sfoderando un sorriso da vero e proprio attore consumato, che mi procurò un vago senso di nausea.

Feci accomodare la signora Campbell in salotto e le dissi di togliersi la mantellina. La signora Martin venne con solerzia a prenderla, e con tono spiccio le chiesi di portarci del the. La governante trasalì, perché non era abituata a ricevere ordini direttamente da me, ma obbedì senza battere ciglio e in pochi istanti fu di ritorno con il the che le avevo richiesto e un vassoio di biscottini appena sfornati dalla cucina, ai quali la nostra ospite fece decisamente onore.

Mio marito si trattenne con noi solo per pochi minuti, dopo di che si scusò con la signora dicendo che aveva un mucchio di lavoro da sbrigare e si ritirò nel suo studio lasciandoci sole. Per qualche istante calò un pesante silenzio sul salotto di Villa Hutton, ed io cominciai a mordicchiarmi nervosamente le unghie alla ricerca di qualcosa da dire, sperando di riuscire ad intavolare almeno uno straccio di conversazione. Ma non ci fu bisogno che mi lambiccassi troppo, perché la moglie del vescovo si lanciò pressoché subito in un’entusiastica descrizione del grande ricevimento che si era tenuto la settimana scorsa presso la grande residenza del giudice Osborne, uno dei più famosi notabili della contea, che avevo avuto il piacere, se così si può dire, di conoscere durante il primo ed ultimo terrificante giro di visite compiuto insieme a mio marito.

Fingendo un interesse che non provavo neanche lontanamente, ascoltai il resoconto della sontuosa cena preparata da uno dei più famosi chef di Londra, dei balli che si erano tenuti nel grande e lussuoso salone di Villa Osborne, degli abiti da sera elegantissimi delle signore presenti. C’era tutta l’alta società della contea, gli unici assenti eravamo io e Oliver, come mi fece notare la signora Campbell in tono di rimprovero.

-Ho incontrato il signor Becker al ricevimento, ma mi ha detto che voi e vostro marito non c’eravate. Francamente sono rimasta stupefatta, signora Hutton. Il signor Oliver non si era più fatto vedere in società dopo la disgrazia, ma ora le cose sono cambiate ed è anche un suo dovere nei vostri confronti farvi conoscere le persone che contano in questo posto. Sono certa che il giudice Osborne vi abbia spedito un invito, cara signora-, disse, squadrandomi attentamente con i suoi occhietti vispi e indagatori, pensando quasi sicuramente che dovevo essere stata io a rifiutarmi di prendere parte alla festa, forse per timidezza, o forse perché non possedevo un abbigliamento all’altezza, nonostante ora fossi la moglie di Oliver Hutton.

-Non sapevo nulla di questa festa, signora Campbell. Probabilmente l’invito ci è stato spedito, ma mio marito non me ne ha parlato. Ho discusso con lui un paio di volte sull’eventuale nostra partecipazione a qualche ricevimento, ma Oliver mi ha detto chiaramente che in questo momento non se la sente di prendere parte a feste o simili-, risposi in tono asciutto, decisa a non farmi intimorire dalla sfacciata curiosità della mia ospite.

La moglie del vescovo corrugò la fronte, con un’evidente aria di disapprovazione. –Capisco…ma se posso permettermi, vostro marito sbaglia. Ormai è ora che riprenda a vivere normalmente, soprattutto adesso che ha sposato voi! Purtroppo i morti non ritornano, per quanto noi possiamo rimpiangerli-, esclamò con sussiego, dimostrando ancora una volta una vera e propria mancanza di tatto.

Mi irrigidii istintivamente di fronte a questo malcelato accenno a Patricia, ma decisi di far finta di nulla e mi limitai a sospirare. –Sono d’accordo con voi, cara signora, ma non posso certo obbligare mio marito, non vi pare?-, dissi in tono rassegnato, sperando che ella si rassegnasse e si decidesse una buona volta a cambiare argomento.

Ma la signora Campbell pareva tutt’altro che intenzionata a chiudere il discorso. –No, naturalmente. Però sapete cosa potreste fare? Organizzare una bella festa qua, a Villa Hutton. Proprio come quei magnifici ricevimenti che si davano una volta, e che erano tanto apprezzati dalla gente del posto! Anzi, perché non ripristinate proprio il tradizionale ballo in costume? Era l’evento più atteso da tutto l’anno, venivano ospiti pure da Londra per prendervi parte. L’ultimo ballo, due anni fa, è stato veramente meraviglioso-, la sua aria si fece sognante ed i suoi occhi cominciarono a brillare, mentre ritornava con la memoria a quella evidentemente memorabile serata. –Mi sembra ancora di vedere la signora Patricia scendere dalla scalinata tutta vestita di bianco, con quella nuvola di capelli neri…oddio, scusate!-, esclamò poi contrita quando si rese conto della gaffe che aveva commesso, diventando improvvisamente pallide a portandosi una mano alla bocca. –Che sciocca a nominarla proprio di fronte a voi! Perdonatemi, signora Hutton!-

Pensavo che sarebbe stato terribile per me che qualcuno nominasse Patricia direttamente proprio in mia presenza, invece con mio sommo stupore mi resi conto che non provavo assolutamente nulla. Forse, ormai mi ero abituata al pensiero che Patricia fosse ancora viva nel ricordo di coloro che l’avevano conosciuta e amata, e che mai essi avrebbero potuto cancellarla, come se non fosse mai esistita. Rassicurai la mia ospite con un sorriso. –Non preoccupatevi. Sapete, questa del ballo in costume non è una cattiva idea, anche perché non ne ho mai visto uno in vita mia…ma non so se mio marito sarà d’accordo-, replicai, mentre la mia mente cominciava già ad elaborare febbrilmente l’idea. Una festa in mio onore, che mi consentisse di entrare ufficialmente in società come legittima moglie di Oliver Hutton. Il celebre ballo in costume, tanto decantato e rimpianto dagli abitanti del posto, da me ripristinato e personalmente organizzato…stando a quanto diceva la signora Campbell, tutti ne sarebbero stati felici, e questo sarebbe stato decisamente un punto a mio favore, che mi avrebbe aiutata ad ottenere la stima e l’approvazione della gente che contava nell’ambiente sociale di mio marito. Sarebbe stata una festa meravigliosa, proprio come ai vecchi tempi…nessuno avrebbe rimpianto i ricevimenti organizzati da Patricia, perché io avrei fatto l’impossibile per rendere quel ballo un autentico successo. L’idea era a dir poco meravigliosa e cominciavo a provare una sorta di infantile entusiasmo, mentre già mi vedevo scendere dalla scalinata agghindata con un meraviglioso costume, e tutti gli ospiti ad attendermi trattenendo il fiato per lo stupore, Oliver per primo. E poi io e lui al centro del salone, ad aprire le danze…e mio marito che sollevava una coppa di champagne al termine della cena, ringraziando tutti gli ospiti che erano intervenuti alla festa e chiedendo loro un brindisi in onore di sua moglie Kathleen, che era stata l’organizzatrice della serata. Già non stavo più nella pelle.

Avevo deciso. Volevo organizzare il ballo in costume, a tutti i costi. Anzi, mi sembrava che in quel momento non esistesse al mondo niente di più importante di quella festa. C’era solo un problema…ottenere l’approvazione di mio marito. Sapevo che non sarebbe stato facile, ma non ero intenzionata a cedere, e quando mi ci mettevo come testardaggine non ero proprio seconda a nessuno, nemmeno a Oliver Hutton.

-Sapete, mi avete quasi convinta, signora Campbell. Cercherò di convincere mio marito a ripristinare il ballo in costume-, dissi alla moglie del vescovo con una nuova luce negli occhi.

Il viso della mia ospite si animò ed un’espressione esultante si dipinse sulle sue labbra pesantemente truccate. –E’ un’idea splendida, cara signora! Vedrete, sarà una festa meravigliosa!-, esclamò tutta sdilinquita, e mi strinse le mani con un’enfasi che mi rese molto soddisfatta, perché rappresentava per me solo un’anteprima dei miei futuri successi in società.

Per tutto il resto del pomeriggio io e la signora discutemmo solo ed esclusivamente dell’organizzazione della festa e ricevetti da lei consigli molto preziosi, su chi contattare per la cena, per l’allestimento, per il costume da indossare. Mi sentivo entusiasta come una ragazzina che organizzava i festeggiamenti del suo compleanno e credo di non essere mai stata così allegra ed animata durante una conversazione come in quell’occasione. Fu quasi con rammarico che salutai la moglie del vescovo al termine della sua visita e prima che se ne andasse le promisi che il prima possibile le avrei mandato l’invito ufficiale per il primo ballo in costume della nuova epoca.

Quella sera stessa, a cena, decisi di affrontare la questione ballo con mio marito. Era meglio parlargliene ora che ero sulle ali dell’entusiasmo, e per nulla disposta ad accettare un suo rifiuto, che il mattino dopo, quando sicuramente sarei già stata assalita da chissà quante paranoie.

-Allora? Com’è andata oggi pomeriggio con la signora Campbell?-, mi domandò Oliver con tono tutt’altro che interessato, mentre si accomodava il tovagliolo sulle gambe.

Gli rivolsi il più smagliante dei miei sorrisi. –Benissimo. È stata una visita davvero piacevole. Tra l’altro, la signora mi ha dato veramente un’ottima idea-.

Mio marito parve piuttosto meravigliato dalla mia risposta. –Davvero? Sembra quasi incredibile. E dimmi, Kat, di che idea si tratta?-

Inspirai profondamente, cercando le parole più adatte per annunciargli la mia decisione. –Vedi, caro, ho deciso di ripristinare il ballo in costume a Villa Hutton-, dissi in tono tranquillo, preparandomi a sorreggere il suo sguardo con una determinazione che credo di non aver mai posseduto prima di allora.

Vidi i lineamenti del viso di mio marito contrarsi ed indurirsi e la sua mano tremare visibilmente mentre appoggiava il bicchiere sulla tavola, sforzandosi di non farlo cadere. –Come?-, chiese con voce affannata, come se avesse ricevuto chissà quale mazzata tra capo e collo.

Decisi di non lasciarmi intimorire dalla sua reazione. –Ho deciso di ripristinare il ballo in costume a Villa Hutton-, replicai, con aria quasi di sfida.

Oliver tirò un profondo respiro. –Non so se è una buona idea…non so se sono dell’umore giusto-, farfugliò imbarazzato, mentre cercava di lambiccarsi il cervello alla ricerca di una buona scusa per farmi recedere dalle mie intenzioni.

Io però non ero affatto intenzionata a lasciar cadere la mia idea, a costo di scontrarmi con lui. Organizzare quel ballo sembrava ormai essere diventata per me una questione di vita o di morte. –Beh, io invece lo sono-, dissi imbronciata, prima di concludere che forse quella non era la strategia migliore per ottenere il suo consenso. –Ti prego caro…non siamo mai andati ad una festa e io mi annoio tanto…non ho avuto una vera e propria cerimonia nuziale, e sarei tanto contenta di avere una festa in mio onore-, feci in tono supplichevole, accarezzando soavemente la mano ancora tremolante di mio marito e guardandolo con occhi imploranti. Mi vergognavo un po’ a comportarmi così, perché era la stessa tattica che adottavo da bambina quando volevo convincere mio padre a farmi un regalo, ma ero disposta a tutto pur di avere il mio ballo in costume.

La determinazione di Oliver parve vacillare, ed egli si morse un labbro, evidentemente preso tra due fuochi.

-Per favore-, insistetti, -la signora Campbell mi ha detto meraviglie di questo ricevimento. Mi ha detto che venivano da Londra apposta per parteciparvi. Ti prego, Oliver…ci tengo così tanto-.

Mio marito rimase qualche istante in silenzio, con la testa bassa e lo sguardo imbronciato, poi si lasciò andare ad un sospiro rassegnato. Esultai in cuor mio: l’avevo convinto dunque!

-E va bene. Hai ragione tu, Kat. Sei una sposa ed è giusto che tu abbia una festa in tuo onore. Organizzeremo il ballo in costume-, disse, senza però alcuna traccia di entusiasmo nella voce e nello sguardo.

Mi trattenni a fatica dal balzare in piedi e cominciare a saltellare intorno al tavolo per esprimere tutta la mia felicità. Rivolsi a mio marito un sorriso raggiante e gli strinsi con effusione la mano, mentre i miei occhi brillavano di gioia e gratitudine. Oliver mi rivolse un sorriso chiaramente forzato, ma in quel momento la cosa che più mi importava era averla spuntata.

Sarebbe stata una festa meravigliosa, ne ero certa, e anche mio marito si sarebbe dovuto ricredere e avrebbe dovuto ammettere che avevo avuto proprio una magnifica idea.

Non riuscii a chiudere occhio per tutta la notte tanto ero emozionata, non vedevo l’ora che arrivasse il mattino successivo per iniziare a dedicarmi ai preparativi per il ballo in costume. C’erano così tante cose da fare…compilare la lista degli invitati, chiamare il cuoco, il pasticcere e il fiorista, pensare agli addobbi, ai musicisti, affittare i camerieri…ero smaniosa di mettermi all’opera, certa che avrei sbalordito tutti, compreso Oliver, con la mia grande capacità organizzativa.

La mattina dopo mi alzai e preparai in fretta e furia e mi affrettai a raggiungere mio marito in sala da pranzo per la colazione. Quasi mi strozzai nell’inghiottire, ansiosa com’ero di cominciare a stendere gli inviti.

-Oggi inizierò i preparativi per il ballo-, annunciai ad Oliver, cercando di contenere il mio entusiasmo per paura di urtare troppo la sua suscettibilità, visto che ancora non sembrava apprezzare granché la mia idea.

-Ah sì?-, fece lui distrattamente, continuando come se niente fosse ad imburrare la sua fetta biscottata.

Rimasi un po’ delusa dalla sua reazione, ma decisi di non permettere alla sua indifferenza di smorzare il mio entusiasmo. –Sì. Penso proprio che partirò dalla lista degli invitati-, proseguii, sperando in qualche modo di riuscire a renderlo partecipe. Sarebbe stato bello se si fosse seduto a decidere con me chi invitare alla festa, a darmi dei suggerimenti su come formulare l’invito, sulla carta da lettere più bella e cose di questo genere.

-Capisco. Signora Martin!-, chiamò mio marito prendendomi alla sprovvista.

La signora Martin entrò immediatamente in sala da pranzo, con la sua consueta espressione compunta e distaccata. –Ditemi, signor Hutton-, disse con voce spenta, mentre io tentavo in tutti i modi di evitare di guardarla.

-Mia moglie ha intenzione di organizzare un ballo in costume a Villa Hutton, come ai vecchi tempi. Potete per cortesia procurarle la lista degli invitati? Non mi ricordo dove era stata messa l’ultima volta-, domandò Oliver con voce piatta ed incolore, mentre io mi irrigidivo al pensiero di utilizzare la lista che sicuramente era stata compilata da Patricia in persona.

Istintivamente guardai in direzione della signora Martin, e vidi scintillare nei suoi gelidi occhi neri un freddo disprezzo. Si capiva benissimo che per quella donna era oltremodo oltraggioso che io mi proponessi di organizzare un ricevimento in quella casa, come se fossi stata la padrona…ma certo che ero la padrona, mi dissi, sostenendo con alterigia lo sguardo duro e rabbioso della signora Martin, ero la padrona e avevo il diritto di organizzare tutti i balli e i ricevimenti che volevo.

-Sarà fatto, signore-, replicò la vecchia, continuando a fissarmi quasi con disgusto.

-Vi ringrazio, signora Martin. Vi aspetto in biblioteca dopo la colazione-, dissi io in tono sostenuto, mentre la mia impazienza di cominciare i preparativi aveva subito un duro colpo alla prospettiva di dover organizzare la mia festa insieme alla donna che mi odiava. Mi dissi comunque che non dovevo avere paura di lei. Io ero la padrona di casa e lei la governante. Non dovevo più permetterle di mettermi i piedi in testa e tantomeno di farmi sentire un’estranea in casa mia.

Terminata la colazione, mi recai in biblioteca e mi sedetti presso lo scrittoio. Presi un foglio bianco e cominciai a stendere, con la mia calligrafia minuta e un po’ contorta, i primi nomi sulla lista degli invitati. Il vescovo e sua moglie, ovviamente, e poi Tom Becker. Mi chiesi se fosse il caso di invitare Amy e Julian Ross, per concludere poi che mio marito si sarebbe senz’altro offeso se avessi tralasciato di invitare suo cugino, anche se immaginavo già quale sarebbe stata la reazione di Amy al mio invito…ne avevo già avuto una sorta di assaggio attraverso l’espressione rabbiosa e disgustata della signora Martin.

Presi a mordicchiarmi la penna nervosamente, cercando di farmi venire in mente altri nomi, quando la porta della biblioteca si aprì e la signora Martin entrò col suo passo lento e strascicato. Reggeva in mano un foglio di carta fittamente ricoperto di parole. Era scritto a mano con una calligrafia elegante ed arrotondata…sentii lo stomaco torcersi violentemente mentre mi rendevo conto che si trattava senz’altro della grafia di Patricia.

-Vi ringrazio, signora Martin-, dissi freddamente, prendendo la lista dalle mani della governante senza degnarla di uno sguardo. Mi aspettavo che ella se ne andasse immediatamente, invece la vecchia non si mosse e rimase immobile dietro la mia sedia con gli occhi fissi su di me.

Esasperata, mi girai a guardarla. –Desiderate qualcosa?-, le domandai cercando di usare un tono educato.

La governante si lasciò sfuggire un profondo sospiro carico di malinconia. –Io e la signora Patricia compilavamo sempre insieme la lista degli invitati quando si dava un ricevimento in questa casa-, mi disse con aria di rimprovero.

Mi morsi le labbra per mantenere il controllo di me stessa. –Capisco, ma io non sono la signora Patricia e preferisco compilare da sola la lista degli invitati, se non vi dispiace-, replicai freddamente, tornando a rivolgere lo sguardo sul mio foglio.

-Come volete-, fece con aria oltraggiata la signora Martin, e si avviò a capo chino verso la porta.

Aveva già una mano poggiata sulla maniglia quando si voltò e mi chiamò.

-Che c’è ancora?-, domandai bruscamente, fissandola accigliata.

-Mi chiedevo che costume avete intenzione di indossare per il ballo, tutto qua-, mi disse, assumendo un’aria molto più mansueta.

Rimasi spiazzata dalla sua domanda. Credevo che il mio costume fosse l’ultima cosa che le poteva interessare al mondo, data la sua ostilità nei miei confronti. –A dire il vero, non ci ho ancora pensato-, ammisi, domandandomi quale potesse essere la ragione del suo interesse.

-Capisco…-, mormorò la signora Martin, restando sempre immobile sulla soglia con espressione pensierosa. –Se posso darvi un consiglio, signora…-, riprese dopo poco, un po’ esitante, -perché non date un’occhiata alla grande galleria dei ritratti, al piano di sopra? Ci sono parecchi costumi interessanti…-

La mia meraviglia crebbe. La signora Martin che mi dava un consiglio? Roba da non credere. Dovevo ammettere però che non era un’idea malvagia quella che mi stava suggerendo…io non avevo neanche lontanamente pensato alla galleria dei ritratti, che Oliver mi aveva mostrato solo di sfuggita il giorno in cui ero arrivata alla Villa.

-Grazie del consiglio, signora Martin. Ci penserò-, risposi affrettatamente, ansiosa di congedarla. Anche se sembrava volesse aiutarmi, quella donna mi incuteva comunque un certo timore, e preferivo tenerla il più possibile alla larga da me.

-Tutti i quadri della galleria potrebbero essere dei bellissimi costumi-, proseguì invece ella, come se io non avessi aperto bocca. –Specie quello della giovane signora vestita di bianco, con il cappellino in mano…Comunque, volevo solo darvi un consiglio. Con permesso-, aggiunse, prima di aprire finalmente la porta ed andarsene dalla biblioteca.

Ero sollevata di essermi liberata finalmente di lei…ma dovevo ammettere che il suo consiglio aveva destato in me un certo interesse. La galleria dei ritratti…era un’ottima idea davvero…chissà qual era il ritratto della signora vestita di bianco, non mi veniva proprio in mente. La curiosità si impadronì di me all’istante e, senza pensarci due volte, accantonai momentaneamente la lista degli invitati e mi diressi verso la galleria al piano di sopra.

 

Fine settimo capitolo

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo ottavo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO OTTAVO

 

Vorrei dedicare questo capitolo a Sara, Fedechan, Betty, Lady Nanto, Scandros, Sheria, Luxy, Stormy, Chicca, Alex_kami, Reggina e Kla87 per ringraziarle del loro sostegno.

 

 

La galleria dei ritratti si trovava nell’ala occidentale di Villa Hutton, esattamente la stessa ala in cui era situata la stanza di Patricia. Per raggiungerla occorreva infatti attraversare tutto il corridoio sul quale si affacciavano le camere da letto.

In un’altra occasione mi sarei sentita profondamente angosciata al pensiero di dover nuovamente mettere piede in quell’ala della Villa, ma in quel momento ero così curiosa di vedere il ritratto di cui mi aveva parlato la signora Martin che quasi non ci feci caso.

Percorsi tutto il corridoio con passo rapido e leggerlo, oltrepassai la porta che lo divideva dalla galleria e, finalmente, entrai.

La galleria consisteva in un enorme salone interamente tappezzato di quadri, ciascuno dei quali rappresentava un membro della famiglia Hutton. Il primo ritratto risaliva addirittura ad oltre tre secoli prima, o almeno così mi aveva detto Oliver quando mi aveva mostrato sbrigativamente la sala. Entrai con passo leggero, profondamente emozionata, come se anziché in una stanza della mia casa mi fossi trovata in un luogo sacro, e mi soffermai rapidamente con lo sguardo su tutti i quadri, finché non trovai quello che stavo cercando. Il ritratto della giovane signora vestita di bianco di cui mi aveva parlato la signora Martin.

Rimasi a fissarlo a bocca aperta. Estasiata era un termine riduttivo per descrivere il sentimento che stavo provando in quell’istante, perché il quadro era davvero meraviglioso, non saprei dire se per la maestria del pittore o per l’incomparabile bellezza del soggetto che egli aveva ritratto. La giovane donna in questione si chiamava Alicia Marie Hutton ed era una trisavola di mio marito. Era una splendida ragazza dal volto solare e dal sorriso gioioso, che destava un sentimento di viva felicità nel cuore di chi osservava il suo ritratto anche solamente per un istante. Aveva un bellissimo viso ovale e dall’incarnato di porcellana, illuminato da due grandi occhi neri e da una sensuale bocca dalle labbra dipinte di rosa. Il suo sguardo era simpatico e sbarazzino, anche se le sue mani e il suo corpo erano atteggiati in una posa composta e dignitosa. Una nuvola di riccioli neri scomposti avvolgeva il suo volto e faceva risaltare ancora di più il candore delle sue vesti. Sì, perché Alicia Marie era vestita completamente di bianco. Indossava un abito di seta bianca semplice ed elegante allo stesso tempo, con le maniche a sbuffo e la gonna a palloncino, e in testa portava un grazioso cappellino, anch’esso candido come la neve.

Non riuscivo a staccare gli occhi dal ritratto, mentre la mia mente cominciava già a viaggiare avanti nel tempo. Mi figuravo con chiarezza la sera del famoso ballo in costume. Gli ospiti stavano cominciando ad arrivare ed in fondo alla scalinata che conduceva al salone dei ricevimenti mio marito, elegantissimo nel suo smoking, mi stava aspettando sorseggiando un brandy, probabilmente in compagnia di Tom Becker. Vedevo poi me stessa comparire in cima alla scalinata e cominciare a scenderla lentamente, con portamento aggraziato, mentre sul mio viso splendeva lo stesso sorriso felice che illuminava il bellissimo volto di Alicia Marie Hutton. La seta del mio abito bianco, identico fin nei minimi dettagli a quello del quadro, frusciava delicatamente ad ogni mio passo, mentre io reggevo la ricca gonna con le mani per evitare di inciampare. Potevo scorgere nitidamente gli occhi di mio marito illuminarsi mentre mi vedeva e l’ammirazione farsi strada nel volgere di pochi istanti sul suo volto solitamente così corrucciato. Lo vedevo sorridermi dolcemente e tendermi una mano non appena avevo terminato la mia trionfale discesa, per poi dirmi che ero bella e splendente come una regina, anzi, forse anche di più. Poi Oliver mi avrebbe condotto a braccetto nel salone e lì, con voce carica di orgoglio, mi avrebbe presentato come sua moglie a tutti i nostri ospiti, che mi avrebbero accolta con un clamoroso applauso, grati per aver restituito loro il divertimento più atteso della stagione. Io avrei tenuto un breve discorso, per salutare e ringraziare gli invitati della loro partecipazione, e avrei immediatamente conquistato l’ammirazione e la simpatia di tutti. Sarebbe stato il mio grandioso debutto in società e avrei ottenuto un successo straordinario, ne ero sicura. Il mio corpo fremeva già per l’eccitazione.

Avevo deciso. Mentre quel film si svolgeva ancora nella mia mente, chiaro e dettagliato come se stesse accadendo realmente e non fosse soltanto il frutto della mia immaginazione, avevo già deciso quale sarebbe stato il costume che avrei indossato per il ballo. Avrei fatto riprodurre in ogni suo dettaglio lo stupendo vestito bianco che indossava Alice Marie Hutton nel suo ritratto. Per la prima volta da quando ero arrivata a Villa Hutton, provai una sincera gratitudine verso la signora Martin, e arrivai perfino a dirmi che forse ero stata troppo prevenuta nei suoi confronti.

Ritornai nella mia stanza felice ed eccitata come una bambina e chiamai immediatamente Lavinia. Lavinia era la cameriera personale che mi aveva procurato la signora Martin pochi giorni dopo il mio arrivo. Era una ragazzina di appena sedici anni, ancora impacciata ed inesperta, ma dolcissima e piena di buona volontà. Mi si era affezionata subito e anche io le volevo sinceramente bene, soprattutto perché nella sua timida goffaggine rivedevo molto me stessa. Capivo che non era facile ambientarsi per lei in una casa così lussuosa, lo capivo perché non era facile nemmeno per me. Lavinia arrivò subito ed io le raccontai immediatamente del ritratto che avevo visto nella galleria e della mia decisione di utilizzare quel vestito come costume per il ballo. Non stavo più nella pelle, avevo assoluto bisogno di raccontarlo a qualcuno, e con grande gioia lessi negli occhi della mia giovane cameriera la mia stessa emozione, lo stesso palpito che mi faceva quasi tremare il cuore.

-Oh signora, che idea meravigliosa!-, esclamò Lavinia battendo le mani per la contentezza. –Ho visto quel ritratto quando sono stata a spolverare la galleria con la signora Martin e mi ha colpita subito! Avevo pensato di consigliarglielo, ma poi non ho osato…è un’idea fantastica, sarete bellissima! Chissà vostro marito!-

-Non vedo l’ora di vedere la faccia che farà Oliver quando scenderò la scalinata con indosso quell’abito!-, dissi in tono sognante, mentre il mio castello in aria tornava a prendere corpo nella mia sovraeccitata immaginazione. –Ora però dobbiamo organizzare tutto per bene, Lavinia cara. Va a chiedere alla signora Martin l’indirizzo del migliore sarto di Londra, per favore, mentre io butto giù l’ordinazione-, proseguii assumendo un tono più pratico, e prendendo un foglio di carta con l’intenzione di riprodurre uno schizzo del ritratto. Lavinia non si fece ripetere due volte l’ordine e filò via veloce come il vento, mentre la mia mano, guidata dall’emozione che ancora non accennava a spegnersi, tracciava rapidamente sulla carta il modellino del vestito dei miei sogni. La mia cameriera fu di ritorno con l’indirizzo richiesto dopo pochi istanti, io scrissi l’ordinazione, la infilai in una busta insieme allo schizzo che avevo disegnato, scrissi sulla busta l’indirizzo del sarto e la diedi a Lavinia, pregandola di consegnarla a Frank affinché fosse spedita.

La risposta arrivò due giorni dopo, e quando aprii la busta provai un tuffo al cuore, come se avessi già tra le mani il mio agognato vestito. Mister Newman, il sarto, mi diceva che era veramente onorato che avessi scelto proprio la sua umile sartoria, e mi assicurava che quanto da me richiesto mi sarebbe stato inviato a Villa Hutton al massimo entro una settimana.

Così cominciai a contare i giorni che mi separavano dall’arrivo del mio costume, mentre mi dedicavo col cuore in fibrillazione ai preparativi per il ballo, impegnandomi con tutte le mie forze. Mi alzavo al mattino prestissimo, dopo aver quasi stentato a dormire tanto avevo voglia di darmi da fare, e mi occupavo dei preparativi fino a notte inoltrata, stupendo oltremodo mio marito, che non avrebbe mai immaginato che mi sarei dedicata a quel ballo con tanta passione. Desideravo con tutta me stessa che fosse un successo. Volevo a tutti i costi essere ammirata e stimata quella sera, da tutti gli invitati e soprattutto da Oliver. Volevo che le persone che mi stavano intorno finalmente vedessero che persona ero realmente e che mi apprezzassero per le mie qualità, perché ero Kathleen e non perché assomigliavo vagamente a Patricia. Volevo lasciare un’impressione di me così forte, così positiva, da far sbiadire il ricordo che colei che mi aveva preceduta aveva indelebilmente lasciato nei cuori di tutti.

A colazione, Oliver mi domandava discretamente come stessero andando i preparativi. Non dimostrava grande interesse nei confronti del ballo, ma almeno aveva definitivamente smesso quell’aria di gelida disapprovazione che tanto stonava con il mio palpabile entusiasmo. Io gli raccontavo con allegrezza e dovizia di particolari tutto ciò che stavo preparando per la mia prima festa mondana come signora Hutton, dalla lista degli invitati all’organizzazione della cena, alla scelta dei musicanti, chiedendogli anche dei consigli che mio marito mi dispensava senza abbandonare la sua aria vagamente corrucciata, che mi faceva intuire come, anche se ormai si era rassegnato, questa storia del ballo in costume non gli fosse ancora andata totalmente giù.

Solo di una cosa evitai accuratamente di parlare: del vestito che avevo scelto di indossare. Volevo infatti che fosse una sorpresa, non solamente per i miei invitati ma soprattutto per mio marito, e quindi ero intenzionata a tenere la bocca assolutamente cucita fino alla sera della festa. Una mattina Tom Becker, che era nostro ospite a pranzo, mi domandò se avessi già scelto che costume indossare, ed io mi limitai a rispondere di sì sfoggiando un sorriso sibillino.

-Sì, ma è una sorpresa!-, esclamai con aria misteriosa, deliziandomi dell’interessato stupore che si era dipinto sul bel viso regolare del socio di mio marito.

-Una sorpresa?-, fece Tom meravigliato.

-E’ inutile che tu insista, Tom. Ho già provato a domandarglielo io più di una volta, ma Kat non ne vuole parlare. Dice che lo scopriremo la sera del ballo-, intervenne Oliver, e per la prima volta lo sentii usare un tono allegro e disinvolto che mi fece impazzire di piacere.

-Wow! Dovete aver fatto le cose in grande allora-, disse Becker, guardandomi con evidente ammirazione.

Mio malgrado mi sorpresi ad arrossire, e abbassai timidamente lo sguardo. –Beh, è il mio debutto in società in fondo…spero solo di riuscire a lasciarvi a bocca aperta-, mormorai, avvertendo un inspiegabile imbarazzo nel sentire i dolci occhi castani di Tom fissi su di me.

-Addirittura a bocca aperta?-, commentò Oliver in tono sarcastico, versandosi un altro bicchiere di vino rosso.

-Sono sicuro che ci riuscirete, Kathleen. Qualunque cosa indosserete, sarete bellissima-, disse Tom con aria galante, sollevando leggermente il suo bicchiere nella mia direzione.

Arrossii ancora di più, intimamente compiaciuta dal complimento che mi era stato rivolto, e lo ringraziai con un luminoso sorriso.

In quei giorni la mia amicizia con Tom Becker poteva dirsi decisamente cementata. Era davvero un uomo fantastico, dolcissimo e pieno di attenzioni nei miei confronti, un amico prezioso sul quale sapevo di poter sempre contare e l’unica persona a Villa Hutton che si mostrasse sempre ben disposto nei miei confronti. Considerata l’aperta ostilità della signora Martin, che, fatta eccezione per il consiglio sul mio abito, si era totalmente tagliata fuori dai preparativi per il ballo, e l’indifferenza di mio marito, Tom era l’unica persona sempre pronta a consigliarmi, a darmi una mano e a rassicurarmi quando mi prendevano dei momenti di sconforto e mi sentivo inadeguata ad organizzare un evento mondano di questa portata. Era da lui che avevo ricavato tutte le informazioni sulle passate feste tenutesi a Villa Hutton, sulle persone da contattare per la cucina, il servizio e l’accompagnamento musicale, dato che la governante faceva di tutto per evitarmi e non osavo chiedere ad Oliver, per timore di risvegliare in lui spiacevoli ricordi. Trascorrevo quasi tutto il mio tempo in biblioteca a scrivere lettere su lettere, stilare elenchi, fare preventivi, completamente dedita alla preparazione della festa, e molte volte Tom stava lì con me, mentre mio marito lavorava nel suo studio come di consueto, e metteva a mia completa disposizione la sua gentilezza e la sua esperienza. Prendevamo il the insieme e facevamo lunghe chiacchierate, grazie alle quali avevo la possibilità di conoscere sempre meglio il mio nuovo amico e di apprezzare ogni giorno di più le sue qualità. Non potevo fare a meno di chiedermi come mai un uomo così meraviglioso e ricco di doti non si fosse ancora sposato: in fin dei conti era bello, ricco, d’animo buono, simpatico, cortese. Aveva tutte le carte in regola per rendere felice qualsiasi donna, eppure nella sua vita non c’era nessuna.

Una volta non riuscii a frenare la mia curiosità, e mentre prendevamo il the insieme in biblioteca glielo domandai.

Becker arrossì furiosamente e rimase immobile, con espressione profondamente imbarazzata, per qualche istante, durante i quali mi pentii profondamente per avergli rivolto una domanda così indiscreta.

Stavo per scusarmi con lui, quando Tom si ricompose e si schiarì leggermente la voce prima di iniziare a parlare, con un tono esitante che non gli avevo mai sentito usare prima di allora. –Vedete, Kathleen, il fatto è che io sono un inguaribile romantico. Credo nell’amore, quello vero, e intendo sposare solamente una donna della quale sono sinceramente innamorato-, mi spiegò, evitando accuratamente di guardarmi negli occhi.

Sorrisi dinnanzi a quella risposta. –Vi capisco…ma volete dirmi che non vi siete mai innamorato?-, domandai, non riuscendo a credere che un uomo dolce come lui non avesse mai trovato una donna degna dei suoi sentimenti.

Egli divenne ancora più rosso e tossicchiò imbarazzato. –Una volta sì…mi sono innamorato a prima vista di una donna, una donna meravigliosa e neanche consapevole di esserlo…ma purtroppo mi è andata male, perché questa donna ha sposato un altro uomo-, disse, tenendo ancora gli occhi ostinatamente bassi e rigirando furiosamente il cucchiaino nella sua tazza di the.

Rimasi incredula per qualche istante, poi con una fitta al cuore compresi il vero significato delle sue parole, e anche il motivo del suo imbarazzo. Come avevo fatto a non capirlo? Che stupida ero stata…era così evidente…

Tom Becker era sicuramente stato innamorato di Patricia, la prima moglie di Oliver. Doveva essere senz’altro lei la donna meravigliosa che tanto aveva amato, e che non aveva potuto essere sua  poiché aveva sposato il suo migliore amico, il suo socio in affari. Povero Tom, doveva essere stata veramente una tortura per lui…frequentare quella casa ogni singolo giorno e assistere alla felicità della donna che amava, dell’unica donna che aveva mai sentito il desiderio di sposare, a fianco di un altro uomo, vederla quotidianamente e sapere che non avrebbe mai potuto averla, perché apparteneva al suo amico Oliver. E poi la sua tragica scomparsa…Non doveva essere stato facile neanche per Tom rassegnarsi all’idea che lei era morta, che non l’avrebbe mai più potuta rivedere, e non aveva neanche potuto manifestare tutto il suo dolore, perché nessuno doveva venire a conoscenza dei veri sentimenti che aveva nutrito per Patricia.

Provai una sincera ed intensa compassione per lui, per il dolore che aveva sofferto e che non si era affatto meritato, e anche, mio malgrado, un’intensa e violenta gelosia nei confronti di Patricia. Tutti, quella donna era riuscita a conquistare proprio tutti…nessuno era riuscito a rimanere immune al suo fascino, chiunque la incontrava non poteva fare a meno di volerle bene. Che cosa aveva avuto di tanto speciale? Qual era il suo segreto? Perché non potevo essere anch’io come lei?

Non potevo certo immaginare che in quel momento mi stavo sbagliando clamorosamente, e che non era affatto Patricia la donna della quale Tom Becker si era innamorato…ma questo sarei venuta a saperlo solamente molto tempo dopo…

 

 

Dopo giorni e giorni di frenetici preparativi, arrivò finalmente la tanto attesa sera del ballo in costume. Già dal mattino, quando mi sveglia, ero preda di una febbrile eccitazione che mi impediva di stare ferma anche per un solo istante. Feci colazione rapidamente, sotto gli occhi meravigliati di mio marito che non riusciva a capire cosa avessi da essere così agitata, e corsi subito a controllare che il salone fosse stato addobbato come avevo ordinato e che tutto fosse a posto. Non vedevo l’ora che passassero finalmente quelle poche ore che ancora mi separavano dalla mia grandiosa festa, ed ero ansiosa come una ragazzina in procinto di andare per la prima volta al ballo delle debuttanti. Soprattutto, attendevo angosciosamente che arrivasse il mio bel vestito, che doveva giungermi da Londra proprio quel giorno. Sobbalzavo violentemente tutte le volte che suonava il campanello, temendo che fosse successo qualcosa in sartoria che mi avrebbe impedito di ricevere il mio sospirato costume da Alicia Marie Hutton.

Verso le quattro del pomeriggio, mentre stavo dando gli ultimi ordini in cucina, suonò il campanello. Corsi a rotta di collo verso il portone, ma quando arrivai vidi che qualcun altro mi aveva preceduta. Carlos Santana stava giusto in quell’istante ricevendo un grosso pacco dalle mani di un fattorino, ringraziandolo con un cenno del capo e porgendogli la mancia.

Arrossì violentemente e mi immobilizzai. Non avevo più visto Carlos negli ultimi giorni, e fortunatamente ero stata così presa dall’organizzazione del ballo da riuscire a non pensare più a lui. Rivederlo però mi fece un effetto veramente sconvolgente. Il cuore cominciò a battermi violentemente nel petto, le mie mani sudavano copiosamente e le mie gambe tremavano così forte che non riuscivo più a muovermi. Avrei voluto andarmene, ma ormai egli aveva udito i miei passi e si era già voltato nella mia direzione.

I nostri sguardi si incrociarono, e per un istante sentii quasi mancarmi il respiro. Sul bel volto abbronzato di Carlos si dipinse un sorriso seducente e un po’ canagliesco. Era come se i suoi occhi mi stessero parlando, dicendomi in tono provocante “è molto tempo che non ci vediamo!”, e dovetti lottare contro me stessa per resistere al folle impulso di correre verso di lui e gettargli le braccia al collo. Ero sempre più attratta da quell’uomo, era inutile negarlo. Tuttavia, mi sforzai di mantenere un contegno e mi avvicinai a lui con l’espressione più neutra e distaccata che mi riuscì.

Senza mutare di una virgola la sua espressione, Carlos mi porse il pacco, con un lieve inchino. Non staccò gli occhi da me neanche per un secondo, rendendomi ancora più difficile celare il mio turbamento. Pensavo quasi che egli potesse sentire i battiti forsennati del mio cuore, che sembrava sul punto di esplodermi nel petto da un momento all’altro.

-Grazie, Carlos-, mormorai con voce tremante, abbozzando un sorriso che in realtà non fu altro che una patetica smorfia nervosa.

Egli mi rispose con un cenno del capo e si allontanò, dopo avermi rivolto un’ultima occhiata penetrante che mi provocò un intenso e voluttuoso brivido lungo la schiena.

Rimasi immobile per qualche istante con il mio pacco in mano, come paralizzata. Le emozioni che provavo quando mi trovavo al cospetto di Carlos Santana erano così intense che non sapevo in che modo affrontarle. Mi ripetevo che dovevo assolutamente riuscire a controllarmi, che ero ormai una donna sposata e non potevo rimanere in balia dei miei sensi, cercavo di ricordare a me stessa che non mi ero mai lasciata andare a colpi di testa, mai in tutta la mia vita, e non era certo né il momento né la situazione migliore per cominciare. Tuttavia, non potevo continuare a mentire a me stessa in eterno. Io desideravo Carlos, come non avevo mai desiderato nessun altro uomo in vita mia, e dalle occhiate che egli mi lanciava era evidente che provava la stessa cosa, che anche lui mi desiderava, con un’intensità che mi faceva sentire al settimo cielo per la felicità e che mi terrorizzava al tempo stesso. C’era una sorta di attrazione magnetica e irresistibile tra di noi, potevo sentirla distintamente nell’aria tutte le volte che ci ritrovavamo da soli nello stesso posto, ed io non sarei riuscita a sfuggirgli per sempre. Prima o poi egli avrebbe oltrepassato la distanza di sicurezza, e io non sarei più riuscita a resistere a quella brama più forte di me…

Ero perduta nei miei pensieri, incapace di scuotermi, quando sentii un rumore di passi alle mie spalle e sobbalzai violentemente. Per un attimo credetti, sospesa a metà tra il timore e la speranza, che si trattasse di Carlos, e dovetti fare appello a tutto il mio coraggio per voltarmi.

Invece, mi trovai di fronte lo sguardo gelido e severo della signora Martin.

-Signora Martin-, esclamai quasi senza fiato, portandomi una mano al petto. Ero ancora sconvolta dalle emozioni di pochi minuti prima, e il pensiero che Carlos potesse essere ritornato aveva fatto quasi impazzire il mio cuore già in tumulto. –Mi avete spaventata!-

-Scusatemi, signora. Ho sentito il campanello e volevo vedere chi era-, rispose la governante con freddezza, senza cambiare affatto espressione. I suoi occhi si posarono sul pacco che reggevo ancora tra le mani, e mi parve di scorgere in essi una strana scintilla.

-E’ il vostro vestito?-, mi chiese, con una voce carica di interesse che non mancò di stupirmi.

Annuii, sforzandomi di sorridere. –Sì, finalmente è arrivato!-, dissi, cercando di recuperare almeno in parte l’entusiasmo che mi aveva accompagnata quel giorno, fino al momento in cui avevo rivisto Carlos Santana.

-Immagino che non vedrete l’ora di provarlo-, proseguì la vecchia, mentre i suoi occhi neri lampeggiavano in un modo quasi sinistro, che avrebbe dovuto mettermi in guardia. Purtroppo, in quel momento non ero sufficientemente lucida per prestare attenzione alla signora Martin.

-Già. Stavo giusto andando di sopra. A stasera, signora Martin-, ribattei, salutando rapidamente la governante con un cenno del capo e avviandomi in direzione delle scale.

Avevo già messo piede sul primo gradino, quando ella mi chiamò.

-Non vedo l’ora di vederla vestita, signora-, mi disse, dopo che mi fui voltata in sua direzione, e sentii un’insolita nota di calore nella sua voce. Ingenuamente, pensai che fosse un segnale positivo, che volesse dire che i nostri rapporti stavano finalmente migliorando, e la ringraziai per la sua gentilezza. Poi salii di sopra, e una volta entrata nella mia stanza misi il pacco sul letto e chiamai Lavinia, perché volevo che fosse con me al momento dell’apertura.

Mentre tiravo fuori il mio vestito dalla grossa scatola, il mio turbamento svaniva piano piano, e tornavo a sentirmi emozionata e in fibrillazione. Quando ebbi il mio meraviglioso abito tra le mani non riuscii a trattenere un’esclamazione di gioia, mentre Lavinia saltellava accanto a me estasiata.

-Signora, è meraviglioso!-, disse con voce carica di emozione, mentre ammirava con il suo sguardo di ragazzina semplice il meraviglioso costume che stavo distendendo delicatamente sul letto, identico in ogni minimo particolare all’abito che indossava Alice Marie Hutton nel suo ritratto.

Il mio cuore batteva fortissimo e io mi sentivo la persona più felice e fortunata del mondo. Non avevo mai posseduto nulla di così meraviglioso, e sicuramente l’estasi che leggevo negli occhi di Lavinia era la stessa che si poteva vedere nitidamente nei miei. La seta del mio abito era così bella, così lucente, così morbida…il suo candore era quasi abbagliante…la sua eleganza così sfarzosa…era meraviglioso, ed era mio, solo mio…lo avrei indossato io…sentii quasi salirmi le lacrime agli occhi e, incapace di trattenere la mia gioia, abbracciai forte Lavinia lasciandomi sfuggire dei gridolini senza senso.

Trascorsi il resto della giornata in uno stato quasi di ebbrezza, attendendo con ansia sempre crescente il momento glorioso in cui finalmente avrei potuto indossare il mio magnifico vestito e continuando a proiettarmi nella mente il film in cui io, sola ed indiscussa protagonista, scendevo la maestosa scalinata di Villa Hutton elegantissima nel mio costume bianco, bella ed altera come una regina (sì, proprio io, che non mi ero mai considerata né bella né elegante!), seguita dallo sguardo ammirato di mio marito e di tutti gli altri invitati, quel film che mi ero creata nella mia immaginazione fin dalla prima volta che avevo visto il ritratto, e che giorno dopo giorno avevo ampliato ed arricchito di particolari.

Forse fu a causa della mia impazienza, ma quel pomeriggio parve durare in eterno. Finalmente però giunsero le sei, e mi ritirai nella mia stanza insieme a Lavinia per prepararmi al ballo. Al mio grandioso debutto in società.

Arricciai i miei lunghi capelli color castano scuro per renderli identici alla chioma che aveva Alice Marie nel ritratto. Impiegai quasi un’ora, ma alla fine fui decisamente soddisfatta del risultato, perché assomigliavo all’antenata di Oliver proprio come una goccia d’acqua. Anche il mio trucco fu studiato per riprodurre quello del quadro. Guance rese più colorite dalla cipria, occhi sottolineati da un velo di ombretto e dal rimmel, labbra evidenziate da un tenue rossetto color pesca. Mi guardai allo specchio quando ebbi terminato e mi venne quasi da piangere, perché per la prima volta dal giorno in cui ero nata mi vidi bellissima.

-Oh signora Kathleen! Siete meravigliosa!-, esclamò Lavinia commossa quasi quanto me, guardandomi con espressione profondamente ammirata.

Le sorrisi con gratitudine e poi mi alzai in piedi per l’ultimo atto dei miei preparativi: indossare il costume. Con l’aiuto di Lavinia, mi infilai il mio meraviglioso abito bianco, e quando fui pronta ero quasi fuori di me dalla felicità. Mi vedevo bella, elegante, raffinata: ero diventata un’altra donna. Una donna che avrebbe sicuramente suscitato l’ammirazione di tutti quella sera: mio marito, Tom Becker, gli invitati. Avrei voluto che mia madre e mio padre fossero stati lì a vedermi. Ero certa che sarebbero stati felici ed orgogliosi almeno quanto me. E chissà la faccia di zia Audrey se avesse potuto vedermi! Forse avrebbe stentato a riconoscere la sua semplice e dimessa nipote Kathleen nella stupenda signora che ora avevo di fronte e che potevo ammirare riflessa nel grande specchio.

-Sono così emozionata, Lavinia!-, esclamai tutta eccitata, stringendo con effusione le mani della mia giovane cameriera, che mi guardava con occhioni luccicanti. Sicuramente nemmeno lei aveva visto nulla di così sfarzoso in tutta la sua vita.

-Chissà vostro marito quando vi vedrà, signora!-, rispose lei, accarezzando con mani esitanti la mia ricca gonna di seta, come se avesse paura di sciuparla.

Mi venne un’idea meravigliosa. –Senti, Lavinia, precedimi sulla scalinata, e quando vedrai mio marito e le altre persone che forse saranno con lui, dovrai annunciare “Miss Alice Marie Hutton”. D’accordo?-, le dissi, con entusiasmo quasi infantile.

La ragazza accettò di buon grado, e con passi silenziosi ci avviammo fuori dalla mia stanza e percorremmo tutto il corridoio fino ad arrivare in cima alla scalinata. Dal piano di sotto udii giungere delle voci. Restammo in silenzio per qualche istante, finché non le riconobbi. Due appartenevano senz’altro a Oliver e a Tom, ma non erano soli. Udii infatti un'altra voce maschile che mi parve di conoscere, e una voce femminile un po’ stizzosa. Dopo qualche istante di riflessione, compresi di chi si trattava. Erano arrivati Julian Ross e sua moglie Amy. Mi irrigidii involontariamente, mentre una strana tensione cominciava a farsi largo dentro di me…forse era la prospettiva di dover affrontare nuovamente Amy Ross, dopo il nostro primo, fallimentare incontro.

Mentre Lavinia scendeva le scale emozionata come una bambina, cercai di riscuotermi. Non dovevo avere paura di niente e di nessuno. Ero io la legittima signora Hutton, e quella era la mia festa.

Vidi la mia cameriera arrivare in fondo alla scalinata e cominciai a scendere anch’io lentamente, tenendo la testa alta e reggendomi la ricca gonna con le mani un po’ tremanti.

-Signore e signori…miss Alice Marie Hutton-, annunciò Lavinia con voce squillante.

Immediatamente i quattro volti si alzarono dirigendo i loro sguardi nella mia direzione, mentre io facevo quella che credevo essere la mia entrata trionfale in scena. Quando però arrivai in fondo alla scala, con il sorriso sulle labbra, sentendomi profondamente fiera di me stessa, mi accorsi che c’era qualcosa che non andava e che la reazione di mio marito e degli altri ospiti non era esattamente quella che io mi aspettavo.

Non c’era alcuna traccia di ammirazione sui loro visi, anzi…

Tom Becker teneva fissi su di me i suoi grandi occhi scuri, con un’espressione a metà strada tra lo stupore e il dispiacere. Pareva quasi contrito e si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore. Julian Ross aveva un’espressione molto simile, teneva gli occhi spalancati e si era portato una mano sul petto come se avesse ricevuto un improvviso colpo al cuore, mentre sua moglie Amy era pallidissima e si reggeva al braccio del marito come se temesse di cadere a terra da un momento all’altro. Era rimasta a dir poco impietrita.

Cominciai a sentirmi angosciata, perché non comprendevo affatto questa reazione così strana, e istintivamente rivolsi lo sguardo verso mio marito. E mi sentii improvvisamente gelare…

Anche Oliver era impietrito come la signora Ross, ma l’espressione con cui mi guardava era carica di rabbia, di odio quasi. Aveva gli occhi stretti per la collera e digrignava i denti, fissandomi come se fossi stata un terribile nemico, e non sua moglie.

Li fissai smarrita e sgomenta, chiedendomi cosa potessi aver fatto di sbagliato.

-Cos’è questo scherzo?-, tuonò improvvisamente Oliver, dirigendosi minaccioso verso di me.

Per la prima volta, ebbi quasi paura di mio marito. –Ma Oliver…è il ritratto…il ritratto della galleria-, balbettai angosciosamente, tremando dalla testa ai piedi.

Anche Amy ora mi stava guardando quasi con odio, ma sembrava ancora smarrita, sconvolta. Mi venne vicina, e sfiorò la mia gonna con la punta delle dita. Con grande stupore, vidi le lacrime che cominciavano a rigarle le guance. –Perché l’hai fatto? Come hai potuto essere così cattiva?-, mi accusò tra i singhiozzi, mentre suo marito la raggiungeva e le metteva le mani sulle spalle in segno di conforto.

Continuai a guardarli tutti e quattro alternatamente, mentre ancora non riuscivo a capire cosa fosse accaduto. Di cosa mi stavano incolpando? Cos’aveva il mio costume che non andava?

-Vai immediatamente a toglierti quel vestito. Subito!-, ordinò Oliver, con gli occhi che lampeggiavano ancora dalla collera e le mani che, ne ero certa, fremevano dal desiderio di picchiarmi. Ma perché?

Con un moto di orgoglio, rialzai la testa e fissai mio marito dritto negli occhi, cercando in tutti i modi di non lasciarmi intimorire. Anche se ero a dir poco sconvolta, non intendevo obbedire al suo ordine senza prima aver ricevuto una valida motivazione. –Perché? Questo è il mio costume. L’ho copiato dal ritratto in galleria. Cos’ha che non va?-, dissi in tono quasi implorante.

Le mie parole provocarono in Amy un nuovo scoppio di pianto, ed ella si rifugiò tra le braccia di suo marito, che le accarezzò dolcemente i capelli evitando di guardarmi. Oliver mi venne ancora più vicino e mi afferrò un braccio, stringendolo con tutta la sua forza.

-Mi fai male!-, gridai, ma mio marito parve non udirmi.

-Ho detto di toglierti subito quel vestito, mi hai capito? TOGLITELO!!!-, urlò furibondo, dandomi una violenta scrollata.

Sentii le lacrime cominciare a pizzicarmi gli occhi, ma non volevo cedere. Cosa stava succedendo? Quella doveva essere la mia grande serata, il mio debutto in società come signora Hutton. Invece stava andando tutto a rotoli, ed io non riuscivo nemmeno a comprenderne il perché…

-Oliver, lasciala. Sono sicuro che non l’ha fatto apposta-, intervenne in quell’istante Tom, prendendo mio marito per un braccio.

Oliver rivolse anche al suo amico e socio un’occhiata a dir poco furente. –Certo che l’ha fatto apposta! Aveva giurato di farmi una sorpresa, e diamine se c’è riuscita!-, ruggì, guardandomi come se avesse voluto fulminarmi. Però lasciò andare la presa sul mio braccio, ed io istintivamente mi allontanai da lui, sciogliendomi in lacrime nonostante i miei sforzi per trattenere il pianto.

-Cerca di ragionare, suvvia! Come può averlo fatto apposta? Come avrebbe potuto saperlo?-, insistette Becker, avvicinandosi a me e abbracciandomi, in segno di conforto e di protezione.

Ma mio marito non voleva rivedere di una virgola la sua posizione. –In qualche modo deve averlo saputo! L’ha fatto apposta!-, ripeté testardo.

