Wherever you are

di CowgirlSara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


WYA - 1
Dopo anni – sì, anni – che questa ff candisce nel mio pc, mi sono decisa a cominciare a postarla. Visto che è praticamente finita, mi sembrava giusto smetterla di stare a pensarci e passare all’azione.
Parla dei giorni immediatamente successivi alla battaglia del Dodici Case e quindi dei sentimenti causati dalle perdite subite. Ritroverete alcuni dei miei personaggi originali, che chi ha letto altre mie storie conosce ormai bene, ma non è necessario averle lette, perché tanto io mi ripeto sempre XD
Che altro, dire, spero che la storia vi piaccia e che siate così magnanimi da lasciare traccia del vostro passaggio.

I personaggi di Saint Seiya appartengono ai loro legittimi autori, non sono usati a scopo di lucro e questa storia è frutto della mia fantasia. Le canzoni usate in introduzione dei capitoli saranno creditate di volta in volta e sempre correlate al contenuto del capitolo.

Buona lettura!
Sara

- Capitolo 1 -

Se per qualcuno è calato il sipario
E la vita ha detto di no,
Il ricordo consola il mio tempo,
Proprio adesso che tempo non ho...
(L’Eredità – Nomadi)

La pace era una sensazione stranissima. Era un qualcosa di bellissimo e fragile che ricopriva tutto come una coltre di brina. Sì, una specie di mattina invernale. Solo che adesso era estate e le battaglie, le perdite, i peccati, i sogni infranti erano veri. Il dolore era reale, ma era come se contasse e pesasse meno di quella pace finalmente raggiunta.
Milo saliva le scale del Santuario in mezzo alla devastazione, ma sapeva che ora tutto sarebbe stato ricostruito. Gli sbagli erano stati pagati. Le colpe riscattate. Adesso, ogni cosa sarebbe rinata nelle mani di Atena, sopravvissuti compresi.
Una cicatrice, in fondo, era il segno che una ferita stava guarendo, anche se non era facile pensarlo davanti alla vuota e gelida eleganza della casa di Acquarius, ormai mancante del suo custode.
Milo ancora si chiedeva quale fosse l’errore che aveva portato alla sconfitta il suo più caro amico. Eccessiva fiducia in sé? Forse. Sottovalutazione del nemico? Ci era cascato anche lui con Hyoga. Quello più fatale? Essere stato un maestro tanto bravo da aver creato un cavaliere più forte di lui.
La risposta a quelle domande non avrebbe comunque alleviato la sofferenza di aver perso un fratello; c’era una smorfia amara sul bel viso del cavaliere di Scorpio, mentre passava accanto alle candide colonne dell'undicesima casa.
Il ghiaccio non si era ancora sciolto del tutto; non era bastata tutta la notte e parte del giorno successivo, ad avere ragione della vampata gloriosa e inesorabile di due signori del gelo. Il corpo di Camus era stato portato nella cripta, ma era come se il suo spirito aleggiasse ancora tra quelle mura. Milo non ebbe il coraggio di entrare e proseguì verso il Tempio.

