Oceanic 815

di Bale
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hugo ***
Capitolo 2: *** Sayid ***
Capitolo 3: *** Claire ***
Capitolo 4: *** Shannon ***
Capitolo 5: *** John Locke ***
Capitolo 6: *** Kate ***
Capitolo 7: *** Charlie ***
Capitolo 8: *** Michael ***
Capitolo 9: *** Sun ***
Capitolo 10: *** Boone ***
Capitolo 11: *** James ***
Capitolo 12: *** Jin ***
Capitolo 13: *** Jack ***



Capitolo 1
*** Hugo ***




OCEANIC 815
 


Hugo



 




Era incredibilmente in ritardo.

O forse non era poi così incredibile viste le sventure che gli stavano piovendo addosso come grandine da qualche mese a quella parte.

Era proprio per quel motivo che aveva affrontato un così lungo viaggio.

Si era recato in Australia per scoprire l’origine di quei numeri, fonte della sua sfortuna.

L’assistente di volo aveva riaperto il Gate e lo aveva lasciato salire sull’aereo nonostante il ritardo.

Hugo l’aveva ringraziata, poi con aria mesta era salito sull’aereo e aveva raggiunto il suo posto.

Non si era guardato troppo in giro, si era limitato a sedersi  composto e ad allacciare la cintura.

Si era infilato le sue amate cuffie e aveva cominciato ad ascoltare musica, per isolarsi da un mondo nel quale quasi mai si sentiva a posto.

Hugo Reyes era proprio una di quelle persone che faticano molto a trovare il loro posto nel mondo.

La madre gli ripeteva sempre che probabilmente era per via della sua taglia, ma lui riusciva tranquillamente ad ignorarla. Non ci stava male poi più di tanto.

Ciò che, invece, lo faceva stare male era suo padre. Probabilmente era proprio a causa della sua improvvisa sparizione che si era dato così da fare con i dolci e con il cibo in genere.

Chiuse agli occhi e pensò al pollo, uno dei maggiori protagonisti delle sue fantasie.

Li riaprì all’improvviso, sconvolto.

Aveva comprato una catena di fast food, la sua preferita, ma questo gli aveva causato soltanto sventure.

In realtà la sua vita era costellata da sventure da quando aveva vinto alla lotteria.

Lo aveva fatto con i numeri di Lenny, lo aveva fatto innocentemente.

4  8  15  16  23  42

Ripeté i numeri nella sua testa, più di una volta, poi cercò di scacciarli per sempre.

Sapeva bene che non ci sarebbe mai riuscito.

Da quando li aveva usati aveva assistito alla morte di una giornalista, aveva subito un arresto e aveva anche assistito all’incendio della casa che, con tanto amore, aveva comprato per sua madre.

Doveva davvero morire per porre fine a quella maledizione e per salvare i suoi cari dalle tragedie che si avventavano su di lui come avvoltoi?

Chiuse di nuovo gli occhi e si abbandonò a quella musica.

Dopotutto cosa poteva accadere di peggio?

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Capitolo 2
*** Sayid ***




Sayid




 



Aveva già il cuore in gola.

Presto avrebbe ritrovato Nadia, l’avrebbe rivista dopo tanti anni.

Nenache ricordava più quanti ne erano passati.

Si sistemò meglio sul sedile dell’aereo e allacciò la cintura di sicurezza.

Il suo pensiero andò inevitabilmente al suo amico Essam.

Era morto proprio davanti ai suoi occhi, si era suicidato dopo aver appreso del suo tradimento.

Era stato quello il prezzo da pagare per riavere Nadia con sé?

Perché doveva sempre esserci qualcosa da pagare? Perché, una volta tanto, la vita non poteva essere semplice anche per lui?

Chinò lo sguardo e si raccolse in preghiera per il suo amico ormai sepolto.

Gli aveva augurato di trovare ciò che cercava proprio un attimo prima di premere il grilletto.

Ora, Sayid, si trovava a un passo da quel traguardo, ma con un enorme peso sullo stomaco.

In passato si era macchiato di crimini orribili, era stato un torturatore. Era diventato un uomo di ferro, un uomo che non teme nulla.

Eppure, in quel momento, raggomitolato sul sedile di un aereo di linea, incominciava a sentire sulle spalle il peso di tutto quello che aveva fatto.

Era un uomo cattivo, ormai era marchiato come tale. Non avrebbe potuto fare nulla per capovolgere quella verità.

La sua indole era malvagia, insensibile e molto probabilmente neanche Nadia avrebbe voluto avere a che fare con un uomo come lui.

L’aveva fatta scappare, certo, ma non aveva smesso di uccidere. Dopotutto sarebbe stato del tutto impossibile.

Lui era quello che era e nessun essere umano, nessuno luogo avrebbe mai potuto cambiare le cose.

Un improvviso trambusto lo spinse a voltarsi.

Un omaccione enorme era appena salito sull’aereo, carico di borse e zuppo di sudore.

Si sedette qualche posto più indietro, ringraziando l’assistente di volo.

Lei gli sorrise dolcemente e gli chiese con gentilezza di allacciare la cintura.

Sayid, per un istante, invidiò quell’omaccione enorme.

Nessuno avrebbe mai rivolto a lui un sorriso tanto gentile.

Lui era diverso, era un assassino.

Non aveva alcuna speranza di riuscire a cambiare.

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Capitolo 3
*** Claire ***


 


Claire



 






Una giovane assistente di volo la aiutò a sedersi.

Ormai la sua pancia era diventata talmente grande da impedirle anche il più banale movimento.