-Sì, ha ragione lui! L’ha fatto apposta!-, disse la signora Ross in un singulto, rivolgendomi un’occhiata carica di odio e di straziante disperazione.

-Ma che cosa ho fatto? Che cosa? Io non ho fatto nulla. Di cosa mi accusate?-, mi difesi timidamente tra i singhiozzi, stringendomi forte a Tom, l’unica persona che avesse preso le mie difese anziché trattarmi da colpevole, senza neanche dirmi di quale misfatto mi ero secondo loro macchiata.

-Non fare finta di non saperlo, Kathleen! NON FARE FINTA DI NON SAPERLO!-, gridò Oliver, ed io lo guardai esterrefatta. Quell’uomo non era mio marito…era a dir poco irriconoscibile. Il suo viso era rosso, i lineamenti completamente stravolti dalla collera, e anche il suo corpo era scosso da un violento tremito. Non sembrava neanche un lontano parente della persona mite e impassibile accanto alla quale trascorrevo le mie giornate.

-Ma io non so nulla!-, implorai, sentendomi assalire da una disperazione sconfinata.

-Kat…si tratta del vestito-, disse Tom, scostandomi lievemente da sé in modo da potermi guardare in viso.

-Il vestito?-, ripetei quasi imbambolata, stentando ancora a capire.

Amy emise un gemito. –Fa la finta tonta ora!-, sibilò rabbiosa, prima che Julian la invitasse a tacere e a lasciar parlare Tom Becker.

-Il tuo costume…ecco…vedi…è lo stesso che aveva indossato…-, Tom pareva in evidente imbarazzo e faceva fatica a tirar fuori le parole. Io intanto cominciavo a capire…era come se un velo si stesse squarciando improvvisamente davanti ai miei occhi, rivelandomi una verità che non avevo saputo o voluto vedere, e molte cose cominciavano ad essere chiare…ma anziché sentirmi meglio, mi sembrava di essere entrata in un orribile, spaventoso incubo.

-E’ lo stesso che aveva indossato Patricia all’ultimo ballo in costume-, esalò infine, distogliendo lo sguardo perché era troppo faticoso per lui guardarmi negli occhi.

-Oddio!-, esclamai inorridita, portandomi una mano alla bocca. credo di essere diventata mortalmente pallida, almeno quasi quanto la signora Ross. Le mie gambe cominciarono a tremare violentemente, al punto che per un attimo non riuscirono quasi a sostenere il mio peso, e fu una fortuna che Tom fosse lì pronto a sorreggermi, altrimenti temo proprio che sarei svenuta.

Ora capivo…ora era tutto chiaro…

La signora Martin. Era stata lei.

Mi aveva consigliato di andare a dare un’occhiata nella galleria dei ritratti per il mio costume, raccomandandomi in particolar modo il quadro che rappresentava Alice Marie Hutton, perché sapeva che era lo stesso costume che aveva scelto Patricia in occasione del suo ultimo ballo a Villa Hutton. Ora ricordavo anche le parole della moglie del vescovo… “Mi sembra ancora di vedere la signora Patricia scendere dalla scalinata tutta vestita di bianco, con quella nuvola di capelli neri…”

Ma io ero stata cieca e sorda, ed ingenuamente mio ero fidata della signora Martin, pensando che il suo consiglio fosse il segno che finalmente stavo cominciando ad entrare nelle sue simpatie, mentre invece era un modo raffinato ed insospettabile per colpirmi. Tutto era andato secondo i suoi piani, io non mi ero accorta di nulla…

Avevo seguito il suo consiglio e scelto proprio il costume che lei si aspettava. Ed ora mio marito credeva che io l’avessi fatto apposta, e mi odiava. Per non parlare di Amy…

-Io non l’ho fatto apposta…lo giuro…-, mormorai con la voce tremante e il petto ancora scosso dai singhiozzi.

Ma gli sguardi duri e severi di Oliver ed Amy mi fecero capire senza ombra di dubbio che non mi credevano. Mi sentii morire.

-Togliti quel vestito-, ripeté Oliver. La sua voce era meno rabbiosa rispetto a prima, ma intrisa di una così glaciale freddezza che ferì i miei sentimenti ancora più di un urlo.

Mi rivolsi verso Tom, che annuì cercando di rivolgermi un sorriso incoraggiante, per quanto tirato.

Mi avviai mestamente verso la scala, sentendomi addosso gli sguardi infuocati di mio marito e di sua cognata. Incapace di reggere oltre la situazione, cominciai a salire i gradini di corsa, ansiosa di arrivare in camera mia e rimanere finalmente sola con la mia disperazione.

Lei era in cima alla scalinata, e mi guardava con i suoi gelidi occhi neri carichi di esultanza. Il suo viso pallido e smorto era illuminato da un ampio sorriso di scherno. Era l’espressione di chi sapeva di aver trionfato su tutta la linea.

Avrei voluto scagliarmi contro di lei con tutta la rabbia che avevo in corpo e fargliela pagare per la tremenda umiliazione che mi aveva inflitto…ma in quel momento non mi sentivo sufficientemente forte, così chinai il capo e corsi più veloce che potevo verso la mia stanza, sentendomi anche il suo sguardo colmo di derisione addosso.

Finalmente raggiunsi la mia camera, ed entrai dentro a precipizio richiudendomi rapidamente la porta alle spalle. Sospirai profondamente, appoggiandomi colma di tristezza allo stipite, quando con un tuffo al cuore mi resi conto che non ero sola.

Davanti a me, proprio seduto sul mio letto, con la solita espressione imperturbabile, vidi Carlos Santana.

-Carlos!-, esclamai sorpresa, smettendo di colpo di piangere.

Egli si alzò. Pensai che venisse verso di me, invece rimase immobile. Mi guardava dritto in faccia con quei suoi occhi così scuri e penetranti…nuovamente sentii un brivido scorrermi lungo la schiena, e la mia tristezza stemperarsi in un’ambigua eccitazione.

La ragione mi avrebbe sicuramente suggerito di dirgli di andarsene dalla mia stanza e lasciarmi sola, perché ero troppo vulnerabile in quel momento per reggere la sua presenza. Ma la ragione mi aveva completamente abbandonata in quel particolare frangente. Così fu il cuore ad agire per me.

Non so dire se sbagliai oppure se feci la cosa giusta in quell’occasione, ma era ciò che più desideravo al mondo.

Con larghi passi mi precipitati verso di lui e mi gettai fra le sue braccia forti e calde, aggrappandomi a Carlos come se fosse la mia unica ancora di salvezza. Affondai il viso contro il suo petto, lasciando che le sue mani mi accarezzassero lentamente la schiena, sciogliendomi i laccetti del costume. Lasciai poi che quelle stesse mani si spostassero sul mio viso, ridisegnando i miei lineamenti con la punta delle dita, mentre i miei occhi si perdevano inesorabilmente nei suoi, ed una bellissima sensazione di calore mi riempiva l’anima.

Lentamente, senza che io opponessi la minima resistenza, le sue labbra si posarono sulle mie, e le nostre bocche si fusero in un caldo, appassionato, violento bacio…

 

Fine ottavo capitolo

 

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo nono ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO NONO

 

La mia razionalità si era ormai completamente dissolta…non riuscivo a comprendere più nulla di quello che mi circondava, se non il tocco bruciante delle mani di Carlos sulla mia pelle e la morbidezza delle sue labbra premute contro la mia bocca. Tutto il mio corpo sembrava sul punto di sciogliersi, mentre serravo convulsamente le mie braccia attorno alle sue spalle, accarezzavo freneticamente il suo viso, passavo le dita tra i suoi capelli cercando di attirarlo più vicino a me. Non credevo che avrei mai potuto essere baciata da un uomo con così tanta passione…come erano diverse le sue carezze da quelle gelide e frettolose di mio marito, com’era autentico, vibrante, coinvolgente il suo trasporto…

Mi sentivo viva, per la prima volta in vita mia, e donna, veramente donna…non avevo mai provato niente di neanche lontanamente simile, e avevo ormai completamente accantonato in un remoto angolino della mia coscienza quella vocina che mi diceva che ciò che stavo facendo era sbagliato. Non mi importava più di niente e di nessuno. Mio marito, gli ospiti, il ballo in costume…non esisteva più nulla al mondo. C’eravamo solo io e Carlos.

Ero quasi senza fiato per l’intensità dei baci che ci stavamo scambiando, ma non volevo che smettesse, non volevo che si fermasse neanche per un attimo. Mi sentivo travolta da una miriade di sensazioni l’una più splendida ed eccitante dell’altra, ogni fibra del mio essere vibrava come una corda di violino, e avrei quasi voluto gridare per l’esultanza che mi pervadeva tutta. Lasciai che le mani di Carlos percorressero impudicamente ogni centimetro del mio corpo, mentre il mio costume scivolava lentamente sul pavimento. Ogni volta che lui si staccava da me anche solo di qualche centimetro, subito le mie labbra si tendevano verso di lui alla ricerca di un nuovo contatto, che per me era diventato più indispensabile dell’aria stessa. Con un istinto che ignoravo completamente di possedere, guidai le mie dita a slacciare i bottoni della camicia che egli indossava, e poi a scendere ancora più giù fino ad aprire anche l’allacciatura dei suoi pantaloni. Non provai neanche un istante di vergogna quando Carlos rimase nudo di fronte a me. Era tutto immensamente naturale, come se fossimo predestinati ad amarci fin dal primo momento in cui c’eravamo incontrati.

Non sentii imbarazzo neanche quando mi accorsi di essere rimasta completamente nuda anch’io, e vidi il suo sguardo percorrere tutto il mio corpo, soffermandosi lungamente su ogni punto, mentre le sue mani continuavano ad accarezzarmi sinuosamente la schiena strappandomi un’infinita serie di brividi di piacere, facendomi sussultare anche solamente sfiorandomi. Sorrisi, e anch’egli mi sorrise di rimando. Per la prima volta assaporai qualcosa di molto simile alla felicità. Ricordando ora quei momenti così magici, così follemente intensi, mi rendo conto che era così che avrei sognato la mia prima notte di nozze…ma non fu Oliver, l’uomo che avevo sposato, a darmi quella passione sulla quale avevo così tanto fantasticato quando ero ragazzina.

Presi Carlos per mano e con la massima naturalezza lo condussi verso il mio letto, dove mi distesi. Lui non esitò neanche per un istante, e si stese sopra di me, ricominciando ad accarezzarmi dappertutto e a sfiorare la mia pelle con le sue labbra, lasciando una lunga scia di baci lungo tutto il mio corpo. Mi inarcai ancora di più verso di lui per assaporare meglio le sue carezze così dolci ed allo stesso tempo infuocate, e sentii sprigionarsi dal mio corpo un calore immenso, potente, una sensazione di completa estasi che non avrei potuto immaginare neanche nei miei sogni più audaci. Mi morsi le labbra per trattenere un grido, e serrai ancora di più le mani sulle spalle muscolose di Carlos, conficcandogli le unghie nella pelle. Lo vidi guardarmi con quella sua aria maliziosa così tremendamente sensuale, e provai fortissimo il desiderio di essere baciata ancora. Egli parve leggermi nel pensiero, e unì di nuovo le sue labbra alle mie, trascinandomi in un nuovo vortice di sconfinata beatitudine. Era tutto così bello…mi sembrava di essere sospesa in una sorta di limbo distante mille miglia dalla terra, di galleggiare nell’aria…chiusi gli occhi ed assaporai quelle sensazioni così esclusivamente fisiche che Carlos mi stava donando, cercando quasi di convincermi che non era un sogno destinato ad interrompersi bruscamente sul più bello, ma la pura, semplice e meravigliosa realtà.

Lo strinsi forte a me facendo aderire ancora di più il suo corpo al mio, e sussultai quando appoggiò la testa sul mio petto, cominciando a giocherellare maliziosamente con uno dei miei seni. Così questo era fare l’amore…non quella cosa squallida che era successa qualche volta con Oliver, al buio e in fretta, ma un tripudio dei sensi, una festa dell’anima e del corpo…

Lasciai che Carlos facesse di me e del mio corpo ciò che più desiderava, ma non con la rassegnata passività con la quale mi ero concessa a mio marito, ma con l’entusiasmo di scoprire ad ogni bacio, ad ogni carezza qualcosa di nuovo e di straordinariamente sconvolgente, qualcosa che andava al di là delle mie aspettative e che continuava ad alimentare la fiamma ardente che si era accesa dentro di me dall’istante stesso in cui le nostre labbra si erano sfiorate per la prima volta. La fiamma era diventata un incendio, che bruciava e bruciava senza accennare a volersi spegnere…un incendio che divampava ogni istante di più dentro di me, all’interno stesso del mio corpo, in quelle profondità segrete che nessuno aveva mai esplorato fino in fondo.

Provai un attimo di intenso stupore quando finalmente Carlos entrò dentro di me…una sensazione di unione, di completezza prese subitamente ad invadere il mio animo, come se avessi ritrovato dopo un lungo peregrinare una parte di me che mi era sempre mancata. Non avevo mai sentito di appartenere così esclusivamente, così fortemente ad un’altra persona, era come se io e lui ci fossimo fusi per diventare un unico essere. Sospirai di piacere e di felicità, mentre guidavo il mio corpo a rispondere ai movimenti ritmici del suo, lasciando che egli mi conducesse fino alle vette più alte del piacere…quel piacere che sperimentavo finalmente per la prima volta…

 

Al violento incendio subentrò infine la calma. Carlos si distese sul letto accanto a me, continuando ad accarezzarmi lentamente il viso e i capelli e guardandomi con infinita dolcezza. Io lo fissavo come trasognata, stentando a credere a ciò che era appena successo. Sfioravo con le dita i lineamenti regolari del viso del mio amante, come se avessi bisogno di rassicurarsi che egli era vero, reale, che non era solamente un parto della mia fantasia. Cercavo di prendere coscienza della situazione, ma la mia mente era ancora frastornata dalla meravigliosa esperienza che avevo appena vissuto, e non riusciva a formulare alcun pensiero logico. Avevo appena tradito mio marito, ma non sentivo alcun senso di colpa. Era come se la mia unione con Carlos fosse già scritta nel destino, senza che la presenza di Oliver potesse fare nulla per impedirla. Non sapevo più se fossi innamorata o meno di mio marito, né tantomeno se amassi Carlos, ma non mi importava. Per la prima volta da quando avevo messo piede a Villa Hutton mi ero sentita viva, serena, e non mi sentivo affatto in colpa per essermi concessa uno scampolo di felicità dopo tante giornate buie e dolorose. Avevo ancora stampato nella mente lo sguardo freddo e accusatorio che Oliver mi aveva rivolto quando mi aveva visto scendere la scalinata con indosso il vestito di Alice Marie Hutton, ed era come se quello sguardo così carico di rancore mi assolvesse da qualsiasi peccato. Mio marito non mi amava…per quale motivo dovevo avere degli obblighi verso un uomo che non provava assolutamente nulla per me? In pochi minuti, Carlos mi aveva dato molto più di quel che mi aveva dato Oliver in settimane di matrimonio. Mi aveva trattata come una donna, e non come una prostituta, come aveva fatto mio marito le rare volte che era venuto a letto con me.

Sospirai e socchiusi gli occhi, decisa ad assaporare fino in fondo la sensazione di pace e benessere che stavo provando in quel momento, una serenità che agognavo da tempo e che ormai temevo di non ritrovare mai più.

-E’ stato bellissimo-, mormorò in quel momento una voce maschile e profonda, che suonava un po’ come uno strumento scordato.

Sobbalzai violentemente e mi alzai a sedere di scatto, sollevando il lenzuolo fino al petto per coprirmi. Guardai Carlos con gli occhi dilatati. –Ma…ma…tu…tu parli?-, boccheggiai, senza fiato per la sorpresa.

Egli mi sorrise, con un’espressione stranamente enigmatica. –Sì, Kat, io so parlare. Ho sempre saputo parlare. Solo che non voglio parlare-, mi spiegò sibillino, giocherellando con una ciocca dei miei lunghi capelli castani.

Corrugai la fronte. Era un vero e proprio colpo di scena…non mi sarei mai aspettata che Carlos fosse in grado di parlare. Era sempre stato muto, anche in mia presenza, e Oliver mi aveva detto che non aveva pronunciato una sola parola da quando era arrivato in casa per la prima volta, ormai più di vent’anni prima. Invece Carlos sapeva benissimo parlare, solo che non voleva farlo. Ma perché? Sapevo dalla prima volta che l’avevo visto che Carlos Santana aveva qualcosa di misterioso, ed ora scoprivo che la mia impressione era stata esatta. Quell’uomo nascondeva qualcosa. Ma che cosa?

-Per quale motivo non vuoi parlare?-, tentai timidamente di domandargli, divorata dalla curiosità di scoprire che cosa celasse nel suo passato, nel suo presente, nella sua vita così colma di enigmi.

Egli si limitò a sorridere e a scuotere lievemente il capo. –Non è il caso di parlarne adesso, Kathleen. È una scelta mia. Se tu avessi vissuto quel che ho vissuto io, forse avresti preso la mia stessa decisione. Sai, è la prima volta dopo vent’anni che apro bocca davanti ad un’altra persona. Finora le uniche conversazioni le ho avute con me stesso allo specchio-, raccontò, e mentre parlava io mi resi conto che, nonostante Oliver mi avesse detto che era probabilmente sudamericano, la sua voce non aveva nulla di straniero, neanche un accento particolare.

Mi domandai che cosa avesse vissuto di così sconvolgente da spingerlo a rinchiudersi in un mutismo totale per vent’anni. Avrei voluto saperlo, avrei tanto voluto aiutarlo, restituirgli almeno in parte la serenità che lui aveva infuso dentro di me con il suo caldo abbraccio…ma non avevo alcun diritto di intromettermi nella sua vita e di costringerlo a parlarmi del suo passato. Sospirai, e gli accarezzai dolcemente una guancia. –Mi dispiace che tu debba aver sofferto così tanto-, sussurrai, con un nodo di commozione che mi stringeva la gola.

L’espressione del viso di Carlos si indurì. –Tutti soffriamo nella vita, nessuno escluso. C’è chi soffre di più e chi soffre di meno-, sentenziò con voce distaccata, mentre i suoi occhi si perdevano ad osservare un punto fuori dalla finestra della mia stanza.

Abbassai la testa, riflettendo sulla verità delle sue parole. Sentii violentemente l’impulso di abbracciarlo, e seguendo l’istinto mi strinsi forte a lui, passandogli le braccia intorno al collo. Carlos si lasciò andare ad un profondo sospiro e ricambiò il mio abbraccio, accarezzandomi con dolcezza i capelli e dandomi piccoli baci sulla guancia. –Anche tu hai sofferto, Kat. Lo leggo nei tuoi occhi, e l’ho sentito nella disperazione con cui hai fatto l’amore con me, poco fa-, mi sussurrò all’orecchio, mentre le sue mani continuavano a percorrere lentamente la mia schiena nuda.

Mi staccai piano da lui e abbozzai un sorriso amaro. –Se sto soffrendo è solo colpa mia e delle mie illusioni. Ho pensato di poter trovare la felicità in questa casa, ed invece mi sbagliavo-, mormorai tristemente, mordendomi le labbra per non cominciare a piangere.

Carlos mi prese il viso tra le mani e mi guardò con occhi colmi di tenerezza. –Non puoi esserne sicura…secondo me puoi davvero trovare la felicità in questa casa-, sussurrò, e poi poggiò nuovamente la sua bocca sulla mia.

Risposi con passione al suo caldo ed intenso bacio, stringendomi forte a lui e lasciando che il tepore del suo corpo, della sua pelle liscia e profumata, rincuorassero nuovamente la mia anima tormentata e scacciassero via le preoccupazioni che continuavano ad attanagliarmi. Il bacio divenne sempre più profondo ed incandescente, ed io cominciavo a provare nuovamente quella sensazione di attesa e di eccitazione che mi aveva animato poco tempo prima…ma l’incanto fu bruscamente spezzato da due deboli colpi alla porta. Qualcuno stava bussando.

Sussultai violentemente, pensando che potesse trattarsi di mio marito. Guardai Carlos con espressione di angoscioso smarrimento, e mi accorsi che il mio amante invece sembrava perfettamente padrone di sé. Senza mostrare alcun segno di turbamento, egli cominciò lentamente a rivestirsi, come se non avesse il benché minimo timore di essere sorpreso dal padrone di casa a letto con sua moglie.

-Come facciamo se è Oliver?-, dissi agitata, cercando di tenere basso il tono della voce per non farmi sentire dalla persona che era fuori dalla porta, di chiunque si trattasse.

-Cerca di calmarti, Kat. Io mi nascondo in bagno. Tu rivestiti, rassetta la stanza meglio che puoi e va ad aprire la porta come se nulla fosse-, mi disse con voce ferma e determinata. Mi alzai di scatto dal letto e recuperai in fretta e furia una vestaglia dal mio armadio.

Carlos intanto aveva terminato di vestirsi. Mi si avvicinò e mi diede un veloce abbraccio per rassicurarmi, prima di andarsi a chiudere nella stanza da bagno. Udii altri due colpi alla porta e la mia agitazione crebbe a dismisura. Cercai di tranquillizzarmi e mi ripetei che sarebbe andato tutto bene, ma sentivo le gambe molli e tremanti ed un’angoscia fortissima che mi attanagliava lo stomaco. Non avevo paura per me, quanto per Carlos…se mio marito lo avesse scoperto insieme a me, come minimo l’avrebbe licenziato e scacciato per sempre da Villa Hutton…se non peggio.

-Un attimo-, risposi, cercando di tener ferma la voce. Risistemai il letto disfatto meglio che potei, allacciai in vita la cintura della vestaglia e mi ravviai i capelli con la mano. Respirai profondamente prima di aprire la porta e cercai di assumere un’espressione il più possibile tranquilla e composta.

Quando socchiusi finalmente l’uscio della mia stanza, vidi che non era stato mio marito a bussare. Era Tom Becker.

-Tom…che ci fate qua?-, esclamai meravigliata.

Tom arrossì, lievemente imbarazzato. –Mi scuso per aver invaso la vostra privacy bussando alla porta della vostra stanza…ma ero preoccupato per voi, Kathleen-, mi spiegò un po’ impacciato, torcendosi nervosamente le mani.

Mi sentii quasi commuovere dalla sua gentilezza, ed istintivamente gli strinsi forte le mani. –Grazie, Tom, siete davvero gentile con me. Ma non dovevate preoccuparvi, io sto bene-, risposi in tono rassicurante. C’era ancora un lieve tremito nella mia voce, ma fortunatamente Tom l’attribuì al turbamento che certo mi aveva suscitato la discussione avuta prima con Oliver.

Egli mi sorrise con dolcezza. –Mi fa piacere. Allora vi lascio, così potrete cambiarvi. Ci vediamo di sotto, nel salone-, mi disse.

Corrugai lievemente la fronte, e poi sospirai. –Non credo. Non ho intenzione di scendere questa sera-, risposi in tono deciso.

-Non potete farlo. C’è il ballo in costume. Gli ospiti stanno arrivando-, insistette lui, con tono dolce ma determinato.

Continuai a scuotere la testa. Non volevo scendere. Non me la sentivo di affrontare gli sguardi della gente, di fingermi serena e tranquilla, e soprattutto di incontrare Oliver dopo il modo crudele in cui mi aveva trattato prima…per non parlare di Amy. L’entusiasmo che mi aveva animato al pensiero del ballo era completamente svanito. Non mi importava più nulla della festa, degli ospiti, nemmeno del mio grandioso debutto in società. Sapevo che ci sarebbero state delle chiacchiere sulla mia assenza, ma non mi interessava. Non ero mai stata una buona attrice, e non avrei mai potuto prendere parte ad una festa in quello stato d’animo. –Non posso. Non ho più un costume, ricordate? E poi, sono certa che mio marito starà molto meglio senza di me, questa sera-, risposi con cocciutaggine, giocherellando con la cintura di seta della mia vestaglia.

Tom Becker sospirò e mi mise le mani sulle spalle, guardandomi dritto negli occhi con un’espressione così intensa che la mia determinazione vacillò per un istante. –Capisco il vostro dispiacere, Kathleen, ma dovete ricordarvi che ora voi siete la signora Hutton. Avete organizzato questa festa e dovete partecipare, malgrado tutto. Avete degli obblighi verso le persone che avete invitato, e che si aspettano di vedervi questa sera nel salone. Quanto al costume, non dovete preoccuparvi. Oliver ha detto che provvederà a raccontare agli ospiti che c’è stato un disguido con l’invio del vostro abito da Londra. Ora siate forte, indossate un bell’abito da sera e scendete ad accogliere i vostri ospiti-, disse, con la sua solita voce pacata e tranquilla che tante volte mi aveva rasserenato nei momenti di incertezza.

Mi scostai bruscamente da lui e andai ad affacciarmi alla finestra. Incollai il mio viso al vetro, cominciando a sentirmi combattuta. Non potevo negare che Tom aveva ragione…ero stata io ad organizzare il ballo in costume e sarebbe stato davvero maleducato non presentarmi. Non sarei certo partita con il piede giusto con quella società dalla quale desideravo a tutti i costi essere accettata. Una parte di me però continuava a ribellarsi, ad essere stufa di quella squallida finzione nella quale ero costretta a vivere. Come potevo sorridere quella sera, sfilare davanti agli invitati al braccio di mio marito come una sposa serena e tranquilla, quando dentro di me sapevo che il mio matrimonio si era rivelato un completo fallimento?

-E di Oliver cosa mi dite? Sarà furioso con me. Crede che io l’abbia fatto apposta-, mormorai, voltandomi lentamente verso Tom.

Egli mi sorrise con aria rassicurante. –Sono sicuro che egli non lo pensa veramente, Kathleen. Ha parlato così perché era sconvolto. Cercate di capirlo, è rimasto profondamente turbato vedendovi scendere la scalinata con quell’abito…anche io per un attimo ho pensato…-, il suo viso si rabbuiò per un istante, ma tornò quasi subito alla normalità. –Appena ci ragionerà un po’ su però, capirà che è impossibile che voi l’abbiate fatto apposta. Come avreste potuto sapere che quello era il vestito che aveva indossato Patricia all’ultimo ballo in costume?-

Sorrisi amaramente, ripensando al consiglio della signora Martin. Com’ero stata ingenua a fidarmi di quella donna, a credere che avesse voluto aiutarmi in modo del tutto disinteressato…ero stata ingenua e sciocca. Quella donna mi odiava dal giorno in cui ero arrivata a Villa Hutton, mi considerava un’usurpatrice, e dovevo immaginare che ogni sua azione era finalizzata solo ed esclusivamente a farmi del male. –Avrei dovuto immaginarlo, invece…-, sussurrai a bassa voce, rivolta più a me stessa che a Tom Becker.

-Credetemi, Kathleen, Oliver ha reagito così solo perché era sconvolto, ma in realtà non pensa veramente che voi l’abbiate fatto apposta. Sono sicuro che presto troverete il modo di chiarirvi. Ma se voi non scendete al ballo questa sera, le cose tra di voi non potranno far altro che peggiorare-, affermò Tom in tono perentorio.

Sospirai, rendendomi conto che aveva perfettamente ragione. Oliver era comunque mio marito, l’uomo che avevo sposato, ed era mio dovere fare il possibile per salvare il mio matrimonio. Villa Hutton era casa mia ormai, non avevo nessun altro posto dove andare, quindi dovevo fare buon viso a cattivo gioco e fare del mio meglio per migliorare la spiacevole situazione in cui mi ero cacciata con le mie stesse mani.

-Avete ragione voi Tom. Datemi solo qualche minuto e scendo-, mi arresi infine, con tono stanco e rassegnato.

Egli mi sorrise, e mi strinse con affetto una mano. –Avete preso la decisione migliore, Kathleen. Ci vediamo più tardi-, mi disse con gentilezza, e poi si avviò verso la porta per andarsene.

-Tom!-, esclamai, quando la sua mano si era già appoggiata sulla maniglia.

Tom si voltò e mi guardò con espressione interrogativa.

Gli sorrisi con gratitudine. Meno male che esisteva Tom Becker…era l’unica persona in quella casa che mi dimostrasse affetto e comprensione, che mi offriva sempre ed incondizionatamente il suo aiuto e che non mi considerava solamente una squallida sostituta di Patricia. Senza di lui, la mia vita là dentro sarebbe certamente stata davvero insopportabile. –Grazie-, dissi semplicemente.

Egli rispose al mio sorriso con aria un po’ timida. –Di che cosa? Non ho fatto nulla-, si schermì.

Scossi la testa. –Sì invece. Siete il mio unico amico. Ecco di cosa vi ringrazio-, insistetti.

L’espressione del suo viso divenne dolcissima. Non avevo mai visto uno sguardo così colmo di bontà, così trasparente, in tutta la mia vita. –Non potrebbe essere altrimenti, visto come siete, Kathleen-, rispose. Dopo queste parole, uscì lentamente dalla mia stanza e si richiuse la porta alle spalle.

Inspirai profondamente, cercando di non pensare per non rischiare di pentirmi della mia decisione di scendere alla festa, e aprii l’armadio alla ricerca di un abito da sera adatto all’occasione. Mentre passavo in rassegna con aria critica tutto il mio guardaroba, sentii un rumore alle mie spalle, e vidi Carlos uscire dalla stanza da bagno. La sua presenza mi rigettò di nuovo in uno stato di profondo turbamento. Non era senso di colpa, quanto piuttosto un’intima angoscia per la situazione di grande confusione nella quale mi trovavo in quel particolare momento della mia vita. Mi sentivo smarrita, non riuscivo più a capire chi ero e che cosa volevo veramente.

-Hai preso la decisione giusta-, affermò Carlos, venendomi accanto ed abbracciandomi da dietro. Mi appoggiai stancamente contro di lui, sperando invano che la sua presenza rassicurante potesse tranquillizzarmi,

-Ne sei sicuro?-, sospirai, sentendomi di nuovo invadere da un profondo scoramento.

Egli annuì con determinazione. –Devi smetterla di sentirti come un’ospite indesiderata, Kat. Non è così. Tu qua dentro sei la padrona e devi comportarti come tale. Perciò ora indossa il tuo miglior vestito, sorridi, va’ di sotto e fa vedere a tutti quanti chi sei. Mostra a tuo marito e a quegli idioti borghesucci dei suoi amici chi è Kathleen Hutton-, disse perentoriamente, facendomi voltare verso di lui e guardandomi intensamente negli occhi.

Non so perché, ma udire le sue parole fece nascere in me una grande forza. Carlos aveva ragione. Ero io la padrona di casa, la legittima signora Hutton, e dovevo smetterla di aver paura di tutti e di tutti. Dovevo tirare fuori le unghie e mostrare a tutti quanti chi ero. Sorrisi e abbracciai forte Carlos per ringraziarlo del suo sostegno, che in quel momento per me valeva come un tesoro prezioso.

-Grazie-, mormorai al suo orecchio, cercando di resistere alla tentazione di baciarlo appassionatamente e di trascorrere la serata tra le sue braccia, anziché a quella maledetta festa.

Egli mi prese il viso tra le mani e mi baciò. –Forza e coraggio. Ora devo scendere anch’io, la signora Martin mi starà cercando senz’altro. Buona fortuna, Kat-, mi disse, poi si avviò verso la porta e scomparì dalla mia vista, dopo avermi salutata ancora una volta con un sorriso e un cenno con la mano.

Rimasi immobile per qualche istante, accarezzandomi le labbra con le dita e assaporando il calore che mi aveva lasciato il tenero bacio di Carlos, dopodiché chiamai a raccolta tutte le mie forze e tirai fuori dall’armadio un elegante vestito di seta color argento, regalo di Oliver. Chiamai Lavinia utilizzando il solito campanello ed ella accorse immediatamente. Fu un po’ meravigliata quando vide che mi ero cambiata d’abito, ma non fece domande, pensai che probabilmente doveva aver ascoltato almeno qualche scampolo della mia discussione con mio marito. Mi risistemai il trucco e mi pettinai, poi respirai profondamente per farmi coraggio e scesi dabbasso, reggendo con le mani ancora un po’ tremanti lo strascico del mio vestito.

Oliver si trovava in fondo alla scalinata, proprio nel punto in cui era poco tempo prima (anche se a me sembrava ormai trascorsa un’eternità), quando io ero arrivata indossando il costume bianco della sventura. Reggeva in mano un bicchiere di brandy e stava conversando con il vescovo e sua moglie. Rimasi stupefatta dalla disinvoltura con la quale egli mi accolse. Quando vide che ero arrivata, mi tese la mano invitandomi a raggiungerlo e mi salutò con un bacio sulla guancia, continuando a sorridere ai signori Campbell come se non fosse mai esistita alcuna ombra nella nostra perfetta felicità, come se fossimo una coppia veramente serena e unite, quasi che ciò che era accaduto neanche un’ora prima fosse stato solamente un brutto sogno.

-Come siete elegante, signora Hutton. Questo vestito vi sta a meraviglia-, affermò in tono galante il vescovo, inchinandosi davanti a me e baciandomi con deferenza la mano.

Sorrisi, cercando di mostrarmi disinvolta e calma almeno la metà di quanto lo era mio marito, e lo ringraziai con un educato cenno del capo.

-Vostro marito ci stava giusto raccontando del vostro costume. Un vero peccato-, interloquì sua moglie, squadrandomi da capo a piedi con aria interrogativa, come se non si fosse affatto bevuta la panzana che Oliver le aveva raccontato.

Erano entrambi vestiti in stile settecentesco, il vescovo con un abito che lo faceva sembrare un grosso pinguino ed una parrucca di riccioli bianchi, la signora con una parrucca identica a quella del marito, a parte la lunghezza, e un ricco abito nero ornato di fronzi e merletti.

-Già, è stato un contrattempo davvero spiacevole-, replicai, cercando di assumere un’aria di distaccata disapprovazione. –Pensare che era così bello il costume che avevo scelto-, non potei poi fare a meno di aggiungere, lanciando un’occhiata in tralice a mio marito, che però non raccolse la provocazione.

-Capisco il vostro dispiacere, una volta successe anche a nostra figlia e ci rimase veramente male. Comunque non angustiatevi, cara signora. Siete bellissima anche così, e poi vedrete che ci saranno anche altre occasioni per mascherarvi-, cercò di rassicurarmi la moglie del vescovo, stringendomi le mani con effusione.

Abbozzai un sorriso, anche se cominciavo a sentirmi già abbastanza nauseata da quella sceneggiata. Avrei desiderato con tutto il cuore voltare i tacchi e far ritorno in camera mia, ma non potevo. Ormai ero in ballo, tanto valeva ballare fino in fondo. Mi armai della più incredibile faccia tosta e passai tutta la serata a girare per il salone al braccio di mio marito, salutando con deferenza gli ospiti, accogliendo con falso orgoglio i loro complimenti per la magnifica festa e conversando cortesemente con tutti come se non avessi mai desiderato fare altro in tutta la mia vita. Quel ballo in costume che avevo così tanto sognato e progettato fin nei minimi particolari si stava rivelando di uno squallore incredibile, e la gente che tanto desideravo impressionare solo una massa di ipocriti pronti ad adularmi quando parlavo con loro, e criticarmi poi dietro le spalle.

Più di una volta infatti, subito dopo aver salutato qualcuno dei miei ospiti, udii dei commenti abbastanza malevoli sul mio conto. –Carina, ma nulla di speciale. Cerca di fare la perfetta padrona di casa ma si vede lontano un miglio che sta recitando una parte. Povera cara, è così giovane e inesperta. Certo, Patricia era tutta un’altra cosa-, sentii commentare una signora vestita da egiziana guardandomi di sfuggita mentre mi intrattenevo con il giudice della contea e sua moglie.

Mi sentii profondamente ferita da quelle parole così cattive e per un attimo un’ombra di tristezza passò sul mio volto. Ripensai però alle parole di Carlos, e mi resi conto che aveva perfettamente ragione…quelle persone erano solo idioti borghesucci, squallidi ed ipocriti, e non dovevo in alcun modo dare loro la soddisfazione di vedermi rattristata dalle loro perfide insinuazioni. Così recuperai in fretta il mio sorriso, e tornai ad indossare la mia maschera di ipocrisia. Anche se non avevo un costume come gli altri invitati, anch’io ero mascherata quella sera. Ero travestita da signora Hutton.

Verso la mezzanotte si aprirono le danze, e ovviamente io fui costretta a prendere parte assieme a mio marito al primo ballo, secondo la tradizione. Per un attimo mi domandai com’erano le cose quando erano Oliver e Patricia ad inaugurare le danze. Li vidi raggiungere il centro del salone tenendosi per mano e scambiandosi occhiate felici e sorridenti, per poi cominciare a danzare teneramente abbracciati, sotto gli sguardi colmi d’ammirazione di tutti i loro ospiti. Riuscivo quasi a vedere, come se fosse un’immagine reale, la ricca gonna bianca di Patricia che fluttuava nell’aria, il dolce sguardo che Oliver rivolgeva a sua moglie, le loro mani saldamente intrecciate, gli occhi dell’uno che si riflettevano in quelli dell’altro…un’immagine assolutamente idilliaca, che mi sforzai di cancellare immediatamente dalla mente.

Sentii la mano di Oliver cingermi bruscamente la vita, mentre i musicanti cominciavano a suonare. Cominciammo a muoverci seguendo il ritmo del valzer, mentre io tenevo ostinatamente gli occhi bassi per evitare di incrociare lo sguardo di mio marito. Non ci eravamo scambiati una parola fino a quel momento, anche se eravamo rimasti insieme per tutta la sera. Sapevo che eravamo stati fianco a fianco solo per dare ai nostri ospiti l’impressione della coppia unita e felice, ed ero più che certa che lui fosse ancora arrabbiato con me per la faccenda del costume. Non volevo guardare Oliver negli occhi, perché non avrei sopportato di incontrare il suo sguardo freddo e carico di gelido disprezzo. Tutto il mio coraggio sarebbe svanito in un attimo, se fosse accaduto questo.

I nostri corpi rimasero vicini per tutta la durata del valzer, ma le nostre menti e le nostre anime non avrebbero potuto essere più distanti. Ciascuno di noi due pensava ad altro e avrebbe desiderato con tutto il cuore di poter essere altrove, potevo percepirlo distintamente anche se non ci parlavamo.

Fu con sollievo che mi staccai finalmente da Oliver quando la musica cessò. Ci scambiammo una fugace occhiata, e fu mio marito ad abbassare lo sguardo per primo. Abbozzò un sorriso, rivolto sicuramente più ai nostri ospiti che a me, e poi andò ad invitare Amy a danzare con lui. La signora Ross accettò con un sorriso, non senza avermi prima rivolto un’occhiata piena d’odio. Mi sorpresi di notare che non mi sentivo affatto ferita dal suo sguardo glaciale, come se fosse stato diretto ad un’altra persona e non a me. Non mi importava più nulla del suo odio.

Mi allontanai il più rapidamente possibile dal centro del salone, sperando che nessun altro venisse ad invitarmi. Non avevo proprio voglia di ballare. Tuttavia, non potei in alcun modo scappare quando vidi Tom Becker venire verso di me e tendermi una mano con espressione dolce e sorridente. Dopo che era stato così caro e gentile con me, il minimo che potevo fare era concedergli un ballo. Cercai di sfoderare il migliore dei miei sorrisi e mi avviai con lui in mezzo alle altre coppie che danzavano, sforzandomi di stare il più lontano possibile da Oliver ed Amy.

-Siete bellissima questa sera, Kathleen. E vi assicuro che ve la state cavando egregiamente-, mi disse Tom in tono gentile, mentre danzavamo.

Abbozzai un sorriso. –Grazie, ma non ne sono tanto sicura. Esteriormente sembro tranquilla, ma dentro non vedo l’ora che questa serata sia finita. A voi posso dirlo, non mi sto divertendo affatto-, ammisi.

Tom fece una smorfia. Mi parve perfino che accentuasse la stretta intorno alla mia vita, ma forse fu soltanto una mia impressione. –Purtroppo la vostra situazione non è facile, Kathleen, me ne rendo conto. Sappiate che io sono sempre pronto ad ascoltarvi e ad aiutarvi, se avete bisogno di un amico-, proseguì, rivolgendomi uno sguardo dolce quasi quanto una carezza.

Gli rivolsi un’occhiata carica di gratitudine. –Io non so davvero come fare a ringraziarvi, Tom. Siete un uomo meraviglioso ed un amico davvero prezioso. Senza di voi qua dentro non saprei proprio dove sbattere la testa-, gli dissi, commossa dall’affettuosa comprensione che egli manifestava nei miei confronti…nonostante credessi ancora che fosse stato innamorato di Patricia, Tom non mi faceva affatto pesare il fatto di aver preso il suo posto, come facevano invece tutti gli altri, mio marito per primo, e sembrava volermi bene sinceramente.

-Un vostro sorriso è il miglior ringraziamento per me-, replicò Becker, e arrossì. Era così incredibilmente timido e tenero…mi chiesi come mai Patricia si fosse innamorata di Oliver e non di lui. Oliver era così freddo, così distaccato…ma forse si comportava così soltanto con me, conclusi amaramente. Sicuramente con Patricia era un uomo completamente diverso, l’uomo meraviglioso che mi era sembrato quando l’avevo conosciuto.

Terminato il ballo con Tom Becker, raggiunsi uno dei tavoli per prendere qualcosa da bere, e chiesi ad un cameriere di versarmi un whisky. Mentre lo sorseggiavo, mi guardai intorno per tutto il salone cercando Carlos con lo sguardo, ma non riuscii a vederlo. Eppure doveva essere lì, ero sicura che la signora Martin lo avesse incaricato di servire gli ospiti durante il ricevimento. Mi stavo ancora domandando dove fosse finito, quando sentii una mano posarsi sulla mia spalla. Mi voltai di scatto e mi trovai di fronte un uomo alto e vestito elegantemente con uno smoking nero, un cappello a cilindro in testa e addirittura una mascherina sul volto. Lo guardai interrogativamente, chiedendomi chi fosse e come avessi fatto a non notarlo prima. Non era certo un tipo che poteva passare inosservato.

-Volete concedermi l’onore di questo ballo, splendida signora?-, mi domandò con voce profonda e sensuale, che mi suonò stranamente familiare. Accettai, come ammaliata dall’odore che emanava da quello sconosciuto, e appoggiai sul tavolo il mio bicchiere ormai vuoto. Presi la mano che egli mi aveva teso e lasciai che mi conducesse al centro del salone, dove mi prese fra le braccia cominciando a guidarmi in un vorticoso giro di danza.

Lo vidi sorridere in modo decisamente enigmatico, ed istintivamente lo guardai negli occhi, seminascosti dietro la mascherina che indossava. Fu in quell’istante che lo riconobbi. Non avrei potuto confondere quegli occhi bruni ed intensi con quelli di nessun altro al mondo.

-Carlos!-, sussurrai con un singulto di meraviglia, sforzandomi di tenere bassa la voce per non farmi udire da nessun altro.

Egli si portò un dito alla bocca facendomi cenno di tacere, e fu una fortuna che mi stesse sorreggendo tra le sue forti braccia, perché sentii le mie gambe farsi così molli che per un istante temetti quasi di cadere a terra. Cosa ci faceva Carlos lì? Dove aveva preso quel vestito? Era una follia, assolutamente una follia. Cosa sarebbe successo se qualcuno lo avesse riconosciuto? Sarebbe scoppiato un disastro di inimmaginabili proporzioni, pensai, e cominciai a provare una profonda angoscia.

-Sei impazzito? Come ti è saltato in mente di travestirti e partecipare al ballo?-, sibilai, guardandomi ansiosamente intorno per vedere se qualcuno avesse già cominciato a nutrire dei sospetti sulla sua identità.

Carlos si limitò a sorridermi con espressione decisamente tranquilla. –Calmati, Kat. Non mi riconoscerà nessuno. Come vedi mi sono mascherato, e poi come potrebbe Oliver o chiunque altro immaginare che sono proprio io, Carlos Santana, il cameriere muto?-, mi rispose.

Ero letteralmente su tutte le furie con lui per il rischio inutile che stava correndo, anche se non potevo negare che mi faceva decisamente piacere avere la possibilità di ballare con lui, stretta tra le sue calde e forti braccia. –E se qualcuno si accorgesse della tua assenza? Io non voglio che tu venga licenziato, lo capisci?-, insistetti, parlando il più piano possibile per paura che qualcuno potesse malauguratamente udire la nostra conversazione.

Egli sospirò. –Con tutta la gente che c’è alla festa, chi vuoi che si accorga dell’assenza di uno dei camerieri? E poi, appena finito questo ballo me ne andrò e ritornerò al mio ruolo, quindi sta’ tranquilla, non c’è proprio niente di cui preoccuparsi-, mi rassicurò, stringendomi ancora più forte a sé.

Il contatto con il suo corpo mi fece quasi vacillare per l’emozione, ma non riuscii a farmi recuperare la calma. –Io non ti capisco. Perché hai voluto correre questo rischio inutile?-, domandai, mentre lacrime di paura ed impotenza cominciavano a fare capolino dai miei occhi.

Carlos mi sorrise con dolcezza, e con due dita mi accarezzò fugacemente il volto. –Non lo immagini? Per poter ballare con te, Kathleen-, sussurrò teneramente al mio orecchio.

Sentii il cuore balzarmi in gola e cominciare a battere furiosamente per l’emozione. Avrei voluto baciarlo ed abbracciarlo da quanto ero felice per le parole che mi aveva appena detto, ma non potevo farlo lì davanti a tutti. Mi limitai a stringermi impercettibilmente un po’ di più a lui, mordicchiandomi il labbro inferiore per non piangere di felicità e di commozione, desiderando con tutta l’anima che il resto del mondo scomparisse magicamente e che restassimo solo io e lui in quella stanza, liberi di esprimere le nostre emozioni senza preoccuparci di nulla e di nessuno. Purtroppo non era così, e fu a malincuore che mi staccai da Carlos quando la musica cessò. Egli si inchinò e mi baciò cortesemente la mano, mentre ci scambiavamo un’occhiata intensa da valere, almeno per me, molto più di centomila parole.

-Ora vattene, per favore-, gli dissi piano, prima che si congedasse.

-Non preoccuparti. Ora torno a fare il cameriere. A presto, Kat-, mi rispose in tono rassicurante, e si allontanò con passi rapidi e decisi. Mi allontanai dal centro del salone cercando di mascherare meglio che potei il mio profondo turbamento, e andai a sedermi su una delle poltrone poste ai bordi della stanza, tenendomi la mano sul petto in attesa che il mio cuore cessasse di galoppare come un cavallo imbizzarrito. Pochi minuti dopo, vidi Carlos, impeccabile nella sua livrea bianca da cameriere, intento a servire da bere ad uno degli ospiti, in un tavolo poco distante da quello in cui mi trovavo io. Come se avesse percepito la mia presenza, egli si voltò, e mi rivolse un sorriso in segno di intesa. Io mi limitai a rispondere con un’occhiata, perché avevo visto con la coda dell’occhio la signora Campbell che si stava dirigendo verso di me, e non volevo correre il rischio che quella pettegola si insospettisse. Dopo poco, infatti, la moglie del vescovo venne ad occupare la poltrona vuota accanto alla mia, e trascorsi il resto di quella per me interminabile serata a conversare con lei, sforzandomi di mostrarmi interessate alle sue chiacchiere insignificanti, e continuando a gettare occhiate in tralice al tavolo presso il quale si trovava il mio amante. Mi bastava guardarlo per provare un desiderio intenso ed inevitabile, che faceva fremere tutto il mio corpo e tremare il mio cuore per la violenta emozione. Era un sentimento fortissimo, bello e spaventoso allo stesso tempo, un sentimento inspiegabile che coinvolgeva la mente, il cuore e il corpo, e che non riuscivo in alcun modo a dominare.

Provai un grande sollievo quando finalmente la serata giunse al termine, e mi sentii quasi felice quando strinsi la mano anche all’ultimo ospite, ringraziandolo per essere intervenuto alla festa e ricevendo con gratitudine i suoi complimenti per il meraviglioso ricevimento che avevo organizzato. Tutti gli invitati mi avevano riempito di elogi per la magnifica organizzazione del ballo, ma anziché felice ed orgogliosa come avevo immaginato mentre mi occupavo dei vari preparativi, mi sentivo solamente stanca ed annoiata, e non vedevo l’ora di ritrovarmi sola nella mia stanza. Provai un attimo di imbarazzo quando mi ritrovai a dover salutare Amy e Julian. Quest’ultimo cercò di comportarsi in maniera naturale, ma si capiva chiaramente che era profondamente imbarazzato, mentre la signora Ross si limitò a stringermi fugacemente la mano, mentre mi rivolgeva una gelida occhiata che troncava definitivamente ogni mia speranza di poter fare un giorno amicizia con lei.

Tom Becker mi salutò con un abbraccio affettuoso e la promessa di essere nostro ospite a colazione l’indomani.

Finalmente la festa era terminata, e nel grande salone era rimasta solamente la servitù che si stava occupando di rimettere a posto. Stavo per salire di sopra e ritirarmi nella mia camera, quando Frank mi chiamò e mi disse che mio marito aveva bisogno di parlarmi e mi stava aspettando in biblioteca.

Fu con una certa apprensione che raggiunsi la biblioteca e mi fermai per qualche istante davanti alla porta chiusa, domandandomi che cosa potesse volere Oliver da me. Per un attimo ebbi il timore che si fosse accorto della presenza di Carlos alla festa, ma poi mi dissi che in quel caso avrebbe voluto parlare con lui, non certo con me…a meno che non si fosse accorto di cos’era successo tra di noi…

Bussai sentendomi il cuore in gola, e mio marito mi rispose freddamente di entrare. Aprii la porta timidamente e mi sedetti davanti alla grande scrivania in noce che troneggiava al centro della stanza, le cui pareti erano completamente stipate di libri. Oliver, ancora vestito come alla festa, era davanti alla finestra e guardava verso il giardino, con espressione profondamente assorta.

Per qualche istante tra di noi regnò solo un grande silenzio, che non fece altro che accrescere a dismisura la mia agitazione. Poi decisi di farmi forza e di rompere il ghiaccio, stanca dell’incertezza nella quale mi stavo dibattendo.

-Frank mi ha detto che volevi parlarmi. Di che si tratta?-, domandai, cercando di utilizzare un tono di voce il più possibile freddo e distaccato.

Oliver sospirò profondamente e si voltò verso di me, guardandomi con espressione vacua, quasi smarrita. Sembrava tormentato da un male invisibile che lo distruggeva dentro, nelle profondità più nascoste del suo animo…quelle che io non conoscevo, e che forse non avrei mai potuto conoscere.

-Volevo scusarmi per come mi sono comportato questa sera con te-, disse, ma non c’era traccia di pentimento né di dispiacere nella sua voce. Era come se stesse assolvendo ad un compito spiacevole, e tuttavia obbligatorio.

Sospirai anch’io, e chinai il capo. –Non devi scusarti di nulla. È stata colpa mia. Avrei dovuto immaginare-, sussurrai a bassa voce, sentendomi profondamente, inspiegabilmente triste ed afflitta.

Ormai era chiaro. Il nostro matrimonio non era nient’altro che una squallida farsa, e la freddezza che mio marito manifestava continuamente nei miei confronti ne era la palese dimostrazione.

Egli scosse bruscamente il capo, tornando a guardare fuori dalla finestra, come se volesse evitare in tutti i modi di incrociare il mio sguardo. –Ho riflettuto a lungo sul mio comportamento, e mi sono reso conto di aver esagerato. Ti ho accusata ingiustamente, mentre tu non potevi certo sapere che quel vestito…beh, si insomma, che era il vestito di Patricia allo scorso ballo-, disse. Era la prima volta che pronunciava in mia presenza il nome della sua prima moglie, e mi resi conto da subito che gli costava una grande fatica e sofferenza dirlo ad alta voce. Rimase in silenzio per qualche istante, facendo scorrere le dita sulla tenda, con evidente nervosismo. –Ho sbagliato, ho reagito come un pazzo…te ne chiedo scusa…E’ che…forse non è una giustificazione, ma ero veramente sconvolto. Era come se il tempo fosse tornato indietro…Per un attimo ho pensato che lei fosse tornata, e invece…invece…-, su questo punto la sua voce si spezzò bruscamente ed egli emise un gemito quasi impercettibile, che tuttavia non sfuggì alle mie orecchie attente e mi ferì più di tutto il resto.

-Invece ero solamente io-, terminai per lui, con un sussurro carico di tristezza.

Oliver si girò verso di me, e mi guardò con un’espressione piena di indicibile sofferenza, che mi provocò una violenta fitta al cuore. Provai una pena profonda in quell’istante, profonda e straziante…pena per lui, e anche per me stessa.

Mi alzai in piedi, cercando coraggiosamente di guardarlo negli occhi e di mantenere ferma la mia voce. –Non devi scusarti, Oliver. Ti ho già perdonato, e so che non volevi sul serio aggredirmi ed accusarmi. Mi fa piacere che tu abbia capito che non l’ho fatto apposta. Si è trattato solo di un triste, sfortunato incidente, e per me la questione è già chiusa. Quindi ti prego, non parliamone più. Buonanotte-, dissi tutto d’un fiato. Poi mi diressi verso la porta ed uscii dalla stanza senza voltarmi indietro neanche per un attimo, e senza che mio marito facesse nulla per fermarmi.

Con una profonda angoscia nel cuore, come se qualcosa dentro di me quella sera fosse morto per sempre, mi avviai verso la mia stanza a capo chino, lasciando Oliver solo con i suoi fantasmi.

 

Fine nono capitolo

 

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Capitolo 10
*** Capitolo decimo ***


PATRICIA LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO DECIMO

 

Dalla sera della festa, cominciò per me un periodo che potrei solamente definire surreale.

Oliver diventava ogni giorno di più un estraneo, per me. Non c’era più alcun tipo di rapporto fra me e mio marito, era sparito anche quel barlume di conversazione che avevamo condiviso fino a quella sera. Ci limitavamo ad incontrarci durante i pasti, ma parlavamo pochissimo, quasi per nulla, e molte volte mi ritrovai a pensare che, se non ci fosse stato Tom Becker, avremmo trascorso colazioni, pranzi e cene immersi nel più totale silenzio.

