A Trip to Jötunheim

di Notthyrr
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quel luogo da raggiungere ***
Capitolo 2: *** Quel luogo che è casa mia ***



Capitolo 1
*** Quel luogo da raggiungere ***


Se qualcuno avesse mai domandato la mia età, probabilmente sarebbe stato complicato dire tutta la verità, a meno che il curioso interlocutore non provenisse dal mio stesso regno. A dirla tutta, le mie origini affondano le proprie radici da tutt’altra parte, ma lì, ad Asgard, il regno eterno degli dèi, ero nato e sempre vissuto per quasi settant’anni. Per gli abitanti del regno chiamato Midgard, recinto di mezzo, che gli umani hanno banalmente battezzato Terra, un settantenne dovrebbe apparire come un anziano dai capelli canuti. Per questo avrei trovato abbastanza imbarazzante essere del tutto sincero con uno di loro: i miei capelli ancora erano neri e i mortali non mi avrebbero detto nemmeno ventenne.
Credo sia questo il dono più grande di noi Asi e la nostra maledizione; o, forse, solo la mia. Mio padre nutriva una premura morbosa nei miei confronti e il vecchio settantenne era visto da tutti come il poppante appena svezzato. Non ero il suo unico figlio: prima di me ce n’erano stati altri quattro, ma lui non li ricordava mai, forse perché nemmeno li considerava figli suoi, o forse perché non è che fossero del tutto umani, né vivessero in luoghi frequentabili.
Spesso mi sentivo dire che gli somigliavo molto — a mio padre, intendo —, ma la cosa mi rendeva felice soltanto quando veniva specificato l’ambito di comparazione: i tratti somatici. Lui era veramente bello — e questo spiegava almeno un po’ la schiera dei miei fratellastri —; purtroppo non si poteva dire altrettanto del suo carattere: lunatico e paranoico oltre ogni umana immaginazione, non mi dispiaceva affatto essere diametralmente opposto a lui, benché un po’ rimpiangessi di non aver ereditato appieno la sua eccezionale intelligenza.
Per concludere questa patetica presentazione che sembra l’introduzione di un racconto autobiografico di poco conto, il mio nome è Narfi. Narfi figlio di Loki, ma credo questo fosse già chiaro, dal momento che la sua fama — nel bene, ma soprattutto nel male — è di gran lunga superiore alla mia. Il buon senso, d’altronde, non è mai stato tra le virtù degli asgardiani (e mio padre era il primo), ma mi amava troppo per non tentare almeno di invitarmi a non diventare quello che lui era. E io troppo lo amavo — benché possa essere apparso il contrario — per non ascoltare le sue suppliche.
Non quel giorno. Nonostante gli altri potessero pensarla diversamente, settanta inverni mi gravavano sulle spalle e quel desiderio che tanto mi bruciava in petto doveva essere esaudito: dovevo andare a Jötunheim. La mia infanzia era stata popolata dai giganti che lo abitavano, ma mai ne avevo visto uno, se non nei racconti di mia madre. E poi, io lo sapevo: era da là che mio padre veniva e io morivo di curiosità.
Quello che, però, pochi credo conoscessero era il problema di fondo che si annidava dietro la questione: Loki non ne voleva sapere.
Accadeva spesso, quasi una volta al mese, che Thor figlio di Odino fosse incaricato dal padre di raggiungere il regno dei giganti per controllare che tutto si svolgesse convenientemente; molto spesso che le cose non stessero andando proprio per il verso giusto; ancora più spesso che il tanto amato dio del tuono — per il quale ammetto di provare una sincera simpatia — si portasse appresso anche mio padre, al fine di evitare che combinasse qualche danno in sua assenza, cosa che accadeva quattro volte su due.
Seduto sul Bifröst, il ponte dimensionale che collegava Asgard agli altri regni — unico passaggio, secondo Heimdall, il guardiano; uno dei tanti, a detta di mio padre —, vidi il biondo dio del tuono, martello alla mano, incedere spavaldo lungo il ponte al fianco di mio padre che, quando mi notò, non poté evitare di lasciarsi sfuggire un sorrisino divertito, uno di quei sorrisi che, se non erano volti a sedurre una dea, potevano essere l’ultima cosa che qualcuno vedeva prima di mettersi in cammino sul sentiero per Helheim.
