Il furto dell'artefatto sconosciuto

di Littlefinger
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Il treno si muoveva silenziosamente e il paesaggio scorreva veloce fuori dal finestrino, mostrandomi i campi coltivati del Baden-Wurttemberg e delle cittadine da cartolina. Poi altri campi coltivati e ancora, indovinate un po’, campi coltivati. La vista era diventata monotona dopo cinque minuti fuori da Basilea.  Allontanai il capo dal finestrino e mi soffermai a studiare con interesse il posto vuoto davanti a me. Qualsiasi cosa pur di non vedere un’altra fattoria rustica.
     Il mio compagno di viaggio - se tale poteva definirsi - era meno loquace di uno scaldabagno rotto e ciò non aiutava a migliorare l’atmosfera. Aveva passato tutto il viaggio a completare cruciverba e schemi di sudoku e mi aveva rivolto la parola solo quando non era riuscito a risolvere un diciassette verticale. Tanto per la cronaca, non ci ero riuscito nemmeno io.
     «Perché non abbiamo usato un Portale?» domandai, sperando di avviare una conversazione che mi avrebbe risparmiato un altro viaggio noioso. I Portali sono il metodo più veloce ed economico per viaggiare. Congiuri un paio d’incantesimi e… POOF!... ecco a disposizione uno strappo nella realtà che ti porta direttamente a destinazione. Ovviamente bisogna conoscere un po’ di magia per poterli usare, non è roba per tutti. Ci vuole un buon mago, me ad esempio.
     L’uomo alzò le spalle. «Pensa a goderti il viaggio, Neil McRoberts.» rispose senza alzare gli occhi dalla rivista.
     «Se vedo un altro campo mi sparo in bocca.»
     «Con quale pistola?» Mi indicò il cruciverba con la penna e aggiunse: «Sette orizzontale, soldato romano. Dieci lettere.»
     «Mario Silla. Caio Leonio. Pippo Pipponio, che ne so, non ho mai conosciuto dei romani. Piuttosto, perché non abbiamo usato un Portale? Saremmo già arrivati e non avremmo speso un soldo.»
     «Legionario.» disse, ignorando le mie lamentele.
     Mi misi a ridere. «Non li sai usare!» esclamai, fra una risata e l’altra.
     «Non sono un mago come te, umano.» Posò la rivista sulla gambe e mi fissò. «Tra l’altro questa mancanza non mi ha impedito di catturarti, no?»
     Ricambiai lo sguardo e dovetti chinare il capo per farlo. Il mio interlocutore era alto poco meno di un metro e sessanta e la sua posizione sprofondata nel sedile non lo rendeva certo imponente. Del resto, tutto il suo aspetto trasudava  frivolezza e superficialità. Indossava un capellino dei Boston Celtics che gli copriva i capelli rossi, la barbetta incolta gli dava un senso di trasandatezza, acuito dalle occhiaie scure e dalle stropicciature sulla camicia bianca. I pantaloni di velluto verde brillante passavano quasi inosservati a causa della vistosa fibbia della cintura, che era appariscente non tanto per la sua forma, quanto per il fatto che fosse d’oro; le scarpe nere senza lacci avevano due fibbie identiche. L’abbigliamento veniva completato da una giacca verde che per il momento si trovava sul portabagagli, insieme al suo bastone da passeggio.
     Quando lo incontrai, la prima cosa che mi venne in mente fu “mio caro, oggi non è San Patrizio”. In tutta sincerità, chiunque avrebbe pensato che fosse uno sbandato - o un tipo insolito, nel migliore dei casi - e non certo un leprecauno mercenario con le palle cubiche.
     «Sei stato fortunato.» mentii. In realtà, ero curioso di sapere perché ero ancora vivo.
     Il folletto inarcò un sopracciglio, poi scosse la testa, riprese la rivista di enigmistica e tornò a concentrarsi sul giochino. Era chiaro che avrei passato un’altra ora a rimuginare su cosa era successo il giorno prima e su quello che mi aspettava a Friburgo.
     Come cambiano velocemente le prospettive di vita di un mercenario ricercato da uno o più clan di vampiri. Due giorni prima mi trovavo a Nizza e passeggiavo tranquillamente per la Promenade des Anglais, gustandomi un cono gelato con tre palline al cioccolato. Se c’è il cioccolato, perché scegliere altri gusti? Comunque, ero là che mi godevo un’ultima passeggiata sul lungomare prima di tornare nuovamente al mio esilio in Sardegna. Vivere come un fuggitivo, nascosto in un qualche buco nelle montagne, era fin troppo stressante e ogni tanto avevo bisogno di un’iniezione di vita: una passeggiata in Costa Azzurra, un salto a Las Vegas o una visitina al Moulin Rouge. Ero immerso nell’assaporare il delizioso gelato, quando il simpatico figuro mi era comparso davanti. Non comparso dal nulla, intendiamoci. Camminava nella direzione opposta a me e quasi ci eravamo scontrati. Stavo per tirar fuori la magnifica battuta citata prima, ma l’uomo aveva alzato il bastone da passeggio e me l’aveva puntato allo stomaco.
     «Neil McRoberts» aveva detto «mi chiamo Finn e tu sei mio prigioniero.» Per rafforzare le parole mi aveva pungolato col bastone e una scarica elettrica mi aveva percorso da capo a piedi, facendomi rizzare i capelli. Non era nulla di letale, ma era stata abbastanza dolorosa per farmi capire che era meglio non reagire. Chiaro e conciso.
     «Chi sei?» avevo chiesto, un po’ stupidamente. Perdonatemi se non sono un brillante conversatore dopo essere stato “taserato”.
     «Sei sordo o idiota?»
     «Sei un leccapiedi di Greta Zimmerman?» avevo domandato, non proprio gentilmente. Greta Zimmerman era la matriarca di un clan di vampiri che avevo incontrato un anno prima e, come ogni donna, una volta conosciutomi non aveva più potuto fare a meno di me, o forse mi voleva solo perché l’avevo pesantemente insultata; fatto sta che aveva sguinzagliato un certo numero di sgherri sulle mie tracce e per quel motivo mi ero rintanato in Sardegna.
     «Non sono il leccapiedi di nessuno. Sono un lavoratore indipendente.» aveva risposto il leprecauno. «Non prendertela, è solo una questione di lavoro. Nulla di personale.»
     «Ovviamente.» Fra colleghi si ci capiva. «Mi chiedo come mai un folletto della corte irlandese lavori per un clan di vampiri.»
     Aveva alzato le spalle in segno di noncuranza. «L’unica cosa importante è questa. Puoi venire con me tranquillamente e in due giorni saremo a Friburgo dove ti consegnerò alla vampira. Oppure puoi provare a reagire. In tal caso ti strapperò un arto a caso. E poi un altro ancora, fino a quando non ti deciderai.»
     «Ho solo quattro arti.» avevo replicato.
     «Allora dovrai decidere in fretta.»                     
     Dato che mi trovavo in treno in sua compagnia e col giusto numero di arti, vi lascio indovinare quale sia stata la mia risposta. Non c’era verso per uno come me di sfuggire a un membro di una corte fatata. Inoltre non mi aveva ucciso, per cui il suo lavoro era solo di portarmi da Greta e ciò significava solo una cosa: la vampira mi voleva vivo.
     Perché? Non lo sapevo, ma era comunque un’ottima notizia.
     Rimanere vivo – e con braccia e gambe intatte – era il miglior scenario che potessi sperare per fuggire. Non morire oggi, per fuggire domani. Inoltre, una volta completato il suo contratto, il leprecauno mi avrebbe ignorato e un gruppo di vampiri era molto più alla mia portata.
     Finn mi aveva portato l’aeroporto ed eravamo volati a Ginevra, dove avevamo preso un treno per Friburgo, con cambio a Basilea.        Era raro trovare un folletto che non era in grado di usare la magia per viaggiare. Quasi quanto uno che lavorasse come mercenario per dei comuni mortali. Ok, un vampiro non è un comune mortale, ma secondo le fate è ciò che c’è di più infimo nel mondo magico, per via della loro origine.
     Il treno si fermò in un piccolo paesino e una coppia di mezz’età si sedette di fronte a noi. Ci guardarono per un attimo, lanciandoci occhiate incuriosite. Se Finn sembrava uscito da uno spot per incoraggiare il turismo in Irlanda, anche io non scherzavo, in quanto ad abbigliamento. La felpa rossa che avevo comprato all’aeroporto lasciava intravedere la camicia a motivo floreale che indossavo sotto e  poco s’intonava con la tuta che avevo comprato per sostituire i pantaloncini corti. Naturalmente, Finn vinse la sfida, guadagnandosi la maggior attenzione della coppia.
     «Salve!» li salutai allegramente. Almeno avrei avuto qualcuno con cui parlare. «Anche voi diretti a Friburgo?»
     «Ich spreche kein Englisch.» rispose la signora, scuotendo la testa.
     Immaginai significasse “non parlo inglese”. Oppure “non rompermi le scatole, scocciatore”. Il risultato comunque era  lo stesso.
     «Toglimi una curiosità.» dissi, rivolgendomi nuovamente a Finn. «Com’è che un membro di una corte fatata si abbassa a lavorare come mercenario?»
     «Noia.» rispose. Chiuse la rivista e la tirò sul portabagagli. «Dopo i primi millenni, la politica e gli intrighi delle corti diventano monotoni. Scene trite e ritrite.»
     «Sì?» Parlava di millenni come si trattasse di mesi o settimane. Se la storia del non sapere congiurare un Portale mi aveva fatto venire qualche dubbio sulla sua forza, quelle parole fecero sprofondare la speranza di poter fuggire prima che lui se ne andasse. Assumendo che se ne andasse  prima che Greta mi uccidesse.
     «Un giorno viaggiavo per l’Inghilterra, nei pressi del villaggio che oggi si chiama Dover, e m’imbattei in una battaglia. La costa era occupata da decine di navi, dalle quali scendevano uomini in armatura. Dalla spiaggia altri uomini, con i corpi dipinti, si affannavano per ributtarli in mare.»
     «L’invasione della Britannia da parte di Giulio Cesare.» Primo secolo Avanti Cristo e il tizio l’aveva vista di persona. Non era la prima volta che parlavo con esseri per cui il tempo è cosa di poco conto, ma nessuno di quelli aveva minacciato di smembrarmi.
     Il folletto annuì. «C’era qualcosa nell’aria che mi aveva incuriosito. Catturato, meglio. Il rumore delle armi, le urla dei guerrieri. L’odore del sangue e del sudore che impregnava l’aria. All’improvviso sentii il bisogno di combattere, di lanciarmi nella mischia.»
     «Il richiamo della guerra.» mormorai, sottovoce. Capivo perfettamente, visto che anche a me era successa una cosa molto simile.
     «Ero talmente estasiato da quell’atmosfera» continuò, senza dar cenno di avermi sentito «che nemmeno mi accorsi di aver raccolto uno spadone ed essermi lanciato contri i romani. Combattei e uccisi fino a quando gli invasori ricacciarono i britanni nell’entroterra. Ero ricoperto di sangue.» Aveva stretto i pugni e le nocche erano sbiancate. «I Lord delle corti fatate risolvono le proprie contese per vie subdole. Qualcuno ama usare la magia, ma quello è l’unico mezzo vagamente diretto che si permettono di usare. Il combattimento fisico è disprezzato come poche altre cose.»
     «Sono troppo altezzosi per sporcarsi le mani.» dissi, annuendo. «Se ora mi stai portando da Greta è perché ho fatto un lavoro simile per conto di un Lord dell’Areu Afadau , la corte sarda.»
     Finn sorrise. «Lo so.  Ti avevo sotto tiro da una decina di giorni, ma non volevo attaccarti mentre eri sotto la loro protezione.»
     Ovviamente. Altrimenti, chissà che casino sarebbe successo. Sarei stato anche curioso di vedere una guerra aperta fra corti, ma solo se non ne fossi stato la causa.
     «Comunque, ritornando al discorso di prima, quel giorno capii che combattere era la mia strada. Da allora ho solo fatto quello, in giro per il mondo.»
     Mi feci scappare un gridolino di giubilo, molto simile a quello di una dodicenne che ha appena visto la boy band del momento. Avevo appena conosciuto il mio idolo: non solo era un folletto con le palle icosaedriche che faceva il mio stesso lavoro, era pure un’enciclopedia vivente dell’arte della guerra. Glielo dissi e si mise a ridere.
     «Nessuno mi ha mai dato dell’enciclopedia.» ribatté. «Ma se pensi di comprarti la salvezza adulandomi, stai sbagliando.»
     «Non lo farei mai, non sarebbe professionale. Del resto, però, non posso nemmeno rinunciare al mio diritto di fuga.»
     «Ti ricordo che la promessa di smembramento è ancora valida.»
     Poggiai la testa sul sedile. Aveva ragione, esercitare il mio diritto di fuga avrebbe portato risultati spiacevoli. «Puoi dirmi almeno perché Greta mi vuole vivo?»
     Scosse la testa. «Anche se lo sapessi, non te lo direi. Sai bene che sarebbero informazioni confidenziali.»
     Naturalmente, Finn era un professionista, però chiedere non costava nulla. Mi lasciai andare e chiusi gli occhi. Tanto non potevo fare nulla fino a quando non mi avrebbe consegnato alla vampira, quindi tanto valeva approfittare del resto del viaggio per riposarmi. Se la corrente è troppo forte è preferibile lasciarsi trasportare piuttosto che nuotarle contro.
 
     Mi svegliai quando Finn mi scosse violentemente la spalla.
     «Siamo arrivati, Neil McRoberts.» disse. Aveva indossato la giacca e teneva il bastone appeso al braccio.
     Mi alzai e mi stiracchiai, dopo aver sbadigliato con esagerazione. Mi diressi verso l’uscita del vagone con il leprecauno che mi seguiva. Scesi a terra e mi guardai intorno, incerto sul da farsi.
     «E ora?» chiesi.
     «E ora attendiamo il nostro contatto.» disse Finn. Anche lui si guardava intorno.
     Si pensa sempre che la vita del mercenario sia come nei film: inseguimenti a tutta velocità, esplosioni, combattimenti di karate e nemici dietro ogni angolo. La realtà è molto più monotona. Grazie al cielo, aggiungerei, visto che non ho una controfigura per le scene pericolose. Spesso – molto spesso – l’unica cosa che un mercenario può fare è aspettare.  Aspettare un obiettivo, aspettare un nuovo contratto, aspettare che vengano a prenderlo in stazione. Così è la vita.
     Quando finalmente la folla che occupava la piattaforma si dissipò verso i sottopassaggi, una persona si avvicinò.
     «Josephine!» salutò Finn.
     Io invece rimasi a bocca aperta e riuscii a borbottare un titubante: «Riccioli d’Oro?»
     La donna mi guardò, piegando la testa di lato, e sorrise. «Gandalf!» disse. «Hai perso il tuo bastone?»
     Finn ci guardò entrambi e disse: «Vi conoscete?»
     «In un certo qual modo.» risposi. La mia esperienza con Riccioli d’Oro – pardon, Josephine - era cominciata con un breve flirt e un invito a cena e si era conclusa aggrovigliati a terra – non nel senso buono – dopo esserci vicendevolmente minacciati con della armi da fuoco.
     «Ci siamo incontrati  l’anno scorso a una festa.» aggiunse Josephine, rimanendo nel vago.
     Non mi sembrava particolarmente infastidita dalla mia presenza, per cui mi arrischiai a dire: «Il giorno dopo non ti ho chiamato, perché non mi hai lasciato il tuo numero.»
     Finn continuava a guardarci col sorriso sulle labbra. «Ora possiamo andare?»
     «Un auto ci attende.» rispose. «E non lascio mai il mio numero agli uomini che mi fanno addormentare.» aggiunse, rivolta a me.
     BAM! Riccioli d’Oro uno, Neil zero.
     La seguii nel sottopassaggio, mentre Finn arrancava dietro di me, zoppicando e aiutandosi col bastone da passeggio. Sì, zoppicava. Ho dimenticato di raccontarvi questo piccolo particolare. Esatto, sono stato catturato da un vecchietto, venti centimetri più basso di me e pure zoppo. Per favore, non ridete.
     Glissai sulla mia brutta situazione e ripensai al mio incontro con Riccioli D’Oro. A Cagliari – l’avevo incontrata durante lo stesso lavoro in cui avevo mortalmente offeso Greta Zimmermann – avevo dato per scontato che lavorasse per la persona che dovevo uccidere, ma se si trovava qua evidentemente lavorava per Greta. Non sapevo quanto essere felice per la novità: anziché esserci una donna che mi odiava, ora ce n’erano due.
     La osservai mentre mi camminava davanti. Era poco più alta di Finn e aveva un fisico paffutello, con le curve nei punti giusti. Indossava un paio di jeans e una camicetta bianca aderente. Le scarpe da tennis chiudevano il quadro e la etichettavano  come casual e sportiva.
     Si vedeva chiaramente che non aveva armi da fuoco, però al fianco, appesa alla cintura, teneva una bacchetta da direttore d’orchestra. Era il vettore con il quale incanalava gli incantesimi d’attacco. “Vettore” è un tecnicismo con il quale s’indica qualsiasi cosa – oggetti, parole o movimenti – si usi per aiutarsi nel lanciare un incantesimo.
     Sapevo che era un vettore perché a Cagliari ne avevo subito le conseguenze. Inoltre, chi va in giro con una bacchetta da direttore d’orchestra? Quanto è probabile dirigerne una mentre si passeggia in città?
     «Dove andiamo?» domandai.
     «Lo saprai a suo tempo.» rispose Finn, dandomi una spinta. «Pensa a camminare.»
     Uscimmo dalla stazione e Josephine ci accompagnò fino a un auto. Aprì la portiera posteriore e ci fece accomodare, mentre lei si sedeva accanto al guidatore. A un suo cenno, l’autista mise in moto e s’immise nel traffico.
     «La mia signora è molto soddisfatta, Mr. O’Shea.» disse Josephine.
     «Lo sarò anche io quando avrà trasferito il pagamento sul mio conto .» replicò Finn.
     «Quanto deve darti?» domandai, curioso di sapere il mio valore di mercato.
     «Silenzio.» borbottò il leprecauno, mettendosi a guardare fuori dal finestrino.
     Evviva, un altro viaggio ai confini della noia per Neil McRoberts. Spero che la prossima volta mi catturi uno di quei chiacchieroni logorroici che quando iniziano la smettono solo se gli punti un fucile alla testa.
     Per fortuna, non ci mettemmo molto ad arrivare. L’auto si fermò dopo un paio di minuti e ripartì non appena fummo sul marciapiede.
     «La  mia signora ci attende qua.» disse, facendoci strada.
     L’edificio di fronte era un albergo a parecchie stelle. Un’elegante tettoia in vetro accompagnava i clienti fino all’ingresso vero e proprio, dove uno zelante portiere ci salutò. Una volta dentro, Josephine ci fece segno di attendere e andò alla reception. Scambiò qualche parola con un uomo e poi ci chiamò. Prendemmo un ascensore che ci portò direttamente all’interno di una suite.
     «Siamo arrivati.» disse la donna. Di fronte a noi si trovano due mie vecchie conoscenze.
     «Finalmente ci ritroviamo, Mr. McRoberts.» disse Greta Zimmermann. Era seduta su una poltrona, con le gambe incrociate. Dietro di lei c’era una donna che avrebbe fatto la sua bella figura nella Swimsuit Issue di Sport Illustrated. Cominciavo a credere che Greta selezionasse i vampiri del suo clan tramite concorsi di bellezza.
     «Avrei preferito incontrarti in un’altra occasione, non so, magari mentre affondavi nelle sabbie mobili.» risposi con la mia solita gentilezza.
     Un uomo era accanto al camino, appoggiato sulla mensola. Ai suoi piedi era accovacciato un lupo dal pelo fulvo.
     «Non so quanto ti convenga offenderla.» disse Robert Von Kempf.  Era un mio vecchio amico dai tempi di Xiam, la città-stato centro del sapere mondiale. Avevamo studiato insieme, ma a differenza mia, lui aveva completato gli studi ed era diventato uno degli massimi esperti mondiali di storia germanica. Alto, biondo e con gli occhi azzurri era l’archetipo del tedesco, anche se la vita sedentaria dello studioso cominciava a mostrare i primi segni sul suo corpo. Inoltre, era il capobranco di uno dei più grandi gruppi di mannari d’Europa.
     Alzai le spalle e feci per chiedergli cosa ci facesse qua, ma Finn m’interruppe.
      «Ecco il suo amico.» disse, dandomi una spintarella verso Greta. «Il nostro contratto è concluso.»
     «Bene.» replicò Greta. Fece un cenno alla donna alle sue spalle, la quale si diresse verso un tavolino su cui era posato un portatile. «Ottimo lavoro Finn. La fata e il mago in meno di un mese.»
     «È stato facile.»
     «La fata?» esclamai, preoccupato. C’era solo una fata in comune fra le nostre conoscenze. «Hai preso Chiara?» Mi mossi minacciosamente verso la vampira, ma Riccioli d’Oro si mise in mezzo e mi bloccò.
     «I soldi sono stati trasferiti.» disse la donna, mentre spostava il portatile in modo che Finn potesse vedere lo schermo.
     «Hai preso Chiara?» ripetei, alzando la voce.
     Chiara era una mia collega, un’amica, che aveva partecipato al lavoro dello scorso anno. Greta non aveva nessun motivo di prendere anche lei, se non per fare leva su di me. Il Lord delle fate che mi aveva commissionato il lavoro mi aveva avvertito che la vampira aveva messo una taglia sulla nostra testa. Un terzo uomo aveva partecipato all’azione, ma Greta non l’aveva visto; l’ultima volta che l’avevo sentito era nel Golfo di Aden a giocare al cacciatore di pirati.
     «Ovviamente. » rispose la vampira.
     Avevo cercato di aiutare Chiara. Appena avevo saputo che i vampiri volevano le nostre teste, l’avevo contattata per darle una mano a nascondersi, ma lei era testarda come poche e aveva rifiutato qualsiasi aiuto: “so cavarmela da sola”, “non sei mio padre”, “Al massimo dovrei essere io ad aiutare te” e via dicendo. I fatti le avevano dato torto, ma del resto la mia situazione non era migliore.
     Finn si allontanò dal computer e sorrise soddisfatto. «Bene. Se non c’è più bisogno dei miei servigi, io andrei via.»
     Finalmente. Così avrei potuto pensare a qualcosa di produttivo. Quando il folletto mi passò accanto lo presi per un braccio e gli dissi: «Come posso contattarti?»
     Il leprecauno sorrise. «Dubito tu possa permettermi di assumermi.» Si divincolò dalla mia stretta senza troppi problemi e entrò nell’ascensore, mentre fischiettava Molly Malone.
     «Accomodati.» disse Greta, con un tono che rendeva l’affermazione un comando più che un invito. «Dobbiamo parlare.»
     «E se non volessi?» risposi. Feci per allontanarmi, ma Josephine mi spinse verso uno dei divani.
     «Suvvia, Neil.» intervenne Robert alzando le mani. «Non fare il bambino.»
     «Tu che diamine ci fai qua? Pensavo fossi un amico.» dissi, mentre mi sedevo. Comunque, aveva ragione. Non aveva senso fare il bambino: Greta aveva indubbiamente bisogno di me. Altrimenti mi avrebbe già fatto uccidere e non avrebbe usato Chiara come leverage. Assumendo che quello era lo scopo, visto che non ne ero certo.
     «Sono qui per mediare l’incontro.» replicò Robert, stizzito. «Greta ha una proposta da farti.»
     «Non si tratta con i terroristi.»
     «Mr. McRoberts» disse Greta «mi spiace aver usato questi metodi per farla venire qua, ma se l’avessi invitata per un lavoro, mi avrebbe creduto?»
     Sorrisi. «Ovviamente no, non sono un idiota.»
     Robert inarcò un sopracciglio.
     «Sì, sono un idiota, ma non fino a quel punto.» Lanciai uno sguardo verso Riccioli d’Oro e la vidi sorridere. «Difficilmente avrei creduto che la persona che mi manda contro una squadra di sicari, fosse interessata a una discussione pacifica.»
     «In realtà è una cosa che riguarda tutti noi.» disse Robert. «Sono stato io a convincere Greta a non ucciderti. Di nuovo.»
     «Grazie.» risposi. Era la seconda volta che Robert mi dava una mano con dei vampiri. «Quello che non capisco però è tutta questa complicatezza. Non bastava contattarmi e parlare?»
     «Non eri rintracciabile.» Robert si sedette e posò una mano sulla testa del lupo, che gli si era accucciato accanto.
     Alzai le spalle. «Non ci tenevo a farmi nuovamente sparare da un gruppo di vampiri.» Sorrisi, rivolto a Greta. «Probabilmente  i cadaveri di quei cinque stanno ancora sulla spiaggia. I granchi saranno così grassi da non riuscire più a muoversi.»
     La vampira ignorò il mio commento, ma notai che strinse il bracciolo della poltrona.
     «Quindi avete pensato bene di sguinzagliarmi contro il super-folletto mercenario?» continuai. «Non me l’aspettavo da parte tua, Robert.»
     «Usare Finn è stata una mia idea.» intervenne Josephine.
     «Sì?»
     «Ho immaginato che la corte fatata sarda ti avesse messo sotto protezione, per cui difficilmente noi avremmo potuto trovarti.»
     La ragazza era in gamba. Per un mago umano era molto difficile - per non dire impossibile - infrangere  l’incantesimi di protezione di un lord delle fate, quindi l’unica maniera per rintracciarmi era quella di usare vie traverse.
     «Finn O’Shea non sarà molto abile con la magia, ma è il migliore quando si tratta di dribblare le protezioni delle corti fatate.» aggiunse Josephine.  «Una volta che ti ha trovato gli è bastato aspettare che facessi una di quelle tue folli uscite dal rifugio.»
     «Che ci posso fare se non mi piace vivere rintanato in un buco.»
     La donna scosse le spalle. «Problemi tuoi.» Si girò verso Greta e rimase in attesa.
     «Adesso però dovete dirmi cosa mi ferma dal farvi tutti saltare in aria.» Ora che Finn era andato via, ero abbastanza certo che nessuno di loro potesse tenermi testa in un combattimento. Riccioli d’Oro poteva anche essere una brava maga, ma non era al mio livello. A Cagliari, Greta era fuggita con la coda fra le gambe nonostante avesse con sé altre cinque vampire. La sua amica che avrebbe potuto fare, distarmi indossando un bikini?
     A supporto delle mie parole, evocai una piccola palla di fuoco e la feci girare intorno alla mano.
     «Per favore, Neil…» disse Robert. Il lupo si era sollevato sulle zampe e mi stava ringhiando contro.
     «Sto aspettando.»
     «Io mi guarderei  alle spalle.» aggiunse Greta.
     Non feci in tempo a voltarmi che sentii qualcosa premermi contro la nuca; qualcosa di molto simile alla canna di un fucile d’assalto. La palla di fuoco svanì come neve al sole. Non è salutare irritare chi ti tiene sotto tiro.
     «Siamo qua per discutere, Mr. Roberts.» continuò. «Se avessi voluto ucciderla, sarebbe già morto da un pezzo.»
     Con la coda dell’occhio vidi che a tenermi sotto tiro era la modella di Sport Illustrated. «Fossi in te non lo farei, zuccherino. Il rinculo di quell’arma ti farebbe volare fuori dalla finestra.» Teneva sotto braccio un modello del G3, un grande e pesante fucile d’assalto di grosso calibro che veniva usato per azioni a lungo raggio, non certo in un ambiente chiuso.
     «Vogliamo provare?» replicò la ragazza. La voce emanava abbastanza sicurezza dal farmi desistere da qualsiasi azione folle. Non volevo rischiare di venire fatto a pezzi da una raffica  di quel cannone.
     «Neil…» ripeté Robert ancora una volta, ma con un tono più duro. Stava cominciando a irritarsi. E nessuno vuol vedere Robert Von Kempf adirato.
     «Va bene, va bene.» mi arresi. Non aveva senso prolungare ulteriormente la diatriba. Ci sarebbero state altre occasioni per rimettermi in parità. «È chiaro che vogliate farmi fare qualcosa. Sentiamo.»
     «Nulla d’impossibile.» disse Greta. Fece un gesto della mano e Zuccherino prese il portatile che aveva usato prima e me lo portò. Il mitragliatore gigante era scomparso e ora la signorina pareva molto più aggraziata. Si sedette accanto a me e mi mostrò il computer.
     Sul monitor c’erano alcune foto che sembravano essere state fatte per delle cartoline: paesaggi bucolici della Foresta Nera e alcune panoramiche di un villaggio così rustico e caratteristico che sembrava essersi fermato nel tempo. Non ero un esperto di fotografia, ma le foto erano chiaramente scattate da lontano con un obiettivo telescopico, segno che i curiosi non erano i benvenuti.
     «Mi volete mandare in vacanza?» domandai.
     «Devi rubare un oggetto per nostro conto.» rispose Robert. «Da quel villaggio.»
     Sorrisi. «Dov’è l’inghippo?»  chiesi. Solitamente  non si scomoda un mago del mio livello – modestia a parte – per un compito che potrebbe eseguire qualsiasi ex-militare.
     «Nessun inghippo.» intervenne Greta. «Devi semplicemente capire quale sia l’oggetto.»
     Cominciavo ad irritarmi anche io.  «Ma è uno scherzo? Mi state prendendo in giro?» esclamai. «Che diavolo vuol dire? Devo rubare un oggetto per voi, ma non sapete cosa sia? Devo indovinare? Oppure portarvi ogni oggetto da ogni casa fino a quando non sarete soddisfatti?» Feci per alzarmi, ma Zuccherino mi trattenne per la spalla. Forzai un attimo, ma era come se ci avessero posato sopra un’incudine. Evidentemente Zuccherino poteva finire su Sport Illustrated non solo per la Swimsuit Issue, ma anche per un servizio sulle donne più forti del mondo. Mi riaccomodai senza fare troppe storie.
     «È un artefatto magico. Molto potente.» disse la vampira.
     «Capisco.» borbottai, anche se non capivo affatto. «Qualche altro indizio? È un pugnale magico? Un anello? Sono sempre degli anelli!»
     «Non lo sappiamo.» Robert tagliò corto. «Il suo padrone è abbastanza furbo da non mostrarlo in giro.»
     «Come si chiama il padrone?»
     Robert fece un segno di diniego. «Non sappiamo nemmeno questo.»
     «Di bene in meglio.» borbottai. «Ora mi direte che non sapete nemmeno dove si trova il villaggio.»
     «A una sessantina di chilometri a nord-est.» disse Zuccherino. «Nel mezzo della Foresta Nera. Ho fatto io stessa la ricognizione.» La signorina dunque era una tipa tosta. La immaginai in mimetica nella foresta, sdraiata in un buco fangoso, coperta di foglie e rami, passando qualche ora a scattare fotografie. Tutto a un tratto mi venne difficile chiamarla Zuccherino.
     «Bene, almeno non dovrò vagare per l’Europa alla sua ricerca.» dissi. «Comunque mi sembra un’impresa impossibile. E perché non sapete chi sia il padrone dell’oggetto?»
     «Sappiamo chi è, ma non sappiamo il suo nome.» disse Greta. «Voglio quell’artefatto per avere un po’ di leva su di lui.»
     «Vogliamo.» la corresse Robert.
     «Interessante.» dissi. «Quindi vi serve il mio aiuto per mettere alle corde questo tizio? E se rifiutassi?»
     Greta sorrise. «Useremo la tua amica fatina per fare leva su di te.»
     Ovviamente. «Abbiamo una foto di Mr. X? Così magari posso identificarlo.»
     Zuccherino armeggiò con il touchpad del portatile e mi mostrò una foto, che però non ritraeva il misterioso uomo, ma un arazzo, il cui stile ricordava i mosaici bizantini. Vi erano raffigurati un drago e un cavaliere che combattevano.
     Mi misi a ridere. «È uno scherzo? Mi state prendendo in giro.»
     «Magari.» disse Robert. «Vorremmo tutti che fosse uno scherzo, ma non è così.»
     «Il nostro nemico, e il tuo obiettivo, è un drago.»
     Signori, colpo di scena. Il mio prossimo bersaglio era una creatura mitologica.