Tom era quasi tutti i giorni nostro ospite, e leggevo nei suoi occhi che era molto preoccupato per le sorti del nostro matrimonio, anche se non osava chiedere nulla, discreto e gentile come sempre. Mi rivolgeva certe occhiate così dolci e cariche di tenerezza che a volte mi sentivo assalire dal senso di colpa ed abbassavo istintivamente lo sguardo, pensando con amarezza che, mentre lui aveva molto a cuore la riuscita della mia unione con Oliver, a me ormai non importava più nulla. La notte dopo il ballo in costume era trascorsa praticamente insonne, e io avevo avuto modo di riflettere a lungo sulla mia situazione, mentre al di là della porta comunicante sentivo mio marito camminare su e giù per la sua stanza come una belva in gabbia, e credo di aver udito anche qualche singhiozzo disperato. Sapevo a chi stava pensando, sapevo chi stava invocando tra le lacrime…lei, Patricia. Ormai non avevo più alcun dubbio, Patricia era sempre presente nel suo cuore, viva più che mai, e niente e nessuno avrebbe mai potuto scalfire il suo ricordo. Però, non detestavo più Oliver per questo, anzi, mio marito mi faceva compassione. Non era cattivo, era semplicemente un uomo distrutto da una sofferenza troppo grande, che lo divorava giorno dopo giorno e non gli lasciava mai tregua neppure per un istante. I miei occhi avevano cominciato a vedere quello che per troppo tempo mi ero rifiutata di vedere, covando nel mio cuore l’illusione che un giorno io e lui avremmo potuto essere felici insieme…ma quale felicità? Mi rendevo conto invece che mio marito era consumato dal dolore ogni momento di più, che si stava spegnendo come una candela, e che la mia presenza non poteva fare nulla per aiutarlo, anzi, forse rendeva solamente più acuta la sua sofferenza, proprio come aveva detto Amy la prima volta che mi aveva vista. Patricia non era stata solamente sua moglie…era stata l’altra metà della sua anima, e dopo averla perduta, Oliver aveva perso anche se stesso. La sua vita era finita il giorno in cui lei se n’era andata per sempre, ed egli vegetava cercando di sopravvivere, ma in realtà desiderando nel profondo del suo cuore soltanto di raggiungerla e di poter restare per sempre accanto a lei. Non riusciva ad accettare il fatto che la morte li avesse separati, e forse non lo avrebbe accettato mai.

Nelle mie lunghe ore di riflessione solitaria, ero arrivata alla conclusione che il mio matrimonio si era rivelato un totale fallimento, ed era inutile che cercassi di convincermi del contrario. Nulla, non c’era nulla che mi tenesse legata ad Oliver, o che tenesse Oliver legato a me. Nulla, a parte un freddo contratto stipulato davanti ad un giudice di pace, ad una promessa che fin dall’inizio non era altro che una menzogna. Anche l’amore che avevo creduto di provare per lui era un’illusione, una bugia…una fantasia infantile. Avevo creduto di amarlo perché ero rimasta affascinata da lui, da quell’alone di mistero e di sofferenza che lo circondava e che lo rendeva simile agli eroi dei romanzi tragici che amavo leggere, ma poi egli si era rivelato per ciò che era veramente ed era caduto dal piedistallo su cui lo avevo ingenuamente collocato. Avevo smesso di essere innamorata di lui fin dalla nostra prima notte di nozze, quando per la prima volta avevo toccato con mano lo squallore in cui consisteva in realtà la favola che mi ero dipinta nella mente, e mi ero rifiutata di ammetterlo anche solo con me stessa per orgoglio, per cocciutaggine…forse per timore di capire di essermi sbagliata, quando ormai era troppo tardi per ritornare indietro.

Ogni giorno di più, avevo iniziato a percepire Oliver come distante, quasi inesistente, e tutti i miei tentativi per recuperare le illusioni che mi avevano spinta a sposarlo si erano conclusi in umiliazioni e fallimenti, perché stavo tentando di salvare l’insalvabile. Anche se mi sforzavo di diventare identica a Patricia, egli non mi avrebbe mai amata. Anche se mi sforzavo di essere me stessa, una donna diversa da lei, con i suoi pregi e le sue mancanze, egli non mi avrebbe mai amata. L’amore, quello vero, quello forte, per cui si versano fiumi di inchiostri, per cui si ride e si piange, si incontra veramente solo una volta nella vita, anche se mille volte ci troviamo di fronte a sentimenti a cui per sbaglio attribuiamo quel nome. Oliver aveva avuto la fortuna di incontrarlo, ma anche la terribile esperienza di perderlo. Patricia era la donna della sua vita, l’unica, l’insostituibile, e né io né nessun’altra avremmo mai potuto prendere il suo posto nella vita di Oliver. Me lo aveva dimostrato la freddezza della signora Martin, ma io non avevo voluto vedere. Me lo aveva dimostrato il comportamento ostile di Amy Ross, ma io non avevo voluto capire. Me lo aveva dimostrato la reazione della madre di Oliver, e poi la freddezza dei nostri vicini di casa durante le visite di cortesia, ma io, cieca, non avevo voluto rendermi conto di come realmente stavano le cose. Finalmente però avevo aperto gli occhi, ed avevo compreso. Questo da una parte mi dava un senso quasi di sollievo, perché ormai avevo cessato di tormentarmi per l’indifferenza di mio marito, o di struggermi giorno e notte alla ricerca del suo amore, che mai avrei potuto avere. Forse col tempo Oliver avrebbe potuto darmi affetto, ma amore mai, sarebbe stato impossibile. Egli era già innamorato di Patricia, e avrebbe continuato per sempre, anche se lei era morta, anche se non l’avrebbe mai più rivista. E neanche lo volevo più il suo amore, perché nemmeno io lo amavo, e lo sapevo finalmente con certezza. Provavo tenerezza nei suoi confronti ed una profonda compassione per il suo dolore, non lo odiavo e mai avrei potuto odiarlo, nonostante la sua freddezza verso di me, ma non ero innamorata di lui, e forse non lo ero mai stata veramente.

Tuttavia, sapevo che non avrei mai potuto lasciarlo, anche se non lo amavo, e questa consapevolezza mi rattristava enormemente, perché era orribile per una persona romantica come me, che credeva ancora nell’esistenza dell’amore e della passione, quelli veri, pensare di essere legata ormai per tutta la vita ad un uomo per il quale non provava alcun sentimento. Una donna divorziata non sarebbe mai stata accettata dalla società nella quale vivevo…sarei stata bollata a vita come una sgualdrina e tenuta sempre ai margini, e la cosa peggiore è che non avrei saputo neanche dove andare, perché ero completamente sola al mondo e non possedevo nulla di mio. Non avevo più una famiglia su cui contare, non avevo denaro, non avevo lavoro, non avevo nemmeno una casa in cui vivere. L’unica cosa che possedevo era il mio matrimonio con Oliver, e la mia condizione mi costringeva inesorabilmente a rimanere insieme a lui. Ero ormai entrata in una sorta di vicolo cieco, dal quale sapevo che non sarei mai più riuscita ad uscire, ed era inutile torturarsi con i rimpianti, perché ero stata io a scegliere di sposarmi, nessuno mi aveva costretta.

Tuttavia, malgrado il non amore di mio marito e l’ostilità della maggior parte delle persone che mi circondavano, e nonostante la consapevolezza che quella sarebbe stata d’ora in poi la mia vita, per sempre…malgrado tutto questo ero felice. Sì, io ero una donna felice. E la ragione della mia felicità era una ed una soltanto…Carlos Santana.

Pensai moltissimo anche a lui quella notte, e mi resi conto che non mi sentivo affatto in colpa per aver tradito mio marito, anzi…Mi bastava pensare a Carlos per sentirmi invadere da una sorta di languido calore, da un senso di serenità e di benessere che riempiva ogni fibra della mia anima e che spazzava via come per incanto tutte le mie angosce, le mie delusioni, e persino tutti i miei timori per il futuro. Chiudevo gli occhi e rivivevo nitidamente le sue carezze, i suoi baci, riassaporavo la sensazione delle sue mani che percorrevano il mio corpo come se lui si trovasse accanto a me in quel preciso istante, e mi sembrava di staccarmi da quel letto e di librare leggera nell’aria, fino a raggiungere il cielo. Era stato così bello fare l’amore con lui…neanche nei miei sogni più audaci avevo mai immaginato che potesse esistere qualcosa di così meraviglioso, di così forte, qualcosa che coinvolgesse l’anima e il corpo in un modo così totale. Non avevo mai immaginato che potesse esistere un’estasi così totale ed appagante, una passione così irresistibile e violenta come quella che ci aveva assaliti quella sera spingendoci l’uno tra le braccia dell’altro. Al contrario, dopo le mie sporadiche e deludenti esperienze con mio marito avevo cominciato a pensare al sesso come a qualcosa di decisamente squallido e spiacevole, e a domandarmi se per caso non fossi frigida. Quella sera invece, abbandonata e stretta tra le braccia di Carlos, mi ero lasciata finalmente andare, dimentica del mondo e perfino di me stessa, e avevo scoperto una parte di me che non pensavo neanche che esistesse, e che invece era solamente assopita in attesa che qualcuno riuscisse a risvegliarla, che qualcuno facesse divampare quell’incendio che albergava già dentro di me e che aspettava solamente una scintilla per esplodere in tutta la sua potenza. Mi ero sentita come se veramente lui ed io fossimo diventati una cosa sola, e anche se per Carlos si fosse trattato semplicemente di un divertimento, di una banale notte di sesso, non me ne sarebbe importato nulla, perché per la prima volta mi ero sentita viva, e donna in ogni parte del mio essere, e questo era il dono più prezioso che potessi ricevere da un uomo.

Smaniavo quasi dal desiderio che arrivasse il mattino per poterlo rivedere, e tremavo quasi dal timore che potesse aspettarmi al varco una delusione, che egli avesse ormai ottenuto l’unica cosa che voleva da me e quindi non volesse rivedermi mai più, anche se il mio cuore continuava a dirmi con insistenza che non sarebbe andata così.

Dovetti attendere che fosse terminata la colazione e che Tom Becker, che era nostro ospite come di consueto, se ne fosse andato, prima di precipitarmi in spiaggia alla ricerca di Carlos, ed ero talmente impegnata a pensare a lui che non mi avvidi per nulla dell’atmosfera di tensione che aleggiava tra me e mio marito, con Oliver che faticava persino ad incrociare il mio sguardo. Non notai nulla, nemmeno l’espressione preoccupata di Tom, e quando egli prima di andarsene mi domandò cautamente come mi sentivo, risposi “benissimo!” con una spontaneità ed un entusiasmo che lo sconcertarono non poco. Volevo bene a Tom e gli ero davvero grata per le sue premure, ma quella mattina desideravo solamente vederlo andare via il prima possibile. Fu con sollievo perciò che lo accompagnai alla porta al termine della colazione, e dopo aver controllato che mio marito fosse rinchiuso nel suo studio come al solito, uscii quasi di corsa, seguita dallo sguardo vigile e vagamente scrutatore della signora Martin, che stava sparecchiando la tavola.

L’istinto mi suggeriva che Carlos si trovava in spiaggia e che mi stava aspettando, e percorsi il sentiero pressoché di corsa e con il cuore in gola, che continuava a martellarmi furiosamente nel petto fino quasi a farmi male. Quando arrivai sulla baia, non lo vidi però da nessuna parte, e per un attimo mi sentii sprofondare nel baratro della più cocente delusione. Mi lasciai cadere sulla sabbia, con le lacrime che cominciavano già a pizzicarmi dispettosamente gli occhi, e mi portai le ginocchia al petto. Piansi per qualche istante, sentendomi come se mi fosse stato portato via il sole che per qualche istante aveva rischiarato la mia esistenza, e quando rialzai lo sguardo vidi di fronte a me Carlos che stava uscendo proprio in quell’attimo dall’acqua, splendido come un’apparizione, con i capelli bagnati che gli aderivano alla fronte ed il corpo completamente nudo. Mi sentii venire meno il respiro per qualche istante, sopraffatta dalla meraviglia di quella visione e dal desiderio che mi suscitò quasi immediatamente. Un brivido mi percorse la schiena, mentre egli notava la mia presenza e mi veniva incontro sorridendo, scostandosi una ciocca bagnata di capelli dagli occhi con un gesto semplice, ma intriso di una sensualità che mi fece tremare di desiderio. Istintivamente, balzai in piedi e corsi verso di lui, e mi gettai tra le sue braccia aggrappandomi al suo torace muscoloso come se fosse la mia unica ancora di salvezza. Sentii i miei vestiti inumidirsi leggermente a contatto con il suo corpo ancora bagnato, ma non me ne importava nulla, perché dentro di me cominciavo a sentire già caldo, molto caldo. Sospirai di piacere mentre sentivo le mani forti e dolci allo stesso tempo di Carlos cingere la mia vita per attirarmi ancora di più contro di sé, e sollevai lo sguardo affinché egli potesse finalmente baciarmi. Risposi al suo bacio con ardore e passione, passando le braccia attorno al suo collo e stringendolo a me più che potevo, mentre ogni cosa intorno a noi cominciava già a sparire, e la malinconia di pochi attimi prima diventava null’altro che uno sbiadito ricordo.

Lasciai che Carlos mi facesse distendere sulla sabbia e cominciasse lentamente a slacciare i bottoni della mia camicetta, senza dire una parola. Mi lasciai soltanto sfuggire un leggero gemito quando le sue dita si insinuarono dentro il mio reggiseno e cominciarono a giocherellare con un mio capezzolo, ed istintivamente mi inarcai per comunicargli attraverso il linguaggio del corpo con quanta intensità lo desideravo.

Mi abbandonai ancora una volta senza riserve ai suoi baci e alle sue carezze sempre più impudici ed appassionati, e gridai di gioia e di soddisfazione quando egli mi possedette e cominciò a muoversi dentro di me dapprima con lentezza, e poi sempre più velocemente, finché non raggiungemmo insieme l’orgasmo mentre ci scioglievamo in un bacio appassionato.

Restammo ancora abbracciati mentre tornavamo lentamente sulla terra, e con un pigro sorriso soddisfatto mi strinsi al mio amante appoggiando la testa sul suo petto, lasciando che Carlos mi scompigliasse dolcemente i capelli. Inspirai profondamente la fresca brezza salmastra, pensando che per la prima volta stavo provando qualcosa di pericolosamente vicino alla felicità.

-A che pensi?-, mi sussurrò Carlos, spezzando il silenzio che era da sempre una costante del nostro rapporto, ma che in fin dei conti contribuiva a renderlo ancora più intenso e profondo, perché non avevamo bisogno delle parole per comprendere ciò che provavamo l’uno nei confronti dell’altro.

Scossi piano la testa. –Nulla di particolare…mi godevo questa bella sensazione-, risposi, sollevando leggermente la testa per potergli dare un veloce bacio sulle labbra.

-Kat…tu ti chiedi mai cosa ci sta succedendo?-, mi domandò dopo aver continuato a tacere per qualche lungo istante, facendo scorrere lievemente le dita sulla pelle nuda del mio braccio.

Mi mordicchiai il labbro inferiore sforzandomi di trovare una risposta a quella domanda. –Non lo so-, ammisi poi con un sospiro. Lo guardai dritto negli occhi, mentre gli accarezzavo piano una guancia provando una sensazione terribilmente struggente alla quale non sapevo dare un nome…quasi un violento desiderio di inglobarlo dentro di me, di farlo diventare una parte inseparabile del mio corpo per non dovermi separare da lui mai più. Anche se fisicamente era ancora vicino a me, lo sentivo distante, perché mi rendevo conto che era un individuo a se stante, che non mi apparteneva, e invece avrei voluto che fosse mio…avrei voluto che lui fosse me, ma non sapevo spiegare né a parole né in nessun altro modo per quale motivo mi sentivo così. –Io so solo che ti desidero, Carlos, e che non ho mai desiderato nessun altro così tanto in vita mia. So solo che mi sento viva solo quando sono insieme a te, e che tra le tue braccia provo qualcosa di molto simile alla felicità. Non sono mai stata così bene con nessun’altra persona. Ma non chiedermi perché provo questo, perché non lo so-, risposi in tono accorato, mentre senza alcuna ragione al mondo sentivo come un nodo serrarmi violentemente la gola.

Carlos mi sorrise con aria malinconica e mi prese il viso tra le mani, guardandomi con un’intensità che quasi mi spaventò. –E’ lo stesso che provo io, e nemmeno io so spiegartelo. So soltanto che ti voglio, e che dopo un po’ che sono lontano da te sento quasi che mi manca l’aria, mi sembra di non riuscire più nemmeno a respirare. Ho bisogno di te, Kat, non riesco più a fare a meno di averti accanto. Ed ho paura-, disse, con un tono così serio che provai una stranissima inquietudine.

Sospirai, e mi avvinghiai a lui con tutte le mie forze, sperando che l’intimo contatto dei nostri corpi potesse in qualche modo rassicurarmi e scacciare quel peso che aveva cominciato ad opprimermi fastidiosamente il petto. Non fu così. –Perché hai paura?-

Sentii il torace di Carlos sollevarsi ed abbassarsi durante un profondo respiro. Percepivo nitidamente il battito del suo cuore mentre tenevo la testa poggiata sulla sua spalla e le mani strette dietro alla sua schiena. –Perché non voglio legarmi a nessuno, Kat. Non voglio soffrire, come mi è successo in passato,e  non voglio più essere abbandonato. Se fossi nuovamente abbandonato da una persona che amo, ne morirei-. Mi scostò lievemente da sé per guardarmi negli occhi, e la sua espressione era insolitamente dura, aveva i lineamenti contratti e gli occhi quasi freddi. C’era un’infinita dolcezza però nella sua mano che percorreva lentamente il mio viso, e nella sua voce quando dopo un lungo silenzio si decise finalmente a parlarmi. –Non innamorarti di me, Kat, te ne prego. Non darmi questa responsabilità. Io non voglio allontanarti da me, perché ho bisogno di te, un bisogno che tu non puoi neanche immaginare. Ma non amarmi, ti prego, e non chiedermi legami. Non ce la faccio…vorrei, te lo giuro, ma è più forte di me, non ce la faccio proprio-, sussurrò, ed io percepii nel suo sguardo e nelle sue parole una tristezza così sconfinata che sentii il mio cuore stringersi dolorosamente e mi domandai, senza tuttavia osare chiedere per non rigirare il coltello in una piaga ancora evidentemente aperta, cosa c’era stato nel passato di Carlos che lo aveva ferito così profondamente ed irrimediabilmente, chi lo aveva abbandonato facendogli così tanto male. Oliver mi aveva detto che lo avevano trovato che vagava sulla spiaggia quando non doveva avere più di dieci anni, e che da allora non aveva mai detto una parola, e Carlos stesso mi aveva confermato che poteva, ma non voleva parlare. Chi era stato a farlo soffrire così tanto? Chi? Forse sua madre, o comunque i suoi genitori? Avrei dato qualunque cosa perché lui si fidasse di me al punto da raccontarmi ciò che così accuratamente aveva nascosto per oltre vent’anni, e per poter in qualche modo alleviare le sue sofferenze, ma non avevo il coraggio di entrare in quella zona d’ombra che egli voleva ad ogni costo tenere per sé, e avevo troppa paura che lui mi allontanasse giudicandomi invadente. Allora non avrei mai potuto immaginare quale fosse il segreto di Carlos, e quali agghiaccianti conseguenze avrebbe portato nelle vite di tutti noi…

-Non preoccuparti, Carlos. Io non voglio chiederti nulla…non ne avrei alcun diritto, perché, anche se non amo mio marito, e forse non l’ho mai amato, rimango comunque una donna sposata…-, ribattei amaramente, chinando il capo e lasciandomi sfuggire un sospiro. –Voglio solo vivere questo nostro sentimento fino in fondo…perché anch’io ho bisogno di te, ho disperatamente bisogno di te!-, esclamai, gettandogli le braccia al collo con ardore.

Lo sentii sussultare tra le mie braccia, e pochi istanti dopo avevamo già ripreso a baciarci appassionatamente, consumati da un ardore insaziabile, da un bisogno allo stesso tempo fisico e spirituale che non ci dava tregua, spingendoci inesorabilmente ad affondare sempre di più l’uno nell’altra, perché solo nell’unione così magica e sconvolgente dei nostri corpi riuscivamo a trovare quella pace che il destino sembrava averci così crudelmente negato.

Trascorremmo tutta la mattinata ad amarci sulla spiaggia, senza sentirci mai appagati a sufficienza, senza smettere di desiderarci intensamente per un solo istante, e se avessimo potuto saremmo rimasti lì per sempre, vivendo solo ed esclusivamente dell’alchimia che regnava tra i nostri corpi e le nostre anime, tra le nostre due essenze vitali.

Non potevamo però dimenticarci in eterno del mondo che ci circondava, e fu così che, giunta l’ora di pranzo, ci separammo a malincuore, promettendoci di rivederci lì il giorno successivo. Ritornai a casa con l’anima spaccata praticamente in due: una parte di me era ancora felice ed eccitata per la splendida mattinata appena trascorsa, l’altra invece cominciava a subire già la tortura della separazione e si sentiva profondamente angosciata, senza però conoscerne il motivo.

Fu così che trascorse un mese della mia esistenza…il mese sicuramente più bello da quando ero arrivata a Villa Hutton, nonostante l’intima inquietudine che si era impadronita misteriosamente del mio cuore non accennasse mai a dileguarsi. Riuscivo a metterla a tacere solamente durante le ore che trascorrevo tra le braccia del mio amante, ma non appena ci allontanavamo, io diretta verso la Villa dove mi attendeva mio marito per il pranzo, e lui alla sua capanna, ecco quel sottile, infinito tormento riprendere ad attanagliare il mio cuore con i suoi crudeli uncini, pronto a guastare con la sua silenziosa ma opprimente presenza i momenti più belli della mia vita.

Nonostante questo, avvertivo un cambiamento prodursi dentro di me, invisibile forse agli occhi degli altri ma chiarissimo a me stessa. Ero nonostante tutto serena e appagata, e mi accorgevo guardandomi allo specchio che il mio viso si era fatto più disteso, la mia espressione era decisamente più languida, e mi trovavo persino più bella del solito. Oliver, nella sua completa indifferenza per tutto ciò che mi riguardava, non se n’era accorto minimamente, mentre Tom aveva notato qualcosa e mi aveva fatto persino i complimenti per il mio splendido aspetto, evidentemente contento di vedermi stare finalmente bene. Stranamente, non provavo alcun rimorso verso Oliver per il fatto che lo stavo tradendo, mentre invece mi sentivo in colpa verso Tom Becker, come se fosse lui la persona alla quale stavo realmente tenendo nascosta la mia relazione con Carlos. Era una sensazione strana, a dir poco inspiegabile, ma di fronte a Tom mi sentivo a disagio, mi sentivo falsa e persino crudele, anche se non riuscivo ad evitarlo perché la sua presenza stava diventando sempre più importante per me. Ero sempre contenta di vederlo alla Villa, perché ormai rimanere sola con mio marito era diventato a dir poco penoso, e le sue visite si stavano facendo sempre più assidue. Poco a poco, avevo cominciato a capire che non veniva a Villa Hutton per vedere Oliver, ma per me, ed ero commossa dalla sua amicizia…anche perché continuavo ad essere convinta che lui fosse stato innamorato di Patricia, e consideravo quindi ancora più ammirevole che fosse così buono e gentile con colei che aveva preso il posto della donna che aveva tanto amato.

Con Carlos le cose andavano a dir poco meravigliosamente…gli attimi che trascorrevo con lui erano fantastici ed irripetibili, e avevano forse l’unico neo di durare troppo poco, perché il tempo che passavamo insieme non era mai sufficiente a soddisfare il bisogno enorme che avevo di lui, dei suoi baci infuocati e delle sue dolcissime carezze. Tra le sue braccia mi sentivo immensamente viva e felice, ogni giorno raggiungevo vette di piacere altissime che travalicavano il semplice atto fisico e diventavano qualcosa di squisitamente etereo, un sentimento che coinvolgeva tutta la mia essenza e riempiva la mia anima e il mio corpo di una gioia sublime, una gioia che esprimevo ridendo e piangendo allo stesso tempo quando, avvinghiati l’uno all’altra come se fossimo un unico corpo, raggiungevamo insieme l’estasi dei sensi. Lui non aveva mai detto di amarmi, né io mi ero mai sognata di pretendere che me lo dicesse, perché quando stavamo insieme mi comunicava con il suo corpo e con i suoi gesti una miriade di sentimenti che mai sarebbe stato in grado di esprimere a parole, e la stessa cosa valeva anche per me. Sentivo che mi desiderava quanto lo desideravo io, e che gli ero indispensabile proprio come lui era indispensabile a me, senza che avesse alcun bisogno di aprir bocca, e in fin dei conti ogni bacio che ci scambiavamo era come un’inespressa dichiarazione d’amore. Nemmeno io gli avevo mai detto di amarlo, anche se un paio di volte, mentre mi stringevo a lui con forza gridando il suo nome, avevo sentito quasi l’impulso di dirgli proprio le parole “ti amo”, senza trovare però il coraggio di pronunciarle ad alta voce. Un po’ mi frenava le parole che lui mi aveva detto tempo prima, la sua preghiera di non innamorarmi di lui, un po’ mi frenava anche il timore di sbagliarmi ancora una volta, com’era successo quando avevo accettato di sposare Oliver, e volevo evitare di ferire inutilmente me stessa ancora una volta, chiamando un sentimento con la parola sbagliata. In fondo, stavamo benissimo così, io ero felice quando ero insieme a lui e questo per me era più che sufficiente. Non desideravo nient’altro.

Quando ero con Carlos non parlavo mai di mio marito, come se non esistesse, e del resto non è che ci fosse granché da dire. Ormai la comunicazione tra noi era ridotta a zero, e la nostra vita in comune si limitava praticamente ad incontrarci a pranzo e cena e a recarci insieme a qualche visita di cortesia o a qualche avvenimento mondano, anche se questo avveniva davvero raramente, perché né io né lui sentivamo alcuna voglia di passare del tempo in società. Dalla sera del ballo in costume, e probabilmente da quando Oliver mi aveva visto scendere le scale indossando lo stesso vestito di Patricia, si era spezzato anche quell’ultimo sottilissimo filo che ci teneva insieme, e fra di noi era rimasto solamente il nulla, un nulla che nonostante tutto non poteva fare a meno di ferirmi, perché ogni silenzio di mio marito, ogni suo tentativo di evitare il mio sguardo, sembrava quasi sbattermi nuovamente in faccia il mio fallimento ed il mio sciagurato errore.

Ogni sera mettevo il chiavistello alla mia porta, perché non sarei riuscita a sopportare lo squallore di qualche altro incontro affrettato al buio con Oliver, non ora che conoscevo in che cosa consisteva realmente l’amore fisico, ma in realtà non ce ne sarebbe stato alcun bisogno, perché Oliver non osò mai neanche avvicinarsi alla porta della mia stanza. Non c’era più nemmeno un semplice e banale desiderio fisiologico a spingerlo verso di me. Per lui era come se non esistessi e, chissà, forse avrebbe preferito se non fossi esistita realmente…se non ci fosse stata mai nessuna Kathleen Hutton ad insinuarsi nella sua vita frapponendosi tra lui e l’invisibile fantasma della sua Patricia…

Un fantasma che tornò ben presto ad ossessionare la mia vita, proprio quando pensavo di essermi liberata finalmente di lei, dato che avevo ormai rinunciato a far funzionare in qualche modo la mia unione con Oliver…proprio quando pensavo che per me fosse effettivamente possibile, come aveva detto Carlos, riuscire a trovare la felicità a Villa Hutton…

 

Quella mattina non mi sentivo molto bene da quando mi ero svegliata. Avevo passato una notte molto agitata, tormentata da strane fitte allo stomaco e da una serie di incubi spaventosi che tuttavia non riuscivo a ricordare con chiarezza, ed ero stata svegliata da un violentissimo attacco di nausea. Mi sollevai di scatto dal letto e corsi in bagno, dove vomitai sentendomi a dir poco uno straccio lavato e strizzato. Mi sciacquai il viso cercando di respirare profondamente per farmi passare quella sensazione fastidiosa che continuava ancora a stringermi lo stomaco, e vidi che avevo il volto pallidissimo e segnato da profonde occhiaie. Sospirai di nuovo, e dovetti appoggiarmi al lavandino perché ebbi un violento capogiro e per poco non caddi a terra. Mentre ritornavo a fatica nella mia stanza e mi sedevo sul letto, mi domandai cosa accidenti potessi avere per sentire così male, e pensai che probabilmente avevo mangiato troppo la sera prima a cena. Aspettai di sentirmi un po’ meglio prima di vestirmi per scendere dabbasso per la colazione e cercai di restituire un po’ di colore al mio viso innaturalmente bianco con la cipria, senza ottenere però grandi risultati. Il senso di nausea che mi aveva svegliata non accennava a passare nonostante avessi vomitato, e provando una vaga ed indefinita preoccupazione mi dissi che avrei fatto meglio a telefonare quello stesso pomeriggio al medico per farmi visitare.

Scesi le scale lentamente ed aggrappandomi al corrimano, sentendomi infinitamente debole e stanca, prostrata dalla nausea che non mi dava tregua e da un violento cerchio alla testa, che attribuii senza alcun dubbio alla nottataccia che avevo trascorso. Giunta in fondo alla scala mi sentii nuovamente svenire, per fortuna c’era Tom Becker che, vedendomi pallidissima e barcollante, fu pronto a sorreggermi e ad aiutarmi a raggiungere il divano.

-Vi sentite male, Kathleen?-, mi domandò con premurosa sollecitudine, scrutando il mio viso con preoccupazione mentre mi faceva aria con un fazzoletto.

Mi sforzai di sorridere nonostante il persistente senso di malessere e misi una mano sopra la sua per rassicurarlo. –Nulla di grave, Tom, non preoccupatevi. Ho avuto solo un capogiro-, dissi. Cercai di sollevarmi dal divano, ma le gambe minacciarono di non reggermi, e decisi di tornarmi nuovamente a sedere.

-Siete sicura? Siete molto pallida-, insistette lui.

-Non vi preoccupate, davvero. Non è nulla, passerà subito-, ripetei. Respirai profondamente e mi sembrò di sentirmi un po’ meglio. Sorrisi nuovamente a Tom, ed egli parve finalmente persuaso.

-Comunque, è meglio che vi facciate visitare da un medico, Kathleen. Così, giusto per precauzione, soprattutto dato che oggi Oliver non è in casa-, mi disse, stringendo la mano che avevo messo sulla sua con un’enfasi che mi lasciò un po’ sorpresa, e che mi suscitò una stranissima sensazione che in quel momento non riuscii a decifrare.

-Ah già!-, dissi, ricordandomi solo in quel momento che quel giorno mio marito sarebbe dovuto andare a Londra per un importante pranzo di affari. Mi resi conto per l’ennesima volta che Tom era lì per me, e provai un moto di affetto per quell’uomo così generoso e sollecito. Pensai per un attimo che la mia vita sarebbe stata immensamente diversa se fossi stata la moglie di Tom, anziché di Oliver, ma allontanai immediatamente quel pensiero così assurdo sentendomi profondamente in imbarazzo. –Siete stato molto gentile a venire a salutarmi, Tom, siete un vero tesoro. Ditemi, vi fermate a colazione?-, domandai, cercando non solo di ricambiare la sua cortesia, ma anche di distogliere la sua attenzione dal mio stato di salute.

Egli arrossì lievemente, con un’espressione timida che mi suscitò un’immediata tenerezza. –E’ un piacere per me vedervi, Kathleen. Sempre…-, disse con aria quasi trasognata, prima di diventare ancora più rosso e confuso. –Comunque vi ringrazio, ma non posso fermarmi a colazione con voi. Ho un impegno di lavoro…ma passerò più tardi a vedere come state-, proseguì, alzandosi di scatto dal divano come se fosse preoccupato all’idea di rimanere da solo con me.

Rimasi un attimo interdetta, ma poi gli sorrisi dicendomi che era stata solamente una mia sciocca impressione. Gli porsi la mano e lui me la strinse forte, anche se notai che cercava in tutti i modi di evitare il mio sguardo. –Arrivederci a dopo, allora-, gli dissi salutandolo.

-A dopo, Kathleen-, rispose lui sorridendomi con dolcezza, e mi parve che pronunciasse il mio nome in un modo diverso dal solito.

Tom se ne andò, ed io mi recai in sala da pranzo, un po’ rattristata all’idea di consumare la colazione da sola. Bastò però semplicemente la vista del cibo a suscitarmi un nuovo attacco di nausea, e sentendomi profondamente disturbata pensai che sarebbe stato meglio per quel giorno saltare la colazione. Così mi affacciai in cucina per avvisare la signora Martin.

-Non disturbatevi a servire la colazione, signora Martin, stamattina non mangerò-, dissi in tono secco, mentre la vecchia stava già disponendo le pietanze della mattina su di un vassoio.

La donna si voltò e mi squadrò con espressione arcigna. Il suo viso era pallido e cerchiato come al solito e i suoi freddi occhi neri erano animati dalla consueta scintilla d’odio che balenava come sempre in essi ogni volta che mi guardava. –Capisco, signora. Non avete appetito?-, domandò, con voce venata più di curiosità che di preoccupazione per la mia mancanza di appetito.

Sospirai, cercando di resistere alla tentazione di risponderle che non erano affari suoi. –Non mi sento granché bene e non mi va di mangiare. Andrò a fare una passeggiata sulla spiaggia e sarò di ritorno per l’ora di pranzo. Ah, fatemi un favore. Telefonate al medico e chiedetegli di passare nel pomeriggio, ho bisogno di un consulto-, dissi in tono indifferente.

Vidi la fronte della signora Martin corrugarsi all’udire la parola “medico”, ma dopo appena pochi istanti ella riassunse la solita espressione maledettamente impassibile. –Sarà fatto, signora. E buona passeggiata-, disse, con un lampo maligno negli occhi che mi fece provare per un attimo il timore che ella fosse a conoscenza di tutto, e che avesse deciso di tacere nella speranza che fossi io stessa a tradirmi, o magari, chissà, che Oliver stesso mi scoprisse fra le braccia del mio amante.

Cercai di ignorare questo pensiero e anche la nausea che seguitava ad attanagliarmi lo stomaco, e mi diressi a passo rapido verso la spiaggia, sentendomi ad ogni passo più emozionata perché presto avrei rivisto Carlos…i nostri incontri erano l’unico pensiero che illuminava le mie giornate e l’unica cosa che mi tenesse realmente legata a quella casa, che per il resto continuava ad essermi quasi completamente estranea.

Egli era lì, come al solito, sulla riva, ad attendermi. Mi tese la mano non appena mi vide comparire, ed io mi precipitai di corsa verso di lui come una ragazzina innamorata ed euforica, buttandogli le braccia al collo e lasciando che egli mi sollevasse da terra fra le risate.

Ci amammo con passione e quasi con disperazione, senza pensare a nulla e a nessuno, come sempre accadeva quando ci ritrovavamo insieme. Gli accarezzai dolcemente la schiena mentre egli si muoveva dentro di me, pensando a quanto profondamente gli appartenevo e a quanto lui era diventato importante per me. Era diventato ormai una parte di me, della mia anima, molto più di quanto non lo fosse mai stato mio marito. Sussultai di piacere quando lo sentii raggiungere l’orgasmo, e mi abbandonai anch’io al tripudio dell’estasi, urlando a gran voce il suo nome e lasciando che il mio grido si disperdesse nell’immensità del mare, che si stendeva bello ed infinito di fronte a noi.

Dopo la passione, giacemmo l’uno al fianco dell’altra in silenzio, accarezzandoci lievemente come se non potessimo fare a meno del contatto fisico. Una mano di Carlos era abbandonata mollemente sul mio ventre, mentre l’altra torturava dolcemente il mio capezzolo ancora turgido. Mi sembrò di notare per la prima volta che anche il mio corpo sembrava essere cambiato negli ultimi tempi…la mia pelle pareva essere diventata più luminosa, più tonica, i seni sembravano più grandi e più sodi. Ogni cosa in me sembrava quasi espandersi…forse era perché finalmente il mio cuore ed il mio corpo avevano conosciuto una soddisfazione che fino allora era stata loro negata. Mi strinsi più forte a Carlos, avvertendo quasi la premonizione che quelli potessero essere gli ultimi attimi felici che potevamo trascorrere insieme e che presto sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe messo in pericolo la nostra serenità e la nostra stessa relazione. Egli ricambiò la mia stretta, guardandomi con dolcezza e posandomi un lieve bacio sulla fronte.

-Sai, Kat…credo di essermi innamorato di te-, disse poi in modo del tutto inaspettato. Sentii il mio cuore mandare un battito e fermarsi per un lungo istante, durante il quale mi parve di non riuscire più ad introdurre aria dai polmoni.

-Co…che…cosa? Dici sul serio?-, mormorai senza fiato, sollevandomi a sedere di scatto mentre respiravo affannosamente, sconvolta e meravigliata dalle parole che egli mi aveva detto, e che mai mi sarei aspettata di sentir uscire dalla sua bocca.

Carlos mi sorrise. Aveva il sorriso dolce ed ingenuo di un bambino, e sentii il mio cuore gonfiarsi per la felicità, una sensazione meravigliosa che mai mi sarei aspettata di provare, in tutta la mia vita. –Credo di sì. Sai, non l’ho mai detto a nessuno…e pensavo che non lo avrei mai detto in vita mia. Ho paura, una paura folle e tu lo sai…ma penso di amarti, Kat, ed è terribile e meraviglioso allo stesso tempo-, disse con voce bassissima. Con un grido di esultanza, gli buttai le braccia al collo e lo strinsi forte a me, ridendo e piangendo allo stesso tempo, incapace di parlare. Riuscivo soltanto a mormorare il suo nome tra i singhiozzi, cercando di dirgli che anch’io lo amavo, e al diavolo se era vero o se si trattava solamente di un’illusione! In quel momento non me ne importava nulla, volevo godermi il nostro amore ogni singolo giorno, ogni singolo istante, senza preoccuparmi del futuro, qualunque cosa esso ci riservasse!

Stavo per riuscire finalmente a dichiararmi, quando sentii un boato in lontananza, ed alzando la testa vidi il cielo riempirsi di fuochi d’artificio. Mi scambiai con Carlos un’occhiata stupefatta e carica di sgomento, pensando che doveva essere sicuramente accaduto qualcosa.

Carlos si alzò in piedi per scrutare l’orizzonte, infilandosi immediatamente i pantaloni. –Credo che ci sia una nave in difficoltà, e che stiano lanciando dei razzi di segnalazione-, disse, indicandomi un punto non ben precisato all’orizzonte, proprio davanti a noi.

Mi alzai anch’io, e mi parve di scorgere una sagoma bianca in lontananza, proprio nel punto dal quale partivano i fuochi artificiali. –Hai ragione. Bisogna fare qualcosa-, dissi, sentendomi assalire da una preoccupazione tutto sommato ingiustificata, dato che l’evento, per quanto grave, non mi coinvolgeva in prima persona.

-Vai in casa e manda a chiamare immediatamente i soccorsi-, disse Carlos con una calma invidiabile, mentre si infilava la camicia.

Annuii quasi meccanicamente, e mi rivestii in fretta e furia. Dopo avergli dato un ultimo bacio, corsi verso la Villa più velocemente che potei, cercando di combattere contro il senso di nausea che aveva ricominciato a tormentarmi. Arrivai in casa trafelata ed avvisai immediatamente la signora Martin e Frank di chiamare i soccorsi, dopo di ché andai a sedermi sul divano, tentando di riprendermi da un nuovo capogiro che mi aveva immediatamente colto.

Mi distesi respirando profondamente per rilassarmi, e mentre Frank e la governante si attivavano per aiutare la nave in difficoltà, mi assopii lentamente fino a cadere in un sonno profondo.

Non so per quanto tempo dormii, ma quando mi risvegliai vidi Tom Becker seduto sul divano accanto a me, con il viso chino sopra il mio e straordinariamente vicino.

Sussultai per la sorpresa e mi sollevai a sedere di scatto, stentando per un attimo a comprendere dove mi trovassi e che cosa fosse accaduto. Tom arrossì violentemente e tossicchiò nervosamente in preda all’imbarazzo. –Scusatemi, non volevo spaventarvi. Sono passato a salutarvi, e mi hanno detto che avete avvistato una nave in difficoltà poco distante da qui e che poi siete venuta a distendervi perché non vi sentivate bene-, si giustificò.

Gli sorrisi e mi ravviai i capelli con le mani, pensando che dovevo avere un aspetto a dir poco orribile. –Sì, ho avuto un altro capogiro…comunque dovrebbe arrivare il medico a visitarmi tra breve. Piuttosto, ditemi…sono stati chiamati i soccorsi per la nave?-, domandai, sentendomi assalire nuovamente da una grande angoscia.

Tom annuì. –Sì. Si trattava di un bastimento commerciale, a quanto mi è stato riferito. L’equipaggio è stato tratto in salvo, fortunatamente, ma purtroppo il carico è andato perduto-, mi disse, ma io notai che egli sembrava molto più interessato a me che alle sorti della nave. Lo sguardo con il quale mi fissava era intenso, molto intenso, e del tutto inaspettatamente sentii il cuore cominciare a battermi più forte e provai l’impulso di inumidirmi le labbra.

-Bene-, mormorai, respirando affannosamente e cercando, invano, di recuperare il controllo di me stessa. Non riuscivo a capire cosa mi stava succedendo, e soprattutto come mai gli occhi di Tom Becker mi avessero gettata in un tale stato di confusione.

Egli sembrava come trasognato, e pareva non rendersi conto di cosa stesse accadendo. Con una strana espressione dipinta sul volto, sollevò lentamente una mano e mi accarezzò prima i capelli e poi il viso, mormorando il mio nome a fior di labbra.

Fu come se quel mormorio mi avesse colpita al cuore, e senza quasi accorgermene, seguendo solamente l’istinto, avvicinai il mio viso al suo, al punto che le nostre labbra quasi si sfiorarono.

In quel momento, udimmo qualcuno suonare il campanello.

-Dev’essere il medico-, sussurrai, riscuotendomi improvvisamente da quella sorta di incantesimo che mi aveva avvinto, e alzandomi in piedi per andare ad aprire il portone. Mentre uscivo dalla stanza, guardai di sottecchi Tom e lo vidi sfregarsi violentemente gli occhi, evidentemente nel tentativo di riprendere il controllo di sé e delle proprie emozioni.

Aprii il portone, ma anziché il medico mi trovai di fronte a me un uomo in divisa e con un’espressione profondamente corrucciata. Lo osservai meravigliata, e per un momento ebbi quasi paura che fosse successo qualcosa di grave a mio marito.

-La signora Kathleen Hutton, vero?-, mi domandò in tono grave e professionale.

Annuii, ed egli mi porse una mano grande e callosa, che io strinsi meccanicamente. –Sono il commissario Harper, della polizia della contea. Avrei bisogno di parlare con vostro marito Oliver-, mi spiegò, ed io mi sentii sollevata. Quindi, non era accaduto nulla di grave ad Oliver, per fortuna.

-Mio marito non è in casa, è a Londra per affari, ma potete dire a me-, risposi in tono cordiale.

Il commissario mi parve vagamente imbarazzato. –Ecco, si tratta di una cosa piuttosto penosa, a dire il vero…avrei evitato volentieri di disturbarvi, ma purtroppo il regolamento mi impone di riferirvi la nostra scoperta…-, mormorò, tormentandosi nervosamente il cappello tra le mani.

Cercai di tenere a freno la mia impazienza e di essere il più possibile gentile. –Vi prego, ditemi senza nessun timore-, lo esortai, sfoderando il più cordiale dei miei sorrisi.

L’uomo trasse un profondo sospiro, prima di cominciare il suo discorso. –Immagino saprete che oggi un bastimento è affondato a pochi metri dalla costa-, esordì.

-Certo. Sono stata io ad avvistarlo e a chiamare i soccorsi-, confermai, domandandomi dove accidenti volesse andare a parare.

Egli fece una strana smorfia. –L’equipaggio è stato tratto in salvo, ma purtroppo il carico è andato perduto. Pare che il bastimento abbia urtato contro gli scogli, e che l’urto abbia provocato uno squarcio nello scafo-, mi spiegò.

-Capisco, ma non vedo che cosa tutto questo abbia a che fare con mio marito-, dissi bruscamente.

Harper sospirò di nuovo, ancora più profondamente. –Vedete, abbiamo mandato un palombaro a verificare le cause dell’incidente e le condizioni dello scafo. Questi, a pochi metri dal luogo in cui è affondato il bastimento, ha avvistato una piccola imbarcazione. Un battello-, disse a fatica. Cominciai a capire e sentii la mia fronte imperlarsi di sudore. Mi aggrappai istintivamente alla parete, sentendo che le gambe cominciavano a tremarmi violentemente.

-Il palombaro è un uomo del paese e, vedete…ha riconosciuto subito il battello.Si tratta dell’imbarcazione della povera signora Hutton-, disse infine il commissario Harper con aria contrita.

Di colpo l’oscurità prese a circondarmi e mi sentii assalire da un nuovo capogiro, ancora più violento dei precedenti. Cominciai a barcollare, mentre tutto intorno a me cominciava ad offuscarsi e ad apparire sempre più lontano.

-Vi sentite male, signora? Signora Hutton!-, esclamò il commissario, con una voce che mi risuonava terribilmente distante.

Non riuscii a rispondergli, perché sentii tutti i sensi venirmi improvvisamente meno, e crollai rovinosamente a terra.

 

Fine decimo capitolo

 

 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo undicesimo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO UNDICESIMO

 

Cominciai lentamente a riemergere dal limbo della mia incoscienza, e sentii una mano sfiorarmi lievemente una guancia, con una dolcezza che mi strinse il cuore per un istante, e poi scendere pian piano fino ad accarezzare le mie dita. Sospirai, sentendo la mia anima ricolmarsi di un piacere innocente, simile a quando, da bambina, mi addormentavo con mio padre che mi stringeva forte la mano. Era una sensazione bellissima…la sicurezza di essere al sicuro, di essere protetta da chiunque e da qualunque cosa che avesse voluto farmi del male.

Riaprii con cautela gli occhi, sbattendo le palpebre infastidite dalla luce improvvisa almeno un paio di volte, e intravidi avvolto nella nebbia un volto dai lineamenti familiari chino su di me.

-Kathleen…Kathleen-, mi chiamò dolcemente una voce.

Riuscii finalmente a focalizzare colui che avevo di fronte, e riconobbi Tom Becker, con un’espressione preoccupata dipinta sul viso ed una luce dolcissima negli occhi scuri.

-Tom..cos’è accaduto?-, esclamai, provando un’improvvisa sensazione di angoscia,e  tentai di sollevarmi per mettermi a sedere, dato che mi ero resa conto di essere distesa sul divano del salotto. Il movimento improvviso però mi provocò un nuovo, violento giramento di testa, e dovetti tornare immediatamente a sdraiarmi, mentre la signora Martin, che aveva una strana espressione interrogativa sul volto solitamente glaciale, mi si avvicinava con in mano i sali. La allontanai con un gesto della mano, mentre cercavo di fare ordine tra i miei confusi pensieri e di ricordare che cosa fosse accaduto…cosa ci facevo distesa sul divano? E perché Tom aveva quell’espressione preoccupata? Dovevo essermi sentita male, o almeno era questo che potevo intuire dalla faccia che avevano i presenti, e dalla insopportabile sensazione di nausea e di debolezza che mi opprimeva. Ma perché? E chi era quell’uomo in divisa in piedi accanto alla porta?

Non riuscivo proprio a ricordare, e tentai di ripercorrere mentalmente gli eventi della mattinata per capire che cosa stava succedendo. Oliver era partito per affari…io avevo trascorso la mattinata sulla spiaggia insieme a Carlos, e poi…poi avevamo visto dei fuochi di segnalazione. Sì, ora ricordavo…era affondato un bastimento, ed io ero tornata alla Villa per dare l’allarme. Poi era arrivato Tom, e mentre parlavamo avevano bussato alla porta…pensavo che fosse il medico giunto per visitarmi, invece mi ero trovata di fronte quell’uomo in divisa, che mi aveva chiesto di parlare con mio marito…Harper…sì, il commissario Harper, si chiamava così. Ma cosa voleva da Oliver?

Un ricordo improvviso mi colpì come un fulmine, e mi fece gelare il sangue nelle vene. “Si tratta dell’imbarcazione della povera signora Hutton”…

Ecco cosa mi aveva detto il commissario…era stato ritrovato il battello di Patricia…il battello con il quale ella era affondata ed era morta, e che non era mai stato rinvenuto dal giorno della disgrazia. Respirai profondamente, cercando di dominare l’angoscia che si era impadronita di me. Non riuscivo a fare a meno di pensare che, se era stata ritrovata l’imbarcazione…forse sarebbe stato ritrovato anche il suo corpo. Non osavo immaginare quale sarebbe stata la reazione di Oliver alla notizia…assistere al recupero della salma della donna che aveva amato con tutto se stesso, e che continuava ad amare con immutata passione anche dopo la sua morte, lo avrebbe distrutto completamente, e in quell’istante provai una pena immensa per mio marito, e insieme il desiderio di evitargli quella terribile prova, per quanto era in mio potere. Oliver aveva già sofferto troppo, e anche se il nostro matrimonio si era rivelato un fallimento non meritava di soffrire ancora.

Con l’aiuto di Tom, che era rimasto accanto a me con la consueta sollecitudine e dolcezza, mi issai lentamente a sedere sul divano, e feci cenno al commissario Harper di avvicinarsi. Egli aveva un’espressione profondamente contrita.

-Mi dispiace avervi procurato un simile shock, signora Hutton. Credetemi, sono mortificato-, disse con aria dispiaciuta.

Mi sforzai di sorridergli, e scrollai le spalle. –Non vi preoccupate, commissario. Non è colpa vostra se mi sono sentita male, a dire il vero è da stamattina che non sto bene. Ma ditemi…siete sicuri che il battello che è stato rinvenuto sia veramente quello di…quello di Patricia?-, domandai a fatica,e per trovare conforto strinsi forte la mano di Tom quasi senza rendermene conto. Egli mi guardò con espressione protettiva, ed intrecciò le sue dita con le mie. Istintivamente sobbalzai, sorpresa da quel contatto del tutto inatteso, e mi voltai a guardarlo. Tom arrossì lievemente e distolse lo sguardo, ma non lasciò la presa della mia mano…e nemmeno io.

Il commissario Harper sospirò. –Sì, signora. Non abbiamo il benché minimo dubbio…altrimenti non avremmo mai osato venire a disturbare voi o vostro marito-, disse, ed io notai che stava tormentando nervosamente con le dita il cappello della sua divisa. Pover’uomo…neanche il suo doveva essere un compito facile, pensai, mentre imploravo i miei genitori affinché, dal cielo, mi dessero la forza di affrontare quel difficile momento.

-Sentite…ecco…so che forse quello che sto per domandarvi è scorretto, ma…è proprio necessario che mio marito venga informato? Ecco…lui non si è ancora completamente ripreso dalla perdita della sua prima moglie e…sarebbe uno shock tremendo dover assistere al recupero del battello…nonché a quello del suo corpo…e ad un nuovo funerale…-, dissi con voce tremante, ed ogni parola era come una stilettata per il mio cuore.

Il viso del poliziotto divenne a dir poco terreo. –Capisco il vostro punto di vista, signora, e credetemi…mi dispiace davvero dover infliggere un dispiacere così grosso a vostro marito…senza contare che sta cercando proprio ora di rifarsi una vita…ma c’è una cosa che non posso assolutamente tacere al signor Hutton-, proseguì, e mi accorsi che stava cercando in tutti i modi di evitare di incontrare il mio sguardo. Perché?

-E sarebbe?-, mormorai con un filo di voce, stringendo la mano di Tom fin quasi a stritolarla.

Il commissario chinò il capo e rimase in silenzio per un breve istante, che a me però sembrò un’eternità. Poi, con una strana espressione, si decise finalmente a parlare. –Vedete, signora Hutton…non c’è alcun corpo all’interno del battello-.

Fu una fortuna che fossi seduta, altrimenti credo che sarei nuovamente svenuta. Le parole del commissario Harper mi tolsero il fiato per un istante, e per qualche minuto fui quasi incapace di percepire il battito del mio cuore. Dal contatto con la mano di Tom, avvertii che anche lui era rimasto pressoché pietrificato da quell’annuncio inatteso. Per un attimo, fu come se il tempo attorno a noi si fosse fermato. Mi sembrava di essere stata trasportata improvvisamente in un’altra dimensione, non riuscivo più a capire chi fossi, dove mi trovassi e che cosa mi stesse succedendo. Poi, ricordo che pensai che doveva trattarsi sicuramente di un incubo, che una cosa talmente angosciante non poteva appartenere alla realtà…istintivamente chiusi gli occhi, cullandomi nell’illusione che, quando li avrei riaperti, mi sarei ritrovata sulla spiaggia di Villa Hutton stretta tra le forti braccia di Carlos, e avremmo riso insieme del mio assurdo sogno.

Ma purtroppo, non fu così…quando mi decisi a riaprire gli occhi, ero ancora lì, in quel salotto, ed il commissario Harper era ancora di fronte a me. Con aria inebetita, gli domandai di ripetere quel che aveva appena detto, continuando irrazionalmente a sperare di essermi sbagliata, di aver capito male, ma le parole che egli pronunciò furono esattamente le stesse che avevo sentito pochi attimi prima. Non c’era nessun corpo all’interno del battello…

-Ma…come…com’è possibile?-, sentii che stava domandando Tom Becker, e riuscii distintamente a percepire la nota di angoscia che velava la sua voce solitamente così pacata, la stessa irrefrenabile angoscia che ottenebrava il mio animo.

Il poliziotto sospirò nuovamente. –Ecco…forse il corpo della povera signora Hutton è stato sbalzato fuori dal battello durante la tempesta…dovremmo far dragare il territorio circostante, anche se dubito che ormai potremmo ritrovare i suoi resti…Per far questo, però, ci serve l’autorizzazione del signor Oliver. È per questo che dovevo assolutamente parlare con lui del ritrovamento-.

-Pensate che Patricia possa essere ancora viva?-, domandai istintivamente, e solo dopo aver pronunciato queste parole mi resi conto dell’enorme portata del loro significato. Sentii un brivido scorrere lungo la mia schiena. Apparentemente queste parole suonavano irrazionali…non poteva essere ancora viva, era un’ipotesi completamente assurda…eppure c’era qualcosa dentro di me, una sorta di sinistra premonizione, che mi aveva spinto a domandarlo prima ancora di capire che cosa stavo facendo.

-Kathleen!-, esclamò Tom meravigliato, sgranando gli occhi.