Bisbigliò qualcosa a Thor, che scrollò le spalle e mi superò, mentre Loki si arrestava al mio cospetto. I suoi inquietanti occhi chiari scorsero lungo la mia leggera armatura, fino a posarsi sulla mia spada, intagliata per assomigliare a un serpente: «So già cosa mi stai per chiedere.» disse mentre il suo sorriso si addolciva. «E tu già sai cosa sto per risponderti io, non è vero?»
Imbronciato, incrociai le braccia sul petto: «Non sono più il bambino irresponsabile cui hai negato di visitare Jötunheim: sono cresciuto!»
Loki rise e lanciò un’occhiata verso la sala circolare con la quale terminava il Bifröst.
«Più che pregarmi di andare a Jötunheim…» disse divertito, osservando Thor scambiare qualche parola con Heimdall. «Dovresti ringraziarmi per non aver rivelato a nessuno che ci spii durante i consigli…»
Sgranai gli occhi, incredulo: «Lo sapevi?»
Lui scrollò le spalle: «Pensi che non l’abbia mai fatto? Ma andare a Jötunheim è un’altra storia. È pericoloso e non c’è nulla di divertente. Non è la destinazione di una gita turistica.»
«Immagino non abbia senso discutere…» Ecco che fine faceva, davanti a lui, tutta la mia determinazione, la mia caparbia testardaggine. Quell’uomo pareva ucciderla, farla evaporare come acqua al sole. Sicuramente lo faceva per il mio bene e, più che probabilmente, ero davvero il bambinetto ingenuo che non volevo essere quando non riuscivo a capirlo e credevo di poter farmi strada a Jötunheim a colpi di spada e uscirne illeso.
«Non con me.» replicò lui, posandomi dolcemente una mano sul capo. «Dai, non fare così; non t’imbronciare: torno a breve e passeremo un po’ di tempo assieme.» Non pareva molto, ma poteva aiutare.
Mi regalò un altro affettuoso sorriso e se ne andò di corsa, attraversando l’arco che segnava l’ingresso della sala al cui interno lo attendevano Thor e Heimdall, con la spada sguainata.
Con i piedi sospesi nel vuoto e il viso rivolto nella loro direzione, guardai il meccanismo azionato dalla spada del guardiano mettere in moto l’intera sala, che cominciò a ruotare rapida su se stessa. Era sempre uno spettacolo magnifico vedere la guglia che sormontava il salone puntare verso il cielo e proiettare il lungo raggio bianco che trasportava gli dèi da un regno all’altro. Lo fissai finché la luce non fu evaporata nel cielo e Heimdall ebbe estratto la spada dal meccanismo, riportando la stanza alla sua posizione originale.
Seduto immobile sul ponte in snervante attesa, la mia fervida immaginazione di ragazzo cominciò a figurarsi l’immagine di Loki e Thor che correvano veloci sul suolo arido di Jötunheim e trattavano con i giganti, prima che la mia mente divagasse distorcendo la figura del dio del fuoco nella mia e rendendomi protagonista di uno scontro con gli Jötnar.
Il sole che tramontava dietro il Bifröst accompagnò i miei sogni infantili, fin quando la sala non riprese a ruotare, riportandomi le immagini dei due Asi, i visi stanchi e infiacchiti dal viaggio.
Thor uscì per primo, passandomi accanto a schiena dritta e incedendo veloce verso il palazzo.
A breve, anche mio padre mi venne incontro, fermandosi esattamente alle mie spalle: «Narfi, ti chiedo scusa…» Abbassò lo sguardo. Loki che si sentiva in colpa? «Abbiamo dovuto sopprimere una rivolta annidata al confine; sono terribilmente stanco. Non ti dispiace se rimandiamo, vero?»
Gli rivolsi uno sguardo velato della tacita tristezza che mi stringeva il cuore, ma annuii senza staccare gli occhi da quelli chiari di mio padre.
Lui sorrise, come se con poche brevi parole si fosse discolpato: «Ti mando Moði, va bene?» aggiunse poi, prima di allontanarsi a passi leggeri.
Rimasi a guardare la sua schiena scomparire oltre l’ingresso del palazzo senza accorgermi che qualcuno mi si era avvicinato finché questi non mi toccò una spalla, facendomi sobbalzare. Mi volsi di scatto, quasi spaventato: «Heimdall!» esclamai rinunciando al filo dei miei pensieri che si era perso oltre il portone d’ingresso.