Qualche ora prima gli altri cavalieri d’oro rimasti, mentre ancora Saori, Seiya e gli altri riposavano, avevano messo su una specie di assurda assemblea permanente, come se le decisioni dovessero essere prese per forza nelle successive ventiquattro ore. Dopo un tedio durato per un tempo approssimativamente infinito, Scorpio era stato preso da lancinanti dolori un po’ dappertutto; si sentiva come se avesse degli spilloni infilati nei punti colpiti durante la battaglia contro Cigno ed avvertì l’immediata necessità di togliersi l’armatura.
Con un sofferto: “Basta, non ce la faccio più” aveva abbandonato la riunione, sotto gli sguardi malevoli di Mu e Aldebaran e le proteste non tanto velate di Ioria.
Era tornato all’ottava casa e per prima cosa si era liberato delle vestigia ancora incrostate col sangue di Hyoga, poi s’era tolto tutto il resto e gettato nudo sul letto. Il sonno era stato immediato e profondo, al risveglio l’orologio segnava le tre del pomeriggio. Aveva impiegato il tempo successivo per ripulire l’armatura, quindi farsi una lunga doccia.
Alle cinque e qualche minuto, con addosso una maglia porpora senza maniche, un paio di jeans sdruciti e le infradito, i capelli ancora umidi, si era avviato per tornare dai compagni.
Adesso, che era arrivato in cima, si trovava davanti lo sguardo accusatorio di Ioria, che lo fissava torvo, a braccia conserte.
“Che significa?” Domandò il cavaliere di Leo, indicando con un cenno del capo l’abbigliamento del compagno. “È in corso un’assemblea dei Cavalieri e…”
“Senti.” L’interruppe Milo. “Questa assemblea si può fare tranquillamente in abiti civili, avevo l’armatura addosso da quasi due giorni, ero pieno di dolori e stanco, perché se non l’hai capito, qui qualcuno ha combattuto.” Affermò provocatorio.
“Finché non sarà cessato l’allarme…”
“Ma quale allarme del cazzo!” Sbottò Scorpio. “Saga è stato sconfitto, Atena è salva, mi spieghi di quale allarme parli?”
“La smetti d’interrompermi?!” Replicò Leo, brandendo l’indice. “In questo specifico momento, mentre Atena riposa, la responsabilità della sicurezza del Santuario ricade su noi Cavalieri d’Oro, quindi sei pregato di tenere un atteggiamento degno… e d’indossare l’armatura!”
I due cavalieri si fissavano negl’occhi lanciando lampi pericolosi, serissimo Ioria, beffardo Milo; Unicorno e Kiki, che li stavano osservando, erano perplessi.
“Guarda, non me la rimetto neanche se crepi.” Ribatté provocatorio Scorpio. “Non c’è pericolo, tu sei paranoico, Ioria.” Aggiunse scuotendo il capo.
“E tu sei un gran paraculo, lascia che te lo dica.” Dichiarò l’altro, impassibile. “Non puoi pensare sempre di risolvere le cose con un sorrisetto e due paroline simpatiche.”
“Ma che cosa c’è da risolvere!” Esclamò lui allargando le braccia. “Adesso va tutto bene e non ci corre dietro nessuno!”
“Uhm, certo che questi due non vanno molto d’accordo…” Commentò Kiki rivolto a Jabu.
“Non credevo ci fossero queste lotte intestine tra i Cavalieri d’Oro…” Replicò lui, meritandosi un’occhiata seccatissima di Milo e una cupissima di Ioria.
“Adesso basta.” Ordinò pacatamente una dolce voce alle loro spalle; tutti si voltarono e videro Saori. La ragazza sorrise e si avvicinò.
“Mia Signora.” Proclamarono all’unisono Scorpio e Leo, inginocchiandosi.
“No, vi prego, alzatevi.” Li supplicò lei; i due giovani ubbidirono vagamente imbarazzati. “Non è necessario discutere, sapete?” Riprese quindi la ragazza. “Avete ragione entrambi: Ioria quando parla di responsabilità e Milo quando dice che non c’è pericolo.”
I due cavalieri si scambiarono un’occhiata; Scorpio sorrise soddisfatto ottenendo per risposta una specie di grugnito.
“Sono state ore interminabili, quelle che abbiamo appena passato, tutti necessitiamo di riposo.” Continuò tranquilla Saori. “Penseremo a quel che c’è da fare più tardi, adesso siete liberi da impegno, se avrò bisogno di voi lo saprete.” Concluse  la frase guardando negl’occhi prima Ioria e poi Milo e loro capirono che la volontà di Atena li avrebbe comunque raggiunti.
I caldi occhi neri di Saori comunicavano una grande pace, ma, allo stesso tempo, un’enorme forza; la fanciulla prese loro le mani, trasmettendogli il calore del suo cosmo ed i cavalieri non poterono fare altro che sorriderle e sottostare al suo volere. Quando li lasciò si sentirono come smarriti, ma non fu per questo che Milo la richiamò, prima che si allontanasse.
“Mia signora.” Le disse il ragazzo, allungando timidamente una mano verso di lei; Saori si voltò sorridendo.
“Dimmi, Cavaliere.” L’incitò.
“Vorrei chiedervi il permesso di assentarmi dal Santuario.” Affermò Milo.
“Ma…” Fece per intervenire Ioria, bloccato subito da un cenno della mano di Saori.
“Qual è il motivo che ti spinge, Cavaliere, se posso chiederlo?” L’interrogò lei, più spinta dalla curiosità che dalla prudenza.
Milo abbassò gli occhi, la sua espressione si fece seria. “C’è qualcuno, ad Atene… che andrebbe informato della scomparsa di Camus dell’Acquario…” Rispose infine, tornando a guardarla negl’occhi.
A Saori non sfuggì il moto di sorpresa di Ioria e la sua espressione che, subito dopo, si era contratta, pietrificandosi mentre fissava il vuoto. Sapeva certo di chi stavano parlando. La ragazza tornò a guardare Scorpio, il suo viso triste, i begl’occhi quasi velati.
“Aveva dei parenti? Non credevo…” Replicò quindi.
Milo si grattò la fronte imbarazzato. “Non si tratta proprio di un parente…” Mormorò. “Ma certo di una persona cui era molto legato, e credo sia mio dovere, come suo amico, portare la notizia.”
“Lo saprà già.” Intervenne Ioria, sorprendendoli entrambi.
“Non ne dubito.” Affermò Milo rivolto a lui, poi tornò a guardare Saori. “Ad ogni modo penso che manifestare il mio cordoglio personalmente sia diverso.”
“È un nobile intento, il tuo, Cavaliere.” Gli disse la dea. “Ti concedo il mio permesso.” Annunciò poi; Milo, entusiasta, dopo un veloce inchino, si allontanò in fretta.  
“Mia Signora.” Il tono della voce di Ioria, però, bloccò i passi del cavaliere di Scorpio e lo costrinse a voltarsi verso gli altri due. “Vorrei accompagnare Milo, se mi è concesso.” Chiese Leo.
“Che cosa…” Sbottò l’altro, posandosi le mani sui fianchi.
“Eri anche tu amico di Acquarius?” Gli domandò sorpresa la ragazza.
Ioria si grattò la nuca, si sentiva molto a disagio. “In tutta sincerità… non posso dire che fossimo amici…” Milo fece un sorrisino sardonico a quelle parole. “…ma conosco questa persona di cui si parla e… devo chiederle perdono.”
Saori lo fissò per un lungo attimo negl’occhi color smeraldo e vide la sua sincerità, anche se non ne conosceva il motivo; poi guardò Milo, che non sembrava propriamente entusiasta.
“Andate.” Concesse loro infine, tornando a girarsi verso Ioria, quindi lasciò la sala, seguita da Kiki e Jabu.
I due cavalieri erano rimasti immobili, a fissarsi nella penombra dell’atrio. Entrambi avevano buoni motivi per fare quel viaggio, e lo sapevano. Milo fu il primo a girare le spalle e incamminarsi verso l’uscita.
“Mi devo cambiare.” Gli disse Leo.
“Fai pure.” Ribatté noncurante l’altro. “Ci vediamo tra un po’ in garage.” E salutandolo con la mano uscì.