Anche il commissario Harper mi parve sconcertato dalla mia domanda. Istintivamente, mi voltai in direzione della signora Martin, che era rimasta tutto quel tempo ad assistere alla nostra conversazione senza che nessuno si rammentasse della sua presenza. Quando riuscii a localizzarla, rimasi letteralmente sconvolta dall’espressione del suo volto. La vecchia aveva dovuto sedersi su di una seggiola, evidentemente sopraffatta dall’emozione, ed era pallida come un cencio. Aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite, era completamente sgomenta e tremava dalla testa ai piedi. Mi domandai se fosse così sconvolta per la notizia che il battello era stato ritrovato, ma non il corpo della sua adorata pupilla, o per la mia inattesa domanda.

-No, signora Hutton. Se devo essere sincero, ritengo altamente improbabile che la signora Patricia possa essere ancora viva. In quel caso, avrebbe provato a raggiungere a nuoto la riva più vicina, o sarebbe stata ritrovata da qualche parte. Non ci è giunta nessuna segnalazione dopo la sua scomparsa, e vi assicuro che avevamo diramato la sua descrizione in tutti gli ospedali della contea. Mi dispiace, ma la signora è certamente morta…e temo purtroppo che il mare si sia preso anche il suo corpo, e che non lo restituirà più-, disse il commissario con voce plumbea.

Sentii un gemito provenire alle mie spalle, e vidi che la signora Martin aveva cominciato a singhiozzare come una bambina, nascondendo il viso in un fazzoletto bianco di stoffa. Aveva le spalle curve e scosse dal dolore, e mi fece una gran pena…in fondo, quella povera vecchia aveva appena perduto la sua ultima speranza, quella di avere il corpo della sua Patricia su cui poter piangere…doveva essere stato terribile per lei assistere a quella conversazione, forse almeno quanto lo sarebbe stato per Oliver. Avrei voluto avvicinarmi a lei per tentare di confortarla…anche se mi aveva fatto del male, e per questo l’avevo detestata dal profondo del mio cuore, in quel momento provavo soltanto compassione per lei, e mi sembrava così sola, così indifesa…mi fermò solo la consapevolezza che mi avrebbe sicuramente respinta, perché per lei ero e sarei sempre rimasta l’intrusa, colei che indegnamente aveva preso il posto della “sua bambina”.

Fu invece Tom ad alzarsi in piedi e andare verso di lei, cingendole affettuosamente le spalle con un braccio. Mi si strinse il cuore a vederlo chinarsi su di lei con un’espressione carica di comprensione e di dolcezza. Com’era buono Tom…per un attimo provai il desiderio di essere io al posto della signora Martin, di essere stretta tra le sue braccia, sicura e protetta, ma fu un istante e poi mi vergognai di aver formulato un simile pensiero.

-Coraggio, signora Martin…-, sussurrò Tom all’orecchio della vecchia governante. Quest’ultima, però, non parve apprezzare affatto la sua gentilezza, e scattò in piedi come una molla, scarmigliata e con una luce folle negli occhi.

-Coraggio! Coraggio, mi dite? Lasciatemi in pace, voi non potete sapere che cosa sto provando! Nessuno può saperlo! Patricia era come una figlia per me, e voi ora mi venite a dire che il mare non restituirà più il suo corpo e io dovrei farmi coraggio? Da più di un anno sono costretta ad alzarmi ogni mattina con la consapevolezza che lei non c’è più, che non rivedrò mai più il suo meraviglioso sorriso, che non sentirò più la sua voce…voi non potete immaginare…non potete…e lui! Lui ha osato anche sostituirla! Sapete, l’ho maledetto quando ha portato questa donna in casa…nella sua casa, nella casa dove è stato felice con lei per tanti anni!-, gridò, brandendo minacciosamente un dito nella mia direzione. Mi guardò con occhi fiammeggianti di odio e carichi di disperazione, e fece cadere violentemente a terra la sedia sulla quale era stata seduta fino a pochi attimi prima. –Ma non è felice, oh, no che non lo è! E se lo merita! E anche voi ve lo meritate…avete avuto paura, eh? Paura che lei ritorni e vi porti via tutto, perché questo voi meritereste…di ritrovarvi in mezzo alla strada senza più niente! Questa sarebbe la giusta punizione per aver osato mettere piede in questa casa! Per questo avete domandato se potesse essere ancora viva! Ma la pagherete, oh sì, eccome se la pagherete! Il giorno del giudizio verrà per tutti, cara la mia signora Kathleen, e verrà anche per voi! Lei è morta e non tornerà più, ma ci sarò io, IO!!!, a rendervi la vita impossibile ogni giorno, finché avrò respiro! Sappiate che non sarete mai felice in questa casa finché io avrò vita, ve lo giuro!-, gridò follemente guardandomi con un’espressione talmente minacciosa da farmi accapponare la pelle, e poi sputò per terra. Non sembrava più nemmeno lei…era completamente diversa dalla fredda governante dallo sguardo gelido che mi fissava ogni giorno con disprezzo…pareva completamente uscita di senno, il suo viso era paonazzo, i lineamenti alterati, ed i capelli ormai grigi le erano sfuggiti completamente dalla crocchia in cui li teneva solitamente raccolti e aleggiavano intorno al suo volto deformato rendendola inquietantemente rassomigliante ad una strega.

-Ora basta, signora Martin! BASTA!!!-, gridò Tom con aria risoluta, afferrandola saldamente per le spalle, e scuotendola finché la vecchia non smise di gridare, e lo fissò con aria meravigliata. Anche Tom sembrava completamente fuori di sé, e aveva perso del tutto la sua aria placida e composta. Non lo avevo mai visto tanto sconvolto. –Non avete alcun diritto di insultare così Kathleen. Lei non vi ha fatto nulla, nulla! E invece voi avete cercato di renderle la vita impossibile da quando ha messo piede in questa casa! Non è colpa sua se Patricia è morta, volete capirlo? NON E’ COLPA SUA!!-, urlò, continuando a scuotere la signora Martin, che era talmente sorpresa dalla sua reazione da non osare quasi più nemmeno respirare.

Il commissario Harper fissava la scena allibito, ed io tremavo come una foglia. Avrei voluto intervenire, dal momento che ero io la causa di tutto, ma il mio corpo si rifiutava di obbedire agli ordini della mia mente. Mi sentivo troppo debole e nervosa per fare qualcosa. Tutto quello che mi riuscì fu di chiamare a gran voce Frank, che accorse immediatamente dalla cucina e strappò la signora Martin dalla stretta di Tom, che aveva continuato a scrollarla violentemente con gli occhi iniettati di sangue, e sembrava volerla picchiare da un momento all’altro.

La governante si lasciò trascinare via da Frank come una bambola di pezza, e la udii ricominciare a singhiozzare violentemente mentre egli la accompagnava, sorreggendola saldamente, nella sua stanza. Vidi Tom inspirare profondamente nel tentativo di riacquistare la calma, e passarsi una mano tra i capelli castani per ricomporsi. Aveva fatto tutto questo per me…era per difendere me dagli insulti della signora Martin che aveva avuto quella reazione così inconsulta, così inaspettata da un uomo tranquillo come lui…provai una profonda gratitudine nei suoi confronti, ma allo stesso tempo non potei fare a meno di chiedermi cosa lo aveva spinto ad alterarsi in quel modo. Ancora tremante e sconvolta mi avvicinai a lui e gli poggiai una mano sulla spalla…avrei voluto dirgli grazie, ma non mi uscirono le parole di bocca, e così mi limitai a fissarlo, ed egli ricambiò il mio sguardo con un’occhiata talmente intensa che valse più di un fiume di parole…Fu come se un velo si fosse squarciato improvvisamente permettendomi di intravedere una realtà che fino a quel momento non avevo potuto, o forse non avevo voluto vedere, e che però ricacciai immediatamente in fondo all’angolino oscuro in cui era stata acquattata fino a quell’istante, perché non ero affatto pronta ad affrontarla…mi stavano succedendo troppe cose in quel particolare frangente della mia vita perché fossi sufficientemente forte ad affrontare anche i sentimenti che Tom Becker nutriva nei miei confronti…

Il commissario Harper tossicchiò discretamente per ricordarci la sua presenza, ed io mi voltai immediatamente verso di lui. Mi sentivo profondamente in imbarazzo per la scena alla quale aveva appena assistito, e non sapevo nemmeno io come dovevo comportarmi, come dovevo affrontare il ritrovamento del battello di Patricia. Era una situazione più grande di me.

Sospirai, cercando di chiamare a raccolta le mie residue forze, che erano state messe a dura prova dalla violente discussione tra Tom e la signora Martin. –Sentite, commissario…io vi ringrazio per essere venuto ad avvertirmi…ma sinceramente non so come comportarmi, non so come affrontare questa situazione. Per cui, per favore…se potete…è meglio che torniate nei prossimi giorni, quando sarà in casa mio marito…io…io non so cosa devo fare-, ammisi, cercando di ricacciare indietro le lacrime che cominciavano ad offuscarmi la vista. Volevo essere forte e non piangere in presenza del commissario, ma anch’esse disubbidirono ai miei comandi e cominciarono a rigarmi le guance senza quasi che me ne rendessi conto.

Il poliziotto assunse un’aria ancora più dispiaciuta davanti al mio pianto, e si affrettò a congedarsi, scusandosi per avermi disturbato e, soprattutto, per avermi portato una notizia che mi era stata causa di tanta angoscia. Domandai a Tom se potesse cortesemente accompagnarlo alla porta, e corsi a chiudermi a chiave in camera mia, dove mi gettai sul letto sfogando la mia angoscia e la mia paura in un pianto liberatorio.

 

Dopo aver versato tutte le mie lacrime, rimasi distesa a pancia sotto nella penombra, abbracciando il cuscino bagnato come se fosse stato una persona in grado di portarmi conforto. Avrei dato qualunque cosa per avere Carlos al mio fianco in quel frangente, per essere stretta tra le sue braccia e cullata dal suo caldo abbraccio, invece ero sola, completamente sola.

Mi riscossi solo quando sentii bussare discretamente alla mia porta, e sussurrai un debolissimo avanti. Il viso di Daniela fece capolino con espressione guardinga, ed anche un tantino imbarazzata. Doveva essere stata sicuramente informata da Frank della visita del commissario Harper e di ciò che era accaduto nel salotto.

-Che c’è Daniela?-, domandai, sollevandomi non senza sforzo a sedere sul letto e passandomi una mano sul viso, nel tentativo piuttosto puerile di cancellare le tracce del mio pianto.

-E’ arrivato il dottore, signora Hutton-, mi annunciò, e solo in quel momento mi rammentai di aver dato ordine di chiamare il medico per il malessere che avevo avuto quella mattina.

-Fatelo salire-, ordinai, e non appena Daniela si fu congedata richiudendo la porta alle sue spalle, tornai a distendermi su letto, fissando il soffitto con la mente completamente vuota. Cercavo in tutti i modi di non pensare a quel che era successo, di allontanare dalla mia mente le parole del commissario, le grida della signora Martin, lo sguardo di Tom…ma tutte queste immagini continuavano a danzare incessantemente nella mia testa senza darmi tregua, e mi sembrava di essere sul punto di impazzire.

Sentii bussare nuovamente alla porta, e il dottore fece il suo ingresso nella mia stanza. Era un uomo sulla sessantina, non molto alto, rotondetto e stempiato, e portava un paio di occhiali dalla buffissima montatura tonda. Aveva un faccione rubicondo e gioviale, e sin dalla prima occhiata mi ispirò fiducia e simpatia. Appoggiò il suo borsone ai piedi del mio letto, e si sedette accanto a me guardandomi con aria paterna.

-Non vi vedo affatto bene, signora Hutton. Avete fatto bene a chiamarmi-, esordì, scrutando con espressione preoccupata il mio viso pallido e ancora segnato dalle lacrime.

-E’ stata una brutta giornata, dottore-, dissi laconicamente, cominciando nel frattempo a slacciarmi i vestiti affinché egli potesse visitarmi.

-Posso intuirlo dal vostro viso, mia cara signora. Ma ditemi i sintomi-, mi domandò. Cominciai ad elencargli i disturbi che mi avevano afflitta fin dal momento del risveglio, e che in verità si erano verificati anche nei giorni precedenti, seppure in forma più lieve. Il medico mi ascoltò con espressione profondamente seria, annuendo di tanto in tanto, e quando ebbi finito di parlare mi visitò senza dire una parola.

Quando ebbe terminato mi fece segno di rivestirmi, e cominciò ad annotare qualcosa su un foglio bianco. Lo osservai con aria preoccupata. –Qualcosa che non va, dottore?-, domandai con una certa angoscia, chiedendomi il perché del suo ostinato silenzio.

Egli si voltò nella mia direzione, e per la prima volta le sue labbra si allargarono in un profondo sorriso, che mi lasciò un tantino sconcertata. –Tutt’altro, cara signora Hutton. Anzi, debbo darle una notizia che le farà tornare sicuramente il sorriso-, mi disse con sguardo bonario, mentre i suoi occhi sembravano quasi brillare.

Rimasi meravigliata, ma anche sollevata, perché le sue parole mi lasciavano intuire che non avevo nulla di grave. –Quindi non sono malata?-, chiesi con circospezione.

Il dottore scosse il capo, senza smettere di sorridere. –Affatto. Siete in perfetta salute, cara signora, e non solo…ho il piacere di annunciarvi che siete in attesa di un bambino-.

Il mio cuore cessò per un attimo di battere. Il respiro mi si fermò in gola, e dovetti appoggiarmi alla parete, perché la stanza aveva cominciato a girare vorticosamente intorno a me. Sentivo le parole del dottore riecheggiarmi continuamente nelle orecchie, come una sorta di ritornello o di filastrocca…un bambino…in attesa di un bambino…aspettavo un bambino.

La prima sensazione fu di felicità, una completa, istintiva, inarrivabile felicità. Sognavo quel momento fin da quando, ancora piccina, mi divertivo a giocare con le bambole e a fantasticare sul giorno in cui avrei potuto stringere tra le braccia una creaturina vera, anziché un bambolotto. Avevo sempre desiderato di diventare mamma, e non mi sembrava vero che dentro di me stesse crescendo una piccola vita da amare. Istintivamente mi portai una mano al ventre e ricominciai a piangere, ma stavolta non erano lacrime di angoscia, bensì di gioia.

Poi, però, di colpo, la mia felicità fu turbata dalla consapevolezza della mia situazione, e soprattutto, da un dubbio atroce che mi colpì improvvisamente, e che mandò in frantumi la gioia che quella bellissima notizia mi aveva procurato. Aspettavo un bambino…sarei diventata madre ma…chi era il padre? Di chi era la creaturina che stava crescendo nel mio grembo? Era il frutto del mio amore clandestino per Carlos? Oppure era stata concepita durante uno degli squallidi ed occasionali incontri d’amore con mio marito?

Mentre ricominciavo lentamente a respirare, questi angosciosi interrogativi si susseguivano nella mia testa l’uno dopo l’altro, senza darmi tregua, ed ogni pensiero era fonte di preoccupazione per me. Ero contenta di essere incinta, ma allo stesso tempo avevo paura. Una paura folle e violenta delle conseguenze, di quello che sarebbe successo, di come avrebbero reagito le persone che mi circondavano a questa gravidanza inaspettata. Non mi era passato neanche per l’anticamera del cervello di poter aspettare un bambino quando avevo cominciato a sentirmi poco bene, io e Carlos non avevamo mai pensato a prendere delle precauzioni durante i nostri incontri, e in quanto a mio marito, Oliver non aveva mai accennato neanche lontanamente alla possibilità di mettere al mondo dei figli. Un’altra cosa che mi sconvolgeva non poco era il non sapere chi fosse il padre della creatura che aspettavo. Era una cosa immorale, e mi chiesi cosa avrebbe pensato mio padre, un vicario profondamente religioso e dedito a Dio, se fosse stato ancora in vita…probabilmente mi avrebbe detestata, e avrebbe pensato di non essere riuscito a tramandarmi nemmeno uno dei suoi insegnamenti. Era la prima volta che mi sentivo in colpa per aver tradito mio marito, e che mi vergognavo della mia relazione extraconiugale. Finora avevo considerato quasi normale avere un amante, dato che non c’era amore nel mio matrimonio e che invece ero profondamente innamorata di Carlos, ma adesso c’era di mezzo un figlio, e le cose assumevano tutta un’altra faccia.

Il cuore mi diceva che non poteva essere altri che Carlos il padre del mio bambino. Avevo sempre creduto che i bambini fossero il frutto dell’amore che unisce due persone, e se veramente era così, mio figlio doveva essere stato sicuramente concepito durante uno dei nostri momenti di passione. Se pensavo questo, sentivo il mio cuore ed il mio corpo sciogliersi, ed una dolcezza infinita mi pervadeva il cuore e l’anima, regalandomi una felicità quasi irrazionale. Quando la realtà però tornava a far capolino nella mia torre d’avorio, realizzavo che, anche se così fosse stato, non avrei mai potuto crescere mio figlio insieme a Carlos e avrei dovuto invece farlo vivere per sempre nella menzogna, perché ero la moglie di Oliver, e davanti agli occhi di tutti mio figlio non poteva che essere anche figlio di mio marito, anche se biologicamente era stato un altro uomo a dargli la vita.

E se invece fosse stato Oliver il padre naturale? Anche se il cuore, ed anche un semplice calcolo delle probabilità, mi suggerivano a gran voce che il bambino era figlio di Carlos, non potevo escludere con certezza la possibilità che fosse invece mio marito il padre. Questo avrebbe inciso in qualche modo sull’amore che avrei provato per il mio piccolo? Non lo sapevo, ma sentivo che non sarebbe stato affatto così. E poi, qualunque fosse stata la verità, Oliver non avrebbe mai dovuto neanche sospettare che il bambino non fosse suo, altrimenti sia io che mio figlio avremmo corso il rischio di finire in mezzo ad una strada. Sarebbe stato bello poter fuggire tutti e tre insieme, io, Carlos e il bambino, lontano da Villa Hutton, bello ma irrealizzabile. Ero la moglie di Oliver e non potevo andare da nessuna parte senza di lui, perché non possedevo nulla, non ero nessuno.

E se il figlio fosse stato di Carlos e un giorno Oliver se ne fosse accorto? Sarebbe stato terribile. Avrei dovuto lasciare Villa Hutton insieme al bambino, ed entrambi avremmo vissuto ai margini della società, sprofondati nella miseria più nera e segnati a vita con il marchio della vergogna.

Ma in fondo cos’era peggio? Vivere nella miseria, oppure vivere nella menzogna? Quale sarebbe stato veramente il bene, non mio, che in quel momento veniva in secondo piano, ma della creatura che cresceva dentro di me, e che dipendeva già da me in tutto e per tutto?

Questi interrogativi mi lasciarono completamente stremata, e dovetti distendermi sul letto in preda ad un nuovo, violento capogiro, mentre il dottore mi osservava con aria preoccupata e mi inumidiva la fronte con una pezzuola bagnata.

-Immagino che ora siate sconvolta, sicuramente non vi aspettavate questa notizia. Ora rilassatevi, e cercate di riposare. Vostro marito non sarà qua prima di stasera, avrete tutto il tempo di assimilare la notizia prima di riferirgliela-, mi disse.

Annuii debolmente, sforzandomi di abbozzare un sorriso. –Vi ringrazio, dottore-, mormorai.

Egli mi sorrise con aria affettuosa, e mi accarezzò una guancia. –Non dovete ringraziarmi. Tornerò a visitarvi domani, signora. Arrivederci!-, mi disse, prima di lasciare la mia stanza e richiudersi lentamente la porta alle spalle.

Rimasi sola con i miei dubbi, ed anche se cercavo di allontanarli e di convincermi che sarebbe andato tutto bene, il futuro mi sembrava inesorabilmente nero come la pece, e neanche la gioia del bambino in arrivo riusciva a risollevarmi il morale. La verità era che ero prigioniera per sempre in una casa in cui nessuno mi desiderava, sposata ad un uomo che non mi amava, e anche mio figlio sarebbe dovuto crescere in quel modo, senza mai sapere chi era il suo vero padre…del resto, probabilmente non lo avrei mai saputo nemmeno io. Ricominciai a piangere, profondamente afflitta per me stessa, per il bambino che portavo in grembo…per Tom e per il suo segreto, che ormai avevo scoperto senza quasi ombra di dubbio…ed anche per Oliver, per il triste ritorno a casa che lo attendeva. Il battello della sua defunta moglie era stato ritrovato, ma senza traccia del suo corpo, e una donna che non amava era incinta di un figlio indesiderato…proprio una piacevole accoglienza. Non so perché, ma ero sicura che Oliver non desiderasse un figlio da me, e che la notizia della mia gravidanza non lo avrebbe fatto per nulla felice. Era solamente una mia ipotesi, perché io e lui non avevamo mai affrontato l’argomento, ma la percepivo come se si trattasse di una certezza assoluta. Mi chiesi nuovamente perché lui e Patricia non avessero avuto figli…credevo fermamente che, quando due persone si amavano profondamente, come dovevano sicuramente essersi amati loro due, fosse naturale desiderare un figlio come completamento del loro amore…ma loro non avevano mai avuto dei bambini.

Come poteva essere beffardo il destino, pensai…Ad Oliver non era rimasto neanche un figlio come tangibile ricordo della donna che aveva amato più della sua stessa vita, ed ora stava per essere reso padre per la prima volta da una donna per cui non provava nulla, e probabilmente il bambino che lo avrebbe chiamato “papà” non era neanche biologicamente suo…La vita poteva essere veramente molto ingiusta.

 

Era ormai sera quando mi alzai dal letto e mi affacciai alla finestra. Stava cominciando a calare il buio, e si avvicinava il momento in cui mio marito sarebbe tornato a casa. Realizzai che, durante la cena, avrei dovuto parlargli della mia gravidanza, e istintivamente fui in preda al panico. Cominciai a pensare ad una scusa per saltare la cena, e rimandare al giorno dopo il confronto con Oliver, ma poi mi resi conto che sarebbe stato completamente assurdo e inutile. Prima o poi avrei dovuto dire la verità a mio marito, non potevo certo nascondergli una cosa importante, e rimandare quell’inevitabile momento sarebbe servito solamente ad acuire le mie preoccupazioni. Così decisi di farmi coraggio e cominciai a prepararmi per la cena, trascorrendo quasi un’ora davanti allo specchio a fissare come inebetita la mia immagine riflessa, quasi come se volessi ipnotizzarmi per trovare la forza di affrontare Oliver e dirgli del bambino.

Sentii come se appartenessero ad un sogno, e non alla realtà, i rumori della macchina di Oliver che varcava il cancello della Villa, del portone che si apriva per accoglierlo e della voce di Frank che lo salutava, domandandogli come fosse andato il viaggio. Udii mio marito salire in tutta fretta le scale e chiudersi nella sua stanza, e poi il rumore dell’acqua che scorreva nella vasca.

Respirai profondamente, e scesi dabbasso. Avrei dato qualunque cosa per poter vedere Carlos e confidarmi con lui, ma avrei dovuto attendere obbligatoriamente il mattino dopo. Sarebbe stato decisamente troppo rischioso recarmi fino alla sua capanna…qualcuno avrebbe potuto vedermi e riferirlo a mio marito, ed era un rischio che non potevo permettermi di correre, soprattutto nelle mie attuali condizioni. Le persone che mi odiavano, la signora Martin in testa, non ci avrebbero messo due secondi a insinuare in mio marito il dubbio che il figlio che portavo in grembo non fosse suo.

Arrivata al piano di sotto, mi guardai intorno con circospezione, chiedendomi se la signora Martin fosse nei paraggi o si trovasse ancora nella sua stanza, e mi domandai se si fosse ripresa da quel che era avvenuto solamente poche ore prima…e dire che mi sembrava che fosse trascorsa un’eternità. Era stata una giornata decisamente piena, e non vedevo l’ora che terminasse…le ore che mi separavano dal mattino seguente e dal mio incontro con Carlos mi sembravano a dir poco interminabili, e la mia angoscia saliva di minuto in minuto.

Fortunatamente non sembrava esserci traccia della signora Martin. Entrai in sala da pranzo, e vidi Frank che terminava di sistemare le posate sulla tavola.

-Buonasera, signora. Vostro marito è appena tornato. La cena sarà servita tra circa un’ora, perché il signor Oliver ha espresso il desiderio di farsi un bagno caldo-, mi disse con il suo solito tono affettato e deferente.

Mi passai ansiosamente una mano tra i capelli. –D’accordo, non c’è problema. Non ho neanche molto appetito, a dire il vero-, risposi, e feci per uscire dalla stanza. Poi, istintivamente, mi voltai nuovamente verso Frank e lo chiamai.

Egli si girò a guardarmi meravigliato. –Sì, signora?-, mi chiese, fissandomi con aria vagamente interrogativa.

Sospirai profondamente, prima di fargli la domanda che non riuscivo più a tenermi dentro. –Come sta la signora Martin?-, domandai tutto d’un fiato, prima che il coraggio mi venisse meno.

Frank assunse per un attimo un’espressione stupita, ma durò solo un istante. –Le ho dovuto dare un po’ di valeriana, signora, e ora sta dormendo. Si è parecchio agitata, povera vecchia…la notizia è stata un duro colpo per lei-, rispose, senza fare alcun cenno alla scenata che si era verificata quel pomeriggio. Gli fui davvero grata per la sua gentilezza.

-Un’altra cosa Frank…-, deglutii un istante, prima di trovare la forza di proseguire. Sentivo il cuore martellarmi nel petto con un ritmo a dir poco forsennato. –Qualcuno ha già dato la notizia a mio marito?-

Il maggiordomo rimase in silenzio per un attimo, poi annuì lentamente. –Sì, signora Hutton. Gli ha telefonato il signor Becker per informarlo-.

-Bene. Vi ringrazio-, risposi meccanicamente, prima di lasciare la stanza camminando con passi lenti e strascicati. Ringraziai mentalmente Tom per avermi sollevata da un compito che per me sarebbe stato infinitamente penoso, anche se dentro di me ero sicura che lo avrebbe fatto. Non sarei mai riuscita a guardare in faccia mio marito e comunicargli del ritrovamento del battello di Patricia…anche se non lo amavo, mi avrebbe fatto troppo male vedermi il suo passato sbattuto in faccia per l’ennesima volta, insieme alla consapevolezza di essere solo un’ingombrante sostituta, come anche quel giorno si era premurata di ricordarmi la signora Martin.

Spinta dal bisogno di trovare un luogo tranquillo in cui rimanere un po’ sola con me stessa prima che giungesse il momento della cena, mi ritrovai davanti alla porta della biblioteca e decisi di entrare. Mi sedetti al grande scrittoio che troneggiava al centro della stanza, in cui sicuramente mio marito si era seduto tante volte per lavorare, ed istintivamente aprii i cassetti uno per uno. Dentro erano pieni di fogli, tutti scritti con un’inconfondibile calligrafia femminile, una calligrafia rotonda ed elegante che avevo imparato a conoscere bene mentre compilavo la lista degli invitati al ballo in costume…la calligrafia di Patricia. I fogli erano tenuti tutti insieme da un nastro rosso, ed intuii che doveva trattarsi di lettere che aveva scritto ad Oliver, e che mio marito aveva conservato come un tesoro prezioso. Sapevo che non avrei dovuto farlo, e cercai con tutte le mie forze di trattenermi, ma alla fine la curiosità ebbe il sopravvento, e con dita tremanti sciolsi il nastro rosso che teneva insieme i fogli e cominciai a leggere la prima lettera.

Quando ebbi terminato la lettura, sentii il cuore colmarsi di angoscia e di dolorosa compassione, e non riuscii a trattenere le lacrime. Patricia aveva scritto delle parole d’amore bellissime, e mi sembrava quasi di poter toccare con mano la forza del sentimento che aveva unito lei ed Oliver, un sentimento talmente forte ed intenso che può essere vissuto soltanto una volta nell’esistenza di un essere umano, e che non può mai essere dimenticato. Quella lettera era datata una settimana dopo il loro matrimonio…quanto doveva essere stata completa la loro felicità, in quel periodo! Traspariva da ogni riga, da ogni parola che Patricia aveva scritto per suo marito. Mi chiesi se Oliver le avesse mai rilette dopo che ella era morta, e mi domandai quanto profondo fosse stato il suo dolore nel rivivere quei momenti di felicità attraverso le parole di sua moglie con la lancinante consapevolezza che non l’avrebbe mai più rivista, che quei meravigliosi momenti del passato non sarebbero mai più tornati…

Una settimana, amore mio. Sono tua moglie da una settimana, e ancora non riesco a credere che tutto ciò sia vero. Mi sembra di vivere in una favola meravigliosa! Ogni mattina apro gli occhi temendo che sia stato tutto un bel sogno, invece tu sei lì accanto a me, e le tue braccia mi stringono forte serrando il mio corpo al tuo, come se avessi paura che possa fuggire via, lontano da te. Ma questo non accadrà mai, Oliver, perché tu sei tutta la mia vita, ed io ti amo troppo per poter pensare di esistere lontana da te. Da quando ti ho visto per la prima volta, sei diventato per me come la luce del sole: indispensabile. Senza di te non esisterei nemmeno io. Siamo due anime nate per incontrarci e non potremmo mai esistere separate.

Spinta da una forza quasi soprannaturale, che mi comandava di andare avanti senza fermarmi, anche se ogni parola che ella aveva scritto si conficcava nel mio cuore dolorosamente, come una pugnalata, continuai a leggere lettera dopo lettera, ed era come se la storia d’amore di Oliver e Patricia tornasse a vivere davanti ai miei occhi, come se la stessero vivendo nel mio presente, e non appartenesse invece ad un passato lontano che non sarebbe mai più potuto tornare. Arrivai così all’ultima lettera, ed istintivamente guardai la data…risaliva a circa un anno prima che Patricia affondasse insieme alla sua barca, e lasciasse solo suo marito per sempre. Sentii un brivido scorrermi lungo la schiena mentre mi apprestavo a leggerla, tuttavia non potei fare a meno di chiedermi come mai, dopo di quella, Patricia non avesse più scritto altre lettere.

Amore mio dolcissimo,

ti scrivo perché non mi viene in mente un altro modo per darti questa meravigliosa notizie. Forse dovrei dirtelo a voce, ma non ne ho il coraggio…solo a pensare di scrivertelo mi viene il batticuore! Oh, Oliver, in questo momento sono la donna più felice del mondo, e sapessi quanto mi emoziona sapere che anche tu sarai altrettanto felice quando sarai arrivato alla fine di questa lettera.

Ricordi quando, poco più che ragazzini, ci divertivamo ad immaginare il nostro futuro? Abbiamo realizzato quasi tutto, in questi anni, ma una cosa è sempre mancata…tu non ne parlavi, io nemmeno, ma entrambi lo desideravamo tanto, e il fatto che non arrivasse rappresentava un’ombra nella nostra felicità, anche se il nostro amore era così forte da riuscire a sopperire anche a questa mancanza.

Ma ora…ora la nostra felicità può essere davvero completa! Sì, amore, hai indovinato! È proprio quello che pensi tu!

Scommetto che in questo momento stai piangendo di gioia…non mi vergogno ad ammettere che lo sto facendo anch’io! È da qualche settimana che avevo il sospetto, ma ho voluto aspettare a dirtelo di avere la certezza…non mi sarei mai perdonata di averti illuso inutilmente, dopo tanti anni di attesa! Ma oggi il dottore mi ha dato la conferma…non ti dico la mia gioia quando me l’ha detto! Gli ho buttato le braccia al collo piangendo e ridendo contemporaneamente, e non ho fatto altro che pregustarmi il momento in cui anche tu avresti saputo il mio, anzi il nostro, dolce segreto!

Non trovo nemmeno le parole per dirti quanto sono felice e quanto ti amo, ancora di più adesso che nostro figlio sta crescendo lentamente nel mio grembo. Non vedo l’ora di stringerlo fra le braccia e riempirlo di baci. Spero che ti somigli, e che nasca forte e sano. Sarà sicuramente un bambino bellissimo, proprio come suo padre, e tu sarai il papà più dolce e meraviglioso del mondo!

Ti prego, corri da me appena avrai letto questa lettera. Non vedo l’ora di stringerti forte tra le braccia e di farti appoggiare la testa sul mio pancino…così potrai salutare nostro figlio per la prima volta!

Ti amo da impazzire, e sono fiera di essere tua moglie e la madre di tuo figlio.

Patricia

 

Fine undicesimo capitolo

 

 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo dodicesimo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

CAPITOLO DODICESIMO

Rimasi letteralmente scioccata, mentre i fogli mi cadevano dalle mani e scivolavano lentamente a terra. Per qualche istante stetti praticamente immobile, mentre le parole che avevo appena letto mi attraversavano in continuazione la mente senza che riuscissi ad afferrarne pienamente il significato. Poi mi riscossi, e mi chinai a terra per raccogliere le lettere e riordinarle prima di rimetterle al loro posto. Non volevo che qualcuno si accorgesse che le avevo lette. Mi sembrava quasi di aver violato qualcosa di sacro, che non mi apparteneva…un passato al quale io ero totalmente estranea, e che, me ne rendevo conto una volta di più, io non conoscevo affatto.

Sistemai nuovamente il nastro rosso che teneva insieme le lettere e mi affrettai a riporle nel loro cassetto, come se non le avessi mai toccate. Dovetti sedermi, perché non ero minimamente in grado di riordinare le idee, o anche semplicemente di formulare un pensiero di senso compiuto. Mi ravviai nervosamente i capelli, e mi presi la testa tra le mani sforzandomi in tutti i modi di ragionare, di reagire in qualche modo alla sconvolgente scoperta che avevo appena fatto.

Istintivamente, tornai a prendere le lettere, e mi rimisi a leggere ansiosamente l’ultimo foglio, nell’irrazionale speranza di aver sognato tutto. Ma bastò una fugace occhiata all’ultima riga che Patricia aveva scritto per avere la conferma che avevo capito bene. Sono fiera di essere tua moglie e la madre di tuo figlio…queste erano state le ultime parole che ella aveva vergato sul foglio…le ultime cose che aveva scritto ad Oliver in vita sua. Rilessi quelle poche parole più e più volte…il loro significato mi suonava chiaro ed assurdo allo stesso tempo…

La madre di tuo figlio…quella frase voleva dire solamente una cosa. Quando aveva scritto quella lettera, Patricia aspettava un bambino. Un figlio suo e di Oliver. E da quello che mi sembrava di capire, era una cosa che aspettavano e sognavano da anni…la gioia che ella provava per quella notizia traspariva da ogni riga, da ogni parola della sua lettera, e mi sembrava quasi di vederla, seduta a quello stesso scrittoio, che scriveva ansiosa e trepidante, con la mano che le tremava quasi dall’emozione, e intanto si figurava nella sua mente il momento in cui Oliver l’avrebbe letta, e avrebbe saputo che stava per diventare padre. Doveva essere stato uno dei momenti più meravigliosi della sua vita, e a quel pensiero provai una fitta violentissima di invidia nei suoi confronti. Sapevo che era a dir poco abominevole invidiare una persona che era morta, ma non potevo fare a meno di confrontare la sua situazione di allora con la mia, e di rendermi conto con amarezza di quanto erano profondamente diverse…

Oliver non sarebbe mai stato contento di avere un figlio da me, questo era certo. E dopo aver letto la lettera di Patricia, avevo ancora più paura di dargli la notizia della mia gravidanza. La sua mente sarebbe sicuramente andata al passato…a quando era stata Patricia a comunicargli che sarebbe diventato padre…e sapevo che non c’era paragone tra avere un figlio dalla donna che si ama, e averlo da una persona per cui non si prova assolutamente nulla…lo sapevo, perché io stessa sentivo di amare di più la creatura che portavo in grembo se pensavo che fosse frutto del mio amore per Carlos…nonostante mi facesse del male, questo pensiero. Sì, mi faceva del male, perché comunque io e Carlos non avremmo mai potuto crescere insieme nostro figlio…Oliver sarebbe stato suo padre agli occhi di tutti, volente o nolente…e qualcosa dentro mi diceva che mio marito non avrebbe mai potuto amare il mio bambino. Come avrebbe potuto, se non amava sua madre?

Respirai a fondo, e istintivamente mi domandai che cosa fosse accaduto al bambino che Patricia aspettava. Non avevo mai saputo che mio marito avesse un figlio…evidentemente, quella creatura non era mai venuta al mondo…

Il pensiero mi fece rabbrividire, e provai una pena profonda per Oliver…una pena indicibile, che mi straziava il cuore e le viscere, resa ancora più acuta dalla nuova sensibilità che il sentirmi madre mi aveva donato. Prima doveva aver perso il figlio tanto desiderato…il bambino che lui e sua moglie avevano cercato per anni…e poi aveva perso anche la donna che amava più di se stesso…

Il poco coraggio che avevo si stava sgretolando lentamente…come potevo guardare mio marito negli occhi e comunicargli che aspettavo un bambino, dopo aver letto quella lettera? No, non me la sentivo…non avrei mai potuto farcela…Eppure sapevo che dovevo. Dovevo dirglielo subito, o non sarei mai più riuscita a trovare le parole…

Sentii bussare discretamente alla porta, e mi affrettai a rimettere a posto la lettera e chiudere il cassetto. Non volevo che qualcuno mi sorprendesse a sbirciare fra le lettere di Patricia. Mio marito non mi avrebbe mai perdonato questa intrusione nella sua vita privata, in quell’angolino del suo cuore che egli nascondeva accuratamente agli occhi del mondo. Balbettai timorosamente un “avanti”, sentendomi profondamente scorretta e disonesta, e Frank fece capolino dalla porta annunciandomi che la cena era servita, e che Oliver mi stava aspettando. Lo ringraziai cercando di mantenere ferma la mia voce e di apparire disinvolta, e dissi che sarei arrivata subito.

Quando la porta si fu richiusa alle spalle del maggiordomo, cominciai ad inspirare profondamente, nel tentativo di farmi forza. L’unica cosa che desideravo fare in quel momento era scomparire dalla faccia della terra…teletrasportarmi lontana da Villa Hutton, in un luogo in cui non mi conoscesse nessuno e dove non sarei stata costretta ad affrontare mio marito…a guardarlo negli occhi e a comunicargli che ero incinta…Ma tutto ciò non era possibile. Per quanto cercassi di chiudere gli occhi, desiderando con tutte le mie forze che quel che mi circondava scomparisse nel nulla, la realtà intorno a me rimaneva sempre la stessa, e il mio dovere non cambiava. Era inutile sperare in un miracolo che non sarebbe mai accaduto. Non esisteva alcuna via di fuga. Oliver mi stava aspettando, ed io dovevo andare da lui.

Mi ravviai nervosamente i capelli, e con passo timoroso e titubante mi diressi verso la sala da pranzo. Mio marito era già seduto a capotavola, con un bicchiere colmo di vino bianco di fronte a lui, e lo sguardo perso nel vuoto. Sicuramente stava pensando al ritrovamento del battello di Patricia, pensai, con una fitta al cuore che mi mozzò quasi il respiro. Lo salutai con voce flebile ed egli mi rispose a malapena, lanciandomi un’occhiata distratta mentre prendevo posto a tavola, e Frank riempiva anche a me il bicchiere. Ingollai un sorso di vino bianco cercando di prepararmi mentalmente un discorso, ma nella mia testa in quell’istante c’era solo il nulla. Vuoto assoluto. Non sapevo proprio come fare ad intavolare un discorso con mio marito, e l’espressione apatica e distante di Oliver mi inibiva ancora di più.

Il maggiordomo cominciò a servire la cena. Mi sentivo lo stomaco completamente chiuso, e mi limitai ad inghiottire svogliatamente alcuni bocconi. Mio marito non sembrava avere molto più appetito di me. Mangiava lentamente, con aria stanca e malinconica, e teneva gli occhi bassi, ostinatamente fissi sul piatto, per evitare di incrociare il mio sguardo. L’aria che si respirava in quella sala da pranzo era soffocante, e la mia ansia non faceva che aumentare ogni secondo di più. Mi accorsi che le mie gambe tremavano, mentre il mio cuore batteva forte come un tamburo, al punto da farmi temere che sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro. Inspirai profondamente e bevvi un altro sorso di vino, prima di decidermi finalmente ad aprire bocca. Non potevo assolutamente attendere oltre. Quella situazione stava diventando insostenibile.

O adesso o mai più”, mi dissi, dopo aver appoggiato il bicchiere ormai vuoto sul tavolo. Sollevai lo sguardo, e chiamai piano il nome di mio marito.

Oliver alzò la testa e mi guardò con aria interrogativa. –Che c’è?-, mi chiese con voce stanca, completamente svuotata da ogni espressione. Lo osservai con maggiore attenzione, e con profonda tristezza mi resi conto che sembrava invecchiato di almeno dieci anni nel giro di poche ore. La notizia doveva essere stata un colpo terribile per lui.

-Immagino che Tom ti abbia detto tutto-, cominciai in tono cauto, decidendo di prendere il discorso alla larga, molto alla larga. Non potevo rivelargli così a bruciapelo di aspettare un bambino…sarebbe stato uno shock troppo grande per lui-

L’espressione di Oliver si indurì. –Sì, me lo ha detto-, rispose seccamente, abbassando nuovamente lo sguardo sul piatto. Fece un breve sospiro, e poi rialzò la testa e mi guardò. Lessi nei suoi occhi qualcosa di molto simile ad una muta supplica. –Non ho voglia di parlarne-, proseguì, ma il tono in cui mi disse questa frase non era brusco come poco prima…era venato di una profonda amarezza.

Mi sforzai di sorridere, ma non mi venne fuori altro che una smorfia nervosa. –Capisco…non preoccuparti…-, mormorai in tono vago, cercando le parole per comunicargli la notizia.

-Piuttosto-, disse Oliver, con l’aria eloquente di chi cerca in tutti i modi di cambiare discorso, -Tom mi ha detto che sei svenuta, e che hai dovuto chiamare il medico. Nulla di grave spero-. Non c’era affatto partecipazione nella sua voce…era il classico tono di chi domanda una cosa perché deve farlo, e non perché gli interessi realmente conoscere la risposta.

Rimasi in silenzio per un lungo istante, gli occhi ostinatamente fissi sul mio piatto, la gola irrimediabilmente secca. Sapevo di non poter tacere per sempre. Ero consapevole del fatto di dover dare la notizia della mia gravidanza a mio marito, e che più a lungo avrei rimandato, più sarebbe stato difficile trovare il coraggio. Ma non riuscivo a trovare le parole. Mi sentivo inibita dalla paura, dal senso di colpa e dalla freddezza di Oliver.

-No…nulla di grave…ma c’è una cosa che devo dirti-, mormorai, cercando di controllare il tremito della mia voce.

Mio marito mi fissò con espressione impenetrabile. –Ti ascolto-, disse freddamente, continuando a rimestare con il cucchiaio nel proprio piatto.

Ora o mai più, pensai, e chiamai a raccolta tutte le mie forze. Smisi di pensare, e cercai di spegnere completamente il cervello: sapevo che, se avessi continuato a ragionarci sopra, non avrei più detto nulla a Oliver. –Aspetto un figlio-, dissi a bruciapelo, senza guardarlo nemmeno negli occhi.

Ecco, l’avevo fatto. Glielo avevo detto. Il cuore mi martellava nel petto come un tamburo, e non avevo il coraggio di alzare lo sguardo per spiare la reazione di mio marito.

Quando, dopo qualche istante che a me parve a dir poco interminabile, riuscii a sollevare la testa, vidi che Oliver sembrava quasi impietrito. Era mortalmente pallido, forse ancor più di quando si era seduto a cena, e aveva la fronte cupamente aggrottata. La mia ansia crebbe ancora di più. Non assomigliava affatto ad un papà felice, che aveva appena ricevuto una notizia lungamente desiderata. Sembrava quasi che avesse visto un fantasma.

Di colpo, mi tornò alla mente la lettera di Patricia, e sentii un brivido freddo scivolarmi lungo la schiena.

-Sei…sei sicura?-, mi domandò infine, con voce appena percettibile.

Annuii con il capo, incapace di parlare. Un gelido silenzio cadde nella stanza, avvolgendoci come un mantello di neve. Ognuno di noi era immerso nei propri cupi pensieri, e a malapena riusciva a guardare in faccia l’altro.

Una sensazione di angoscia si fece largo a viva forza nel mio animo. Istintivamente, mi portai una mano al ventre, come a proteggere il mio bambino dal mio stesso turbamento. Mi chiesi che cosa avrebbe fatto Oliver…cosa ne sarebbe stato di me, di mio figlio, del nostro matrimonio.

Pensai a Carlos. Avrei dovuto dirlo anche a lui. Dopotutto…era molto più plausibile che il bambino fosse suo, che non di mio marito. Forse avremmo potuto andarcene insieme, lontano…cominciare una nuova vita insieme a nostro figlio.

In fondo al cuore, sapevo che era una fantasticheria irrealizzabile. Ero una donna sposata, ormai, e non potevo certo lasciare mio marito e la nostra casa con tanta facilità. Senza contare che Carlos era un cameriere sudamericano…come saremmo stati accolti dalla società? E nostro figlio? Che vita avrebbe avuto con due genitori reietti ed emarginati? Eppure…una parte di me non poteva fare a meno di pensare, anzi, di sperare che Carlos mi avrebbe proposto di andarmene da Villa Hutton insieme a lui e al bambino…Non riuscivo a desiderare altro che liberarmi da quel senso di angosciosa oppressione che gravava sul mio petto dal giorno in cui avevo messo piede in quella casa, e che stava diventando sempre più insostenibile.

Quel silenzio mi stava uccidendo. Avrei dato qualunque cosa per poter leggere nel pensiero di Oliver e capire cosa gli stesse passando per la testa in quel momento. L’unica cosa che sapevo con certezza era che non desiderava un figlio da me, né più né meno di quanto io lo desiderassi da lui. Però il bambino c’era, e, sebbene sperassi ardentemente che fosse Carlos il vero padre, io ero la moglie di Oliver e quello era nostro figlio…o almeno, sarebbe stato nostro figlio davanti agli occhi di tutti.

-Non me lo aspettavo-, mormorò mio marito con voce flebile, come a voler giustificare in qualche modo la sua reazione fuori dall’ordinario. Sollevai leggermente lo sguardo per osservarlo meglio. Il suo volto era decisamente pallido, le labbra erano contratte e la fronte solcata da un’infinità di piccole rughe, che mi pareva di notare in quel momento per la prima volta.

-A dirti la verità, non me lo aspettavo nemmeno io, Oliver-, ribattei seccamente, pentendomi subito dopo di aver usato un tono di voce così duro. Mio marito doveva essere sconvolto…forse, se non avessi letto la lettera di Patricia, avrei potuto fargliene un torto, ma dopo quella scoperta provavo come un’istintiva comprensione nei suoi confronti. Non potevo biasimare un uomo che aveva subito un dolore così grande…anzi, due dolori così grandi, considerando anche la perdita di Patricia. Era un atroce scherzo del destino il fatto che la sua imbarcazione fosse stata trovata proprio il giorno in cui io avevo scoperto di essere incinta. Forse, era solamente l’ennesima dimostrazione di quanto il mio matrimonio fosse sbagliato, di quanto fosse assurda la mia presenza a Villa Hutton. Ma ero lì, ormai, e stavo per dare un figlio a Oliver. Non potevo scappare, non potevo riportare indietro le lancette dell’orologio. Dovevo guardare in faccia la realtà ed accettarla, e anche mio marito avrebbe dovuto fare lo stesso, per quanto difficile e doloroso potesse essere.

-Forse non è il momento migliore per affrontare questo discorso-, dissi, abbassando rapidamente gli occhi, e versandomi un altro bicchiere di vino, come se ciò fosse sufficiente a darmi la forza di affrontare quella conversazione per me quasi insostenibile.

Oliver sospirò. – Parlarne in un altro momento non cambierebbe la situazione-, obiettò. Sospirò di nuovo, e allungò la mano attraverso il tavolo per prendere la mia. Me la strinse forte, intrecciando le dita con le sue…ma non c’era alcun calore in quel contatto. Il nulla più assoluto. Il mio cuore mancò un battito, e provai una sensazione di assoluta tristezza, una desolazione che si diffuse in tutto il mio corpo e il mio spirito. Istintivamente mi lasciai sfuggire un gemito di dolore, per fortuna talmente debole che mio marito non se ne accorse. –Kat, desidero essere franco con te. Detesto l’idea di mentire in generale, e il pensiero di dire bugie a mia moglie mi è decisamente insopportabile-. Tacque un istante, come per raccogliere meglio le idee, poi mi guardò negli occhi. –Come puoi ben immaginare, il ritrovamento del battello mi ha sconvolto. La perdita di Patricia…beh, è stata una cosa difficile da superare, e la ferita non si è ancora del tutto rimarginata. Oggi, per me, è stato come se lei…se lei fosse morta una seconda volta-, la sua voce parve spezzarsi, e Oliver ammutolì per un lungo momento, come se fosse incapace di continuare.

Non nego che fu un duro colpo per me sentire queste parole, tuttavia la sensazione più forte che provai fu un’infinita pena per l’uomo che mi stava di fronte…mentre parlava di Patricia, le sue dita si serrarono più forte intorno alle mie, come se io fossi la zattera cui egli si stava aggrappando per non lasciarsi trasportare alla deriva da un dolore ancora troppo straziante per consentirgli anche solo di respirare. Provai a pensare di essere al suo posto…cercai di immaginare un mondo in cui Carlos non c’era più, in cui se n’era andato per sempre lasciandomi sola, senza nemmeno una tomba sulla quale piangere…solo l’idea di non rivedere più i suoi occhi e il suo sorriso mi procurò una fitta atroce proprio in mezzo al petto, così forte da provocarmi quasi un senso di soffocamento…boccheggiai per un istante, finché non realizzai che grazie al cielo quell’orribile immagine non faceva parte della realtà, ma era solo un parto della mia fantasia…il sollievo che provai fu sterminato…e quando i miei occhi tornarono a posarsi su mio marito, e incrociarono la muta disperazione che si rifletteva nelle sue pupille castane spente e opache, la pena si fece ancora più intensa. Avrei voluto alzarmi e andare ad abbracciarlo forte, a dirgli che c’ero io con lui e che non doveva più farsi condizionare dai suoi fantasmi…fui quasi sul punto di alzarmi dalla sedia…ma mi bloccò il pensiero che non sarebbe servito a niente, che il mio gesto non sarebbe stato di alcuna consolazione per Oliver.

Io non ero Patricia. Le assomigliavo, questo sì…per un attimo, forse, gli avevo regalato l’illusione che lei fosse tornata…che avrebbe potuto vivere ancora al suo fianco, come se il loro sogno non fosse stato spezzato per sempre, ma solo bruscamente interrotto. Ma non ero lei. Io ne ero consapevole, e ormai lo aveva capito anche Oliver. Lui non mi aveva mai amata, e forse nemmeno io…forse avevo amato soltanto l’immagine dell’amore che lui aveva rappresentato per me, l’immagine del principe azzurro che avevo tanto sognato e atteso fin da quando ero piccola. Che tristezza…ora eravamo entrambi prigionieri di un matrimonio che nessuno dei due, in fondo al proprio cuore, desiderava veramente, e anche di un figlio in arrivo, che forse non era nemmeno suo, ma che legalmente gli apparteneva, così come sua madre.

-Mi dispiace tanto, Oliver-, mormorai con sincerità, accarezzandogli il palmo con la mano rimasta libera.

Le labbra di mio marito si contrassero impercettibilmente. Era quasi palese come egli stesse sforzandosi per non scoppiare a piangere davanti ai miei occhi. –Speravo almeno di riavere il suo corpo…neanche quello è stato possibile. Devo rassegnarmi. Lei è morta e non tornerà più da me…nemmeno quel che resta di lei. Il mare maledetto ha voluto portarmela via…senza lasciarmi neanche un osso su cui piangere-. Il suo tono di voce era amaro e carico di rabbia. Sentivo come un urlo represso in fondo al suo cuore, un urlo carico di odio e di disperazione che Oliver tratteneva con tutte le sue forze, forse per rispetto nei miei confronti, forse perché anche lui era stanco di soffrire.

Ci fu un lungo momento di silenzio. Io tenevo gli occhi bassi, senza sapere cosa dire, o cosa fare. Era come se un muro invisibile ma insormontabile si fosse innalzato tra me e mio marito. Oliver mi guardava ancora, ma penso che in realtà non mi vedesse affatto…il suo sguardo era perso nel vuoto, distante anni luce da me, dal tavolo, dalla nostra casa…fisso su qualcosa che forse solamente lui riusciva a vedere, o forse solo profondamente immerso nei suoi pensieri, nei suoi ricordi di un passato ormai svanito per sempre, ma incredibilmente ancora vivo e presente nella sua mente.

-Ho sbagliato a coinvolgerti in questa storia, Kat-, disse infine a bruciapelo, facendomi quasi sobbalzare sulla sedia per lo stupore. Abbassò la testa e sospirò profondamente. – Tu sei una ragazza così giovane, così dolce…meriteresti molto di più di un uomo che è stato già segnato profondamente dalla vita-, aggiunse, e la sua voce si incrinò lievemente.

Provai una fitta di compassione nei miei confronti e sollevai un dito per carezzargli dolcemente una guancia, mentre le lacrime cominciavano a rigarmi il volto quasi senza che me ne rendessi conto. –Sei tu che non meritavi una disgrazia simile-, mormorai.

Mio marito si alzò in piedi e prese a passeggiare per la stanza come un animale in gabbia. Mi morsi le labbra e in silenzio maledissi me stessa per non essere stata più attenta…avevo combinato un guaio, un guaio enorme. Quella gravidanza proprio non ci voleva. Non ci voleva per me, perché mi legava a filo doppio a un marito che non amavo e ad una casa in cui non volevo più vivere. Non ci voleva per Oliver, che non era certo in grado di sopportare l’idea di aspettare un figlio da me proprio nel giorno in cui aveva detto addio per sempre alla speranza di riavere almeno il corpo di sua moglie. Non osavo pensare, inoltre, alla reazione di Carlos quando avesse saputo che aspettavo un bambino. Tutti questi pensieri continuavano a ribollirmi nella testa creandomi un’angoscia intollerabile. La stanza piombò nel silenzio. Era un’atmosfera pesantissima e avrei voluto dire qualcosa per rompere quel silenzio che mi faceva stare ancora più male, ma non sapevo cosa avrei potuto dire o fare. Continuai a piangere silenziosamente.