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Capitolo 2
*** 2. ***


«Cosa sai sui draghi?» mi chiese Josephine.
    Stavamo uscendo dall’ascensore e ci dirigevamo fuori dall’albergo.  Riccioli d’Oro era il mio partner per la missione. Si era offerta di aiutarmi, ma ovviamente aveva il compito di tenermi d’occhio per conto di Greta Zimmermann.
    «Volano, sputano fuoco e non esistono.» risposi. Appena fuori dall’albergo mi guardai intorno, non sapendo da che parte andare.
    «Di qua.» Josephine mi tirò per il braccio. «Hai ragione per quanto riguarda le prime due. Volano e sputano fuoco. Ed esistono.»
    Imprecai sottovoce e poi dissi: «Per cui sarà bene che cominci a pensare al mio epitaffio.»
    Mi lanciò uno sguardo confuso.
    «Perché è molto probabile che muoia. Per la legge di conservazione della pericolosità.»
    L’espressione della donna era ben oltre la confusione.
    «La legge di conservazione della pericolosità. La pericolosità di una categoria è una quantità costante, per cui se i suoi elementi sono pochi allora singolarmente sono pericolosi e, viceversa, se sono tanti allora non lo sono. Le mosche sono tante e non sono pericolose. Gli Aes Sidhe sono pochi e decisamente più pericolosi. I draghi sono generalmente considerati creature mitologiche e protagonisti della fiabe, quindi, visto che a quanto pare esistono veramente, probabilmente ne esistono pochi e sanno nascondersi bene. Per cui… » la conclusione era ovvia.
    «Le zanzare sono tante ma possono attaccarti la malaria.»  replicò. «Il tuo ragionamento non fila.»
    Sbuffai.«Le zanzare in sé non sono pericolose. Poi è una legge empirica. E l’ho inventata un paio d’anni fa. Se ci pensi un po’, fila. Se un gruppo è formato da gente molto potente è facile che si eliminino fra di loro o che vengano contenuti da altri gruppi.» Mi fermai un attimo per cercare un esempio pratico. «Pensa ai nosferatu. Quanti credi ne esistano in tutto il mondo?»
    «Non so.» Mi indicò di svoltare a destra. «Un centinaio?»
    Mi misi a ridere. «Sei pazza? Se in questo periodo storico ne esistono una dozzina è tanto. Non si vedono molto bene fra loro e sono molto pignoli sui territori di caccia.»
    «E quindi?»
    «Quindi si uccidono fra loro. Voi vampiri, invece…»
    «Non sono un vampiro.» replicò, vagamente scocciata. «Sono solo un’umana acqua e sapone.»
    Riuscii solamente a balbettare un “pensavo che” prima che m’interrompesse e continuasse a parlare.
    «Invece i vampiri sono tanti e non essendo molto forti singolarmente tendono a riunirsi in gruppi numerosi.»
    «Esatto.» replicai. «Quindi non oso immaginare di cosa sia capace un drago, oltre al fatto che mi può arrostire con un soffio.» Eravamo arrivati in un piccolo parcheggio. «Qual è la nostra auto?» domandai.
    «Questa.» rispose Riccioli d’Oro, saltando in sella a una moto e mettendosi il casco. Diede un colpetto dietro di sé.«Forza, salta su.»
    Mi feci scappare un’esclamazione di sorpresa. «Bella moto.» dissi, mentre salivo dietro di lei.
    Accese il motore e disse: «Reggiti forte.»
    Mi appoggiai alla sua schiena, stringendole un braccio intorno alla vita, e partimmo.
    «Dove stiamo andando?» strillai, ma la donna non mi sentii, coperta com’era dal casco.
    Josephine sembrava essere una discreta pilota e faceva lo slalom fra gli altri veicoli, infischiandosene di gran parte del codice stradale. Quando cominciai a pensare che saremmo finiti sotto un camion o in una cella della polizia tedesca, la donna svoltò e c’infilammo in un parcheggio sotterraneo.
    «Siamo arrivati.» disse, dopo essersi tolta il casco. I capelli riccioluti le scesero disordinati sulla schiena.
    Scesi dalla moto. «Sul serio? Non l’avrei mai immaginato.» replicai con un leggero accenno di sarcasmo. «Dove siamo?»
    «Il mio appartamento.» Entrammo nell’ascensore e premette il pulsante del terzo piano.
    «Ho proprio fatto colpo se mi fai salire da te senza nemmeno averti pagato una cena.»
    Josephine continuò a guardare avanti, ma sorrise.  «Cala, cala, Mr. McRoberts.» rispose. «Non sono così disperata.»
    «Dicono tutte così.»
    La porta dell’ascensore si aprì e uscimmo. Percorremmo uno spartano corridoio la cui unica decorazione era un tappeto logoro. Josephine aprì una delle porte e mi fece segno di entrare.
    «Un attimo.» dissi, alzando una mano. Mi guardai intorno, ma il corridoio era deserto a parte noi due. «Il tuo appartamento è protetto da Portali sconosciuti?»
    La donna si appoggiò alla porta e mi guardò come se avessi detto un’eresia. «Mi pare ovvio. Per chi mi hai preso?»
    Mossi la mano destra come se stessi aprendo una cerniera e un piccolo strappo dimensionale apparve là accanto. C’infilai la mano e tolsi fuori il mio bastone. Chiusi il Portale e mi passai l’arma da una mano all’altra, assaporando il profumo di cera per legno con cui lo trattavo. Le dita corsero lungo gli intarsi geometrici che correvano lungo la sua superficie: alcuni servivano per amplificare la sua funzione di vettore, mentre altri erano là solo perché mi piacevano come decorazioni. «Senza il mio caro bastone mi sento come nudo.» scherzai.
    «Scomodo e ingombrante.» commentò, scuotendo la testa. Entrò nella appartamento e la seguii.
    «Meglio una bacchettina come la tua? Chi sei, Harry Potter?»
    «Al massimo sarei Hermione.» Chiuse la porta e mi fece accomodare in quello che sembrava essere un piccolo soggiorno. O forse cucina. Più che un appartamento sembrava essere un bilocale. Il mobilio era di alta qualità e la cucina sembrava essere una di quelle console supertecnologiche che si vedono nei film di fantascienza. La mia fervida immaginazione cominciò a pensare a torte olografiche e altra assurdità, ma la voce di Riccioli d’Oro mi fermò.
    «Bello il trucco per conservare il bastone in un’altra dimensione.» disse. «Come funziona?»
    Mi abbandonai a un sospiro a metà fra il divertito e il lusingato. Mi massaggiai il mento - avevo assolutamente bisogno di radermi - e risposi con soddisfazione: «Ti piacerebbe saperlo.» Certi trucchi è meglio tenerli per sé. «Se vuoi approfondire l’argomento ti posso consigliare un paio di quintali di libri tecnici sull’argomento Portali.»
    I Portali, usati soprattutto per la magia di trasporto, in realtà sono applicazioni di un concetto teorico molto più ampio: le intersezioni dimensionali, un parolone brutto per un’idea abbastanza semplice. Circa. Immaginate una sfera n-dimensionale. No, scusate, meglio di no, pensate invece a un semplice cubo. Dentro di esso potete costruire altri piccoli cubi - o altre figure a tre dimensioni - oppure dei poligoni o semplicemente dei segmenti o dei punti. Ora supponiamo che il cubo di partenza sia il nostro multiverso e tutti gli oggetti che ci possiamo costruire dentro delle singole dimensioni. Queste possono essere completamente separate fra loro, una contenuta nell’altra, oppure avere un’intersezione non nulla.  Quest’ultimo caso è il più interessante per il trasporto magico. Pensate a due cubi con una faccia in comune: quando ci si trova là si è contemporaneamente in due dimensioni differenti e ci si può muovere liberamente fra l’una e l’altra. I Portali permettono proprio questo collegamento. Se poi considerate che esistono infinite dimensioni che s’intersecano con la nostra e, soprattutto, che questo ragionamento va fatto non su tre, ma su infinite dimensioni geometriche capirete l’ampia area di sperimentazione su cui si può lavorare.
    «No, grazie.» replicò, delusa. «Non sono molto abile con la teoria, probabilmente non ci capirei nulla. Per quando riguarda il mio modo di usare la magia propendo più verso l’essere una strega.»
    «Non sono mai stato bravo con la terminologia, che differenza c’è fra stregoni e maghi?» Mi sedetti al tavolo, mentre lei metteva un bollitore sul fuoco.
    «Pensavo che queste cose a Xiam ve le insegnassero.» rispose, sedendosi di fronte a me. «Voi maghi siete quelli che hanno studiato, quelli che hanno completato gli esami al Dipartimento di Studi Magici, o quasi.» Le sue labbra sottili si allargarono in un vago sorriso. «Siete un po’ gli ingegneri della magia. Avete le vostre regole e le vostre tecniche e le applicate per ottenere il risultato più efficiente.»
    Annuii. Cercai di non mostrarlo, ma ero lievemente contento. La signorina aveva fatto il proprio compitino e conosceva il mio curriculum scolastico.  Probabilmente aveva fatto qualche domanda a Robert e spulciato qua e là su Internet. Visto che dovevo lavorare con lei, sapere che era una professionista era un’ottima cosa.
    «Gli stregoni, invece, sono come, non so, come dei musicisti.» continuò Josephine. «Qualcuno diceva che la musica dà alla gente il piacere della matematica senza bisogno di conoscerla. Gli stregoni usano la magia d’istinto, senza appoggiarsi a regole razionali, ma seguendo i fili già tessuti dalla Natura.»
    «Quindi fanno le cose un po’ a casaccio e sperano che funzionino.» dissi, tamburellando le dita sul tavolo. «È un metodo che non mi piace.»
    «Però è altrettanto valido.» replicò stizzita. «Non si fanno cose a casaccio, nessuno ci tiene a esplodere. Si cerca di modificare a proprio vantaggio ciò che già esiste anziché congiurare dal nulla palle di fuoco o fulmini globulari.»
    «Cosa sai dei draghi? Sembri molto informata.» dissi per cambiare argomento. Quel modo di fare magia non mi piaceva per nulla e la mia considerazione per lei era calata. La magia non è qualcosa che s’improvvisa dall’oggi al domani:  va studiata, conosciuta e applicata.
    «Per farla breve, sono creature magiche che ottengono il proprio potere dall’accumulare.»
    «Dall’accumulare? Che significa?»
    «Hai presente i classici draghi con il tesoro nella propria tana?»
    «Smaug nella Montagna Solitaria? Sì, certo.» replicai. Il bollitore cominciò a fischiare. «E il potere di un drago è misurato, no, è proporzionale a quanti tesori ha accumulato nella propria tana?»
    Josephine si alzò per spegnere il fornello e rispose: «Sì, circa. Non è necessario che siano tesori come oro e gemme, può essere qualsiasi cosa per cui il drago prova attrazione.» Posò due  tazze sul tavolo e mi porse  una scatola piena di bustine di tè.
    Ne presi una di Earl Grey e riempii la tazza. «Sto pensando a un vecchio cartone della Disney, dove Cip e Ciop accumulavano nocciole nella loro tana nell’albero. Non dirmi che ci sono draghi raccoglitori di nocciole o collezionisti di figurine dei calciatori.»
    «Zucchero?» domandò. Sollevò il cucchiaino, ma al mio cenno di rifiuto si bloccò. «Non credo sia così semplice. Il drago deve avere un legame affettivo con il proprio tesoro e il potere emanato da esso dipende anche dalla rarità degli oggetti. Altrimenti perché gli antichi draghi collezionavano oro e pietre preziose e non patate e rape?»
    «Per fame di potere.» risposi, pensieroso. «E il nostro drago cosa colleziona?»
    «Donne.»
    Feci cadere il cucchiaino sul tavolo. «Donne?» ripetei.
    «Donne, hai capito bene. Glavnyognya colleziona donne. E quando non è lui a rapirle le fa rapire da altri. Dai suoi cultisti o dai suoi servitori.»
    «O mio dio.» esclamai. «Comincio a capire il piano di Greta e Robert.» Ora che i pezzi del puzzle cominciavano a saltare fuori era possibile comporre l’immagine. Glavcoso era il bulletto del quartiere  e maltrattava i vampiri e i mannari rubando loro i soldi per la merenda. Probabilmente richiedeva un qualche pagamento in donne per la sua collezione. Robert e Greta, chiaramente, non potevano contrastarlo in maniera diretta e avevano pensato che rubando chissà quale misterioso artefatto a cui era affezionato avrebbero potuto ricattarlo.
    Sorseggiai un po’ di tè e osservai Josephine. Aveva gli occhi puntati su di me e stava studiandomi. Robert e Greta non aveva accennato ai perché del mio lavoro, per cui probabilmente era curiosa di sapere quanto avessi elaborato per conto mio dalle informazioni che mi aveva dato.
    «Quindi dobbiamo rubare il misterioso cosino per ricattare Glavcoso, affinché non costringa la tua signora a inviare il femmineo tributo.»
    «Esatto.» rispose. Poi si mise a ridere. «Nessuno però l’aveva mai chiamato “femmineo tributo”.»
    «È comunque una missione impossibile.» replicai. Allontanai la tazza e mi alzai. Non che il tè non fosse buono, però lo stomaco mi si era rivoltato al pensiero delle donne imprigionate nella tana del drago. «Dobbiamo rubare un oggetto di cui non conosciamo né la forma né la locazione.» Scossi la testa. «È impossibile.»
    Josephine continuava a sorseggiare il suo tè, senza dar segno di nessuna preoccupazione. «Cerca una soluzione, se vuoi rivedere la tua fatina.» disse senza perdersi in troppi giri di parole.
    In genere reagisco male quando vengo minacciato, ma in questo caso non c’era nulla che potessi fare. In quel momento Chiara era fuori dalla mia portata, non avevo nemmeno idea di dove la tenessero. L’unico modo per aiutarla era completare il lavoro, assumendo che il drago si facesse ricattare e non incenerisse tutti quanti per recuperare il suo artefatto.
    «Visto che non conosciamo chi possiede l’oggetto, suppongo che il drago sia mimetizzato fra la popolazione di quel villaggio.»
    La donna fece un cenno d’assenso. «Sappiamo per certo che vive là in forma umana e che probabilmente usa un’identità russa.»
    «Russa?»
    «Sì. O almeno credo. Glavnyognya ha vissuto in Russia negli ultimi secoli e penso abbia assimilato un po’ della loro cultura. Del resto i russi sono stati i primi a dargli un nome.»
    «E perché si è trasferito qua?» domandai.
    Alzò le braccia e scosse la testa. «Non ne ho la minima idea.»
    Quel punto non era banale. Se sei un pezzo grosso come un drago e una creatura abitudinaria, come qualsiasi essere che ha vissuto per millenni, non abbandoni il tuo territorio senza un valido motivo. Le cause potevano essere due: Glavcoso aveva visto nella Foresta Nera una migliore sorgente di potere; qualcuno più grosso di lui l’aveva fatto sloggiare dai suoi vecchi territori. Nel primo avremmo avuto a che fare con un tizio estremamente geloso del proprio territorio, nell’altro con uno abbastanza adirato per essere stato cacciato dalla sua antica casa. Non male come possibilità.
    Mi passai una mano fra i capelli. Dopo due giorni di viaggi per l’Europa non ero certo pulito e profumato. «Ho assolutamente bisogno di una doccia.» dissi. «Magari pensare sotto l’acqua mi farà venire qualche idea.»
    Josephine si alzò e mi fece strada verso la stanza adiacente. Doveva essere la sua camera da letto, perché c’era un letto a due piazze, un armadio a quattro ante e una cassettiera con specchio di fattura antica. M’indicò una seconda porta e disse: «Là c’è il bagno.» Frugò nell’armadio, prese un asciugamano e me lo tirò. «Non consumare troppa acqua calda.» Poi prese una busta di plastica e la posò sul letto. «Vestiti di ricambio.»
    Stracciai la busta - sarò pure un mago, ma non riesco comunque a sciogliere i nodi nelle buste di plastica - e ne esaminai il contenuto: un paio di boxer, delle calze di spugna, un paio di jeans, una t-shirt bianca e una felpa nera con una scritta rossa, “It’s just a flesh wound”. Sorrisi, era un classico.
    «Eri certa che avrei accettato?» domandai.
    Sorrise. «Chi fai il tuo mestiere non vive a lungo se non impara in fretta a scegliere i lavori giusti.»
    Mi tirai l’asciugamano sulla spalla e dissi con accento italo-americano: «Tendo sempre ad accettare le offerte che non posso rifiutare.»
    Josephine mi regalò uno sguardo divertito e tornò nel soggiorno.
    L’acqua calda che mi scendeva lungo la schiena mi aiutò a rilassarmi e a pensare. La situazione in cui mi trovavo non era fra le più desiderabili, ma era meglio che essere morto. Certo, avrei potuto diventarlo entro pochi giorni, dato che dovevo pestare i piedi a un drago, ma almeno ci si poteva lavorare. Andare a testa bassa contro una creatura di quella forza era un suicidio, per cui dovevo giocare di finezza. Individuare l’oggetto, rubarlo e filarmela prima che il drago potesse accorgersi di me. Poi, una volta consegnato il coso a Robert e Greta, filarmela con Chiara verso qualche spiaggia tropicale. Facile a dirsi.
    M’insaponai con calma, gustando il piacevole tepore dell’aria all’interno del box doccia. La linea d’azione tipica per casi di questo tipo era di usare un rituale di ricerca. Il problema, però, era che non avevo nulla su cui basarmi. Per trovare qualcosa avevo bisogno di qualcos’altro legato a esso: una sua parte, un altro oggetto dello stesso proprietario o un suo simile di potenza equivalente. L’ultimo punto era sensato solo per cercare oggetti o persone così potenti che non ne esistevano molti esemplari. In caso contrario, l’energia del rituale si sarebbe dispersa fra troppi obiettivi, rendendolo completamente inutile.
    Chiusi l’acqua e mi asciugai. Poi mi avvolsi l’asciugamano alla vita e uscii dal bagno. Profumavo di fragole e albicocca. Neil McRoberts, famigerato mago-mercenario, che profumava come un cesto di frutta. Osservai la stanza di Josephine mentre mi vestivo. Non c’era nessun elemento decorativo e l’unico soprammobile era un vaso con dei fiori finti, alquanto vecchio. L’unico indizio che mostrava la presenza di una persona era un libro sul comodino. Lo presi in mano e lessi il titolo: La contessa e lo stalliere. Uno di quei libri di porno per donne, con decine di pagine di minuziose descrizioni dei muscoli dello stalliere e centinaia di similitudini per indicare l’organo maschile.
    «Alla fine lei rimane incinta, ma lo stalliere muore, ucciso dal malvagio conte.» disse una voce alle mie spalle.
    «Oh, no! Ora che so come finisce non potrò gustarmi questo capolavoro.» esclamai, mentre poggiavo quelle cinquecento pagine di letteratura colta. In quel momento notai qualcosa sul comodino, una piccola spilla dalla forma particolare, ma prima che potessi capire cosa fosse Josephine mi si parò davanti. Mi diedi due colpetti alla pancia e dissi: «E ora pappa. Cosa hai preparato di buono?»
    Sorrise. «Non sono la tua cameriera, Neil. Se hai fame possiamo…»
    «Certo che ho fame.» borbottai. «Il tuo amico verde mi ha costretto a viaggiare in tutta fretta e in due giorni ho mangiato un gelato a Nizza e un panino a Ginevra!»
    «Se vuoi possiamo andare a un fast food qua vicino.» disse la donna.
    «Un invito a cena!» Ridacchiai. «Però paghi tu.»
    Scosse la testa e tornò in cucina. Feci per seguirla, ma prima guardai nuovamente sul comodino per esaminare la spilla. Era una croce greca e su ogni braccio era avvolto un fiore stilizzato: un tulipano, un giglio, un’orchidea e una malvarosa. Mi sembrava di conoscere quel simbolo e mi chiesi se la Fratellanza della Notte di Valpurga avesse cominciato a produrre del merchandising. Presi la spilla e me la rigirai fra le dita.
    Esistono due giorni che sono molto importanti per i cicli magici: la Notte di Valpurga e la Notte di Ognissanti. Non sono importanti per qualche strano allineamento astronomico o per qualche buffonata astrologica, lo sono perché le persone li hanno resi importanti. Sono due giorni in cui vengono festeggiate tradizioni di culti antichissimi, poi assimilati da religioni meno antiche come il cristianesimo e infine inglobate nella venerazione del grande Dio Consumismo, ma sto divagando. Sono importanti per i maghi perché sono due feste talmente radicate nel mondo e nelle coscienze che durante il loro svolgersi l’energia magica viene purificata, amplificata. In quelle notti è possibile eseguire con facilità incantesimi che di norma non si è in grado di eseguire. Gruppi come la Fratellanza della Notte di Valpurga sfruttano quelli notti per preparare grandi rituali per grandi scopi come salvare gli alberi o abbattere le malvagie multinazionali; gente come me evoca tre demoni egiziani per giocare a poker. Il vecchio Sehaqeq mi deve dodici ettari di terre sul Nilo. Sapere che Josephine facesse parte della Fratellanza era una notizia curiosa: solitamente i membri di questi gruppi sono degli hippie-abbraccialberi o dei wiccan, non gente che lavora nel mio campo e sa uccidere un uomo in almeno dodici modi differenti.
    «Allora, ti sbrighi?» gridò Josephine dall’altra parte della stanza.
    Posai la spilla e tornai in cucina, dove la donna mi attendeva con una pistola in mano. Allenamento e abitudine reagirono istantaneamente alla minaccia e mi preparai ad evocare uno scudo, ma non fu necessario perché me la passò.
    «Meglio avere un’arma a disposizione, non si sa mai.» mi disse.
    Era una SIG P226, una 9mm dalle dimensioni contenute. Feci scorre il carrello per verificare che non ci fosse un colpo in canna, poi estrassi il caricatore e controllai che fosse carico. Lo reinserii, misi la sicura e me la infilai nei jeans, coprendola con la felpa.
    Josephine ripeté le stesse azioni con una seconda pistola e poi mi disse: «Forza, andiamo, Fragolino.»