Scorpio, questa volta, entrò nella casa di Acquarius. Sapeva di ubbidire ad una necessità puramente materiale, ma si sentiva in diritto di farlo.
Il salone principale era rischiarato dalla luce proveniente dall’esterno ed era ancora lastricato da un sottile velo di ghiaccio che si stava sciogliendo con lentezza. Il pavimento era scivoloso. Il pattinaggio artistico non era mai stato il suo sport preferito.
Milo arrancò di colonna in colonna, rischiando un paio di volte una umiliante caduta di sedere, fino a raggiungere le scale interne che portavano al piano superiore. Anche quelle erano ghiacciate.
Il ragazzo si fermò in fondo alla rampa, era sudato e arrabbiato. E aveva freddo ai piedi. Certo, sapeva che le sue infradito tipo spiaggia di Ipanema non erano le calzature più adatte ad affrontare i ghiacci eterni, ma non aveva tempo da perdere per andare a mettersi le scarpe. Si aggrappò saldamente alla ringhiera gelida e cominciò a salire.
Nella vita ci sono le centinaia di volte in cui cadi e ti rialzi, spolveri i vestiti e via, riparti. Verità valida specialmente per un cavaliere. E poi ci sono quelle volte in cui cadi, e basta.
Milo scivolò a circa metà della rampa. Le sue mani intorpidite non ce la fecero a reggerlo e si ritrovò steso a faccia in giù sulle scale. Rimase lì, immobile, almeno finché non fu scosso dai singhiozzi; poi cominciò a battere un pugno contro la superficie di marmo, resa ancora più lucida dal ghiaccio che si scioglieva.
“Camus, maledizione!” Imprecò, con il viso soffocato in un braccio. “Brutta testa di legno!” Il dolore e la rabbia, trattenuti per ore dalla dignità e dall’orgoglio, erano esplosi all’improvviso, su quelle scale umide e fredde. “Come hai potuto lasciarci così… come…”
Il cavaliere, dopo qualche minuto d’imprecazioni e lacrime, con i vestiti ormai mezzi zuppi, si voltò sospirando e asciugò il viso alla belle e meglio, respirò profondamente, quindi si alzò. Era inutile stare a piangersi addosso. “Non è da Cavaliere.” Avrebbe detto Camus. Milo, adesso, avrebbe fatto una cosa da cavaliere. Concentrò la sua energia ed espanse il cosmo, caldo come le sabbie del deserto; il ghiaccio sulle scale si sciolse in breve con una colata fumante.
Soddisfatto, il giovane salì nelle stanze al piano superiore e prese quello per cui era venuto. E poi andò a mettersi le sue vecchie scarpe da ginnastica.