Oliver mi si avvicinò e mi mise le mani sulle spalle. – Perdonami, Kat. Nessuna donna vorrebbe vedere il proprio marito reagire così dopo aver saputo che è incinta-, mi disse in tono contrito.

Non osai voltarmi per guardarlo negli occhi. –Non è colpa tua…è il momento sbagliato…è tutto sbagliato-, sussurrai. “Anche il nostro matrimonio è sbagliato”, avrei voluto dirgli, ma non ne ebbi il coraggio.

-C’è una cosa che devo dirti, Kat. Forse non te l’avrei mai detto, perché parlarne mi crea ancora un dolore atroce, nonostante sia passato ormai nel tempo…ma adesso è giusto che tu lo sappia-. Tornò a sedersi, mi prese le mani tra le sue e mi guardò dritta negli occhi.

Istintivamente mi irrigidii…Oliver non poteva saperlo, ma io ero sicura di sapere già cosa lui stesse per dirmi. Le parole della lettera di Patricia che avevo letto di nascosto mi tornarono alla mente e sentii il mio cuore stringersi in una morsa d’angoscia. Ma non potevo dire a mio marito che conoscevo già il suo segreto…così mi limitai ad annuire in silenzio e mi disposi ad ascoltarlo.

Oliver sospirò profondamente, prima di cominciare a parlare. Il suo volto era una maschera di pena e di dolore, e provai per lui una compassione ancora più forte. – Io e Patricia desideravamo un figlio più di ogni altra cosa al mondo. Abbiamo provato ad averlo da subito, appena ci siamo sposati…ne parlavamo in continuazione, facevamo tanti progetti…volevamo tanti figli, pensavamo ai loro nomi, alle cose che avremmo fatto con loro…-, la sua voce si spezzò per un attimo. Si passò una mano sul volto, come a cercare di trovare la forza di continuare. Io restai zitta, con gli occhi bassi, incapace di esprimere a parole la miriade di sensazioni che provavo.

- Però il figlio che sognavamo tanto non arrivava. I mesi, gli anni passavano, e nessun bambino veniva ad allietare la nostra casa e il nostro matrimonio. Patricia non ne parlava mai, ma vedevo che ogni mese, quando la nostra ennesima speranza veniva disillusa, sembrava spegnersi…passava giornate intere chiusa nella sua stanza, giornate in cui rifiutava di parlarmi e accettava la compagnia soltanto della signora Martin. Io rispettavo il suo stato d’animo, anche se…beh, provavo il suo stesso dolore, la sua stessa delusione, e avrei voluto condividere queste mie emozioni con lei…ma Patricia in quei giorni tirava su un muro tra di noi. Forse, in fondo al cuore, si colpevolizzava per il fatto che non riuscivamo ad avere figli…non so…purtroppo non abbiamo mai affrontato questo argomento insieme. Lei si chiudeva a riccio, non voleva parlarne…ed io avevo troppo rispetto nei suoi confronti per forzarla-. Un’altra pausa, in cui il volto di mio marito si incupì. Per un istante, la sua mente mi parve distante anni luce da me. Sicuramente stava ripensando al passato, ai problemi affrontati con Patricia per mancanza di figli…mi resi conto per la prima volta che, nonostante il grande amore che li aveva uniti, il loro matrimonio non era stato tutto rose e fiori e questo, malgrado la pena che nutrivo per Oliver e il suo evidentissimo dolore, mi rassicurava un po’…era come se Patricia fosse improvvisamente caduta dal piedistallo su cui l’avevo inconsciamente posta, come se fosse diventata più umana…nemmeno lei era stata perfetta, dunque. Aveva avuto le sue zone d’ombra, i suoi momenti difficili, i suoi conflitti con il marito. Non era stata la moglie ideale che io avevo immaginato.

Oliver si riprese. –Poi…dopo tanti anni di inutile attesa…avvenne un miracolo. Patricia scoprì di essere incinta…non potrò mai dimenticare il giorno in cui me lo comunicò…era raggiante…-, la sua voce si ruppe e calde lacrime cominciarono a rigargli il viso senza che egli potesse in alcun modo trattenerle.

- Ora ti chiederai che fine ha fatto nostro figlio-, mi disse, guardandomi negli occhi. Era sconvolto ed io mi sentii immensamente a disagio.

Non riuscii a pronunciare nemmeno una parola. Ero impietrita. Mi accorsi a malapena che stavo piangendo anch’io ed istintivamente mi portai una mano al ventre, accarezzandolo con mano leggera, come a rassicurarmi che mio figlio ci fosse ancora.

Ci fu un attimo di silenzio, prima che Oliver riuscisse a continuare il suo racconto. – Eravamo pazzi di felicità. Non facevamo che pensare a nostro figlio…a quando sarebbe nato, a come sarebbe stato. Non vedevamo l’ora. Fu il momento più felice del nostro matrimonio…eravamo sereni, completi…finalmente saremmo diventati una vera famiglia, finalmente la nostra gioia sarebbe stata piena. Passarono tre mesi, il dottore ci disse che sarebbe nata una bambina…ricordo ancora quanto fu felice Patricia…stavamo già pensando a come chiamarla…ci piaceva tantissimo il nome Madeleine…-. Mio marito non riuscì più a trattenersi e scoppiò in violenti singhiozzi. Appoggiò la testa sul tavolo, sempre tenendo le mie mani saldamente strette tra le sue, e pianse come un bambino. Mi sentii assalire dalla pena…avrei voluto accarezzarlo, stringerlo forte, fare qualcosa, qualsiasi cosa, per lenire il suo dolore…ma ero impotente, terribilmente impotente.

-Oliver-, mormorai, la voce ridotta a un flebile sussurro, -Oliver, basta. Non devi dirmi altro. Non è necessario che sappia altro-, proseguii. Era inutile che si sottoponesse a quello sforzo lacerante. Sapevo già cosa mi avrebbe detto.

Mio marito scosse la testa. Senza alzare la testa, la voce spezzata dai singhiozzi, andò avanti. – E’ necessario che tu sappia tutto fino in fondo-, disse, nel tono più fermo che riuscì ad usare. – Accadde quando Patricia era appena entrata nel quinto mese di gravidanza. Pensa, la pancia cominciava già a vedersi…-, un’altra interminabile serie di singhiozzi gli impedì di proseguire per alcuni minuti. Io aspettai in silenzio, pazientemente, mentre ondate di insopportabile dolore mi stringevano le viscere.

- Una mattina ebbe delle perdite di sangue. Ci allarmammo e andammo di corsa dal medico. Il ginecologo disse che si trattava di una minaccia d’aborto e ordinò a Patricia riposo assoluto per diversi giorni. Lei obbedì scrupolosamente…era sempre così attiva, posso immaginare che sforzi le costò lo stare immobile a letto…eppure lo fece. Disse che nulla era importante quanto la salute della nostra bambina. Ma fu tutto inutile…dopo due settimane di riposo sembrò che le cose stessero migliorando…Patricia stava bene, non aveva più dolori né perdite. Ricordo che ci dicemmo che il peggio era passato e ringraziammo Dio per aver custodito la nostra creatura. Invece…-. Oliver alzò faticosamente la testa, ma mi resi conto subito che non stava affatto guardando me. I suoi occhi erano fissi nel vuoto. Stava rivivendo quell’orribile giorno…in cui la loro vita era stata stravolta e il loro sogno più bello era finito per sempre.

- Durante la notte, mi svegliai di soprassalto. Patricia stava urlando terrorizzata. Accesi la luce…e vidi subito le macchie rosse sul materasso. La camicia da notte di Patricia era completamente inzuppata di sangue. Lei piangeva disperata e gridava, gridava…Dio, come gridava…-, si passò una mano sugli occhi, come per scacciare via quella tremenda scena che si ripresentava davanti al suo volto, vivida come se stesse accadendo in quel preciso istante. – La presi in braccio e la portai immediatamente dal dottore. Dall’espressione che fece quando la vide, compresi subito che la situazione era grave. Estremamente grave. Mi fecero uscire dalla stanza, mentre il medico e la sua assistente tentavano l’impossibile per salvare la vita di mia figlia. Ma non ci fu nulla da fare…non riuscirono ad arrestare l’emorragia e la nostra bambina se ne andò… Io rimasi fuori ad aspettare per ore…albeggiava quando il dottore uscì dalla stanza operatoria, stravolto. Appena vidi la sua faccia, capii subito che mia figlia non era sopravvissuta…anzi, temetti addirittura per la vita di Patricia, e a ragione. Il dottore mi disse che purtroppo, quando eravamo arrivati, Patricia aveva già perduto la bambina…e aggiunse inoltre che l’emorragia causata dall’aborto era stata così grave da aver messo a serio rischio la sua stessa sopravvivenza. Mi disse che mia moglie era viva per miracolo, ma che purtroppo, per salvarla, aveva dovuto fare una cosa che mai avrebbe voluto fare, soprattutto a lei…sapendo quanto desideravamo avere dei figli. Sulle prime non compresi bene quello che mi stava dicendo…poi ebbi un’illuminazione e fu come se qualcosa si schiantasse per sempre nel mio cuore. Il nostro sogno più bello era morto…era morto per sempre insieme alla nostra bambina, dopo averci illusi che si sarebbe finalmente realizzato. Era morto, non sarebbe mai più ritornato. Fine dei sogni, fine delle illusioni, fine delle speranze…io e Patricia non avremmo potuto più avere bambini. Mai più-, a questo punto, la voce di Oliver si spezzò definitivamente ed egli si lasciò andare ai singhiozzi.

Nemmeno io riuscii a trattenere le lacrime…sciolsi le mie mani dalla stretta di mio marito e le portati entrambe sulla mia pancia, come a voler proteggere il bambino che custodivo in grembo…intanto piangevo in silenzio per la bambina che mio marito aveva perduto, per il dramma di Patricia…piangevo e pensavo a come doveva essersi sentita lei al suo risveglio, quando aveva saputo non solo che la bimba che aveva tanto amato e desiderato non c’era più, ma anche che non avrebbe mai più potuto averne un’altra, che il suo sogno di creare una famiglia con l’uomo che amava era svanito per sempre in una tragica alba. Pensavo a Oliver…prima aveva perduto la figlia tanto desiderata, poi sua moglie…come era stata crudele la vita con lui… Mi sentii quasi in colpa per il risentimento che avevo covato nei suoi confronti quando mi ero resa conto che non mi amava…per averlo tradito con Carlos…per il bambino che aspettavo, per il fatto che probabilmente non era nemmeno figlio suo.

-Basta Oliver ti prego. Non dirmi altro-, implorai con voce flebile.

Per qualche lunghissimo istante non si sentì nulla, tranne i sospiri e i singhiozzi di mio marito. Poi lui si riscosse e mi prese il viso tra le mani, baciandomi dolcemente la fronte. –Scusami, tesoro. Non è una delle cose migliori da raccontare ad una donna nelle tue condizioni. Ma non volevo che fraintendessi la mia reazione. Oggi, con il ritrovamento del battello, una parte di me è morta per sempre…e questa notizia che mi hai dato…che tu giustamente speravi che avrei accolto con gioia…mi ha riportato alla mente ricordi così tristi e dolorosi che…ecco, perdonami. Ma non devi preoccuparti di nulla, Kathleen. Non è colpa tua. Anzi…forse è un bene che questo bambino si sia annunciato proprio in questo momento. Deve cominciare una nuova vita. Per me, per te e per questa creatura. Il passato è morto definitivamente…Patricia non tornerà mai più…dobbiamo, anzi devo, gettarmelo alle spalle una volta per tutte e ricominciare. Oggi è l’alba di un nuovo giorno, tesoro. Grazie al bambino che stiamo per avere, la gioia potrà tornare ad abitare in questa casa. Chissà… forse questo figlio è un dono che Patricia ci manda dal cielo-, disse, e sul suo volto apparve l’ombra di un pallido sorriso. Aprì le braccia per stringermi a sé ed io mi lasciai abbracciare, come una bambina fragile e impaurita.

Ma, mentre nascondevo il mio viso ancora rigato dalle lacrime sul petto di mio marito, non potei fare a meno di domandarmi se davvero sarebbe stato così. Se davvero questo bambino avrebbe segnato l’inizio di una nuova vita…

Il mio segreto mi pesava sul cuore come non mai. Oliver non aveva alcun dubbio, ma io sapevo che la creatura che mi cresceva dentro poteva anche non essere sua, come sapevo che prima o poi avrei dovuto parlare a Carlos della mia gravidanza…l’idea mi spaventava e non poco. Non riuscivo neppure a immaginare come avrebbe reagito. Tuttavia, cercai di dissimulare quello che provavo e mi finsi rasserenata davanti a mio marito. Quella notte Oliver volle dormire nella mia stanza e mi tenne abbracciata stretta, come non era mai accaduto dall’inizio del nostro matrimonio…io tenevo la testa appoggiata nell’incavo della sua spalla, ripensando con i brividi che mi percorrevano la pelle ai momenti di incandescente passione trascorsi con Carlos e desiderando ardentemente di avere lui al mio fianco, nel mio letto…avevo fame e sete dei suoi abbracci e dei suoi baci, ma poi pensavo a mio marito, al dolore tremendo che aveva vissuto e alla speranza che, forse, stava rinascendo nel suo cuore grazie a questo bambino…allora un senso di colpa lancinante si faceva strada dentro di me, soffocandomi con un nodo alla gola.

Dormii poco e male, quella notte, e il mio breve sonno fu agitato da immagini terribili che riguardavano Patricia…era come se il mio subconscio rivivesse ciò che Oliver mi aveva raccontato…mi svegliai con il cuore stretto in una morsa e un terribile presentimento di angoscia che gravava sul mio petto. Mio marito non era più accanto a me. Mi vestii svogliatamente, tormentata dai brutti pensieri e dalla nausea dovuta alla gravidanza. Avevo il viso pallido e tirato e gli occhi cerchiati da orribili segni neri. Mi truccai per restituirgli un po’ di colore e scesi dabbasso…Oliver mi aspettava in fondo alle scale, in compagnia di Tom Becker. Quest’ultimo mi sorrideva, eppure non potei fare a meno di notare che i suoi occhi non sorridevano per niente, anzi…mi sembravano quasi tristi. Eppure mi abbracciò con affetto sincero, mi baciò la mano e si congratulò per la bellissima notizia.

-Grazie Tom-, dissi…non so perché, ma faticavo a guardarlo negli occhi…qualcosa nell’espressione con cui mi fissava mi faceva sentire a disagio, anche se non avrei saputo dire che cosa, dato che il suo comportamento nei miei confronti era assolutamente impeccabile. Eppure non ci riuscivo.

-Ho invitato un po’ di amici per festeggiare-, disse Oliver, sorridendomi e prendendomi una mano con atteggiamento affettuoso.

Rimasi un attimo interdetta, ripensando al ritrovamento del battello avvenuto solo il giorno prima. –Non so Oliver…non mi sembra il caso…-, farfugliai, incapace di esprimere chiaramente il mio pensiero per paura di ferire mio marito.

Oliver parve comprendere i miei dubbi e si sforzò di sorridermi in modo rassicurante. Mi resi conto che stava facendo una gran fatica per apparire sereno, ma che doveva farlo, se veramente voleva gettarsi il passato alle spalle e trovare la voglia di ricominciare. Io, lui e il piccolo, come mi aveva detto la notte precedente prima di addormentarsi. –Tranquilla, tesoro. Nulla di ufficiale…sono solo persone che ci vogliono bene e che saranno contente per noi-, mi tranquillizzò.

Decisi di fidarmi ed entrai in sala da pranzo tenuta a braccetto da mio marito e da Tom, come due fedeli angeli custodi.

La mia serenità, però, andò immediatamente in frantumi quando, alzando gli occhi verso la tavola imbandita, incontrai lo sguardo gelido di Amy Ross che mi fissava…

Fine dodicesimo capitolo

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Capitolo 13
*** Capitolo tredicesimo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

CAPITOLO TREDICESIMO

Seduta accanto a suo marito, Amy Ross era pallida e rigida, gli occhi carichi di disprezzo. Notai che sembrava più vecchia rispetto all’ultima volta che l’avevo vista, come se il rancore che le riempiva l’animo avesse scavato dei solchi sul suo viso. Portava i capelli raccolti in un severo chignon e un abito scuro, quasi da lutto… con una stretta al cuore, pensai che anche lei doveva essere stata avvisata del ritrovamento del battello di sua sorella. Non potei fare a meno di domandarmi se invitarla a pranzo per darle la notizia del bambino non fosse, da parte di Oliver, una grossolana mancanza di tatto.

Poi vidi mio marito avvicinarsi a loro. Julian si alzò e gli strinse la mano sorridendo. –Oliver-, disse, -ti vedo in forma, mi fa piacere-.

Oliver si strinse nelle spalle. –Ho passato momenti migliori… per fortuna c’è Kathleen con me-, rispose, rivolgendomi uno sguardo affettuoso che mi sforzai di ricambiare con un sorriso.

Le labbra di Amy si contrassero impercettibilmente. Teneva lo sguardo basso, evitando ostentatamente di incrociare quello del cognato.

-Lo pensavo proprio stamattina, mentre venivamo qui. È una fortuna, in questo difficile frangente, che tu abbia accanto a te una ragazza splendida come tua moglie-, proseguì Julian, guardando di sottecchi la moglie.

-Più di quanto tu creda, Julian-, disse mio marito, invitandomi con un cenno ad avvicinarmi a lui. Appena gli fui accanto, mi cinse dolcemente la vita con un braccio. Sembrava sereno e soddisfatto come non mai… eppure, più lui era affettuoso con me, più io mi sentivo a disagio, fuori posto.

-Infatti sono curioso di sapere come mai stamattina ci hai invitato con tanta insistenza-.

-Anche io sono curiosa… sebbene, naturalmente, sia contenta di trovarti così allegro… malgrado tutto-, interloquì Amy all’improvviso, con una voce fredda e acuta che mi fece sobbalzare per un istante.

La donna alzò gli occhi, piantandoli in quelli di mio marito con aria di sfida. Oliver, però, rimase imperturbabile, anzi, sorrise tranquillamente alla cognata.

-Non nego che quello che è successo ieri mi abbia profondamente turbato. Tuttavia, cara Amy, la vita continua… come la mia dolce Kat mi ha ricordato proprio ieri sera-, le rispose.

-Oh, meno male allora che c’è la dolce Kat, a illuminare la tua e la nostra vita-, disse lei acida.

-Amy, non mi sembra il caso…-, intervenne Julian, posando una mano sulla spalla della moglie.

Lei non gli badò, anzi lo scostò bruscamente e si alzò in piedi, fissando me e Oliver con un’espressione improvvisamente battagliera, quasi furibonda. –Invece a me sembra proprio il caso, Julian. Credo che Oliver si sia dimenticato che io, purtroppo per lui, non sono solamente la moglie di suo cugino-, mentre diceva queste parole vidi che ai suoi occhi si erano affacciate delle lacrime, che la donna ricacciò orgogliosamente indietro.

-Non me ne sono dimenticato, Amy, non potrei mai. Ma non vedo perché ciò dovrebbe impedirti di essere felice per noi-, ribattè Oliver pacatamente.

Qualcosa nel volto di sua cognata tremò. –Non dovrebbe… ma non so se ce la faccio-, disse. Improvvisamente tutta la furia che la animava parve svanire e Amy si afflosciò come un fantoccio di pezza, immediatamente sorretta dalle braccia di suo marito.

Oliver allungò una mano per accarezzarle il volto pallido. –Anche io ho paura di non farcela, Amy… ma se passiamo la vita a crogiolarci nel dolore, non ce la faremo mai-.

Amy annuì e tornò a sedersi. –Bene. Allora proverò ad ascoltare le belle notizie che avete in serbo per noi-.

Oliver sorrise. Poi scostò una sedia e mi fece dolcemente cenno di accomodarmi. Senza guardare in volto né la signora Ross, né nessun altro dei commensali, mi sedetti e mio marito si sistemò a capotavola. Accanto a me si accomodò Tom Becker. Gli sorrisi grata, cercando di ignorare il fatto che Julian e Amy fossero proprio davanti a me.

Non appena ci fummo accomodati, in sala entrò un cameriere con il carrello della colazione. In quel momento stavo ascoltando Tom, che mi stava raccontando cose che ora nemmeno ricordo, ed ero distratta, così non notai subito chi fosse l’uomo che aveva appena fatto il suo ingresso nella stanza.

-Tu cosa desideri, mia cara?-, chiese Oliver. Udendo la voce di mio marito, mi voltai all’improvviso e il tovagliolo che avevo appena preso fra le mani mi scivolò a terra. Avevo appena incrociato gli inconfondibili occhi neri di Carlos.

Rimasi per un istante raggelata. Carlos reggeva in mano un vassoio colmo di pane tostato e bacon e mi osservava con sguardo interrogativo. Non sapevo cosa fare. Le mani mi tremavano, la mia voce non voleva saperne di articolare alcun suono ed ero consapevole dello sguardo indagatore di Amy Ross che si stava già soffermando su di me.

-Forse non avete fame, Kathleen?-, intervenne Tom in tono preoccupato; probabilmente, aveva pensato che la mia esitazione fosse dovuta ad un malessere.

Sospirai di sollievo, nuovamente grata a Tom. Era davvero il mio angelo custode, non so proprio cosa avrei fatto senza di lui. –Ecco, in verità sì… non ho fame. Penso che prenderò solo un po’ di spremuta-, mi affrettai a ribattere, tenendo gli occhi bassi in modo da non dover guardare in faccia Carlos.

Lui, tuttavia, fu molto più bravo di me a far finta di nulla. Si limitò ad annuire compostamente e a passare a servire Tom, il quale prese un’abbondante porzione di pane tostato e bacon, dicendo allegramente di avere molto appetito.

-Prego, prendete la vostra spremuta-, mi disse Amy, versandomela dalla caraffa. Apprezzai lo sforzo che stava facendo di essere gentile con me e la ringraziai con un sorriso.

-Carlos, portaci anche una bottiglia di champagne. La migliore che abbiamo-, disse mio marito quando Carlos ebbe finito di servire tutti gli ospiti. Lo vidi annuire e scomparire in direzione delle cucine. Mi accorsi che mi stava guardando di sottecchi, ma feci finta di nulla e abbassai velocemente lo sguardo.

Dentro di me era in tumulto… non avrei mai immaginato che sarebbe stato proprio Carlos a servire la colazione, quella mattina. Avevo proprio in mente di andarlo a cercare, una volta riuscita a sgattaiolare via da mio marito e dai nostri ospiti, e di raccontargli tutta la verità… Carlos aveva diritto di sapere del bambino, dopotutto, anche se Oliver era all’oscuro di tutto, non potevo negare a me stessa che c’era un’enorme possibilità che il figlio che portavo in grembo fosse suo.

Durante la notte avevo pensato e ripensato alla mia situazione ma era inutile, per quanto potessi arrovellarmi ero in un vicolo cieco, senza alcuna via d’uscita. Non potevo lasciare mio marito… non ora che c’era questo bambino. Solo Oliver avrebbe potuto garantire a questo figlio il futuro che meritava, il futuro a cui aveva diritto. Senza contare che sembrava che la notizia della mia gravidanza lo stesse aiutando a superare la dolorosa circostanza del ritrovamento del battello… Anche se non amavo Oliver, provavo una fortissima compassione per lui, soprattutto dopo quello che mi aveva raccontato. Era un uomo buono, che non si meritava tutto il dolore che aveva vissuto. Meritava un’esistenza migliore, più felice. Sposandolo, io mi ero assunta la responsabilità di dargli quest’esistenza più serena. Non avevo il diritto di spezzargli il cuore rivelandogli che ero stata una moglie infedele, che lo avevo tradito proprio sotto il suo stesso tetto con uno dei suoi domestici, che avevo capito di essere rimasta abbagliata, di non averlo in realtà mai amato e di voler andare via, a costruirmi una nuova vita lontana da lui, portando con me anche il bambino. Anche se una vocina continuava a sussurrarmi che non era giusto spezzare il mio, di cuore…continuava a gridarmi che io amavo Carlos e volevo essere libera di stare con lui e con nostro figlio… ma se mi fossi sbagliata? Se il bambino che aspettavo fosse stato di mio marito?

-Kathleen, state bene?-. La voce accorata di Tom mi riscosse dai miei pensieri tormentati. Mi voltai e lo vidi proteso verso di me con espressione sinceramente preoccupata. Mi si strinse il cuore. Tom era sempre così dolce con me ed io non ero una buona amica. Stavo ingannando tutti. Me stessa per prima.

Mi sforzai di sorridere. –Solo un po’ di malessere. Non vi preoccupate-, risposi sottovoce, cercando di non farmi sentire da Amy, che continuava a guardarmi insospettita.

In quel momento, Carlos tornò nella stanza con una bottiglia di ottimo champagne, accolto dall’applauso entusiasta di Julian.

-Addirittura il miglior champagne, Oliver… devi proprio avere una notizia eccezionale!-, esclamò, mentre mio marito si alzava in piedi e stappava la bottiglia, versando poi il contenuto nelle flute di tutti gli ospiti, compresa la mia.

Riempì anche un’altra flute che, sotto il mio sguardo agghiacciato, porse a Carlos, il quale era rimasto immobile accanto a lui.

-Sei con noi da tanti anni, Carlos, e desidero di cuore che tu possa brindare con noi alla magnifica notizia che ho ricevuto ieri sera da mia moglie-, spiegò, dandogli una bonaria pacca sulla spalla.

Mi sentii morire, mentre Carlos annuiva lentamente, cercando di incontrare il mio sguardo senza farsi vedere da mio marito. Abbassai immediatamente gli occhi e mi irrigidii sulla sedia, mentre Oliver si alzava in piedi ed invitava tutti a levare in alto i bicchieri.

-Quando ho sposato Kathleen, sapevo che avrebbe portato nuova gioia e vita in questa casa. Non mi sbagliavo. Amici miei, sono contento di annunciarvi che mia moglie aspetta un bambino e presto, in questa casa, vedremo sgambettare un piccolo Hutton!-, annunciò orgoglioso, guardandomi con occhi colmi di tenerezza.

Avrei voluto sprofondare almeno un metro sotto terra quando provai ad alzare lo sguardo e vidi il sorriso sincero di Julian e la smorfia che era apparsa sul volto di Amy. Tom accanto a me mi strinse forte la mano, rinnovandomi le sue felicitazioni. Mi alzai in piedi e accolsi il bacio di Julian, senza osare guardare né Amy né, tantomeno, Carlos.

Amy Ross era rimasta impietrita, come se fosse stata colpita da un fulmine. Le occorse qualche istante per recuperare la sua abituale freddezza e porgermi delicatamente una mano. –E’ certo una notizia inaspettata, ma…auguri Kathleen-, mi disse, con voce strozzata. Compresi che certo non potevo aspettarmi di più da lei…era la sorella di Patricia e il ricordo della tragedia che le era capitata era certo riemerso in lei come era successo ad Oliver.

-Grazie, Amy-, risposi, dandole una fugace carezza alla mano.

-E’ una notizia fantastica!-, esclamò invece Julian allegro. –I nostri bambini saranno felicissimi di avere un cuginetto!-, fece rivolto alla moglie, che si limitò ad abbozzare un sorriso di circostanza.

Mi voltai verso mio marito e mi trovai di fronte due profondi occhi scuri, solitamente caldi e appassionati, ma ora freddi come il ghiaccio. Avvertii un brivido lungo la schiena, mentre gli occhi di Carlos mi squadravano da capo a piedi e lui, con in mano la sua flute colma di champagne, si avvicinava lentamente a me. Per la prima volta da quando lo conoscevo, ebbi paura di lui. In realtà, furono pochi gli istanti che egli impiegò per avvicinarsi a me, ma sconvolta com’ero mi parvero delle ore. Le mie emozioni erano in tumulto e io non sapevo cosa aspettarmi. Avrebbe detto qualcosa, rivelando a tutti i presenti che, in realtà, non era muto come faceva credere da anni? Avrebbe parlato della nostra relazione clandestina? Avrei voluto implorarlo di non dire niente, ma ero paralizzata e non riuscivo nemmeno a muovere un muscolo.

Ma Carlos non fece nulla di tutto questo. Si limitò ad avvicinare il suo bicchiere al mio, facendoli tintinnare lievemente. Poi sollevò il calice lentamente, rivolto verso Oliver, e lo svuotò in una sola, lunga sorsata.

Mio marito rise sonoramente. –Ottima idea, Carlos! Brindiamo tutti a mia moglie e al bambino che nascerà!-, propose.

Mentre brindavamo tutti, cercai Carlos con lo sguardo, ma lui se n’era già andato.

Nonostante mi fosse sembrata eterna, la colazione in realtà durò non più di un paio d’ore. Alla fine, dopo una passeggiata in giardino, i Ross si accomiatarono e mio marito si rinchiuse nel suo ufficio insieme a Tom per parlare di questioni di lavoro. Io dissi di sentirmi stanca e andai in camera mia. In realtà, appena entrata, mi infilai la mia mantella e decisi di uscire, diretta alla spiaggia.

Volevo cercare Carlos. Avevo bisogno di parlare con lui. Dovevo parlargli.

Mai avrei voluto che venisse a sapere della mia gravidanza in quel modo. Volevo trovare l’occasione migliore per dirglielo e affrontare l’argomento con calma. Non riuscivo in alcun modo a immaginare quale potesse essere la sua reazione. Carlos era un uomo imprevedibile.

Una delle cose che più mi meravigliava della nostra relazione era il fatto che lo amassi così tanto, pur non sapendo quasi nulla di lui. Non sapevo chi fosse in realtà, da dove venisse, perché aveva deciso di non parlare. Era un uomo in gamba, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa nella vita… perché continuava a fare il cameriere a Villa Hutton?

Dentro di me, sentivo da sempre che nascondeva un segreto, un segreto inconfessabile. Eppure, non me ne importava nulla. Carlos, per me, era una febbre dalla quale non riuscivo a guarire e che mi consumava giorno dopo giorno… una febbre non solo dei sensi, ma dell’anima, una malattia che mi rendeva felice ma, nella felicità, mi divorava inesorabilmente. Qualunque fosse stata la sua reazione, qualunque fosse stato il suo segreto, sapevo solo una cosa: non avrei potuto più fare a meno di lui. La sua presenza così viva, così appassionata, era diventata fondamentale, per me, come l’aria che respiravo, come l’acqua che bevevo. L’ultima volta che ci eravamo visti da soli, aveva detto che credeva di essersi innamorato di me e avevo provato una gioia pura, sublime… era stato l’attimo più felice della mia vita e avrei dato qualsiasi cosa in cambio della certezza che la creatura che si stava formando nel mio ventre fosse figlia sua e mia, frutto di questo incredibile e inaspettato amore. Ma la mia gioia era destinata a rimanere un’effimera illusione…non c’era speranza per questo amore. Eppure, dentro di me, continuavo a sperare… sperare che Carlos mi proponesse di fuggire con lui, lontano da Villa Hutton, lontano da tutto e da tutti, solo noi e il bambino… sapevo che avrei spezzato il cuore a mio marito e questo mi distruggeva, da sola non sarei stata mai capace di farlo… ma era inutile che lo negassi a me stessa, sarebbe bastata una parola di Carlos ed io lo avrei seguito fino in capo al mondo. Anche a costo di perdere la mia anima.

Arrivai sulla spiaggia quasi tremando per l’emozione e un fremito mi scosse il cuore quando lo vidi sulla battigia, bellissimo, i riccioli scuri scompigliati dal vento, gli occhi fissi sull’orizzonte, all’inseguimento di chissà quali pensieri.

Stavo per volare tra le sue braccia… quando egli si voltò e la sua espressione mi gelò.

Non lo avevo mai visto con quello sguardo così duro. All’inizio pensai che fosse arrabbiato… ma mentre mi avvicinavo a lui lentamente, scrutandolo con attenzione, capii che non si trattava di quello… sembrava quasi… triste… sconfitto.

-Carlos-, sussurrai, quando fui di fronte a lui. Non riuscii a dire altro. Mi strinsi di più nella mantella che indossavo… il vento non era freddo, ma sentivo il gelo farsi strada nel mio cuore senza che riuscissi in alcun modo a fermarlo.

Mancava qualcosa. Lo sentivo con certezza. Il fuoco della passione che aveva alimentato ogni nostro incontro sembrava estinto. La voglia di stringersi, baciarsi freneticamente, appartenersi con il corpo e con l’anima non c’era. Sembrava svanita quella magia che ci aveva unito fin dal nostro primo incontro. Mi veniva da piangere. Avevo sentito quell’uomo nel mio corpo e nel mio sangue come se fosse un’altra parte di me…ero stata sua nell’anima, eravamo diventati un unico essere… portavo il suo bambino dentro di me… eppure ora mi era estraneo. Come se non fosse più lui…

-Ciao-, rispose lui, distogliendo lo sguardo da me e tornando a fissarlo sul mare.

Avrei voluto avvicinarmi, accarezzarlo, sfiorargli i riccioli bruni con le dita… ma rimanevo lì ferma, come immobilizzata. Rimanemmo in silenzio per un tempo indefinito. Alla fine fu lui a parlare per primo. –Cosa vuoi?-, mi chiese, con un tono di voce piatto e melanconico che mai avevo udito uscirgli dalla bocca.

Sospirai. –Non volevo che venissi a saperlo in questo modo-, mormorai.

Non ci stavamo guardando. Lui fissava il mare, io tenevo gli occhi bassi. La sensazione di gelo e di solitudine si faceva strada sempre di più dentro di me. Non era così che mi ero immaginata questo momento…eppure, a pensarci bene, non lo avevo immaginato affatto. La situazione in cui mi trovavo era così chiara nella mia mente che mi ero sempre trattenuta dal fare voli pindarici sulla felicità che desideravo vivere con Carlos. Felicità… in quell’istante ero ben lontana dall’essere felice. Ero con l’uomo che amavo, ma ero disperata.

Carlos emise un risolino sarcastico. –Bene. Almeno avevi intenzione di dirmelo-.

Raccolsi tutte le mie forze e tutto il mio coraggio e mi avvicinai a lui, posandogli una mano sul braccio robusto. Avrei voluto aggrapparmi alla sua camicia e stringerlo forte, implorarlo di baciarmi, accarezzarmi e rassicurarmi come se fossi stata una bambina piccola, ma non ce la facevo. Qualcosa era morto dentro di me. Sentivo un peso indefinibile gravarmi sul petto, anche se non sapevo dare un nome all’angoscia che mi scavava l’animo. –Non sapevo cosa fare, credimi. Non capisci quanto è difficile la mia situazione, ora?-, sussurrai.

Lui continuava a guardare ostentatamente verso l’orizzonte, evitando di incontrare i miei occhi. –Non mi sembra-, disse in tono duro, quasi sprezzante. –Tuo marito mi è sembrato felice della notizia-.

Sentii il mio cuore spezzarsi, non tanto per le sue parole, quanto per la noncuranza e la freddezza che avevo sentito nella sua voce, ma cercai di farmi forza e andare avanti. –E tu?-, domandai.

-Io cosa?-, ribattè lui sorpreso.

-Sei felice della notizia?-

Per la prima volta, Carlos si voltò verso di me e mi fissò dritto negli occhi. Trasse un lungo respiro prima di parlare e mi accarezzò una guancia con le lunghe dita. –Se rispondessi di sì, mentirei, Kathleen-, disse lentamente.

Strizzai gli occhi per ricacciare indietro le lacrime che già si erano affacciate. Non potevo ingannare me stessa. Non era questa la risposta che mi aspettavo da lui, tantomeno quella che desideravo.

-Potrebbe essere tuo-, mormorai, la voce incrinata dall’emozione.

-Lo so. Ma che sia mio o di Oliver, non cambia niente-, fu ciò che mi sentii dire in risposta.

Non riuscii più a fermare le lacrime, che cominciarono a scorrermi incontrollabilmente lungo le guance. –Come puoi dirmi questo? Hai…hai detto di amarmi-, quasi singhiozzai.

Lui mi rivolse un sorriso triste. –Ed è la verità, Kat, io ti amo. Ma questa notizia cambia tutto. Tutto, capisci?-.

Ero fuori di me. Non riuscivo a credere alle mie orecchie. L’unica cosa che mi consolava, in quel marasma che era diventata la mia vita, era il pensiero che forse il mio bambino era frutto di un amore sincero, vero, appassionato, e vedere lui sarebbe stato sentire che Carlos mi apparteneva davvero e per sempre. Perché lui non riusciva a sentire quel che provavo io? Perché non vedeva il figlio che aspettavo come la prova del nostro legame indissolubile?

Forse, mi dissi… questo legame non era poi così indissolubile…

Allontanai subito questo pensiero. –No, non capisco!-, gridai. –Capisco solo che questo bambino è nato dal nostro amore, lo so, lo sento! Sono sicura che è tuo figlio!-

Carlos mi mise un dito davanti alla bocca. –Zitta, qualcuno potrebbe sentirti-.

Mi divincolai bruscamente. –Non importa! Non mi importa più. La mia vita sta andando a rotoli. Mio marito, che io non amo, che forse non è nemmeno il padre di questo bambino, è felice di avere un figlio e vuole cominciare una nuova vita con noi. L’uomo che amo, il padre di mio figlio, dice che questo cambia tutto e che non gli importa nemmeno di chi sia questo bambino. Cosa devo capire ancora, sentiamo?-, riuscii a dire prima di scoppiare in singhiozzi disperati.

Carlos mi prese tra le sue braccia e mi tenne stretta a sé, mentre io versavo tutte le mie lacrime sul suo petto. Mi accarezzò i capelli per farmi tranquillizzare, come fossi stata una bimba piccola. –Non ho detto che non mi importa. Solo che cambia tutto-, disse a bassa voce, tenendo la bocca premuta contro il mio orecchio.

Lentamente mi tranquillizzai. Inspirai profondamente e mi scostai con dolcezza dall’abbraccio di Carlos. –Basterebbe una tua parola, una sola…io ti seguirei dappertutto-, sussurrai, aggrappandomi alla sua camicia.

Lui rimase in silenzio per un lungo istante, come a soppesare le parole che stava per dirmi. –E dove andremmo?-, mi domandò. Mi accorsi che la sua voce era nuovamente dura e distaccata.

Mi mordicchiai nervosamente il labbro inferiore. –Non so-, risposi tristemente.

Carlos scosse la testa. –Non ci sarebbe futuro lontano da qui. Pensa al bambino. Qui avrà tutto. Sarà l’unico figlio di Oliver Hutton, rispettato e onorato da tutti-. Il suo tono si fece improvvisamente aspro e mi sembrò quasi che un’ombra di rancore gli avesse attraversato il bel volto. –Se ce ne andiamo, sarà figlio di nessuno. Un reietto. Un vagabondo-. Il suo sguardo si perse nuovamente nel vuoto e compresi che in quel momento Carlos stava pensando a se stesso, al suo passato misterioso che io non conoscevo affatto. Sapevo solamente che Maggie Hutton lo aveva trovato mentre vagava senza meta sulla spiaggia. Era un bambino di soli dieci anni, solo e senza famiglia. Non aveva mai parlato con nessuno, non aveva mai raccontato nulla della sua infanzia. Io stessa non avevo mai osato chiedere, come se sapessi, nel profondo del cuore, che Carlos portava nel suo animo delle ferite ancora aperte, che forse mai si sarebbero rimarginate, e che lui cercava, col suo ostinato mutismo, di ricacciare indietro, come se in realtà non esistessero. Per la prima volta mi parve quasi di vederlo. Era come se davanti ai miei occhi, su quella stessa spiaggia, su quella stessa riva, fosse comparso un bambino scuro di carnagione, magro e lacero, forse affamato, che camminava a piedi scalzi sulla battigia. Provai una grandissima pena e non riuscii a rispondere.

-E’ questo il destino che desideri per tuo figlio?-, mi incalzò Carlos, sollevandomi il mento con due dita per incitarmi a guardarlo.

Scossi il capo. –No…ma…io sono cresciuta circondata dall’amore di un padre e di una madre. Questa è la cosa che desidero di più per mio figlio-, insistetti, guardandolo dritto in faccia.

Carlos contrasse nervosamente la mascella. –Un padre e una madre-, ripetè…non avevo mai sentito la sua voce così carica di astio, né avevo mai visto quell’espressione sul suo viso… sembrava quasi odio, odio allo stato puro. Ma fu solo un attimo, e lui parve tornare l’uomo di sempre. –Tu sarai un’ottima madre, Kat. Ne sono sicuro. Chi è cresciuto nell’amore è capace di donare amore agli altri senza riserve. Io non so se sarei un buon padre… non so se sarei migliore di Oliver. E non ho niente da offrire, né a te, né a nostro figlio-, sentenziò, in un tono che sembrava quasi non ammettere repliche.

Lo guardai disperata. –Non è vero che non sai dare amore, Carlos. Io ho sempre sentito il tuo amore e lo sento tantissimo, ancora. A noi basterebbe-.

-No, Kathleen, no. Per te e il bambino è molto meglio restare qua con Oliver, fidati. Lui vi darà la vita che meritate. E io sarò qui con voi-, replicò.

-Ma dovremo vivere tutta la vita in clandestinità! Non voglio!-, gridai, aggrappandomi alle spalle di Carlos e scrollandolo con tutta la forza che avevo.

Ma lui mi trattenne con molta fermezza. –Io non me ne andrò mai da qui, Kat. Nemmeno se tu mi implori di farlo. Nemmeno per il bambino-, disse in tono definitivo, fissandomi con durezza.

Mi mancò il respiro per qualche istante. Mollai la presa e indietreggiai di qualche passo, barcollando. Guardavo Carlos come se stentassi a riconoscerlo, ed in effetti era così. Quello non era l’uomo che amavo. Era un’altra persona e quasi mi faceva paura.

-Perché?-, fu l’unica cosa che riuscii a sussurrare, con voce tremante.

Ci fu un lungo istante di silenzio, prima che lui rispondesse. –Ho messo in gioco tutta la mia vita per vivere qui a Villa Hutton. Non esiste nulla di più importante, per me-.

Lo fissai a occhi sgranati, sbalordita. –Io non ti capisco… cosa significa che hai messo in gioco tutta la tua vita?-, domandai incredula. Allora non era un caso se Maggie Hutton lo aveva trovato sulla spiaggia? Non riuscivo più a capire, mi sembrava di sprofondare in un baratro. Perché Carlos riteneva così importante restare in questa casa? Cosa nascondeva? Chi era?

Avevo sempre saputo che Carlos nascondeva qualcosa, sicuramente aveva alle spalle un passato tormentato, ma mai l’avevo visto sotto questa luce inquietante. Mi allontanai da lui.

-Sono cose che non capiresti, Kathleen-, tagliò corto lui.

-Mettimi alla prova!-, lo implorai, mantenendo sempre una certa distanza. Era assurdo che provassi soggezione nei suoi confronti, che avessi paura di toccarlo, ma era così che mi sentivo. Sconcertata e spaventata.

Lui scosse il capo con determinazione. –No. Se sapessi la mia vera storia… non vivresti più in pace, Kathleen, credimi. Non posso caricarti di un peso così grande-.

Respiravo sempre più a fatica e sentivo che cominciava a girarmi la testa. Mi sentivo soffocare. Provai a inspirare profondamente ma era inutile, il senso di soffocamento che provavo non faceva che crescere. Dovevo allontanarmi da lì. Volevo tornare a casa, nelle mura confortevoli della mia stanza…avevo voglia di piangere, di gridare, ma non osavo farlo davanti a lui… temevo che Carlos mi avrebbe di nuovo toccata per consolarmi e l’idea, incredibilmente, mi suscitava paura…quasi repulsione. Non riuscivo più a riconoscere nell’uomo freddo che mi stava davanti colui del quale mi ero innamorata, che mi aveva fatto scoprire l’intensitò vibrante della passione. Tremando come una foglia da capo a piedi, voltai le spalle a Carlos e comincia a correre in direzione della Villa. Lui rimase immobile, senza seguirmi né richiamarmi, i capelli scuri scompigliati dal vento, l’espressione indecifrabile.

Il tragitto fino a Villa Hutton mi sembrò interminabile e il senso di oppressione che mi gravava sul torace non accennava a passare. Cominciai a sentire anche delle fitte all’addome… all’inizio impercettibili, poi sempre più forti. Fui costretta a rallentare il mio passo. La vista mi si stava offuscando, ormai procedevo a tentoni. Le orecchie mi ronzavano, il cuore batteva impazzito.

Sul portone di casa, sentii il mio corpo urtare qualcosa di solido. Le gambe cedettero, e sarei certo caduta a terra se qualcuno non mi avesse sorretta.

Incredibilmente, per la prima volta in quella terribile giornata, mi sentii al sicuro. Provai un senso di pace e di conforto, come quando, da bambina, dopo un brutto sogno, mi rifugiavo tra le braccia fprti e protettive di mio padre.

Alzai lo sguardo e incontrai gli occhi dolci di Tom che mi fissavano preoccupati.

Senza sapere perché, scoppiai in lacrime.

Altrettanto inspiegabilmente, anziché aiutarmi a rimettermi in piedi, Tom si inginocchiò tenendomi sempre tra le braccia e mi strinse forte a sé. Che senso di protezione mi diede il contatto con il suo torace muscoloso! Del tutto dimentica di me stessa, seguendo un impulso irrefrenabile, mi accoccolai contro il suo petto e diedi sfogo al mio pianto.

Tom mi cullò dolcemente come fossi stata una bambina, sussurrandomi all’orecchio parole rassicuranti. Inspirai il suo piacevole odore cercando di riprendermi e il mio cuore rallentò di un poco i suoi battiti.

Ma non ci misi molto tempo a rendermi conto che qualcosa non andava.

Le fitte all’addome si fecero più forti, tanto che mi morsi un labbro e sussultai, colta da un dolore improvviso e lancinante. Tom se ne accorse e mi scostò lievemente da sé per guardarmi in viso. Sentivo la fronte imperlata di sudore. Le orecchie ronzavano incessantemente. I suoni mi sembravano sempre più ovattati. Mi accorsi che il viso di Tom, a pochi centimetri dal mio, mi appariva innaturalmente sfocato.

-Kat… vi sentite bene?-, mi domandò ansiosamente lui.

La sua voce parve provenire da chilometri e chilometri di distanza.

-No…-, singultai, con quel poco fiato che riuscii ad emettere. Non riuscivo a respirare. Avrei voluto gridare per il dolore che mi sconquassava la pancia, ma non riuscivo. L’unica cosa che fui in grado di fare fu stringere forte la mano di Tom.

Poi, il buio.

Fine tredicesimo capitolo

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordicesimo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

 

La prima cosa che notai, quando aprii gli occhi, furono le pareti bianchissime e i quadri appesi ad esse. Sbattei le palpebre più volte, poiché non riuscivo a riconoscere quell’ambiente come familiare. La luce era abbacinante ed istintivamente richiusi gli occhi e tesi le orecchie, cercando di comprendere dove mi trovavo. Sentivo dei mormorii accanto a me…sembravano delle voci profonde, maschili, ma non riuscii a distinguere, tra esse, la voce calda e avvolgente di mio padre. Avrei voluto chiamarlo, o cercare di mia madre, ma poi un pensiero mi colpì come un fulmine… loro non c’erano più, se n’erano andati e io ero rimasta sola. Ricordai il giorno dell’incidente, il poliziotto che era venuto a suonarmi alla porta di casa, io che andavo ad aprire tutta allegra, con uno strofinaccio in mano, pensando che fossero i miei genitori, ai quali stavo preparando una bella cenetta… ricordai il tono contrito della sua voce, lo strofinaccio che mi cadeva dalle mani, l’incredulità, il dolore… il giorno del funerale….la pioggia che cadeva, le tante persone che avevano amato mio padre che mi stringevano la mano, le parole che avevo pronunciato con la voce rotta dal pianto prima di gettare una rosa rossa sulla fossa che conteneva i loro corpi… rividi con gli occhi della mente la mia casa nel West, ormai vuota e solitaria…

“Non sono a casa mia”, pensai con un moto di orrore… continuavo a sentire le voci attorno a me, ma non riuscivo a distinguere le parole e non mi ricordavo nulla di quello che era successo dopo la morte dei miei genitori…chiusi gli occhi e mi sforzai di ricordare…ecco, ora mi trovavo in un elegante albergo in Normandia con la zia Audrey, eravamo andate a giocare a tennis insieme perché Elizabeth era ammalata e la zia si annoiava… e c’era un uomo…un uomo che mi aveva colpita al primo sguardo…un uomo che avevo amato…

Una serie di immagini confuse si accavallarono nella mia testa…il matrimonio con Oliver, l’arrivo a Villa Hutton, lo sguardo gelido della signora Martin, l’odio negli occhi di Amy Ross….la scenata di Maggie che mi aveva cacciato dicendo che rivoleva la sua Patricia…l’umiliazione della serata della festa…Carlos, i suoi baci, la passione che ci aveva unito…il capitano Harper che ci informava del ritrovamento del battello…lo svenimento, il dottore, la notizia del bambino…il pranzo in cui Oliver aveva dato l’annuncio…e poi Carlos, che mi diceva che dovevo restare con Oliver e fare finta che il bambino fosse suo, la fine dei sogni e delle illusioni…il viso dolce e preoccupato di Tom che mi sorreggeva tra le sue braccia…il buio…

Quando riaprii gli occhi per la seconda volta, sapevo dove mi trovavo. Ero a Villa Hutton, nella mia stanza. Nella luce accecante che proveniva dalla finestra, vidi un uomo dai capelli scuri chino su di me…il viso pallido, la fronte aggrottata, gli occhi colmi di preoccupazione, con una mano mi accarezzava la fronte mentre mi sussurrava delle parole che io non riuscivo a comprendere. Pensai che fosse mio marito e istintivamente gli strinsi la mano, affinché si accorgesse che ero tornata cosciente.

“Ecco, si sta svegliando”, mormorò una voce maschile con evidente sollievo.

Strano, non mi sembrava la voce di Oliver…strizzai le palpebre cercando di far abituare gli occhi alla luce e quando riuscii finalmente a focalizzare il volto che avevo di fronte a me, mi accorsi con stupore che si trattava di Tom Becker. Arrossii e ritirai la mano.

Anche Tom mi parve piuttosto imbarazzato e scostò le dita dalla mia fronte, continuando però a fissarmi con un’espressione indecifrabile, un misto di dolcezza, pena e qualcos’altro che non riuscivo bene a identificare, ma che mi faceva battere il cuore più forte.

“Tom”, mormorai a fatica, sentendomi la bocca completamente secca, “cos’è successo?”

Lo vidi prendere un profondo respiro e la sua mano tornò a stringere la mia. “Vi siete sentita male, Kathleen…non ricordate?”

“Vagamente”, risposi, cercando di costringermi a rievocare con maggior chiarezza quello che era successo prima che mi afflosciassi tra le braccia di Tom. Con una fitta al cuore, ricordai la mia conversazione con Carlos sulla spiaggia, il modo in cui lui aveva respinto me e il mio bambino, la sua frase che continuava a riecheggiarmi, sinistra, “io ho messo in gioco tutta la mia vita per vivere a Villa Hutton” e il suo rifiuto di raccontarmi la sua vera storia. Ricordai la corsa che avevo fatto per tornare a casa, con la testa che mi girava e delle fitte terribili all’addome… e di come Tom mi era sembrato un rifugio sicuro, l’unica persona che potesse proteggermi.

Cercai di sollevarmi a sedere, ma la testa continuava a girarmi e mi sentivo debolissima. Il dolore all’addome era passato, anche se continuavo a sentire qualche leggerissima fitta al basso ventre.

“Non muovetevi, Kat, il dottore vi ha prescritto riposo assoluto per almeno una settimana”, mi spiegò dolcemente Tom, aiutandomi a stendermi nuovamente sui cuscini.

“E’ venuto il dottore? E cosa ha detto? Che mi è successo?”, domandai, cominciando ad avvertire un vago senso di allarme. Mentre correvo verso la villa, ero talmente sconvolta da quel che era successo con Carlos da non aver pensato affatto al mio bambino…e adesso mi chiedevo se il dolore terribile che avevo sentito alla pancia non lo avesse messo in qualche modo in pericolo…ripensai al racconto di Oliver, al dramma di Patricia, e mi sembrò di precipitare nel terrore.

Vidi che Tom si scuriva in volto. Mi prese una mano e mi guardò con espressione grave. “Kat… non avrei mai voluto che toccasse a me questo compito…ma Oliver è sconvolto e non sarebbe stato in grado…perdonatelo se non è qui con voi, ma… verrà presto, appena si sarà un po’ ripreso…gli ho detto io stesso che non era il caso che voi lo vedeste in quelle condizioni…”, la sua voce si ruppe per un attimo e sentii le sue dita che serravano le mie con più forza.

“Ditemelo, Tom, vi prego…cos’è successo al mio bambino?”, lo implorai, ben sapendo che c’era una sola notizia che poteva aver sconvolto mio marito in quel modo.

“Ecco, Kathleen…voi non dovete pensare che sia colpa vostra, il medico ha detto che purtroppo è una cosa che succede spesso alla prima gravidanza…e poi con lo stress che avete vissuto in questi giorni, il ritrovamento del battello e tutto il resto…voi siete giovanissima e potrete avere tutti i figli che vorrete…però…purtroppo…”

“Ho perso il bambino, vero?”, lo interruppi, ormai certa di cosa egli stesse faticosamente cercando di dirmi.

Tom annuì e vidi che i suoi occhi si erano riempiti di lacrime. “Mi spiace”, sussurrò con dolcezza.

Non riesco a descrivere che cosa provai in quel momento. Per il primo istante mi sembrò quasi di non provare niente, come se mi trovassi ancora nella bolla irreale in cui mi ero risvegliata…mi portai una mano al ventre, come per accertarmi che veramente il mio bambino non ci fosse più, ma mio figlio era ancora talmente piccolo che non avevo mai avuto modo di avvertire concretamente la sua presenza dentro di me…pian piano, mentre le parole di Tom facevano breccia nel mio cuore e scavavano in esso un vuoto profondo e terribile, mi ritrovai a pensare a come doveva essersi sentita Patricia, che aveva già cullato il suo bambino nel ventre per così tanti mesi…mi immaginai Oliver da solo nel suo studio, inseguito dai fantasmi, distrutto dai sensi di colpa…vidi il volto di Tom rigato dalle lacrime e fui sicura che, per tutto il tempo in cui ero rimasta priva di sensi, egli fosse rimasto accanto a me, cercando nel frattempo di aiutare mio marito…pensai a tutti i sogni che avevo nutrito per quel bambino, alla vita felice che avevo immaginato con Carlos e che era svanita per sempre in una nuvola di fumo…

Fui travolta da tutto questo mare di sensazioni e mi gettai tra le braccia di Tom scossa dai singhiozzi.

