The Tribute - A Hunger Games Story

di fuku
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hayley Hanson. ***
Capitolo 2: *** Claudius McCandlees ***
Capitolo 3: *** Taylor Morgan ***
Capitolo 4: *** Evan Kosmose ***
Capitolo 5: *** Rupert Windsor. ***
Capitolo 6: *** Rye Hatway. ***
Capitolo 7: *** Rye Hatway. ***
Capitolo 8: *** Johanne Mitch. ***
Capitolo 9: *** Susan Heartcliff ***



Capitolo 1
*** Hayley Hanson. ***


Distretto 12.





“Hayley, sei qui dentro?”
Il rumore delle nocche che battevano sulla porta rimbombarono nella testa della ragazzina seduta seduta per terra, accanto al letto. Le ginocchia strette al petto, lo sguardo perso nel vuoto, il pensiero concentrato su un unico obiettivo. Se fosse stata scelta, avrebbe dovuto non farsi mettere i piedi in testa da nessuno e non farsi seppellire dalle emozioni. E soprattutto, doveva cercare di non pensarci; probabilmente, era impossibile. Ma se doveva uccidere, era meglio cercare di farlo con la mente sgombra.
Le unghie affondarono nella pelle dei polpacci mentre, chiudendo gli occhi, immaginò di prendere un ragazzo fra le sue mani e stringere il suo collo forte, spingendo e…
“Hayley Hanson, apri subito la porta!”
La ragazza sussultò, scuotendo la testa e sbattendo un paio di volte le palpebre, come se si fosse appena svegliata da un lungo sonno. Si alzò in piedi, pulendosi il vestitino azzurro che indossava e stringendosi il laccio che teneva fermi i suoi capelli biondi in una coda alta.
Arrivò alla porta con passo lento, voleva poter rimanere chiusa in camera quel giorno, ma non poteva; la aprì, per ritrovarsi davanti il volto accigliato di sua madre. Ma il viso della donna pian piano mutò, creando una smorfia di un misto fra dolore e amore, mentre si protendeva in avanti per abbracciare la sua bambina.
Hayley rimase immobile, senza abbracciare la madre.
C’è un momento, nell’abbraccio, dove non si capisce più chi da e chi riceve e Hayley voleva solo ricevere, essere stretta dalla sua mamma ancora una volta. Quando si separarono, la donna aveva gli occhi pieni di lacrime, come se la figlia fosse già stata scelta.
“E’ ora, amore.”
Annuì. Era l’ora della mietitura.
La folla aveva già iniziato a fluire verso la piazza, famiglie impaurite con ragazzi ansiosi creavano quel fiume di tristezza, mentre nell’interno covavano rabbia furiosa nei confronti di Capitol City.
Quando fu l’ora di lasciare la mano di sua madre, Hayley tentennò: sebbene si era promessa di non farsi sormontare dalle emozioni, per un momento sperò di non essere li. Si distaccò dai suoi genitori, andando a prendere posto in una delle file del gruppo femminile.
Le mani erano strette in un pugno e lasciate lungo i fianchi, la mascella serrata e gli occhi fissi sul palco.
“Io non ho paura.”
Continuava a ripetersi nella mente, quasi volesse autoconvincersi, per essere più forte.
Il “boia” di Snow fece la sua apparizione sul palco, il trucco eccessivo, i capelli colorati e un orribile sorriso finto sul volto.
“Benvenuti giovanotti!”
La sua voce echeggiò per tutta la piazza, mentre si sforzava di tenere quel sorriso guardando i presenti. Tenne il solito discorso scialbo e privo di senso, che nessuno ascoltava mai poiché tutti attendevano con ansia il verdetto.
Finalmente si bloccò. Gli occhi di Hayley seguivano il movimento delle labbra, mentre la donna si apprestava a prendere il nome della ragazza scelta.
“Io non ho paura.”
“Hayley Hanson!”
“Io non ho paura.”
Mormorò, mentre usciva dalla file per salire sul palco. Si muoveva in automatico, senza neanche accorgersi del Pacificatore che l’aveva presa per un braccio e la guidava verso la donna. Sembrava come se i suoni attorno a lei si fossero spenti e tutto si muovesse più lentamente. Arrivò sul palco, e rivolse il primo sguardo ai suoi genitori: si stupì di non provare alcun dolore vedendo sua madre disperata, ma pensò che era meglio così.
Il secondo tributo, quello maschile, fu chiamato e arrivò impaurito sul palco. Nel momento in cui Hayley gli strinse la mano, appena le loro dita si sfioravano, un grido disperato squarciò il cielo.
Si girò di scatto, nell’esatto momento in cui un uomo lanciò un sasso contro il palco, scatenando la rivolta del distretto.
Non era la prima volta che capitava.
All’improvviso, dozzine di sassi iniziarono a volare verso il palco, intenzionate a colpire i Pacificatori e magari anche la donna. Ma dopotutto, non si può decidere l’esatta traiettoria.
Prima che Hayley potesse ripararsi in qualche modo, una pietra la colpì sulla tempia. Si sentì come colpita da un proiettile, e si accasciò a terra, sebbene fosse cosciente.
Vedendola a terra, la lapidazione si fermò.
Il distretto era a bocca aperta, impaurito per ciò che sarebbe successo.
Hayley sentiva la testa pulsare, ma non voleva farsi mettere sotto così: altrimenti, nell’arena, sarebbe sembrata debole.
Decide che doveva reagire, sin da ora. Accettare il suo destino.
Si alzò in piedi, facendo leva sui gomiti e sulle ginocchia, girandosi verso la folla.
“IO NON HO PAURA!” gridò, con tutto il fiato che aveva in gola, come un leone.
Sarebbe tornata vincitrice, sapeva di potercela fare.
Entrambi i tributi furono portati al sicuro dai Pacificatori.
Felici Hunger Games.

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Capitolo 2
*** Claudius McCandlees ***


Distretto 8.




