No one seems to hear a thing.

di AinwenWings
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nessun posto magico. ***
Capitolo 2: *** Just be happy. ***



Capitolo 1
*** Nessun posto magico. ***


Capitolo 1.

Tutti i posti sono uguali se non cambi dentro. Non c’è un posto magico dove mettersi in pace con se stessi.
Se ti senti una merda, tutto quel che guardi ti sembrerà sempre una merda.
- Stephen King

 
 
È estate. È estate in un certo luogo, di un certo anno, in uno stato chiamato Italia.
È inverno. È inverno in un certo cuore, in un certo tempo, in un corpo che si chiama Emma.
Accucciata sul dondolo in giardino, con una penna in mano, Emma compila i moduli della EF (Education First) per la terza superiore all’estero.
Ha preso appuntamento per l’intervista con il ‘director’ in cui verrà attestata la sua qualità della lingua, i suoi voti a scuola, se è abbastanza indipendente per cavarsela.
Lo sa, Emma, che tutti vanno a fare l’anno all’estero in quarta superiore, ma lei non ne vuole sapere. Insomma, diciamocela tutta, dopo c’è la maturità, tutti gli esami e…lei ha bisogno di cambiare aria ADESSO.
 
PARTE 1.
E' il programma giusto per te?
Probabilmente sì, se:
•hai un'età compresa tra i 14 e i 17 anni
•frequenti regolarmente una scuola superiore pubblica o privata
•hai una media scolastica decorosa
•desideri sinceramente fare un'esperienza di vita diversa e metterti in gioco
•ti senti pronto a spiccare il volo senza i tuoi genitori e senza i tuoi amici!”

 
Ecco cosa legge sul foglio.
Ha 16 anni compiuti a giugno, perciò il primo punto è okay. Frequenta un liceo classico, perciò il secondo punto è okay.
Ha solo sei in latino, ma tutto il resto sono sette e otto (sudati), perciò depenna anche il punto 3.
‘Desideri sinceramente fare un’esperienza…’ No. Quello che desidera è andare via, vedere qualcosa di diverso, staccarsi i genitori perché lei è troppo attaccata a loro, e non viceversa.
Ed è pronta a spiccare il volo? A prendere un aereo che la porterà dall’altra parte dell’oceano? Non è pronta, non lo è. Ma le va bene così, le sono sempre piaciute le sorprese.
 
PARTE 2.
Ecco alcune domande che ti faremo all’intervista.
Preparati qui sotto, così avrai un’idea più chiara il giorno in cui parlerai con noi!
•perchè vuoi partecipare ad un progetto di scambio culturale? 
•pensi di poter essere un buon rappresentante degli studenti italiani e dell'Italia? 
•che requisiti deve avere secondo te un buon exchange student?
•quale cosa ti mancherebbe di più, se lasciassi l'Italia per un anno?”

 
“1. Voglio partecipare ad un progetto di scambio culturale perché trovo che sia una grandissima opportunità di studio, di scambio, di apprendimento e soprattutto di crescita personale.
(Mente: Emma, dillo. Non vuoi vivere in Italia.)
2. Credo di poter essere un’ottima rappresentante. Trovo che con un’ottima conoscenza dell’inglese come la mia, potrò integrarmi ottimamente ed entrare a far parte di una società diversa.
(Mente: Io sono nata per essere nata là.)
 
3. Una grande elasticità mentale, accettare gli usi e costumi altrui. Saper abbandonare la timidezza, e per farlo serve un’ottima conoscenza della lingua.
(Mente: Amare viaggiare.)
 