Riusciva a malapena a passare tra le file di sedili dell’aereo.

Ringraziò la hostess con un sorriso. Lei si congedò ricordandole di allacciare la cintura di sicurezza.

Claire sgranò gli occhi.

Come avrebbe fatto ad allacciare la cintura su quel pancione enorme?

-Oh, non si preoccupi-   disse all’improvviso una voce alle sue spalle.

Claire si voltò di scatto con aria interrogativa.

-Le cinture si allargano-   continuò il ragazzo biondo seduto proprio dietro di lei.

Claire non poteva vederlo bene attraverso i sedili e di certo non poteva muoversi o spostarsi per poter scorgere meglio quel viso a cui apparteneva una voce tanto gentile.

-Grazie-   gli urlò distrattamente in risposta. Poi afferrò i due lembi della cintura e tentò di allacciarla.

-Vede quell’uomo paffuto laggiù? Lui è riuscito a metterla. Ce la farà anche lei-   disse ancora la voce alle sue spalle.

Claire si voltò di nuovo e riuscì a scorgere tra i sedili un occhio azzurro che le faceva l’occhiolino.

Guardò poi, per un attimo, il tipo che le era stato indicato. Aveva l’aria simpatica, ma era decisamente enorme. Ascoltava musica con aria beata, tenendosi ferme le cuffie con le mani.

Sorrise divertita, poi, finalmente, riuscì ad allacciare la cintura.

-Ce l’ho fatta-   esclamò rivolgendosi all’uomo misterioso seduto dietro di lei.

-Le avevo detto che ci sarebbe riuscita-   disse ancora quella voce ormai quasi del tutto impersonale.

Claire sorrise. Poi, improvvisamente tornò seria.

Si portò le mani su quell’enorme pancione che le aveva causato solo guai.

Il padre del bambino, il suo fidanzato, il ragazzo che lei aveva creduto tanto serio e leale, se n’era andato e l’aveva lasciata in quel brutto pasticcio.

Lei, allora, aveva deciso di dare il bambino in adozione ed era proprio quello il motivo per il quale si trovava su quell’aereo.

Una famiglia normale sarebbe andata a prenderla all’atterraggio, si sarebbe presa cura di lei e alla fine avrebbe cresciuto il suo cambino.

Sì, sarebbe stato bene. Sarebbe andato tutto per il meglio.

All’improvviso chinò lo sguardo, al ricordo di ciò che le aveva detto quello strano veggente.

Ancora faticava a credere di essersi lasciata convincere ad andare da lui, ma alla fine aveva ascoltato e preso sul serio tutto ciò che le aveva detto.

Era stato lui ad indicarle la famiglia che avrebbe adottato il piccolo ed era stato lui persino a procurarle il biglietto aereo.

Ma allora perché all’inizio l’aveva quasi implorata di crescere il bambino da sé?

Cercò di scacciare quel pensiero.

Era tutto molto strano, ma ben presto sarebbe tornato alla normalità.

Il suo bambino sarebbe nato e avrebbe avuto una famiglia vera.

Lei, infine, sarebbe ritornata alla sua squallida e vuota vita.

Non c’era nulla che poteva turbarla in quel momento.

Era del tutto sicura di quello che faceva.


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Capitolo 4
*** Shannon ***




Shannon






 



Si sentiva sporca, nonostante avesse trascorso più di un’ora sotto la doccia prima di andare all’aeroporto.

Era stata a letto con Boone, suo fratello.

Si voltò a guardarlo.

Era seduto accanto a lei, ma non l’aveva degnata neanche di uno sguardo da quando erano saliti a bordo.

Leggeva distrattamente una rivista trovata sul sedile.

“E’ il mio fratellastro”   ripeté tra sé per far sembrare meno raccapricciante ciò che era successo tra loro la sera precedente.

Lui, invece, sembrava non pensarci affatto.

Se ne stava lì tranquillo a leggere la sua stupida rivista.

Improvvisamente Shannon provò un moto di repulsione. Si accorse solo allora di odiarlo con tutte le sue forze.

Aveva sempre predicato di volerle bene come una sorella vera, poi era venuto fuori che se ne era innamorato.

Eppure non l’aveva mai aiutata davvero.

Di certo aveva pagato un paio di suoi fidanzati per sparire quando aveva appreso che erano violenti con lei, ma non l’aveva minimamente aiutata nella battaglia contro sua madre.

Quell’insulsa donna le aveva portato via tutti i suoi soldi e Boone non aveva mosso un dito.

Aveva finto di chiederle un prestito per poi dare i soldi a Shannon, ma alla fine era tornato a casa con il broncio dicendo che la madre aveva scoperto i suoi piani.

Era uno stupido ragazzino, niente di più.

Aveva paura di sua madre e aveva paura anche di lei.

Altro che amore, lui la temeva.

Si era sempre piegato al suo volere come un’auto sotto un tir.

Forse era per quel motivo che Shannon era diventata cattiva, perché sapeva di poterlo essere con lui.

All’improvviso si accorse che Boone stava chiacchierando con un altro passeggero.

Si sporse per vedere chi fosse e che aspetto avesse.

Era un uomo calvo, di mezza età.

Quando la scorse le fece un cenno di saluto, ma lei non rispose.

Ritornò al suo posto con aria disgustata e chiese alla hostess che stava passando se poteva usare il bagno prima del decollo.

Lei annuì, pregandola però di fare in fretta.

Shannon balzò in piedi all’istante e, nella fretta, andò a finire addosso ad un uomo che stava cercando il suo posto.