Si era sdraiato, gambe allargate esattamente come le braccia, sul prato fra il distretto e il bosco. Il suo sguardo seguiva il movimento delle nuvole come se lo stessero ipnotizzando; o forse, era lui stesso che voleva fuggire da quel distretto, da quel mondo. Anche solo per un giorno, quel giorno, gli sarebbe bastato trovarsi da un'altra parte per evitare di andare incontro a una cruenta morte. 
Era il giorno della mietitura. 
Sapeva benissimo di non poter affrontare gli Hunger Games, avrebbe tentato qualsiasi cosa a costo di non essere estratto. Fuggire dal distretto, non avrebbe potuto. E neanche non dirigersi quel giorno, i Pacificatori lo avrebbero comunque preso se fosse stato estratto. 
Doveva solo sperare. 
Le campane iniziarono a suonare, segno che era ora di andare; suonavano lente, come se non avessero la forza di vedere mandare al "macello" tutti quei giovani, che incrociavano le dita con tensione, pregando la fortuna di essere con loro. 
Il ragazzo si alzò, passandosi velocemente una mano in mezzo ai capelli scompigliati, e pulendosi i vestiti dall'erba che era rimasta aggrappata, come se volesse non farlo andare via. A passo lento, iniziò ad avviarsi verso la piazza del distretto, dove si sarebbe svolta la mietitura; gli occhi guizzavano per il luogo dove era nato e cresciuto, mentre registravano tutto ciò che vedeva, cercando di memorizzare ogni singolo dettaglio. Se fosse stato scelto per questa edizione, non avrebbe voluto dimenticare la sua casa. 
Vennero separati dalle ragazze, come succedeva ogni anno, e venivano creati due gruppi di giovani impauriti; se qualcuno fosse passato in mezzo a quelle file, avrebbe potuto avvertire la paura e il fiato corto. 
La bambolina truccata e viscida, una sciocca marionetta del presidente Snow, fece la sua entrata e il suo sciocco discorso, inutile e ansioso. 
Poi estrasse i nomi; come sempre, per educazione, prima le signorine.
Il nome della ragazza non era estraneo al nostro tremante protagonista, dopotutto nel distretto si conoscevano in molti, ma nessuna emozione gli portò la scelta di quel tributo. 
La donna infilò la mano nella bolla di vetro, e estrasse un altro foglio.
Lentamente, sembrò che lo aprisse sempre più piano, riuscì a sdrotolare il foglietto con il nome del giovane malcapitato.
"Claudius McCandlees".
La voce rimbombò per tutta la piazza, seguita dai sospiri di sollievo da parte dei ragazzi che non erano stati sorteggiati. Ma non per lui, lui che fino a poco fa era sicuro che avrebbe potuto tornare a guardare il cielo disteso sul prato, che si era quasi convinto di potercela fare. Un corridoio si aprì davanti a lui, i ragazzi divisi in due gruppi che gli crarono spazio per farlo arrivare fino al palco. 
Non si mosse, le prime lacrime già avevano iniziato a solcargli il viso, mentre la sua testa era come esplosa, mentre voleva solo tornare a casa e scordarsi tutto. Sperò fosse un sogno, che questo gioco non fosse mai esistito e tutti potevano vivere con felicità senza la supremazia di Capitol City.
Non voleva dire addio a sua madre, a suo padre, e non voleva finire in quella sciocca arena. Dolore, rabbia, disperazione. Gli occhi accecati dalle lacrime, e dall'ira. Claudius accennò dei passi tremanti, gli occhi impauriti fissavano prima il palco, poi il pavimento. Era il momento di fuggire, di provare a evitare quel massacro; era sicuro di poterti riuscire.
Fermò la sua paurosa marcia verso il palco, guardando con occhi tremanti gli altri ragazzi, per poi girarsi, in preda al panico e urlando come un matto. Iniziò a correre, a cercare di fuggire ed evitando i Pacificatori; ma nessuno può fregarli quelli.
"Non mi avrete mai!"
Gridò, facendosi largo fra la folla rimasta di sasso per quel suo gesto.
Per sua estrema fortuna, riuscì ad evitarne uno. Ma gli altri, in massa, si buttarono su di lui, pronti a tutto pur di fermarlo. 
Controvoglia, senza finire di urlare, fu preso di peso da due uomini, e portato sul palco, dove fu lasciato cadere in terra a piangere.
In ginocchio, non riusciva a vedere nulla, gli occhi erano accecati dal velo di lacrime che li solcava, mentre gli altri del distretto guardavano la scena con le lacrime agli occhi: potevano anche essere felici per non essere stati scelti, ma quella scena era veramente drammatica.
La ragazza non accennava un pianto, ma Claudius era in preda a una pazzia che lo portò anche a strapparsi dei capelli. Non poteva lasciare la sua famiglia così, buttato in un'arena a uccidersi con dei suoi coetanei. Non sentiva le forze per farlo, lui non ne sarebbe mai stato in grado.
Infine, esausto, smise di urlare, senza però smettere di mormorare la frase. Stavolta, i pacificatori lo dovettero trascinare fino alla stanza dove avrebbe potuto vedere i suoi parenti, dato che Claudius era esausto e non riusciva a muovere un passo.
Le palpebre erano improvvisamente pesanti, non riuscivano a contenere quelli occhi pieni di dolore e paura.
Fu buttato su un divano, in preda ai singhiozzi, e lasciato al suo destino.
Felici Hunger Games.

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Capitolo 3
*** Taylor Morgan ***


Distretto 1.
 
 
 
 
 