Il guardiano sostenne il mio sguardo con occhi color miele: «Qualcosa ti turba, giovane asgardiano?» mi domandò con la sua rassicurante voce profonda.
Per un attimo mi chiesi cosa fosse giusto rispondergli e soppesai le parole che stavano per uscirmi di bocca: mio padre e il guardiano non potevano vedersi e, se solo ne avessero avuto l’occasione, si sarebbero cavati gli occhi a vicenda. Eppure, Heimdall mi sembrava così gentile… Sentivo che, di lui, a dispetto di quanto Loki potesse dire, ci si poteva fidare e le parole mi sfuggirono prima che potessi fermarle: «Gli dèi mi trattano come se fossi un bambino…» mi lamentai.
L’uomo mi sorrise con dolcezza, comprensivo: «Ti hanno negato qualcosa d’importante?»
Un po’ in imbarazzo, mi tormentai le mani, arrossendo lievemente: «Beh, ecco… so che non dovrei dirtelo, visto che papà lo fa per il mio bene, ma… lui non vuole che visiti Jötunheim!» mi sfogai. «Ha paura che, una volta là, mi accada qualcosa; pensa che non sappia difendermi! Ma Jötunheim è un regno sottomesso ad Asgard e io pensavo che…»
Il sorriso sul volto di Heimdall non accennò a spegnersi: «Capisco la tua rabbia: tuo padre può fare il buono e il cattivo tempo come gli pare e piace, ma non vuole che tu faccia lo stesso. Che cosa crudele, vero?»
Si chinò appena verso di me e la spada gli tintinnò contro l’armatura, attirando la mia attenzione. Quel metallo dorato pareva attrarre magneticamente il mio sguardo, che seguiva ogni raggio di luce che si rifletteva sulla lama. Quella poteva essere l’unica chiave per il mio obbiettivo.
«Però, dicono che è per il mio bene…» ribadii poco convinto senza staccare gli occhi dalla spada.
Heimdall rise: «Tutti devono infrangere le regole, ogni tanto…» m’incoraggiò, regalandomi un sorriso mieloso.
Inarcai un sopracciglio, fingendomi sorpreso quando in cuor mio sapevo dove volesse andare a parare: «Che cosa intendi?»
Il sorriso sul suo volto si distese e l’uomo fece dondolare volutamente la spada al suo fianco, lanciandomi un’occhiata complice.
Quell’irripetibile occasione mi fece seppellire nei meandri della mia coscienza ogni raccomandazione di mio padre e mi decisi a seguirlo nella sala circolare, quando una voce di ragazzo chiamò il mio nome. Mi volsi per vedere Moði corrermi incontro, sul volto una nota di disappunto: Loki doveva avergli chiesto di passare un po’ di tempo con me, ma io non avevo nessuna intenzione di portarmelo dietro.
«Stai partendo?» mi chiese, evidentemente deluso.
Per un secondo non seppi quale risposta dargli. Heimdall mi posò una mano sulla spalla, togliendomi d’impaccio: «Narfi sta solo andando a svagarsi un po’.» mi giustificò. «Però… tu non devi dirlo a nessuno, d’accordo?» Si portò un dito alle labbra e sorrise al giovane figlio di Thor, che annuì poco convinto e si dileguò.
In quel momento, davvero non trovavo parole per esprimere l’enormità della gratitudine che provavo per il guardiano. Non sospettavo nulla, non potevo nemmeno immaginare che cosa realmente si nascondesse dietro quella simulata gentilezza. Il mio cuore di fanciullo non conosceva la malizia: nella mia mente non si formava nemmeno vagamente l’idea che Heimdall avesse calcolato tutto. Del resto, ero il figlio dell’uomo che tanto odiava e, tutti lo sanno, non c’è modo migliore di ferire un uomo che colpirne il figlio. Quella era una vendetta, una crudele vendetta che il guardiano si prendeva su un innocente, godendo della stessa gioia meschina che condannava nel nemico.
Mentre mi preparavo alla partenza e la luce bianca e pura del Bifröst mi avvolgeva, credevo che nulla mi sarebbe accaduto; che, al minimo segnale di pericolo, Heimdall — che sarebbe rimasto a seguire i miei passi — mi avrebbe riportato indietro, al sicuro, tra le mura di casa mia; che la questione sarebbe rimasta tra noi.
Oh, quanto mi sbagliavo…
 