4. La scuola, soprattutto gli amici. Le persone, la gente, i palazzi storici.
(Mente: Mamma e papà.)”
 


- Mamma, ho finito il modulo! – urlo sistemandomi meglio sul dondolo.
La mamma si avvicina, lo prende in mano e mi sorride dolcemente.
- Sei proprio sicura, eh? Vorrei davvero che tu ci pensassi ancora un po’…-
- Non c’è niente a cui pensare, mamma. Ho deciso. Faccio la terza superiore all’estero, lo faccio per me. Lo so che costa tanto, che ti mancherò, ma io voglio farlo. –
Mi sorride, mi cinge le spalle con un braccio e chiama mio padre a tutta voce dicendogli di raggiungerci sul dondolo con ‘Quella cosa’.
Cos’è quella cosa?
Mio padre arriva con un pacchettino, tutto azzurro e incartato perfettamente; si siede di fianco a me, sussurra un timido ‘apri, dai’ e poi mi sorride.
Scarto abbastanza in fretta il pacchetto, c’è una scatoletta blu dentro la quale trovo una catenina con la frase ‘Born for the USA’.
- Se te la metti il giorno dell’intervista, farai bella figura, no? – dice mio padre tirando su con il naso.
Vorrei dirgli di non preoccuparsi, che partirò tra un venti giorni se mi accettano, che mancano tre giorni all’intervista e che sarò sempre la sua Emma. Ma la verità è che sono molto, troppo preoccupata: come farò senza di loro? Senza la mamma che mi sveglia la mattina e mi prepara il latte? Come farò senza la pasta, le lasagne, il mare e la macchia mediterranea?
E come faranno loro senza di me? Come farà la mamma a ricordarsi le chiavi ogni mattina senza che io glielo urli dal pianerottolo? Papà si sveglierà la domenica mattina senza che io gli prepari il caffè d’orzo e glielo porti a letto? Chi spazzolerà Toy, il mio bellissimo e grassissimo bulldog francese, quando io non ci sarò?
Mi accoccolo tra le braccia di papà, silenziosa. È quasi ora di cena, ma c’è ancora il sole abbastanza alto, è estate.
Tra quattro giorni avrò il primo vero colloquio della mia vita, e non voglio davvero pensarci. Quindici giorni dopo il colloquio incontrerò tutti i miei amici e cinque giorni dopo, il trentun agosto, partirò con un aereo verso la mia nuova vita.
- Tesoro, hai scritto la presentazione scritta per la direttrice? – mi chiede mamma, spostandosi i capelli rossi dal viso.
Non l’ho ancora fatto, le rispondo. Replica esortandomi a iniziare, perché devo consegnarla tra quattro giorni; mia madre sta contando ogni secondo che passa con me, lo sento.
Entro in casa, mi metto alla scrivania, accendo il computer e inizio a scrivere.
 
Goodmorning. My name is Emma, I’m sixteen years old, and I’m Italian. I’ve chosen to do a year in the USA because…”.
[Buongiorno. Mi chiamo Emma, ho sedici anni e sono italiana. Ho scelto di fare un anno negli stati uniti perché…]
 
Perché…perché si.
 
Because I know it’s a good opportunity for my future, for my future job. I really like English and I’m a girl who has travelled too much around the world. I’m independent and I can do so much thing without my parents…”
[…perchè so che è un’ottima opportunità per il mio future, per il mio lavoro future. Mi piace molto l’inglese e sono una ragazza che ha viaggiato molto per il mondo. Sono indipendente e so fare così tante cose senza i miei genitori…]
 
Okay. È vero, so fare tante cose senza di loro. Andare a scuola, in autobus, in bicicletta senza di loro.
Emma, lo sai fare.
 
“…I want to know American people, USA and the magic cities of this big country. It’s my dream since I was little!
Goodbye.
Emma.

[…voglio conoscere persone americane, gli Stati Uniti e le magiche città di questo grande stato. È il mio sogno sin da quando ero piccola!
Arrivederci.
Emma.]
 
Lo faccio leggere alla mamma, lei lo imbusta e mi stringe forte.
- Sei cresciuta così in fretta! Sei molto più matura dei tuoi amici, di tutti i tuoi compagni! Ti voglio bene piccola mia. – si appolpa a me come una piovra, e io cerco di staccarmi. Devo abituarmi ai pochi baci e abbracci fin da subito.
 