"Dai, Taylor, smettila, ti prego!"
Il ragazzo allontanò con un gesto brusco la bambina vicino a lui, sbuffando. 
"Katy, finiscila. Fatti gli affari tuoi." 
Prese la mira. Stavolta, quella cara bestiolina non gli sarebbe scappata, era arrivata la sua ora. Erano giorni che tentava di prendere quella cerbiatta, ma aveva sempre fatto cilecca, almeno fino ad ora. Si sentiva concentrato e pronto, quell'animale doveva essere suo. Era come un trofeo, un premio. Se fosse riuscito a prenderla, si sarebbe sentito come invincibile. Per lui, era tutto così facile; il giorno della mietitura si trovava tranquillamente a cacciare qualcosa che non gli sarebbe servito a nulla, se non come soddisfazione personale.
Era pronto a scoccare quella maledetta freccia, mentre la cerbiatta era ferma come se non si fosse accorta di nulla. La sorellina, accanto a lui, continuava a tirarlo per il lembo della maglietta.
"Dai, Tay, lascia stare, poverina."
Ma il ragazzo era come in un mondo tutto suo, non si era neanche accorto che la bambina era ancora li; non gli dava retta, voleva solo prendere quell'animale. 
La piccola Katy, però, era convintissima del fatto che quell'animale dovesse vivere, per questo avrebbe rovinato i piani del fratello. Infatti, nel momento in cui lui stava per scoccare la freccia, gli diede uno spintone. Taylor non riusci a mantenere l'equilibrio, e cadde in terra; la cerbiatta, spaventata dal rumore, fuggì.
Il ragazzo, sedere a terra e i palmi delle mani appoggiati per tenerlo su, guardava stupito la sorella. Non si sarebbe mai aspettato che avrebbe potuto fare una cosa simile; sapeva bene l'amore di Katy per gli animali, ma non credeva si fosse spinta a così tanto. In poco, l'incredulità si trasformò in rabbia, il viso divenne rosso e sembrava stesse per esplodere.
"Katy, sparisci, se non vuoi che questa freccia sia per te!" Gridò, furioso.
La ragazzina non se lo fece ripetere due volte, e scappò terrorizzata, mentre il fratello si alzava in piedi di scatto.
Taylor si ritrovò da solo, in mezzo al bosco, e solo allora gli parve accorgersi di che giorno fosse. Aveva provato a non pensarci, a tenere la mente sgombra, ma la mietitura si stava avvicinando. Un nuovo anno, dove ragazzi avrebbero sfiorato la morte, mentre un altro l'avrebbe dovuta affrontare direttamente. I ragazzi del suo distretto non erano mai stati particolarmente impauriti dai giochi, o almeno così dicevano: dopotutto, erano loro i Favoriti. Anche Taylor era della stessa idea, però. Non era così coraggioso da offrirsi come volontario, ma se fosse stato scelto avrebbe beffato il destino mettendosi un bel sorriso sul volto: lui era più che sicuro che avrebbe potuto vincere gli Hunger Games anche a occhi chiusi. Era veloce, forte, agile. Sapeva usare la spada e l'arco con maestria, era furbo. Nessuno lo avrebbe sconfitto. 
Udì in lontananza il suono delle campane, che suonavano velocemente, per chiamare tutti a raccolta. 
Il ragazzo guardò un'ultima volta il punto dove prima era la cerbiatta, e sbuffando si allontanò.
Katy gliel'avrebbe pagata. 
Mise le mani dentro alle tasche, e iniziò ad avviarsi verso la piazza; aveva buttato l'arco da qualche parte nel bosco, lo sarebbe tornato a recuperare più tardi, se ne avesse avuto l'occasione.  Per tutto il tragitto prese a calci un sasso, lentamente, in modo da non perderselo; ma, arrivato alla piazza, un calcio pieno di rabbia spedì il sasso non si sa dove: ancora ribolliva per la cerbiatta mancata, come se non pensasse che fra pochi minuti ci sarebbe stata la mietitura.
Salutò rapidamente sua madre e suo padre con la mano, non vedendo la sorellina (che probabilmente già era corsa a nascondersi) e si infilò nella prima fila, quella sotto il palco.
Ci vollero pochi minuti perchè la piazza si riempisse, e il mormorio cessasse completamente, sostituito da sospiri di rassegnazione; ormai si erano abituati a quel giorno, almeno i sopravvissuti. 
Ecco a voi, Jaqueline VanDerBergeer, che fa la sua apparizzione sul palco; è seguita da lenti battiti di mani, e qualcuno che stringe i pugni per evitare di andare li sopra e fare pazzie. 
Sorrise, la sciocca donna, mentre si apprestava a estrarre il foglio con il nome del tributo femminile. Dopo poco, salì sul palco una ragazza dall'aria fiera, come tutti nel distretto. Un sorriso arrogante alloggiava sul suo viso, come se fosse già a conoscenza della sua vittoria.
"E ora passiamo al nostro maschietto!" annunciò, con un risolino. E, in quel minuto, per Taylor Morgan il tempo sembra essersi fermato; ha iniziato a sudare, ma non per la paura. Per la prima volta nella storia delle sue mietiture, lui vuole essere scelto. Lui, Taylor Morgan, vuole partecipare agli Hunger Games, e far vedere quanto è forte. Vuole uccidere i suoi avversari a sangue freddo, senza preoccuparsi di chi lo guarda. Lo sguardo era basso, le dita  incrociate. Chiunque avesse potuto ascoltare i suoi pensieri ora, lo avrebbe preso per pazzo.
"Taylor Morgan!"
Alzò il viso, un sorriso di trionfo gli si formò, mentre la mano stretta in un pugno si alzava verso il cielo, vittoriosa! Camminò verso il palco, lento e sicuro, mentre per la testa già gli passano le immagini della sua vittoria, senza rendersi conto che non potrebbe essere lui il vincitore. Giunse sul palco, e strinse forte la mano della sua avversaria, guardandola con aria di sfida: voleva fargli sapere subito con chi avrebbe dovuto giocare.
Il pubblico, all'annuncio che sarebbe stato lui il tributo maschio, era già scoppiato in un grande applauso, che Taylor continuava ad alimentare con sorrisi vittoriosi e frasi ad effetto.
"Non sarò fatto a pezzi! Sapete perchè?"
Un grido si alzò dalla folla eccitata.
"Perchè?"
"Perchè da grande farò il macellaio!"
E scoppiò in una grassa risata, osservando la madre in lacrime che in parte era stupita dalla determinazione del figlio. Gli mandò baci e saluti, contento e felice.
Ma negli occhi di Taylor Morgan, guardando bene, si poteva scorgere l'animo sadico e cattivo del ragazzo: aveva imparato ad essere così, altrimenti nell'arena non sarebbe sopravvissuto neanche al bagno di sangue. Continuava a salutare la folla, come una star che saluta i suoi fan. Sapeva chesarebbe tornato vincitore, anche se avrebbe dovuto macchiarsi di delitti e brutali assassini.
Lui voleva vincere, costi quel che costi.
Felici Hunger Games.

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Capitolo 4
*** Evan Kosmose ***


Distretto 6.
 