And your father’s misdeeds are his son’s to carry in shame…



 

Note: Perfetto: un altro frammento, un altro episodio ad Asgard. È impossibile tenersene lontani…
Premetto che sia questo capitolo che quello che seguirà in una settimana sono stati terribilmente riadattati per poter essere contenuti in due capitoli: per cominciare, l’intero frammento sarebbe stato preso da un racconto intero che stavo riscrivendo in questi giorni (dunque, qualcosa sulle 350 pagine), perciò, mentre nella versione originale la faccenda non finisce certo così facilmente, questi due episodi si concludono da sé.
Detto questo, vorrei precisare alcune cose sulle descrizioni: in primis, so bene che i capelli di Thor sarebbero rossi (‘Il dio rosso’, d’altronde, dovrebbe già dire qualcosa), ma davvero non riesco a immaginarmelo così (incolpiamo la Marvel, dai). Stesso vale per Loki. Riguardo il Bifröst, anche l’immagine che me ne sono fatta è un po’ influenzata dall’universo Marvel, ma, d’altronde, ai fini della storia e della descrizione ho preferito una sala presieduta da un guardiano a un ponte da percorrere a piedi per raggiungere un altro regno.
Spero sia comunque apprezzato!
Per concludere, giusto per specificarlo (anche se sembra pubblicità occulta), la frase finale è un frammento di Shadow of the Swastika, una canzone della band Viking Metal feringia Týr.
Grazie per la lettura!
~Notthyrr

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Capitolo 2
*** Quel luogo che è casa mia ***