    Quindici minuti e tre quasi-incidenti motociclistici dopo eravamo nel fast-food, seduti a un tavolo con un vassoio di cibi killer davanti. Non sono un grande fan del junk food, ma una volta ogni tanto non è un crimine. In quel momento non è che avessi molta scelta e non potevo certo fare il sofisticato.
    «Che altre informazioni abbiamo sull’obiettivo?» domandai dopo aver addentato l’hamburger.
    «Sappiamo solo che il drago si nasconde fra la popolazione del villaggio e che ha un culto di seguaci che lo adora come un dio.»
    «Di bene in meglio. Che resistenza dobbiamo aspettarci? PMC, fanatici, creature sovrannaturali?»
    «Soprattutto fanatici, ma probabilmente il drago avrà un cerchio di fedelissimi abbastanza preparato.»
    «E a livello magico? Quanto devo aspettarmi da Glavcoso?»
    Josephine bevette un po’ dalla cannuccia della sua bevanda, rifletté un attimo e poi disse: «Per quel che ne so può essere un totale ignorante oppure un fottuto arcimago con le palle d’acciaio.»
    Una signorina raffinata. «Capisco che viste le capacità combattive di un drago non dovrei preoccuparmi di queste sciocchezzuole, ma sono curioso di sapere se oltre ad arrostirmi, divorarmi e farmi a pezzi può anche trasformarmi in un grillo.» Non che le trasformazioni in insetti fossero particolarmente sensate, ma era più incoraggiante rispetto a “teletrasportarmi nello spazio siderale” o “farmi fare un bagnetto nel magma”. Spiluccai un paio di patatine dalla sua porzione.
    «Ehi, fermo!» Mi diede un colpo alla mano. O almeno ci provò, visto che fui più veloce di lei.    
    Morsicai la refurtiva e sorrisi soddisfatto.
    «Come ogni creatura sovrannaturale, di solito i draghi non s’interessano allo studio delle arti magiche Preferiscono usare la propria energia nella maniera più naturale.» continuò Riccioli d’Oro.
    «Super forza e super velocità come folletti e vampiri?»  domandai.
    Josephine ridacchiò. «Quando sei lungo dodici metri dalla testa alla coda e pesi un paio di tonnellate non hai bisogno di super forza o super velocità.»
    Immaginai un corpo di diverse tonnellate muoversi alla velocità del suono: era una scena abbastanza inquietante.
    «In genere usano l’energia magica per rimanere in forma umana e per volare e sputare fuoco o altro.» continuò lei, finendo l’ultimo morso del suo hamburger. «Non penserai certo che possano volare solo grazie alla loro muscolatura?»
    Alzai le spalle. Non ero esperto di uccelli o rettili volanti o qualsiasi cosa fossero i draghi, una cosa però mi aveva incuriosito. «Sputare fuoco o altro?»
    «In genere incendiano del metano che producono tramite la digestione, ma in altri casi utilizzano sostanze acide o narcotizzanti oppure producono correnti d’aria…»
    «Rutti magici. Sempre meglio.»
    «… per cui è molto raro trovare  draghi che praticano seriamente l’arte magica.» continuò, ignorandomi.
    Tolsi il tappo della mia bevanda e bevetti direttamente dal bicchierone di plastica. Odio le cannucce. «Com’è che sai tutte queste cose sui draghi?»
    «Ne ho conosciuto uno. Il nome Huísheng ti dice qualcosa?»
    «Purtroppo sì.» Chiunque abbia studiato un po’ di geometria ritualistica o abbia fatto qualche lettura su rudimenti di taumaturgia conosce quel nome e ha imparato a imprecarci contro. Il teorema di Huísheng è una delle cose più intricate che abbia mai incontrato e ogni studente di magia ci sbatte il muso contro almeno una dozzina di volte. «E sarebbe un drago?»
    Josephine annuì. «Vive in un piccolo eremo in Mongolia e possiede una biblioteca di almeno cinquantamila libri, fra cui dei pezzi antichissimi.»
    «Lui è un fottuto arcimago con le palle d’acciaio, no?» commentai.
    Sorrise. «Non è una persona che mi farei nemica. È l’eccezione che conferma la regola.»
    Nessuno vorrebbe inimicarsi il genio magico che ha dimostrato il Teorema di Huísheng. Feci per replicare con qualche fantastica battuta, quando degli spari infransero le porte a vetri del locale. La gente cominciò a strillare e un paio di uomini con dei passamontagna entrarono. Erano tutti armati con pistole.
    Riccioli d’Oro e io, abituati a trovarci in certe situazioni, ci buttammo subito a terra ed estraemmo le armi contemporaneamente, come un’affiatata squadra di nuoto sincronizzato.  Avevamo preso un tavolo sul muro, accanto a una di quelle porte “Accesso riservato al personale” molte comode per svignarsela in caso di guai. Uno degli uomini gridava qualcosa in tedesco. Non sapevo cosa stesse dicendo, però ero certo che non fosse una barzelletta. Guardai interrogativamente Josephine che mi sussurrò: «Sta dicendo di stare calmi e che nessuno si farà male. Stanno cercando dei vecchi amici.»
    Chissà perché avevo il sospetto che si riferisse a noi. «Sei pronta a correre ?»
    «Sono nata pronta.»    
    «Allora infiliamoci nella porta di servizio e vediamo di levarci dal loro raggio di tiro, dopo cercheremo di capire chi diavolo sono. Prima scappare, poi ragionare.»
    Mi spostai lentamente verso la porta, ma sicuramente non avremmo fatto in tempo ad evitare il contatto con i cattivoni. Se cercavano noi - e chi altrimenti? Di certo non cercavano il ragazzino ciccione o la coppietta di sedicenni nei tavoli accanto al nostro - al primo movimento ci avrebbero  identificato. Tanto valeva attaccare per primi.
    Mi alzai e puntai la pistola verso gli uomini. Reggevo il bastone con la mano destra, per cui sparai tenendo la pistola con una mano sola. Nono sono mai stato un eccellente tiratore, figuriamoci impugnando male l’arma. I proiettili sibilarono intorno ai bersagli, che si buttarono a terra.
    «Vai!» urlai a Josephine, la quale scattò verso la porta di servizio. Continuai a sparare, affinché gli uomini tenessero la testa basta. Non appena aprì la porta, fu lei a far fuoco per coprirmi. Una volta che anche io entrai, chiuse la porta e scappammo  per i corridoi. Non avevo bene idea di dove stessimo andando, ma l’importante era mettere più angoli possibili fra noi e gli inseguitori.
    «Sai chi diavolo sono?» gridai.
    «Non ne ho idea!»
    «C’è un infiltrato nel clan di Greta.»
    Arrivammo a una porta tagliafuoco. Josephine si fece avanti per aprirla, ma la trattenni per un braccio. Misi l’indice sulle labbra e la tirai indietro. Drizzai le orecchie ma non sentii nessun rumore oltre la porta. Comunque non avevamo tempo per certe sottigliezze. «Io esco per primo» dissi sottovoce «tu pensa a disarmare il cattivone che mi sparerà addosso. Lo voglio vivo.»
    Fece cenno di aver capito e aggiunse: «Come fai a sapere che c’è qualcuno fuori?»
    «Vuoi scommettere?»
    Non attesi risposta e spinsi il maniglione antipanico, evocando contemporaneamente uno scudo magico.
    La rosa di pallini avrebbe dovuto centrarmi in pieno petto, invece si fermò a pochi centimetri da me e l’energia cinetica si trasferì verso di me, facendomi barcollare un attimo. Alle mie spalle sentii Josephine esclamare qualcosa di molto simile a “Expelliamus”. Il cattivone - un uomo vestito in pelle e con un passamontagna, come i suoi amici che ci stavano inseguendo - era sdraiato a terra, il fucile qualche metro più indietro. Non persi tempo, mi avvicinai a lui e lo colpii in faccia con la punta del bastone.
    L’uomo sputò sangue e mi urlò qualcosa in tedesco, magari quanto fosse sexy la mia chioma scompigliata. Non feci complimenti e lo colpii una seconda volta, poi gli misi il piede sulla gola. Mi rivolsi a Josephine e dissi: «Chiedigli chi lo manda.» Aumentai la pressione del piede; non avevamo tempo da perdere, i suoi compagni sarebbero arrivati fra poco.
    Riccioli d’Oro cominciò a parlare in tedesco e l’uomo scuoteva la testa e rideva, facendo lo sbruffone. Purtroppo, però, non era in una posizione per farlo né io avevo il tempo per certe cazzate. Lo colpii ancora una volta col bastone  e poi evocai una palla di fuoco, facendomela girare intorno alla mano.
    L’uomo continuò a ridere sguaiatamente, ignorando le domande insistenti di Josephine. Al diavolo! Lanciai il dardo infuocato sul petto dell’uomo e poi corsi verso la porta. Mormorai un incantesimo veloce per bloccarla e come ulteriore sicurezza ci misi davanti un bidone della spazzatura. L’uomo si rotolava a terra urlando, e Josephine mi guardava stranamente, forse disturbata dalla mia azione.
    «Non hai mai visto un uomo bruciare?» domandai ironico. «Forza, datti una mossa e andiamo via.»
    «Non ti sembra di aver esagerato?» mi disse, mentre correvamo per i vicoli. «C’era bisogno di ucciderlo?»
    «Non credo sia morto e comunque volevi che c’inseguisse e indirizzasse i suoi amichetti?»
    Dopo un paio di minuti di svolte a caso ci ritrovammo in un parcheggio davanti a un supermercato. Mi frugai nelle tasche e trovai il pacchetto di fazzoletti di carta che mi porto sempre appresso per ogni evenienza. Ne offrii uno alla donna che fece cenno di no con la mano.
    «Prendine uno e soffiati il naso, oppure sputaci, come preferisci. Mi serve qualcosa di te e quelli sono i liquidi più veloci da… produrre.»
    La donna mi guardò con un’espressione abbastanza disgustata, ma prese il fazzoletto. Io feci lo stesso e mi soffiai il naso, poi appallottolai il fazzoletto e mi chinai.
    «Hai qualcosa per scrivere sull’asfalto? Un gessetto o qualcosa di simile.» Allungai la mano e mi feci dare il suo fazzoletto.
    Josephine si frugò nelle tasche e tolse fuori un rossetto. «Questo può andare.»
    Alzai la mano e me lo lanciò. Intanto avevo posato i due fazzoletti, contenenti parte di noi, a una certa distanza uno dall’altro. Aprii il rossetto e tracciai due tremolanti circonferenze intorno a essi. Scrissi altri simboletti tutto intorno e poi posai la mano sulle linee di un rosso intenso, rilasciando abbastanza energia magica per attivare l’incantesimo. Mi alzai in piedi, soddisfatto per il risultato, e allungai il rossetto verso Riccioli d’Oro.
    «No, grazie.» disse, rifiutandolo. «Dubito che ora possa servirmi a qualcosa.»
    Scossi le spalle e m’incamminai, allontanandomi dal luogo dell’incantesimo.  Josephine mi seguì a ruota.
    «Hai fatto quello che penso tu abbia fatto?» mi chiese.
    «Se pensi che abbia costruito un’esca per un rituale di ricerca indirizzato a noi, sì.»
    I rituali di ricerca erano i più semplici incantesimi per trovare una persona. Non abbastanza semplici, però, da poter essere utilizzati da un singolo mago, i rituali, infatti, richiedono una preparazione spaziale con diagrammi e vettori e richiedono diverse persone per tenerli attivi. I fattori limitanti sono la necessità di possedere una qualche parte della persona da trovare - capelli, unghie, liquidi o altro - e la grandezza dell’area di ricerca. Se non ricordo male, vi è una relazione quadratica fra l’area in chilometri quadrati e il numero di maghi di primo livello richiesti per il rituale.
    Io avevo semplicemente costruito due spaventapasseri per depistare gli inseguitori. Si era trattato di utilizzare delle parti di noi e amplificare il loro “segnale” tramite i cerchi e i simboli che avevo disegnato col rossetto, in tal modo il rituale avrebbe indirizzato gli inseguitori verso i fazzoletti, dandoci il tempo di seminarli completamente. Qualche anno fa ero sulle tracce di un mago della Yakuza, per via di una questione di debiti di gioco. Il bastardo mi aveva fatto sudare sette camicie solo per riuscire ad individuarlo e ci misi un paio di giorni per raggiungerlo. Finalmente ero certo di averlo rintracciato in un love hotel a Shibuya. Entrai di corsa nella sua stanza deciso a provocare un finimondo, ma rimasi deluso. Ci trovai soltanto una ragazzina vestita, anzi svestita, da Sailor Moon e un preservativo usato circondato da simboli magici.
    «Capito.» replicò. «Nei sei certo? Che ci stiano cercando con un rituale, intendo.»
    «No, ma è sempre meglio pensare alla peggiore delle ipotesi.»
    «Prima dicevi che c’era un infiltrato nel clan Schwarz.» Era il nome del clan di vampiri di Greta Zimmermann.
    «Non credi? Dei misteriosi uomini mascherati ci attaccano un’ora dopo aver parlato con due vassalli di Glavcoso, i quali stanno progettando una ribellione.»
    «E quindi decidono di farci fuori per far vedere loro che non si fa.»
    «Esatto. Ora però abbiamo bisogno di un rifugio sicuro, un luogo protetto dai rituali.»
    Annuì e prese il cellulare. Premette un tasto e mi disse: «Come puoi sapere che l’infiltrato sia nel clan di Greta e non sia qualcuno del branco del tuo amico mannaro?»
    Feci spallucce. «Onestamente non me ne può fregar di meno di chi sia la talpa. Sono affari vostri. Non appena avrò finito il lavoro e libererete Chiara me ne andrò da qua e non sarà più un mio problema.»
    Josephine si mise a parlare al telefono. Dopo un minuto chiuse la comunicazione e mi disse: «Un’amica sta venendo a prenderci.»
    «Bene.» Sorrisi. «C’è qualche possibilità per un ménage à trois?»
    «Dubito.»
    Tornai serio. «Possiamo fidarci?»
    «È il braccio destro e guardia del corpo di Greta. Se c’è un traditore, lei è interessata quanto noi a identificarlo ed eliminarlo. È una persona fidata.»
    «È sempre così. Poi si scopre che l’uomo più fidato del mondo aveva bisogno di soldi.» risposi. Solitamente, i motivi di un tradimento sono tre: soldi, la persona è avida e vuole mettere da parte un gruzzoletto per la pensione; l’ideologia, il fanatismo è il più grande motore del mondo, dopo i soldi, ovviamente; infine c’è la costrizione. Una persona può venire ricattata in cambio d’informazioni.
    «Guadagna in un mese quanto un PMC di una compagnia privata può guadagnare in un anno. Non ha problemi di soldi.»
    «Può essere stata compromessa? Che so, ha uno stile di vita discutibile o qualche vizio su cui si potrebbe fare leva?»
    Josephine scosse la testa. «È un soldato, figlia di soldati e nipote di soldati. Sua padre era uno spetsnaz e la nonna era un cecchino che ha combattuto a Stalingrado. Il suo unico vizio è l’attività fisica.»
    «È russa» dissi «come il drago.» Ecco il motivo ideologico.
    «E quindi?» replicò irritata. «Che diavolo c’entra? E poi il drago non è russo, ma ha razziato la Russia, è una cosa ben diversa. E come puoi pensare che una donna possa aiutare un drago che rapisce ragazze?»
    Non aveva tutti i torti, era abbastanza improbabile.
    Alzai le braccia e dissi: «Mi fido.»
    Alla fine m’importava relativamente. Se la missione fosse andata a donnine di facili costumi, me la sarei svignata veloce come il vento.  Da morto difficilmente avrei potuto aiutare Chiara.