Cosa si prova quando si ha la consapevolezza che la vita possa scivolare via dalle proprie mani in un soffio di tempo? Nessuno, almeno per ora, è mai tornato per raccontarlo.
Era il gran giorno. Ogni ragazzo del distretto 6 stava passando la propria giornata con la famiglia, non era certo che sarebbero potuti tornare a stare con loro e ogni istante cercarono di imprimerlo bene nella loro testa, per aver i propri famigliari sempre accanto qualsiasi cosa succeda.
Ma non Evan Kosmose. 
In effetti si vociferava in giro che era un po’ strano quel ragazzo, e veniva deliberatamente ignorato da quelli della sua età. Ma a lui non importava affatto; perché lui sapeva di essere superiore a quella banda di marmocchi che considerava compagni. Era più intelligente di loro, più veloce, più forte. 
Quelli la agli Hunger Games non avrebbero retto neanche una settimana, mentre lui avrebbe potuto avere più possibilità di vincere. Certo, non sapeva usare la spada ne il pugnale, ma una semplice settimana gli sarebbe bastata per diventare un buon combattente: imparava in fretta, era coordinato nei movimenti e silenzioso. 
Eppure, eccolo li, il ragazzo più forte di tutti. Osservava il prato al di fuori del distretto, e si teneva a distanza di sicurezza dalla recinzione percorsa dalla corrente elettrica. Guardava il prato dove non aveva mai osato andare, forse per paura di infrangere le regole. Ma tutto quel bosco e quel verde indicavano una sola cosa, la libertà. Il cielo era il più bello visto in tanti anni nel distretto sei; era una giornata bella e brutta nello stesso tempo. Per due sfortunati ragazzi sarebbe potuta essere l’ultima occasione per vedere un cielo del genere. 
Nell’aria echeggiò il rintocco delle campane, che suonavano a morte, lente e dolorose; Evan non si mosse, osservava ancora l’orizzonte. Sarebbe bastato solo un passo, un passo e avrebbe potuto superare la recinzione e fuggire nel bosco: con i Pacificatori attenti in piazza sarebbe stato più facile fuggire e nascondersi. Sapeva cacciare, conosceva i frutti, sopravvivere non sarebbe stato un problema. Si trovava in mezzo a due decisioni. Un passo avanti e non si sarebbe più fermato, sarebbe fuggito da questo mondo pieno di dolore e di morte. Un passo indietro e si sarebbe unito alla massa, andando incontro alla morte. Ma era un po’ matto, o forse poco coraggioso, o forse troppo intelligente. Fatto sta, che decise di andare incontro al suo destino, correndo verso la piazza, lasciandosi alle spalle quell’erba tanto amata che profumava di libertà.
Correva lungo un vialetto, con mille pensieri fra la testa, o forse nessuno? 
Correva, più veloce possibile, in modo da cercare di non cambiare idea; sapeva di essersi già pentito, ma ormai non sarebbe mai riuscito a tornare indietro, anche perché poco più in la già poteva vedere un paio di Pacificatori. 
Rallentò la sua corsa fino a fermarsi ai margini della piazza, osservando il fiume di ragazzi che iniziavano a ordinarsi in base all’età e al sesso. Si mise in fila per farsi prelevare il campione di sangue. Davanti a lui c'era un biondino, un ragazzo della sua scuola, che alla vista del suo stesso sangue rischiò di svenire; Evan ridacchiò, mentre due Pacificatori portavano via il ragazzo. Velocemente porse il dito e sentì solo una leggera punturina, ormai non era la prima volta che gliela facevano e sperò anche che quest'anno non sarebbe stata l'ultima. Con gli occhi cercò la sua famiglia, e la trovò insieme a tutte le altre. Sua madre e suo padre si tenevano per mano, e questo gli fece molta tenerezza, ma subito dopo si staccò dal pensiero e andò a mettersi nella terza fila. C'erano sopratutto i suoi compagni di classe e di scuola intorno a lui, ma nessuno gli rivolse la parola; un paio di essi iniziarono a parlare fitto fitto guardandolo in modo strano e ridacchiando. 
"Anche alla Mietitura fanno i bambini." pensò, fra se e se, e capì il motivo per cui diceva di odiarli. 
Non fece caso all'entrata della donna che annunciava i tributi, e non seguì neanche lo stupido filmino iniziale; era più concentrato a osservare le espressioni e i movimenti degli altri ragazzi. Gli piaceva capire le persone dai gesti che facevano, oppure dai colori che la loro pelle assumeva; si conosce meglio così una persona che parlandoci di tanto in tanto. 
La sua attenzione si rivolse al palco solo quando ci fu l'annuncio del primo tributo maschio. Si sbagliava o il nome appena pronunciato dalla donna era proprio il suo? 
Si guardò intorno, rendendosi conto che in effetti era veramente così, dato che aveva centinaia di sguardi puntati addosso a lui. Si incamminò verso il palco, guardandosi intorno. Sembravano più spaventati gli altri per lui che lui stesso. Si disse che in realtà non aveva paura, ma forse era solo un modo per non dimostrarlo all'esterno; doveva sembrare più forte. Arrivò sul palco e cercò di sorridere alla donna, ma sul suo volto si formò solo una smorfia: non che avesse qualcosa contro di lei, poverina, comprendeva che era il suo lavoro, ma non gli veniva proprio da sorriderle. Strinse la mano al tributo femminile, e poi iniziò a cercare con gli occhi i suoi genitori. Sua madre piangeva. "C'era da aspettarselo.", si disse. Si stupì invece di vedere suo padre con le lacrime agli occhi, lui che era stato sempre un uomo forte e coraggioso. Era incredulo sul fatto che suo padre non lo guardasse fieramente, ma forse questo gli diede il coraggio, un coraggio per vincere. Non poteva lasciare la sua famiglia in quello stato, avrebbero sofferto per tutta la vita per la perdita del loro figlio più grande.
"Mamma, papà, vincerò solo per voi!" Gridò, con tutto il fiato che aveva in gola, verso i genitori. Suo padre si asciugò le lacrime, sua madre alzò la testa che prima aveva appoggiata sul petto del marito. 
Evan mandò un bacio alla madre, mentre molti degli spettatori erano in lacrime. Il padre tirò su le tre dita della mano destra e le alzò, dopo averle portate alla bocca, in direzione del figlio. Piano piano, tutto il pubblico fece la stessa cosa. E Evan, per ultimo, ricambiò. Solo perchè lui voleva la libertà che gli era stata negata. 
Felici Hunger Games. 

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Capitolo 5
*** Rupert Windsor. ***


Distretto 3.
 