Torno in camera e vedo la prima lettera scritta e stampata che avevo progettato.
Hi, my name is Emma. I only want to escape by my brain and my body, but it’s impossible. So, I’ll change country.
Bye Bye.
Emma
.”
[Ciao, mi chiamo Emma. Voglio solo scappare dal mio cervello e dal mio corpo, ma è impossibile. Così, cambierò paese.
Addio.
Emma.]
 
La prendo, e imbusto pure quella. Ci scrivo sopra ‘The truth’, la verità.
La terrò nella tasca del cappotto, durante l’intervista.
Così mi sentirò forte e crederò di avere la verità in tasca.
 

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Capitolo 2
*** Just be happy. ***


Capitolo 2
- Just be Happy -

“Puoi farci” sempre qualcosa.
Per esempio, puoi riderci sopra.
- Erma Bombeck

 
Emma si guarda allo specchio. Ha un bel vestito addosso, a stampe color pastello raffiguranti un fiore di loto.
Glielo deve aver portato qualche parente da lontano, anche se in questo momento non ricorda bene chi, né il luogo da cui il capo provenga.
Prende la gonna a balze tra le mani, e ondeggia leggermente, guardando il suo riflesso.
“Dai, così sono anche carina”, sussurra. Poi pensa alle sue compagne di scuola con quel vestito, e si odia.
Non è che lei non sia abbastanza magra, abbastanza bella o abbastanza graziosa. Semplicemente porta le cose troppo umilmente, sembra che siano addosso ad un manichino, o almeno così lei crede.
Non sfoggia mai nulla, non si può mai carpire dal suo modo di fare se quel capo sia nuovo o meno.
I sentimenti, neanche quelli li porta bene. Appaiono vecchi e sgualciti, non sembra che gliene importi troppo.
Emma si guarda ancora, per l’ultima volta quella mattina. Ha i capelli biondi appuntati con delle forcine in alto, la pelle fresca di una notte passata a dormire serenamente e una catenina ‘Born for the USA’ al collo.
Si sente pronta per l’intervista con ‘the director’. Okay, forse non proprio pronta, meglio abbastanza pronta. Può darsi che sia un po’ meno di abbastanza. Diciamo che non è così pronta né così perfetta come vorrebbe essere, e teme di sbagliare i tempi verbali inglesi in tutto quel che dirà.
Scende di sotto dove i suoi l’aspettano già da un bel po’, passando da un pezzo di scottex all’altro, sorridendole e dicendole che ‘in realtà in questo periodo dell’anno entrano molti moscerini dalle finestre, per questo che ho gli occhi rossi’ e che ‘tutti i traguardi che hai raggiunto sono nelle tue mani ora, tesoro, sfruttali!’.
Entra nella Multipla grigia assieme alla mamma e al papà, ripetendosi nella testa il discorso.
Le faranno delle domande personali? Le chiederanno cosa le piace fare? Si insinueranno nella sua vita striscianti e vorranno sapere tutto di lei?
Sa bene di non doversi fare un’idea sbagliata di ciò che accadrà in quella stanza, ma è più forte di lei avere pregiudizi riguardo al suo ‘futuro’.
Riguardo alle persone, agli eventi, alle reazioni. E questo è un paradosso: Emma odia le persone con i pregiudizi.
Ecco perché per una certa parte odia se stessa e per un’altra se ne compiace: cerca di evitare i difetti che odia, ma ci ricasca ogni volta, compie gli stessi errori. Quando esce il lato migliore di lei, lì si che esulta, e si piace, si piace da morire. Si piace come quando Francesco le parlò per la prima volta in classe, a scuola, dicendole che era vestita bene; si piace come quando la prof di matematica le disse che era intelligente.
Si piace così tanto quando pensa di poter piacere agli altri.
Ridacchia tra sé e sé: crede di non poter andare a genio al ‘the director’. Ne è fermamente convinta, sente palpabile la sua ansia, e la risatina nervosa che esce dalla sua bocca si propaga per l’auto contagiando i suoi genitori, forse ancora più in ansia di lei.
“Non devo avere pregiudizi. Devo piacermi. Devo amarmi. Così verrò amata. Quindi, non devo avere pregiudizi.”