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Capitolo 3
*** 3. ***


Stavamo aspettando l’amica di Riccioli d’Oro alla pensilina di una fermata dell’autobus quando una berlina grigia si fermò accanto a noi. Aveva i vetri oscurati e mi dava l’idea di costare molto più di quanto mi sarei potuto permettere. Josephine si alzò in piedi e il finestrino del guidatore si abbassò.
    «Li avete seminati?» disse una voce femminile proveniente dall’interno dell’auto.
    «A quanto pare sì.» rispose la donna. Aprì la portiera posteriore ed entrò nel veicolo.
    Mi alzai e la seguii, andando però a sedermi accanto al guidatore. «Salve.» salutai, mentre mi accomodavo e mettevo la cintura. «Grazie per il passaggio, tesoro.»
    In risposta mi giunse un mugugno di assenso e poi l’auto ripartì, silenziosa come una cornamusa in una fuga di Bach. Mi voltai e riconobbi il guidatore: era Zuccherino. Indossava un paio di pantaloni da ginnastica rosa e un piccolo top sportivo nero che le lasciava scoperto l’addome; i capelli castani erano raccolti disordinatamente sopra la nuca, tenuti così da una penna, e portava degli occhiali da vista dalla montatura rossa. Era decisamente un belvedere.
    «Grazie, Yelena.» disse Josephine, sporgendosi dallo spazio fra i sedili anteriori. Si girò verso di me e aggiunse: «Casa sua è sicura e stanotte dormiremo da lei.»
    «Ottimo.» borbottai poco convinto. Sei mesi prima, quando il mio rifugio più sicuro era stato invaso da un gruppo di vampiri aiutati da chissà chi e da un Lord della corte fatata sarda, avevo perso fiducia nei luoghi protetti. «Comunque siamo compromessi. Il drago sa chi siamo.»
    «Non è detto che fossero uomini del drago.»
    «No?» replicai esasperato. «Il tizio che abbiamo provato a interrogare ha preferito farsi bruciare piuttosto che rispondere alle domande. Abbastanza fanatico per essere un membro del culto che adora Glavcoso, no?»
    «Glavcoso?» ripeté Yelena.
    «Tendo a non memorizzare i nomi di creature con cui non voglio avere nulla a che fare.» risposi; con la coda dell’occhio la vidi sorridere.
    «Comunque sia» disse Josephine, interrompendo la mia lamentela «compromessi o no, non sei in posizione per abbandonare il lavoro.»
    «Ovviamente.» risposi. «Domani mattina andremo al villaggio. Tanto vale mettere subito le carte in tavola.»
    «Vuoi affrontare di petto Glavnyognya?» esclamò Yelena. «Sarebbe una follia! Nemmeno il leprecauno ha voluto farlo.»
    «Secondo me non gli avete offerto abbastanza.»
    Yelena sbuffò. «Ha detto che non c’erano abbastanza pentole d’oro in tutta l’Irlanda per convincerlo ad attaccar briga con un drago.»
    Ridacchiai. «Comunque non sono così idiota da volerlo affrontare faccia a faccia. Intendo dire che la cosa migliore da fare è andare là, cercare di finire il lavoro il più in fretta possibile e poi scappare, prima che si rendano conto che siamo là.»
    «Come facciamo per i rituali di ricerca?» domandò Josephine. «Non possiamo spargere fluidi corporei in giro per tutta la Foresta Nera.»
    Yelena tossì come se qualcosa le fosse andato di traverso. «Cosa?» esclamò.
    «Nulla di che.» replicai. «È un metodo veloce per disturbare i maghi che cercano di rintracciarci.»
    La donna scosse la testa, poi scalò la marcia e svoltò, entrando in un vialetto. Spense la macchina e disse: «Siamo arrivati.»
    Scesi dall’auto e mi trovai di fronte a una di quelle case di stile moderno, con angoli strani, tante vetrate e nulla che potesse assomigliare a una rustica casetta germanica. Zuccherino ci fece strada fino all’ingresso. Mentre mi camminava davanti cercai di non guardarle il fondoschiena, ma si rivelò un’impresa impossibile: era un piccolo capolavoro. L’interno mi diede la stessa impressione dell’esterno: mobili dallo stile strampalato, superfici metalliche lucide come uno specchio,  ambienti assimetrici e luci a fluorescenza che sembravano rubate da un ospedale. Nel soggiorno c’era un tapis roulant, su cui era appoggiato un asciugamano e una bottiglia d’integratori mezzo vuota. Di fronte a esso una TV, un cinquanta pollici al plasma, era accesa con l’immagine bloccata su un’esplosione.
    «Avete interrotto la mia sessione serale di ginnastica.» commentò la donna, mentre andava verso quella che doveva essere la cucina: un insieme di piani d’alluminio che facevano sembrare dell’età della pietra quella di Josephine. Tirò fuori una bottiglia di vino e tre bicchieri. Josephine si fece riempire il bicchiere, mentre io rifiutai cortesemente e chiesi invece un bicchiere d’acqua.
    «Astemio?» chiese Yelena.
    Scossi la testa. «Non bevo mai quando lavoro.»
    «Capisco.» replicò, dopo aver bevuto un sorso.
    «Hai qualche idea su come possiamo capire cosa dobbiamo trafugare?» chiese Josephine.
    Mi concentrai sul mio gustoso bicchiere d’acqua. Mille idee mi ronzavano per la testa, ma nessuna sembrava essere attuabile. Trovare un oggetto che non si conosceva. Era una sfida che mi coinvolgeva. Come potevo usare le mie abilità nel campo della magia per risolvere l’enigma? Non avevo a disposizione nessun indizio per ridurre il campo di ricerca, se non che Glavcoso avesse vissuto in Russia per diverso tempo. Pensare che l’oggetto misterioso fosse una matrioska o un uovo Fabergé era abbastanza ridicolo e al massimo sarebbe successo in un romanzo di bassa lega. Non mi veniva in mente nessun incantesimo che potesse tornarmi utile. Mi serviva un aiuto.
    «Mic!» dissi a voce alta, guadagnandomi delle occhiate in tralice da parte delle donne.
    Un fuoco fatuo apparve nella stanza, danzando a mezz’aria come… come un fuoco fatuo. Schizzò via all’improvviso e cominciò a ronzare per tutta la stanza, fermandosi ogni tanto, in particolare per girare intorno alle due donne. Infine mi passò rasente alla testa, scompigliandomi i capelli, e si fermò davanti a me.
    «Non ci credo.» disse. «Neil in compagnia di due donne.» Si girò verso di loro. «Quanto vi ha pagato?»
    «Piano con le sciocchezze, Mic.» rimbrottai, un po’ scocciato dai loro sguardi fra il divertito e l’indignato. «Non mettermi in cattiva luce raccontando fandonie, ho bisogno di una consulenza.»
    «Cos’è? Una specie di fata?» domandò Yelena.
    «Ti pregherei di non paragonarmi a nulla di questa dimensione, donna.» replicò Mic con un tono che faceva trasparire tutta la sua indignazione per quell’ipotesi.
    «È uno Spirito della Conoscenza.» mormorò Josephine, stupita. «Come fai a possederne uno?»
    Alzai le spalle. «Primo, non lo possiedo. Secondo, mi ha scelto lui.»
    «Siamo un po’ come i gatti.» aggiunse il fuoco fatuo.
    Mic è il mio Spirito Personale. È un po’ il mio mentore per quanto riguarda l’arte magica, anche se io a volte lo definisco scherzosamente come un parassita che approfitta di me per intrufolarsi nella nostra realtà.  Secondo la nomenclatura umana è un 5k, ossia proviene da dimensioni a intersezione nulla con la nostra, solitamente chiamate Sfere Esterne. Mi adottò, se così possiamo dire, quando da bambino quasi distrussi il laboratorio in cui ero a lezione. Il mio talento l’aveva incuriosito e aveva deciso di tenermi d’occhio.
    Gli spiegai in quale campo minato ero finito. Continuò a svolazzare in lungo e in largo e gli domandai se esistesse qualche tipologia d’incantesimi che potesse aiutarmi.
    «Neil, Neil, Neil.» rimbrottò con un tono da insegnante sconsolato. «Ti stai impigrendo? Che bisogno c’è di usare la magia quando basta un po’ di logica?»
    Gli lanciai un’occhiata fulminante. «Fai meno il saputello. Non c’è nulla su cui applicare un po’ di logica.»
    «Suvvia, non diciamo sciocchezze. Qual è l’obiettivo? Un drago. Cosa sai dei draghi?»
    «Volano, sputano fuoco e collezionano figurine dei calciatori.»
    «Inoltre sono delle creature antiche.» continuò Mic. Non aveva un gran senso dell’umorismo. «Quanti ne possono esistere, secondo te? Due, tre?»
    «Quattro.» intervenne Josephine. «Attualmente è nota l’esistenza di quattro draghi. Più due uccisi dai Cavalieri della Tavola Rotonda.»
    Fischiai. «Un cavaliere ha ucciso un drago?»
    «San Giorgio.»
    «Pensavo fosse una favoletta per convertire la gente.»
    Josephine scosse la testa. «I Cavalieri hanno una loro agenda che nulla ha a che vedere con le religioni.»
    «Ora però non c’interessa la loro agenda» la interruppe Mic «stiamo parlando di draghi. Qual è la cosa più importante per un essere  che vive migliaia e migliaia di anni? Oro, gemme, patate?»
    «Un erede?» mormorai.
    «Esatto!» esclamò lo spirito. «Se costruisci un impero difficilmente vuoi che si sfaldi con la tua morte o che a ereditarlo sia una creatura che reputi inferiore.»
    Yelena ci osservava con interesse, ma senza commentare. Girava il suo bicchiere, creando un piccolo vortice nel vino.
    «Come si riproducono?» domandai. «Ci sono draghi maschi e draghi femmina e fanno un po’ di ginnastica da materasso?»
    «Producono una specie di uovo che contiene il loro… figlio.» rispose Riccioli d’Oro, sorridendo. «Niente ginnastica da letto e niente distinzione fra sessi.»
    «Ma un sistema del genere non è problematico?»
    «Non credo sia il momento adatto per parlare di generica draconica.» disse Yelena. «E poi questa discussione mi pare un po’ campata per aria. Che ne sapete se Glavnyognya abbia fatto l’uovo?»
    «Non lo sappiamo» dissi «ma almeno è un punto di partenza. Poi magari il misterioso artefatto magico è un pugnale o un anello e rimarremmo con le pive nel sacco.» Mi rivolsi a Josephine. «Com’è fatto un uovo di drago?»
    «Praticamente è una pietra.»
    «Ottimo.» borbottai. «Figurarsi se potesse essere facilmente riconoscibile. La mia solita fortuna. Non poteva essere come un normale uovo, ma enorme?»
    «È riconoscibile perché irradia parecchia energia magica.» disse Mic. «Basta un semplice incantesimo di ricerca per individuarlo o semplicemente toccarlo, se sei abbastanza vicino.»
    «Che però dovremo eseguire là, a casa sua, dove siamo ben conosciuti. Non potrei mai avere a disposizione abbastanza tempo per approntare un rituale, assumendo che non ci siano delle reti di controllo magiche.» replicai. Mic non rispose e mi rivolsi a Zuccherino. «Tu hai fatto la ricognizione del villaggio, vero?»
    La donna annuì.
    «Hai notato qualcosa di particolare? Non so,  edifici difesi, comportamenti strani, raduni sospetti?»
    Yelena posò il bicchiere e si sedette su uno degli sgabelli che si trovavano su quel lato della cucina. «Sembra un normale villaggio di campagna, come ce ne sono in ogni dove. Hai presente quei piccoli paesi dove tutti si conoscono, dove se qualcuno fa qualcosa tutti gli altri lo sanno dieci minuti dopo?»
    «Ho presente. Ideale per nascondere il culto di un drago. È un paese molto isolato?»
    Si alzò e mi fece cenno di seguirla. Ci portò in una stanzetta che doveva essere il punto informatico della casa. Una piccola scrivania, su cui vi era un computer, dominava la sala. Yelena si sedette sulla sedia girevole là di fronte e mosse il mouse. Il monitor del computer si accese, rivelando un desktop privo di icone e con un blando sfondo blu.
    «Vi mostro il luogo.» disse, mentre apriva Google Maps. «Ho tenuto d’occhio il posto per una settimana.»
    Zoomò su una zona a nord-est di Friburgo, in piena Foresta Nera. Era un piccolo paesello pigramente adagiato su una collina, circondato da alberi e alberi. Ci si arrivava da una strada sterrata e  la maggior parte degli edifici erano adagiati sulla strada principale, da cui si dipanavano poche vie che arrancavano sul fianco della collina. Dalle immagini satellitari tutti gli edifici sembravano dei piccoli quadrilateri colorati.
    «Il mio OP era qua.» aggiunse Yelena, indicando un punto su un’altra collina, a circa mezzo chilometro dal paese.
    OP sta per Observation Post, punto d’osservazione; nel mio mestiere vanno di moda le abbreviazioni e gli acronimi. Tenere d’occhio qualcosa è uno sporco lavoro. E con sporco intendo stare ore e ore sdraiati nel fango, fare pipì in una bottiglia e raccogliere in sacchetti di plastica gli altri… rifiuti. Scordatevi i film dove il protagonista sta comodo in auto, mentre mangia una ciambella e sorseggia una coca. In una situazione in cui l’OP non deve essere noto al nemico, si tratta di mimetizzarsi con l’ambiente circostante. Probabilmente Yelena aveva trovato una posizione dove il sottobosco era molto denso, aveva scavato una buca e l’aveva coperta in maniera da renderla invisibile. Una volta dentro, l’unico contatto con l’esterno era una “finestrella” da cui poteva vedere il bersaglio e puntare la macchina fotografica. O un fucile. Oppure un puntatore laser per le bombe “intelligenti”. Dipende dal tipo di missione.
    «La cosa interessante è che non ci sia nessun edificio molto grande.» dissi, mentre scrutavo con attenzione le immagini satellitari del paesello. Purtroppo non c’era la possibilità di usare Street View. «Nulla che possa fungere da harem.»
    «L’ho pensato anche io.» replicò Yelena.
    «Sicuramente c’è chissà cosa scavato dentro la collina.» intervenne Josephine.
    «Infatti.» risposi, in coro con Yelena. «La sera gran parte della gente si riuniva nell’unica taverna.» continuò lei. «Altre due cose che mi hanno colpito sono la chiesa, anche quella frequentata parecchio, e la totale assenza di bambini e anziani. Infine c’è giusto un negozio di alimentari, che si fornisce settimanalmente in città e un tabaccaio. Null’altro.»
    «Chiaramente la taverna e la chiesa sono punti di accesso ai sotterranei.»
    «E la mancanza di bambini e anziani indica che gli abitanti non sono altro che l’esercito personale di Glavnyognya.» aggiunse Riccioli d’Oro.
    «Non si preoccupa certo di tenere un basso profilo.» commentai. L’attacco diretto che avevo ipotizzato prima era inattuabile. Non potevamo certo passare inosservati in quella che sembrava più una caserma che un villaggio. Assunto che già non conoscessero i nostri brutti musi, due facce nuove sarebbero saltate all’occhio come un pinguino che giocava a freccette. «Al contrario» continuai «noi dovremo tenere un basso profilo. Abbastanza basso da vincere i mondiali di limbo.»  Mi rivolsi a Yelena. «Hai fatto sparire l’OP?»
    «Ovviamente. Mi hai preso per un pivellino?»
    «Allora domani partiremo per una bella gita nel bosco.» dissi. «Jo, avremo bisogno di un po’ di equipaggiamento.»
    «Jo?»  ripeté, guardandomi in tralice.
    «E poi mi servono un telefono e un po’ di contanti.»
    «Ok.»
    «E ora devo dormire, domani sarà una giornata molto lunga.»
    Yelena spense il monitor e si alzò. «Josephine, tu puoi dormire nella stanza degli ospiti.» Mi lanciò uno sguardo e aggiunse: «Tu invece puoi sistemarti sul divano. Ti porto una coperta.»
    Il divano andava benissimo, avevo dormito in posti ben peggiori.

    Yelena ci aveva procurato un’auto sicura, una vecchia Golf grigia. Appena alzato, avevo svuotato una tazza di caffè nero e poi ero uscito con Riccioli d’Oro per fare compere in un centro commerciale in periferia.
    Entrammo in un bar a prenderci una brioche e poi ci separammo. Josephine andò a comprare quello che serviva, mentre io decisi di cercare un Internet café.
     Per la nostra gita nel bosco ci servivano dei sacchi a pelo, zaini, vestiti e scarpe adatti, vettovaglie, torce elettriche e un immancabile coltello multiuso, il classico Leatherman. In una missione d’infiltrazione come quella, era indispensabile per tantissime cose per cui non valeva la pena - o non era possibile - usare la magia.
    Io ero a caccia di un po’ di notizie. Le guerre si vincono con l’informazione: puoi avere tutta la potenza di fuoco che vuoi, ma se non sai verso cosa indirizzarla e come usarla combini poco e nulla. Cosa sapevo dell’obiettivo? Solo quello che mi aveva detto Josephine e non mi fidavo completamente di lei. Lavorava comunque per la donna che mi stava ricattando. Avevo bisogno d’informazioni non filtrate e quale posto migliore per cercarle se non Internet?
     Il tizio del café mi elencò i prezzi e poi m’indicò una delle postazioni. Quella accanto era occupata da un ragazzo impegnato in un gioco di ruolo. Mi sedetti e lo guardai giocare, mentre riflettevo su come trovare quello che m’interessava. L’omino che guidava stava distruggendo orchi e goblin come se fossero mosche. Magari fosse così facile.
    Distolsi lo sguardo e mi concentrai sul lavoro. Andai su Google e cercai “glavnyognya”. Il motore di ricerca tolse fuori un discreto numero di risultati, anche se i primi link portavano a siti di leggende popolari e folklore russo. Le traduzioni automatiche non era il top della qualità e dovetti sfogliare diverse pagine prima di recuperare dei siti in una lingua che conoscevo. Vi trovai gran parte delle informazioni che già mi aveva passato Riccioli d’Oro, ma nulla che avrei potuto usare concretamente. Ci vollero un altro paio di ricerche complesse per trovare qualcosa di utile. Era un vecchio articolo specialistico di filologia. Analizzava un vecchio testo medievale che raccontava le avventure  di un cavaliere. Saltai i paragrafi tecnici, di cui comunque non avrei capito nulla, e mi dedicai alla parte in cui veniva raccontata la storia.
    Il cavaliere aveva sconfitto un drago, chiamato appunto Glavnyognya, per salvare una principessa. Classica trama di una fiaba, ma in quel caso combaciava con il modus operandi del drago. Evidentemente il lucertolone aveva rapito la donna sbagliata. Il cavaliere l’aveva affrontato in duello e praticamente l’aveva sconfitto usando quella che sembrava l’antesignana di una bomba molotov. Il racconto ovviamente non scendeva in particolari tecnici che mi sarebbero stati utili, spiegava come il cavaliere gli aveva lanciato contro una bottiglia e il drago aveva preso fuoco ed era fuggito. Un drago sputa fuoco sconfitto grazie al fuoco, ironico. Mi sarebbe piaciuto leggere il testo originale, ma il mio latino classico era abbastanza pessimo, figuriamoci quanto avrei potuto capire da un testo medievale.
    Durante la ricerca mi accorsi di quanto i draghi erano poco considerati dalla comunità magica. Mentre creature magiche come i vampiri o i licantropi avevano il loro codazzo di fanboy e fangirl, i draghi - che a mio parere erano decisamente più interessanti - erano praticamente sconosciuti e trattati alla stregua di creature di fantasia. I casi erano due: o erano molto bravi a non farsi trovare oppure svelti nell’eliminare chi li incontrava.  Probabilmente erano veri entrambi.
    Il resto di ciò che trovai era inutile e sforava nelle leggende metropolitane. Non che mi aspettassi di trovare un disegnino in cui erano segnati i punti deboli di un drago, ma speravo in qualcosa di più concreto da poter sfruttare. Mancava ancora un po’ all’appuntamento con Riccioli d’Oro, per cui decisi di fare un altro paio di ricerche. Mi alzai e andai alla macchinetta degli snack per prendere qualcosa da sgranocchiare mentre continuavo a giocare con Google. Il mio compagno di banco era ancora impegnato a sterminare nemici su nemici.
    Inserii il nome del paese nel quadro di ricerca. Oltre agli onnipresenti link per Google Maps e Wikipedia - la voce non ha una sua pagina, se vuoi crearla premi qui - l’unico risultato sensato era un post su un forum che trattava di viaggi. Klingon67 diceva che il paese era fuori mano, inospitale e l’unico motivo per fermarcisi era un guasto all’auto. Anche questo coincideva con quanto già dettomi da Yelena. Aggiunsi “+glavnyognya” , ma Google mi disse che la ricerca non aveva prodotto risultati. Mangiai una patatina e tornai al link di Google Maps: volevo memorizzare al meglio la zona, in modo da potermici muovere senza troppa difficoltà. Non era come una ricognizione vera e propria, ma visti i tempi stretti era il meglio a cui potevo attingere.
    Decisi di spostare il mio interesse verso un secondo argomento. La sera precedente avevo visto l’e-mail di Yelena sulla sua pagina Google e l’avevo memorizzata: y.dmitriyeva90714@gmail.com. Scrissi “yelena dmitriyeva” sperando di trovare qualche notizia su di lei, ma i risultati erano intasatati dalle notizie su una giocatrice di pallamano con lo stesso nome.  Aggiunsi “-handball” alla ricerca e mi ritrovai solo con un paio di omonimie. Con un po’ di pazienza eliminai le Yelena che non m’interessavano e rimasi con una manciata di pagine. Ce n’era una sulla maratona di Berlino - l’aveva completata con un tempo notevole - e alcuni risultati di competizioni di tiro amatoriali. Nessun account Facebook, ovviamente. Sfogliai la ricerca immagini, ma c’era solo una foto di gruppo con altri tiratori. Nulla che potesse servirmi.
    Era il turno di Riccioli d’Oro. Visto che non sapevo il suo cognome le cose si facevano più complicate. Diavolo, non sapevo nemmeno se quello fosse il suo vero nome. Provai con “josephine+walpurgisnacht” e scoprii che c’era un film intitolato “La calda notte di Valpurga di Josephine e le sue amiche streghe”. Non si sfugge alla Regola 34 d’Internet.
    Filtrai i risultati vietati ai minori, ma non trovai nulla d’interessante. Allora cambiai strada e cercai “raduni Fratellanza della Notte di Valpurga”. Ignorai le pagine e mi dedicai alle immagini. Il giocatore di ruolo imprecò a mezza voce e mi voltai a guardarlo, incuriosito.  A quanto sembrava, un grosso orco a due teste aveva ucciso il suo mago e ora il ragazzo veniva deriso nella chat. Almeno lui poteva resuscitare e combattere di nuovo, un lusso che noi poveri maghi reali non abbiamo.
    Ripresi a sfogliare le immagini nella vana speranza di vedere Josephine in qualcuna di esse. La Notte di Valpurga era diventata molto simile ad Halloween, da un certo punto di vista. Come per la vigilia di Ognissanti, anche quella notte si era trasformata in un’occasione di divertimento per giovani e festaioli, perciò non mi stupii nel vedere che gran parte delle immagini erano foto di gruppi di ragazzi. Provai a scremare un po’ variando i termini ricerca, ma sembrava comunque un’impresa impossibile.
    Alla ventiseiesima pagina che sfogliavo trovai qualcosa d’interessante. Era una foto di quattro donne in posa davanti alla Porta di Brandeburgo. Una di loro era sicuramente Josephine, i suoi riccioli biondi erano inconfondibili. Non avevo idea di chi fossero le altre tre, però sembrava il raduno dei quattro continenti; erano un’africana, un’asiatica e una nativa americana. Cliccai sull’immagine e poi selezionai l’opzione per andare sul sito di origine. Era un forum di appassionati di magia, uno di posti  in cui non addetti ai lavori discutono con troppa serietà di argomenti di cui non sanno nulla. Il titolo del thread era “Incontri con maghi e stregoni”.  Il post che accompagnava la foto recitava, più o meno, così: “O mio dio, che fortuna! Ero in gita a Berlino con la scuola e guardate un po’ chi ho incontrato! I quattro fiori della Fratellanza della Notte di Valpurga”. Sotto la foto, a mo’ di didascalia, vi erano i nomi di alcuni fiori. Josephine coincideva con l’orchidea. Nel post successivo, un sapientone correggeva, dicendo di non paragonare quel gruppo di streghe con il ridicolo mucchio di pivelli che rispondeva al nome di Fratellanza della Notte di Valpurga.
    Non potevo che concordare col sapientone. La Fratellanza era un  gruppo di hippie che con la scusa di salvare il mondo si radunava per far festa. Stava alla magia quanto un cammello alla costruzione di un igloo. Scorsi il thread, alla ricerca di un nome da associare al quartetto. Non trovai nulla di chiaro, a parte che venivano chiamate Quattro Fiori e che il loro simbolo era molto simile a quello della Fratellanza, motivo per il quale avevo confuso la spilla che avevo visto nella stanza di Josephine. Se faceva parte di un altro gruppo, forse stava lavorando per il clan Schwarz solo momentaneamente. Probabilmente aveva una sua personale agenda ed era bene tenerlo a mente per evitare brutte sorprese.
    L’ultima ricerca fu abbastanza semplice. Greta Zimmermann compariva in una miriade di pagine: quotidiani locali, riviste, webzine e chi più ne ha più ne ha metta. Mrs. Dracula era un pilastro della buona società della città e aveva parecchi soldi. C’era persino il sito del suo clan, con una FAQ per “nuovi” vampiri. Ridacchiai. Non mi stupii che ci fosse un infiltrato. Se era così facile entrare in contatto col clan non doveva esserlo nemmeno entrarne a far parte. Se quello era il caso, era improbabile che Zuccherino fosse coinvolta. Date le nuove informazioni, Riccioli d’Oro poteva c’entrare qualcosa? Sicuramente avevo un po’ di cose da tenere a mente.
    Sfogliai le FAQ con curiosità. Erano molto interessanti, se credevi di essere un vampiro. Esserlo non è una certezza, soprattutto in principio.
    Non si diventa vampiri via morso, come succede in tanta fiction. Se così fosse, il mondo sarebbe invaso da vampiri, mannari e quante altre creature sovrannaturali con metodi di riproduzione esponenziali. Esistono due tipologie di vampiri: i vivi e i morti, come mi piace chiamarli. I vivi sono quelli che tutti conoscono come vampiri e, diciamolo onestamente, non sono chissà quale strano tipo di creatura sovrannaturale e  normalmente non sono nemmeno tanto pericolosi per chi ha un po’ di manualità magica. I vampiri morti, invece, sono tutt’altra cosa. Se quelli vivi fossero un petardo, i morti sarebbero l’eruzione del 1883 del Krakatoa. Sul serio, sono esseri da cui stare alla larga.
    Il termine tecnico per definirli è “nosferatu”, grazie al simpaticone cinefilo che per primo li studiò. La loro origine non è chiara, ma si ritiene abbastanza probabile che la loro forma derivi da una maledizione - o meglio auto-maledizione - che intrappola la coscienza nel corpo, dopo la sua morte fisica. Per farla breve, sono cadaveri ambulanti che si cibano di sangue e lo utilizzano per usare la magia. Se la persona di cui si cibano sopravvive all’incontro, succede spesso che rimanga marchiata con lo stesso potere. Apparentemente nulla cambia nella vita della persona - oltre al trauma dell’incontro e tutti i problemi che esso comporta - e pochi si rendono conto di essere diversi; ancora meno riconoscono il potere e imparano a utilizzarlo. Sono quelli che chiamiamo comunemente vampiri, una sbiadita copia dei nosferatu.
    Ovviamente i sopravvissuti sono molto pochi, per cui le nuove reclute sono merce preziosissima per un clan. L’idea di Greta di sfruttare Internet per allargare il raggio dei suoi contatti non era per niente male, ma difettava in sicurezza.
    Guardai l’orologio: mancavano venti minuti all’appuntamento con Josephine. Ci saremmo dovuti incontrare all’interno dello Starbucks al piano inferiore. Volevo muovermi prima per fare un po’ di contro-sorveglianza: volevo essere sicuro che nessuno ci stesse seguendo. Anche se l’attacco del giorno precedente era stato piuttosto rumoroso non era detto che non stessero usando anche metodi più sottili per tenerci d’occhio.
     Passeggiai davanti allo Starbucks e mi fermai a guardare la vetrina del negozio di scarpe là accanto. Se qualcuno mi stesse seguendo - e sapeva fare il suo lavoro - avrebbe proseguito avanti e un suo compagno avrebbe continuato a controllarmi da un’altra posizione. Diedi un’occhiata a un po’ di scarpe, ma in realtà stavo fissando i riflessi sul vetro delle persone che mi passavano dietro. Dopo qualche minuto di scarponi e mocassini, andai al bar che si trovava sul lato opposto della strada. Forse aprirne uno di fronte a uno Starbucks non era una buona scelta, ma chi ero io per giudicarlo? Non avevo mica una laurea in economia. Entrai e mi sedetti a un tavolo laterale con le spalle al muro, ma che mi desse ampia visuale sull’esterno e soprattutto sullo Starbucks. Un cameriere mi si avvicinò, col chiaro intento di non farmi occupare un tavolo senza consumare, e ordinai un’aranciata.
    Guardavo le persone che passavano là di fronte o che entravano nello Starbucks, studiandone i volti e cercando di memorizzarne le fattezze. Josephine arrivò precisa come un orologio e carica come un mulo. Teneva uno zaino da viaggio sulle spalle e diverse buste fra le mani. Si mise a fare la fila alla cassa dello Starbucks. Un uomo con una camicia azzurra si era fermato davanti allo stesso negozio di scarpe a cui mi ero fermato io e controllava la vetrina. Passò là qualche minuto e poi si mise in fila allo Starbucks.
    Riccioli d’Oro aveva preso il suo ordine e si era seduta un tavolo d’angolo dal quale poteva vedere l’esterno. Anche lei sapeva come comportarsi. Camicia Azzurra, invece, prese un caffè da portare via e uscì dal locale. Attesi altri cinque minuti poi mi alzai, lasciando una moneta da due euro sul tavolo.
    «Sei in ritardo.» mi disse Josephine, quando mi sedetti accanto a lei con una tazza di cappuccino in mano. «Hai visto qualche faccia sospetta?»
    Scossi la testa. «Nessuno in particolare. Hai notato un uomo in camicia azzurra mentre facevi acquisti?»
    «No, tutto tranquillo. Nessuno ci sta sorvegliando. Oppure sono più bravi di noi.» disse, sorseggiando il suo caffè. Posò una delle buste sul tavolo. «Ecco qua.»
    Aprii la busta e ne controllai il contenuto: un coltello multiuso, un visore notturno, un rotolo di nastro per imballaggi e un pacchetto di profilattici.  «Hai trovato tutto il resto?»
    Annuì. «Nessun problema. Come ci regoliamo per oggi?»
    «Partiamo dopo pranzo, così possiamo passare il pomeriggio a passeggiare per la Foresta Nera.» “Passeggiare per la Foresta Nera” era un eufemismo per “fare una ricognizione del paese di Glavcoso”. L’idea era quella di piazzarsi nella zona in cui Yelena aveva posizionato il suo OP e comportarsi come dei turisti che volevano passare qualche giorno nella Foresta Nera. In realtà, quella notte io avrei fatto un giretto intorno al paese e, se possibile, un veloce controllo nella chiesa per trovare un’entrata per i sotterranei, ammesso che esistessero.
    Consumate le bevande uscimmo verso il parcheggio e, dopo aver caricato gli acquisti nel bagagliaio, tornammo a casa di Yelena. La donna ci accolse aprendo la porta non appena la Golf si fermò sul vialetto d’ingresso. Indossava una giacca bianca sopra una camicetta rosa e pantaloni eleganti, che la faceva sembrare più una broker che un’addetta alla sicurezza. Scaricai l’auto e portai le buste e gli zaini nel soggiorno della casa. Lo stereo era acceso e diffondeva una noiosa canzoncina pop. Mi sedetti sul divano e cominciai ad armeggiare con lo zaino, preparandolo per la gita.
    Yelena si avvicinò e posò sul tavolino da caffè le cose che le avevo chiesto di procurarmi.
    «Che se ne fa un mago di quest’arsenale?» domandò.
    Raccolsi la mitraglietta e la controllai per verificare che fosse a posto. «Solitamente lavoro con altri che usano le armi meglio di me, ma mi so arrangiare anche da solo.»  Presi uno dei caricatori, lo inserii e caricai il colpo in canna. L’arma aveva la sicura e il selettore di fuoco era su manuale. «Preferisco avere un’assicurazione in caso la magia non faccia il suo dovere. Non ho nessuna informazione sulle capacità magiche dell’obiettivo, per cui suppongo che siano superiore alle mie.»
    «Capisco.  Quanti caricatori ti servono per l’MP5?»
    «Quattro basteranno.» Se me ne fossero serviti altri, avrebbe voluto dire che stavo precipitando nella merda a velocità terminale e un paio di caricatori in più non avrebbero fatto nessuna differenza.
    «Serve altro?»
    Feci cenno di no e scaricai l’arma. «L’ideale sarebbe fare tutto senza sparare nemmeno un colpo, ma non si sa mai.»
    «Come intendi procedere stanotte?» mi chiese Josephine, che si era seduta accanto a me e stava preparando il suo zaino.
    «Voglio vedere un po’ il territorio intorno al paese. Individuare punti di rendez-vous (RV), punti d’infiltrazione ed eventuali linee di fuga, in caso avessimo bisogno di svignarcela a gambe levate. Poi voglio verificare l’esistenza dei sotterranei e la presenza di guardie. Le solite cose.»
    «Non ho notato nessuna vera e propria guardia.» disse Yelena. «Sembra una paese normale, se escludiamo l’assenza di vecchi e bambini.»
    «La chiesa com’è? Vecchia? Nuova? È possibile che abbia una cripta?»
    La donna scosse la testa.  «Non saprei, mi è sembrata abbastanza antica, per cui è possibile che ne abbia una.»
    «Bene. La taverna, invece?»
    «Una struttura rustica, fatta in legno e pietra. Probabilmente il proprietario produce da sé la birra.»
    «Se tutto andrà per il meglio, faremo il lavoro senza nemmeno vedere il drago.» Cercavo di essere ottimista, ma in realtà tutto si basava su ipotesi supposizioni. E se non ci fosse stato nessun uovo? E se non ci fossero quei sotterranei di cui tanto parlavamo? Era come camminare su un lago ghiacciato, senza sapere il momento in cui avresti posato il piede sulla parte sottile.