-Mi scusi-   biascicò tenendo lo sguardo ben fermo sui suoi piedi.

-SI figuri-   rispose lui.

Aveva uno strano accento e una voce familiare.

Shannon alzò lo sguardo e finalmente lo vide.

Sembrava arabo, aveva un sorriso gentile.

Era lo stesso uomo che in aeroporto le aveva chiesto di badare al suo bagaglio.

Lei aveva avvisato la polizia.

Non chinò lo sguardo imbarazzata. Shannon era fatta così: non aveva mai provato rimorso o vergogna per quello che faceva.

-Mi perdoni-   disse appoggiandogli una mano sulla spalla per intimarlo a lasciarla passare.

Raggiunse il bagno in fretta e si richiuse rumorosamente la porta alle spalle.

Andò verso lo specchio e prese a fissarsi intensamente.

In quel momento Shannon desiderò che l’arabo morisse, che Boone morisse, che tutti i passeggeri di quell’aereo morissero.

Strinse gli occhi come per esprimere meglio quel desiderio.

Poi, tornò tranquilla al suo posto.


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Capitolo 5
*** John Locke ***




John
 








Si sentiva sfinito, come se avesse fatto una lunga corsa.

In realtà neanche ricordava più quanto fosse stancante correre.

Si passò i palmi sulle gambe, poi cominciò a prendersele a pugni.

Perché? Perché era capitato proprio a lui?

Tentò di trattenere le lacrime.

A dire il vero, però, anche se avesse pianto, nessuno avrebbe potuto vederlo.

Era salito sull’aereo per primo. Lo avevano trasportato a braccio due assistenti di volo.

Si sentiva incredibilmente umiliato, sia dagli assistenti di volo che con fatica lo avevano accompagnato al suo posto, sia da quell’insulso omino che poche ore prima gli aveva impedito di realizzare il suo sogno.

Ma in fondo la colpa era solo e soltanto sua, di John Locke. Aveva lasciato che gli dicessero che non lo poteva fare, che non ne era in grado.

-Non ditemi che non lo posso fare!-   aveva urlato alle spalle di quell’uomo, mentre l’autobus turistico partiva senza di lui.

Smise di prendere a pugni le sue cosce insensibili, ma chinò lo sguardo su di esse.

Non sarebbe mai tornato tutto come prima.

Si lasciò sfuggire un timido gemito di dolore, di disperazione. Poi i passeggeri iniziarono ad occupare l’aeroplano.

Una coppia di coreani gli passò accanto ignorandolo, un distinto signore in giacca e cravatta gli rivolse un sorriso incrociando il suo sguardo mentre metteva a posto il suo bagaglio a mano.

Infine, un giovane ragazzo con gli occhi azzurri si sedette accanto a lui.

Era accompagnato da una giovane donna bionda dall’aria del tutto infastidita.

No, non poteva essere la sua fidanzata. Sembrava si odiassero.

Si sistemarono con cura al suo fianco, battibeccando in continuazione.

Poi, il ragazzo si rivolse a lui.

-Ci scusi-   disse sorridendo.

John annuì, poi rispose:

-Di nulla-

A queste parole la ragazza bionda si sporse per vedere con chi stesse parlando il ragazzo.

Lui la salutò con un cenno, lei si ritirò disgustata.

Doveva essere un gran bel tipetto.

-Comunque io sono Boone-   disse il ragazzo porgendogli la mano.

-Io sono John-   rispose lui stringendogliela.

-Ci aspetta un viaggio lungo-    disse Boone, mentre la ragazza bionda si allontanava, probabilmente per andare in bagno.

John annuì con un sorriso.

-Già-   confermò di nuovo il ragazzo   -Ma per fortuna non sono capitato accanto ad un passeggero obeso o fastidioso. Lei sembra simpatico-

John sorrise ancora all’ingenuità di quel ragazzo. Lui di certo non poteva neanche immaginare chi fosse davvero John Locke.


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Capitolo 6
*** Kate ***




Kate

 





Teneva le mani sotto il tavolino dell’aereo.

Non voleva che gli altri passeggeri si accorgessero delle manette.

Non voleva che comprendessero il suo stato.

Era una fuggiasca.

Anzi, ormai non lo era più.

Era diventata una prigioniera a tutti gli effetti.

Un giovane con i capelli biondi passò tra i sedili e le lanciò un’occhiata indecifrabile. Lei affondò ancora di più i polsi tra le ginocchia.

Non voleva che cominciassero a guardarla con compassione o peggio, con disprezzo. Non voleva che tutti cominciassero a chiedersi che cosa aveva fatto.

E poi, dopotutto, non appena ne avesse avuto occasione, sarebbe fuggita via da quell’uomo spregevole e non voleva che nessuno lanciasse l’allarme.

Si sentiva umiliata, non tanto dalle manette, ma dallo sguardo trionfante dell’uomo seduto accanto a lei.

In realtà, però, ciò che l’aveva umiliata più di qualunque altra cosa era stata la denuncia da parte di sua madre.

Sua madre.

Possibile che non capiva che lo aveva fatto per lei?

Come aveva potuto scegliere quell’uomo e non sua figlia?

E soprattutto, come aveva potuto tenerle nascosto che quell’ubriacone era suo padre?

Scosse la testa come per scacciare via quei pensieri.

Presto sarebbe fuggita e sarebbe ritornata alla vita di sempre.

Dopotutto si era abituata ad essere una fuggiasca e quasi quasi cominciava a piacerle.

Poteva essere sempre una persona diversa, cambiare quando voleva.