Era solo la seconda volta che usavo il Bifröst e non potevo certo definirmi abituato: mio padre mi aveva insegnato a teletrasportarmi con una rapidità invidiabile, ma, in quel modo, potevo raggiungere soltanto luoghi che avevo già visto in precedenza.
Così, spossato e appena presente a me stesso, il Bifröst mi aveva abbandonato sul duro ghiaccio del confine.
Mi ritrovai disteso a terra, il freddo che mi penetrava sotto la pelle sino alle vene e mi trapanava il cervello ogni volta che prendevo il respiro.
Lentamente, quando smise di girare, alzai la testa per vedere cosa mi circondasse. Mi occorse un po’ per mettere a fuoco il paesaggio, che i miei occhi mescolavano in una macchia nera e azzurra: tutto era di pietra scura, mentre il ghiaccio dell’inverno si arrampicava su alte colonne e pendeva dalla primitive grondaie delle abitazioni. Qua e là, si scorgevano ancora le tracce dello scontro di qualche ora prima.
Mi si rivoltò lo stomaco: non ero abituato a scene del genere e, Jotunheim, davvero non me l’aspettavo così. Forse Loki aveva ragione: non sarei mai dovuto venire.
Scossi violentemente il capo per scrollarmi di dosso quel pensiero assieme al ghiaccio che m’ imbiancava e inzuppava i capelli neri, poi mi tirai in piedi e cominciai a camminare, prestando attenzione a non scivolare.
Presto, mi trovai a camminare tra le vie di una città in rovina, dove gli abitanti si rintanavano nelle loro case nel buio che aleggiava su quel luogo, il respiro che mi si condensava davanti agli occhi in nuvolette di vapore bianco.
Ogni tanto rivolgevo lo sguardo verso la zona in cui mi aveva lasciato il Bifröst, convito che Heimdall potesse vedermi e sapesse quando fosse stato il caso di riportarmi indietro.
Che illuso che ero! Con tutta probabilità, in quel momento il guardiano stava sedendo e brindando assieme agli altri…
Mentre camminavo col ghiaccio che scricchiolava sotto i miei piedi, un rumore di passi alla mia sinistra mi riscosse da quei pensieri.
Allarmato, mi appiattii contro una colonna, sgusciando in una fessura tra essa e una casa diroccata e accucciandomi nel buio. Davanti a me, vidi arrestarsi tra paia di piedi blu come il mare che pestavano agitati il suolo ghiacciato. Voci cupe e profonde mi giunsero all’orecchio, ma parlavano una lingua dai suoni gutturali che io non conoscevo.
Poi, quando anche l’ultimo Jötun si allontanò, vidi strisciare all’altezza dei miei occhi un corpo sproporzionato, diverso dalle persone che conoscevo, e dal solito colorito bluastro, tipico dei giganti del ghiaccio. Intimorito, mi strinsi ancor più su me stesso, prima di rendermi conto che quel corpo sgraziato era in realtà trascinato da un altro gigante e i suoi inquietanti occhi rossi, benché fossero puntati verso di me, erano spalancati e privi di vita.
Irrequieto, scorsi lo sguardo su quel cadavere fino a individuarne le cause della morte: sul collo, si apriva una larga ferita, dritta e profonda, ancora sporca di sangue rosso e raggrumato agli angoli.
Mi portai una mano alla bocca, il disgusto che pareva premermi sullo stomaco: doveva averlo ucciso mio padre; un taglio così preciso era inconfondibile. A pensarci, il mio stomaco ebbe un’altra contrazione e dovetti uscire dal mio nascondiglio per prendere aria: era così facile spezzare una vita? Per mio padre… per la mia famiglia… era così semplice uccidere? E io, se ero cresciuto assieme a loro, perché non riuscivo a concepirlo? Perché lo trovavo abominevole?
Guardando il drappello di Jötnar scomparire dietro una delle tante rovine, aspettai che la nausea si quietasse per poi prendere la strada opposta.
Mi piaceva esplorare nuovi luoghi: dai corridoi di Asgard alle vie di una nuova città, ricordavo con precisione ogni via che percorrevo, un prezioso lascito di  mio padre, probabilmente. Quel luogo, però, mi metteva paura.
Il sentiero lungo il quale stavo avanzando si ricongiunse alla strada principale che avevo abbandonato poco prima, così mi ritrovai a procedere verso il cuore della città.
I miei occhi correvano lungo le costruzioni in pietra nera, cercando tonalità più chiare che tradissero la presenza di qualche Jötun, ma tutto pareva immobile, congelato in un irreale silenzio.
Raggiunto uno spiazzo arroccato su un’altura, mi fermai per capire dove fossi: davanti e attorno a me sorgevano le mura di un antico palazzo la cui torre, alta e unica come un campanile gotico, saliva affilata a squarciare le nubi del cielo.
Su di essa, scorsi un bagliore rosso lampeggiare contro lo sfondo nero. Spaventato, temetti di essere incappato in una nuova minaccia e retrocedetti di un passo, tenendo fisso lo sguardo sull’oscurità che di tanto in tanto inghiottiva quell’innaturale cremisi. Se sulla torre si fosse trovata una sentinella, sicuramente già mi aveva visto e, nel buio che quella postazione gli offriva, avrebbe potuto dare un silente allarme per allertare gli altri della mia presenza.
Deciso a evitare quel guaio, feci per volgermi e fuggire: se fossi riuscito ad allontanarmi, Heimdall mi avrebbe riportato a casa.
Ma era già troppo tardi.
 