 

Piansi a lungo, mentre Tom piangeva insieme a me e mi accarezzava dolcemente i capelli e la schiena. Solo quando sentii di non avere più lacrime riuscii a scostarmi e a guardarlo negli occhi: i suoi erano ancora gonfi e arrossati dal pianto e mi immaginai che aspetto orribile dovessi avere io.

“Perdonatemi Tom…ormai siete diventato la mia spalla su cui piangere”, dissi, provando un enorme affetto per quell’uomo che mi era sempre stato accanto, come una presenza discreta, quasi invisibile, su cui però si può sempre contare.

“Figuratevi…se solo potessi fare qualcosa per togliervi tutto il dolore…come vorrei poter soffrire io al vostro posto…”, mi sussurrò, con un tono di voce che non gli avevo mai sentito prima e che, non so perché, mi suscitò un certo turbamento.

Tom sembrò accorgersene, perché si scostò da me, dopo avermi lasciato un’ultima fugace carezza sui capelli. “Comunque…so che non può consolarvi, ma il medico dice che potrete avere sicuramente altri figli in futuro…siete così giovane…basterà un periodo di riposo e poi potrete tentare di avere un altro bambino…la situazione è diversa da quella…”, si interruppe bruscamente, forse temendo di aver toccato un tasto dolente.

Annuii, incapace di nominare Patricia e la sua tragedia proprio in quel momento. “Lo so…e questo bambino non era stato certo preventivato…è successo tutto all’improvviso…solo che…io ho tanta confusione in testa in questo momento”, chinai il capo e ricominciai a piangere.

Tom mi riaccolse subito tra le braccia, cullandomi come una bambina. “Lo immagino…ma dovete essere forte…è stato un momento difficile per tutti noi…ma passerà…passerà tutto…voi e Oliver sarete felici, ve lo meritate e sarà così, deve esserlo”, mormorò, ed ebbi quasi l’impressione che stesse parlando più per convincere se stesso che per convincere me.

Sospirai. “Dov’è Oliver? Come sta?”, domandai, chiedendomi cosa dovesse essere, per mio marito, rivivere di nuovo il dramma che già una volta gli aveva sconvolto la vita…sembrava così contento di quel bambino, così speranzoso che la gioia finalmente si riaffacciasse in questa casa…ed ecco che la vita troncava nuovamente le sue illusioni sul nascere.

Anche Tom sospirò. “Credo sia nel suo studio. È stato accanto a voi tutta la notte, sapete…quando ancora speravamo che la situazione si risolvesse…ma quando il medico ha detto…ecco ha avuto una crisi di nervi, ho temuto veramente che perdesse la ragione…era distrutto…e io gli ho detto che doveva calmarsi, che voi non potevate vederlo così…gli ho promesso che sarei rimasto accanto a voi e ho chiamato Julian perché venisse a fargli compagnia…”, mi spiegò.

“Vorrei vederlo…”, sussurrai.

Tom annuì. “Vado a cercarlo. Non so però se si sente pronto…sapete, per lui è….è….”, non riusciva a trovare le parole e io mi sentii tremendamente dispiaciuta per mio marito. Non lo amavo, d’accordo, ma nonostante tutto non riuscivo nemmeno ad odiarlo e sapevo che non si meritava tutte le tragedie che aveva dovuto affrontare nella sua vita.

“Siete sicura che ve la sentite di rimanere sola?”, mi chiese Tom, prima di lasciare la mia stanza per andare a vedere come stava Oliver.

Io annuii. “Sto bene, Tom, non preoccupatevi. Credo che Oliver in questo momento sia quello che ha più bisogno di voi”.

Tom apparve restio a lasciare la mia mano, ma si rassegnò. “D’accordo…volete che vi mandi qualcuno?”, mi chiese premuroso.

Sorrisi amaramente. Proprio non avrei saputo chi desiderare al mio fianco, a parte lui o mio marito. Carlos mi aveva respinto nel più brusco dei modi, e forse adesso era contento che il bambino non ci fosse più…forse ora avrebbe desiderato che tutto tornasse come prima…ma ero io che sentivo che qualcosa era cambiato dentro di me. L’incantesimo si era spezzato, la bella favoletta era finita…non che avessi smesso di amarlo improvvisamente, purtroppo l’amore non è un interruttore che puoi accendere o spegnere, ma la disillusione era stata così forte che sentivo che tra me e lui, ormai, si era aperto come un baratro, che nulla avrebbe potuto colmare. Inoltre, mi sentivo terribilmente in colpa verso mio marito, che in quel momento stava soffrendo per un bambino che probabilmente non era neppure figlio suo, mentre il suo vero padre se ne disinteressava. Pensai a mio padre, a cosa avrebbe detto di tutta questa situazione, e mi convinsi che la perdita di mio figlio fosse stata la giusta punizione per tutti gli sbagli che avevo commesso. Mi ero lasciata trascinare dalla passione e avevo affidato la mia vita a un uomo che non lo meritava, dimenticando tutti i principi con i quali ero stata cresciuta, lasciandomi probabilmente usare da qualcuno il cui unico scopo era restare a Villa Hutton, chissà poi per quale motivo e con quale scopo.

Per un attimo mi domandai se avrei dovuto rivelare a mio marito che il bel Santana non era affatto muto, ma poi avrei dovuto parlargli anche della nostra relazione clandestina e, sinceramente non ne avevo il coraggio; non solo perché avrei inflitto un altro dispiacere a Oliver, ma anche perché avevo paura che lui mi cacciasse via, e non avrei saputo cosa fare della mia vita.

Mentre Tom usciva dalla mia stanza, mi trovai ad interrogarmi ansiosamente sul mio futuro. Cosa dovevo fare adesso? Cosa mi avrebbero consigliato i miei genitori? Ero sposata con un uomo che non amavo e che mi aveva delusa, ma che comunque era una brava persona, era buono, gentile e forse mi era sembrato freddo nei miei confronti solo perché aveva tanto sofferto e tanto continuava a soffrire…d’accordo, era chiaro che non avrei mai potuto prendere il posto di Patricia…ma avevo vissuto sulla mia pelle la passione e scoperto qual era lo scotto da pagare, e la delusione era stata così atroce che, se ci pensavo, mi sentivo ancora spaccare il cuore in due. Forse Oliver non mi avrebbe amata in modo travolgente, ma non mi avrebbe fatto mancare nulla…avrei potuto avere una vita serena, lasciare che il tempo ricucisse alla meglio le nostre ferite e cercare di costruire un briciolo di felicità…avrei potuto dare a mio marito dei figli e vedere finalmente la gioia illuminare il suo volto…avrei potuto crescerli e regalare a loro tutto l’amore inespresso che mi portavo dentro.

Era la cosa giusta? Una parte di me, lo sapevo bene anche se cercavo in ogni modo di reprimerla, desiderava ancora Carlos…ma lui era stato molto chiaro: mai avrebbe lasciato Villa Hutton. Non c’era alcuna possibilità che noi ce ne andassimo da lì per costruire una nuova vita insieme, bambino o non bambino. L’unica cosa che lui avrebbe potuto darmi era una relazione clandestina…attimi di amore rubati, nei momenti in cui mio marito non c’era, incontri di passione sulla spiaggia o nella mia camera, sempre con il timore di essere scoperti. Era davvero questo che volevo? Era questo il destino che i miei genitori avrebbero desiderato per me?

Io volevo l’amore, questo era certo…un uomo che mi amasse con lo stesso ardore e la stessa tenerezza con cui mio padre aveva sempre amato mia madre…ma ormai ne ero sicura, questo per me sarebbe rimasto un desiderio irrealizzabile. Nella mia vita avevo amato due uomini. Uno, Oliver, poteva darmi solo un tiepido affetto, una banale tranquillità quotidiana; l’altro, Carlos, poteva darmi solo una passione tanto torrida quanto clandestina. Era tra questo che dovevo scegliere, un’altra alternativa purtroppo non esisteva.

La mia scelta non poteva essere che una: non avrei più permesso a Carlos di farmi del male, di usarmi…che restasse pure a Villa Hutton e facesse quello che voleva…io avrei fatto di tutto per estirparmelo dalla mente e dal cuore una volta per tutte.

Dovevo accontentarmi di quello che poteva darmi mio marito; non lo amavo ma gli volevo bene e questo sarebbe bastato.

 

 

Rimasi da sola per quasi tutto il giorno. Immaginai che Oliver avesse dato precise istruzioni affinché nessuna persona sgradita, come ad esempio la signora Martin, si affacciasse alla porta della mia stanza.  Solo Lavinia, la mia cameriera personale, apparve di quando in quando ad accertarsi di come stavo, ma la congedai dicendole che non avevo bisogno di nulla e preferivo rimanere sola.

Verso sera venne il dottore. Mi visitò e mi disse che era molto dispiaciuto per ciò che mi era successo, ma che non dovevo sentirmi in colpa, perché era una cosa molto frequente ed io non avrei potuto evitarla in nessun modo. Mi rassicurò anche sul fatto che, dopo qualche mese di riposo e di attenzione, avrei potuto avere tutti i figli che volevo.

Il dottore era uscito da poco, quando sentii bussare alla porta della mia stanza. Pensavo che fosse Tom, invece vidi entrare Oliver, pallidissimo e con il volto tirato. Mi parve invecchiato di dieci anni in un solo giorno.

Si sedette accanto al mio letto e mi prese una mano, portandosela alle labbra con dolcezza. “E’ tutta colpa mia”, mormorò affranto.

Mi sollevai di scatto. “Non devi dire così, Oliver! Ma quale colpa tua? Hai sentito il medico, non è colpa di nessuno!”, mi affannai a rassicurarlo, sentendomi stringere il cuore dalla pena.

Lui scosse la testa. “Hai subito troppo stress in questi giorni…il battello, darmi la notizia…la storia del bambino di Patricia…dovevo stare più attento, dovevo pensare che nelle tue condizioni avevi bisogno di startene tranquilla…perdonami, ti prego”, chinò la testa e cominciò a piangere con leggeri singhiozzi.

Istintivamente lo abbracciai e lo cullai stretto al mio seno, come se fosse stato il bambino che avevamo perso. “Oliver, non è colpa di nessuno…lo ha detto anche il medico…è frequente alla prima gravidanza…ascoltami Oliver…”, gli sollevai il mento con due dita e lo incitai a guardarmi negli occhi. “Io so che per te è come rivivere un dramma…ma è tutto diverso…io non…io potrò avere altri figli, Oliver…potremo avere tutti i bambini che vogliamo”.

Mai come in quel momento, mentre gli asciugavo le lacrime con il dorso della mano, mi sentii legata a mio marito e avvertii il desiderio di dargli veramente un figlio, per lenire questo suo dolore. Un figlio che, stavolta, sarebbe stato sicuramente suo e soltanto suo, senza possibilità di dubbio.

Oliver sospirò. “Hai ragione…e mi dispiace per non essere stato io a dirtelo…ma…quando il medico mi ha detto che non c’era più nulla da fare…mi è sembrato di ritornare indietro nel tempo, di rivivere quell’alba maledetta in cui mi dissero che Madeleine era morta e che Patricia non avrebbe più potuto avere bambini…”, un’ombra attraversò il suo volto e per un attimo mi sembrò che stesse per piangere di nuovo, ma respirò profondamente e tacque finché non riprese un certo controllo delle proprie emozioni.

“Non è andata così stavolta, Oliver….potremo avere altri figli, il medico ne è sicuro, basterà soltanto attendere qualche mese”, gli ripetei.

Oliver mi baciò nuovamente la mano, poi mi accarezzò i capelli. “Io ho sbagliato tutto con te, Kathleen. Non ho saputo darti l’amore che meritavi. Sono rimasto troppo legato al mio dolore, ai miei fantasmi, e questo non è giusto. Se ora tu volessi lasciarmi, io capirei”, mi disse, lasciandomi completamente spiazzata.

Scossi il capo. “Anche io ho commesso degli errori, Oliver. Entrambi abbiamo sbagliato e forse il nostro matrimonio non è partito con il piede giusto. Ma non voglio lasciarti. Io sono ancora certa che tra noi le cose possano funzionare, che possiamo essere felici. Dobbiamo solo ricominciare da capo. Cercare di lasciarci le cose brutte alle spalle e guardare al futuro in modo positivo”.

Mio marito annuì. “E’ quello che voglio, Kathleen. Non posso dirti che dimenticherò Patricia, non posso promettertelo, perché so che non potrei farlo. Lei è stata una parte importantissima della mia vita e resterà nel mio cuore per sempre. Ma lei è il passato, tu invece sei il futuro. L’ho capito quando mi hai dato la notizia del bambino, e anche se adesso nostro figlio non c’è più, io desidero che sia questo il mio futuro. Io, te e i figli che verranno. Sei l’unica donna che possa davvero aiutarmi a ricominciare a vivere…l’ho capito quel giorno che ti ho vista in Normandia e lo sento ancora di più adesso. Forse non sono stato bravo a dimostrartelo, ma io ti amo davvero, Kat, e voglio ricominciare tutto da capo. Dal principio. Dal nostro matrimonio”.

“Non capisco”, mormorai, presa alla sprovvista.

Il viso di Oliver parve illuminarsi all’improvviso. “Sono stato un grande egoista con te. Ti ho privato della gioia del matrimonio, di una vera cerimonia, dell’abito da sposa. Tu la meriti questa gioia e io ho sbagliato a negartela. Sposiamoci di nuovo, Kat. Non in segreto come l’altra volta…davanti a tutti, in questo paese, in chiesa. Celebriamo un matrimonio in grande stile e poi facciamo un grande ricevimento qui in casa. Diamo inizio alla nostra nuova vita insieme!”

Rimasi sconcertata per un istante. Io non sentivo il bisogno di tutto questo…in parte perché mi chiedevo cosa avrebbero pensato in paese, considerando il recente ritrovamento del battello di Patricia…in parte perché avrebbe stonato con il mio stato d’animo incerto e confuso. Ma mio marito sembrava così speranzoso, così desideroso di dare inizio alla nostra nuova vita con un gesto reale e tangibile, e io non me la sentivo di deluderlo.

“Sei sicuro che è questo che vuoi? Se lo fai per me, io non ho bisogno di un matrimonio in grande…io ho bisogno solo che tu mi stia vicino”, dissi con dolcezza.

Oliver scosse il capo. “Sono io che ne ho bisogno, Kat. Io ho bisogno di vedere, di sentire che stiamo ricominciando da capo, che per noi comincia una nuova vita. Io ho bisogno che tu diventi mia moglie in chiesa, davanti a tutti. Ho bisogno di vederti con l’abito bianco e di metterti la fede al dito sapendo che, stavolta, è davvero un inizio nuovo, è davvero l’inizio del nostro futuro. Fallo per me, Kat, per favore. Diventa mia moglie. Di nuovo”, insistette.

Ci pensai per un attimo, poi gli rivolsi un sorriso. “D’accordo, Oliver. Se è questo che desideri, facciamolo. Diamo inizio al nostro nuovo futuro insieme con il nostro matrimonio”, accettai.

“Perfetto”, disse mio marito soddisfatto. “Allora direi che un mese possa bastarci per i preparativi. Che ne dici del 14? Tra un mese esatto!”

Annuii. “D’accordo. Tra un mese”.

Un mese di preparativi…e poi io e Oliver avremmo cominciato la nostra nuova vita insieme.

Carlos sarebbe scomparso per sempre dal mio cuore e dalla mia testa…e Patricia sarebbe diventata finalmente solo un ricordo…importante, certo, fondamentale, ma un ricordo…qualcosa che era stato un tempo ma ora non era più…stavolta volevo crederci con tutte le mie forze….volevo……

 

Fine quattordicesimo capitolo

 

Nota dell’autore: Mi rendo conto che ormai scrivo con il contagocce e vorrei ringraziare di cuore tutti coloro che continuano a seguire la mia storia. Gli impegni sono tanti e l’ispirazione va e viene, ma quando miracolosamente c’è cerco di mettermi a scrivere di getto, approfittando di ogni momento libero…questo capitolo è nato in poco più di un’ora…non è il massimo probabilmente, ma è un capitolo diciamo di transizione, perché sul finale del prossimo capitolo ho in mente un grosso colpo di scena…e farò di tutto per darvi questo capitolo il prima possibile!

Intanto, un caro saluto a tutti!

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Capitolo 15
*** Capitolo quindicesimo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO QUINDICESIMO

 

Il mese successivo fu contraddistinto dai preparativi per la cerimonia con cui Oliver desiderava sancire l’inizio della nostra nuova vita insieme.

Il mio stato d’animo non era ancora dei migliori: fisicamente mi ero ripresa alla grande dalla perdita del bambino, tanto che, dopo una settimana, il medico aveva detto che potevo alzarmi dal letto e tornare alle mie attività quotidiane, anche se con una certa cautela. Psicologicamente, alternavo momenti in cui mi sentivo abbastanza serena, ad altri in cui mi assaliva uno spaventoso senso di vuoto e il futuro mi sembrava ancora oscuro e minaccioso. Vedevo che anche Oliver alternava momenti di tranquillità ad altri in cui si chiudeva nel suo studio e non desiderava vedere nessuno; io rispettavo la sua volontà, anche se una parte di me non poteva impedirsi di pensare che forse, se ci fossimo sorretti a vicenda come una coppia dovrebbe fare, i nostri momenti bui sarebbero scivolati via più in fretta. Ma sapevo che entrambi eravamo convalescenti dai rispettivi dolori e sensi di vuoto e che avevamo bisogno di quiete e silenzio per leccarci le ferite e ricominciare davvero a vivere. Oliver doveva ancora combattere con il fantasma di Patricia; io, dal canto mio, avevo trascorso giorni e settimane ad evitare Carlos, uscendo precipitosamente da una stanza se lui vi entrava, evitando di recarmi sulla spiaggia e facendomi sempre accompagnare da Lavinia se volevo uscire a fare una passeggiata.

La mia unica compagnia, a parte Oliver, era stato Tom: ma, sebbene fosse sempre presente e io notassi che scrutava sia me che mio marito con apprensione, in questo ultimo mese lo avevo sentito più lontano. Era molto strano; quando Oliver gli aveva dato l’annuncio delle nostre seconde nozze, chiedendogli peraltro di fargli da testimone, Tom aveva accettato con il consueto sorriso cordiale e aveva proposto anche un brindisi in nostro onore, ma io avevo notato come un’ombra attraversargli il viso. Era stato un istante e poi lui era tornato quello di sempre; ma da quel giorno mi ero accorta che frequentava casa nostra con minor assiduità e che evitava di venire a trovarmi se non in presenza di mio marito, come se provasse timore o imbarazzo a rimanere solo con me.

I frenetici preparativi del matrimonio, tuttavia, mi aiutavano a tenermi impegnata e a non pensare troppo a Oliver, a Carlos o a Tom. Avevo saputo da Lavinia, anche se in via del tutto indiretta, che la signora Martin era stata sollevata dai preparativi, che venivano seguiti da mio marito e da me in persona; apprezzai questo gesto da parte di Oliver, certa che quella donna avrebbe fatto di tutto per avvelenarmi ancora la vita. Sapevo che lui non poteva licenziarla, dato che si trattava dell’affezionata governante della sua prima moglie e ormai faceva parte della famiglia, ma desideravo che la signora Martin stesse il più possibile alla larga da me. Ogni giorno avevo un appuntamento per sbrigare un’incombenza relativa al matrimonio: la prova dell’abito, la scelta dei fiori, il menu da concordare con i cuochi, la lista degli invitati. Per me, cresciuta in una semplice famiglia del West, tutto questo sfarzo era oltremodo eccessivo, ma sapevo che mio marito si sentiva in colpa per avermi costretto, all’inizio della nostra storia, a rinunciare alla gioia di un vero matrimonio e vedevo quanto ci teneva a regalarmi una giornata degna di una principessa.

La scelta del vestito, però, spettava unicamente a me. Quindi non ci pensai due volte e, dopo aver rifiutato tutti gli abiti che mi erano stati proposti dal sarto, troppo ricchi di fronzoli per i miei gusti, optai per un semplicissimo abito lungo color panna, che insieme ad una semplice acconciatura e ad un bouquet di orchidee e rose bianche sarebbe stato secondo me perfetto.

Era appena terminata la prova del vestito, ed io me ne stavo in salotto a ricontrollare la lista degli invitati, quando sentii la porta che si apriva e l’inconfondibile rumore del carrello con cui mi veniva servito il the. Certa che fosse Lavinia o un’altra delle cameriere, chiesi con noncuranza di lasciarmi la tazza sul tavolino, senza neppure alzare gli occhi dal foglio che stavo leggendo. Così, sentii il cuore che mi si fermava nel petto quando mi protesi per prendere la tazza di the e incrociai i penetranti occhi scuri di Carlos.

Erano settimane che non facevo altro che evitarlo, ma capii subito che in quel frangente mi sarebbe stato impossibile: non potevo certo alzarmi e fuggire dalla stanza mentre un mio domestico mi serviva il the, cosa avrebbe pensato il resto della servitù se qualcuno mi avesse visto?

L’unica cosa che mi rimaneva da fare era ignorarlo. Come se non lo avessi visto, cominciai a sorseggiare il mio the ostentando una tranquilla indifferenza, anche se sentivo il cuore battere come un tamburo e le guance andare in fiamme.

“Devo parlarti”, sussurrò Carlos, a voce bassissima perché nessuno, a parte me, potesse sentirlo.

“Grazie per il the, Carlos. Puoi andare”, risposi a voce alta, senza nemmeno guardarlo in faccia.

“Per favore. È indispensabile”, insistette lui, con un moto d’impazienza sul bel volto bruno.

“Non ho bisogno di nient’altro, grazie”, continuai io come se non lo avessi neppure sentito.

Carlos mi tolse bruscamente la tazza di mano e io scattai in piedi indignata. “Come ti permetti?”, sibilai, “Potrei farti licenziare per questo”

“Non credo proprio. Se mi licenziassi, ci sarebbero giusto due o tre cose che potrei raccontare al tuo adorato maritino”, ribatté lui in tono velenoso. Notai che l’ira gli distorceva i bei lineamenti e che i suoi occhi, un tempo dolci e penetranti, mi sembravano ora freddi e ostili.

“Oliver non ti crederebbe mai”, risposi con altrettanta ostilità.

Carlos sospirò e fece per prendermi una mano, ma io lo scansai bruscamente. “Io e te non abbiamo nulla da dirci. Sei stato molto chiaro l’ultima volta, e come vedi io ho preso la mia decisione. Ho deciso di ricominciare una nuova vita con mio marito”.

“D’accordo. In fondo sono stato io a consigliartelo. Ma ho bisogno di parlarti lo stesso. Non voglio che tu mi odi, Kathleen”, disse, e il suo sguardo mi parve quasi implorante.

“Mi dirai la verità sul tuo passato?”, gli chiesi, guardandolo dritto negli occhi.

Lui fece una smorfia. “Io non posso. Credimi, se potessi lo farei…ma non posso, non adesso. Un giorno forse, quando sarà il momento. Ti basti sapere che per ora io devo rimanere qui…se me ne andassi, butterei all’aria tutto quello per cui mi sono sforzato negli ultimi dieci anni. Tutta la fatica che ho fatto per guadagnarmi la fiducia di tuo marito”.

Sentii un brivido gelido percorrermi la schiena. “Vuoi fare del male a Oliver? Devi dirmelo, Carlos!”, mormorai con voce tremante.

Carlos scosse la testa. “Non sono il mostro che credi, Kat. Non è per egoismo che ho respinto te e il bambino, te lo giuro. Se tu mi lasciassi spiegare…”.

“Non qui”, dissi subito io. “E’ troppo rischioso. Qualcuno potrebbe sentirci. Al solito posto, sulla spiaggia…poi non dovrai disturbarmi mai più e per te io sarò solo la signora Hutton”.

“Te lo giuro”, promise solennemente lui.

Uscì dalla stanza e io finii di bere il mio the, anche se le mani mi tremavano così tanto che temetti che la tazzina potesse cadermi da un momento all’altro. Mentirei se dicessi che in tutte quelle settimane non avevo mai pensato a Carlos. Avevo sempre pensato che fosse un uomo indecifrabile, ma non avevo mai temuto che fosse crudele, o che potesse avere in mente di fare del male a qualcuno. Ma quella sua frase, “ho messo in gioco tutta la mia vita per vivere qui a Villa Hutton”, continuava a riecheggiarmi nella mente e ogni volta che ci pensavo sentivo una sorta di presentimento, come il presagio che dietro ci fosse qualcosa di terribile, un segreto inconfessabile che Carlos si portava dietro forse da tutta la vita e che, presto o tardi, sarebbe venuto fuori e ci avrebbe travolti tutti.

Se lui aveva detto così…allora non era capitato per caso su quella spiaggia, quando Maggie Hutton lo aveva raccolto e preso in casa come domestico. Era lì per un motivo..perché voleva entrare in questa casa, voleva conquistare la fiducia degli Hutton e introdursi nella loro famiglia. Perché? Aveva sempre fatto finta di essere muto, ma in realtà non aveva nessun problema a parlare…ma nessuno doveva scoprirlo. Ogni volta che ci pensavo, mi sorgevano alla mente una serie di interrogativi, chiaramente uno più inquietante dell’altro. E se avesse avuto un ruolo nella caduta da cavallo che aveva reso Maggie invalida per sempre? E se addirittura fosse stato coinvolto nella scomparsa di Patricia? Se anche la prima signora Hutton avesse avuto qualcosa da nascondere, proprio come me? Forse, per Carlos, era un’abitudine, approfittare dei momenti difficili delle mogli di Oliver per sedurle e metterle in crisi con il marito…e Patricia, di momenti difficili, ne aveva avuti parecchi, da quel che sapevo della sua storia…

Poi mi dicevo che Carlos, l’uomo che mi aveva tenuto tra le sue braccia in tanti momenti di passione, che mi aveva fatta sentire finalmente viva e amata, che mi aveva sussurrato tante parole dolci con quella sua voce che nessuno aveva mai udito, non poteva essere il mostro che stavo dipingendo e che io, sicuramente, stavo esagerando.

Avevo giurato a me stessa di non rivederlo più, di non cedere più al mio cuore che chiedeva di lui, di estirparmelo per sempre dall’anima e di ricominciare una nuova esistenza con Oliver. Sapevo che incontrarlo sulla spiaggia era un rischio. Ma avevo bisogno di risposte. Fu per questo che, poche ore dopo, mi recai sulla spiaggia.

Era una giornata di forte vento e le onde si infrangevano rumorosamente sulla battigia. Il mare in tempesta sembrava mostrare esattamente il mio stato d’animo in quel momento. Tolsi le scarpe e lasciai che l’acqua mi lambisse dolcemente i piedi, mentre inspiravo profondamente l’aria salmastra in cerca della forza che mi serviva per affrontare Carlos e chiudere definitivamente i conti con il nostro breve passato.

Lui arrivò poco dopo. Non indossava la divisa da cameriere che portava solitamente in casa, ma una maglietta grigia dall’aria consunta e un paio di pantaloni neri. Era scalzo e i riccioli scuri erano scompigliati dal vento. Era bellissimo come sempre, con un’aria tormentata che pareva renderlo ancora più affascinante. Sentii il cuore tremare quando lo vidi…ma dovevo essere forte. Mi ripetei che non c’era futuro per noi, solo clandestinità. Non era quello che volevo. Cercai di richiamare alla mente gli insegnamenti di mio padre; lui si sarebbe certo vergognato, se avesse visto sua figlia tradire i voti matrimoniali in quel modo.

“Grazie di essere venuta, Kat”, mormorò lui. Cercò di avvicinarsi, ma vide l’espressione fredda del mio volto e preferì restare a qualche metro di distanza.

“So che per te è tutto cambiato. Ma volevo parlarti lo stesso…non volevo che tu mi odiassi, che tu mi credessi un mostro”, cominciò, fissandomi dritto negli occhi.

Sostenni il suo sguardo con aria quasi di sfida. “Sei stato tu a dirmi che era tutto cambiato, che per noi non c’era futuro. Credi che, adesso che mio figlio non c’è più, io sia disposta a caderti di nuovo tra le braccia e ad accontentarmi di essere la tua amante clandestina?”

Carlos sospirò. “Io potevo offrirti solo questo, Kat, dal principio. Lo sapevi, e mi dispiace che ti sia illusa che le cose per noi potessero andare diversamente. Io non sono nessuno…non posso e non potrò mai offrirti la vita che desideri, che meriti. Io non ho mentito quando ti ho detto che ti amavo, credimi…ma se c’è una cosa che la vita mi ha insegnato, è che l’amore da solo non può bastare”, ribatté con aria estremamente triste.

“Io mi sarei accontentata”, risposi con la voce che tremava.

Sospirò di nuovo. “Forse sì, all’inizio…ma non sarebbe stato così per sempre. Sarebbe arrivato un giorno in cui ti saresti sentita in colpa…verso tuo marito, verso i tuoi principi…in cui quello che io avevo da darti non ti sarebbe bastato…”

“Smettila di mentire!”, gridai. “Non è per questo che mi hai parlato così, quando hai saputo che ero incinta. Tu hai detto che non potevi andartene da questa casa, che non lo avresti mai fatto. Né per me né per il bambino. Ora cerchi di addossarmi la responsabilità, di dire che lo hai fatto per me, ma sappiamo entrambi che è una bugia!”

Il bel viso di Carlos si contrasse. “D’accordo, hai ragione tu. Io ti ho amato davvero…e ho cercato di darti tutto l’amore e il calore che potevo, quello che non potevi avere da tuo marito. Ma io non posso e non voglio andarmene. Devo e desidero rimanere qui….finché non avrò raggiunto lo scopo che mi sono prefissato da anni. Fino ad allora…se mi vuoi, dovrai accontentarti di una relazione clandestina. Capisco che questo non ti basti…e rispetto la tua scelta, se davvero vuoi cominciare una nuova vita con tuo marito”, disse, e non potei fare a meno di notare che sulle ultime parole la sua voce aveva assunto un tono vagamente sarcastico.

“No, non ti voglio a queste condizioni. Non voglio diventare una di quelle signore tristi e annoiate che si fanno l’amante perché non sono contente del proprio matrimonio. Io l’ho fatto solo perché ti amavo; sarebbe bastata una tua parola e io ti avrei seguito ovunque…non sono io che ho paura di rinunciare a mio marito e a questa vita…sei tu che non vuoi farlo”, risposi, e sentii con orrore che gli occhi mi si stavano riempiendo di lacrime. Mi sforzai di trattenermi…avevo giurato che quell’uomo non mi avrebbe fatto del male, mai più.

“Cosa sai della mia storia, Kat? Niente. Io non sono solo un vagabondo che vagava su una spiaggia e che una ricca signora ha raccolto per pietà. Io non sono solo un cameriere che finge di essere muto. Se tu sapessi il mio passato…se tu sapessi il rancore che porto dentro…Io sono qui per avere quello che mi spetta, e non me ne andrò senza averlo ottenuto”. Di nuovo la sua espressione si fece gelida e minacciosa; stentavo a riconoscere in quell’uomo dall’espressione cupa lo stesso Carlos di cui mi ero disperatamente innamorata.

“Allora raccontamelo questo tuo passato, se vuoi che io ti comprenda!”, lo implorai.

Egli scosse il capo. “No. Sei troppo pulita, troppo onesta per custodire un segreto del genere. È una storia troppo brutta perché una ragazza pura e bella come te ne venga a conoscenza. E poi…andresti a raccontarla a tuo marito e io non posso permettere che lui venga a saperla. Non adesso e non in questo modo”.

Tremai impercettibilmente. “Allora è come pensavo io…vuoi fare del male a Oliver…”, sussurrai.

Carlos mi si avvicinò, ma io lo respinsi con fermezza. “No, te lo giuro. Se avessi voluto fargli del male, lo avrei già fatto”, rispose, ma c’era qualcosa nel suo sguardo e nella sua voce che non riusciva a convincermi fino in fondo.

“Io…io non riesco più a comprendere, Carlos. Ho sempre pensato che ci fosse un motivo per cui fingevi di essere muto…che nascondessi qualcosa…ma adesso…adesso sento quasi di avere paura di te”, mormorai, mentre una lacrima scendeva mio malgrado a rigarmi il viso.

Carlos apparve colpito…mi si avvicinò e, prima che io potessi opporre resistenza, raccolse la mia lacrima tra le sue dita. “Non devi…a te non farò mai del male, credimi. Io non voglio ingannarti, né mentirti, Kathleen…Semplicemente, non posso raccontarti la mia storia”, disse, con una voce bassa e vagamente triste.

“Perché?”, chiesi debolmente.

Lui scosse la testa. “Tu sei cresciuta in una famiglia ideale…si vede che tuo padre e tua madre ti hanno amato e che finché sono vissuti non ti hanno fatto mancare niente. Per me non è stato così. Mia madre mi ha abbandonato subito dopo la nascita e io sono rimasto da solo con mio padre…ma lui è stato tutt’altro che un genitore. ..era un alcolizzato, un ubriacone…non faceva altro che bere e drogarsi dalla mattina alla sera…mi picchiava, mi costringeva a rubare e poi mi sottraeva quei pochi spiccioli per comperarsi la roba…Io ero solo un bambino e quando lui mi picchiava piangevo e chiamavo mia madre. Credevo che fosse morta e la notte la pregavo di vegliare su di me…finché un giorno mio padre non mi ha buttato in faccia la verità su di lei…”. Carlos abbassò lo sguardo e notai che il suo viso si era profondamente incupito. Un rancore sordo distorceva i suoi bei lineamenti, rendendolo quasi crudele. “Da quel giorno, non ho avuto più pace. Sono cresciuto nell’odio, nel rancore, nel desiderio di vendicarmi…ho pensato solo ad andarmene dalla casa di mio padre e a riscattarmi…non avrò pace finché non avrò vendicato quel bambino che piangeva e invocava sua madre nel buio, con la faccia che gli doleva per le botte..”

Mi si strinse il cuore mentre immaginavo Carlos bambino, piccolo e indifeso, che veniva picchiato crudelmente dal padre ubriaco e si rintanava su una brandina a piangere e chiamare la mamma. Ripensavo alla mia infanzia felice, all’amore di cui mi avevano sempre circondata i miei genitori, e capivo quanto grandi potessero essere il dolore e il rancore che Carlos serbava nel suo cuore. Quello che non riuscivo a capire era cosa c’entrasse in tutto questo la famiglia di mio marito.

“Cosa c’entra con questo il tuo arrivo a Villa Hutton, Carlos?”, provai a domandare, temendo però di non ricevere alcuna risposta.

Carlos si soffermò a fissare un punto lontano, sul mare. “Un giorno feci un piccolo furto qua. Riuscii ad introdurmi passando dalla spiaggia e ad entrare nelle cucine. Avevo sette anni ed ero affamato. In cucina c’era ogni ben di Dio…persino un grosso prosciutto intero, ancora da affettare. Avrei voluto prenderlo, ma non sapevo dove nasconderlo, così mi accontentai di portare via qualche salsiccia e un paio di lattine di birra, per mio padre. Le nascosi sotto la maglietta e cercai di andarmene…ma, mentre cercavo di uscire furtivamente dalla casa, mi imbattei in una donna. Era bellissima e molto elegante; aveva i riccioli castani che incorniciavano un viso stupendo, due dolcissimi occhi azzurri e la pelle di porcellana. Ricordo che pensai di non aver mai visto una donna così bella. Per lo spavento mi caddero le salsicce dalle mani e mi vergognai…volevo scappare ma ero bloccato…ero certo che quella donna si sarebbe arrabbiata, anche se non mi sembrava il tipo da riempirmi di botte. Ero spaventato anche perché sapevo che se fossi tornato a casa a mani vuote, mio padre sarebbe andato su tutte le furie. Non sapevo cosa fare…ma quella donna mi guardò con un’espressione strana, come impietosita, raccolse le salsicce da terra e me le mise in mano…poi mi disse di andarmene in fretta, prima che qualcuno potesse vedermi. Aveva una voce dolce, ma anche strana…come se si stesse sforzando di non piangere…volevo ringraziarla ma non mi uscirono le parole, così le feci un sorriso e corsi via…”. Lo sguardo di Carlos era perso nel vuoto e capii che, mentre mi raccontava questo episodio, la sua mente non era accanto a me, ma vagava lontano, in un passato che io potevo solamente intravedere. Eppure mi sembrava di aver davanti un bambinetto scalzo e impaurito che rubava per non morire di fame e non essere picchiato…e quella donna bellissima che aveva incontrato doveva essere Maggie Hutton, la madre di mio marito.

“Da quel giorno, non so perché, tutte le volte che mi sentivo triste e pensavo a mia madre, mi ritrovavo davanti l’immagine di quella donna…”, il racconto di Carlos si interruppe e la sua espressione sognante e nostalgica tornò ad essere impenetrabile.

“Ora basta, ti ho già raccontato fin troppo. Ora sai quanto la mia infanzia è stata diversa dalla tua e da quella di tuo marito…e quanto tutto ciò abbia condizionato la mia vita. Finché questa ingiustizia non sarà vendicata, io non potrò trovare pace…né andarmene via da qui”, mi disse con durezza, allontanandosi da me e stringendosi le braccia al petto.

“Carlos…io capisco che la tua vita sia stata ingiusta e tu ti senta ferito…ma…ma non è colpa di Oliver o mia….nemmeno tua…tu sei un uomo intelligente, puoi fare strada…anche lontano da qui”, insistetti, ma era come trovarsi di fronte un muro.

“No, io non posso. Non puoi capire e non puoi sapere altro”, ribatté bruscamente. Si scompigliò i riccioli bruni con un gesto nervoso della mano. “Io non posso darti ciò che vuoi, Kat, e me ne dispiace. Tu non puoi accontentarti di ciò che posso offrirti, ed è giusto. Perciò le nostre strade si dividono qui. Io ti ho amato e forse continuerò ad amarti, ma non basta…è giusto che tu viva la tua vita e d’ora in poi tu sarai la moglie di Oliver ed io…un semplice cameriere”. Mi prese per un attimo tra le braccia e mi diede un ultimo, fugace bacio sulle labbra.

Io rimasi sconcertata…avrei voluto reagire, fermarlo, dire qualcosa…ma era come se fossi rimasta di colpo paralizzata, e non riuscii a fare altro che guardarlo mentre correva via in direzione della villa…mi sfiorai le labbra con le dita e capii che era finito…il mio bel sogno era terminato ed io mi ero risvegliata…

D’ora in poi sarei stata solo la moglie di Oliver…questa era la mia strada…dovevo cancellare ogni altro pensiero e impegnarmi a far funzionare il mio matrimonio…Ciò nonostante, un po’ per il dolore, un po’ per la tristezza al ricordo di ciò che mi aveva raccontato Carlos, non riuscii ad impedirmi di scoppiare in singhiozzi. Mi sedetti sulla battigia con le ginocchia al petto e piansi, piansi a lungo…

 

Un mese passa molto velocemente, quando si deve cercare in tutti i modi di tenersi la mente occupata, di non pensare, perché altrimenti il dolore tornerebbe a farsi sentire e sarebbe intollerabile…fu così, per me, in quell’occasione. Per un mese non feci altro che provare acconciature, assaggiare menu e torte nuziali, compilare liste e inviti, aprire regali e scrivere lettere di ringraziamento…girai ovunque come una trottola, mi occupai personalmente di ogni particolare di quella cerimonia, per ignorare il mio cuore gonfio di pena e i tanti dubbi sul futuro che mi attanagliavano. Oliver mi aiutava, ma a volte sembrava anch’egli sopraffatto da qualcosa e aveva bisogno di trascorrere alcune ore in solitudine per nel suo studio. Una parte di me si domandava se ci servisse davvero quella cerimonia così sfarzosa…ma, se non altro, serviva a non farmi pensare a tutto il resto, per cui decisi di ignorare quella fastidiosa vocina e di andare avanti, come se in realtà fossi una giovane sposa che non vedeva l’ora di recarsi all’altare.

La vigilia del matrimonio arrivò in un batter d’occhio e, per rispettare la tradizione, mio marito decise di andare a dormire a casa dei Ross. Io mi rinchiusi presto nella mia stanza, ma i troppi pensieri che mi affollavano la testa mi impedivano di dormire e decisi di scendere per bermi una tazza di the. Mentre la sorseggiavo, pensai a Carlos, al fatto che in quel mese aveva fatto di tutto per evitarmi, all’eco di angoscia che il suo racconto aveva lasciato dentro di me…e pensavo anche a Tom, al fatto che in quell’ultimo periodo, pur sempre presente fisicamente, mi era sembrato in qualche modo più distante che mai.

Mentre ero persa nei miei pensieri, sentii suonare debolmente il campanello. Mi meravigliai, vista l’ora, e presa dal panico pensai di far finta di nulla. Ma il suono si ripeté; allora mi avvolsi più stretta nella vestaglia e mi avvicinai alla porta. Con stupore, quando la aprii, mi ritrovai di fronte Tom Becker, completamente fradicio di pioggia e con gli occhi che ardevano di una strana luce.

“Tom…che ci fate qui a quest’ora? Mio Dio, siete completamente zuppo”, dissi, affannandomi a farlo entrare.

Tom sembrava sconvolto quando varcò la soglia. Cercai di convincerlo a togliersi la giacca, ma tutto quello che fece fu prendermi una mano e bloccarmi di fronte a lui.

“E’ accaduto qualcosa a Oliver?”, domandai, turbata da quel suo atteggiamento inconsueto.

“No, non si tratta di Oliver. Si tratta di me, Kathleen. Io…io forse sto facendo l’errore più grosso della mia vita…ma non posso fare a meno di venire da voi, stanotte…non vivrei più, se non mi liberassi di questo peso”, mi disse in tono febbrile, accarezzandomi una mano.

“Io…io non capisco”, mormorai sconcertata.

“Io vi ho detto una volta che mi ero innamorato di una donna, ma lei non ricambiava…ve lo ricordate?”, mi chiese.

“Sì….ma io…”, risposi. Ero certa che in quell’occasione lui si riferisse a Patricia, ma non capivo per quale motivo, la vigilia del mio matrimonio, si sentisse in dovere di venire a confessarmelo.

“Ecco…vedete….siete voi, quella donna, Kathleen. È di voi che mi sono innamorato”, disse a bruciapelo, senza quasi riuscire a guardarmi negli occhi.

Fu come se la terra mi mancasse all’improvviso sotto i piedi. Di me? Tom era innamorato…di me? Certo, ora molte cose mi sembravano più chiare…la dolcezza nel suo sguardo e nei suoi modi quando mi era accanto…la tenerezza con cui mi aveva confortato quando avevo perduto mio figlio…anche il fatto che nell’ultimo mese avesse evitato di rimanere solo con me ora aveva una spiegazione. Ma io? Cosa sentivo io? Certo, gli volevo bene…per me era sempre stato l’unico punto di riferimento in quella casa, l’amico fedele e devoto su cui poter sempre contare. Ma non poteva essere altro…non in quel momento, non dopo che avevo deciso di ricominciare con Oliver. Come avrei potuto fargli una cosa simile, per di più con il suo più caro amico?

“Io…Tom…io non so cosa dire”, balbettai, a disagio.

Tom sembrava più imbarazzato di me. “Perdonatemi…io non volevo dire nulla…io so che siete la moglie di Oliver e credetemi, io non voglio chiedervi niente. E’ solo che…è tutto il mese che questa notizia del matrimonio mi tormenta…un conto è sapervi sposata con lui, un altro…accompagnarvi all’altare, vedervi unire in matrimonio…non so che mi ha dato la testa….Stasera ho bevuto, per trovare il coraggio di presentarmi alla cerimonia domattina…e a un certo punto mi sono detto che, se non vi avessi detto la verità, io…io non avrei più trovato pace”, fece un grosso sospiro e mi guardò con un’espressione così triste che mi si strinse il cuore per la tenerezza.

Istintivamente, gli accarezzai la guancia con la mano. “Io vi ringrazio, Tom, e sono onorata di quel che mi dite…ma, come avete detto voi, sono la moglie di Oliver, e…ecco, non so…”

Tom mi interruppe posandomi gentilmente un dito sulla bocca. “Non dovete dire nulla. Io…voglio solo augurarvi tanta felicità…so che le cose finora non sono andate come desideravate…ma Oliver è una brava persona e farà di tutto per darvi ciò che meritate…e io sarò sempre qui a vegliare sulla vostra felicità…fin quando voi non mi manderete via”

Lo abbracciai forte. “Mai, mai potrei mandarmi via…non so davvero che farei senza di voi”.

Tom si scostò lievemente da me…e prima che potessi rendermene conto, le sue labbra morbide e delicate si appoggiarono sulle mie. D’istinto, risposi al bacio, lasciando che da dolce e tenero diventasse più appassionato. Quando ci staccammo, io ero rossa d’imbarazzo e l’espressione di Tom ancora più febbrile.

“Scusate…ma sono ubriaco stasera e agli ubriachi si perdona qualche piccola follia”, mormorò lui, abbozzando un sorriso per nascondere l’imbarazzo.

Gli sorrisi anch’io, seppure un po’ incerta. “Certo…domattina non ci ricorderemo nemmeno più questo…questo…episodio”, mormorai.

“Non ne sono sicuro, per quanto mi riguarda…ma quello che ho detto rimane valido. Desidero solo la vostra felicità”. Mi accarezzò lievemente una guancia, poi mi prese una mano e la baciò. “Buonanotte, Kathleen”, disse dolcemente.

“Buonanotte”, balbettai.

Richiusi la porta alle spalle di Tom e scappai via, verso la mia camera.

Inutile dire che non chiusi occhio tutta la notte. Le immagini di Oliver, di Carlos e anche di Tom si accavallavano di continuo nella mia mente ed io mi sentivo più confusa che mai…più di una volta, nel corso di quella lunga notte, mi sentii in colpa ed invocai l’aiuto dei miei genitori per capire cosa dovessi fare della mia vita…più di una volta dubitai che celebrare quel secondo matrimonio con Oliver fosse davvero la cosa più giusta da fare e mi sorpresi anche a pensare ai vari modi in cui avrei potuto dare la notizia a mio marito…ma non potevo, non dopo tutti i preparativi che c’erano stati…sarebbe stato uno scandalo, avremmo perso la faccia davanti a tutto il paese…Ormai avevo preso una decisione, dovevo rispettarla e assumermi le mie responsabilità. Non ero più una bambina spaventata, ero una donna adulta e avevo un marito.

Così lasciai che, quel mattino, mi vestissero, mi truccassero e mi agghindassero come una bambola…quando mi guardai allo specchio, stentai a riconoscermi…una cosa, però, mi inquietava più di tutto il resto…riuscivo a leggere una ad una le emozioni che si alternavano sul mio volto…paura, angoscia, senso di colpa, tristezza…solo una non riuscii a scorgere: la felicità…

Eppure il giorno del matrimonio dovrebbe essere il più felice nella vita di una donna…

Cercai di scacciare questi pensieri inutili e il resto della mattina passò in un baleno…finché non giunse l’ora di recarsi in chiesa. Scesi le scale e trovai Tom ad aspettarmi all’ingresso della villa…vidi l’emozione dipingersi sul mio volto quando gli fui di fronte e per un attimo non riuscii a impedirmi di ripensare agli eventi della notte prima…ma lui sembrava assolutamente tranquillo e padrone di sé mentre mi prendeva per mano e mi faceva accomodare sull’auto che mi avrebbe condotta in chiesa, dove già Oliver mi attendeva.

La chiesa era gremita di gente, ma, mentre percorrevo la navata al braccio di Tom, io vedevo solo mio marito, ritto in piedi accanto all’altare. Anche lui sembrava tutt’altro che felice, sebbene mi sorridesse mentre mi avvicinavo. Quando fui accanto a lui, mi prese la mano e con dolcezza mi sussurrò che ero bellissima.

Risposi al suo sorriso e mi ripetei di nuovo che stavo facendo la cosa giusta.

 

Non dimenticherò mai quello che avrebbe dovuto essere il giorno del mio matrimonio.

La cerimonia sembrava procedere come una tranquilla e normale cerimonia di nozze dovrebbe proseguire. Io e Oliver avevamo recitato i solenni voti nuziali e il sacerdote stava benedicendo gli anelli che ci saremmo reciprocamente infilati al dito.

Improvvisamente, però, fui distratta da un mormorio, che proveniva dal fondo della chiesa e si estendeva fino a pochi passi da noi. Istintivamente, mi voltai verso la navata e vidi mio marito fare la stessa cosa. Di colpo, il viso di Oliver apparve perso nel vuoto e la sua mano lasciò bruscamente la mia.

Seguii la direzione del suo sguardo e mi sentii raggelare. Il cuore si fermò nel mio petto. Compresi qual era la causa che aveva fatto nascere il mormorio che avevo sentito.

La porta della chiesa si era aperta ed era entrata una donna. Una donna che ora stava camminando lungo la navata con passi incerti, quasi barcollando.

Indossava un vestito di colore chiaro, sporco e lacerato in più punti. Anche la pelle, che sarebbe stata bianchissima, era piuttosto sporca e segnata da graffi e lividi violacei. I lunghi capelli scuri erano scarmigliati e lo sguardo piuttosto assente.

L’espressione dei suoi occhi però era viva e febbrile, mentre fissava ardentemente Oliver.

Poi i suoi occhi si incatenarono ai miei e d’improvviso fu come guardarsi in uno specchio…

La nostra somiglianza mi era stata buttata in faccia in ogni modo, ma solo ora che la vedevo di persona, come mai avrei creduto possibile se non in uno dei miei incubi, mi rendevo conto di quanto fosse davvero marcata.

La donna arrivò a pochi passi da noi e riuscivo distintamente a sentire il corpo di Oliver scosso da un profondo tremito. Le persone riunite in chiesa avevano cessato di mormorare ed era sceso un silenzio assoluto, rotto solo dai passi della donna sul tappeto rosso.

Giunta a pochi passi da noi, si fermò e allungò una mano verso mio marito. I suoi occhi si riempirono di lacrime, mentre mormorava il suo nome con una voce che suonava strana, come se non fosse stata utilizzata per tanto, tantissimo tempo.

Oliver rimase immobile, come impietrito, così fui io ad allungare una mano fino a toccare la sua…era come se volessi sincerarmi che fosse vera, che non fosse un fantasma o un parto della mia immaginazione. Ma la mano che toccai, per quanto piccola e ossuta, era assolutamente reale.

Non era un fantasma. Né un incubo, un’immaginazione, o come diavolo vogliamo definirla.

Era lei, in carne e ossa. Di fronte a me. Viva.

Patricia….

 

Fine quindicesimo capitolo

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Capitolo 16
*** Capitolo sedicesimo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO SEDICESIMO

 

Nonostante avessi sfiorato la sua mano, e dunque sapessi che la donna davanti a me era lei in carne e ossa, ancora stentavo a crederci…forse era un brutto sogno, sì, doveva essere così…era solo un incubo, io mi sarei svegliata nella mia stanza e avrei scoperto che era la mattina del mio matrimonio e che dovevo affrettarmi per non fare tardi in chiesa.

Provai a chiudere gli occhi per avvalorare questa tesi, ma quando li riaprii Patricia era ancora davanti a me e stava prendendo la mano di Oliver tra le sue. Mio marito, pallido e immobile, sembrava letteralmente sconvolto. Sentivo il suo respiro affrettato, il tremore del suo corpo e mi sembrava quasi di percepire il martellare assordante del suo cuore.

“Oliver”, mormorò lei, di nuovo con quella voce strana, da strumento scordato.

Il suo sguardo aveva un che di vacuo, di distante…ora che era più vicina, notai che era magrissima, molto più di quel che mi era sembrata osservando il suo ritratto…le braccia e le gambe erano molto esili, il viso appariva scavato e gli occhi erano cerchiati da profonde occhiaie violacee. Il suo vestito era strappato e la sua pelle sporca e piena di graffi…sembrava davvero uscita dalla tomba…

Però era viva….era viva….ed era lì, in chiesa, nel giorno in cui io e Oliver avremmo dovuto celebrare il nostro matrimonio davanti a tutti…

“Non può essere….non puoi essere tu…”, sussurrò Oliver con voce spezzata, uscendo finalmente dal torpore in cui sembrava piombato da quando la porta della chiesa si era spalancata.

“Oliver”, disse ancora Patricia, come se fosse incapace di pronunciare qualunque altra parola se non il nome di mio marito…di suo marito, realizzai improvvisamente, e mi sentii come folgorata.

Patricia era viva….ed era tornata a riprendersi suo marito…

L’emozione mi sopraffece…la testa cominciò a girarmi e, prima che potessi rendermene conto o chiedere aiuto, sentii che le gambe non mi reggevano più e caddi sulle ginocchia.

“Kathleen!”, esclamò Tom, precipitandosi al mio fianco. Mi prese la mano e mi osservò con aria preoccupata, scostandomi i capelli dalla fronte con un gesto di una dolcezza infinita.

“Portatemi via, Tom, vi prego”, riuscii a mormorare, sentendo che le orecchie mi rimbombavano, nonostante la chiesa fosse immersa in un raggelato silenzio.

“Oliver…”, fece Tom dubbioso, voltando lo sguardo verso l’amico.

Mio marito era ancora immobile, mentre Patricia gli accarezzava febbrilmente una mano e se la portava alla guancia. Al suono della voce di Tom, egli si voltò di scatto, con l’espressione di un animale chiuso in gabbia. Era chiaro come tutto questo fosse troppo per lui e non sapesse come fare ad affrontare la situazione.

“Vi prego, Tom…fate uscire tutta questa gente”, domandai di nuovo, implorante, mentre con orrore sentivo che la tensione che mi straziava stava per sciogliersi in un pianto dirotto.

Tom annuì. Lo vidi far cenno a Julian e a Frank, che si trovavano poco distante da noi, e in pochi istanti le persone cominciarono a sciamare fuori dalla chiesa…sicuramente l’intero paese avrebbe avuto di che parlare a lungo…questa cerimonia sarebbe entrata nella storia locale…

In breve tempo, all’interno della chiesa restammo solo io, Oliver, Patricia e Tom, che si era di nuovo inginocchiato al mio fianco e mi teneva la mano cercando di rassicurarmi.

Sentivo provenire dal di fuori le grida di Amy Ross che voleva rientrare e parlare con sua sorella e il tono pacato ma deciso di Julian mentre cercava di farla tranquillizzare.