Rupert Windsor non era mai stato un ragazzo dormiglione; lavorando in fabbrica ogni mattina doveva svegliarsi molto presto, e ormai il suo corpo aveva perso il bisogno di dormire a lungo. Tutto ciò si rivelava molto fastidioso nelle poche giornate libere che aveva, si ritrovava ad essere sempre il primo a svegliarsi e non voleva starsene li con le mani in mano. Persino la mattina della Mietitura non era riuscito a dormire qualche ora in più. E' per questo che aveva deciso di fare una sorta di "passeggiata mattutina", per schiarirsi di poco le idee e camminare per il distretto ancora silenzioso. Gli piaceva sapere che era uno dei pochi svegli, si sentiva padrone di tutto ciò che era intorno. E in effetti, quel giorno tutto era particolarmente silenzioso, il distretto si stava preparando a dare a un addio a i tributi che sarebbero stati sorteggiati. Rupert era uno dei pochi ragazzi che veramente ammetteva che aveva molta paura degli Hunger Games. Molti si vantavano dicendo che nessuno nell'arena sarebbe potuto essere alla propria altezza, mentre lui era convinto che non avrebbe retto neanche per molto. Eppure, era un ragazzo molto furbo e intelligente, riusciva a capire la situazione velocemente ed a agire di conseguenza. Immerso nei suoi pensieri, camminava velocemente sul vialetto principale del distretto; al lato costeggiava una fila di siepi abbastanza alte, che venivano potate con frequenza, dalle quali spuntavano dei fiori bianchi e blu. I suoi occhi erano bassi, seguivano il movimento che i sassolini facevano sotto i suoi piedi, per questo non si accorse della ragazza che correva velocemente verso di lui. Anche lei era girata, come per cercare qualcosa che la inseguisse, e non potè fare a meno di scontrarsi con Rupert.
"Accidenti!" esclamò, quando ormai la ragazza già era caduta in terra dalla botta. Lui era un ragazzo molto più grande di lei, fisicamente, e nell'impatto era riuscito ad avere la meglio. Lei alzò lo sguardo, guardando storto il ragazzo, che ricambiò nello stesso modo. All'improvviso, però, si alzò in piedi e corse dietro la siepe. Rupert si guardò intorno, ridacchiando, incuriosito dal comportamento bizzarro della ragazza. Poi ripuntò lo sguardo su di lei ma era sparita dietro ai cespugli, come se avesse paura di qualcosa. E proprio nel momento in cui Rupert accennava ad andarsene e a lasciare li quella ragazza pazza e misteriosa, capì quale era il suo problema più grande; e pensò che era troppo grande per lei, e che aveva bisogno di aiuto. Arrivò correndo un uomo visibilmente arrabbiato, con un bastone in mano, che, rosso in viso, urlava per il distretto.
"Dove sei maledetta, dove sei?"
Rupert guardò velocemente la siepe, dove pensava fosse la ragazza che, impaurita, cercava di fare meno rumore possibile.
"Tu, hai visto una ragazza passare?" Chiese l'uomo, fermandosi, in direzione di Rupert.
"Si, signore."
Nel frattempo, la protagonista della conversazione, era nascosta dietro la siepe e osservava quello che succedeva davanti a lei. Sbiancò, alla risposta del ragazzo.
"E' andata verso il fornaio, signore." Continuò, mandando l'uomo nella direzione opposta a dove si trovava la giovane.
Rupert lo guardò correre lontano imprecando, pregando che davvero quello non fosse veramente il padre della ragazza. Si accertò che ormai se ne fosse andato, non voleva darla in pasto ai leoni; benchè non la conoscesse, gli aveva fatto tenerezza sapere che rischiava di essere trattata così ogni giorno.
Nel frattempo, le strade iniziavano già a riempirsi, di li a poco sarebbero suonate le campane che annunciavano il raduno per la Mietitura.
"Puoi venire fuori, se ne è andato!" Esclamò, in direzione del cespuglio, mentre una testa faceva capolino da li. Si avvicinò alla ragazza e gli tese la mano, per aiutarla a scavalcare; la giovane guardò per un momento sia lui che la mano che gli veniva tesa, poi accettò e la prese, facendo leva su essa per sollevarsi dal terreno e passare sopra al cespuglio. Poggiò i piedi in terra e lasciò la sua mano.
"Bhè, grazie." Disse, girando le spalle al ragazzo. Rupert non fece neanche in tempo a chiedere chi fosse quell'uomo che la ragazza era già corsa via e si era mischiata nella folla di persone, e lui l'aveva persa di vista.
Non si accorse delle campane che erano già suonate, ma lo sciame di gente che si avviava verso la piazza gli fece capire che doveva essere così.
In fretta, cercò la sua famiglia fra quelle di tutto il distretto, e la individuò a un lato. Sua madre lo baciò in fronte, e suo padre una semplice pacca sulla spalla.
Rupert andò a mettersi in fila insieme ai suoi compagni, e solo in quel momento parve rendersi conto di ciò che stava accadendo. Non ascoltò il discorso, però, perchè il suo sguardo era puntato sui suoi piedi e mille pensieri gli frullavano per la mente. Se fosse stato scelto sarebbe stato in grado di sopravvivere oppure si sarebbe fatto trascinare via dalla paura? Perchè di paura ne aveva, e anche molta. Alzò la testa solo quando la donna annunciò l'intenzione di pescare il tributo maschile per primo, tanto per cambiare qualcosa. Iniziò a torturarsi le mani, ansioso.
"Il nostro tributo maschile è...Rupert Windsor!" Gli occhi della donna cercavano il ragazzo, mentre Rupert sperava di poter diventare minuscolo così da non farsi vedere. Non si mosse, aveva troppa paura per farlo. Non poteva scappare, poteva solo andare in contro al suo destino. Prima di essere trasportato su dai Pacificatori, Rupert fece il primo passo in avanti, mentre la paura continuava a salire e non riusciva ad avere la mente sgombra. Continuò a camminare in modo meccanico, fino a quando non raggiunse il palco, mettendosi accanto alla donna. Con gli occhi cercava i genitori in mezzo alla folla, ma non riuscì a trovarli; li avrebbe comunque visti più tardi, si disse, così smise di cercarli e si concentrò sulla donna che chiamava l’altro tributo.
“Mentre la nostra femminuccia è…Susan Heartcliff!”
Rupert non l’aveva mai sentita nominare, così si concentrò sul punto dove la folla si era aperta e la vide.
Era lei.
La ragazza di prima, quella che scappava da quell’uomo, era la stessa che ora stava salendo sul palco, con lo sguardo fisso davanti a lei, senza che nessuna espressione facciale la tradisse.
La ragazza che aveva salvato era la stessa che avrebbe dovuto uccidere per vincere.
“Tributi, stringetevi le mani.”
Rupert tese la mano verso quella di lei, e la strinse, non troppo forte, ne troppo piano. Doveva fargli capire che con lei non ci sarebbe comunque andato leggero. Gli occhi di lei entrarono a contatto con i suoi, e fecero capire al ragazzo che lei non si sentiva in debito con lui, lo avrebbe ucciso senza farsi troppi problemi, benchè lui l’avesse aiutata poco prima. Rupert lasciò la mano morbida di lei, e cercò di non guardare più i suoi occhi.
Non sarebbero tornati insieme a casa, uno dei due sarebbe morto, se non addirittura entrambi.
Se prima l’aveva salvata, ora l’avrebbe uccisa. Perché sapeva che lei non si sarebbe di certo fatta troppi scrupoli a farlo.
Felici Hunger Games.