Trovò Ioria che lo aspettava nel garage guardandosi intorno vagamente spaesato. Non doveva esserci stato molte volte, in quel luogo ai confini del territorio del Santuario, costruito a ridosso di uno dei posti di guardia. Una specie di punto di frontiera tra il passato ed il presente.
Il cavaliere di Leo se ne stava lì, in mezzo alle varie auto e moto parcheggiate nello stanzone; indossava un paio di pantaloni classici color caki ed una camicia bianca.
“Ioria, ma che carino!” Non poté esimersi dal commentare ironico Milo, facendolo voltare con la fronte aggrottata. “Sembri un commercialista.” Continuò Scorpio avvicinandosi. “Oggi o domani decidi di piantarla con cavalieri e armature, hai un mestiere pronto.” Scherzò.
“Humpf…” Sbuffò l’altro. “Senti da che pulpito… sottospecie di rockstar fallita…” Ribatté poi, quindi scrutò il compagno. “Ma dove sei finito?” Gli chiese, osservando i vestiti ancora un po’ bagnati.
“Sono andato a prendere le chiavi della macchina.” Rispose tranquillamente lui, superandolo; Leo lo seguì con lo sguardo.
“E dove le tieni, sotto la doccia?” Replicò sarcastico.
“Nella casa di Acquarius.” Spiegò Milo senza voltarsi, con tono amaro; seguì un attimo di silenzio.
“E… perché proprio quelle?” Si decise a domandare Ioria, capendo che doveva essere stata dura per Milo entrare nell’undicesima casa.
Scorpio alzò le sopracciglia. “Beh, credo di poter dire che quella macchina è la mia eredità.” Affermò stringendosi nelle spalle.
“E in base a che cosa?” Ribatté Ioria. “Camus ha forse fatto testamento?”
“Hm…” Fece Milo dirigendosi sulla sinistra. “…più che altro lo definirei un testamento spirituale…”
“Mi predi per il culo?” Sbottò retorico l’amico. “Piuttosto, qual è la macchina?” Domandò seguendolo.
“Quella.” Milo gl’indicò un grosso SUV tedesco color blu oltremare metallizzato, cerchi in lega e vetri oscurati, che torreggiava lucido vicino alla saracinesca sulla sinistra.
“Ma che ci faceva Camus con un’auto del genere?” Domandò perplesso Leo, osservandola con le mani sui fianchi.
“Figheggiava.” Rispose Milo con aria furba, mentre premeva il pulsante per aprire le portiere; Ioria fece un’espressione tra lo scettico e l’incredulo. “Andiamo, sali.” L’incitò l’altro.
“Senti un po’, Mister Ironia, te la ricordi la strada?” Chiese Ioria, quando furono entrambi seduti nel confortevole abitacolo.
“Non ce n’è bisogno!” Esclamò Milo. “Basta sapere la via e qui noi abbiamo un utilissimo navigatore satellitare che farà il resto!” Aggiunse dando una lieve pacca al piccolo schermo.
“Hm… non mi fido granché di questa roba…” Affermò l’altro storcendo il naso.
“Allora perché non guidi tu?” Sbottò scocciato Scorpio girandosi verso di lui.
Ioria lo guardò per un attimo, poi voltò gli occhi altrove, grattandosi un orecchio; Milo aggrottò la fronte sospettoso. “Non ho la patente.” Ammise infine il possente cavaliere di Leo.
Milo alzò le sopracciglia sorpreso, mentre un sorrisetto beffardo gli increspava lentamente le labbra. “Ah.” Fece soltanto.
“Avevo cose più importanti cui pensare.” Grugnì Ioria senza guardarlo. “Ora metti in moto.” L’altro cavaliere, senza mascherare l’espressione divertita, ubbidì.