Le lacrime mi rigavano il viso ormai incontrollabilmente…da una parte volevo alzarmi e fuggire, il più lontano possibile da quel luogo, dall’altra non riuscivo a trovare la forza di tirarmi su da quel pavimento e mi aggrappavo alla mano di Tom Becker come se fosse l’unico rifugio possibile…

“Come è possibile?”, sentii dire a Oliver, non so se rivolto più a Patricia che a se stesso.

“Io…io non lo so…ero in una stanza buia, mi tenevano chiusa lì….prima non ricordavo niente, poi ho cominciato a rivedere delle immagini…e alla fine mi è tornato in mente tutto…ma non sapevo dov’ero o come fare a fuggire…poi stamattina ho trovato la porta aperta…sono uscita…temevo che mi avrebbero seguita….ho cominciato a correre…e mi sono trovata qui…ho aperto la porta…e ti ho visto…”, mormorò lei con voce incerta, mentre un lieve tremito la scuoteva.

“Ma tu….l’incidente…la barca”, balbettò Oliver, ancora incredulo.

Tom gli posò una mano sulla spalla. “Perdonami, Oliver…ma non mi sembra il momento né il luogo. Siamo tutti sconvolti…Kathleen sta per sentirsi male…e credo che anche…che anche Patricia abbia bisogno di cure”, disse in tono premuroso.

Oliver sembrò riscuotersi e annuì. “Hai ragione…è meglio andare a casa…e continuare là questo discorso”, disse.

Per la prima volta da quando quella donna era entrata nella chiesa, si voltò verso di me e mi voltò con l’espressione più smarrita che gli avessi mai visto…aveva gli occhi sbarrati, il viso pallido e la fronte imperlata di sudore. Lessi sul suo volto dolore, angoscia, confusione…ma non potei fare a meno di notare, con una sorta di fitta allo stomaco, che nei suoi occhi sembrava essersi accesa una fiammella di speranza.

“Tom…ti prego, occupati di Kathleen”, sussurrò rivolto all’amico, mentre lui prendeva per mano Patricia e con poche parole, gentilmente, la convinse a seguirlo all’esterno della chiesa, verso Villa Hutton.

Tom non se lo fece ripetere due volte e in un attimo fu accanto a me. Mi aiutò ad alzarmi e mi condusse verso la macchina, tenendomi saldamente stretta tra le sue braccia. Mentre il mondo sembrava non riuscire a smettere di girarmi attorno, io appoggiai il capo alla sua spalla e inspirai il suo aroma mascolino, cercando di trarre coraggio dalla sua rassicurante presenza. Non riuscivo ancora a realizzare pienamente cosa significasse il ritorno di Patricia a Villa Hutton, nella vita di Oliver. Non riuscivo a immaginare i commenti degli ospiti…mentre uscivamo dalla chiesa, sollevai a malapena il capo per guardarmi intorno, ma se n’erano andati quasi tutti.

C’era Amy Ross, pallida come un fantasma e tremante tra le braccia di suo marito; appena vide Oliver uscire con Patricia per mano fece per avvicinarsi, ma un’occhiata del cognato la fece rapidamente desistere. Vidi Oliver sussurrare qualcosa a Julian, che annuì e prese sua moglie per mano, probabilmente per condurla a recuperare l’automobile e ritornare a Villa Hutton. Vidi Frank che si affannava ad indicare a Tom la direzione da percorrere per raggiungere l’automobile con cui eravamo arrivati in chiesa…un’ora, una vita, forse un’eternità prima.

Sapevo che la signora Martin non sarebbe intervenuta alla cerimonia…la immaginai a Villa Hutton, nella stanza di Patricia…chiusi gli occhi e riuscii quasi a vederla con gli occhi della mente: era affacciata alla finestra e teneva in mano la camicia da notte di Patricia, mentre il suo sguardo si perdeva nel vuoto e la sua mente alimentava incessantemente l’odio verso di me e verso Oliver, che aveva osato sostituire la sua perfetta moglie con una brutta copia. Immaginai l’incredulità e l’esultanza nei suoi occhi quando avrebbe visto arrivare l’automobile e, anziché me, raggiante in abito da sposa, avrebbe visto scendere “la sua bambina”, magra e scarmigliata, ma al braccio di suo marito, pronta a rientrare in casa da padrona e a spodestare finalmente l’usurpatrice.

Mi assalì il panico e, tremante, mi aggrappai al bavero della giacca di Tom.

“Tom, non voglio tornare a Villa Hutton”, sussurrai con la voce spezzata, mentre sentivo con orrore le lacrime bagnarmi il viso.

“Kat, dovete farlo…capisco come vi sentiate…ma dobbiamo tutti sapere come sono andate le cose…anche voi…”, tentò a ribattere, ma vidi che era poco convinto.

“A me sembra tutto un incubo”, esalai, prima di scoppiare in un pianto dirotto.

Vidi il volto di Tom contrarsi in una smorfia. Mi fece salire in macchina e chiese a Frank di lasciarci soli per qualche istante, poi si sedette accanto a me e mi prese il viso tra le mani.

“Kat…voi siete una donna coraggiosa e dovete continuare a dimostrarlo. Io…non so nemmeno io cosa dire…penso che nessuno lo sappia….io…io non so nemmeno come sia possibile che Patricia sia ancora viva, che sia tornata…”, compresi che anche lui si stava sforzando di riprendere il controllo di se stesso e delle proprie emozioni. “Dobbiamo sentire il suo racconto. Accertarci che sia veramente lei. Capire come sono andate le cose. Solo poi…potremo pensare al da farsi…prendere delle decisioni”. Sospirò e con i pollici mi asciugò le lacrime dalle guance.  Il suo sguardo si fece intenso. “Kathleen…io so che non è il momento né il luogo…ma io…io non ho dimenticato quello che è successo ieri sera”, disse.

Mi sentii improvvisamente avvampare. Il ricordo della sua dolcissima dichiarazione e, soprattutto, del bacio che ci eravamo scambiati mi riaffiorò alla mente e mi fece sentire ancora più a disagio. “Tom, io…non mi sembra il caso”, obiettai, distogliendo immediatamente lo sguardo.

“Non è come pensate…io non volevo certo…farvi una dichiarazione in questo momento…non sono pazzo. O meglio, sicuramente ieri sera vi sarò sembrato come impazzito…ma io volevo solo ricordarvi che ci sarò sempre, per voi. Qualunque cosa accada, mi avrete sempre al vostro fianco. Non dovete avere paura di niente. Ci sono qua io a proteggervi”, rispose, con un tono così solenne e dolce allo stesso tempo che non potei fare a meno, anche nella mia totale confusione, di provare un profondo sollievo. Certo, l’affetto incondizionato di Tom non risolveva i miei problemi, e al momento mi trovavo davvero in una pessima situazione, ma era confortante sapere che, comunque, non ero più sola, ma avevo qualcuno che desiderava amarmi e proteggermi.

Gli sorrisi e gli accarezzai la mano. “Grazie, Tom. Veramente, non so cosa sarebbe di me se non avessi voi”, mormorai.

Tom ricambiò il mio sorriso. “Coraggio, andiamo a Villa Hutton. Insieme”, disse in tono deciso e io annuii. Certo, ero ancora spaventata, anzi terrorizzata. Ma pensavo anche che, con Tom accanto a stringermi la mano e darmi coraggio, in qualche modo sarei riuscita ad affrontare la situazione.

 

Quando arrivai alla Villa, seppi che Oliver aveva dato istruzioni affinché tutta la servitù, signora Martin compresa, fosse allontanata prima del nostro arrivo e nessuno entrasse fino a nuove disposizioni. Naturalmente non avevo intenzione di presentarmi indossando il mio abito da sposa, così salii nella mia stanza e andai a cambiarmi. Mentre mi toglievo il vestito bianco e disfacevo la sontuosa acconciatura, pensai che mi sembravano passati secoli da quando mi ero preparata, quella mattina, e che io stessa mi sentivo un’altra persona. Mi osservai a lungo allo specchio e al mio viso si sovrappose inevitabilmente quello di Patricia, così come mi era apparso quando era entrata all’improvviso in chiesa ed io mi ero voltata e l’avevo vista. I suoi grandi occhi castani, per quanto smarriti potessero essere, erano davvero identici ai miei, così come i lineamenti del viso: la bocca, il naso, le guance…persino una piccola, quasi impercettibile fossetta sul mento. Avremmo potuto facilmente essere scambiate per gemelle. Certo, io ero più giovane…ma pensai che gli eventi degli ultimi mesi mi avevano così stravolta che mi sentivo invecchiata di dieci anni, quindi in un certo senso era come se anch’io avessi raggiunto la stessa età che aveva lei. Persino i capelli, per quanto sporchi e scarmigliati, erano identici ai miei: stesso colore, stessa lunghezza…anche i suoi terminavano sulle spalle con dei leggeri boccoli…

Sospirai. Non avevo il coraggio di scendere…non volevo vedere nessuno…né Oliver, né Patricia…nessuno…solo restare chiusa nella mia stanza, come in una bolla protettiva, finché qualcuno non fosse venuto a dirmi cosa ne sarebbe stato di me.

Il pensiero del mio futuro mi atterriva. Fino a quel mattino, per quanto piena di dubbi, pensavo che sforzandomi sarei riuscita a ricominciare una nuova vita a Villa Hutton come moglie di Oliver…ma quel che era successo in chiesa cambiava veramente tutto…più di Carlos, più del bambino, più di qualsiasi altra cosa. Per prima cosa…solo ora me ne rendevo conto, ma era una conseguenza inevitabile: se Patricia non era realmente morta, Oliver non era mai stato vedovo…dunque il nostro matrimonio non era mai stato valido. Io non ero davvero sua moglie. Io non ero nessuno.

Probabilmente ora Patricia avrebbe reclamato il posto che le spettava…e non dubitavo nemmeno per un istante che Oliver l’avrebbe riaccolta a braccia aperte. Non l’aveva mai dimenticata ed io avevo sempre saputo, in fondo, che lei era l’unica donna che egli avesse veramente amato. Mi chiesi se lei avrebbe voluto che me ne andassi subito o se avrebbe acconsentito ad ospitarmi finché non avrei trovato un’altra sistemazione. Ma quale? E dove? Non avevo famiglia, non avevo amici, non avevo nessuno al mondo. Avrei dovuto cercare un lavoro, ma non c’era nulla che sapessi fare, non sapevo nemmeno da che parte cominciare. Prima di conoscere Oliver mi ero adattata a fare la dama di compagnia a zia Audrey, ma non sarei mai tornata da lei: mi sarei vergognata troppo a raccontarle tutta la storia e ad affrontare i suoi sguardi di compatimento. Forse Tom avrebbe potuto aiutarmi…ma ora che sapevo la verità sui suoi sentimenti nei miei confronti, mi imbarazzava dovermi rivolgere proprio a lui…e avevo troppa dignità e troppo rispetto di me stessa e di lui per gettarmi tra le sue braccia senza ritegno solo perché il mio matrimonio con Oliver non era valido. Volevo un bene infinito a Tom, ma non lo amavo; e non mi sarei perdonata per tutta la vita se avessi approfittato dei suoi sentimenti solo per ottenere una sistemazione comoda e sicura.

Sentii bussare alla porta e la voce di Frank mi informò discretamente che erano tutti in salotto e aspettavano soltanto me. Sentii di nuovo, fortissimo, il desiderio di buttarmi sul letto a piangere e di rimanere lì, a fare finta che il resto del mondo non esistesse. Ma sapevo che non potevo farlo. Così respirai profondamente, aprii la porta e seguii Frank fino al salotto, anche se ad ogni passo desideravo che la terra si aprisse sotto i miei piedi e mi inghiottisse definitivamente.

Quando entrai nel salotto, la prima persona che vidi fu Oliver, in piedi accanto alla finestra…aveva la stessa espressione pallida e tormentata che gli avevo visto prima in chiesa. Patricia era seduta sul divano, con lo sguardo perso nel vuoto; notai che si era sistemata: aveva lavato il viso e spazzolato i capelli, e al posto del vestito bianco strappato indossava una maglietta di cotone e un paio di jeans. Sembrava giovane e indifesa, quasi una bambina. Accanto a lei, sua sorella Amy le teneva la mano, con uno sguardo allo stesso tempo intenerito e preoccupato. Quando entrai mi rivolse un’occhiata fugace e distolse rapidamente lo sguardo, come una ragazzina colta in fallo dalla madre. Julian e Tom erano seduti sull’altro divano, uno accanto all’altro; il cugino di Oliver si teneva la testa tra le mani, pensieroso, mentre scrutava con attenzione la moglie e la cognata. Tom, invece, mi venne subito incontro, mi prese le mani e mi condusse premurosamente verso il divano, invitandomi a sedermi accanto a lui.

Mi accorsi che Patricia aveva sollevato leggermente il volto e mi osservava; anche in lei cresceva lo stupore man mano che si accorgeva della nostra straordinaria somiglianza. Mi osservò a lungo, poi si voltò a fissare Oliver e notai che l’espressione si era fatta profondamente triste. Mi domandai che effetto poteva farle ritornare a casa e scoprire che il marito l’aveva sostituita con un’altra donna, come se non bastasse praticamente identica a lei.

“Io…io non volevo interrompere tutto…mi dispiace…non mi ero neppure resa conto”, farfugliò, come se faticasse ancora a riprendere il contatto con la realtà. Vidi l’angoscia e lo smarrimento nei suoi occhi e, con mia stessa meraviglia, compresi che sentivo pena per lei.

“Non importa. La cerimonia non sarebbe stata comunque valida”, mi sorpresi a ribattere, più bruscamente di quello che avrei voluto.

Vidi Oliver trasalire e voltarsi di scatto verso di noi. Il suo sguardo vagava tra me e Patricia, come se non riuscisse a capacitarsi del fatto di averci entrambe nella stessa stanza, a pochi metri di distanza l’una dall’altra.

“Quello che ora tutti noi vorremmo capire, Patty cara…è che cosa è successo…noi ti credevamo tutti…morta…da più di un anno”, spiegò Amy con cautela, cercando di sorridere alla sorella in modo incoraggiante.

Patricia sospirò. “Io…non ricordo esattamente…ti ripeto, per molto tempo non sono riuscita a ricordarmi di nulla. Nemmeno del mio nome. Vivevo in questa stanza buia…ogni tanto mi portavano da mangiare…non sapevo chi ero, né dove mi trovavo…mi faceva male tutto e c’erano dei giorni in cui pensavo che desideravo soltanto morire”. I suoi occhi si offuscarono per il dolore, mentre rievocava il suo recente passato con voce tremante. “Poi…un giorno, del tutto all’improvviso…cominciai ad avere come dei flashback…vedevo delle immagini e sapevo che quella donna ero io…e c’eri tu, in quei ricordi…Oliver….c’eri sempre tu…”. Rivolse verso suo marito uno sguardo talmente carico d’affetto che io mi sentii più che mai un’intrusa, e distolsi lo sguardo con una orrenda sensazione di sgomento. Tom se ne accorse e mi strinse di più la mano.

“Vedevo ricordi di noi due insieme…della nostra adolescenza…del nostro matrimonio…poi cominciai ad avere dei ricordi di Amy…di noi da piccole…di mamma e papà…di Marty…mi ci aggrappai stretta per paura che potessero scapparmi via…ma non accadde e nel giro di qualche settimana recuperai la memoria…non tutta…a volte ho ancora qualche buco nero…ci sono cose che non riesco a ricordarmi bene…ma almeno sapevo chi ero…e dove volevo tornare. Da quel giorno, non feci altro che cercare un modo per andarmene da quel posto…ma non sapevo dove fossi e non sapevo bene nemmeno chi era che mi teneva segregata. Tutti i miei tentativi di andarmene sono stati inutili. Fino ad oggi….”

“Come sei riuscita a scappare, oggi?”, domandò di nuovo Amy, mentre accarezzava la testa della sorella con espressione sconvolta.

“Non lo so nemmeno io…mi sono svegliata e ho trovato la porta aperta…non potevo crederci…sono uscita cautamente, temendo che qualcuno potesse scoprirmi, e mi sono messa a correre….ma non sapevo che direzione prendere per arrivare qua alla villa. Poi…mentre mi guardavo intorno…cercando di prendere una decisione…ho sentito suonare le campane della chiesa…e ho pensato che di certo lì mi avrebbero aiutata a ritornare a casa. Così sono entrata….e quando ho aperto la porta ti ho visto, Oliver…lì, sull’altare…assolutamente identico ai miei ricordi…tutto il resto del mondo è svanito e io sono dovuta correre da te…”, disse, tornando a guardare intensamente Oliver. Vidi la stessa intensità nello sguardo di lui, a conferma di quel che sapevo dal primo momento e che, in fondo al mio cuore, avevo sempre saputo: Patricia era sempre stata l’unico amore della sua vita, la sola donna che contasse per lui. La sola, vera, signora Hutton. Aveva ragione la signora Martin. Io ero stata solo il tentativo di riempire un vuoto, di sopportare un dolore atroce e trovare comunque il modo di continuare a vivere.

Quello che non capivo era perché Oliver non fosse ancora corso da lei…perché non l’abbracciasse o la baciasse…rimaneva lì, sulle sue, quasi esitante…forse per rispetto nei miei confronti, forse perché ancora era incredulo…Sembrava che ancora stentasse a rendersi conto del fatto che sua moglie non era morta, che era lì, viva, che era ritornata da lui.

“E l’incidente? La barca?”, mormorò con un tono a malapena udibile.

Vidi che Patricia lo fissava con una strana espressione interrogativa. “Quale barca? Di che incidente state parlando? Non capisco”, disse perplessa.

“Tesoro, ci hanno detto che eri scomparsa in mare. Il battello è stato ripescato, ma il tuo corpo non è mai stato ritrovato. La servitù ha riferito che la sera della tua scomparsa eri uscita a fare un giro con la barca”, le spiegò pazientemente Amy.

Patricia aggrottò la fronte, come se stesse faticosamente cercando di ricomporre i tasselli di un mosaico frugando nella sua memoria. Pensai che, probabilmente, ci fossero ancora delle cose che non riusciva a ricordare bene. Del resto, tutta la vicenda mi suonava alquanto strana. Certo, poteva essere benissimo che Patricia, durante la tempesta, fosse stata sbalzata dalla barca e si fosse ritrovata esanime sulla spiaggia, malconcia e priva della memoria. Poteva essere benissimo anche che qualcuno l’avesse ritrovata e soccorsa. Ma dal suo racconto di come era riuscita a scappare, quella mattina, si capiva bene che il posto in cui si trovava non era molto distante da qui, anzi, forse si trovava proprio qua in paese. Inoltre, lei aveva parlato di qualcuno che la teneva segregata…ma chi? Per quale motivo? Forse l’avevano riconosciuta e intendevano chiedere un riscatto alla sua famiglia…ma a pensarci bene, era alquanto improbabile. Era passato più di un anno dalla sua scomparsa, Oliver era persino tornato a casa con una nuova moglie e nessuno si era fatto vivo a chiedere nulla. Se avessero voluto chiedere dei soldi, l’avrebbero fatto subito. Era anche strano che, dopo averla tenuta segregata per così tanto tempo, avessero commesso l’incauto errore di lasciarle la porta aperta…proprio la mattina del matrimonio di Oliver…

Uno strano sospetto si fece largo dentro di me. E se non fosse stata una coincidenza? Forse chi l’aveva tenuta segregata sapeva che quel mattino, in chiesa, ci sarebbe stata la cerimonia…e aveva pensato che, probabilmente, era il momento migliore per far ricomparire dall’aldilà la prima signora Hutton….ma chi? Per quale motivo?

Il suono allarmato della voce di Amy mi distolse dai miei pensieri. Sollevai lo sguardo e vidi che Patricia era impallidita mortalmente e aveva cominciato a tremare come una foglia…sembrava che stesse ricordando qualcosa che la terrorizzava. “Io…io non ho avuto un incidente con la barca…io…non sono mai riuscita a salirci, sulla barca”, balbettò, scossa dai tremiti.

Oliver parve riscuotersi, si avvicinò alla sua prima moglie e le prese le mani tra le sue, poi la guardò con dolcezza e tentò di rassicurarla. “Calmati, tesoro, ora nessuno ti farà del male. Sei al sicuro, a casa, con me”, le disse con dolcezza.

“Allora cos’è successo, Patty?”, provò ad indagare sua sorella con cautela.

Patricia sembrava non riuscire a smettere di tremare. “Io…volevo uscire con la barca quella sera…sì, ricordo…sono scesa in spiaggia…ma…mi hanno aggredita”, disse faticosamente.

Mi sentii raggelare e anche Amy si portò una mano alla bocca, sconvolta.

“Chi ti ha aggredita, tesoro?”, le domandò Oliver, mentre un’ombra gli offuscava i lineamenti. Ero sicura che in quel momento provasse anche lui rabbia e orrore, ma si sforzò per continuare ad utilizzare un tono di voce rassicurante.

“Io…non ricordo…qualcuno mi ha afferrata alle spalle…ha cercato di legarmi i polsi con una corda…io…io ho lottato…questo me lo ricordo…io ho lottato con tutte le mie forze…ma era più forte di me…alla fine ho sentito un dolore fortissimo alla testa…e quando mi sono risvegliata ero in quella stanza buia”. Patricia tremava ancora e aveva gli occhi pieni di lacrime. Amy, a capo chino, singhiozzava in silenzio. Anche Julian era sconvolto. Io tremavo e non riuscivo ad alzare lo sguardo. La mano di Tom si serrò alla mia ancora più forte.

Oliver accarezzò dolcemente una guancia della prima moglie, poi la prese cautamente tra le braccia e la cullò come una bambina, mentre Patricia piangeva dando sfogo alla paura e al dolore che, probabilmente, l’avevano attanagliata per mesi e mesi.

Anche io avrei voluto piangere…quello che era successo era orribile…senza contare la terribile catena di dolore a cui aveva dato inizio e che aveva travolto e distrutto le esistenze di tante persone…con me come ultimo anello…

Pensai al dolore di Patricia, di Oliver, di Amy, di Julian…persino della signora Martin…al dolore di Tom…al mio…quante persone avevano sofferto….Dio, avrei voluto trovare il responsabile di tutto questo orrore e fargliela pagare con le mie stesse mani.

“Patricia”, dissi, non riuscendo più a trattenermi. Era la prima volta che le rivolgevo direttamente la parola, e devo ammettere che mi sembrava piuttosto strano parlare ad una donna che fino a poche ore prima consideravo un fantasma del passato. La vidi trasalire e osservarmi con curiosità. Aspettai prima di continuare che i suoi singhiozzi si fossero placati; ella respirò profondamente e si asciugò le lacrime con il dorso della mano.

“Prova a sforzarti…non riesci proprio a ricordare nulla della persona che ti ha aggredita?”, tentai di chiederle con la massima delicatezza di cui fui capace.

Amy mi lanciò un’occhiata gelida, ma cambiò subito espressione quando si accorse che Oliver era d’accordo con me e stava spronando anche lui sua moglie a cercare di ricordare.

Patricia chiuse gli occhi e io vidi la sua fronte aggrottata per lo sforzo. “Io…non sono sicura…so che lo conoscevo…ma non ricordo….ogni volta che provo a ricordare mi sento male…comincio a sudare freddo e mi gira la testa….”. Oliver le prese la mano e gliela accarezzò lentamente, mentre lei continuava a concentrarsi. Anch’io la osservavo con espressione assorta, come se in qualche modo volessi aiutarla a ricordare. Amy si mordeva nervosamente il labbro inferiore, sulle spine.

“Ricordo solo che era un uomo”, sussurrò, dopo un tempo che a tutti noi sembrò infinito. “Alto…si, alto…carnagione abbastanza scura…capelli scuri…e la sua voce….all’inizio sembrava quasi dolce, melodiosa…ma poi…quando vide che mi ribellavo divenne cattiva…disse anche delle parole in una lingua che non conoscevo…mi sembrava spagnolo, forse…”.

Sentii il gelo scendere dentro di me. Tutti guardavano Patricia che scuoteva la testa, dicendo di non riuscire a ricordare altro, e sembravano non capire a chi si stesse riferendo. Certo, forse a loro mancava un tassello particolare….lei aveva parlato di voce…

Ma io sapevo…con un brivido gelido lungo la schiena, ricordai di nuovo quella frase che tanto mi aveva turbata la prima volta che l’avevo sentita: “Ho messo in gioco tutta la mia vita per vivere a Villa Hutton…”. Era come se avessi capito fin dal primo istante che in quella frase c’erano delle implicazioni ben più terribili di quel che avevo pensato la prima volta.

Sentii lo stomaco contrarsi dolorosamente. Una parte di me non voleva credere all’idea che si era formata abbastanza distintamente nella mia testa. Un’altra, però, mi ripeteva che, in fondo, era come se lo avessi sempre saputo.

Non sapevo perché…conoscevo a malapena la storia di un’infanzia difficile, che forse però era solo la punta di un iceberg chissà quanto nascosto. Ricordavo di aver pensato anche all’eventualità che fosse coinvolto nella vicenda di Patricia, ma lo avevo fatto in modo superficiale, come se in fondo non volessi crederci neppure io.

Però, l’ultima volta, non mi ero ingannata. L’ultima volta avevo davvero avuto paura. Paura di lui. Paura che volesse fare del male a qualcuno. Paura che potesse fare del male a qualcuno.

Avevo sperato di essermi sbagliata. Ma non era stato così. E adesso era così terribile…mi sentivo dilaniata, lacerata dentro. Mi sentivo stupida, sporca, colpevole…mi detestavo per essere stata così terribilmente ingenua, per aver creduto alle sue parole, per essere stata l’ennesima pedina di una vendetta pensata da anni e orchestrata per chissà quale motivo.

Ma non potevo permettere che la facesse franca. Per quanto mi costasse, non potevo stare zitta.

“Oliver…io credo di sapere chi possa essere stato”, sussurrai.

Oliver si voltò di scatto verso di me, con lo stupore dipinto sul volto. In pochi istante, i volti di tutti furono rivolti verso di me.

Respirai a fondo, e quando espirai, fu solo un nome ad uscire dalle mie labbra.

 

Fine sedicesimo capitolo

 

 

 

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassettesimo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE

 

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

 

Quando ero bambina, mio padre mi diceva sempre che non esisteva nulla di più sacro e buono della verità. La verità rendeva liberi, rendeva uomini migliori. La verità riportava alla luce anche chi era precipitato nelle tenebre.

Io, allora, credevo ciecamente alle sue parole e avevo imparato che non dovevo dire le bugie: non tanto perché era sbagliato, ma perché, se lo avessi fatto, mi sarei sentita talmente tanto in colpa verso mamma e papà che non mi sarei più goduta nulla, nemmeno le cose belle.

Ero stata una ragazzina che non sapeva tenere un segreto; la mamma era la mia confidente e non le nascondevo nulla, ma quando sentivo di avere nel cuore un grosso peso da confessare, era da papà che andavo e non trovavo pace finché lui non mi sorrideva.

Dopo essere rimasta sola al mondo, avevo imparato a tenermi tutto dentro. Sapevo che a zia Audrey non importava nulla di me e dei miei sentimenti, così ero diventata una persona riservata, chiusa, che condivideva con gli altri solo lo stretto indispensabile per comunicare. Speravo che con l’arrivo di Oliver le cose sarebbero cambiate e che il nostro matrimonio si sarebbe fondato sulla sincerità, oltre che sull’amore.

Invece, da quando ero arrivata a villa Hutton, avevo vissuto in un crescendo di bugie e di segreti. I segreti di mio marito, i miei…avevo passato mesi a giustificarmi con me stessa per la mia relazione con Carlos, cercando di convincermi che avevo tutto il diritto di cercare altrove l’amore che Oliver mi stava negando, ma il risultato era stato solo che, con il passare del tempo, avevo fatto sempre più fatica a guardarmi allo specchio. Finché provavo a vivere alla giornata andava tutto bene, ma mi bastava fermarmi un attimo a pensare ai miei genitori per sentirmi travolgere da un’ondata di sensi di colpa, come quando ero bambina e nascondevo a papà un brutto voto preso a scuola.

Eppure in qualche modo ero riuscita a tenere quella verità dentro di me. Non avevo mai raccontato nulla a nessuno, e sapevo che una parte di me aveva vissuto la perdita del bambino come la giusta punizione per le mie menzogne.

Ma quest’ultimo segreto no, non sarei riuscita a serbarlo dentro di me. La rivelazione che avevo avuto mentre Patricia cercava a fatica di ricordare il suo aggressore mi avrebbe fatto male per tutta la vita, lo sapevo. Non so se era di più l’orrore per ciò che quell’uomo era stato capace di fare, la rabbia per la catena di dolore a cui aveva dato vita o il disprezzo verso me stessa per essere stata così ingenua, per aver creduto ciecamente a ogni sua parola, per avergli affidato una parte della mia anima che ora sentivo di aver perduto per sempre. Ora che tutti i tasselli del puzzle cominciavano a tornare al loro posto, dentro di me cresceva la consapevolezza di essere stata usata per una vendetta di cui continuava a sfuggirmi il motivo.

La cosa più triste…era che avrei voluto odiarlo. Avrei voluto detestarlo con tutte le mie forze, considerarlo un mostro, considerare i momenti trascorsi con lui alla stregua di un brutto sogno…ma non potevo farlo. Non potevo dimenticare i giorni in cui per me era stata l’ancora cui aggrapparmi, l’unica ragione di vita, l’amore che avevo sempre desiderato incontrare…non potevo dimenticare il calore delle sue braccia mentre mi stringevano, la morbidezza delle sue labbra, la dolcezza della sua voce…non potevo dimenticare le sue parole e la gioia che mi era esplosa nel cuore quando mi aveva detto che mi amava…neanche ora che sapevo che aveva sempre mentito, per tutto il tempo.

Volevo odiarlo e non ero capace. Non potevo neanche amarlo, no, non più. Però, odiarlo era impossibile. Era troppo.

Dopo che avevo fatto il suo nome, il salotto era calato in un silenzio ancora più gelido dei precedenti.

Oliver mi aveva guardato con gli occhi sgranati, come se fosse impazzita. Poi si era rivolto a Patricia, che, al suono di quel nome, mi era sembrata ancora più spaventata.

“Chi…chi è questo Carlos?”, aveva chiesto con voce tremante.

“E’ un cameriere che lavora in questa casa. È di origini sudamericane, probabilmente, e potrebbe corrispondere alla tua descrizione ma…è muto”, rispose Oliver sbigottito.

Io scossi la testa. “No, Oliver, non è muto. Fa finta di non saper parlare…ma in realtà può farlo benissimo. Io lo so”, dissi in tono definitivo.

“Come…”, cominciò a chiedere mio marito, ma Amy lo interruppe bruscamente.

Sapevo che voleva chiedermi come facevo a sapere che Carlos non era muto e mi dimenai a disagio sulla sedia, pur continuando a sostenere il suo sguardo con apparente tranquillità.

“Dove si trova adesso quest’uomo, Oliver?”, chiese Amy con voce stridula. “Se è stato davvero lui ad aggredire Patricia, dobbiamo farlo arrestare immediatamente!”

“Amy, devi calmarti!”, ribatté Oliver in tono perentorio. “Intanto dobbiamo mandare qualcuno a cercarlo…verificare se il sospetto di Kathleen è giusto…magari vedendolo Patricia potrebbe ricordare dell’altro”.

“Non serve cercarmi…sono già qui”, disse all’improvviso una voce profonda che conoscevo molto bene.

Sobbalzai dalla sedia e così fecero anche gli altri. Carlos era entrato all’improvviso dalla portafinestra del salotto. Così alto, scuro e imponente, sembrava una presenza quasi minacciosa…nei suoi occhi notai immediatamente quella luce vagamente crudele che mi aveva impressionata quando ci eravamo detti addio sulla spiaggia, non più di un mese prima. I suoi ricci bruni erano scompigliati, indossava una logora t-shirt bianca e un paio di vecchi jeans. Era scalzo e avanzava lentamente verso di noi, passando in rassegna i vari visi che lo osservavano sgomenti…poi si soffermò su Patricia e fece un sorriso maligno.

“Bentornata, signora Hutton”, disse in tono sarcastico, accarezzandola con lo sguardo.

La sua espressione mi dava i brividi. Istintivamente, mi rannicchiai verso Tom.

Patricia emise un urlo altissimo, cominciò a tremare con violenza e nascose il viso sulla spalla del marito, come se il suono di quella voce la terrorizzasse.

“Tranquilla, tesoro, tranquilla, nessuno ti farà più del male”, la rassicurò Oliver. Poi, dopo averla affidata all’abbraccio protettivo di Amy, si alzò in piedi e andò a fronteggiare Carlos. Non avevo mai visto Oliver così teso e livido. Aveva la mascella contratta e un’espressione dura, quasi furente dipinta sul volto. Arrivò a pochi passi da Carlos e lo guardò dritto negli occhi.

“Dunque, sei stato tu a rapire e tenere prigioniera mia moglie?”, chiese con voce ferma.

Il viso di Carlos non tradì la minima emozione. Dalle sue labbra non uscì il minimo suono.

“Smettila con questa sceneggiata. Sappiamo che non sei muto”, si alterò Oliver. Vedevo che la mano gli stava tremando e avevo paura che da un momento all’altro avrebbe alzato le mani su Carlos. Avrei voluto gridargli di non farlo…l’espressione dell’altro uomo era assolutamente spietata e sentivo che non si sarebbe fermato di fronte a nulla. Del resto, quali scrupoli poteva avere un uomo che aveva aggredito e tenuto sequestrata una donna indifesa? Quali scrupoli poteva avere un uomo che mi aveva ingannato, che aveva finto di amarmi e comprendermi solo per portare avanti la sua vendetta?

“No, non lo sono. Ma fingere di esserlo era l’unico modo per resistere alla tentazione di venire da voi e buttarvi in faccia tutta la verità, subito. Ogni giorno ho dovuto lottare per non farlo. Ma non sarebbe stata la stessa cosa. La vendetta è un piatto che va servito freddo”, sibilò in tono gelido, velato dall’odio.

Patricia singhiozzava, il viso affondato nel grembo della sorella.

“Ti rendi conto di quello che hai fatto a mia moglie?”, gridò Oliver, il viso contratto dalla rabbia.

“A quale delle due, Oliver? Guarda che io ho conosciuto molto bene entrambe le tue signore. Ti hanno raccontato anche questo…o mi hanno lasciato la parte migliore?”, rispose l’altro con sarcasmo, ammiccando prima a me poi a Patricia.

Mi sentii avvampare, poi gelare, poi travolgere da una furia intensa. Come avevo potuto essere così ingenua e lasciarmi incantare da un essere così spregevole?

“Non so di cosa parli”, fece mio marito, ma vedevo che la sua sicurezza per un istante aveva vacillato.

“Chissà se le tue signore possono dire la stessa cosa. Dimmi, Patricia…ti ricordi di quella volta sulla spiaggia? Eh? Non puoi averla dimenticata….ci siamo divertiti così tanto”. Carlos fece per avvicinarsi a Patricia, ma Oliver lo fermò opponendosi con il suo stesso corpo.

“Cosa stai dicendo? Stai lontano da lei”, gridò furibondo.

Vidi Patricia alzare la testa e girarsi verso i due uomini. Il viso era ancora rigato di lacrime, ma nei suoi occhi sembrava brillare una nuova determinazione.

“Oliver, lascia che ti spieghi. Credo…credo di ricordare ora”. Si alzò in piedi e faticosamente, ma con decisione, li raggiunse. Entrambi si volsero a guardarla, Oliver quasi impaurito, Carlos con un ghigno trionfante sul volto.

“Ecco…fu prima…di Madeleine”, cominciò a raccontare Patricia, e notai che un’ombra di dolore le aveva attraversato lo sguardo mentre pronunciava quel nome. “Noi non riuscivamo ad avere dei bambini e io…io mi sentivo profondamente in crisi…mi sentivo inutile, fallita…sminuita nel mio ruolo di donna, di moglie. Non sapevo cosa fare, poi, mentre ero nella sala d’attesa del nostro dottore, mi consigliarono il nome di un grosso specialista di Londra. Così un giorno, di nascosto, andai da lui. Mi visitò, mi fece fare tutta una serie di esami…alla fine mi disse che io non avevo nessun problema. Avrei potuto mettere al mondo tutti i figli che desideravo”. Patricia abbassò il capo e si passò nervosamente una mano sugli occhi; notai che la mano le stava tremando visibilmente. “Allora gli domandai per quale motivo, in dieci anni di tentativi, non ero mai riuscita a rimanere incinta. Lo specialista mi disse…che avrei dovuto chiedere a mio marito di sottoporsi a degli accertamenti, per verificare…se fosse lui ad essere sterile”. A quelle parole la voce di Patricia si spezzò e vidi che anche Oliver appariva sgomento.

“Tornai a casa decisa a raccontarti tutto, a chiederti di andare insieme dallo specialista…ma non ne ebbi il coraggio. Questa cosa mi distrusse dentro…mi sentivo profondamente vigliacca e inoltre il nostro matrimonio cominciò ad apparirmi sotto una diversa prospettiva. Prima mi sentivo in colpa perché non ero capace di darti un figlio…poi…cominciai a pensare che invece era a causa tua che il nostro sogno non si realizzava…e mi allontanai da te. Ho sbagliato…avrei dovuto parlartene, chiederti di affrontare questa cosa insieme, come avevamo sempre fatto. Ma ebbi paura…e preferii rinchiudermi in me stessa. Poi un pomeriggio…mentre passeggiavo sulla spiaggia…incontrai Carlos…e cominciammo a parlare. Sulle prime rimasi stupita, poiché pensavo che fosse muto…ma poi dimenticai questo particolare e fui completamente presa dalle sue parole…perché sembrava sapere esattamente cosa avevo bisogno di sentirmi dire in quel momento. Era così dolce…così partecipe…sembrava leggermi nell’anima come nessuno era mai riuscito a fare, nemmeno tu. Mi diceva cose che in quel momento erano come balsamo sulle mie ferite. Riuscì in qualche modo a sollevarmi il morale, a farmi pesare di meno il dolore, la rabbia e il senso di colpa”.

Il mio cuore ebbe un fremito nell’udire queste parole. Mi ritrovavo benissimo in ciò che Patricia stava rievocando. Anche per me era stato così, all’inizio, quando avevo conosciuto meglio Carlos e avevo creduto di trovare, in lui, quella comprensione che non riuscivo a cogliere in mio marito, quella tenerezza di cui avevo bisogno per affrontare la durezza delle mie giornate.

“Ogni tanto ci incontravamo sulla spiaggia…come buoni amici. Passeggiavamo, chiacchieravamo…i nostri incontri per me erano boccate d’ossigeno…dopo aver parlato con lui mi sentivo meglio…sollevata…più serena…Finché un pomeriggio…avevamo litigato, io sentivo il peso del segreto che portavo dentro opprimermi come non mai, mi sentivo così fragile, così vulnerabile…corsi sulla spiaggia a piangere…era l’unico posto dove mi sentivo libera di essere me stessa, di dare sfogo a tutte le mie emozioni…Poco dopo arrivò lui…mi prese tra le braccia, mi confortò…fu solo un attimo di debolezza…non mi resi conto di quello che stavo facendo…ma…ma…ci ritrovammo a fare l’amore sulla spiaggia”, la voce di Patricia divenne un debolissimo sussurro e cominciò nuovamente a piangere, con gli occhi bassi per la vergogna.

Vidi Oliver barcollare leggermente, come un pugile che ha subito un diretto fortissimo. Anche per me il colpo era stato duro. Avevo pensato che Carlos mi amasse, che veramente fossimo legati da un destino indissolubile, più forte di tutto il resto…invece, per lui, era stata solamente la replica di una recita già messa in atto con un’altra donna.

Lo guardai. Era rimasto impassibile e guardava Patricia con aria di sfida, come per incitarla a raccontare anche il resto della storia. Istintivamente, compresi che non era finita lì.

“Accadde solo quella volta…me ne pentii immediatamente e fuggii via, gridando a Carlos che non sarebbe dovuto succedere mai più. I sensi di colpa mi tormentarono a lungo…ma non volevo mandare all’aria il nostro matrimonio per un istante di debolezza. Passai lunghi giorni a riflettere e mi dissi che io ti amavo da sempre e che nulla, nemmeno la mancanza dei figli, avrebbe potuto scalfire il sentimento che ci univa. Decisi di lasciarmi tutto alle spalle e di affrontare la nostra vita insieme con uno sguardo nuovo, senza pensare a ciò che ci mancava, ma a tutte le cose belle di cui potevamo godere insieme. Poi…un mese dopo…del tutto a sorpresa, scoprii di aspettare un bambino. All’inizio ne fui felicissima…il nostro sogno, finalmente, si avverava, dopo tanta attesa, dopo tante delusioni. Ero convinta che il bambino fosse nostro…il figlio che desideravamo da tutta la vita…quando ti scrissi quella lettera ero sicura che fosse così ed ero veramente al settimo cielo. Poi, come un fulmine a ciel sereno, mi ricordai di quel che era accaduto con Carlos…e con orrore mi resi conto che il bambino poteva essere figlio suo…”.  

Un brivido mi percorse la schiena, mentre osservavo Oliver, completamente raggelato. La bocca di Carlos si contorse in una smorfia indecifrabile, il suo sguardo però rimase gelido. Patricia piangeva debolmente e tremava. Mi guardai intorno. Tom continuava a tenermi la mano, mentre osservava la moglie del suo più caro amico con sguardo assente; Julian si teneva la testa tra le mani e guardava in basso, mentre sua moglie Amy, impietrita, fissava la sorella con occhi sbarrati.

“Passai dei giorni a tentare di autoconvincermi che il bambino fosse di Oliver…ma avevo sempre una vocina dentro di me che mi instillava il dubbio…ero annientata dai sensi di colpa e avevo anche paura che Carlos, una volta saputo della mia gravidanza…potesse dire qualcosa o rivendicare dei diritti su mio figlio…così lo affrontai…mi incontrai con lui, sulla spiaggia…e gli dissi…gli dissi che ero incinta, ma che lui non doveva nemmeno essere sfiorato dall’idea di poter essere il padre del figlio che aspettavo…gli dissi che quel bambino era e sarebbe stato mio e di Oliver…e che lui non avrebbe mai dovuto rivelare del nostro…della nostra….beh, insomma…a nessuno…lui mi disse che potevo stare tranquilla…ma a me non bastava. Con il passare dei giorni mi sentivo a disagio…la sua sola presenza mi disturbava…avevo paura che non avrebbe mantenuto la sua promessa…avevo paura che il bambino potesse assomigliargli e che qualcuno, vedendoli, potesse capire che non era figlio di mio marito…così…gli dissi che se ne doveva andare via da Villa Hutton, altrimenti mi sarei inventata qualcosa per farlo licenziare”.

“Volevi gettarmi via come una scarpa vecchia, ecco cosa volevi fare!”, gridò all’improvviso Carlos, cogliendo tutti alla sprovvista. “Ti eri servita di me per farti mettere incinta, dato che tuo marito non riusciva ad avere figli, e poi, una volta ottenuto quello che volevi, io dovevo scattare ai tuoi ordini e sparire, come se fossi stato io ad aver sbagliato!”.

Patricia scosse il capo, il viso rigato dalle lacrime. “Non è vero!”, urlò disperatamente. “Io non mi sono servita di te per rimanere incinta! Non è vero! Io non volevo farlo…è stato un attimo di debolezza…ma io non volevo ingannare Oliver!”. Si voltò verso di lui, con sguardo implorante.  “Io non volevo tradirti, o ingannarti, Oliver…io ho sempre amato solo te, lo giuro…Credimi, ti prego!”, lo supplicò. Cercò di prendergli la mano, ma Oliver la respinse bruscamente e si allontanò barcollando come un ubriaco. Poi si lasciò cadere sul divano accanto a Amy, sfinito, travolto dalle troppe emozioni di quella giornata infinita. Provai per lui una pena profonda e anche un terribile senso di colpa…perché anche io, involontariamente, gli avevo fatto la stessa cosa che aveva fatto Patricia…lo avevo tradito con un altro uomo…lo avevo ingannato, nascondendogli il fatto che potevo essere incinta di un altro uomo…chissà se Oliver lo aveva capito o se, troppo sconvolto dalla scoperta del tradimento di Patricia, in quell’istante non si ricordava nemmeno della mia esistenza.

“Hai detto…di aver conosciuto bene entrambe…entrambe le mie signore…”, sussurrò in quel momento con voce spezzata. “Quindi…anche tu Kat…”, mi rivolse uno sguardo disperato e io sentii stringermi il cuore per il dolore.

Annuii debolmente, abbassando lo sguardo per non incrociare il suo. Tom lasciò andare la mia mano, anch’egli deluso e ferito, e io strinsi nervosamente l’orlo della gonna, sforzandomi di non piangere.

Oliver chinò il capo, sconfitto. “Ho capito…quindi, Carlos, non ti sembrava di aver fatto abbastanza… dopo tutto ciò…hai sequestrato mia moglie per mesi facendomela credere morta…ti sei portato a letto la donna con cui volevo ricostruirmi una vita…perché?”, domandò, alzando su Carlos il suo sguardo tormentato.

“E’ colpa mia”, singhiozzò Patricia. “Carlos si…si arrabbiò terribilmente quando gli dissi di andarsene da Villa Hutton. Ci fu una litigata tremenda…mi disse delle cose terribili…che l’avevo usato…che mi ero servita di lui per restare finalmente incinta…mi insultò nei peggiori modi possibili…e mi disse…che non se ne sarebbe andato. Mai. Mi disse che…”

“Che aveva messo in gioco tutta la sua vita per vivere a Villa Hutton e nessuno lo avrebbe mai convinto ad andarsene”, completai la frase io.

Patricia alzò gli occhi e per la prima volta mi fissò dritta in faccia. “Sì…come…come puoi saperlo?”, mi domandò, spiazzata.

Feci una smorfia amara. “Perché è ciò che ha risposto a me quando gli dissi che aspettavo un bambino”, sussurrai.

Mi alzai dal divano e, come trasognata, mi avvicinai a Carlos. Ben presto fui di fronte a lui e cominciai a scrutare nella profondità delle sue iridi scure. “E’ per vendicarti di Patricia che hai fatto tutto questo? Che ti sei servito di me?”, gli dissi in tono duro e diretto.

Carlos sogghignò. “Di Patricia? Pensate che abbia fatto tutto questo per Patricia?”, chiese in tono derisorio. La guardò con disprezzo. “Non ho certo messo in gioco la mia vita per te, cara Patricia. È stato divertente, sì…mi ha dato una grande soddisfazione. E lo stesso vale per te, cara Kathleen. Ma devo essere sincero, non mi importava più di tanto di voi…né dei marmocchi che probabilmente abbiamo concepito insieme…L’unica persona di cui volevo vendicarmi….eri tu”, disse freddamente, guardando Oliver con sguardo carico di rancore.

Mosse qualche passo verso di lui, minaccioso e furente. “E’ per questo che mi sono portato a letto tua moglie. È per questo che l’ho rapita e tenuta prigioniera per mesi, mentre tu ti disperavi credendola morta. È per questo che ho fatto in modo che la tua mogliettina nuova di zecca si innamorasse di me…ed è per questo che ho fatto ricomparire la tua cara Patricia giusto in tempo per presenziare alle tue nuove nozze. Per te, Oliver. Ho fatto tutto per te. Dovresti sentirti onorato”.

Oliver, che appariva ancora frastornato dalle rivelazioni appena ricevute, sgranò gli occhi. “Per me? Sei pazzo. Io non ti ho fatto mai niente. Ti ho sempre trattato con rispetto”, obiettò.

Carlos emise una risata di scherno, che sembrò quasi uno sputo. “Rispetto…mi hai sempre trattato come un domestico!”, sibilò con una voce completamente distorta dall’odio.

Mio marito appariva basito. “Beh…è quello che sei sempre stato in questa casa…”

Il viso dell’altro uomo era livido di rabbia e i suoi bei lineamenti erano sfigurati dal tanto rancore e dolore che ora portava inciso sul volto. “Già…per questo ti ho odiato. Io ero il domestico…tu avevi tutto…eri trattato come un principino, ricco, viziato…avevi il posto che sarebbe spettato a me…io avrei dovuto essere alla pari con te, invece…sono stato trattato sempre come un reietto…tenuto ai margini, messo con la servitù…e trattato come un domestico…da chi invece avrebbe dovuto coccolarmi come ha fatto sempre con te…”

“Ma di cosa stai parlando, dannazione?”, esclamò Oliver.

Carlos guardò verso di me. “Ti ho già parlato delle mie origini, vero, Kat? Ti ho raccontato che sono cresciuto da solo con mio padre…che lui beveva e mi picchiava…e che ho vissuto i primi dieci anni della mia vita credendo che mia madre fosse morta”, mi disse.

Annuii con il capo, domandandomi cosa tutto questo c’entrasse con mio marito.

“Finché un giorno mio padre, più ubriaco e arrabbiato del solito, non mi ha sbattuto in faccia la verità. Mia madre non era morta. Mi aveva abbandonato subito dopo la nascita…se n’era andata lasciando me, un neonato di poche ore, in balia di quel pazzo di mio padre…e non era più tornata a chiedere mie notizie…non si era mai più preoccupata di me…”. Di nuovo vidi riflessi sul suo volto il dolore e la nostalgia che avevo notato quando, per la prima volta, mi aveva parlato della sua triste infanzia. “Mia madre era una signorina di buona famiglia. I suoi genitori avevano già combinato per lei un fidanzamento con un uomo ricco e influente…ma lei si innamorò di mio padre. All’epoca lui non era ancora un alcolizzato…era un immigrato del Sudamerica umile e onesto come tanti e per mantenersi lavorava come stalliere in un maneggio. Mia madre si recava lì ogni giorno per passeggiare a cavallo…si incontrarono…e si innamorarono. Intrecciarono una relazione, ma lei, per quanto ingenua e innamorata, sapeva che la sua famiglia non avrebbe mai acconsentito alla loro unione. Poi…si accorse di essere incinta. Mio padre fu felicissimo quando lei glielo disse, ma mia madre invece era terrorizzata, per quella che sarebbe stata la reazione dei suoi genitori. Decisero di scappare insieme…per qualche mese vissero in una baracca a pochi chilometri da qui, mentre mio padre si arrangiava con dei lavoretti per riuscire a mantenere entrambi. Mia madre non era abituata a quella vita di stenti e sacrifici…si ammalò…era debolissima e la sua gravidanza avanzata non l’aiutava…mio padre ebbe paura che morisse e fu costretto a riportarla dai suoi genitori. Era troppo tardi per farla abortire, così essi accettarono che lei proseguisse la gravidanza e partorisse…ma dopo che fui nato, dissero a mio padre di portarmi via e di non farsi più vedere, né da loro, né dalla figlia. Lui si ribellò, disse che mia madre, appena si fosse ripresa, se ne sarebbe andata via con lui…ma…io non so se i suoi genitori le abbiano detto qualcosa, in che modo siano riusciti a convincerla…ma fu lei stessa a dirgli di andarsene e di portarmi con sé…mio padre ne fu distrutto ma acconsentì. La rabbia e il dolore lo consumarono, tanto che alla fine diventò un violento, un alcolizzato…non riusciva ad amarmi perché la mia sola presenza gli ricordava costantemente mia madre e così mi picchiava…quando quel giorno mi disse la verità…io pretesi di sapere chi fosse realmente mia madre…se fosse ancora viva. E lui mi rivelò il suo nome…”. Il racconto di Carlos a quel punto si interruppe e lui fissò intensamente mio marito.

“Dimmelo”, sussurrò Oliver, con l’aria di chi già aveva compreso la verità.