Not the way I pictured this, I wanted better things…

 
Mi sentii afferrare le spalle da una robusta presa, mentre davanti a me compariva una figura blu. Nel mio campo visivo entrò la punta di una rozza lancia di legno, poi, prima che potessi reagire in qualche modo, la mia visuale si tinse di rosso e un dolore folle mi esplose su una spalla, soffocandomi in gola il grido che stava per uscirmi dalle labbra, contratte in una smorfia.
Quando tornai a vederci normalmente, mi accorsi di aver indovinato la natura del bagliore vermiglio in cima alla torre: un terzo Jötun si era infatti affacciato al parapetto e mi guardava col volto mostruoso deturpato da un crudele sorriso.
«Ti sei perso, piccolo Asgardiano?» mi arrise. «I tuoi compagni ti hanno abbandonato qui?»
La gelida pelle del gigante alle mie spalle mi fece scorrere un brivido lungo la spina dorsale — o era solo paura? —, ma strinsi i denti e non risposi. La presa si fece più forte.
«Se fossi in te, sputerei quell’enorme rospo che ti tieni in bocca. Oppure potresti finire congelato…»
Chiuso nel mio ostinato silenzio, mi maledissi per la mia caparbietà: avevo sbagliato tutto! Aveva ragione mio padre! Aveva sempre ragione lui…
Vidi lo Jötun sulla torre pronunciarsi in un elegante gesto, prima che la stretta che mi bloccava al mio posto cambiasse d’intensità. Avvertii la presenza di energia magica e compresi quale fosse la loro intenzione. Poco passò, però, prima che l’espressione sicura sul volto della sentinella mutasse, sgomenta.
Sentii il gigante alle mie spalle ritentare il sortilegio, ma fallì ancora miseramente: per quanto si sforzasse di inoculare i suoi poteri nel mio corpo, la mia pelle restava calda. E bianca.
Mio padre mi aveva spiegato anche questo, tempo fa; era uno dei tanti motivi per cui gli Asi lo avevano annoverato tra loro e se ne servivano: mentre la pelle degli Asgardiani veniva ghiacciata dal tocco degli Jötnar, discendendo noi direttamente dai giganti, eravamo immuni alla loro magia; un’arma eccezionale per massacrare i nostri simili.
Al riparo sulla sua torre, la sentinella sorrise lievemente, come se in quel piccolo equivoco avesse scorto un’opportunità: «Oh… chi lo avrebbe mai detto?» mormorò massaggiandosi il mento. Si sporse oltre il parapetto e io avvertii quei suoi brucianti occhi rossi piantarsi su di me, accusatori: «Tuo padre è stato qui poco fa e ha mietuto vittime a non finire, lo sai questo?»
Irritato dal tono del gigante, sostenni il suo sguardo, ma non cedetti a lasciar uscire una sola parola: la sua fama, la reputazione di mio padre che era giunta fin lì, aveva coinvolto anche me. Dovunque fossi andato, avrei dovuto aspettarmi quell’etichetta sulla fronte: Narfi; il figlio di Loki. Mi chiesi che cosa dovesse provare mio padre: detestato ad Asgard per i suoi misfatti, odiato nella sua terra natia perché traditore. Se, come me, se lo era mai chiesto, quale aveva ritenuto casa sua?
Davanti a me, la sentinella levò una mano sulla quale si disegnò un fiore di ghiaccio dalla punta acuminata. Lo accarezzò: «Non saremo pari se io mi prendessi te? Un piccolo uno a ripagare i cento che ho perso oggi?»
Tentai di divincolarmi, l’istinto che voleva farmi fuggire a quella minaccia. La vista mi si appannò ancora, prima che un dolore bruciante mi cogliesse, quasi piegandomi le ginocchia, facendomi ritrovare con uno squarcio anche sul petto.
Il gigante che mi stava di fronte ghignò soddisfatto.
«Tuo padre ti ha lasciato venire qui senza opporsi?»continuò la sentinella con simulata incredulità. «Deve tenere davvero poco a te… per mandarti a morire proprio qui.»