Mi esce una risatina nervosa dalla bocca.
Mia madre sente la canzone alla radio e sembra che improvvisamente la mia risata abbia contagiato l’auto.
- Ahahahaha, senti questa canzone Nicola! – urla mia madre ridendo.
È una canzone normalissima, che recita anche parole profonde. Mia madre non capisce l’inglese, perciò mi chiedo come faccia a dire che è divertente.
- Ahahahaha, guarda come ridi Simona! – la indica mio padre con l’altra mano sulla pancia.
In questa risarola collettiva non mi resta che appoggiarmi con la fronte al finestrino, sperando due cose completamente opposte: che il viaggio duri poco e che il viaggio duri molto.
Prendiamo diversi semafori, e sembra che l’autostrada non arrivi mai. Devo andare fino a Milano, è lì che si trova la sede della EF. Cosa volete che siano tre ore di auto!
Mi assopisco un attimo e quando mi sveglio stiamo prendendo l’uscita per Milano; l’allarme META VICINA inizia a lampeggiare nella mia testa, e inizio a sentire vagamente qualcosa di più che quel formicolio di ansia allo stomaco. Sento le formiche che salgono dallo stomaco.
- Papà, sblocchi il finestrino qui dietro per favore? – chiedo, con una mano sulla bocca.
- Stai bene? – domanda preoccupato voltandosi un momento.
- Tira giù questo dannato finestrino! – impreco, sperando che si dia una mossa.
Arriva l’aria fresca sul mio viso, e sembra che le formiche optino per una tregua. Se avessi vomitato, rovinando il mio vestito, sarebbe stata la fine della mia intervista.
Mi guardo attorno e inizio a vedere i primi veri palazzi. Il segnale meta vicina si fa sempre più insistente e, quasi come fosse un avvertimento, iniziano a fischiarmi le orecchie. Che ‘the director’ mi stia pensando? Ma cosa pensa di me? Qualcosa di positivo? “Non ti fare pregiudizi!” mi ripeto, sbuffando.
- Guarda Emma, siamo vicini. – dice mia madre tutta eccitata.
La frase mi rimbomba in testa per un po’. Esagerato, direte, ma sto per decidere del mio prossimo anno, del mio futuro probabilmente. Voglio fare grandi cose della mia vita e non voglio rimanere in Italia un minuto di più.
 
Parcheggiamo vicino ad un palazzo grigio/bianco, alto. Mio padre paga il ticket e mi sorride debolmente, dandomi una pacca sulla spalla.
“Cristo, un abbraccio no, eh! Vogliono già lasciarmi! Stanno già pensando a rimpiazzarmi!” sussurra il diavoletto che è in me.
Cerco di dissuadermi dal girarmi, ma vedo i miei stretti come se mi stessero portando in un orfanotrofio.
“Ah si? Ah si? Bene, farò vedere loro che non ho bisogno di tutto questo affetto che vogliono darmi! Che sono abbastanza forte e indipendente e che me ne voglio andare da qui!”
Così, la mamma mi prende la mano e fa per entrare con me.
- Dal momento che oggi potrebbe essere il cruciale distacco tra noi, vorrei entrare da sola. Non ho più bisogno di voi. – dico, abbassando gli occhi verso le loro mani strette.
Mia madre ci rimane visibilmente male. Loro non hanno bisogno di me? Io non ho bisogno di loro.
Perché dovrei avere bisogno di loro quando, mentre io sono tutta preoccupata, pensano solo a coccolarsi e a tenersi stretti? Io avrei bisogno di essere stretta!
Sull’onda di questi pensieri spingo il portone d’entrata. È un palazzo con un grande atrio, e di fronte a me c’è la segreteria.
- Ehm, salve. Mi chiamo Emma Lo Cuoco e sono qui per il colloquio con il direttore. – dico, facendo un sorriso il più rassicurante possibile.
- Primo piano, aula 13. –
Cerco di mantenere la calma quando salgo le scale. Conto i gradini, conto i respiri, conto i battiti. Credo che potrei svenire su queste scale. Sto per mettere nero su bianco il mio sogno, sto per decretarne il successo o il frantumo.
Dopo un’iniziale incertezza inizio quindi a percorrere i gradini due a due, correndo. Arrivo al primo piano con il fiatone, colpa dell’asma, e trovo subito la stanza.
Guardo l’orologio: mancano cinque minuti all’orario in cui devo entrare nella stanza; devo calmarmi, subito, perdere questo rosso sulle gote dovuto alla fatica.
Devo comportarmi come una dama dell’Ottocento. Ecco come. Fine, opportuna, composta, acculturata, con un’ampia proprietà di linguaggio.
Ce la posso fare. Ce la posso fare.
 