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Capitolo 4
*** 4. ***


Gli alberi si alzavano maestosi in ogni direzione e le loro chiome creavano un tetto che filtrava la luce del sole che tramontava. Un coro di cinguettii e il frusciare di qualche animale fra le foglie e il sottobosco  mi disturbava non poco, mentre guardavo il paesino attraverso un paio di binocoli. Josephine era sdraiata a terra su una coperta a quadri e stava ascoltando un po’ di musica, poco interessata al mondo che la circondava. Sembravamo proprio una coppietta in gita nel bosco: io a fare bird watching, lei a rilassarsi.
    Ci eravamo posizionati a circa cinquecento metri in linea d’aria dal paese di Glavcoso. Lo studiavo da distanza di sicurezza, in preparazione del lavoro di stanotte. Il sole sarebbe tramontato fra poco e sarei partito a notte fonda, quando il villaggio sarebbe stato fra le braccia di Morfeo. Rimisi il binocolo nello zaino e cominciai a prepararmi per la nottata. Tolsi fuori il coltello multiuso e lo ficcai nella tasca della giacca a vento, insieme a un paio di profilattici e al rotolo di nastro, poi verificai che il visore notturno funzionasse. Infine estrassi dai pantaloni la SIG, verificai che non ci fosse un colpo in canna e che la sicura fosse inserita e la misi nello zaino, in compagnia delle altre armi. Non avevo bisogno di un’arma per la ricognizione e se avessi avuto necessità di difendermi - ossia non avrei avuto nessuna possibilità di filarmela a gambe levate - avrei usato la magia. Diedi un colpetto sulla spalla a Josephine per avvertirla e mi sdraiai, cercando di rilassarmi un po’ prima dell’azione.

    Mi svegliai qualche ora più tardi, quando Josephine ricambiò il favore, strattonandomi alla spalla. Mi alzai e mi stiracchiai. Il piccolo campo era illuminato da una torcia elettrica, ma oltre l’oscurità era fitta dato che la luce della luna veniva bloccata dal tetto di fogliame. Dal punto di osservazione si vedeva l’illuminazione del paese. Controllai che avessi tutto quello che mi serviva e accesi il visore notturno. Funzionava perfettamente.
    Avrei potuto usare un incantesimo su degli occhiali normali - avrei potuto usare parecchi incantesimi per facilitarmi il lavoro - ma non conoscendo il potenziale magico dell’obiettivo non volevo rischiare. Un mago capace poteva costruire una rete che permetteva d’individuare l’esecuzione di incantesimi. Una rete semplice poteva “squillare” come un allarme, ma reti più complesse potevano anche dare la posizione dell’intruso o la quantità di energia magica utilizzata. Appena arrivato nella zona avevo fatto un controllo sulla radiazione magica di fondo, ma i risultati erano così sballati e fuori dalla norma che non ero riuscito a trarne nessuna conclusione sensata. Tentare con un rituale di ricerca sarebbe stato tempo sprecato. Probabilmente quella situazione dipendeva dalla presenza del drago e ciò non m’incoraggiava. Avevo dunque deciso di fare una ricognizione acqua e sapone, sperando che mi ricordassi tutte le procedure.
    «Se non torno entro tre ore, smonta tutto e torna a Friburgo. RV a casa di Yelena domani alle quattordici. Se non ci sarò, vorrà dire che dovrete trovare un altro folle per derubare il drago.»
    Josephine annuì.
    M’incamminai verso il buio e controllai che il telefono fosse in modalità silenziosa. Erano anni che non facevo una ricognizione acqua e sapone e avevo paura di dimenticare qualcosa che m’incasinasse la  vita più tardi.
    Dopo una ventina di passi, quando fui certo di essere abbastanza lontano dal campo, mi fermai per fare pipì. Era meglio soddisfare certi bisogni prima di entrare in azione. Poi indossai il visore notturno e il mondo si colorò di verde. Dovevo percorrere circa settecento metri nel bosco, prima di raggiungere le case più esterne del paese, quindi mi ci voleva almeno un quarto d’ora, considerando che dovevo muovermi in una foresta in collina. Il sottobosco non era molto sviluppato e lo spostamento non fu troppo faticoso. Quando arrivai in vista delle prime case, spensi il visore. Più avanti ci sarebbe stata troppa luce per poterlo usare efficientemente e volevo che gli occhi si abituassero alla notte.
    Mi guardai intorno, alla ricerca di un albero che fosse riconoscibile. Ne trovai subito uno che sembrava essere stato spezzato a metà da un fulmine. Mi avvicinai e cominciai a spostare le foglie morte intorno alle sue radici e scavai una piccola buca nel terreno friabile. Spensi il telefono e tolsi i soldi dal portafoglio, infilandoli nella tasca posteriore dei jeans. Dopo di che presi un profilattico, lo aprii e misi dentro il tutto. Annodai la base, lo sistemai nella buca insieme al visore notturno e la ricoprii. Dovevo rendermi “sterile” per fare il lavoro in maniera tale che se fossi stato ucciso non sarei stato riconoscibile. Se fossi stato catturato, invece, la cose sarebbero state differenti. Se mi avessero torturato, presto o tardi avrei ceduto. Non credete ai fumetti, dove il grande eroe non urla per non dare soddisfazione al cattivone. Dopo alcune sessioni di waterboarding e di altri abusi più o meno umilianti, tutti cedono. Ognuno ha un limite di sopportazione, che sia un’ora, un giorno o una settimana.
    Non avevo lasciato i documenti a Josephine perché non mi fidavo di lei. In caso le cose si fossero messe male per me e fossi stato in qualche modo tradito dai miei datori di lavoro, sarei fuggito direttamente a Parigi, via Strasburgo, e da là avrei potuto raggiungere qualsiasi parte del mondo e sparire. Piano che difficilmente avrei potuto realizzare se Riccioli d’Oro fosse stata in possesso dei miei documenti. Avrei potuto anche utilizzare dei Portali, ma ci vuole tempo per prepararli e in questo caso preferivo una via di fuga molto veloce.
    Era tempo di concentrarsi sul lavoro. Avevo in mente di percorrere tutto il confine a valle del paese, alla ricerca del punto più tranquillo per avanzare verso il centro.  L’idea era di costeggiare gli edifici e cercare di memorizzarne fattezze particolari o interessanti, la cui conoscenza avrebbe potuto farmi comodo più avanti.  Gran parte erano piccoli villini con giardino e un muretto di cinta che li separava  dalla foresta. Quasi tutte le proprietà erano adiacenti e condividevano la recinzione, poche altre erano un po’ staccate e selva incolta occupava lo spazio fra i due muri. La disposizione era piuttosto lineare e ordinata. Glavcoso aveva approvato un ottimo piano regolatore per il suo paesello.  
    Finalmente trovai un punto che mi permetteva di attraversare la fila di abitazioni. Una centralina elettrica occupava una piccola piazzola e gli edifici adiacenti erano a una certa distanza, probabilmente per questioni di sicurezza. La luce riflessa dalla luna illuminava abbastanza perché una persona alla finestra potesse vedere un losco figuro camminare per la strada, per cui dovevo muovermi tenendomi il più possibile fra le ombre. L’ora era quella più conveniente per un’operazione di quel tipo - a quell’ora della notte gran parte della gente si trova nella parte più profonda del sonno - ma nessuno mi assicurava che un tizio che soffriva d’insonnia in quel momento non fosse alla finestra a guardare la luna oppure che una vecchia zitella non stesse curiosando alla ricerca di succosi pettegolezzi. Ok, eravamo abbastanza certi che non ci fossero vecchi - pardon, anziani - nel paese, ma avete capito.
    Le stradine secondarie che risalivano la collina erano poco illuminate per cui potei spostarmi abbastanza velocemente, però una volta giunto alla via principale, che tagliava il paese a metà, la storia cambiò e mi fermai per decidere il da farsi. Dal mio angolino potevo vedere la chiesa dall’altro lato del paese, a circa trecento metri. Era il mio obiettivo principale, ma anche la taverna m’incuriosiva. Si trovava dalla parte opposta alla chiesa ed era ancora in attività. C’erano alcune persone davanti all’entrata, con un bicchiere in una mano e una sigaretta nell’altra: tipica notte di divertimenti in un paesello sperduto. Una tenue luce usciva dalla vetrata del locale, segno che gran parte delle luci interne erano spente e il locale si apprestava a chiudere.  Dovevano essere gli ultimi clienti che consumavano il bicchiere della staffa.
    A quel punto decisi di sfruttare quella situazione. Se il locale era ancora aperto, nessuno si sarebbe stupito se  una persona camminava per la strada per tornare a casa dopo una serata a base di birra e nicotina. Tornai indietro, percorrendo le stradine che portavano alle case più a valle e poi risalii verso il centro in direzione della chiesa. Quando arrivai nuovamente al livello della strada principale, mi trovavo quasi di fronte all’edificio. Si trovava dopo una piazzetta illuminata da quattro lampioni in ferro battuto e oltre una scalinata in marmo. L’edificio sembrava abbastanza antico. Il portone principale era sormontato da un arco gotico e due rosoni si trovavano ai suoi lati. Il campanile si stagliava alto, tappezzato da bifore e trifore, anch’esse di stile gotico.
    La situazione alla taverna non sembrava essere cambiata, anche se da questa distanza non potevo vedere nel dettaglio. Rimasi in attesa per almeno dieci minuti prima che l’allegra brigata cominciasse a salutarsi. Quando rimasero solo due persone, un uomo uscì della taverna. Sembrava essere abbastanza alto, dato che sovrastava con tutta la testa gli altri due. I capelli brizzolati erano tinti di giallo dalla luce dei lampioni e teneva uno straccio sulla spalla. Doveva essere il padrone del locale. Gli altri due lo seguirono all’interno e dopo un po’ le luci si spensero. Interessante: i tre vivevano nel locale oppure c’era un’uscita secondaria. Di norma, i locali pubblici dovevano avere anche un’uscita di sicurezza, ma per quale motivo i tre avrebbero dovuto uscire dall’altra parte? Forse dovevano aiutare il padrone a spostare qualcosa. Oppure erano entrati nei sotterranei. In ogni caso una visitina al retro della taverna era d’obbligo.
    Uscii dalla strada laterale e mi misi a camminare lungo la via principale. Il colletto della giacca a vento alzato, mani in tasca, passo tranquillo. Dovevo appartenere al luogo, mostrare che avevo un motivo per essere là. Se qualcuno mi avesse visto, avrebbe dovuto pensare semplicemente a un tizio che tornava a casa dopo una serata al pub. Diedi uno sguardo all’orologio, come un marito preoccupato di svegliare la propria moglie. Mettendo in conto il tempo per tornare al campo, avevo circa due ore per scovare quei famigerati sotterranei.
    Percorsi un lato della piazzetta, ma, anziché salire per la scalinata, presi la strada laterale che saliva verso le case in cima alla collina. Il portone  principale era sicuramente chiuso per la notte, ma di solito ci sono delle entrate laterali che danno sulle stradine intorno a essa.  Anche quella chiesa l’aveva.  La sorpassai senza guardarla direttamente e continuai a camminare. Prima di entrare volevo avere un’immagine completa dell’edificio. C’era una porticina identica anche su lato opposto, segno che entrambe davano sulla chiesa e non in una sagrestia.  Mi avvicinai e provai a premere la maniglia. Era aperta e dentro non c’era nessuno.
    L’interno della chiesa era costituito da una singola navata, divisa in tre corridoi da due file di panche. Agli estremi del transetto c’erano due cappelle dedicate ad altrettanti santi di cui ignoravo il nome e di cui non potevo leggere le targhette per via della flebile illuminazione generata da alcune candele elettriche. Era comunque curioso trovare una chiesa cattolica nella protestantissima Germania. Forse Glavcoso aveva fatto male le sue ricerche per nascondere il vero utilizzo del luogo di culto.
    Nell’abside, dietro l’altare, c’era il tabernacolo e accanto a esso due statue di un angelo, forse San Michele, a grandezza naturale - supponendo che un angelo abbia le stesse proporzioni di un uomo, ma non ne ho mai incontrato uno, per cui non ne sono certo.
    Se fossi una chiesa e avessi una cripta, dove metterei l’entrata?
    Percorsi il perimetro dell’edificio alla ricerca di qualcosa d’interessante e fui premiato praticamente subito. L’ingresso alla cripta si trovava nell’abside, accanto a una della statue di San Michele. Erano delle semplici scale, circondate da un cordone rosso legato a dei paletti di metallo. Allungai le mani verso la recinzione e mi concentrai alla ricerca di eventuali trappole magiche. Era una pratica magica passiva, per cui non c’era il pericolo di rivelare la mia presenza. Vedetela un po’ come i sonar dei sottomarini: finché fossi rimasto un bersaglio passivo, l’unico modo di trovarmi era una ricerca attiva, un ping del sonar di un mago che mi cercava. Un eventuale mago in ascolto, invece, non avrebbe sentito nulla.
    Il cordone era pulito, per cui lo presi e aprii il lato che dava sulle scale. Lo superai e lo rimisi a posto, senza però fissarlo completamente, in maniera tale che non mi bloccasse in caso di fuga improvvisa, lasciandolo però in una posizione che non insospettisse un osservatore. Scesi molto lentamente, i muscoli tesi nel muovermi piano per non fare troppo rumore; lo sguardo fisso in avanti, pronto a reagire in caso qualcuno - o qualcosa - fosse apparso alla base delle scale. A metà della discesa m’immobilizzai e rimasi in ascolto.
    Nulla, solo il timido ronzare delle lampade a fluorescenza che illuminavano la scala e la cripta.
    Scesi di tre gradini e ripetei l’operazione.
     Ancora nulla d’insolito.
    Iterai il processo fino ad arrivare alla cripta vera e propria.
    Non ero un esperto di architettura, ma sembrava essere abbastanza antica. Basso Medioevo, forse.  I muri erano formati da ossa e alcuni scheletri, probabilmente di persone più importanti, erano adagiati su delle alcove scavate nei muri.  Sul soffitto, a distanze periodiche, c’erano le lampade che illuminavo i locali. In fondo alla al corridoio principale - ai lati c’erano due cappelle che contenevano roba interessante solo per un archeologo - era presente qualcosa che sicuramente non risaliva al Medioevo: una porta metallica.
    Mi avvicinai, sempre con l’orecchio teso, e la studiai. Sembrava essere abbastanza robusta e in alto aveva una di quelle finestrelle per controllare chi c’è dall’altra parte. Allargai la mano davanti a essa e subito sentii un incantesimo di protezione. I peli del braccio si rizzarono e mi venne la pelle d’oca.
    Quello era un problema. Potevo provare ad aprirla e rischiare che l’incantesimo si azionasse, oppure potevo fermarmi e continuare la ricognizione alla taverna. Cercai di analizzare l’incantesimo. Era abbastanza standard: se si attraversava la soglia scattava un allarme, ma non possedeva nessuna difesa attiva, per cui, anche se l’avessi fatto attivare, nessuna scarica elettrica mi avrebbe fulminato e nessuna palla di fuoco mi avrebbe abbrustolito. Sicuramente era stato congiurato in quel modo perché era una porta molto usata e non c’erano mai stati problemi di sicurezza - quale folle entra non invitato nella tana di un drago? Io, signori, Neil McRoberts - quindi il mago aveva predisposto un incantesimo non pericoloso e per il quale bastava possedere un oggetto “segnato” magicamente per poter passare indisturbati.
    Inoltre era molto facile da bypassare. Chiamai Mic. Ovviamente era al corrente della situazione e non comparve come suo solito in un tripudio di luci e acrobazie aeree, ma rimase invisibile e l’unica prova della sua presenza era la voce che mi parlava all’orecchio. Gli chiesi di controllare l’incantesimo sulla porta e confermò la mia analisi: allarme standard facile da bypassare. Lo congedai ringraziandolo e mi misi all’opera.
    Naturalmente poteva esserci un posto di guardia dall’altra parte e non avrei potuto andare avanti, ma il contro-incantesimo mi sarebbe comunque servito per la notte successiva, quando sarei entrato per completare il lavoro.  
    M’inginocchiai davanti alla porta e mi misi in ascolto.
    Dall’altra parte non giungeva nessuno suono. Ottimo. Presi il Leatherman, il coltello multiuso, dalla tasca ed estrassi il coltellino. L’incantesimo d’allarme legava un oggetto a una precisa azione - un trigger, come si dice in gergo. Se veniva eseguita senza avere l’oggetto “segnato” nelle vicinanze allora l’incantesimo si attivava. In quel caso l’oggetto era la porta e il trigger la sua apertura.
    Una maniera di bypassarlo era quella di modificare uno dei due campi. Non modificare; era un termine scorretto. Tecnicamente è impossibile modificare un incantesimo già congiurato. Una volta eseguito le energie in gioco sono quelle e non si può più fare nulla. Si trattava, più correttamente, d’ingannare l’incantesimo originale e fargli credere che l’oggetto fosse un altro.
    Cominciai a intagliare col coltellino sulla malta del muro accanto alla porta, rasente al pavimento in modo che non potessero venire notati da un’occhiata casuale. Tracciai una specie di porta stilizzata e poi la circondai con un quadrato. Più rettangolo che quadrato, visto che non stavo lavorando con riga e compasso su carta millimetrata, ma l’accuratezza della geometria dell’incantesimo in quel caso era trascurabile. Trasferii un po’ di energia dalla porta alla sua rappresentazione sul muro. Era una quantità così irrisoria che forse non sarebbe stata rilevata nemmeno alle reti di controllo che si usano a Xiam durante gli esperimenti che richiedono un’accuratezza di qualche parte per milione. Figurarsi un ipotetico sistema di controllo costruito da un drago o da qualche suo scagnozzo. A meno che uno dei suoi sgherri non fosse laureato Xiam e si fosse preso la briga di costruire una rete di controllo così dispendiosa da richiedere un circolo di trentasei apprendisti per rimanere attiva. Era improbabile.
    Avevo appena costruito una replica magica della porta, nel senso che, magicamente parlando,  l’oggetto in sé e la sua rappresentazione erano equivalenti. È lo stesso principio che viene usato nelle bambole voodoo. Infine si trattava semplicemente di ingannare l’incantesimo di allarme nel fargli credere che la rappresentazione fosse la vera porta. Tracciai un paio di circonferenze concentriche intorno alla figurina per amplificarne il segnale e completare il trucchetto.
    Mi alzai e chiusi il Leatherman, infilandomelo nuovamente nella tasca della giacca a vento. In teoria non dovevo più preoccuparmi dell’incantesimo e potevo aprire la porta senza correre il rischio di attivarlo. L’unico problema era che non avevo la minima idea di cosa potesse esserci oltre. Per quel che ne sapevo poteva essere un magazzino di candele per la chiesa - difficile, visto lo spioncino - oppure poteva esserci un tizio armato di fucile pronto a farmi saltare la testa.
    Al diavolo! Tanto dovevo trovare un modo per entrare nei sotterranei, per cui non aveva senso tentennare e perdere tempo. Se le cose dovevano andare a donnine di facili costumi, ci sarebbero andate comunque se non avessi saputo come entrare nella tana del drago, per cui al diavolo tutto e avanti con il lavoro.
    Continuavo ad ascoltare con attenzione, in attesa di un qualsiasi suono che potesse rivelarmi qualcosa, ma il silenzio era immutato. Posai la mano sulla maniglia e mi preparai ad aprire.
    L’abbassai lentamente, tutti i muscoli in tensione pronti a reagire al minimo cenno di pericolo.
    Niente di niente.
    La spinsi in avanti, tenendomi appoggiato a essa, in modo da mostrarmi il minimo possibile. Pian piano il mio raggio visivo si allargò mostrandomi un desolato corridoio decisamente più moderno della cripta dal quale arrivavo. I muri erano intonacati grezzamente e possedevano quella monotona colorazione grigia tipica degli edifici in costruzione. Le lampade continuavano imperterrite nella loro periodica disposizione  lungo il corridoio, che continuava per un altro paio di metri, terminando in un’altra scala che sprofondava in basso.
    Scesi come prima, fino ad arrivare a tre quarti della sua lunghezza. Stavolta avevo sentito dei suoni.
    Erano delle voci: una costante che sembrava uscire da un altoparlante e altre due che parlavano a tratti, alternandosi. Parlavano in tedesco e non sapevo cosa dicessero. Probabilmente stavano guardando la TV e commentavano il programma. Era il primo posto di guardia che incontravo, per cui voleva dire che mi stavo avvicinando al centro della tana. Un’altra nota positiva era che la sicurezza era abbastanza lassista, se le guardie si rilassavano a guardare la TV durante il lavoro. Immaginai che non c’erano molti tentativi di attacco alla tana di un drago, ma conoscevo colleghi che erano stati cacciati a calci nel sedere per trasgressioni molto più trascurabili.
    Mi avvicinai un altro po’, scendendo per un paio di gradini, fino quasi ad arrivare alla base della scala. Le voci giungevano da una porta a sinistra, mentre il corridoio proseguiva avanti per un paio di metri prima d’incrociarsi perpendicolarmente con un altro. Provai ad allungare la testa per vedere se riuscissi a dare un’occhiata dentro la stanza, ma non mi arrischiai più di tanto. Se io arrivavo a veder loro, allora loro potevano vedere me, per cui non mi pareva il caso di tirare troppo la corda. Finora la sicurezza non era certo professionale, ma non avrei mai creduto che fossero stati così stupidi da piazzare il televisore in maniera d’avere le spalle contro la porta.
    Oggi non era il caso di rischiare, ma domani non avrei potuto fare altrimenti. Per ora l’importante era aver trovato la tana del drago. Risalii la scala e, tornato nella cripta, richiusi la porta e cancellai i simboli magici che avevo tracciato sul muro. Percorsi la strada inversa con la stessa attenzione che avevo avuto all’andata per evitare incontri spiacevoli, magari con qualche cultista in ritardo per il suo turno notturno.
    Non successe nulla d’inaspettato per cui, uscito dalla chiesa, guardai l’orologio. Avevo ancora un po’ di tempo prima di tornare al campo. L’idea era quella di fare una visitina alla taverna, almeno all’esterno, anche se più passeggiavo per il paese maggiore era il rischio di essere visto da qualcuno.
    M’incamminai verso la taverna. Qual era la probabilità che una persona, vedendomi, pensasse “Ah, ecco, quella persona che cammina di notte è sicuramente un ladro che domani tornerà per rubare qualcosa nella tana di Glavcoso”? Il gioco valeva la candela.
    Decisi di muovermi lungo le stradine a monte della via principale, per avere un conoscenza migliore di tutto il paese. Quando ero abbastanza certo di essere all’altezza dalla taverna, scesi verso la strada principale.  Ci arrivai due traverse oltre l’edificio. Risalii e tornai indietro fino a trovare il retro della taverna.
    C’era una porta, accanto a un bidone della spazzatura, e un auto era parcheggiata là di fronte. Era una vecchia Volkswagen, la cui vernice consunta e le macchie di ruggine indicavano che aveva visto tempi migliori.  In alto a destra rispetto alla porta, c’era una piccola finestrella, una di quelle che si aprono dall’alto.  Come al solito, rimasi un attimo in attesa all’angolo, verificando che non ci fosse nulla in corso, dopo di che mi avvicinai con cautela alla porta, drizzai le orecchie e provai ad aprirla. È sempre la prima cosa da fare, a volte si è fortunati e qualcuno l’ha dimenticata aperta.
    Non era quello il caso. La seconda cosa da fare era cercare la chiave. Solitamente i proprietari lasciano una chiave di riserva da qualche parte: sotto lo zerbino, dietro la cassetta della posta oppure sotto una pietra in giardino. Nonostante ciò era vero per molte residenze, non sapevo se fosse una pratica usata anche per i negozi. Sicuramente non era sotto il bidone della spazzatura, considerando che veniva spostato a ogni raccolta. Passai le dita sul davanzale della finestrella senza trovare nulla. Il muro era liscio e ben curato e non c’era nessun buco o crepa in cui potesse stare una chiave. Provai a dare un’occhiata dentro l’auto, ma l’unica cosa interessante al suo interno era un numero di Nuts sul sedile del passeggero. Tutte le portine erano chiuse.
    Le uniche informazioni che potevo acquisire sull’edificio erano all’esterno. Aprii il bidone della spazzatura e controllai gli ultimi sacchi. Gran parte della gente non si rende conto quanto si possa scoprire dai rifiuti di una persona. Forse qualcuno crede che i bidoni della spazzatura siano dei portali interdimensionali che fanno sparire i rifiuti, ma in realtà sono una fenomenale fonte d’informazioni. Dalla quantità di avanzi si può capire quante persone abitino in una casa o se la sera prima ci fosse qualche ospite. Si scopre quale sia il take-away cinese preferito guardando le confezioni gettate e dalle buste pure i negozi preferiti per lo shopping. E non parliamo di scontrini, ricevute e fogli di carta con appunti o numeri di telefono. Come si suol dire: la spazzatura di un uomo è il tesoro di un altro.
    I primi sacchi non contenevano nulla di strano o interessante. Li aprii con cura e feci attenzione a non danneggiarli. Quando si fanno certi lavori è fondamentale lasciare tutto come si è trovato se non si vuole che nessuno sospetti qualcosa. A circa metà del bidone, invece, trovai una busta nera, diversa in consistenza rispetto alle precedenti: era piena di vestiti da donna. Alcuni erano in condizioni pietose - sporchi e strappati - mentre altri erano completamente distrutti e chiamarli vestiti era un eufemismo. Vidi anche alcune macchie di sangue. Rimisi tutto a posto e chiusi il bidone. Quel ritrovamento era illuminante: era la prova che anche la taverna era collegata al sotterraneo-harem di Glavcoso. Perché non avessero bruciato il tutto, anziché gettarlo nella normale spazzatura, era un mistero, ma non mi aveva stupito. Tutta la sicurezza del villaggio sembrava essere gestita da un bambino di sei anni.
    Era ora di tornare al campo, prima che Riccioli d’Oro pensasse che fossi stato compromesso e smontasse baracca e burattini per tornare a Friburgo.  Attraversai la strada principale lontano da entrambi gli obiettivi e poi uscii dal paese dal punto in cui era entrato, vicino alla centralina elettrica. Ritrovai con facilità l’albero colpito dal fulmine, recuperai documenti, cellulare e visore notturno e mi diressi in linea retta verso il campo.
    Quando arrivai, Josephine mi stava aspettando, sdraiata comodamente nel suo sacco a pelo. Al sentire i miei passi aveva acceso la torcia elettrica e me l’avevo puntata contro. Le raccontai i punti salienti dell’operazione mentre m’infilavo nel sacco a pelo, poi mi sdraiai e chiusi gli occhi.
    L’indomani sarebbe stata una lunga giornata.