CONTINUA

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


WYA - 2
Bene, ecco il secondo capitolo.
Spero che la trama diventi un po’ più interessante per i lettori e che vogliate lasciare un commento, visto che il primo capitolo ha avuto molte letture ma zero recensioni…
Fate uno sforzino, mi farebbe molto piacere!

Buona lettura!
Sara

- Capitolo 2 -

I ask of you nothin’, not a kiss not a smile,
Just open the door and let me lie down for a while
(The hitter – Bruce Springsteen)

“Allora, un po’ te la ricordavi, la strada.” Fece Ioria, mentre costeggiavano con la macchina il poderoso muro di cinta del Santuario di Zeus; oltre, dopo un fitto e ampio bosco, sorgeva lontana una dolce collina verdeggiante, sulla cui sommità, nascosto dalla vegetazione, si trovava il Tempio.
“Sono un po’ troppo giovane per essere del tutto rincoglionito.” Ribatté sarcastico Milo.
“Beh, sai…” Dichiarò subito l’amico. “…visto come ti sei presentato al tuo ritorno ad Atene, sospettavo che ti fossi fumato anche il buonsenso…”
Milo girò il capo annuendo compiaciuto. “Ma complimenti!” Esclamò quindi. “Stiamo diventando spiritosi!” Aggiunse, tornando a guardare la strada con un sorriso.
“Mai quanto te!” Ribatté l’altro sorridendo.
“Come mai sei voluto per forza venire con me?” Domandò Milo, dopo qualche attimo di silenzio; non lo guardava e teneva le mani strette sul volante.
Ioria, invece, aveva gli occhi fissi sul cancello che era appena comparso in fondo al viale. “Avrei dovuto farlo quando tornai dal Giappone, ma fui avventato e volli affrontare il Gran Sacerdote, questo stava per compromettere ogni cosa…” Confessò mesto. “Se non è troppo tardi, adesso devo chiederle perdono.”
“Capisco.” Fece l’altro, mentre rallentava; arrivati in prossimità del cancello, mise la freccia ed entrò nel vano che precedeva l’entrata, quindi si soffermò.
“Aspettami qui.” Gli disse Ioria scendendo, ma Scorpio lo seguì meritandosi un’occhiataccia.
I due cavalieri si avvicinarono alla guardiola, dove c’erano due uomini vestiti di un’uniforme blu simile a quella delle guardie giurate, ma senza mostrine.
“Chi siete e cosa volete?” Gli domandò sbrigativo uno dei due.
“Sono Ioria Cavaliere di Leo e lui è un mio compagno, Milo Cavaliere di Scorpio.” Rispose il ragazzo castano. “Chiediamo di essere ricevuti dalla Gran Sacerdotessa.” Aggiunse.
“Sua Eccellenza ha dato ordine di non far passare nessuno, non desidera ricevere visite in questi giorni.” Dichiarò deciso il soldato.
Ioria e Milo si scambiarono un’occhiata, poi il primo tornò a guardare la guardia. “Volete, ad ogni modo, avvertire Alexandros che siamo qui?”
L’uomo lo fissò dubbioso per un attimo, poi, senza dire una parola, si ritirò nella guardiola e prese il telefono.
“Chi è questo Alexandros?” Domandò Milo, facendo voltare l’altro cavaliere.
“Perché non mi aspetti in macchina?” Ribatté Ioria; gli rispose soltanto un sorrisetto retorico che annunciava la mancata accoglienza della proposta.
“Potete passare.” Gli comunicò in quel momento il soldato, mentre il suo compagno dava l’impulso per l’apertura del cancello.
Quando furono risaliti in macchina, Scorpio guardò Ioria con la classica espressione di chi vuole fare un commento; l’altro lo incitò con un’alzata di sopracciglia.
“Uno che conta, questo Alexandros.” Affermò ironico Milo.
“Pensa a guidare, va.” Sbottò Leo infastidito, poi incrociò le braccia, guardando avanti.