La rabbia cieca che mi bruciava in petto fece per emergere, assieme a un grido: non era vero! Non era affatto vero! Era tutto il contrario! Era solo colpa mia! Mia! Non di mio padre! Lui voleva fermarmi! Lui… mi voleva bene…
Quell’urlo, folle e patetico, che sarebbe uscito strozzato e ridicolo fu smorzato dalla sorpresa, quando un lampo bianco e puro aveva diviso il cielo in due, attirando su di sé l’attenzione dei tre Jötnar.
Il Bifröst! Gridò la mia mente rattrappita dal freddo. Heimdall è venuto a salvarmi!
Quando il potente rumore — come di suolo sul quale si apre una larga faglia — che aveva seguito la forte luce si fu attenuato, però, una figura nera contro il pallido candore della neve apparve sfuggente ai nostri occhi, prima che una lama corvina — non dorata — recidesse di netto la testa dello Jötun che mi tratteneva. Sentii il suo corpo cadermi addosso, sporcandomi di sangue il viso e i capelli. Poi ci abbattemmo entrambi a terra con un tonfo sordo.
Il gigante che invece mi fronteggiava ebbe appena il tempo di lasciarsi sfuggire un gemito, prima che la sua stessa lancia gli venisse strappata di mano e gli trapassasse lo sterno, per poi lasciarlo scivolare di lato, privo di vita.
La figura che avevo visto muoversi rapida e uccidere i due giganti si chinò alla mia altezza: avevo la vista appannata dalle ferite e la coscienza annebbiata, ma non potei non riconoscerla.
Mio padre. Non Heimdall: Loki.
Il dio dell’inganno mi liberò dal peso del gigante che mi era crollato addosso, mi aiutò a mettermi in ginocchio e mi abbracciò con forza; con affetto. Come mai aveva fatto prima.
Travolto da un torrente di emozioni, scoppiai in lacrime come un bambino di pochi anni: «Papà… perdonami… Heimdall ti ha… ti ha detto tutto? Heimdall mi ha salvato?»
Loki scosse il capo. Tremava, ma i suoi occhi bruciavano di odio: «Me lo ha detto Moði. Il guardiano è rimasto al tavolo a ubriacarsi!» mi rivelò con sprezzo. Poi mi abbracciò ancora, quasi non mi credesse vero, e io non potei fare a meno di rivolgere un pensiero al figlio di Thor: quello che in un’altra occasione avrei considerato uno spione era diventato il mio salvatore.
«Sai che questo è un atto di guerra.» proruppe la creatura in cima alla torre in un gelido sussurro.
Alzai lo sguardo su di lui, ma il gigante era rivolto a mio padre, che si parò tra me e lo Jötun. «Quello che è stato attaccato è mio figlio.» si giustificò. «È priorità per me difenderlo. Se non foste stati voi a fare la prima mossa, lui se ne sarebbe andato da solo e senza far danno.»
Il dio gli volse le spalle e mi sollevò, prendendomi tra le braccia; dovevo essere pesante, ma a lui non importava.
Sopraffatto dal dolore e dalla stanchezza, feci in tempo ad accorgermi che il paesaggio attorno a noi stava mutando, il ghiaccio di Jötunheim che stemperava nei verdi prati di Asgard, prima di cadere in un sonno profondo. Ero al sicuro, ero tra le braccia di mio padre. Quel viaggio che mi era parso durare eoni era finito.
E io ero salvo, in quel luogo che sapeva di casa.
Che era casa mia.
 

Forgive me for my crimes. Don’t forget that I was so young, but so scared…




 

Note: Perfekt. Anche questo capitolo è finito e con lui tutto il racconto (meno male, direte voi).
Trattandosi per lo più di un testo descrittivo, se non per l'ultima parte, credo ci sia ben poco da dire a riguardo, dunque non sto qui a ribadire ovvietà. 
I due frammenti in corsivo viola vengono dalla canzone M.I.A (Missing in Action) degli Avenged Sevenfold, che consiglio vivamente.
Detto questo, grazie per la lettura. Aspetto un'opinione.
Grazie

~Notthyrr

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