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Capitolo 5
*** 5. ***


La mattinata passò tranquillamente, mentre c’intrattenevamo in attività tipiche da campeggiatori: guardare animaletti, abbracciare alberi e altre sciocchezze di questo tipo. In realtà le stavo raccontando per filo e per segno com’era andata la ricognizione e tutte le informazioni che doveva conoscere. Verso mezzogiorno Josephine aveva ricevuto una chiamata ed era rimasta al telefono per almeno un quarto d’ora. Mi raccontò che Yelena aveva trovato la spia. Era risalita agli aggressori del fast food e con un po’ di pazienza aveva trovato il loro contatto nel clan, un giovane vampiro molto tranquillo che non si era mai fatto notare. Aveva detto a Josephine che la talpa non sapeva nulla della nostra gita, ma che aveva pensato personalmente a tagliare ogni possibile filo di collegamento, sistemando lui e la banda di cultisti che ci aveva attaccato.
    Zuccherino era una tipa tosta che sapeva il fatto suo, ma non ero sicuro che la situazione fosse così semplice. Per quanto Glavcoso fosse tranquillo riguardo minacce esterne, non potevo credere che la sua rete di osservazione si limitasse a un misero pedone nel clan di Greta. O forse sì. Avevo visto quanto fosse poco professionale la rete di sicurezza del paese, per cui non ci sarebbe stato nulla di strano se anche quella informativa fosse stata così. Alla fine non era importante, il nostro obiettivo era rubare l’uovo e poi svignarcela il prima possibile; non m’importava nulla di eventuali informatori nel clan di Greta.
    Fino a prima della chiamata di Yelena non ero sicuro se agire quella notte, oppure attendere qualche giorno ed effettuare qualche altra ricognizione - magari per trovare l’ingresso nella taverna - ma dopo quella notizia non ero più molto convinto della cosa. Restare là altro tempo aumentava la probabilità di vederci spuntare davanti un altro gruppo di simpatici omini armati fino ai denti e non volevo ripetere l’esperienza. Non che non sia abituato a combattere - figuriamoci, è il mio lavoro - ma preferisco sempre farlo secondo le mie preferenze e possibilmente quando il mio avversario non sa che stia per colpirlo. Al diavolo l’onore e le cavolate di questo genere, si tratta di essere efficiente e svolgere bene il proprio compito.
    Ho abbastanza paura quando mi puntano addosso un fucile. È normale. Se non hai paura in certe situazioni o sei un bugiardo o non hai tutte le rotelle a posto. È la paura che ti fa reagire correttamente in quelle situazioni; è la paura che ti affina i sensi e ti permette di fare correttamente quelle azioni che hai già fatto mille volte durante le esercitazioni.
    Inaspettatamente, anche Josephine concordava con me e voleva finire il lavoro il prima possibile: l’aveva persino detto a Yelena. Non mi suonava molto bene. Perché mai lei, dipendente di Greta, avrebbe dovuto aver fretta con la possibilità di mandare al diavolo il lavoro? Aveva dei motivi personali? Era una cosa da tenere a mente.
    Verso sera avevamo deciso a grandi linee il piano d’azione. Era molto facile: entrare il più silenziosamente possibile, trovare l’uovo e andare via; il tutto senza farci né sentire né vedere. Naturalmente c’era da tenere conto dei sicuri problemi che sarebbero saltati fuori. Come passare la sicurezza? Come trovare l’uovo? Avremmo dovuto improvvisare e ciò significava incappare sicuramente in qualche ostacolo non preventivato.
    Il tramonto giunse veloce e ci preparammo all’azione. Sistemammo tutto ciò che non ci serviva negli zaini da viaggio, tenendo due piccoli zainetti a spalla per trasportare armi, munizioni e l’altro equipaggiamento. All’ora stabilita ci muovemmo verso il paese, percorrendo all’incirca la stessa strada che avevo fatto la notte precedente. Ci fermammo all’albero “fulminato” per nascondere i documenti e ripartimmo.
     Portai Josephine verso la chiesa e le dissi di aspettarmi riparata dietro un muretto. Volevo dare un’occhiata alla taverna e non era necessario che ci fossimo entrambi. Anche quella notte, gli ultimi clienti erano fuori a bere e fumare. Stavolta erano in compagnia del proprietario, che non aveva né un bicchiere né una sigaretta. Sembrava essere là solo per parlare e infatti gli altri erano raccolti intorno a lui. Dopo qualche minuto rientrò nel locale e gli uomini lo seguirono uno dopo l’altro, bevendo l’ultimo sorso di birra, gettando a terra le cicche e spegnendole col piede. Li contai mentre superavano la porta: sei più il proprietario.
    Era una cattiva notizia: avremmo potuto trovarli nei sotterranei. Altre rogne di cui tenere conto.
    Le luci dentro la taverna si spensero e la strada rimase illuminata solo dal lampione là di fronte. Resistetti alla tentazione di dare un’occhiata più da vicino. Vista la novità era meglio sbrigarsi e agire il prima possibile. Tornai indietro a recuperare Josephine.
    Era ancora seduta dietro il muretto a cui l’avevo lasciata e stava guardando la chiesa.
    «Qualche movimento interessante?» domandai.
    Scosse la testa. «Tu hai visto qualcosa?»
    «Potrebbero esserci almeno sei uomini là sotto.» Sorrisi. Mi piaceva annunciare certe belle notizie.
    Lei fece spallucce, come a dire di non essere preoccupata, ma vedevo la tensione dipinta sui suoi lineamenti. Era una professionista e sapeva quello che stava facendo.
    «Andiamo.» mormorai.
    Entrammo tranquillamente nella chiesa e scendemmo nella cripta senza problemi. Arrivati alla porta metallica, analizzai nuovamente l’incantesimo e vidi che non era stato cambiato rispetto alla notte precedente. Le dissi di aspettare indietro e cominciai a lavorare col Leatherman.  
    Il luogo era silenzioso come il giorno prima e quando aprii la porta non trovai nulla di diverso. Feci un cenno a Riccioli d’Oro e cominciai a scendere. Mi fermai a tre quarti della rampa, in ascolto. Si sentivo le voci degli uomini nella stanza alla fine della scala. Mi voltai e guardare Josephine, che stava un paio di gradini indietro, e mi fece un cenno di assenso: anche lei aveva sentito. Procedetti a scendere fino a quando non arrivai alla fine della scala. La luce incostante di un televisore uscita dalla stanza di guardia, aggiungendosi e quella delle lampade a fluorescenza. Mi avvicinai all’entrata con le spalle poggiate al muro, mentre  Josephine faceva altrettanto sulla parete opposta.
    Josephine si teneva all’esterno per avere una migliore visibilità del locale, mentre io mi preparavo a fare irruzione. Alzò due dita della mano e indicò verso la parte lontana della stanza. Estrassi la pistola e tolsi la sicura. Gliela mostrai e scosse la testa, poi arretrò e venne al mio fianco.
    Bene, c’erano due uomini e, a prima vista, non sembravano armati. Si trattava solamente di essere veloci e precisi nel metterli fuori combattimento. Respirai profondamente e mi preparai a fare irruzione. Certe volte prima si comincia, meglio è.
    Nel momento in cui sentii le voci iniziare uno scambio più acceso, entrai velocemente nella stanza.  I due non si accorsero di me fino a quando non ero sopra di loro. Erano seduti su un divano malconcio e quello che guardava dalla mia parte mi lanciò un’occhiata stranita. Non gli diedi il tempo di domandarsi cosa ci facessi là perché lo colpii in faccia con il calcio della pistola e gli saltai addosso per continuare a colpirlo.  Josephine fece altrettanto con l’altro.
    Il volume del televisore era abbastanza alto da nascondere i lamenti dei due sfortunati. Quando fui sicuro che entrambi avessero perso i sensi mi tolsi lo zaino e tirai fuori il nastro per pacchi e, dopo aver fatto rotolare l’uomo a terra, cominciai a passarglielo intorno ai polsi.
    «Cerca qualcosa da metter loro in bocca.» dissi a Josephine. Quando si vuole zittire qualcuno è meglio ficcargli qualcosa nella bocca per evitare che il suono prodotto dalle corde vocali si amplifichi. E anche perché con un fazzoletto o uno straccio che rischia di finire in gola e soffocarli, le persone tendono a stare tranquille.
    Mentre finivo di legare le caviglie, Joesphine mi passò qualcosa. Strappai lentamente il nastro per evitare di fare troppo rumore e presi l’oggetto: era una calza. Diedi uno sguardo all’altro uomo e vidi che era a piedi nudi.
    «È la prima  cosa che mi è venuta in mente.» disse Josephine, col sorriso sulle labbra.
    Annuii, compiaciuto. Era un’ottima idea. Aprii la bocca del povero malcapitato e ci ficcai la calza. Poi feci un paio di giri di nastro intorno alle labbra. Ripetei l’operazione col secondo uomo e poi mi feci aiutare da Josephine a trasportarli dietro il divano, in modo che non fossero visibili dal corridoio.
    Il primo ostacolo era stato superato. «Bene.» dissi, mentre mi rimettevo lo zaino in spalla. «Ora si tratta di girare per i sotterranei e sperare di trovare qualcosa che ci aiuti nella ricerca.»
    «Detto così non sembra un buon piano.»
    «Non lo è.» ammisi. «Ci serve qualcuno da torchiare per scoprire qualcosa.»
    Indicò i due gentiluomini che aveva appena relegato nel mondo dei sogni. «Loro non andavano bene?»
    Mi avvicinai all’ingresso e diede un’occhiata all’ingresso. Nessuno in vista. «Al massimo avrebbero potuto darci informazioni sui programmi televisivi. Forza, andiamo. Niente magia, mi raccomando.»
    «Me l’hai ripetuto una dozzina di volte.» replicò irritata. «Non sono una stupida.»
    La ignorai e cominciai a percorrere il corridoio. Nella prima parte non c’erano altre stanze e dopo qualche metro s’intersecò con un ulteriore corridoio. Continuai ad andare avanti e trovai alcune stanze vuote. Erano dei magazzini, pieni di scatole che contenevano cibo, bevande e indumenti. Nulla che potesse interessarmi. Più in là c’erano un bagno e una cucina, vuoti anch’essi. Tornai indietro e studiai l’altro corridoio.
    Era pieno di porte, come se i suoi lati fossero formati da decine di piccole stanzette. Mi avvicinai alla prima porta e provai ad aprirla.
    Era chiusa.
    Anche la seconda e la terza che provai erano chiuse. Continuai ad andare avanti e al quarto tentativo ne trovai una aperta.
    «Che diavolo è?» mormorò Josephine alla vista della stanza.
    Il motivo di tanto stupore era l’arredamento, che sembrava quello della stanza di un collegio. Un lettino, una scrivania e un armadio a due ante. Lo aprii e vidi che c’erano solo abiti femminili.
    «Sicuro che siamo nella tana del drago?» chiese.
    «Mi pare ovvio.» Le mostrai il contenuto dell’armadio. «Glavcoso non colleziona donne? Evidentemente non le tratta nemmeno male.» Anche se ciò non combaciava con i vestiti stracciati e insanguinati che avevo visto la notte precedente. «Escludendo il fatto che le rapisce e le imprigiona sottoterra.» aggiunsi.
    Josephine aprì il cassetto della scrivania e ci rimestò un po’, come se non sapesse bene cosa cercare.
    «Non c’è tempo per cercare il diario segreto della principessa.» dissi, mentre uscivo dalla stanza.
    Stavo cominciando a farmi un’idea di come fosse strutturata la tana. Era molto simile proprio a un campus: con stanze per le donne e bagno e cucina comuni. Chissà quanti livelli c’erano.
    «Hai un’idea di quante donne facciano parte della collezione di Glavcoso?»
    «Qualche centinaio, forse di più.» rispose, incerta.
    «Diamine.» borbottai. Tanti livelli da esplorare.
    Esplorammo tutto il corridoio, ma tutte le stanze erano vuote o chiuse; il livello sembrava essere disabitato. Alla fine del corridoio trovammo una scala. Alzai le spalle, sconsolato, pensando che di questo passo saremmo finiti in Australia.
    Il livello inferiore sembrava essere più vivo rispetto all’altro, almeno stando ai suoni che arrivavano dalla scala. Quando arrivai a metà sentivo chiaramente dei gemiti e dei respiri affannati: qualcuno là sotto si stava divertendo.
    L’architettura era identica a quella del livello superiore: alla fine della scala partiva un corridoio che s’intersecava a croce con un altro; probabilmente le altre tre braccia erano piene di stanze, mentre in quello iniziale c’era solo una stanza di guardia. L’unica differenza era l’utilizzo che ne stava facendo il supposto guardiano, niente TV in quel caso.
    Ero appoggiato al muro opposto alla porta e, mentre mi avvicinavo, la scena mi si stava rivelando in tutta la sua sconcezza. C’era un uomo nudo in ginocchio sul letto e si stava dando da fare. Dava le spalle alla porta e dalla mia posizione potevo vedere le gambe di una donna sotto le sue. E un altro paio di piedi ai suoi lati. Il fortunello stava intrattenendosi con due signorine. A chi tutto e a chi niente, diamine.
    Peccato per lui che la sua fortuna stesse per esaurirsi. Feci un cenno a Josephine ed entrai. Dal ritmo delle spinte e dal respiro affannato sembrava essere al limite. In due passi fui su di lui, gli presi i capelli e tirai violentemente all’indietro, sbilanciandolo e facendolo cadere dal letto. Gridò qualcosa, ma prima che potesse alzare le mani lo colpii al naso con il calcio della pistola. Un fiotto di sangue schizzò, sporcandogli il viso.  Lo colpii una seconda volta e mentre cercava di parlare gli infilai la canna della pistola nella bocca. Lo spinsi a terra e gli misi un ginocchio sullo sterno.
    «Pensa alle due donne.» ordinai a Josephine. La vidi che cercava di calmarle con gesti rassicuranti parlando sottovoce e aggiunsi: «Che cazzo stai facendo! Stordiscile e imbavagliale!» Non era una bella cosa e mi spiaceva trattarle in quella maniera, ma non eravamo là per fare i buoni samaritani. In situazioni del genere non c’è tempo da perdere, bisogna subito mostrarsi forti e spietati, senza dare agli altri il tempo di pensare di potersi ribellare. Perché se si ribellano le cose si complicano e diventa una questione di vita o di morte. Bisogna essere veloci e violenti.
    Guardai il mio prigioniero. «Parli inglese?» domandai, applicando un po’ di pressione alla pistola. «Rispondi con un cenno della testa. Se fai qualche movimento che non mi piace ti faccio saltare la testa.» Anche se non avesse capito le parole, il tono e il linguaggio del corpo erano abbastanza chiari.
    L’uomo annuì, gli occhi dilatati per il terrore e il sangue che gli colava dal naso, insozzandogli tutto il viso.
    «Ora ti toglierò la pistola dalla bocca e ti farò alcune domande a cui dovrai rispondere . Sinceramente.»
    Altro cenno di sì.
    «Se crederò che mi stia mentendo, ti ammazzo. Se provi a ribellarti, ti ammazzo. Se fai qualsiasi cosa che non ti ho ordinato, ti ammazzo. Chiaro?»
    Chiaro.
    Sfilai l’arma dalla bocca, tenendola sempre puntata su di lui. Alle mie spalle sentivo gli strappi del nastro per pacchi. «Dov’è l’uovo?»
    «Che uovo?» balbettò.
    «Non fare l’idiota. Dov’è l’uovo?»
    «Non lo so. Non lo so.» ripeté con le lacrime agli occhi. «Glavnyognya non parla con nessuno dei suoi affari.» Parlava un inglese abbastanza sciolto, ma si sentiva il pesante accento tedesco.
    Probabile, visto la professionalità dei suoi sgherri. «Dov’è la sua stanza?»
    «Al quinto livello.»
    Diamine.
    «È la che tiene i suoi tesori?» intervenne Josephine, mentre stava trascinando sotto il letto le due sfortunate signorine.
    «È possibile. Non lo so, non lo so, vi prego.»
    «Chi sei?»
    Pronunciò uno di quei complicati nomi tedeschi e non avevo nessuna voglia d’impararlo. «Troppo complicato. Ti chiamerò Harry.» Non  replicò e aggiunsi: «Cosa fai qua?»    
    «Sono l’apprendista di Gregor.» Anticipò la mia domanda e aggiunse: «È il mago che serve Glavnyognya.» Mi guardò stupito, come se avesse finalmente realizzato qualcosa. «Come avete fatto ad entrare senza far scattare l’allarme?»
    Stava riprendendosi dallo shock e cominciava a ragionare. Evidentemente il sangue aveva ripreso a circolare verso il cervello. Ignorai la sua domanda e gli chiesi: «Ci sono altre protezioni magiche?»
    «No, gli allarmi sono le uniche cose che Gregor mi ha fatto congiurare. Ha detto che non lo pagava abbastanza per tenere attiva una rete di controllo.»
    Più probabilmente non ne era capace. Comunque, era un’ottima notizia: potevamo usare la magia liberamente. «Quanti uomini ci sono?»
    «Due all’ingresso e solitamente cinque o sei nei livelli inferiori»
    «Sono dei professionisti o sono là solo per fare quello che stavi facendo tu?»
    «Non lo so. Sono sempre molto zelanti nel mostrare che possono sparare.»
    Pivelli. «Qual è il modo più veloce per scendere?»
    «C’è solo una scala, nel corridoio a sinistra. Non ci sono altri modi per scendere. Tutti i livelli sono identici.»
    «Perché in quello di sopra non c’è nessuno?»
    «Perché le stiamo trasferendo nel livello più basso.»
    «Così vicine alla superficie erano tentate a fuggire?» chiese Josephine.
    «Esatto.»
    Sentii Josephine borbottare un’imprecazione. «Quanto è bravo con la magia il tuo padrone?» chiesi.
    «Abbastanza da friggerti il culo. Il mio maestro è stato…»
    Lo bloccai aumentando la pressione sullo sterno. «Non me ne frega nulla del tuo maestrino, pivello, voglio sapere del drago.»
    Si mise a ridere. Bisognava dargli credito: pochi hanno abbastanza coraggio da mettersi a ridere con una pistola puntata in faccia. Oppure era troppo stupido per rendersi conto che facevo sul serio. «Glavnyognya disprezza la magia e non si fida dei maghi. Non si fida di nessun umano, ci considera alla stregua d’insetti. Ha assoldato Gregor solo per avere una minima sicurezza magica.»
    «Soldi proprio ben spesi.» commentai. «Bene. Grazie per le informazioni, Harry.» Lo colpii con forza alla testa e perse i sensi. «Josephine, il nastro.»
    Stava guardando fuori dalla porta. «Non credo ci sia tempo per legarlo, il corridoio sta iniziando a riempirsi.»
    Imprecai e spinsi l’uomo sotto il letto, almeno per conservare le apparenze. «Chi sono?»
    «Solo ragazze.» rispose.
    C’era poco da fare. Bisogna muoversi spediti verso il quinto livello e sperare di non incappare in qualche uomo della sicurezza. «Cerca di comportarti come se appartenessi a questo luogo. Dobbiamo non dare nell’occhio per il maggior tempo possibile e scendere.» Più facile a dirsi che a farsi.
    Josephine annuì, ma non sembrava convinta.
    «Sono certo che le prigioniere non conoscano ogni uomo che serve il drago, per cui se mi vedono camminare in mezzo a loro non si metteranno certo a pensare  “Sicuramente è un ladro o una spia!”. Hai visto come la sicurezza sia fallata, no?»
    «D’accordo. E io?»
    Sorrisi. «Tu sei la nuova acquisizione dell’harem.»
    La presi non troppo gentilmente per un braccio e la feci camminare avanti a me. Percorremmo il corridoio a passo tranquillo, come se la nostra presenza là fosse naturale. Qualcuna delle ragazze ci guardò senza interesse, ma nessuna ci fissò come se fossimo dei mostri rari. Nessuna di loro mi sembrava essere in cattive condizioni. Tutte indossavano abiti succinti e più che un campus sembrava uno strip club. Probabilmente il potere acquisito dal drago dipendeva anche dalla qualità della collezione, per cui le teneva ben curate. Mi chiedevo come gli altri gruppi magici del luogo permettessero una cosa del genere.
    «Non c’è niente che possiamo fare.» disse Josephine, sottovoce, come se avesse intuito i miei pensieri. «Se riusciamo a trovare l’uovo e ricattare Glavnyognya, possiamo fermare tutto questo.»
    «Non si tratta di fermare, ma di smantellare.» replicai. Stavamo scendendo le scale che portavano al quarto livello e per ora nessuno ci aveva dato problemi.
    «Potresti farlo tu.»
    «Non mi pagano abbastanza.» Le feci cenno di fare silenzio. Eravamo arrivati al quarto livello e l’aria che tirava era diversa rispetto al piano superiore. C’era meno movimento e qualche ragazza faceva capolino dalla sua stanza e ci guardava con un misto di paura e speranza. Mi diressi senza perdere tempo verso la scala per scendere e mi accorsi che c’era un uomo a controllarla. Era vestito casual, con un paio di jeans e una t-shirt dal collo a v, e teneva uno stecchino fra i denti. Particolare non trascurabile: dalle spalle gli pendeva una tracolla fissata a un SMG.
    Sbuffai. Fine della corsa. L’uomo andava eliminato, ma volevo evitare che cominciasse a sparare in mezzo alle ragazze. E soprattutto eventuali rumori che mettessero in allarme tutto il mondo.
    Agitai una mano per salutarlo e mi guardò dubbioso, prima di ricambiare. Probabilmente stava cercando di ricordare chi fossi. Strattonai Josephine, poi scossi le spalle e sorrisi. Stavo per superarlo, quando mi mise un braccio davanti per fermarmi.
    Disse qualcosa in tedesco che poteva essere “dove credi di andare?” come “tu chi diavolo sei?”, ma non era importante.
    Ecco un consiglio in caso anche voi vi troviate nella stessa situazione dell’omino che mi stava davanti. Se volete fermare una persona e avete una mitraglietta al collo, usate quella a distanza di sicurezza e non perdete tempo a fare domande inutili.
    Se Johnny Stecchino mi avesse tenuto a distanza con l’arma - come avrebbe fatto qualsiasi guardia capace - non si sarebbe ritrovato con la gola squarciata dagli aculei di ghiaccio che avevo evocato sulle mie dita.
    «Conosci qualche incantesimo di mimetizzazione?» chiesi a Josephine, mentre adagiavo il cadavere a terra, cercando di non sporcarmi di sangue. Alcune delle ragazze ci guardavano e altre erano uscite dalle proprie stanze.  Mi girai verso di loro e, sfoderando il mio sguardo più minaccioso, dissi: «Tornate a fare quello che stavate facendo se non volete fare la stessa fine!» Anche se non capivano l’inglese, il tono era abbastanza chiaro.
    Dovetti risultare abbastanza spaventoso, perché tutte corsero via e si allontanarono da me, chiudendosi nelle proprie stanze.
    Mi voltai nuovamente verso Riccioli d’Oro e il fu Johnny Stecchino, ma il cadavere era scomparso.  Fischiai. «Alla faccia della mimetizzazione.» Si vedeva giusto un po’ di sangue accanto a dove doveva trovarsi una gamba.
    «Forza, non durerà per molto.» disse Josephine, cominciando a scendere per le scale.
    La seguii non prima di darmi un’occhiata alle spalle. Nessuno, bene.
    Il quinto livello era strutturato diversamente. Il corridoio dopo la scala s’immetteva dopo qualche metro in un’ampia sala, in cui si trovavano tre porte. Quella a cui ci trovavamo di fronte era più corretto definirla portone e sembrava essere ben chiusa. Le altre, che si trovavano ai lati, erano identiche a quelle che si trovavano negli altri livelli. Non c’era nessun indizio per effettuare una scelta sensata, per cui mi diressi verso quella a sinistra.  Il grande portone davanti non m’ispirava per nulla. Sembrava proprio l’ingresso per un grande salone in cui Glavcoso si rilassava nella sua forma naturale ed era qualcosa che proprio non ci tenevo a vedere.
    La porta era aperta e dava su una grande stanza, arredata come un ufficio. Una grande scrivania in mogano dominava la sala e i muri erano letteralmente coperti da librerie cariche di volumi di ogni specie. Un portatile chiuso si trovava al centro della scrivania, affiancato da un hard disk esterno, una pila di cartelle e documenti sparsi per tutta la superficie. Un’elegante lampada di porcellana torreggiava su un lato ed era l’unica sorgente di luce della stanza.
    Josephine non aveva perso tempo e si era messa a frugare nei cassetti della scrivania.
    «Calma.» le dissi. «Non sappiamo nemmeno se siamo nella tana del drago o nell’ufficio di un CEO.»
    «Dobbiamo trovarlo! Non c’è tempo per le tue buffonate.» replicò acida.
    Scossi le spalle e continuai ad esaminare la stanza. In un lato semi-nascosto dalla lampada c’era uno di quei mappamondi in legno, antichi e che valevano una fortuna. Gli scaffali delle librerie erano pieni di piccoli soprammobili e gran parte sembravano essere di valore. Sicuramente quella non era la stanza di uno sgherro qualunque. Sull’unica parte di muro non occupata da librerie era appeso un arazzo, in cui riconobbi quello che mi avevano mostrato in foto qualche giorno prima all’albergo. Sicuramente era l’originale. Eravamo nell’ufficio di Glavcoso, c’era poco da dubitarne.
    Intanto, Josephine aveva finito di controllare i cassetti e si stava dedicando ai soprammobili. Io, invece, mi sedetti sulla poltrona di pelle davanti alla scrivania. Oltre al fatto che era così comoda da rendere vana qualsiasi similitudine con una nuvola, mi permetteva di vedere la stanza come la vedeva ogni giorno il drago.
    «Dove terrei la cosa a cui tengo di più?» mi chiesi, sottovoce.