Erano quasi le sette quando attraversarono il secondo cancello e c’era quella bella luce delle sere d’estate, quando il sole comincia a calare e si trova refrigerio dalla calura del giorno. Gli unici suoni, mentre percorrevano la strada costeggiata da oleandri e fichi d’india, erano quello della macchina, che procedeva lenta, ed il canto degli uccelli. Lontano, nei campi a terrazza, si vedeva ancora qualche contadino che terminava il lavoro del giorno.
La vegetazione ai lati della strada, ad un certo punto, cominciava ad infittirsi e presto gli alberi sostituirono gli arbusti, finché, presso il terzo cancello, videro torreggianti eucaliptus che, con le loro fronde folte ed i tronchi poderosi, nascondevano alla vista le costruzioni del Tempio.
Lasciarono la macchina e proseguirono a piedi oltre il cancello. Un pantheon di piccoli templi, dedicati alle più importanti divinità greche, formava un semicerchio attorno al Tempio principale. C’erano fiori dappertutto e un silenzio quasi irreale.
“Non mi ricordavo quanto fosse bello questo posto.” Affermò Milo a bassa voce, guardandosi intorno.
“Nemmeno io.” Confermò Ioria, facendo altrettanto; poi vide un servitore ad aspettarli sulle scale della Casa di Zeus e l’indicò al compagno.
“Devo accompagnarvi.” Gli annunciò il ragazzo, quando furono saliti; loro annuirono e lo seguirono dentro.
Il servitore li guidò lungo i corridoi semibui e freddi del Santuario; non c’era segno di vita, a parte i loro passi, come se le attività umane del tempio si svolgessero sottovoce, altrove. Entrambi i cavalieri pensarono che questo fosse chiaro segno che la Sacerdotessa sapeva di Camus, ma sarebbe stato difficile il contrario. Sapevano anche quanto i suoi sudditi adorassero quella donna e, quindi, era logico che condividessero il suo dolore e lo rispettassero.
Il ragazzo li fece salire al primo piano, dove si trovava un salotto non molto grande, ma arredato con gusto; l’unica luce proveniva dall’esterno, dove il sole cominciava a rosseggiare. I due giovani si guardarono intorno. C’erano solo pochi mobili, antichi e preziosi, e un grande tavolo rotondo, due divani chiari, alcuni quadri, ma era una stanza accogliente.
Milo si mise a guardare un quadro appeso sopra il caminetto; lo aveva riconosciuto subito: era la stampa delle ballerine di Degas che stava in casa di Nikolais. Sorrise.
“Benvenuti.” Fece una voce giovane alle sue spalle, spingendolo a voltarsi.
Chi aveva parlato era un adolescente alto, dal fisico atletico; i lunghi capelli biondi, che portava sciolti, gli ricadevano sul viso un po’ scomposti, ma se li scostò, rivelando due grandi occhi color oceano ed un bel viso ben disegnato. Milo non lo conosceva, ma, immediatamente, ebbe come l’impressione che somigliasse a qualcuno. Questo almeno finché Ioria non gli si avvicinò e lui si accorse che i loro occhi erano praticamente uguali.
“Alexandros…” Mormorò Leo prendendolo per le braccia con delicatezza; si fissarono.
E così questo era il famigerato Alexandros… Chissà perché Scorpio si era immaginato un pomposo segretario con la tunica ben stirata, non certo un ragazzino qualsiasi in jeans e scarpe da ginnastica. Qualcosa, però, gli diceva che questo non era un ragazzino qualsiasi…
“Lo ha già saputo, non è vero?” Chiese Ioria ad Alexandros.
“Sì.” Rispose lui. “Lo ha saputo… subito, e anch’io.” Questa affermazione fece incuriosire Milo, che continuò a fissarlo con più concentrazione.
“Lei come sta?” Continuò il cavaliere di Leo; il ragazzo chinò il capo.
“Lo sai com’è…” Fece poi. “…all’apparenza è così forte, ma io lo so che sta male.” La sua voce si era fatta appena più appannata.
“E tu…” Riprese Ioria, stringendo un po’ la presa. “Come stai tu?”
Alexandros alzò gli occhi lucidi in quelli del cavaliere e, in quel momento, Milo colse la somiglianza in maniera inequivocabile. Erano parenti… ma come…
“Io… come vuoi che stia?” Dichiarò il ragazzo con voce stanca.