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Capitolo 6
*** Rye Hatway. ***


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Capitolo 7
*** Rye Hatway. ***


Distretto 7

Rye si era svegliato un ora prima del sole, come ogni mattina prima di andare a scuola. Solo che oggi non sarebbe andato a lezione.
La brezza mattutina nel Distretto 7 gli provocava brividi su tutto il corpo mentre la segatura della legna tagliata il giorno prima volava sollevata da un venticello. Rye si sentiva strano, forse aveva paura. Tra poche ore ci sarebbe stata la mietitura, tra poche ore due giovani tributi sarebbero stati scelti per essere uccisi, costantemente filmati, sotto gli occhi di tutta Panem. 
Rye sentì le urla di sua madre che lo chiamavano. Sua madre, anche se giovane, sembrava avere quasi sessant' anni. Era una donna distrutta, lasciata da sola con 5 figli da sfamare dopo che suo marito era stato ucciso dai pacificatori per aver rubato del cibo. Era stato umiliato e giustiziato davanti a tutto il distretto. Davanti alla moglie che lo guardava con uno sguardo vuoto, davanti ai suoi figli che si stringevano alla madre, cercando di essere rassicurati. Da quel momento se ne restava chiusa in camera, senza occuparsi dei figli.
Gli unici momenti durante la giornata in cui si ricordava di loro erano quelli dei pasti. Quando Rye le portò la colazione quella mattina, lo afferò bruscamente per un braccio dicendogli di vestire i suoi fratelli e portarli in piazza per la mietitura, aggiungendo che anche se uno di loro sarebbe stato scelto, un figlio in meno non avrebbe cambiato nulla.
Così Rye preparò i suoi fratelli, con la frase della madre che gli stringeva il cuore. Usciti di casa vide lo scorrere dei ragazzi che gli passavano davanti e si bloccò. Non osava avanzare con loro, voleva scappare, nascondersi, andare lontano da quel posto. Ma la madre li raggiunse e con un calcio alla schiena spinse Rye e i suoi fratelli tra la folla. Tra la gente fortunatamente trovò Demetria, sua cugina, le prese la mano e si fece trascinare da lei.
Arrivati in piazza vide sul palco la donna mandata da Capitol City. Non poteva che provocargli disgusto. Pallida come la neve, i capelli gialli canarino. Indossava un abito verde chiaro e le sue guance brillavano per i diamanti che si era fatta impiantare.
Rye vedeva solo le sue labbra muoversi, sentiva il suo cuore battere forte ma nemmeno una parola di quello che diceva la donna.
Lanciò uno sguardo verso sua sorella, e quando lo rialzò di nuovo, vide una ragazza camminare verso il palco, a testa in giù, tremante e pallida. Era stata scelta come tributo. Rye riusciva solo ad essere felice che non fosse Demetria o una delle sue sorelle. Quando la ragazza fu salita sul palco, la donna teneva già in mano il biglietto che avrebbe strappato un altro ragazzo dalla propria famiglia. 
Chiuse gli occhi. Non voleva sentire niente, la paura lo faceva tremare.
Senti una mano posarsi sulla sua spalla e quando aprì gli occhi, tutto il distretto lo stava fissando. Non ci mise molto a capire. Si girò e cominciò ad avanzare verso il palco, voleva far vedere a tutti che era forte e che non aveva paura. Passò davanti a Demetria che, con una lacrima che le cadeva lentamente sulla guancia, lo salutò. Dal palco vide sua madre mentre se ne andava, girandogli le spalle, diretta verso casa. Cadde in ginocchio davanti a tutti con lo sguardo perso, lontano.
Sua madre se n'era andata lasciandolo al suo destino, senza degnarlo di uno sguardo, senza versare nemmeno una lacrima. Di solito i genitori urlavano, piangevano e provavano a correre verso i figli. 
Non questa volta. Questa volta Rye Hatway, era l'unico ragazzo ad essere stato scelto, e abbandonato dalla famiglia.
Ancora sconvolto, si alzò e tese la mano all'altro tributo. Non avrebbe mai immaginato che sarebbe stato scelto, ma la sorte aveva voluto così. Rye si considera già morto, avrebbe voluto solo dire addio alla sua famiglia e dire a sua madre che nonostante tutto, la amava. 
Felici Hunger Games

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Capitolo 8
*** Johanne Mitch. ***


Johanne Mitch - Distretto 2.

Johanne Mitch si sarebbe offerta volontaria come tributo. 
Erano ormai alcuni anni che questo pensiero gli gironzolava per la testa, e finalmente aveva deciso. Alla settima edizione degli Hunger Games lei si sarebbe presentata come volontaria, niente le avrebbe fatto cambiare idea. Molte, anzi troppe, persone ci avevano provato; questo comportamento non aveva fatto altro che alimentare la sua pazzia. Forse quella gente non la credeva abbastanza forte per vincere? E lei gli avrebbe dimostrato il contrario. Certo, forse di corporatura non sarebbe stata la più forte, ma un cervello come il suo nessuno se lo poteva permettere. Era una delle ragazze più furbe e intelligenti di tutto il distretto, una di quelle che avrebbero potuto permettersi di vincere uccidendo il meno possibile, nascondendosi e agendo di testa. Era anche molto agile; correva molto veloce e sembrava che i pugnali fossero un prolungamento della sua mano. Ne aveva di possibilità, e le avrebbe potute sfruttare al meglio. Inoltre, era da più di un anno che si addestrava, in attesa di questo momento. Ed era più che pronta. Uscì da casa, vestita di tutto punto per la mietitura; accanto a lei c'erano i suoi genitori, uno da un lato e uno dall'altro, quasi volessero proteggerla prima dell'inizio dei giochi. Portava i capelli sciolti sulle spalle e un vestitino azzurro. Per strada, occhi curiosi non facevano altro che guardarla, e Johanne si sentiva troppo osservata. E lei odiava essere osservata. Doveva starsene per giorni e giorni con delle telecamere che la riprendevano qualsiasi cosa facesse, e questa era l'unica cosa che la infastidiva degli Hunger Games, per il resto nessun problema. All'improvviso, viene accerchiata da decine di persone che gli sorridono, speranzose. Naturalmente si sa già da tempo chi sono i volontari per l'anno, ma lei non aveva mai parlato con il ragazzo che sarebbe stato al suo fianco.
"Johanne, buona fortuna!"
"Johanne Mitch, sei sicura che non ti ritirerai?"
"Jo, sei la migliore!"
"Vinci per noi, Mitch!"