    Mi venne la tentazione di accendere il computer, ma mi fermai. Non c’era tempo per provare a superare la sua sicurezza e magari non trovare nulla d’interessante. Il mucchio scomposto di documenti m’incuriosiva. Allungai la mano per prendere qualcuno, ma sentii come una scarica elettrica percorrermi il braccio.
    Mi voltai verso Josephine e dissi: «Forse l’ho trovato.»
    Stava chiudendo lo zaino e la sua risposta fu meno felice di quanto mi sarei aspettato. «Ok, allora possiamo andare via.»
    «Frena i cavalli, tesoro. Ho detto che forse l’ho trovato.»
    Chiusi gli occhi e mi concentrai sul fluire dell’energia magica. Quando avevo controllato due giorni prima, la radiazione di fondo della zona era caotica, ma in quella stanza sembrava regnare una calma assoluta, come se fossimo nell’occhio del ciclone. Nonostante ciò, il livello di energia era elevatissimo: congiurare incantesimi in quella stanza avrebbe portato a risultato molto interessanti. Peccato non ci fosse il tempo di provare.
    Quello che m’interessava in quel momento era il picco di energia che mi aveva dato la scossa. Spostai un po’ di fogli e lo trovai.
    L’uovo del drago.
    Era là sulla scrivania, che fungeva da fermacarte, tenendo fermi alcuni documenti. Un classico nascondiglio da “lettera rubata”. Probabilmente Glavcoso aveva letto il racconto. Diavolo, vista l’età probabilmente con Poe ci aveva pure parlato.
    Rimasi un po’ deluso. Mi aspettavo una via di mezzo fra un diamante e un uovo Fabergé, ma sembrava un ciottolo raccolto da un ruscello. Era un oggetto piccolo e anonimo, ma sprigionava un’energia tale da impedirmi di prenderlo in mano senza tremare. Doveva essere per forza l’uovo, che altro oggetto magico poteva emanare così tanta energia? Lo feci scivolare con calma dentro la tasca inferiore della zaino.
    Spinsi indietro la poltrona e mi alzai.
    «Filiamocela.»
    Tornammo nella stanza centrale, ma la fortuna che fino a quel momento ci aveva accompagnato si era esaurita. Oppure i nostri angeli custodi avevano sbagliato strada e si erano persi nell’harem sotterraneo. Fatto sta che la strada da cui eravamo arrivati era occupata da un gruppo di uomini armati. Fecero fuoco, ma le pallottole rimbalzarono sullo scudo che avevo evocato, disperdendosi per tutta la sala. Evocai un globo di fuoco e lo lanciai verso di loro, mentre mi buttavo a terra per schivare i proiettili.
    La palla di fuoco esplose con una forza inaudita e del tutto inaspettata. Avevo usato abbastanza energia per generare un proiettile pericoloso quel tanto bastava per far capire loro che dovevano fare attenzione, invece era esploso come una palla di C4. L’onda d’urto e di calore che ne seguì mi bruciò le sopracciglia e le punte dei capelli. Alzai lo sguardo e lo spettacolo che mi si presentò non era certo per stomaci sensibili. Gli uomini, quello che rimaneva di loro, erano sparsi a pezzi per il corridoio e sui muri, diventati completamente neri, mentre una pozza di liquido si era formata dove il pavimento pendeva. Il puzzo di carne bruciata era insopportabile e sentivo la cena risalire dallo stomaco.
    Josephine era sdraiata poco dietro di me.
    «Tutto a posto?» gridai. Le orecchie mi ronzavano a causa dell’esplosione e sentivo a malapena la mia voce.
    Non sentii risposta e mi rialzai lentamente, per aiutarla.
    «Che diavolo hai fatto?» mi chiese, alzando la testa.  Il ronzio stava diminuendo.
    Le porsi una mano e l’aiutai a tirarsi su. «Non ne ho idea. Dev’essere l’energia latente che c’è in questo posto. Ha potenziato l’incantesimo.» risposi. Era l’unica spiegazione possibile, a meno che non fossi improvvisamente diventato un arcimago da guinness dei primati. Comunque non era certo il momento di applicarsi in teoria magica. Mi diressi verso il corridoio,  ma dalla scala apparve un altro gruppo di uomini.
    Estrassi la pistola e feci fuoco, prontamente imitato da Riccioli d’Oro. Non era il caso di usare la magia senza sapere bene come l’ambiente ne avrebbe modificato il comportamento. Il fuoco intenso tenne a bada i nemici, che tornarono indietro sulla scala. Quella via d’uscita era bloccata, a meno che non decidessimo di combattere a tutto quartiere, opzione che volevo evitare. Per quanto tempo avremmo potuto giocare a Dungeon & Dragons, prima che arrivasse il vero drago?
    «Dall’altra parte, Jo.» gridai. Premetti il tasto di rilascio del caricatore e inserii quello nuovo. «Speriamo che l’altra porta sia aperta.»
    La fortuna ricominciò ad aiutarci. Non solo la porta era aperta, ma portava a una scala a chiocciola che saliva. Tolsi l’MP5 dallo zaino e mi affacciai nella sala. Gli uomini, ne contai tre, si stavano avvicinando. Sparai un paio di raffiche per far capire loro che non era una buona idea muoversi allo scoperto e poi chiusi la porta. Posai la mano sulla serratura e cominciai a congiurare un incantesimo trappola, ma mi fermai. Non sapendo come avrebbe interagito con l’energia latente, era meglio non rischiare che mi scoppiasse in faccia.
    «Andiamo!» gridò Riccioli d’Oro, mentre cominciava a salire le scale.
    La seguii di corsa.
    La scala saliva e saliva senza interruzione. Avevo smesso da un pezzo di contare i gradini ma ero certo che avessimo superato già un paio dei livelli che avevamo attraversato prima. Ci volle un po’ perché arrivassimo a una botola sul soffitto.
    «È chiusa dall’altra parte.» disse Josephine, dopo aver provato a spingere.
    «Fammi passare.» replicai. «Ora provo col mio passepartout.»
    Posai una mano sulla botola accanto al punto in cui doveva trovarsi il passante dall’altra parte. Non ero certo di essere abbastanza lontano dalla zona di casino magico, ma dovevo comunque rischiare. Non potevamo tornare indietro e lo spazio era troppo stretto per rischiare di sparare alla serratura. “Neil McRoberts, ucciso da una pallottola di rimbalzo” non era il massimo come epitaffio.
    Rilasciai un po’ di energia e feci saltare la serratura. La botola rimbalzò per la piccola esplosione e ne approfittai per sfruttare il momento e aprirla con facilità.
    Salii e poi tesi una mano a Josephine. Ci trovavamo in una specie di magazzino illuminato da una lampada a fluorescenza. Da un lato c’erano delle botti di legno e più indietro, posate sul muro, parecchie scatole di cartone. Una scala portava a una porta. Stavo cominciando a odiare le scale, Glavcoso poteva pure “tecnologizzarsi” un poco e mettere qualche ascensore.
    «Dieci a uno che siamo nella taverna.» dissi.
    Uscimmo da quella che sembrava essere una cantina e ci trovammo, infatti, nel locale. Esattamente nel momento in cui entrammo, le luci si accesero e da una porta alla sinistra uscì un uomo. Era quello che avevo identificato come il proprietario. Vederlo così da vicino metteva in risalto quanto fosse alto: superava i due metri. Con due falcate si mise fra me e l’uscita.
    Feci un passo avanti con sicurezza, tenendo in bella mostra la mitraglietta. «Suvvia, amico, siamo di fretta.» dissi. «Fuori dalle palle.»
    Avanzai ancora, ma l’uomo non dava l’impressione di volersi spostare. I suoi occhi neri mi fissavano dall’alto in basso con disprezzo. Un brivido mi corse lungo la schiena. C’era qualcosa che non andava e ne ebbi la conferma quando mi mossi per spostarlo con una spallata, ma l’unico effetto fu un forte dolore all’articolazione, come se avessi provato a sfondare un muro.
    «Hai qualcosa di mio.» La sua voce era bassa e profonda, come se uscisse da una caverna.
    Sospirai. Eravamo nei guai. L’unica persona del paese che non avrei mai voluto incontrare e ci ero andato a sbattere addosso.
    Una sferzata di vento potentissima ci sollevò da terra e ci fece volare verso la vetrata dell’ingresso. L’impatto non fu dei migliori e caddi di peso sul marciapiede, accompagnato da una pioggia di vetro. Sentivo il sangue che mi scendeva sul viso e sulle braccia, ma non era importante. Dovevo alzarmi.
    «Forza, Neil!» gridò Josephine tirandomi su con forza. In mano aveva la sua bacchetta da direttore d’orchestra.
    «Il drago.» balbettai a stento, mentre una fitta di dolore mi face tremare. Esaminai le labbra e ci trovai un pezzo di vetro piantato. Lo rimossi, mentre guardavo imbambolato il barista che usciva dal locale con un fucile in mano. Mi guardai intorno alla ricerca della mia arma, ma non la vidi da nessuna parte.
    «Dai!»
    Josephine mi strattonò e cominciai a correre insieme a lei. L’importante era arrivare dall’altro lato della strada e scomparire nelle viuzze. Quando si fugge in un ambiente urbano, non è importante tanto la distanza in linea retta quanto il numero di angoli che si mettono fra se stessi e l’inseguitore.
    Ma chi stavo prendendo in giro. Ci stava inseguendo un dannato drago. Poteva volare. Poteva incendiare tutto il fottuto paesello e la foresta.
    Sentii il rumore dello sparo, prima che potessi pensare a proteggermi. Istintivamente chinai la testa, ma il proiettile mi perforò il polpaccio. Persi l’equilibrio e caddi malamente a terra. Provai ad attutire la caduta con le mani, ma ciò non fece altro che far scendere in profondità le schegge di vetro che avevo nei palmi. Mi voltai e vidi che Glavcoso teneva il fucile puntato contro Josephine, che lo fronteggiava di petto, con uno scudo magico davanti a lei. L’incantesimo di difesa sembrava una semisfera di cristallo che circondava la donna.  Poiché in genere non si spara ai polpacci della gente, supposi che ero stato preso da una pallottola di rimbalzo. Che fortuna.
    Riccioli d’Oro stava fronteggiando il drago, ma persino io, dalla mia precaria posizione, vedevo che tremava. Anche Glavcoso doveva essersene accorto perché rideva. Alzò il fucile - un vecchio Mosin-Nagant che probabilmente era stato usato durante la Grande Guerra Patriottica - e sparò ripetutamente contro lo scudo magico. La donna riuscì a mantenerlo attivo, ma cadde su un ginocchio per lo sforzo.
    Il dolore mi stava uccidendo e avevo difficoltà a concentrarmi, però mi ricordai che dovevo avere ancora la pistola infilata nei jeans. Rotolai di lato e la estrassi. Glavcoso era concentrato su Riccioli d’Oro e non mi stava considerando, per cui non mi fu difficile prendere la mira con calma e scaricare tutto il caricatore sul drago. Mi trovavo a una decina di metri da lui e della dozzina di proiettili che sparai solo un paio lo colpirono. Nemmeno l’impensierirono, ma lo distrassero abbastanza da permettere a Josephine di abbassare lo scudo e di attaccarlo con la bacchetta.
    Un’onda viola d’energia magica lo colpì in pieno petto e lo scaraventò nuovamente dentro l’edificio. Mi sollevai a fatica, reggendomi sulla gamba sana, evocai una palla di fuoco e la lanciai dentro il locale, le cui parti in legno s’incendiarono.
    «Dammi una mano.» gridai, mentre cercavo di allontanarmi zoppicando. Mi voltai per vedere se avesse sentito, ma vidi solamente un qualcosa sfrecciare fuori dall’edificio in fiamme, un qualcosa così veloce che non ne intuii nemmeno le fattezze. Mi colpì alla schiena e volai avanti, cadendo sul bordo del marciapiede e battendo  all’altezza delle ginocchia. Fu come se me le avessero allegramente prese a martellate.
    Sentii un urlo, poi diversi spari e infine un corpo che sbatteva sull’asfalto. Piegai di lato la testa e vidi Glavcoso che tirava Josephine per i suoi bei riccioli, portandola verso la taverna. Si era completamente disinteressato a me e probabilmente voleva aggiungere Josephine alla sua collezione. Magari pensava che avessi abbastanza ossa rotte da non potermi più alzare e che avrebbe recuperato l’uovo appena posata la donna.
    Si sbagliava. Con le ultime forze rimastemi mi alzai in piedi e inserii nella pistola l’ultimo caricatore rimastomi. Mi mossi verso Glavcoso in quella che era una via mezzo fra una corsa e una gara di salto su un piede, ma il drago era troppo pieno di sé per pensare che un misero umano potesse rialzarsi dopo che l’aveva colpito.
    «Ehi, lucertolone.» dissi, quando mi trovavo un passo dietro di lui.
    Glavcoso si girò e si trovò sul naso la canna della pistola.
    La testa dell’uomo rinculò brutalmente all’indietro, quando le pallottole gli sfondarono il cranio. Cadde a terra come un frutto maturo, ma continuai a sparare fino a quando il carrello dell’arma non rimase immobile, in attesa di un altro caricatore. Buttai la pistola e guardai la poltiglia che era rimasta al posto della faccia di Glavcoso.
    Avevo ucciso un drago? Era stato troppo facile. Comunque, non c’era tempo per pensare a quelle quisquilie, bisognava fuggire. Josephine era ridotta piuttosto male - aveva il naso rotto e un braccio le pendeva molle sul fianco - ma sembrava in grado di camminare, sicuramente molto meglio di me.
    Un rumore di motori riempi la notte. Mi voltai in direzione del suono e feci appena in tempo a vedere due SUV neri con le luci spente, prima qualcuno mi prendesse per il collo.
    «Mi hai fatto arrabbiare, insetto.» tuonò Glavcoso, muovendo il poco di mandibola che gli era rimasta.
    Mi scagliò a terra e si trasformò.
    Mi aspettavo una trasformazione stile Malefica della Bella Addormentata, invece fu una cosa netta, improvvisa. Prima c’era l’uomo con la faccia spappolata e un secondo dopo era apparso un colosso di scaglie e artigli, alto quanto un edificio di due piani. Ero scosso da un misto di terrore primordiale e ammirazione smisurata per quella creatura. Mi sollevai sui gomiti: tremavo incontrollabilmente e lo stomaco mi si era accartocciato. Piegai la testa e vomitai.
    Nonostante la paura però non potevo fare a meno di rimanere incantato davanti al drago. Le scaglie rosso sangue riflettevano cupamente la luce. Gli artigli, lunghi quando spade, erano tanto eleganti quanto letali. Lo schema delle scaglie e degli aculei sui possenti arti e sulla coda creava un disegno ipnotico da cui era difficile staccare gli occhi. Le ali erano estese al massimo e catturavano il minimo accenno di vento, gonfiandosi come degli spinnaker. Occhi di brace mi fissavano con odio e spregio.
    Un ruggito potente e rumoroso quanto la partenza di un razzo spaziale riverberò per tutto il paese e la foresta e capii di essere arrivato al capolinea. Per quanto potessi essere abile e forte al confronto di quell’essere ero un insetto, un brutto e goffo scarafaggio che andava schiacciato. Qualsiasi cosa avessi potuto lanciargli contro avrebbe avuto l’effetto di uno sputo su un carro armato. Notavo però dei rivoli di sangue scendere lungo il ventre molle, partendo da piccoli buchi che sembravano essere i fori d’ingresso di proiettili.
    Stava immobile erto sulle zampe posteriori, probabilmente gustando la paura che trasudavo. Glavcoso, anzi Glavnyognya - vista la mia posizione non avevo diritto di essere sarcastico né di insultare quell’essere maestoso - era però troppo arrogante e superbo. Perché perdere tempo con i cliché da boss finale di un videogioco, quando poteva farci fuori in mezzo secondo?
    Ok, avevo ripreso a insultarlo, ma quello che successe dopo mi diede ragione.
    Alla mia sinistra sentii dei tonfi sordi di proiettili che uscivano da dei lanciagranate e poi vidi i suddetti proiettili cadere ai piedi del drago. Mi sdraiai a terra a pancia in giù, sperando di non venire colpito dalle schegge. Al diavolo, me n’erano già capitate abbastanza e non volevo pure un green on blue - militarese per “colpito da fuoco amico” - o supposto tale. In quel momento chiunque stesse attaccando il drago era mio amico, il mio migliore amico.
    Mi coprii la testa con le braccia.
    Le granate esplosero facendo irritare il drago ancora più di quanto non lo fosse già. Subito dopo cominciarono le raffiche di armi pesanti. Erano attacchi ritmati, eseguiti da gente addestrata, non il suono continuo di un pivello che usava l’arma in modalità automatica e sparava come se stesse usando uno spruzzatore.
    Spostai un poco la testa. Il drago era poggiato su tutte e quattro le zampe e notai che una di quelle anteriori era completamente spappolata. I proiettili dei fucili lo colpivano sul muso e sul ventre, come uno sciame di vespe impazzite.
    Le raffiche s’interruppero all’improvviso e quattro lupi comparvero nel mio campo visivo e saltarono addosso al drago. Non erano lupi normali: erano grandi quasi quanto un cavallo e, soprattutto, i draghi non fanno parte della loro tipica dieta. Dovevano essere mannari del branco di Robert Von Kempf, per cui l’orchestra di fucili d’assalto e lanciagranate probabilmente era stata gentilmente offerta dalla signora Zimmermann.
    Era arrivata la cavalleria. Se avessi avuto un po’ di fiato mi sarei messo a fischiettare il Garry Owen.
    Glavcoso si dimenava follemente, cercando di scuotere via i lupi, aggrappati con zanne e artigli alle sue zampe, alla coda e alla schiena. Intanto le raffiche di mitra continuavano, dirette con precisione sul muso del drago, impedendogli di concentrarsi nell’attaccare i lupi.
    Mi guardai in giro e vidi Josephine, sdraiata a terra poco lontano da me. Strisciai verso di lei.
    «Tutto a posto?» domandai urlando per  superare il casino che ci circondava.
    La smorfia di dolore che si dipinse sul suo volto quando si voltò per guardarmi era una risposta fin troppo chiara.
    «Sono arrivati i rinforzi.» urlai per rassicurarla, poi mi concentrai nuovamente sull’azione.
    Il drago continuava a subire, ma non sembrava intenzionato ad arrendersi. Uno dei lupi era a terra in un pozza di sangue e con il ventre squarciato. Un altro era stato appena colpito da una sferzata della coda e si era spezzato in due come un ramoscello calpestato. Glavcoso non se la passava meglio. Giaceva poggiato su un fianco, in un lago di sangue. Una seconda zampa era fuori uso, un occhio era chiuso e il ventre era crivellato dai proiettili.
    Non avevo idea di come funzionasse il metabolismo di un drago, per cui non sapevo se erano ferite pericolose oppure se il suo fattore di rigenerazione gli avesse permesso di curarsi in poco tempo. Ci voleva qualcosa di più incisivo che lo mettesse fuori combattimento per abbastanza tempo da poter fuggire.
    Mi accorsi che una piccola fiammella azzurra guizzava fuori da un taglio al centro della pancia e mi tornarono in mente le parole di Josephine di qualche giorno prima: forse avevo modo di aiutare la cavalleria.
    Controllai la gamba a cui ero stato colpito. La pallottola aveva trapassato il polpaccio, ma fortunatamente non aveva colpito né le ossa né un’arteria. Nonostante il dolore mi stesse facendo impazzire non ero in pericolo di vita.
    Almeno per ora, dato che ciò che avevo in mente di fare poteva tranquillamente farmi guadagnare un Darwin Award.
    Mi sollevai su un ginocchio, pronto a scattare come un centometrista. Tirai un paio di respiri profondi, riempiendomi i polmoni d’ossigeno, e scattai. A essere pignoli non fu proprio uno scatto. Zoppicavo tirandomi dietro la gamba ferita e stavo accucciato per evitare  il fuoco amico. Arrivato accanto al ventre del drago mi gettai a terra e cominciai a strisciare mezzo immerso nel sangue del mostro. Se in quel momento Glavcoso si fosse sdraiato mi avrebbe trasformato in una frittata. Arrivai all’altezza della fiammella blu che avevo visto prima e mi fermai. Usciva da uno squarcio nel ventre di almeno mezzo metro.
    Josephine aveva detto che i draghi sputavano fuoco utilizzando metano prodotto dalla digestione. Probabilmente lo immagazzinavano in qualche organo particolare, per poi utilizzarlo quando dovevano accendersi un sigaro o preparare un barbecue. O dar fuoco a un mago rompiscatole. La fiammella blu era chiaramente una perdita di gas che aveva preso fuoco e il metano produce una fiamma di quel colore.
    Allargai lo squarcio e guardai dentro. Non m’intendo di anatomia umana, figurarsi se potevo capire qualcosa dell’interiora di un drago. C’era roba rossastra e bianca, che poteva essere tessuto muscolare come una roba strana esclusiva di quei lucertoloni.  L’unica cosa che capivo, e che m’interessava, era il foro di proiettile da cui usciva il gas. Evocai un piccolo scudo magico per tappare la perdita e quando la fiamma si dissipò lo disattivai. Essendo il metano inodore, l’unico indizio della fuoriuscita era il leggero vibrare delle labbra della ferita.
    Frugai nelle tasche ed estrassi il Leatherman. Allargai al massimo la pinza e poi estrassi tutti gli utensili da entrambi i lati. Non era perfettamente dritto, ma lo era abbastanza da sembrare un’antenna. Lo piantai nella ferita in modo che rimanesse circa perpendicolare al terreno e non si muovesse troppo, poi mi allontanai saltellando su una gamba, in direzione di Josephine. La presi per un braccio e la costrinsi ad alzarsi e ad allontanarsi con me, verso l’altro lato della strada. Arrivati, la feci sdraiare e le ordinai di stare così fino a nuova comunicazione.
    Intanto la battaglia continuava: i lupi continuavano imperterriti a saltare sul drago, mentre gli uomini armati continuavano a sparargli in testa. Nessuno dei due attacchi, però sembrava riuscire a mettere a segno un colpo decisivo.
    Dal punto in cui mi trovavo il Leatherman-antenna, che usciva per qualche centimetro dalla ferita, era un puntolino metallico e difficilmente lo vedevo nonostante la luce dei fari dei SUV che illuminavano il drago. Comunque l’importante era che mi ricordassi la sua generica posizione, al resto ci avrebbero pensato le leggi dell’elettromagnetismo.
    Mi concentrai cercando d’ignorare il dolore. Avevo bisogno di tutta l’energia possibile per congiurare l’incantesimo che avevo in mente. Tenendomi su un ginocchio e una mano, allungai l’altra in direzione del coltello multiuso, mentre raccoglievo l’energia magica sulla punta delle dita. Sudore misto a sangue mi colava sugli occhi, ma non potevo far nulla per alleviare il fastidio, perché avevo paura che qualsiasi movimento avrebbe distrutto la concentrazione e dunque il flusso di energia.
    Iniziai a tremare a causa della posizione scomoda in cui mi trovavo.
    L’incantesimo che volevo evocare era abbastanza difficile di suo, farlo in quelle condizioni di caos sarebbe stata un’impresa memorabile, ammesso che fossi sopravvissuto. Quando fui abbastanza sicuro di aver incanalato abbastanza energia verso il Leatherman, esclamai la parola di comando e l’incantesimo partì.
    Successe tutto così velocemente che registrai a malapena il risultato della mia azione.
    L’arco elettrico che avevo generato  ronzò e vibrò nell’aria fondendo il coltello-antenna e generando la scintilla che fece esplodere la bombola di gas nel corpo del drago.
    Feci appena in tempo a sollevare il braccio davanti al volto che detriti e sangue mi colpirono. Barcollai e finii a terra di peso. Un ruggito carico di rabbia e sofferenza mi scosse i timpani e fui costretto a coprirmi le orecchie. Alzai lo sguardo e vidi Glavcoso che si sollevava a fatica, appoggiandosi su un edificio. Nella parte centrale del ventre c’era un cratere e gli organi interni erano scoperti. Il drago ruggì una seconda volta, poi spalancò le ali e spiccò il volo, allontanandosi barcollante.
    Mi misi a ridere, o almeno ci provai perché avevo esaurito le forze. Il dolore che prima pulsava come non mai era diventato come un flebile rumore di fondo che faticavo a sentire. Il respiro era veloce e incostante e tremavo come se mi trovassi nudo al Polo Nord. Avevo appena sconfitto un drago, ma non avrei potuto vantarmene con nessuno.
    Ero ormai certo che quello fosse stato il mio ultimo incantesimo quando sentii due mani prendermi per i fianchi e tirarmi su. Qualcuno mi sollevò e mi buttò sulla sua spalla, caricandomi di peso. Alla mia sinistra potevo vedere che un uomo, vestito con un’uniforme nera e un passamontagna, aveva fatto lo stesso con Josephine.
    Ci trasportarono fino ai SUV e ci caricarono sul sedile posteriori. All’interno c’era abbastanza spazio per cinque persone armate di tutto punto.  Sembrava una dannata squadra anti-terrorismo dell’esercito.
    «I miei complimenti, Neil.» disse una voce femminile. Un volto scuro rigato dal sudore faceva capolino fra i sedili anteriori.«Pensavo fossi un bluff. Tutto fumo e niente arrosto, invece… »
    Il SUV partì. Mi focalizzai su quel viso ma avevo difficoltà a tenere gli occhi aperti. Due occhi grigi spuntavano da una faccia sporca di polvere e sangue.  «Grazie, Yelena.» biascicai.
    Uno degli uomini mi stava prestando il primo soccorso, fasciandomi la ferita al polpaccio.
    Con un ultimo sforzo prima di perdere i sensi portai una mano verso la tasca inferiore dello zaino e sentii l’energia magica dell’uovo. Sorrisi con soddisfazione e chiusi gli occhi.