Il gesto successivo stupì Milo che, conoscendo Ioria, non si sarebbe mai aspettato una scena simile; di solito non era un tipo molto espansivo, ma stavolta abbracciò d’impeto il ragazzo, che rispose con calore.
“Che cosa ci fai qui?” Domandò Alexandros, ancora stretto a lui; Ioria lo scostò appena, giusto per guardarlo negl’occhi.
“Sai quel che è successo al Santuario di Atena?” Lui annuì. “Ora sono consapevole dei miei errori e sono qui per chiedere perdono a te e tua madre, se vorrete concedermelo.” Continuò accorato. “Voi due siete tutto ciò che mi è rimasto, spero con questo di riuscire a ritrovarvi…”
“Tu non ci hai mai perduti, Ioria.” L’interruppe Alexandros. “Dovevi solo capire, noi sapevamo che saresti tornato.” Il cavaliere lo abbracciò di nuovo, sorridendo.
“Vuoi andare, per favore, a dirle che siamo qui?” Chiese poi al ragazzo, che annuì e si allontanò.
“Sua madre?!” Sbottò a quel punto Milo, costringendo il compagno a voltarsi. “Mi vuoi spiegare che significa, Ioria? La Divina Elettra ha un figlio?” Continuò incredulo Scorpio.
Leo sospirò ed abbassò il capo. “Sì, è mio nipote… il figlio di Aioros.”
Milo spalancò gli occhi allibito. “Cosa?!” Esclamò.
Ioria lo guardò aggrottando la fronte. “Vuoi dirmi che Camus non ti ha mai detto nulla?”
“Santo cielo, no!” Rispose l’altro cavaliere posandosi le mani sui fianchi. “E tu? Perché hai taciuto, sei sempre stato fedele al Gran Sacerdote…”
“L’ho fatto per lui, per Alexandros.” Rispose serio, mentre si avvicinava alla finestra; scostò la tenda ed uscì sul balcone, Scorpio lo seguì. “Rappresentava l’ultimo legame con mio fratello ed era solo un bimbo innocente, temevo che lo avrebbero perseguitato, se avessero saputo della sua esistenza, così ho taciuto.” Confessò, mentre poggiava le mani sulla balaustra di marmo. “Quanto a Camus…”
“Lui amava Elettra più di ogni altra cosa, lei gli ha chiesto di tacere e lui lo ha fatto.” Anticipò Milo, poggiandosi di schiena contro il parapetto.
“Immagino che sia così.” Commentò l’altro cavaliere, continuando a fissare il tramonto.
“È così.” Confermò una voce femminile.
Lei era comparsa come un fantasma sulla soglia del balcone, senza fare rumore, guardava Ioria con espressione triste e si torceva piano le mani, con vago nervosismo.
La prima cosa di cui Milo si accorse fu che era sempre uguale, come se il tempo l’avesse, per qualche misterioso motivo, ignorata, nel suo scorrere indifferente. Alta e bellissima, con quel profilo nobile che ricordava una statua di Fidia. Era, però, anche chiaramente segnata dal dolore, il colorito era cereo e anche i suoi occhi erano diventati più tenui e scuri, simili all’azzurro pallido della tunica che indossava.  
“Ioria…” Mormorò; anche la sua voce era sempre la stessa, forse appena un po’ più roca.
“Elettra…” Fece il giovane avvicinandosi, ma poi si fermò e s’inginocchiò davanti a lei. “Sono qui per chiederti perdono.” Proclamò solenne, a capo chino. “Ho commesso molti errori ed ho indugiato in errate valutazioni, perdendo la tua fiducia, ma tu sai che un tempo ti amavo come una sorella e devi sapere che nel mio cuore è ancora così.”
“Alzati, Ioria.” Gli ordinò con tono incolore, quando lo fece si guardarono negl’occhi. “Io non ho niente da perdonarti, tu non hai responsabilità per quello che è successo e devi smetterla di addossarti colpe che non sono tue.” Continuò, con gli occhi che si facevano lucidi. “Sapevo che Atena sarebbe tornata e che quel giorno avresti capito, è merito di tuo fratello… il suo sacrificio ha salvato anche te.” Concluse con voce tremante, mentre una lacrima solitaria solcava il suo viso.
“Non so che cosa dire…” Mormorò il cavaliere, ed era vero, il groppo nella sua gola si era fatto serrato e sentiva di non poter trattenere ancora le lacrime.
"Non dire niente." Gli consigliò Elettra abbracciandolo. "Ti voglio bene, Ioria." Sussurrò poi, stringendolo a se; lui fece altrettanto, commosso.