La maggior parte della gente era grata alla ragazza perchè salvava i loro figli dal massacro anche questo anno; altra, perchè sperava portasse gloria al Distretto, anche se era uno dei distretti più vincenti delle ultime 3 edizioni. Johanne si sentiva sballottata da una parte all'altra, e iniziava a girarle la testa. Era circondata da persone per la maggior parte sconosciute, ma che la adoravano in quel momento come se fosse una delle loro figlie.
"Andatevene." 
Iniziò a dire in modo rude la ragazza, ma pareva del tutto inutile; più lei cercava di scappare più quelli gli si stringevano intorno. Ormai aveva perso di vista persino i suoi genitori, che probabilmente erano stati spinti via dalla calla. Stava soffocando la in mezzo, gli mancava l'aria. Cercava di levarsi, ma con scarsi successi. E non voleva sentirsi male prima degli Hunger Games, sarebbe apparsa troppo fragile e piccola. Per questo, iniziò a dimenarsi a più non posso, evitando di fermarsi, e iniziò a urlare.
"LEVATEVI DA QUI, ANDATEVENE!"
Gridava, con tutto il fiato che aveva in gola. All'improvviso pare che tutta la folla si allontani da lei, e a una certa distanza inizi a guardarla come una pazza. Si sentivano mormorii fra la gente, che iniziava a chiedersi se fosse pazza. E anche lei li sentì, per questo si arrabbiò più che prima. Come si permetteva quella gente che prima la incitava a dire ora che era una pazza?
"Io non sono pazza. Sto per andare a fare ciò che nessuno dei vostri figli ha il coraggio di fare. MERITO RISPETTO!" 
Con il fiatone, non riusciva a parlare e si impicciò su qualche parola, ma il coraggio sicuramente non gli mancava. Riprese a respirare lentamente, mentre la folla si diradò, e venne affiancata nuovamente dai suoi genitori, che la rincorsero preoccupati.
"Amore, stai bene?"
La ragazza si girò verso sua madre, che la guardava ansiosa di sapere. Sorrise, e annuì. Intanto, pensava. Sua madre si preoccupava per così poco, invece quando lei aveva dato la notizia che si sarebbe offerta volontaria, la donna ne era stata più che entusiasta. Per questo non sapeva spiegarsi che donna era sua madre; non sembrava affatto che sua figlia stesse per andare a morire, anzi, la guardava più fiera di tutti i giorni.
Johanne continuò a camminare, con lo sguardo fisso davanti a se, cercando di non pensare a ciò che era successo poco fa. Capì che forse la tensione iniziava a farsi sentire, se ne accorse dal modo in cui si sfregava le mani e torturava le unghie. 
"Auguri tesoro." La madre gli diede un bacio sulla fronte, appena raggiunsero i limiti della piazza. Johanne chiuse gli occhi e cercò di assaporare da quel bacio tutta l'essenza di sua mamma, tutto il profumo. Sentì gli anni che aveva passato con lei piombarle addosso tutti in un momento, si ricordò tutti i bei momenti passati insieme. Dovette staccarsi all'istante per non piangere e non fare la figura della perditempo. A suo padre bastò una semplice pacca sulla spalla, come segno di affetto, anzi, era fin troppo per lui. Non era il tipo che si allargava con l'amore, ma non aveva mai sgridato Johanne. Era il tipo che non parlava molto, era più la moglie che decideva per lui.
"Ci vediamo dopo."
Johanne si volto, e per l'ultima volta vide i suoi genitori al di fuori di quei maledetti giochi, al di fuori di tutto. Da quel momento li avrebbe visti solo un'altra solo volta, ma almeno questa era sicura. Perchè per quanto lei si sentisse pronta, non poteva essere certa di vincere.
L'unica cosa al mondo certa è la morte.
Si mise in fila insieme alle altre ragazze, che chiacchieravano allegramente, certe di non essere scelte. Perchè era lei quella che sarebbe andata sicuramente ai giochi, perchè era la più coraggiosa li dentro. Dopo circa mezz'ora, tutti i ragazzi erano stati schierati e da tutti era stato prelevato il campione di sangue. In quella mezz'ora, Johanne aveva cercato di non pensare a cosa stava andando incontro; voleva la mente sgombra e lontana da tutti i pensieri, non doveva pensare a sua madre e alla sua famiglia, doveva rimanere concentrata sul suo obiettivo. 
"Buongiorno, tributi."
Alzò la testa, incrociando lo sguardo con la mietitrice che la fissava. Possibile che anche lei sapesse chi fossero i volontari? Solito discorso noioso che si sentiva da ormai sette anni, ma stavolta Johanne si stupì della sua voglia di ascoltarlo. Non capiva come Capitol City potesse approvare un massacro simile; non trovava nessuna spiegazione seria. Nei distretti più poveri la gente moriva di fame, e in più due ragazzi gli venivano tolti ogni anno. Volevano decimare la popolazione?
La donna finì il discorso, poi si guardò intorno. Solitamente, nel distretto dei Favoriti si aspettava un attimo prima di estrarre i nomi, in attesa di qualche volontario.
"Bhè?" Disse la donna, dal microfono.
Johanne esitò un momento. Tutti gli occhi erano puntati su di lei, famelici. Gli arrivarono anche un paio di spinte da alcune ragazze, ma poi la vera combattente prese il sopravvento
"Mi offro volontaria!"
Gli occhi si puntarono su di lei, mentre il grido anche del ragazzo echeggiava per la piazza. Si girò, scrutandolo con lo sguardo freddo, per poi iniziare a salire verso il palco prima di lui, come per prendere subito la supremazia. Raggiunge la mietitrice e si mette di fianco a lei, guardando con sguardo fiero e potente il pubblico che la osservava.
"Tributi, stringetevi le mani!" Johanne prese la mano del ragazzo e la stritolò, quasi come se la volesse staccare dal suo braccio. Lui la ritrasse e la massaggiò senza farsi vedere, ma era palesemente provato. 
"Johanne, sei una ragazza coraggiosa, complimenti!" Esclamò la donna, ignorando il ragazzo.
"So che vincerò, non sarà affatto difficile." Mormorò, scrutando il ragazzo. Se un volontario era così pappamolle, bisognava figurarsi gli altri. La donna rimase interdetta dalla sua risposta, e finì di parlare con lei, chiudendo la mietitura in fretta.
Mentre Johanne veniva allontanata si guardò per l'ultima volta intorno, salutando il distretto al quale lei voleva solo portare la gloria. Voleva solo sentirsi accettata, voleva essere qualcuno in più della semplice Johanne.
Lei sarebbe stata Johanne Mitch, la vincitrice della settima edizione.
Felici Hunger Games.

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Capitolo 9
*** Susan Heartcliff ***


Distretto 3.