Entro nella stanza: è spaziosa, con una scrivania nell’angolo sinistro della parete di fronte a me, su cui si apre una grande finestra con un grande davanzale. Nella parete alla mia destra c’è un altro banco, occupato da una donna e il suo computer. Oddio, scriveranno ogni cosa che dirò.
L’ansia cresce quando vedo che ‘the director’ è di fianco a me e mi invita a togliermi il cappotto. Dopo che l’ho consegnato ad una ragazza bionda, mi invita ad accomodarmi sulla sedia di fronte alla sua scrivania. Lo faccio, e finalmente posso osservarla meglio.
‘The director’ è una donna giovane. Avrà una trentina d’anni, l’accento inglese marcato, un tailleur nero con gonna e due tacchi vertiginosi che ne slanciano la figura. I capelli rossi le incorniciano il viso e gli occhi verdi spiccano e le danno un’aria abbastanza inquietante, almeno in questo momento.
- Ciao, Emma. Hai fatto un buon viaggio? So che non sei di Milano. – dice, scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi.
Ma che razza di domanda è? Se il viaggio fosse andato male non sarei lì, no? Sarei arrivata in ritardo, oppure facendo l’autostop e ora il mio vestito sarebbe tutto sgualcito.
- Sì, il viaggio è trascorso in modo ottimale, grazie. – dico, accennando un sorriso.
“Spalle indietro, Emma. Non scivolare con il sedere sulla sedia, è segno di noia. Mento alto. Non arrossire. Occhi sempre puntati nei suoi. Sii forte.”
Mi ripeto la postura che mi ero preparata a casa, e sono pronta per ascoltare le domande della donna.
Inizia guardando le mie pagelle, dicendo che ho un’ottima media, dal momento che è dell’8,33.
- Beh, ecco, mi sono impegnata molto per ottenerla e…- dico, attorcigliandomi nervosamente le dita sul ventre.
- Nessuno sta dicendo il contrario, Emma. – mi dice, alzando la testa ed aprendosi in un ghigno, per poi continuare a guardare le scartoffie sulla scrivania.
Passiamo una decina di minuti in silenzio, finché lei non inizia a pormi delle domande.
Mi chiede da quanto tempo desidero partecipare al programma, quale sarebbe la mia meta preferita, perché vorrei partecipare al programma.
Mi parla in inglese, velocemente, e mi chiede di spiegarle cosa mi ha detto. Glielo spiego prima in lingua, e poi in italiano. Sembra molto soddisfatta, a giudicare da tutti i ‘bene bene’ che le escono dalla bocca.
A questo punto credo che l’intervista sia quasi alla fine, perciò mi rilasso.
- Come sai, sarai sistemata in famiglia. Ho bisogno di sapere ciò che sai fare da sola, prima di darti l’approvazione. – dice, sistemandosi sulla sedia.
- Capisco perfettamente. – replico, sorridente.
- Sai cucinare qualcosa? Sai prendere un taxi, o trovare la fermata della metro. Hai coraggio di chiedere indicazioni? – domanda guardandomi.
Mi sto agitando. Sta iniziando ad entrare nei particolari, e io ho paura di crollare.
- Beh, cucinare si. Abbastanza. Comunque ci sono anche i piatti pronti al supermercato, no? Per quanto riguarda il taxi, sicuramente riesco a prenderlo. Beh ecco, la metro l’ho presa sempre con i miei, e lo stesso per le indicazioni, ma suppongo di potercela fare. – affermo esitante.