Poteva essere ciò che desiderava, poteva raggiungere ciò che non era mai riuscita ad afferrare.

Aveva girato l’America intera, aveva conosciuto molte persone.

Era finita persino a Sydney e, se quel giorno fosse riuscita a scappare, magari sarebbe andata in Italia.

Era una nomade. Era una donna senza terra, senza radici.

Le uniche radici che aveva mai avuto le erano state strappate via con la forza.

Prima sua madre, che l’aveva denunciata, poi l’amore della sua vita.

Si era persino sposata una volta, ma poi aveva rovinato tutto proprio perché si era resa conto che una vita troppo stabile non faceva per lei. Non ci era più abituata.

In realtà, aveva soprattutto temuto di essere scoperta e non avrebbe potuto tollerare la delusione sul volto di quell’uomo che aveva sinceramente amato.

Eppure, aveva sempre avuto nostalgia di casa, di sua madre. Nonostante tutto.

Aveva sperato, nel profondo del cuore, di essere presa.

Aveva sperato di ritornare a casa, dove era cresciuta.

Tutto sommato, casa sua era sempre stata lì, a Los Angeles. Lì dove si era sbucciata le ginocchia da piccola, dove aveva imparato ad andare in bicicletta, dove si era innamorata per la prima volta, dove era stata una bambina e dove era diventata prima adolescente poi donna. Casa sua era dove aveva commesso l’omicidio per il quale sarebbe finita in galera.

Sarebbe scappata, ce l’avrebbe fatta.

Sprofondò nel sedile affondando sempre di più i polsi cerchiati dalle manette.

Sospirò, chiedendosi se questa volta ne avrebbe avuto la forza, se lo voleva davvero.

Se voleva davvero ritornare ad essere una fuggiasca.


 

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Capitolo 7
*** Charlie ***




Charlie




 


Continuava a muovere i piedi in cerca di una posizione più comoda.

Si sentiva irrequieto, cominciava a sudare.

Un’assistente di volo comparve all’improvviso alle sue spalle, facendolo sussultare.

Charlie aprì la bocca per parlarle. Avrebbe voluto chiederle se c’era ancora tempo prima del decollo e se poteva andare in bagno.

Decise di tacere non appena si accorse che la hostess stava aiutando una giovane donna incinta a trovare il suo posto.

-Eccolo. E’ questo qui-   le annunciò fiera, indicando il sedile proprio davanti al suo.

La giovane donna si sedette con fatica. Il suo pancione era davvero enorme.

Charlie pensò che doveva essere almeno all’ottavo mese.

L’assistente di volo ricordò alla donna di allacciare la cintura, poi sparì da dove era venuta.

Lui si sporse leggermente in avanti e lanciò un’occhiata tra i sedili.

Voleva osservare meglio la nuova arrivata, o forse voleva soltanto trovare un modo per distrarsi da ciò che lo rendeva tanto irrequieto.

La droga.

La droga e suo fratello Liam.

Sì, tutti i suoi guai erano sempre stati dovuti a suo fratello. Dopotutto era proprio a causa sua che aveva iniziato a drogarsi.

Lo aveva fatto perché lui lo faceva e Charlie voleva soltanto assomigliargli un po’.

Gli era sempre sembrato un ragazzo felice, pieno di successi e, per uno stupido momento, aveva pensato che tutto ciò che Liam aveva era dovuto all’eroina. Sì, aveva iniziato a drogarsi proprio per quel motivo: voleva un pezzetto di quella felicità.

Ben presto aveva capito che non poteva esserci felicità, soprattutto quando la droga ti costringe a rubare per poter avere un’altra dose oppure quando vedi che tuo fratello è pronto a voltarti le spalle nonostante le innumerevoli volte in cui sei stato tu a salvargli la pelle.

Charlie aveva fatto molti sacrifici per suo fratello, aveva fatto cose che non voleva fare pur di vederlo sorridere, pur di vedere che si sentiva realizzato.

Liam, di contro, non ci aveva pensato due volte a negargli il suo aiuto.

Ormai aveva la sua famiglia, sua figlia e tutto il resto, compreso lui, era passato in secondo piano.

Sospirò rumorosamente, ma la donna non se ne accorse.

Lui, invece, notò che aveva difficoltà con la cintura di sicurezza.

-Non si preoccupi, le cinture si allargano-    le disse con un sorriso che lei, però, non avrebbe potuto vedere.

-Grazie-   urlò lei in risposta.

Charlie si voltò a guardare il resto dei passeggeri e proprio allora notò un omone incredibilmente sudato he prendeva posto poche file più in là.

Si sedette tranquillo, allacciò la cintura e poi si infilò le cuffie cominciando ad ascoltare musica con aria beata.

-Vede quell’uomo paffuto laggiù? Lui è riuscito a metterla. Ce la farà anche lei-   proseguì Charlie con aria divertita.

Aveva quasi dimenticato la sua astinenza, la dose che lo aspettava impaziente nel bagno dell’aereo.

Il suo respiro era ritornato normale e forse anche la sua sudorazione.

Si aggrappò al sedile e strinse i braccioli con tutta la forza che aveva.

-Ce l’ho fatta!-   esclamò all’improvviso la donna seduta davanti a lui.

Era incredibile, quella voce riusciva a calmarlo come se fosse una ninna nanna e lui un bambino piccolo.

 -Le avevo detto che ci sarebbe riuscita-   le rispose trionfante.

Restò ancora qualche istante lì a fissarla. Poteva vedere soltanto qualche capello dorato e le sue mani bianche e lisce che accarezzavano la sua stessa pancia.