“Lo sai già, Oliver, ma se vuoi te lo dico…mia madre si chiamava…Maggie Hutton…”

 

Fine diciassettesimo capitolo

 

 

 

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Capitolo 18
*** CAPITOLO DICIOTTESIMO ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE
 
CAPITOLO DICIOTTESIMO
 
“Mia madre si chiamava….Maggie Hutton…”
Oliver, pallidissimo, fissava con gli occhi sgranati l’uomo che si trovava di fronte a lui…il suo fratellastro…quando avevo sentito Carlos pronunciare quelle parole, istintivamente mi ero portata una mano alla bocca…tutto sembrava ora così chiaro, ma al tempo stesso così folle, così assurdo. Carlos aveva scoperto chi era la sua vera madre e per quello, non per caso, si era trovato sulla spiaggia di Villa Hutton, dove la stessa Maggie lo aveva raccolto…aveva trascorso anni nella parte del domestico, sperando chissà, che magari sua madre lo riconoscesse e lo accogliesse nella sua vita come quello che lui desiderava essere, suo figlio, sangue del suo sangue…ma questo non era mai successo. Doveva essere enorme la frustrazione che Carlos aveva provato in quegli anni…trovarsi a pochi passi dalla donna che lo aveva messo al mondo e sapere di non contare nulla per lei…vedere Oliver crescere circondato dall’amore di sua madre, da agi e ricchezze che Carlos, nella sua vita miserabile trascorsa nella baracca, insieme a un padre che lo detestava e lo maltrattava, non aveva potuto nemmeno permettersi di sognare. L’odio e il rancore dovevano avergli annebbiato la mente…e spingerlo probabilmente a pensare che l’unico modo per avere giustizia fosse vendicarsi di Oliver, farlo soffrire terribilmente, come aveva sofferto lui per così tanto tempo…farlo sprofondare nella solitudine, colpendolo in quello che era il suo evidente punto debole…Patricia, l’amatissima moglie…e poi io…la speranza di una nuova vita dopo la tragedia che gliel’aveva portata via…
“Non ti credo”, disse freddamente Oliver, anche se io notavo che non riusciva a guardare il suo presunto fratellastro negli occhi e che la mano gli tremava impercettibilmente.
Carlos fece una risata di scherno. “Stai mentendo, caro fratello mio…lo capirebbe anche un cieco che in realtà mi credi, eccome. Se vuoi, però, possiamo sottoporci a un bel test del dna…pensa che scandalo sarebbe, se venisse fuori che la stimata e decantata signora Hutton aveva un figlio segreto…un cameriere, un sudamericano…una bella pubblicità per la tua nobile famiglia, non c’è che dire…come se non bastasse quella che ti creerà il ritorno della tua bella moglie…”
“Basta!”, gridò mio marito, stringendo i pugni e fissando Carlos con rabbia feroce. “Non ti permetto di offendere mia madre in questo modo!”
Nostra madre”, disse Carlos, facendo bene attenzione a sottolineare con la voce l’aggettivo nostra, “ha sacrificato suo figlio per vivere una vita tranquilla e agiata. Non si è mai nemmeno posta il problema di sapere se fossi vivo, se stessi bene…non ha mai cercato né me né mio padre. Quando mi ha incontrato sulla spiaggia non mi ha nemmeno riconosciuto…e io che mi illudevo che, vedendomi, avrebbe riconosciuto il richiamo del sangue e mi avrebbe preso con sé. Stupido…ero solo un ragazzino ingenuo. Quel giorno…passeggiavo sulla spiaggia sconvolto, riflettendo sulla verità che mi aveva appena rivelato mio padre…pensavo a  mia madre, che non mi aveva voluto, che mi aveva abbandonato per non rinunciare alle sue ricchezze, agli agi che la sua famiglia le garantiva e che mio padre non avrebbe mai potuto offrirle. Poi me la trovai davanti….stava passeggiando anche lei ed era bellissima…indossava un abito chiaro e aveva i capelli sciolti sulle spalle…quasi la scambiai per un angelo. Restai immobile, a malapena riuscivo a respirare. Era tutto ciò che avevo desiderato nella vita…lei…un suo sguardo, una sua carezza, un suo abbraccio. Per un momento pensai che quell’incontro fosse un segno del destino. Ero certo che lei mi avrebbe riconosciuto…che mi sarebbe corsa incontro e si sarebbe gettata ai miei piedi, chiedendomi perdono. Poi mi avrebbe portato a casa sua e presentato a tutti come suo figlio ed io sarei entrato a far parte della sua famiglia a testa alta. Mia madre mi avrebbe amato e avrebbe passato ogni giorno a dimostrarmi che non voleva abbandonarmi, che era stata tutta colpa di mio padre. Del resto chi, a vederla così bella, con quell’espressione così pura e innocente sul volto, avrebbe potuto accusarla di qualcosa di così orribile? Ai miei occhi di bambino, era sempre mio padre il mostro; lui, sempre ubriaco, violento, arrabbiato con se stesso e con il mondo intero. Lei…sembrava un angelo salvatore. La vidi sgranare gli occhi e accelerare il passo per raggiungermi. Ero sicuro, sicuro che mi avesse riconosciuto…anche se l’ultima volta che mi aveva visto ero solo un neonato. Mi sbagliavo…”. Carlos si passò la mano tra i capelli, con un’espressione di rabbia e dolore insieme che mi fece stringere il cuore per un istante. Oliver era sempre più pallido e sconvolto, ma non accennò a interromperlo. Patricia, seduta su una poltrona, piangeva in silenzio, il viso nascosto nella spalla di sua sorella. Tom mi venne vicino e mi strinse forte una mano, ma io quasi non me ne accorsi…tutta la mia attenzione era rivolta a Carlos e al suo terribile racconto.
“Poi lei mi si avvicinò e mi studiò con attenzione per qualche istante. Sentivo il cuore battere così forte che temevo potesse uscirmi dal petto da un momento all’altro. –Ehi ragazzino, ti sei smarrito?, mi disse infine. Rimasi talmente incredulo da non riuscire a rispondere. –Non ti ho mai visto da queste parti. Ti sei perduto?-, ripeté lei, ed io, pur nel mio stordimento, cominciai a rendermi conto del significato delle sue parole. Seppi che non mi aveva riconosciuto…non aveva capito che ero suo figlio. Qualcosa si spezzò dentro di me e non riuscii a trovare la forza per risponderle. Lei continuò a fissarmi, con quello sguardo dolce e quei suoi occhi così belli…ed io desiderai morire, sopraffatto dal dolore che la fine delle mie illusioni mi procurava. Fui tentato, per un attimo, di dirle tutta la verità…di presentarmi a lei come Demian Gutierrez, il figlio nato dal suo amore con Carlos Gutierrez, lo stalliere…il figlio che lei aveva rifiutato subito dopo la nascita. Ma mi mancò il coraggio…così mi limitati a guardarla. –Non puoi parlare?-, mi domandò lei dopo qualche istante di silenzio. Istintivamente annuii con il capo. Mi chiese se fossi orfano ed io risposi di sì, sempre senza aprire bocca. Rifiutai di parlare come se temessi che la mia voce potesse in qualche modo tradirmi. Poi non so cosa accadde. Forse ebbe compassione di me…forse una recondita parte della sua coscienza le parlò…fatto sta che mia madre mi disse di seguirla fino a Villa Hutton. Mentre camminavamo verso la sua casa, mi raccontò di sé e della sua famiglia. Mi disse che nella sua villa aveva molti domestici e che mi avrebbe istruito per diventare uno di loro. Volevo gridare no, correre via, andarmene il più lontano possibile da lei…ma la sua presenza era quasi ipnotizzante e in fondo, non avevo nulla da perdere. A casa mi aspettavano solo le botte di mio padre. Almeno a Villa Hutton sarei stato accanto a mia madre…ancora mi illudevo che un giorno avrebbe capito chi ero realmente. Per il momento, mi sarei impegnato con tutto me stesso per diventare ciò che lei desiderava che fossi. Un domestico: bravo, servile, ubbidiente. Mi affidò a Frank affinché mi insegnasse il mestiere e siccome non sapeva il mio nome, me ne diede uno lei: Carlos. Era quasi ironico che mi avesse dato il nome di mio padre…per me era un segno che in fondo, nel suo cuore, si ricordava di lui, di noi. Amai quel nome come non avevo mai amato il mio vero nome, per il solo fatto che me l’aveva dato lei. Per registrarmi inventò anche il cognome Santana, spiegandomi che le sembrava adatto a me e suonava bene con il mio nome. Amavo il suono di quel  nome…era come se fossi rinato una seconda volta. Mi impegnai ad ascoltare Frank e ad obbedire…lavorai sodo, più di qualunque altro servitore presente nella villa, perché non volevo deluderla. Tutto il mio tempo libero era dedicato ad osservare lei: era come un’ossessione per me. La spiavo in ogni momento della giornata, stando attento a non farmi vedere. Volevo imprimere nella mia mente ogni suo gesto, ogni sua espressione….cercare delle tracce, delle somiglianze che ci identificassero come madre e figlio. Scoprii che aveva la mia stessa risata. Che amava leggere e andare a cavallo. Che era dolce e affettuosa con suo marito, l’uomo che i genitori le avevano imposto al posto di mio padre. E soprattutto…scoprii che madre meravigliosa era con te, Oliver. Stavate sempre insieme. Giocavate, passeggiavate, facevate lunghe chiacchierate sulla spiaggia, andavate a cavallo insieme. Vivevate in simbiosi. Nei vostri volti leggevo inciso l’amore reciproco…e ogni volta che vi osservavo, sentivo il mio cuore sanguinare dolorosamente. Non potevo guardarvi senza desiderare per me gli sguardi, le carezze, i buffetti affettuosi e gli abbracci che nostra madre ti riservava…senza desiderare di poter passeggiare con lei sulla spiaggia, ammirare il tramonto…anche solo parlare, sentire il suono della sua voce mentre mi diceva che mi voleva bene, chiamarla finalmente mamma…Ma tutto questo era tuo, solo ed esclusivamente tuo. Lei era buona con me, era gentile, generosa. Spesso mi domandava se mi trovassi bene. Mi faceva dei piccoli regali per ricompensare la mia buona condotta. Ma per lei ero solamente un domestico…il sentimento più forte che nutriva nei miei confronti era la pietà. Una parte di me desiderava andarsene, per non vivere più quel tormento quotidiano…l’altra invece era talmente ossessionata da lei da non riuscire a concepire nemmeno il pensiero di non vederla più. Ormai la mia vita era stare lì, accanto a lei…come un’ombra. E così passarono gli anni…fino a quel giorno di cinque anni fa….”
“Stai parlando dell’incidente di mia madre?”, domandò Oliver con voce di pietra.
Carlos annuì. “Quel giorno Frank non c’era, così fui io ad accompagnarla al maneggio. Lei uscì col suo cavallo per la consueta passeggiata ed io rimasi ad attenderla. Ero seduto su una panchina, quando mi si avvicinò un uomo completamente coperto di stracci e dal fiato puzzolente. Impiegai alcuni secondi prima di capire che si trattava di mio padre. Lui fu più veloce di me a riconoscermi…era ubriaco fradicio, come quando ero fuggito di casa tanti anni prima, e cominciò a ridere appena mi vide. –Ma guarda, chi si rivede, il mio caro figliolo! Pensavo che fossi morto!-mi apostrofò. Ero disgustato dalla sua vista e preoccupato per il fatto che lei potesse rientrare dalla passeggiata e vederlo. –Bene, continua a fare come se lo fossi-, gli risposi. Ma lui era completamente fuori di sé e la mia risposta lo fece inalberare. –Ah certo! Come se non sapessi dove vivi ora…lì alla villa…a fare il cameriere alla donna che ti ha messo al mondo e al tuo dolce fratellino privilegiato! Dimmi…ti tratta bene almeno la mammina? Meglio del tuo schifoso padre alcolizzato, vero? – Lo afferrai con furia per il bavero della camicia sudicia che indossava. –Smettila! Non sei degno neanche di nominarla-. Mio padre scoppiò a ridere. –Ma certo…io sono feccia, lei invece una gran signora. Peccato che ti tratti come un servo e non come un figlio. No…lei ha solo un figlio, il suo prezioso Oliver…e a te, piccolo bastardo, ti tiene per lucidargli le scarpe e pulirgli il sedere…-. Le sue parole mi fecero male, perché corrispondevano alla verità…anche se lei era stata sempre gentile con me, mi aveva sempre trattato come un domestico e mai come un figlio, c’era una differenza abissale tra me e te, caro Oliver. Ma non sopportavo di udire queste parole da mio padre, non dopo quello che mi aveva fatto passare durante la mia infanzia. Così lo colpii con un pugno e lo feci cadere a terra. Lui si rialzò, pulendosi la bocca dal sangue e guardandomi con occhi fiammeggianti d’ira. Pensai che mi avrebbe colpito a sua volta…quando lo vidi distorcere le labbra in un ghigno fissando in una direzione alle mie spalle…mi voltai e con orrore vidi che lei stava rientrando dalla sua passeggiata. Teneva per le redini il suo cavallo e camminava con la stessa andatura tranquilla e aggraziata di quando la incontrai per la prima volta sulla spiaggia. Non scorderò mai quest’immagine finché avrò vita.
-Ehi, Maggie! E’ un secolo che non ci vediamo!-, la salutò bruscamente mio padre, avvicinandosi a lei barcollando. La vidi irrigidirsi e fermarsi, con il cavallo che sbuffava leggermente. –Mi scusi, non credo di conoscerla-, rispose altera e fece per oltrepassarlo, ma mio padre le afferrò un braccio. –Forse è passato troppo tempo…tu sei bella come allora, sono io ad essere ridotto un po’ male…ma non ci credo che non riconosci il tuo Carlos…Carlos Gutierrez-. Lei impallidì. Lo scrutò per un istante, come se stentasse a riconoscere in quell’uomo coperto di stracci e palesemente ubriaco colui che aveva amato così disperatamente. Poi sul suo viso apparve un’espressione carica di dolce commiserazione. –Perdonami Carlos, non ti avevo proprio riconosciuto. Come stai?-, gli chiese,
 sforzandosi di essere gentile malgrado l’istintiva ripugnanza che avvertiva in quel momento nei suoi confronti.
Io volevo avvicinarmi per cacciarlo, gridargli di lasciarla in pace e andarsene, ma non potevo rischiare di tradirmi…lei avrebbe scoperto che non ero muto come aveva creduto da anni, mi avrebbe cacciato dalla villa e io non avrei potuto rivederla mai più.
Mio padre scoppiò a riderle in faccia; una risata amara, cattiva, carica di disprezzo. –Sto come mi vedi, amore mio. Ma non mi chiedi di nostro figlio? Non vuoi sapere come sta il nostro piccolo Demian?-. Lei divenne ancora più pallida. Per un attimo guardò verso di me, nervosamente, poi abbassò lo sguardo mordendosi le labbra.
-Ma forse tu lo sai meglio di me, Maggie, dato che vive in casa tua da molti anni…-, disse mio padre con una nota di perfidia che non avevo mai udito nella sua voce.
-Smettila!-, non riuscii a resistere e  mi scagliai contro mio padre, spingendolo di nuovo a terra. Poi mi voltai istintivamente verso di lei, ma non c’era cenno di sorpresa sul suo volto pallido.
Per un attimo sentii i pensieri girarmi vorticosamente nella testa, poi i pezzi del puzzle parvero incastrarsi perfettamente al loro posto e compresi…compresi che lei aveva sempre saputo…sapeva che io potevo parlare…e soprattutto, sapeva che in realtà ero Demian, suo figlio. Avevo capito ma non volevo accettarlo. Volevo che lei mi smentisse…che mi dicesse che non sapeva nulla e che mi buttasse le braccia al collo, chiamandomi finalmente figlio.
-Tu…tu lo sapevi?-, le domandai, tremando da capo a piedi.
Lei rimase immobile e in silenzio per qualche istante, poi annuì, mentre una scia di lacrime cominciava a solcarle il volto.
-Lo hai sempre saputo?-, proseguii incredulo, mentre sentivo che la rabbia e il dolore stavano per prendere il sopravvento su quel briciolo di razionalità che mi restava.
Lei annuì nuovamente e fece un passo verso di me, mentre mio padre si rialzava e si allontanava ridendo di me, della mia ingenuità, delle mie sciocche illusioni.
-Quindi…quel giorno sulla spiaggia mi hai riconosciuto?-
Lei rimase per qualche istante in silenzio. –Non ero sicura…ho pensato subito che si trattasse di te…è anche per questo che ti ho voluto condurre a casa mia…poi osservandoti giorno per giorno ho avuto la conferma…ho riconosciuto la voglia che avevi sul braccio, identica a quella del piccolo che avevo partorito…e ho saputo con certezza che eri mio figlio- Tese una mano come per accarezzarmi, ma io mi scostai bruscamente. Avevo desiderato quella carezza per anni…ora non sapevo più che cosa desideravo. Scoprire che mia madre aveva sempre saputo chi ero realmente e non aveva mai fatto nulla era il peggiore dei tradimenti, la più orribile delle menzogne.
-Allora perché…se hai capito chi ero…perché hai taciuto per tutti questi anni?-, le domandai, sconvolto dal rancore e dalla disperazione.
-Per lo stesso motivo per cui tu non hai mai voluto parlare, anzi, hai finto di essere muto. Per paura, Carlos. Avevo paura di te… ma soprattutto avevo paura di me stessa. Credimi, il rimorso per averti abbandonato non mi dava pace già da molto prima che ti incontrassi. Quando ti ho visto, ha come preso il sopravvento. Era evidente che la mia mancanza aveva distrutto la tua infanzia…che tuo padre non era stato in grado di occuparsi di te come speravo. Non sapevo che fare…e poi c’era la mia famiglia…mio marito…Oliver…loro non sapevano nulla della tua esistenza, dei miei sbagli. Avevo paura che non mi avrebbero perdonato. Avevo paura di leggere l’odio negli occhi di mio figlio, quando avesse scoperto che la mamma che tanto adorava era stata capace…di abbandonare un figlio innocente nato solo da poche ore…-, la voce le si ruppe e scoppiò in singhiozzi. Eppure quel pianto, anziché addolorarmi, mi causava solo altra rabbia, altra frustrazione. E poi tu, Oliver…c’eri sempre tu in cima ai suoi pensieri…solo tu…io non contavo niente….nemmeno il rimorso di mia madre era mio…lei provava rimorso per te, per la delusione che ti avrebbe dato…mi sentii come se mi avesse rinnegato per la seconda volta.
-Tutti questi anni…ho sperato in un cenno che mi facesse capire che mi avevi riconosciuto…ho passato la vita a guardarti da lontano, a fare da servo a te e alla tua famiglia, aspettando…non lo so cosa aspettavo. Volevo solo stare vicino a te. Ero pronto a giustificare quello che avevi fatto…ti difendevo, cercando di convincermi che non potevi sapere chi ero…invece mi hai sempre mentito…sapevi che ero tuo figlio, eppure hai continuato a trattarmi come un servo, un pezzente…-
Lei alzò su di me gli occhi velati di lacrime. –Sono stata egoista, lo so. Anche a me bastava averti vicino…sapere che stavi bene, che eri al sicuro…avevi da dormire e da mangiare. Qualcosa nei tuoi occhi mi diceva…che sapevi di essere mio figlio, ma ho fatto finta di non vedere, di non capire. Sono stata egoista e anche vigliacca. Ma non è vero che non ti ho amato…Rinunciare a te è stata la cosa più difficile della mia vita…ma ero giovane, debilitata da una gravidanza difficile…non avevo la forza di combattere contro i miei genitori e ho voluto convincermi che tuo padre sarebbe stato in grado di prendersi cura di te anche da solo. Vederti quel giorno sulla spiaggia è stata la riprova di tutti i miei errori…Carlos…-, allungò di nuovo la mano verso di me, per toccarmi, ed io…io non volevo farle del male…ma ero arrabbiato, disperato, deluso…ero fuori di me…volevo solo che lei mi stesse lontana, che non mi toccasse…fu un gesto istintivo…la spinsi via con troppa violenza…lei perse l’equilibrio…e cadde…”. Carlos si prese la testa tra le mani, come se il ricordo di quegli istanti fosse troppo difficile da sostenere. “ Mi accorsi troppo tardi di…di quello che avevo fatto. Lei finì per terra e batté la testa. Quando la vidi esanime sul selciato…pensai che fosse morta e che anche il mio cuore avrebbe smesso di battere. Mi chinai, scuotendola lievemente, ma lei non dava cenno di vita. La chiamai…per la prima volta nella vita, pronunciai il nome mamma, proprio quando lei non poteva sentirmi…mi accorsi che respirava ancora e cominciai ad accarezzarle i capelli, sempre chiamandola con dolcezza. Lei aprì gli occhi…tese una mano verso di me, mi accarezzò la guancia…e poi…”Oliver”…chiamò il tuo nome, Oliver. Di nuovo, ancora una volta, Oliver. Io non ero nessuno. Io non contavo niente. La riappoggiai in terra…per un attimo provai l’istinto di ucciderla con le mie mani, ma sapevo che non ne sarei stato capace…non sarei riuscito a fare del male a mia madre di mia volontà. La lasciai lì e me ne andai. Non mi ero accorto che il suo cavallo, spaventato dalla caduta e dalle mie grida, era fuggito verso il maneggio…mentre me ne andavo, vidi che dal maneggio diverse persone si stavano precipitando verso il luogo dell’incidente. Lei fu soccorsa…tutti pensarono che fosse caduta da cavallo ed io non feci nulla per smentire questa convinzione. Decisi che ciò che era accaduto doveva rimanere un segreto fra me e mia madre. Purtroppo…le conseguenze di quell’incidente furono terribili. Lei rimase invalida per sempre. E le volte successive che mi vide, prima di trasferirsi nella villetta isolata dov’è ora, non diede segno di ricordare ciò che era successo o di sapere che ero suo figlio. Io rimasi qui…a guardare te che la accudivi, che ti occupavi di lei…mentre lei ti amava ogni giorno di più. Il suo figlio prediletto…anzi, il suo unico figlio. Tu avevi avuto tutto…io avevo perduto anche quelle poche briciole, le illusioni che mi avevano accompagnato per anni. Mi era rimasta solo la certezza che mia madre non mi aveva mai desiderato come figlio, che mai aveva pensato di accogliermi nella sua vita come un tuo pari. Cominciai ad odiarti, Oliver, profondamente e ferocemente. Con tutte le mie forze, come non avevo mai odiato nemmeno mio padre quando mi picchiava e mi umiliava. Decisi che un giorno avrei trovato il modo di fartela pagare. Quel giorno arrivò quando incontrai Patricia sulla spiaggia e tutta questa storia ebbe inizio. Ecco, ora lo sai, caro fratellino…ora sai chi sono e perché ho fatto tutto questo…spero che sarai soddisfatto…”.
 
FINE CAPITOLO DICIOTTESIMO

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Capitolo 19
*** Capitolo diciannovesimo ***


PATRICIA, LA PRIMA MOGLIE CAPITOLO DICIANNOVESIMO
 
 
La stanza era sprofondata nel silenzio più assoluto. Oliver e Carlos, in piedi 
al centro della stanza, continuavano a fronteggiarsi, ma il primo sembrava 
quasi come un pugile suonato, pallido e sconvolto, il respiro appena 
percettibile, mentre il secondo aveva gli occhi fiammeggianti e un'espressione 
quasi trionfante dipinta sul bel volto bruno.
Patricia era ancora accasciata 
sulla poltrona, il bel viso rigato dalle lacrime, mentre stringeva in modo 
quasi spasmodico la mano della sorella, che non si era mai mossa dal suo fianco 
e aveva un'espressione serissima, indecifrabile.
-La tua cara mogliettina è 
stata un osso duro, lo sai fratello? Pensavo che sarebbe stato più semplice 
farla cedere alle mie lusinghe, invece è servito un bel po' di tempo. E anche 
quando finalmente ha ceduto, è scappata via in preda al panico subito dopo. La 
mia soddisfazione però è stata enorme. Sapevo che non ti avrebbe mai lasciato, 
e neanche mi interessava che lo facesse, però intanto ero riuscito ad 
impossessarmi di qualcosa che era tuo, anche se solo per qualche momento 
fugace. Mi sarebbe bastato anche solo diventare un'ombra scura sul vostro 
prezioso matrimonio, e non sai quanto mi divertiva vedere la bella signora 
Hutton trasalire ogni volta che entravo in una stanza. Il meglio però doveva 
ancora venire, e arrivò la sera della festa che organizzaste per annunciare a 
tutti la gravidanza di Patricia...quella gravidanza che aspettavate da dieci 
anni e che sembrava non voler arrivare mai...-
 Il tono di Carlos era quasi 
beffardo, stava finalmente lasciando andare tutto il rancore e il desiderio di 
vendetta che aveva coltivato nel silenzio per tutti quegli anni ed era evidente 
che voleva infliggere a Oliver la maggior sofferenza possibile.
Io lo guardavo 
raggelata, continuando a ripetermi come una litania quanto ero stata stupida, 
ingenua, illusa per aver creduto veramente che nel cuore di quell'uomo ci 
fossero stati dei sentimenti per me. Ora ne ero sicura, non c'era stato un solo 
istante in cui Carlos fosse stato sincero con me. Non mi aveva mai amata, non 
gli era mai importato nulla, nel suo cuore non c'era spazio per l'amore, non 
più dal giorno dell'incidente di sua madre. C'era spazio solo per l'odio e il 
desiderio di vendetta, e non potendo più indirizzarlo verso Maggie, rimasta 
ormai invalida e inerme, il suo obiettivo era diventato Oliver, il fratello che 
aveva usurpato il suo posto nel cuore e nella vita della madre, il 
figlio che era stato amato e adorato, mentre lui era stato abbandonato e 
relegato a vivere nell'ombra e nel segreto.
-Mentre voi brindavate e 
festeggiavate, tubando come due tortorelle in amore, io ero pronto a cogliere 
la mia grande occasione. Se Patricia non ci avesse pensato da sola, avrei 
provveduto io ad insinuare nella sua mente il dubbio sulla paternità di suo 
figlio. Ah, quale sublime scherzo del destino, il mio figlio bastardo cresciuto 
e adorato come figlio di mio fratello...negli agi e nell'amore che a me erano 
stati negati, nel posto che sarebbe spettato a me come primogenito di mia madre 
e che mi era stato portato via. Sarei rimasto nell'ombra, a vedere mio figlio 
crescere e avere tutto quello che non avevo potuto avere io, pronto a sbattere 
la verità in faccia al mio dolce fratellino al momento più opportuno, e intanto 
avrei goduto della paura e del dubbio negli occhi di sua moglie. Patricia provò 
a convincermi ad andarmene, ma non lo avrei fatto per nessuna ragione al mondo. 
Sapevo che nonostante le sue minacce non avrebbe mai detto una parola a Oliver, 
amava troppo suo marito per infliggergli un dolore simile proprio nel momento 
in cui il loro sogno più grande stava per realizzarsi. Purtroppo, andò male e 
la creatura non vide mai la luce, ma sapere che mio fratello stava soffrendo 
come un cane per me era già una soddisfazione-
Vidi l'espressione di Oliver 
indurirsi, mentre stringeva la mano a pugno come se si stesse preparando a 
colpire Carlos. Julian lo fermò mettendogli una mano sulla spalla e facendo 
cenno di no con il capo, mentre Patricia riprendeva a singhiozzare tra le 
braccia della sorella.
-Oliver, perdonami amore, ti prego. Non avrei dovuto 
cedergli, avrei dovuto dirti la verità ma non ce la facevo, non ce la 
facevo...poi Madeleine è morta e io...e io ho pensato che fosse la giusta 
punizione per quello che avevo fatto, per il mio tradimento, per le mie 
bugie... è per quello che dopo la tragedia non avevo più il coraggio di 
guardarti in faccia e mi sono allontanata così tanto da te... E non sopportavo 
più la vista di Carlos, mi ricordava ogni minuto quello che avevo fatto e tutto 
il dolore che ne era seguito...così quella sera, prima di uscire in barca, 
andai da lui e gli dissi che doveva assolutamente andarsene da questa casa e 
dalla mia vita, altrimenti ti avrei detto tutta la verità sulla nostra 
relazione clandestina. Ero pronta a farlo veramente, anche se questo avrebbe 
significato la fine del nostro matrimonio. Non potevo più vivere con quel peso 
sulla coscienza. L'ultima cosa che ricordo è un terribile litigio, Carlos che 
per la rabbia mi urlava contro degli insulti in spagnolo, poi sentii un dolore 
fortissimo alla testa e tutto divento buio. Mi risvegliai in quella stanza e lì 
sono rimasta fino a stamattina...-, disse Patricia con voce tremante, guardando 
suo marito con l'espressione così colma di disperazione e di amore che sentii 
il mio cuore stringersi mio malgrado.
-Non potevo permetterle di dirti nulla. 
Sarei stato cacciato da Villa Hutton e non volevo. Essermi portato a letto tua 
moglie non era sufficiente per la mia vendetta, io volevo di più. Quando cadde 
a terra, pensai che fosse morta e così decisi di affondare la barca per 
simulare un incidente, però mi accorsi che anche lei, come nostra madre, 
respirava ancora. Non potevo rischiare che si svegliasse e raccontasse tutto, 
ma mi mancò il coraggio di ucciderla. In fondo, lei non aveva nessuna colpa di 
quello che avevo dovuto passare. Feci affondare comunque la barca, 
approfittando della notte di tempesta. Tutti l'avrebbero creduta morta e che il 
mare si fosse portato via il corpo. Invece la tenevo prigioniera poco lontano 
da qui...nella vecchia baracca di mio padre, che bel frattempo era scomparso 
nel nulla, o probabilmente è morto, chissà. Rimase priva di conoscenza per un 
bel po' di tempo, tanto che mi convinsi che alla fine sarebbe morta davvero, e 
intanto a Villa Hutton mi godevo lo spettacolo della tua disperazione, caro 
fratello mio. Ti era stata portata via la cosa a cui tenevi di più al mondo e 
vederti sprofondare nel dolore era la più dolce delle vendette per me. Ti ho 
osservato nelle lunghe notti insonni, ti ho sentito gridare il suo nome in riva 
al mare quando pensavi che nessuno potesse sentirti, ti ho visto accasciarti 
sulla bara vuota il giorno del funerale. Ho assistito ai patetici e inutili 
tentativi dei tuoi amici di consolarti. Ti ho visto ubriacarti nel tentativo di 
dimenticare il tuo dolore anche solo per pochi istanti, chiudere a chiave la 
porta della stanza di tua moglie, rifiutare gli inviti di tuo cugino per non 
dover vedere sua sorella, che ti avrebbe inevitabilmente ricordato lei. Poi 
andavo nella baracca e osservavo la tua bella moglie addormentata, sapendo che 
avrei potuto fare di lei qualsiasi cosa e tu non saresti mai nemmeno venuto a 
saperlo. Solo una cosa non avevo preventivato...che nel giro di poco più di un 
anno ti saresti trovato una nuova moglie...ammetto che lì mi hai lasciato 
veramente spiazzato, fratellino.
-Tu sei pazzo-, sibilò Oliver, guadagnandosi 
per tutta risposta una risata.
-Oh no, no, io sono tutt'altro che pazzo. Tutto 
quello che ho fatto l'ho fatto con estrema lucidità e consapevolezza. Quando è 
arrivata la tua nuova signora, ero già pronto a replicare il copione messo in 
atto con la cara Patricia, ma stavolta è stato anche troppo semplice devo dire, 
perché ho avuto al mio fianco due complici che non avrei sperato mai di 
avere...complici involontari, ovviamente, ma assolutamente efficaci. Il primo 
sei stato tu, caro fratello. Anche se stavate passando un momento difficile, il 
tuo matrimonio con Patricia era solido, eravate una coppia felice, unita... è 
stato difficile riuscire ad allargare quell'unica, sottilissima crepa e 
infilarvisi dentro, anche se molto soddisfacente non lo nego. Con la giovane 
Kat invece...tu forse non te ne sei neanche accorto, ma si capiva dal primo 
sguardo che era infelice, insoddisfatta. Era un pesce fuor d'acqua, 
probabilmente è arrivata qui già pentita di averti sposato...in effetti mi 
chiedo cosa possa avere trovato in te, a parte i soldi e la villa naturalmente. 
Tu l'avevi sposata per il bel visino, così simile a quello della adorata e 
perduta mogliettina, ma eri freddo e distaccato nei suoi confronti, tutti la 
mettevano a confronto con la bella, elegante, sofisticata Patricia e...sapevo 
che era solo questione di tempo fare breccia nel cuore della dolce Kathleen 
sfruttando la sua ingenuità e le sue insicurezze...una povera ragazza 
trascurata e insoddisfatta si lascia lusingare facilmente da un uomo 
attraente-, mentre diceva queste parole, Carlos fece scorrere su di me uno 
sguardo piuttosto eloquente e io mi sentii contorcere lo stomaco dal disgusto. 
Pensavo al nostro primo incontro sulla spiaggia, ai nostri baci, alla nostra 
breve e torrida relazione, pensavo a quando avevo creduto di amarlo e che lui 
mi amasse e avrei voluto strapparmi a mani nude ogni centimetro di pelle che 
gli avevo consentito di toccare. E io che pensavo che fossimo destinati a stare 
insieme, che ci appartenessimo, che fossimo fatti l'uno per l'altra...invece 
ero solo una pedina in mano alle ossessioni di quel mostro, le sue parole un 
copione che stava recitando per manipolarmi e usarmi per la sua vendetta. 
Sentivo la mano di Tom che continuava a stringere forte la mia e non avevo il 
coraggio di alzare lo sguardo su di lui, ripensavo alla sua dolcezza nei miei 
confronti, alla sua dichiarazione d'amore della sera prima, e non potevo fare a 
meno di domandarmi se ora mi considerasse una donna da poco.
- Comunque, un 
altro aiuto insperato mi ha facilitato il compito con la bella Kat. Il bello è 
che mi è arrivato da una persona che mi ha sempre odiato...la signora 
Martin...ho sempre pensato che la vecchia sapesse ciò che era successo tra me e 
Patricia, forse la cara Patty aveva avuto bisogno di sfogarsi con qualcuno e si 
era confidata con lei...il modo in cui mi guardava, specialmente dopo la sua 
scomparsa, era eloquente, ma sapevo di poter stare tranquillo, non avrebbe mai 
detto nulla che potesse gettare fango sulla memoria della sua bambina adorata. 
Mi accorsi subito che odiava profondamente la nuova signora Hutton, ed ero lì 
ad ascoltare quando le diede il suggerimento di indossare l'abito di Alice 
Marie Hutton per il ballo in maschera. Mi ricordavo bene che era l'abito che 
aveva indossato Patricia all'ultimo ballo e intuii che la vecchia volesse 
giocare un bel tiro mancino alla povera Kat. Per un attimo fui tentato di 
andare a dirle tutto per conquistarmi così la sua fiducia, ma poi ebbi un piano 
ancora migliore...immaginavo la reazione sconvolta che tu, caro Oliver, avresti 
avuto nel vederla scendere le scale identica alla tua perduta moglie e la 
delusione della povera Kat che pensava invece di fare un trionfale ingresso in 
società...così mi feci trovare nella sua stanza, pronto a consolarla quando lei 
vi sarebbe rientrata, sconvolta e disperata...e funzionò, eccome se 
funzionò.... A differenza di Patricia, Kathleen era dolce, malleabile, ingenua, 
pensava di essersi davvero innamorata di me...non fu difficile farle credere di 
essermi anche io innamorato di lei, anche se dovetti deluderla rifiutando di 
scappare con lei quando mi confidò di essere incinta...non me ne sarei mai 
andato da qui...se lei voleva quel bambino poteva tenerselo, in fondo già una 
volta avevo pregustato il pensiero di vedere mio figlio cresciuto con tutti gli 
onori come figlio di mio fratello... Però accadde un imprevisto. Un imprevisto 
che poteva mandare all'aria tutti i miei piani...
-Il ritrovamento del battello 
-, sussurrai.
Carlos mi guardò e annuì. -Fortunatamente, nessuno si scompose più 
di tanto per il fatto che non dentro il battello non ci fosse alcun corpo, 
pensando che Patricia fosse semplicemente andata perduta in mare. Ma la 
situazione stava diventando complicata. Patricia si era svegliata e stava 
cominciando a recuperare i ricordi, presto non avrei saputo più come fare a 
tenerla nascosta senza che si accorgesse che ero stato io a sequestrarla. Kat 
era rimasta delusa dalla mia reazione alla sua gravidanza e aveva deciso di 
troncare la nostra relazione e dedicarsi ad essere felice con te, fratellino. 
Non potevo accettare che trovassi il modo di ricostruirti una vita. Quando 
venni a sapere che avreste organizzato una cerimonia nuziale in pompa magna, 
decisi che era il momento di uscire allo scoperto e che Patricia sarebbe stata 
il mio asso nella manica. La sua ricomparsa al vostro matrimonio avrebbe creato 
uno scalpore che questa sonnacchiosa cittadina di provincia non aveva mai 
visto. Sapevo che questo voleva dire che la mia identità sarebbe stata svelata, 
ma ormai non aveva più importanza. Era giunto il momento che sapessi la verità, 
caro Oliver, caro carissimo fratello mio. Ora sai che tua madre ti ha sempre 
mentito e ingannato. Ora sai che io sono sempre stati qui nell'ombra, a cercare 
il modo di portarti via tutto. Ora il tuo nome sarà su tutti i giornali e sarà 
per sempre associato ad un terribile scandalo. Non mi importa ciò che sarà di 
me. Se dovrò andare in carcere, che sia. Non c'è nulla di buono per me in 
questo mondo, non c'è mai stato dal giorno in cui tua madre, nostra madre, 
decise di abbandonarmi appena venuto al mondo. E non ci sarà più nulla di buono 
neanche per te, perché qualunque cosa deciderai di fare, non potrai mai più 
guardare in faccia tua moglie senza ricordarti di me...
 
 
 
Quello che successe dopo, è molto nebuloso nella mia memoria. Ero troppo 
sconvolta da riuscire a registrare con chiarezza quello che succedeva intorno a 
me, troppo presa dal turbinio incessante dei miei pensieri mentre cercavo 
inutilmente di processare e metabolizzare le sconvolgenti rivelazioni di quel 
pomeriggio.
Ricordo vagamente quando arrivò il commissario Harper con i suoi 
agenti e trasse in arresto Carlos con l'accusa di sequestro di persona ai danni 
della signora Patricia Hutton. Non sapevo neanche chi avesse chiamato la 
polizia, solo dopo mi raccontarono che era stato Julian a farlo, Oliver era 
troppo sconvolto per riuscirci e per giorni rimase chiuso da solo nel suo 
studio, rifiutando di vedere chiunque e rimandando indietro intatti i vassoi di 
cibo che Frank gli portava.
Amy Ross aveva deciso di portare sua sorella 
Patricia a casa sua, con l'aiuto della signora Martin. I lunghi mesi di 
prigionia e le conseguenti rivelazioni l'avevano sconvolta e Villa Hutton era 
assediata notte e giorno dai giornalisti, perché come aveva giustamente 
pronosticato Carlos uno scandalo del genere era fin troppo ghiotto per una 
tranquilla cittadina di provincia.
Dopo che Carlos, o Demian che fosse, fu 
portato via dagli agenti, Tom mi affidò alle cure di Lavinia che mi 
riaccompagnò nella mia stanza. Non ebbi il coraggio di dirgli una parola né di 
guardarlo in viso, lui mi diede un bacio sulla fronte prima di congedarsi per 
provare inutilmente ad andare da Oliver, ma non mi disse nulla.
Mi chiusi in 
camera, raccomandando a Lavinia di non fare avvicinare nessuno. La povera 
ragazza prese il mio ordine alla lettera e rimasi lì dentro per giorni, a 
guardare il soffitto, a piangere, a cercare di mettere ordine nella matassa 
confusa dei miei pensieri, dormendo pochissimo e mangiando ancora meno, mi 
limitavo a piluccare qualcosa dai piatti che Lavinia ogni giorno mi lasciava 
davanti alla porta.
Nella testa avevo così tanta confusione che mi sembrava di 
impazzire. I pensieri si sovrapponevano l'uno all'altro, il viso distrutto dal 
dolore di Oliver si alternava alla smorfia beffarda sul volto di Carlos, una 
dietro l'altra rivedevo le immagini di tutto ciò che era successo dal 
disgraziato giorno del mio arrivo a Villa Hutton, la mia prima notte di nozze, 
la prima volta che avevo visto Carlos sulla spiaggia, i nostri baci rubati, la 
sua voce che mi diceva che aveva messo in gioco tutta la sua vita per vivere a 
Villa Hutton, la lettera di Patricia trovata nel cassetto, la sua apparizione 
in chiesa in quello che sarebbe dovuto essere il primo giorno della mia nuova 
vita...
Con mio grande stupore però, c'era un pensiero che sovrastava tutti gli 
altri...il ricordo dello sguardo febbrile di Tom Becker la notte in cui aveva 
confessato di amarmi, e della delusione nei suoi occhi quando Carlos aveva 
rivelato la nostra relazione segreta. Il pensiero di aver perso la stima che 
Tom aveva sempre dimostrato nei miei confronti faceva male sopra ogni cosa. Era 
stato l'unico vero amico, l'unica persona che mi aveva dato affetto e sostegno 
incondizionato in quei mesi terribili, ed ero riuscita a deludere anche lui. 
Non c'era da meravigliarsi se prima di congedarsi da me non era riuscito a 
guardarmi neanche in faccia.Io stessa faticavo a guardarmi allo specchio. Ero 
stata una stupida, un'illusa, un cretina che si era rovinata la vita con le sue 
stesse mani.
 Illusa due volte, la prima quando avevo accettato di sposare 
Oliver, la seconda quando avevo creduto di aver trovato l'amore in Carlos. In 
modi diversi, entrambi mi avevano usata senza mai volermi bene veramente, 
Oliver in modo del tutto involontario per sfuggire al suo dolore e Carlos 
consapevolmente, per colpire il suo fratellastro, l'unica persona di cui 
probabilmente gli importava davvero qualcosa.
Non potevo fare a meno di 
chiedermi cosa ne sarebbe stato di me. Il mio matrimonio con Oliver non era mai 
stato valido, e comunque era ormai evidente che non ci sarebbero stati 
presupposti per continuare la mia relazione con lui, anche se non fosse 
riuscito a perdonare Patricia. Io non lo amavo, lui non mi amava, non sapevo e 
non mi importava sapere cosa sarebbe successo tra lui e quella che era la sua 
unica e vera moglie, ma sapevo che io non ero la signora Hutton, non lo ero mai 
stata veramente e non lo sarei stata mai più. Dovevo riprendere in mano la mia 
vita, andarmene da quella casa e da quella città e ricominciare contando sulle 
mie sole forze. L'unica cosa era che non sapevo nemmeno da che parte cominciare.
 
Una settimana dopo, Lavinia bussò alla mia porta, e con tono di scuse mi disse 
che era arrivato il signor Becker, che voleva assolutamente parlarmi e che non 
avrebbe accettato un no per risposta.Sospirai, rendendomi conto che non potevo 
evitare il mondo esterno all'infinito, e che in fondo era meglio ripartire 
confrontandomi con Tom che non con Oliver o peggio ancora con altri, come la 
signora Martin o Amy Ross, o direttamente la polizia.
Mi diedi velocemente una 
rinfrescata in bagno, indossai un semplice abitino di cotone e scesi in 
salotto, dove Tom mi aspettava...i suoi grandi occhi scuri erano dolci ed 
espressivi come sempre, ma il suo viso era pallido e tirato e portava i segni 
di parecchie notti insonni. Mi prese la mano e la baciò, poi mi chiese come 
stavo guardandomi direttamente negli occhi, il suo sguardo era così sincero che 
feci fatica a sostenerlo. Rivederlo mi provocava un'emozione che facevo fatica 
a contenere e a cui non ero affatto sicura di voler dare un nome.
-Ho avuto 
momenti migliori, come sicuramente tutti noi. Che notizie mi portate, Tom?-
Tom 
sospirò, invitandomi a sedermi accanto a lui sul divano. Notai che non 
accennava minimamente a lasciarmi la mano, ma quel contatto non mi dava 
fastidio, anzi, mi infondeva un senso di conforto e di sicurezza di cui sentivo 
più che mai il bisogno. -Carlos è in carcere. Ci sarà un processo, Oliver e 
anche Patricia saranno chiamati sicuramente a testimoniare. Ho parlato con il 
mio avvocato di fiducia e sono quasi sicuro che riusciremo a tenere fuori voi 
da questa faccenda, Kat, dato che non vivevate qui a Villa Hutton all'epoca dei 
fatti...a meno che la vostra successiva...relazione...con Carlos, o meglio, con 
Demian Gutierrez, non sarà ritenuta rilevante dal giudice...
-Annuii, tenendo 
gli occhi bassi per la vergogna al cenno alla mia relazione con quell'uomo. 
-Capisco..Oliver come sta?-
Il viso di Tom si fece ancora più serio. -E' 
sconvolto, come potete immaginare. Qualche giorno fa è andato a trovare sua 
madre...e lei, in un momento di lucidità, ha confermato che purtroppo la storia 
che ha raccontato quell'uomo è vera...Carlos è veramente il figlio illegittimo 
di Maggie Hutton. Oliver non ha avuto il coraggio di raccontare alla madre cosa 
ha fatto quello squilibrato, perché lei si è messa a piangere chiedendogli 
perdono e poi ha avuto una brutta crisi... I giornalisti poi non aiutano di 
certo, si sono buttati a pesce su questa vicenda e stazionano davanti alla 
Villa giorno e notte. Per fortuna, Patricia è ancora a casa di sua 
sorella...fisicamente si sta riprendendo bene, psicologicamente è a terra e 
sicuramente testimoniare al processo per lei sarà una prova durissima...
-Sentii 
le lacrime che cominciavano a pizzicarmi gli occhi. -Sono stata una stupida e 
una sconsiderata, Tom. Mi vergogno così tanto di me stessa. Ho creduto alle 
bugie di quell'uomo, ho creduto di amarlo e ho gettato al vento la mia dignità 
e tutti i principi con cui i miei genitori mi hanno cresciuta...-
-No!-, mi 
interruppe lui con decisione, sfiorandomi leggermente il viso con le dita per 
asciugarmi le lacrime. -Non dovete vergognarvi di nulla, Kathleen, di nulla. 
Eravate infelice e avete commesso degli errori. Tutti ne hanno commessi in 
questa storia...io stesso avrei dovuto accorgermi prima della vostra 
infelicità...a costo di mettere a repentaglio la mia amicizia con Oliver...ho 
messo la mia correttezza nei suoi confronti al primo posto, invece eravate voi 
la persona più fragile in questa situazione e quel bastardo se ne è 
approfittato. Vorrei avervi parlato dei miei sentimenti prima...
-Scossi la 
testa e gli accarezzai la guancia. -Non datevi colpe che non avete, caro Tom. 
Voi siete l'uomo migliore che io conosca, l'unico che veramente è stato sempre 
corretto e sincero nei miei confronti. Se...se vi avessi conosciuto prima di 
incontrare Oliver...tutto sarebbe stato diverso...-
Vidi chiaramente il 
conflitto intero che si agitava dietro i suoi dolcissimi occhi scuri. Sentivo 
che avrebbe voluto fare qualcosa, magari prendermi tra le braccia, o baciarmi, 
ma sapevamo entrambi che in quel momento e luogo sarebbe stato a dire poco 
sconveniente. Tom aveva un animo troppo nobile per approfittare della 
situazione e io non potevo e non volevo essere quel tipo di donna che si 
gettava tra le braccia di un altro uomo per sfuggire alle difficoltà. Sarebbe 
stato facile, ma non avrei più potuto guardare in faccia né lui né tantomeno me 
stessa.
-Io sono qui per farvi una proposta, Kathleen, ma desidero che non ci 
siano fraintendimenti. Non intendo assolutamente approfittare di voi o trarre 
vantaggio da questa situazione difficile. Però non potete rimanere qui con i 
giornalisti che non aspettano altro che di saltarvi addosso come sciacalli. So 
che siete confusa e non sapete dove andare...volevo offrirvi la mia ospitalità 
finché...finché non avrete...preso delle decisioni insomma...ho un piccolo 
cottage in un villaggio a non molti chilometri da qui, che utilizzo quando ho 
bisogno di stare da solo con me stesso. Ecco, lo metto a vostra disposizione 
volentieri. La mia governante è già andata a predisporlo per il vostro arrivo-
-Io...io non so cosa dire Tom...voi siete sempre così buono con me, così 
generoso...io non vorrei davvero...approfittare del vostro buon cuore...-
-Kathleen-, il suo tono di voce era così fermo e risoluto che mi fece quasi 
sussultare , -voglio essere completamente sincero con voi. Certo, quello che ha 
raccontato quell'uomo...Gutierrez... è stato un duro colpo, non lo nego...ma 
niente e nessuno al mondo può cambiare i sentimenti che provo per voi. Quello 
che vi ho detto...rimane valido...io ci sarò sempre per voi, finché non sarete 
voi stessa a mandarmi via dalla vostra vita-
Dovetti ricorrere a tutta la mia 
forza di volontà per non gettargli le braccia al collo...sarebbe stato così 
bello, così semplice...stringerlo a me, baciarlo, abbandonarmi al calore delle 
sue braccia e all'onesta dei suoi sentimenti...ma un uomo come Tom meritava di 
meglio. Meritava amore puro, sincero, incondizionato, e io ero troppo confusa e 
spaventata per darglielo.
Così mi limitati a stringergli forte la mano e a 
sorridergli. -Grazie. Io non merito la vostra amicizia e il vostro affetto, ma 
vi ringrazio perché senza sarei perduta. D'accordo. Accetto-
Il suo bel viso si 
illuminò. -Molto bene. Preparate le vostre cose e tra tre giorni passerò a 
prendervi per accompagnarvi al cottage, dove potrete restare tutto il tempo che 
desiderate
 
 
Fu con il cuore gonfio di sentimenti contrastanti che trascorsi i tre giorni 
successivi. Mentre preparavo i bagagli con le poche cose che avevo portato con 
me a Villa Hutton dalla mia vita precedente, mi domandavo come avrei dovuto 
congedarmi da Oliver. Anche se non era più mio marito, non potevo andarmene 
così di nascosto, senza una parola...ma lui era chiuso nel suo studio e 
solamente Tom e Julian finora avevano potuto accedervi e parlare brevemente con 
lui.
Pensavo anche a Carlos, a come stava affrontando il carcere, chissà cosa 
gli passava per la testa, chissà se la soddisfazione per aver devastato la vita 
di suo fratello era tale da non fargli provare alcun rimpianto per aver gettato 
completamente al vento la sua. Carlos era un uomo in gamba, avrebbe potuto fare 
qualunque cosa nella sua vita, ma aveva scelto di perseguire la via dell'odio e 
del risentimento lasciando indietro tutto il resto.
Molti dei miei pensieri 
erano rivolti a Tom e mi davo della sciocca per aver capito solamente adesso 
l'importanza che quell'uomo aveva per me. Accecata dalla folle infatuazione per 
Carlos, non mi ero nemmeno accorta dei suoi sentimenti nei miei confronti, 
sentimenti che aveva soffocato per rispetto verso il suo amico Oliver, ma ora 
io non ero più la moglie del suo più caro amico...chissà se mi aveva offerto la 
sua ospitalità al college solo per gentilezza o se magari nel suo cuore si era 
accesa la speranza che io potessi ricambiarlo...non volevo guardare nel mio 
cuore per dare un nome a ciò che sentivo per lui, ero rimasta scottata una 
volta e volevo starmene ben lontana dal fuoco.
Dovevo pensare a cosa fare della 
mia vita, non coltivare sciocche fantasie sentimentali che non servivano a 
nulla e che avrebbero fatto solamente del male a me e allo stesso Tom. 
Continuavo a ripetermi che lui meritava di meglio.
Un aiuto per il mio futuro 
venne da una persona totalmente inaspettata. Quando Lavinia mi disse che c'era 
qualcuno che desiderava parlarmi, per un attimo pensai che fosse di nuovo Tom, 
o la polizia che aveva deciso di voler ascoltare anche la mia testimonianza sui 
crimini di Carlos...invece, con grande stupore, trovai ad attendermi nel 
salotto la signora Ross, con espressione dimessa e gli occhi bassi.
-Scusate se 
vi disturbo, Kathleen, immagino che non siano giorni facili nemmeno per voi...-
Avrei voluto accoglierla con l'astio e la freddezza che lei aveva sempre 
riservato a me, ma non riuscivo. L'espressione tormentata del suo viso non me 
lo consentiva.
 -In effetti non mi aspettavo di vedervi qui, signora Ross. Come 
sta vostra sorella?-, domandai in tono cordiale ma distaccato.
Amy sospirò e si 
lasciò quasi cadere sul divano. - Fisicamente bene, ma il morale è a pezzi. Non 
oso immaginare come stia vivendo la prospettiva di dover testimoniare al 
processo. È già così devastata poverina...non dorme e mangia pochissimo e il 
fatto che Oliver si rifiuti di vederla o anche solo di parlarle non l'aiuta di 
certo..-
-Oliver non vuole vedere nessuno. Neanche io sono riuscita più a 
parlare con lui da quel giorno. Tom mi ha detto che è sconvolto-
-Anche Julian 
lo ha visto brevemente e mi ha detto la stessa cosa. Dobbiamo essere pazienti 
con lui e dargli tempo, il trauma è stato notevole...io però non sono venuta 
per Oliver e neanche per mia sorella, a dire il vero. Io sono venuta per voi, 
Kathleeen-, alzò lo sguardo e per la prima volta mi guardò negli occhi con 
espressione franca e sincera.
-Sono venuta a chiedervi scusa. Io...io vi devo 
delle scuse per come mi sono comportata con voi, per la freddezza con cui vi ho 
accolto in questa casa, per la mia antipatia e la mia scortesia nei vostri 
riguardi. È vero, ero distrutta dal dolore per mia sorella, ma non avevo nessun 
diritto di prendermela con voi. Non era assolutamente colpa vostra e io ho 
sbagliato. Vi chiedo sinceramente perdono –
Rimasi sinceramente colpita dalle 
scuse di Amy e soprattutto dall'onestà del suo sguardo. Non doveva esser stato 
facile per lei mettere da parte l'orgoglio e venire a scusarsi con me. 
-Apprezzo il vostro gesto, signora Ross, e accetto le vostre scuse. Ormai è 
acqua passata e io, comunque, rimarrò in questa casa e in questa città ancora 
per poco -, risposi.
Amy abbozzò un timido sorriso. -Certo, posso capire che non 
desideriate rimanere più qui dopo tutto quello che è successo...se non sono 
troppo indiscreta, posso chiedervi che programmi avete per il futuro?-Sospirai. 
-Per il momento, mi trasferirò nel piccolo cottage che Tom mi ha messo 
gentilmente a disposizione nel villaggio vicino...devo riflettere su alcune 
cose, ma penso che mi dovrò cercare un lavoro...prima di...ecco prima di 
incontrare Oliver...facevo da dama di compagnia a una mia zia, immagino che 
potrei cercare qualcosa di simile...
-La signora Ross annuì e tirò fuori un 
pezzo di carta dalla sua borsa. -Ecco, a tale proposito... questo è l'indirizzo 
di una mia cara amica...si chiama Jenny Callaghan e vive non molto lontano da 
qui, al Nord...lei e suo marito hanno appena avuto il secondo bambino e stanno 
cercando qualcuno che possa dare loro una mano a gestire la casa...se...io non 
desidero essere inopportuna ci mancherebbe...ma se doveste avere bisogno...ecco 
io potrei scriverle e sono sicura che ci accoglierebbe a braccia aperte .. sono 
bravissime persone, vi trovereste bene con loro...
-Presi il bigliettino che Amy 
mi offriva e lo guardai per un istante. Non sapevo se dovevo sentirmi grata o 
umiliata per questa sua proposta, ma la verità era che da qualche parte avrei 
pur dovuto cominciare e fare la governante era un'opportunità come un'altra. 
Non potevo pesare a lungo sulla generosità di Tom, quanto a Oliver non ero più 
sua moglie ed ero assolutamente certa di non voler accettare da lui un 
centesimo del suo denaro.
-La ringrazio, signora. Sarebbe molto generoso da 
parte sua-
Amy mi strinse la mano e mi disse che mi avrebbe dato notizie non 
appena si fosse messa in contatto con la signora Callaghan. Avere una 
prospettiva per il futuro mi aveva un po' rinfrancata e tornai nella mia stanza 
a preparare le valigie con il cuore un po' più leggero rispetto ai giorni 
precedenti. L'indomani Tom sarebbe venuto a prendermi per condurmi al cottage, 
dove avrei soggiornato in attesa di notizie...se la risposta della signora 
Callaghan fosse stata positiva, mi sarei messa in viaggio il prima possibile 
per trasferirmi a casa sua al Nord.
Ero presa dai miei pensieri quando sentii 
bussare alla porta della mia stanza. Ero sicura che fosse Lavinia che veniva a 
portarmi degli abiti puliti da mettere in valigia e così dissi avanti senza 
pensarci due volte, ma quando mi voltai mi resi conto che non si trattava 
affatto di lei.
Sulla soglia, pallido in volto e con l'espressione 
indecifrabile, vidi Oliver...
 
 
Fine diciannovesimo capitolo 
 

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