- Supponi? – precisa la donna alzando un sopracciglio.
- Ho molte capacità. Sono una persona intelligente, so fare molte cose. Non importa se non so cucinare la pasta, no? – chiedo, sperando con tutto il mio cuore che faccia un sorriso e passi alla prossima domanda.
- Un buon cervello non basta in un altro paese, sai? Devi sapertela cavare senza i tuoi genitori, voglio dire, nulla di semplice, e non so se tu sia adatta. Supponi un po’ troppo: non dovresti aspettare di acquisire più sicurezza? – insinua quindi appuntandosi qualche cosa su un foglio.
- Voglio dire, Emma, non ti mancherà troppo tutto questo, vero? –
Panico. Perché devono tutti toccare i miei punti deboli? Volevo che parlasse di tutto, ma non della famiglia. E lei di che parla? Della famiglia. NORMALE NORMALISSIMO.
Scosso la testa, cercando di trattenere le lacrime. Mi chiede se sono sicura di quello che voglio fare, se voglio davvero partire. Sto diventando tutta rossa, le lacrime sono calde e pesanti e sento che non riesco più a trattenerle.
- Sentite, lei e tutti quelli che credono che io non ce la possa fare. – dico, avvicinandomi con la sedia alla scrivania. – Non so cucinare un piatto di pasta. Non so cucirmi i calzini, né amministrare bene i miei soldi. Non so precisamente i prezzi degli oggetti, non so farmi la tinta. Ma voglio imparare. In questi giorni imparerò a fare tutto, leggero più libri di cucina di Gordon Ramsay e metterò il timer mentre preparo le torte come a MasterChef. Andrò in giro per la mia città facendo finta di non conoscerla, chiedendo indicazioni a tutti i passanti, parlando in inglese. Imparerò, sapendo che dovrò andarmene da casa mia, lasciare mia madre in balia del suo costante essere svampita e mio padre della sua pigrizia e malinconia verso ‘la sua cucciola che cresce’, per un anno. Che tornerò a casa e dovrò chiedere dov’è il bagno, o dove teniamo i piatti, e so che starò malissimo quando sarò in una nuova casa e non ci sarà più la mia stanza tappezzata di peli di cane. Ma ho deciso che voglio essere una ragazza con le palle, una di quelle che per farsele deve staccarsi da una vita che vuole proteggerla a tutti i costi. Non sarò la più adatta per questo posto, ma lo voglio più di chiunque altro! – dico, tra le lacrime, prendendo il fazzoletto che ‘the director’ mi porge.
Continua a scrivere sul suo dannato foglio da quando ho iniziato a piangere, e ora mi guarda mordicchiandosi l’interno della guancia.
- Okay, Emma. Ti saprò dire oggi pomeriggio, va bene? –
- Si, certo. – replico, alzandomi e uscendo dalla stanza.
Scendendo le scale penso a Boston, a quanto si stia allontanando e a quanto i miei sogni siano schifosi ora come ora.
E inizio a ridere. A ridere come non ho mai fatto, a ridere di gusto. Rido tra le lacrime, ma è una risata sincera, una risata liberatoria, è la risata che cerco da tanto tempo.
Arrivo di sotto e c’è mia madre che mi chiede com’è andata.
- La prendo sul ridere! – dico, avviandomi con loro verso un ristorante di Milano.

 

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