Poi ritornò nella disperazione e nello sconforto.

L’aereo doveva assolutamente decollare, doveva farlo al più presto.

Solo allora lui avrebbe potuto fare una corsa in bagno per la sua dose.

La sua dose.

La dose per la quale incolpava Liam, ma per la quale doveva incolpare solo e soltanto se stesso.

La sua vita non aveva mai avuto un senso e non lo avrebbe mai avuto per nessuno.

Forse soltanto la sua morte avrebbe potuto significare qualcosa.

Chiuse gli occhi e affondò nel sedile, sperando di andare in overdose una volta raggiunto il bagno dell’aereo.


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Capitolo 8
*** Michael ***






Michael


 






Michael guardava suo figlio.

Era incredibile. Quella piccola creatura seduta lì accanto a lui era carne della sua carne, sangue del suo sangue. Eppure Michael non lo conosceva affatto.

Probabilmente se lo avesse incontrato per strada non lo avrebbe riconosciuto.

Lo ricordava quando era ancora un bambino piccolo che, timidamente, si nascondeva dietro le ginocchia della madre.

Aveva permesso a sua moglie di portarglielo via, lontano. Le aveva permesso di togliergli persino la patria potestà.

Walt era stato adottato dal nuovo compagno di sua moglie e lui lo aveva permesso.

Aveva pensato che dopotutto sarebbe stato meglio così. Tutto sommato, sarebbe comunque stato Brian a fargli da padre.

Era sempre rimasto con il dubbio di aver fatto la scelta sbagliata, ma aveva cercato di consolarsi pensando al fatto che ora Walt aveva una famiglia vera. Un padre e una madre che si volevano bene e che vivevano insieme in armonia. O almeno questa era l’idea che Michael si era fatto.

Guardò ancora quo figlio.

Walt.

Almeno il nome lo avevano lasciato scegliere a lui, gli avevano permesso di incidere sulla sua vita almeno un po’, almeno nel nome che avrebbe portato.

Il bambino si voltò a guardarlo con aria stralunata e in quel momento Michael capì di aver sbagliato tutto.

Aveva sbagliato a concedere l’adozione a Brian. Lo aveva sempre sospettato e ne aveva avuto la conferma quando si era sentito dire che doveva andare a riprenderselo dopo la morte di sua madre, perché quell’uomo, colui che glielo aveva quasi strappato dalle braccia, non voleva più saperne.

Rispose allo sguardo di suo figlio con un sorriso.

Lui tornò a voltarsi verso il finestrino.

Stavano per decollare. Presto sarebbero stati a casa e in quel momento Michael giurò a se stesso di proteggere Walt. Lo avrebbe difeso da qualunque cosa, a qualsiasi costo.

Quel bambino aveva bisogno, ora più che mai, di un padre. Un padre che forse non aveva mai avuto o che comunque lo aveva abbandonato alla prima difficoltà.

Già, avevano qualcosa in comune oltre al DNA. Erano stati abbandonati entrambi. Erano soli.

Un giovane uomo in giacca e cravatta passò tra i sedili.

Guardò prima il bambino, poi il padre e sorrise.

Sembrava un sorriso malinconico, perso nel vuoto.

Michael rispose al sorriso, poi l’uomo proseguì per la sua strada senza voltarsi, proprio come avrebbe fatto lui.

Avrebbe proseguito per la sua strada senza voltarsi indietro.

Avrebbe protetto e accudito suo figlio. Non gli importava ciò che era stato.

In quel momento, nel mondo intero, c’erano soltanto lui e Walt.


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Capitolo 9
*** Sun ***






Sun








Il cuore le batteva forte.

Era stata sul punto di andarsene, di abbandonarlo per sempre, ma alla fine non aveva ceduto.

Era rimasta lì accanto a lui, l’aveva seguito su quell’aereo.

Si guardò intorno per un istante, imbattendosi nella sua immagine riflessa dal vetro di un finestrino.

Distolse subito lo sguardo. Non riusciva più a guardarsi.

Si sentiva fuori posto, si sentiva colpevole di qualcosa che non aveva commesso.

Afferrò delicatamente il braccio di suo marito. Lui si voltò a guardarla indispettito.

-I nostri posti sono laggiù-   disse in coreano,  indicando i sedili con un leggero movimento della testa.

Lui le lanciò un’occhiataccia, come per farla sentire colpevole di aver trovato i posti prima di lui. Prima di suo marito.

Dopo averla fissata intensamente, quel tanto che bastava per farle chinare lo sguardo, le fece notare che la sua camicetta non era del tutto abbottonata.

Lei, con aria remissiva, allacciò quell’ultimo bottone che lei stessa aveva sbottonato a causa del caldo.

Si diressero, poi, verso i sedili indicati da Sun e si sistemarono con calma.

Jin la fece sedere nella parte interna del corridoio, in modo che nessuno potesse vederla e soprattutto in modo che lei non potesse vedere né parlare con nessuno, nemmeno con gli assistenti di volo.

Si sarebbe occupato lui di tutto, come sempre.

Era convinto che era quello il suo compito. Doveva sbrigare tutte le questioni.

Sun sospirò, poi si voltò a guardare fuori dal finestrino.

L’aria era calda, si percepiva anche solo con lo sguardo.

Per un attimo fu tentata di slacciarsi di nuovo l’ultimo bottone della camicetta. Avrebbe potuto approfittare della temporanea distrazione di Jin, ma desistette. Se ne sarebbe accorto subito e le avrebbe chiesto di nuovo di ricomporsi.