Era sempre la solita storia, ormai da tre anni. Ogni tre anni, il giorno della Mietitura suo padre iniziava il suo solito discorso che lei non riusciva davvero a sopportare, sin dalla prima volta. Si ritrovavano lui e lei seduti al tavolo di legno, e suo padre parlava. E Susan non trovava niente di meglio da fare che seguire i nodi del legno con le dita e guardare un punto fisso della stanza, annuendo a ogni parola del padre. Non era il tipo di persona che prestava particolare attenzione alle cose; se non gli interessavano non le calcolava proprio, altrimenti poteva capire tutto dell'argomento. Peccato che questo discorso la incitava a fare una cosa che lei non voleva assolutamente.
"E quindi devi offrirti volontaria. Perchè devi salvare tua sorella, nel caso venga estratta. Sai che lei non ce la può fare. Tu sei furba, intelligente. Sai usare bene le piante, sai guarire delle ferite, sai usare le armi. Lei no. Lei morirebbe. E' compito tuo salvarla."
Rimase interdetta ancora una volta dalla fine del discorso, sperava almeno che quest'anno evitasse di mostrare così palesemente la preferenza per la figlia più piccola. E invece lo fece un'altra volta; dopotutto suo padre gliel'aveva detto più volte che preferiva Marie, e a Susan faceva ogni volta più male. Sua madre era morta partorendo la piccola, e Susan si era sempre dovuta ritrovare a fare la padrona di casa della situazione. Ormai suo padre la trattava più come una moglie che una figlia, arrivando persino a mettergli le mani addosso.
"Non ho intenzione di farlo."
Non aveva neanche alzato lo sguardo dal tavolo, i suoi occhi non si erano mossi, solo le sue labbra avevano detto la dannata frase.
Suo padre si alzò di scatto, piantando i pugni sul tavolo, guardandola con gli occhi sbarrati.
"Susan Heartcliff, tu lo farai eccome!"
A quel punto la ragazza alzò gli occhi, guardandolo con indifferenza, per poi tornare sui suoi nodi del legno.
"Guardami quando ti parlo, maledetta!" La sua mano caricò uno schiaffo che prese Susan su una guancia, che subito si arrossò. La ragazza si alzò in piedi, e lo guardò mentre l'occhi che il padre aveva colpito era pieno di lacrime.
"Mi fai schifo!" Esclamò la ragazza, in un atto di coraggio, sputando ai piedi del padre. E poi scappò. Aprì la porta di casa e corse più veloce del vento, lontana da quella casa piena di dolore e sofferenze; fuggì da sua sorella, che doveva essere protetta. Fuggì da suo padre che avrebbe voluta mandarla alla morte. Fuggì dal ricordo di suo fratello, morto nella fabbrica dove lavorava. E fuggì da lei stessa, e dai suoi pensieri. Correva veloce, scappava dal suo passato e dal suo destino. E anche da suo padre che la inseguiva, con un bastone in mano. Quando Susan se ne accorse, prese a correre più veloce di lui; era stanco e vecchio, e lei era giovane e agile. Riuscì a distanziarlo di qualche metro, fino al punto che era sicura di averlo seminato. Proprio per colpa della sua distrazione, non si accorse del ragazzo che avrebbe fermato la sua corsa. E neanche lui se ne accorse, perchè si scontrarono.
Susan era più piccola di lui, fisicamente, e quindi fini in terra, con lo sguardo rivolto verso di lui. Non ci mise molto a realizzare che suo padre era ancora dietro di lei così, senza dire una parola, si alzò velocemente e si nascose dietro una siepe, sotto lo sguardo incuriosito del ragazzo. Il suo cuore batteva forte per la corsa e per la paura; se fosse stata presa, suo padre non avrebbe avuto pietà. Forse aveva davvero esagerato. Lo vide arrivare: affannato per la corsa, si piegò e poggiò le gambe alle ginocchia, ansimando. Susan osservava tutto dalla posizione che aveva preso, impaurita persino per poter respirare.
"Hai visto una ragazza?"
"Si signore!"

Rimase ferma, immobile. Sentì il cuore battere sempre più forte, e poi all'improvviso diminuire; il ragazzo l'avrebbe tradita? Guardava impietrita la scena, sperando che lui si fosse messo nei suoi panni e che avesse avuto un po' di buon senso.
"E' andata verso il fornaio."
Rispose infine, dando un'occhiata al punto dove era nascosta. Suo padre riprese a correre e lei riuscì finalmente a tirare un sospiro di sollievo.
"Puoi uscire fuori, è andato via!"
Susan si alzò, mettendosi una mano sul petto e iniziando a respirare regolarmente di nuovo. Il ragazzo gli porse una mano, e lei la prese, aiutandosi con essa a scavalcare di nuovo la siepe. Sentiva ancora le gambe che le tremavano per la paura; aveva più paura di suo padre che della morte.
"Bhè, grazie."
Non aveva intenzione di dare spiegazioni a uno sconosciuto sulla sua vita privata; magari neanche lo avrebbe più rivisto, quindi non gli importava nulla. Così corse via, fortunatamente ci metteva poco a recuperare il fiato di cui aveva bisogno. Sentiva gli occhi del ragazzo puntati su di lei, ma ormai i suoi pensieri erano di nuovo da un'altra parte.
Corse fino alla piazza, fino a che non aveva più fiato, Voleva che quella giornata passasse. Voleva tornare a casa con sua sorella, con suo padre per scusarsi e per dirgli che gli voleva bene, nonostante tutto ciò che gli aveva fatto passare. Si fece prelevare velocemente il campione di sangue, e poi si mise in fila; distante da Marie, che la guardava torva. Aveva ascoltato la discussione con il padre, ed era dalla sua parte; tanto in famiglia l'unica cosa importante era Marie.
Distolse lo sguardo dalla sorella, giusto in tempo per vedere la donna salire sul palco, con il suo vestito colorato e la parrucca penosa. Iniziò il discorso sui giochi, di quanto fossero importanti gli Hunger Games e di quanta gloria andasse al sopravvissuto. Poi, contro il volere di tutti, la donna iniziò a parlare di quel maledetto incendio nella fabbrica.
E Susan smise di ascoltarla.
Nella sua testa iniziano ad affollarsi solamente immagini di quella notte, delle grida.
"Estraiamo prima il maschietto."
Era tranquilla quella notte, non sarebbe dovuto esserci nessun problema. C'erano persino le stelle, cosa rara nel distretto 3.
"Rupert Windsor."
Non alzò lo sguardo, continuò a ricordare.
Secondo i Pacificatori fu colpa di una scintilla.
"E ora, la nostra femminuccia."
Prese fuoco una tenda, e fu la fine. Fiamme.
"Susan Heartcliff."
Fiamme, fuoco, calore. Persone che scappavano da una parte all'altra. Gente che riuscì a salvarsi. E suo fratello Eric rinchiuso in una stanza senza via di uscita. Lacrime, dolore.
Susan alzò la testa, mentre gli sguardi erano puntati su di lei. Era stata scelta, scelta per gli Hunger Games. Almeno suo padre ne sarebbe stato contento.
Asciugò la lacrima che era uscita prima che le telecamere la raggiungessero, non voleva essere presa per debole. Salì le scale, e il suo sguardo incrociò quello del tributo maschio. Ecco dove l'aveva già visto.
Si affiancò alla donna, stringendo la mano a Rupert. Lui era li la notte dell'incendio. Lui era sopravvissuto e Eric no.
Si guardarono negli occhi un'altra volta; non avrebbe esitato ad ucciderlo, non era giusto che lui fosse salvo e suo fratello no. Lo odiava per questo, come odiava questi maledetti giochi.
Avrebbe vinto per Eric, solo e solamente per lui. Sarebbe stata forte per il fratello che gli mancava tanto, per quella che era stata per anni la ragione della sua vita ed era scomparso.
Non avrebbe ancora raggiunto suo fratello, non in questi giochi.
Felici Hunger Games.

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