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


Mi risvegliai in un letto d’ospedale.
    Avevo una gamba ingessata in trazione, un tubo attaccato al braccio e bende a non finire. Mi toccai il volto e ci trovai altre bende, che mi coprivano quasi interamente, a eccezione di occhi, naso e bocca. Mi sentivo tranquillo e rilassato, come se fossi sdraiato su un letto di piume. Evidentemente il tubo mi stava passando roba buona.
    Un forte odore di disinfettante aleggiava tutt’intorno e da un televisore in un angolo provenivano dei suoni. Mi ci volle uno sforzo non indifferente per trasformarli in parole di senso compiuto. Lo schermo mostrava una veduta area di un bosco e immagini di fuoco e fiamme, mentre una voce femminile diceva qualcosa circa il più grande incendio del secolo.
    Ero troppo fatto di antidolorifici per ragionare decentemente, per cui chiusi gli occhi e pensai a una spiaggia bianca e immacolata e a una signorina in bikini che mi correva incontro. Mi addormentai prima che arrivasse abbastanza vicino da slacciarle il pezzo superiore del costume.

    Stavolta fui svegliato da un’infermiera.
    «Buongiorno, signorina.» salutai, cercando senza successo di risultare allegro. «Potrei aver un bicchiere di whisky?»
    L’infermeria sorrise, ma scosse la testa. «Whisky e antidolorifici non sono un gran cocktail.»
    «Non me l’hanno fatto portare, Neil, mi spiace.» aggiunse un’altra voce.
    Mi girai verso  i piedi del letto e mi accorsi che c’erano visite. Riconobbi subito l’inconfondibile figurina da ginnasta prosperosa e i capelli raccolti in una coda di cavallo.
    «Chiara!» esclamai col massimo entusiasmo che la morfina mi permetteva.
    «Hai rispettato la tua parte d’accordo e noi rispettiamo la nostra.» disse Greta Zimmermann.
    «Hai fatto il tuo, ma non senza combinare un finimondo, come al solito. Sei un dannato folle!» aggiunse Robert Von Kempf sorridendo.
    Dietro di loro, appoggiati accanto alla porta, c’era un ragazzo con lunghi capelli biondi e Yelena, che sorrise e mi salutò con un cenno del capo.
    «Combinato un finimondo?» ripetei. Ricordavo a malapena cosa era successo la scorsa notte - o erano passati più giorni? Non ne avevo idea. Mi ricordavo solamente quel dannato drago e poi sparatorie, lupi ed esplosioni.
    «Dopo che l’hai mutilato, Glavnyognya è volato via e ha cominciato a devastare la foresta come un forsennato. Sono scoppiati diversi focolai e la Foresta Nera ha subito il più grande incendio registrato nella sua storia.»
    Pian piano riconnessi i pezzi del puzzle. Avevo fatto esplodere un pezzo del drago e l’avevo fatto fuggire. «Potete chiamarmi Neil McRoberts, Flagello dei Draghi.»
    «Fossi in te non me ne vanterei più di tanto.» disse Greta. «Quando l’abbiamo incontrato per definire i nuovi dettagli della nostra convivenza, ci ha offerto non poco per la testa di chi ha rapito il suo erede.»
    «Il fatto che io sia ancora vivo e in buona, quasi buona, salute mi fa pensare che non abbiate accettato.»
    «Pensi bene. Inoltre, visto l’ottimo lavoro, ho versato sul tuo conto ventimila euro.»
    «Come…»
    «Ci ho pensato io.» m’interruppe Chiara, immaginando la mia preoccupazione riguardo le mie coordinate bancarie.
    «Spero che questo possa essere l’inizio di una fruttuosa collaborazione fra noi.» aggiunse la vampira.
    «A meno che non mi chiediate qualche altra cosa assurda, che so, evocare un Antico o diventare un Cavaliere della Tavola Rotonda.» Sorrisi.
    «Spero proprio di no.» replicò Robert, scuotendo la testa. «Ora, però, ti lasciamo riposare.»
    «Te lo sei meritato.» aggiunse Greta.
    Onestamente in quel momento avrei preferito faticare in una cava di pietra ma senza fratture e tubi nel corpo, piuttosto che stare immobile a letto conciato come una mummia, ma evitai di dirlo.
    I due si allontanarono verso la porta, mentre Chiara si avvicinò e mi baciò sulla fronte. «Quando sarai più in forma, mi racconterai tutto davanti a una pizza.»
    «Certamente.» risposi.
    Anche lei fece per uscire, poi la chiamai e si fermò.
    «Potresti dire a Yelena, la guardia del corpo di Greta, di venire qua? Vorrei scambiare due parole con lei.»
    La fata annuì e uscì di corsa.
    Dopo un paio di minuti, la porta si aprì nuovamente e Zuccherino entrò. Si avvicinò al letto e mi guardò, curiosa. «Sì?» disse.
    «Josephine?» domandai. «È fuggita?»
    Yelena spalancò gli occhi e mi guardò in tralice. «Come fai a saperlo?»
    «Magia.» replicai.
    «È sparita ieri notte e non sappiamo dove sia andata. L’appartamento è vuoto, la sua moto è ancora a casa mia.»
    «Ieri notte? Quanti giorni sono passati?»
    «Tre giorni dalla tua bravata contro Glavnyognya. Josephine era messa molto meglio di te. Tanto sangue, ma nessuna ferita grave, a parte il naso rotto e una brutta botta al braccio destro. Non è nemmeno venuta in ospedale.»
    «E il suo zaino? L’avete controllato?»
    Scosse la testa. «L’ha sempre tenuto lei e quando ti abbiamo portato in ospedale lei è tornata a casa. Poi non l’abbiamo più vista.»
    Annuii. Riccioli d’Oro aveva completato la sua agenda personale e non aveva più bisogno di lavorare per Greta Zimmermann. «Da quanto tempo stava con voi?»
    «Quasi quattro anni.»
    Fischiai. O almeno ci provai, con tutti quei bendaggi non era facile. «Ha avuto pazienza.»
    «Che intendi dire?» replicò, guardandomi storto. «Ci ha imbrogliato in qualche maniera?»
    «Sapeva del drago?»
    «Ovviamente. È stato uno dei motivi principali per cui l’abbiamo assunta. Non si trova molta gente esperta del campo.»
    «Capisco. Nella tana del drago credo abbia preso un qualche artefatto magico. L’ufficio di Glavcoso era pieno di oggetti di un certo valore. Non appena siamo entrati si è subito fiondata alla ricerca di qualcosa. All’inizio pensavo cercasse l’uovo, ma dopo qualche minuto, mentre riflettevo su dove potesse essere il nostro obiettivo, l’ho vista rimestare nello zaino e poi si è fermata, lasciando a me l’onore di trovare il sasso. L’atteggiamento mi aveva insospettito e mi ero ripromesso d’indagare, però… beh… c’è stato qualche contrattempo e l’ho persa di vista.»
    Sorrise. «Ci ha usato.» Sollevò le spalle. «Riferirò a Greta, ma non credo farà nulla. Alla fin fine non è che abbia fatto nulla di male nei nostri riguardi.»
    «Oltre a usarvi  per i propri scopi? Comunque, conosci un gruppo di streghe che si fa chiamare i Quattro Fiori?»
    «No.»
    «Credo che Riccioli d’Oro ne faccia parte e abbia fatto tutto questo per loro.»
    Yelena fece spallucce. Non sembrava molto interessata. Estrasse dalla giacca una penna e scrisse qualcosa sul gesso della gamba. «È la mia e-mail. Contattami se ti capita qualche lavoro interessante e hai bisogno di una mano.»
    Annuii. «Magari potrei invitarti a cena, in caso ripassi da queste parti.»
    La donna ridacchiò, ma non rispose nel merito. «Ti suggerisco di rimanere lontano da qua, magari pure dall’Europa, per un po’ di tempo. I draghi non dimenticano mai.»
    «Non erano gli elefanti?»
    Sorrise nuovamente. «Ti saluto, Neil McRoberts. Mi piacerebbe restare a chiacchierare con un uomo così simpatico, ma in realtà non ho tempo da sprecare in stupidaggini.» Mi salutò agitando una mano e uscì.
    Mi addormentai domandandomi se avesse o no accettato l’invito.

    Il noioso quattro quarti dance della musica del locale arrivava attutito all’interno del privè. Avrei preferito di gran lunga un bel swing d’atmosfera, ma non si può avere tutto dalla vita. In quel caso, Tammy che mi ballava davanti non me lo faceva rimpiangere. Sorseggiai un po’ di scotch, mi accomodai per bene sul divanetto e stirai le braccia prima di metterle dietro la testa e gustarmi in pace la lap dance.
    Erano passati circa sette mesi dal mio piccolo diverbio in Germania. Dopo due settimane di riabilitazione a Friburgo, ero tornato in Sardegna in compagnia di Chiara. Mi aveva assicurato che non era mai stata prigioniera nel vero senso del termine. Robert le aveva spiegato la situazione e l’aveva trattata come un’ospite. Con l’arrivo dei primi giorni freddi, avevo deciso di svernare in Nuova Zelanda, approfittando dell’occasione per visitare dei vecchi amici. Infine, con l’arrivo della primavera, avevo seguito gli animali migratori e mi ero trasferito nell’emisfero boreale, precisamente a Las Vegas.
    In quel momento mi trovavo nel mio “gentlemen’s club” preferito in compagnia della mia ballerina preferita. Tammy era una di quelle particolari bellezze esotiche americane, con nonni giapponesi, navajo e ungheresi. Aveva lunghi capelli neri che coprivano i tatuaggi che aveva sulla schiena, grandi occhi azzurri e tratti tipici dell’Europa orientale che si miscelavano perfettamente con la carnagione bronzea dei nativi americani. A differenza di tante altre sue colleghe non lo faceva per pagarsi il college o perché non aveva nessun altro talento. La sua era una passione e soprattutto considerava il ballo come una specie di allenamento per il suo vero lavoro. Il nonno navajo era un Hatalii, un medicine-man, e le aveva tramandato tutta la sua conoscenza. L’avevo conosciuta durante un lavoretto qua in Nevada, in cui, seguendo piste differenti, ci eravamo imbattuti in uno skinwalker. Poi una cosa tira l’altra… ma questa è un’altra storia.
    Smise di ballare e si sedette sulle mie gambe.
    «Dunque hai ucciso un drago?» domandò, passandomi un braccio intorno al collo.
    «Più o meno.» Non le avevo raccontato tutto nei minimi particolari. Non aveva bisogno di sapere che il drago non era propriamente morto e che io ero quasi rimasto ucciso.
    «Ma che bravo. Meriti una ricompensa.» Cominciò a baciarmi sul collo e a sbottonarmi la camicia.
    «Ehi, calma! Non è contro le regole del locale?»
    Non rispose e continuò a baciarmi, scendendo sul petto. Chiusi gli occhi e mi rilassai, lasciando che lei facesse tutto. La sentii alzarsi e mi sbottonò completamente la camicia. Le sue mani cominciarono a massaggiarmi lungo tutto il petto e poi si aggrapparono alla cintura.
    Miao.
    Avevo appena sentito un miagolio?
    Miao.
    Diamine, non adesso. Non lui.
    Miao.
    Aprii gli occhi e dietro la piacevole visione di Tammy, immobile nell’atto di togliermi la cintura, c’era un gatto nero.  Un grosso gatto nero con una macchia bianca sul petto.
    Era proprio lui.
    «Che succede?» chiese Tammy, alternando lo sguardo fra me e il gatto, che era appena salito sul tavolino su cui era posata la bottiglia di scotch e il mio bicchiere.
    «Salve, Seamus.» borbottai, mentre riabbottonavo la camicia. «È sempre un piacere.»
    «Ho interrotto qualcosa?» replicò il gatto, dopo aver leccato un po’ del contenuto del bicchiere.
    «Sì, l’hai fatto.»
    Tammy si alzò in piedi. «Forse è meglio che vada, Neil.»
    Annuii. «Scusami, questioni di lavoro.» Mi baciò con abbastanza sensualità da ricordarmi cosa mi stavo perdendo.
    «Chi ti dice che sia lavoro?» disse il gatto. «Potrebbe essere una visita di cortesia.»
    Borbottai un’imprecazione a denti stretti, mentre guardavo i miei dieci minuti di settimo cielo che andavano via ancheggiando. «Una visita di cortesia?» dissi, quando la donna fu uscita. «Tu, il Machiavelli dei sidhe? Non farmi ridere.»
    In tutta risposta spinse con una zampa la bottiglia di scotch, che si ribaltò e versò a terra il suo contenuto che si distribuì in una piccola pozzanghera. «In parte sì, è una visita di cortesia. Guarda qua.» Indicò il whisky a terra.
    Il liquido ambrato vorticò lentamente per qualche secondo, poi tornò immobile e vi era riflessa un’immagine differente dalla mia faccia incuriosita e dal soffitto della stanza.
    Nella pozza di whisky si vedeva una stanza poco illuminata e  quattro persone; riconobbi Greta e Robert. Gli altri due non li avevo mai visti prima, ma erano abbastanza curiosi. Il primo, seduto su una poltrona, era pallido come la morte, aveva una grossa cicatrice lungo tutto il collo ed era vestito come se fosse uscito da una racconto di P.G. Wodehouse. L’altro, in piedi dietro di lui,  invece sembrava uno Spettro dell’Anello. Indossava una lunga vesta nera e il cappuccio alzato sul volto non nascondeva la lunga barba dello stesso colore. Li vedevo parlare, ma evidentemente il whisky-screen non disponeva dell’audio per cui non sentii nulla. Infine Robert tolse qualcosa dalla tasca e la lanciò verso Bertie Wooster, che l’acchiappò al volo. La guardò con occhio critico e poi sorrise soddisfatto.
    Era l’uovo del drago.
    L’immagine svanì e mi voltai verso Seamus.  «Che diavolo  significa?» domandai.
    «Nulla di che. Volevo giusto mostrarti per chi hai lavorato in Germania.»
    «Per Bertie Wooster? Quel residuato dei ruggenti anni venti?»
    «Non so chi sia Bertie Wooster, ma sì, hai lavorato per quel tizio.»
    «Perché dovrebbe importarmene?»
    «Perché è un nosferatu.»
    Rimasi a bocca aperta per lo stupore. Un nosferatu. Nessuno voleva avere a che fare con quei mostri. «Vabbe’, ho fatto bene il mio lavoro. Perché dovrei preoccuparmi?»
    «Non lo so, non ho nemmeno detto che debba preoccuparti.» rispose Seamus. Scodinzolò un poco e in men che non si dica si aprì un Portale. «Era giusto per farti un favore. Ora seguimi, c’è del lavoro importante da fare.»
    Guardai il Portale ad altezza di gatto e mi schiarii la voce.
    «Oh, scusami. Dimentico sempre che voi umani siete troppo altezzosi per camminare a quattro zampe.» Il Portale si allargò fino a diventare delle dimensioni di una normale porta. Dall’altra parte si vedevano montagne verdi e un cielo coperto da nuvole cariche di pioggia.
    Seamus attraversò il Portale e mi affrettai a seguirlo.
    Era sempre un piacere tornare in Scozia.

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