SI sentiva in gabbia. Aveva voglia di mettersi a urlare, ma non lo fece.

Guardò suo marito. Si stava allacciando la cintura e, di tanto in tanto, lanciava delle occhiate di rimprovero al ragazzo con gli occhi azzurri che discuteva a voce alta con un uomo calvo seduto accanto a lui.

Era seduto poche file più in là e i due coniugi coreani potevano sentire perfettamente ciò che stava dicendo.

Sun si voltò solo un attimo, quel tanto che le bastò per vedere una giovane donna bionda che si alzava e si dirigeva probabilmente verso il bagno.

Per un istante la invidiò.

Era alta, magra, bella, giovane. Portava vestiti sicuramente firmati e camminava in maniera davvero invidiabile su di un bel paio di tacchi vertiginosi.

Doveva essere la ragazza più felice del mondo.

Il ragazzo con gli occhi azzurri probabilmente era il suo fidanzato.

Magari erano felici, lo erano come una volta lo erano stati anche lei e Jin.

Riportò lo sguardo fuori dal finestrino cercando di ricordare il momento esatto in cui lei e suo marito avevano pero la passione l’uno per l’altra e avevano cominciato  a litigare.

Era successo quando lui aveva iniziato a lavorare per suo padre.

Era tutta colpa sua, lo aveva trasformato in un mostro.

Sun sospirò.

E se non fosse stata colpa di suo padre?

Lui aspirava a diventare il marito di una donna ricca e potente, forse si era solo adeguato al suo mondo, o perlomeno aveva creduto di farlo.

E se invece, suo padre non lo avesse trasformato affatto? Se l’unica colpa di suo padre fosse stata soltanto quella di far venire fuori ciò che Jin era veramente?

Chinò lo sguardo sulle sue ginocchia.

Aveva la nausea, la nausea per quella vita che credeva di aver scelto, ma che invece la rendeva ogni giorno più infelice.

Ma allora per quale motivo non aveva avuto il coraggio di scappare poche ore prima all’aeroporto?

Alzò lo sguardo e sorrise a suo marito.

Fu un sorriso freddo, uno di quelli che gli rivolgeva ormai da qualche mese tutte le mattine.

Quello era il suo destino e lei non aveva modo di sfuggire ad esso.



 

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Capitolo 10
*** Boone ***




Boone






 

Shannon tornò dal bagno e si rimise a sedere accanto a suo fratello.

Boone le lanciò un’occhiata storta. In quel momento sentiva di detestarla.

Come diavolo aveva fatto ad innamorarsene? Era una ragazzetta insulsa, viziata e piena di sé. Eppure lui si era affezionato al punto tale da farsi sfruttare in continuazione.

Spesso aveva pagato i suoi fidanzati per sparire e, quando aveva scoperto che lei lo aveva ingannato fingendosi vittima di un uomo violento, ci era persino finito a letto.

Avevano fatto l’amore e, anche se Boone lo aveva spesso desiderato e sognato, all’improvviso desiderò di non aver mai ceduto. Ma in fondo, anche se non avesse ceduto alle sue moine, l’avrebbe comunque portata con sé su quell’aereo e avrebbe continuato a farle da balia per il resto della sua vita.

Non riusciva proprio a spiegarsene il motivo. Quella ragazzetta bionda, con la puzza sotto al naso e con quell’aria di superiorità, era in grado di confonderlo in malo modo.

Eppure si era sempre sentito a casa accanto a lei. Aveva sempre provato una strana sensazione di famiglia, di amore. Una sensazione che sua madre non era mai riuscita a trasmettergli.

-E’ sua sorella?-   gli sussurrò all’orecchio l’uomo calvo seduto accanto a lui.

Boone si voltò senza capire. Lui fece un cenno verso Shannon. Lei non se ne accorse.

-Sì, è mia sorella-   ammise quasi a malincuore. Chinò poi lo sguardo verso le sue stesse ginocchia e si accorse che le sue mani si erano involontariamente contratte. Stava stringendo i pugni così forte da sentire le unghie graffiargli i palmi.

L’uomo calvo accanto a lui non disse altro. Ritornò al suo posto senza guardarlo più in viso.

Boone, invece, si voltò di nuovo e prese a fissarlo in tralice.

Chi era quell’uomo? Aveva una vita migliore della sua? Beh, probabilmente sì. Chiunque avrebbe potuto avere una vita migliore della sua con un minimo di sforzo. Di certo i soldi non gli mancavano, ma Boone si accorse all’improvviso di non essere mai stato felice.

Aveva sempre lasciato che qualcuno gli dicesse cosa fare. Prima sua madre, poi Shannon.

Guardò ancora l’uomo seduto accanto a lui, poi fu distratto da un uomo enorme che si lasciava cadere rumorosamente su di un sedile poco lontano.

Assunse all’improvviso un’espressione beata, noncurante del suo ritardo e del fatto che tutti i passeggeri dell’aereo stavano aspettando lui.

Non gli importava, dopotutto ce l’aveva fatta, era salito sull’aereo.

Boone si chiese cosa fosse andato a fare in Australia, oppure cosa andava a fare in America. Chissà se anche lui aveva una sorella. Chissà se era davvero felice e appagato proprio come la sua espressione lasciava intendere in quel momento.

-Bene, ora ci siamo proprio tutti-   disse l’uomo calvo accanto a lui, senza voltarsi a guardarlo.

Boone si lasciò sfuggire un sorriso, poi guardò Shannon e ritornò serio.

Era settembre, faceva ancora caldo e quello era decisamente il momento giusto per fare una promessa a se stesso.

Allacciò la cintura senza difficoltà e portò lo sguardo fisso davanti a sé.

Non permetterò mai più a nessuno di influenzare la mia vita”   pensò   “D’ora in poi farò tutte le mie scelte da solo”

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Capitolo 11
*** James ***




James






 
Faticava a trovare il suo posto. Proprio non ci stava con la testa.

Passò, probabilmente per la seconda volta, accanto ad una donna con i capelli lunghi e le lentiggini.

Lei incrociò il suo sguardo per un attimo. Aveva un’espressione indecifrabile.

Non appena lo vide affondò le mani tra le ginocchia, poi guardò l’uomo seduto accanto a lei.

Anche James portò lo sguardo su di lui. Era un uomo di mezza età e sembrava un tipo molto serio e determinato. Aveva la mascella serrata, l’espressione dura e severa.

James li oltrepassò per la seconda volta, pensando che probabilmente quei due erano marito e moglie. Forse lei era vittima delle sue violenze. Forse era per quel motivo che aveva un atteggiamento tanto remissivo.

Finalmente trovò il suo posto e, dopo aver riposto con cura il suo bagaglio a mano, si lasciò cadere sul sedile con un sospiro.

In quel momento, nella sua mente, c’era soltanto confusione. Neanche lui sapeva come doveva sentirsi, cosa avrebbe dovuto provare.

Era stato ad un passo dalla sua vendetta. Aveva addirittura creduto di averla realizzata. Poi, però, si era reso conto che in realtà era ancora molto lontana.

Si era vendicato dell’uomo sbagliato. Si era lasciato raggirare, si era lasciato accecare dal suo bruciante desiderio di vendetta.

Infilò una mano nella tasca posteriore dei jeans ed estrasse una busta bianca. Se la rigirò tra le mani più e più volte, poi finalmente l’aprì.

La nascose meccanicamente quando vide passare un giovane uomo tra i sedili.

Era alto, scuro in volto. Doveva essere arabo.

Una ragazza bionda si alzò all’improvviso, andandogli a finire addosso. Lui si scusò con gentilezza.

James rimase a fissarli anche dopo che si furono allontanati, poi ritornò alla sua lettera.

Aprì il foglio ormai quasi del tutto consumato. L’inchiostro era venuto via, le parole si leggevano a malapena. Troppe volte l’aveva presa, rigirata tra le mani, letta e odiata. Troppe volte aveva desiderato di consegnarla al destinatario e troppe poche volte aveva pensato di strapparla e farsi una vita sua.

No, lui non aveva una vita. Gli era stata strappata via a otto anni, quando un uomo di nome Sawyer si era reso colpevole dell’omicidio-suicidio commesso da suo padre. Non poteva avere una vita finché quell’uomo non fosse morto, finché lui non si fosse vendicato.

Strinse la lettera tra le mani, poi la rimise al suo posto senza leggerla. La conosceva ormai a memoria.

Infilò di nuovo la busta nella tasca posteriore dei pantaloni, mentre la donna bionda tornava dal bagno.

Si voltò a guardare fuori dal finestrino, scrutando per un attimo la sua immagine riflessa.

Era diventato Sawyer, ormai. Era diventato l’uomo che odiava, l’uomo al quale dava la caccia da anni. Pertanto, lui odiava anche se stesso.

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Capitolo 12
*** Jin ***




Jin






 

Si sentiva trafitto dallo sguardo di sua moglie, dai suoi profondi occhi scuri.

Era bellissima. Non era cambiata affatto dal primo giorno in cui si erano incontrati. Era sempre stata forte, forse anche più forte di lui. Eppure, in alcuni momenti della loro vita coniugale, l’aveva vista frantumarsi come un bicchiere di cristallo. La colpa era stata soltanto sua. Sua e di suo suocero, il padre di Sun, che gli aveva offerto il lavoro più sporco che potesse esistere.

Lui aveva accettato senza alcuna remora. Dapprima lo aveva fatto perché ignorava quali sarebbero stati realmente i suoi compiti, poi lo aveva mantenuto per il bene di Sun e per il suo matrimonio.

Possibile che lei non riuscisse proprio a capirlo? Lo aveva fatto per loro, lo aveva fatto per la felicità che stavano cercando di costruire insieme.

Da allora, però, non c’era stato più alcun momento felice. Solo litigi, incomprensioni.

Lui aveva sempre cercato di rimanere lì, nel mezzo, tra lei e suo padre. Aveva cercato di evitare di spingersi troppo oltre, ma il signor Paik glielo aveva impedito. I suoi piani erano miseramente falliti, sempre.

E anche il suo ultimo progetto, la sua ultima possibilità di fuga si era sbriciolata tra le sue mani senza che lui potesse farci niente.

Aveva progettato di rimanere negli Stati Uniti con Sun. Sarebbero stati liberi, lontano dal tiranno che aveva acconsentito al loro matrimonio, pur sapendo che avrebbe fatto di tutto per rovinarlo.

Perché odiava tanto sua figlia? Perché, come tutti i padri, non desiderava solo la sua felicità?

Jin chinò per un attimo lo sguardo e pensò a suo padre. Lui sì che lo aveva accudito con amore, eppure lui se ne vergognava per via delle sue umili origini. Si sentì incredibilmente in colpa.

Si voltò a guardare Sun. Lei le dava le spalle, guardava fuori dal finestrino dell’aereo.

Lo aveva fatto per lei, solo per lei. Aveva rinnegato suo padre, la sua famiglia. Aveva fatto del male ad alcuni uomini per eseguire gli ordini di suo suocero. Aveva lavato le sue mani piene di sangue, consapevole che dal suo cuore quelle macchie non sarebbero mai venute via.

Si guardò intorno, come se si stesse accorgendo soltanto in quell’istante di essere su un aeroplano in decollo.

Intercettò lo sguardo di un uomo calvo che discuteva ad alta voce con un giovane ragazzo seduto accanto a lui. Gli lanciò un’occhiata infastidita, anche se il suo fastidio non era dovuto tanto alla confusione, quanto invece all’invidia che provava per loro. Erano liberi, liberi come lui non sarebbe mai stato.

Il suo progetto di rimanere negli Stati Uniti con sua moglie era andato tragicamente in fumo.

Nel bagno dell’aeroporto era stato avvicinato da un uomo. Lavorava anche lui per il signor Paik ed era lì per portare un messaggio. Gli aveva detto che suo suocero conosceva bene i suoi piani e che, se fosse davvero rimasto in America, avrebbe perso per sempre sua moglie.

Jin aveva avuto realmente paura. Nessuno meglio di lui poteva sapere di cosa era capace il padre di Sun.

Si era stretto nella giacca, scosso da brividi, ed era ritornato da sua moglie.

Ora, su quell’aereo, si sentiva come rinchiuso in una gabbia e per un attimo sperò di non uscirne più.

Se non fosse mai sceso da quel velivolo, non avrebbe dovuto affrontare e risolvere i suoi problemi. Non sapeva più come uscirne. Era disperato.

Chiuse gli occhi e sospirò. Poi afferrò una delle riviste dal portaoggetti del sedile davanti al suo.

La aprì e prese a sfogliarla distrattamente. Il suo pensiero, in realtà, era altrove. Stava desiderando che l’aereo precipitasse. Solo in quel modo avrebbe potuto essere libero e felice insieme a sua moglie.

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Capitolo 13
*** Jack ***





Jack







 
Stava andando a seppellire suo padre.

Indossava già il vestito che avrebbe avuto al suo funerale.

Chinò lo sguardo e si passò una mano sulla cravatta. Aveva voglia di allentare il nodo per respirare meglio, ma non lo fece. Non sarebbe servito a nulla. Sentiva un grosso macigno sul cuore e gli occhi ancora gonfi di lacrime.

Suo padre era morto e nulla avrebbe potuto riportarlo in vita.

All’improvviso fu travolto dai rimorsi, dai rimpianti.

Lo aveva tradito, accusato, denunciato. Aveva sempre gettato su di lui tutta la sua rabbia. Quella del Jack adolescente, quella del giovane medico emergente, quella del professionista integro e affermato.

Si sentì quasi venire meno.

Cercando il suo posto si era imbattuto in un uomo di colore e in suo figlio. Era solo un bambino, non poteva avere più di undici anni.

Aveva rivolto loro un sorriso, ma era servito solo a riempirgli il cuore di malinconia.

Si sentiva vuoto, inutile. Si sentiva un fallito.

Era come se tutto quello che aveva fatto nella sua vita avesse perso all’improvviso di valore. O forse la verità era che non ne aveva mai avuto.

Aveva sempre seguito il suo cuore, il suo istinto. Aveva sempre cercato di fare ciò che riteneva più giusto. Aveva denunciato suo padre andando contro ogni fibra del suo corpo, solo perché riteneva di doverlo fare.

Ma cosa era servito?

In realtà, Jack Shephard, era sempre stato un uomo integro e onesto solo all’apparenza.

La sua vita privata era sempre stata costellata da sconfitte, da un matrimonio fallito, da un disastroso rapporto con suo padre.

La sua anima, nel profondo, era macchiata, lacerata, distrutta completamente da una vita che sembrava non appartenergli realmente.

All’improvviso gli parve di aver sbagliato tutto. Forse il suo destino non era mai stato quello di diventare un dottore come suo padre. Forse era vero che non possedeva gli attributi.

Scosse la testa.

No, lui non credeva al destino. Non ci aveva mai creduto. Lui era un uomo di scienza, un uomo reale, tangibile, vero.

Non aveva mai creduto a quello che non poteva spiegare, che non poteva vedere.

La sua vita era quella. Se l’era scelta lui e, anche se aveva sbagliato, non poteva farci più niente.

Los Angeles era il posto giusto per lui. Lo era l’ospedale, la sua casa. Non c’erano alternative.

Il suo mondo era quello in cui aveva sempre vissuto, tra i discorsi scoraggianti di suo padre e il disinteresse di sua madre.

La sua vita era quella che aveva vissuto fino ad allora, come medico, come uomo di scienza, come figlio abbandonato e sperduto nel mondo.

Spesso aveva sentito suo padre dire a sua madre quanto fosse difficile fare il genitore.

Jack, tra sé, aveva sempre pensato che era difficile anche essere il figlio di Christian Shephard.

Ora, però, non lo era più. Era un uomo abbandonato nel mondo, abbandonato a sé stesso.

La realtà era quella, nulla avrebbe potuto cambiarla.

Chiuse gli occhi e provò, per un attimo, ad immaginare una vita completamente diversa. Una vita in cui nessuno avrebbe mai potuto dirgli cosa era in grado di fare e cosa no. Una vita in cui i suoi sentimenti umani sarebbero stati apprezzati.

Non ci riuscì. La vita che vide dietro le sue palpebre chiuse era la stessa che stava vivendo.

Per lui non c’era alcuna alternativa. Il destino non esisteva, non era mai esistito.


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