Elettra si allontanò dal cavaliere qualche attimo dopo, facendogli una carezza sul viso, quindi si accorse dell’altro ragazzo; lo fissò per un istante, con espressione interrogativa, poi sorrise appena.
"Milo…" Mormorò sorpresa, lui rispose al sorriso.
"Divina Elettra." Salutò poi, con un inchino del capo; la donna si avvicinò.
"Che piacere rivederti, dopo tanto tempo." Gli disse dolcemente, prendendogli le mani.
"Anche per me, credetemi." Rispose il ragazzo. "Non siete cambiata per niente." Aggiunse poi, osservando da vicino il suo viso dai tratti decisi.
"Hm…" Fece lei roteando gli occhi. "…il tempo ama i Capricorni…" Commentò.
"È proprio vero." Sottolineò Milo, si scambiarono un altro breve sorriso.
"Sapevo che eri tornato." Affermò la donna. "Dimmi di te, come…" Si fermò appena prima di domandargli come stava, era una richiesta inutile, come poteva stare? Il suo migliore amico era morto da poche ore. Stava come lei. Rimase in silenzio.
Le due coppie di occhi celesti si fissarono per un lungo istante, con intensità, e Milo capì cosa lei stava provando. Erano uguali loro due. Segnati da un dolore che non si poteva spiegare. Avevano perso l’amore. Forse il loro modo di reagire era diverso, ma si comprendevano in un modo che gli altri non potevano capire. Quando Milo sentì arrivare la commozione abbassò lo sguardo.
"Tutto sommato… non mi posso lamentare." Rispose, senza aspettare che lei si correggesse, ma le strinse appena le mani nelle sue ed Elettra seppe quello che lui non le aveva detto.
"Sono felice che tu abbia deciso di venire." Gli disse la Sacerdotessa.
"Lo ritenevo mio dovere." Replicò lui, poi, prima che la donna lo lasciasse, le baciò la mano e lei gli sorrise.
"Restate a cena?" Domandò quindi Elettra, rivolta a Ioria.
"Io devo tornare al Santuario." Rispose subito il cavaliere di Leo, poi guardò Milo che lo fissava con la fronte aggrottata. "Devo parlarti un attimo… da soli." Disse poi al compagno.
"Va bene." Accettò Scorpio, seguendolo dentro dopo aver salutato Elettra con un cenno del capo.
La donna rimase sul balcone. Era ancora un po’ frastornata dall’aver scoperto, quasi all’improvviso, un tale livello di comprensione in un’altra persona. Certo, l’appoggio di suo figlio non le era mancato in questo lutto, ma sentiva che Alexandros non poteva capire del tutto. Milo sì. Il pensare al vuoto lasciato da Jean le provocava un senso di vertigine, ed era consapevole che il cavaliere di Scorpio sapeva perfettamente di cosa si trattava. Purtroppo.
Non poteva dire, in tutta coscienza, che fossero mai stati amici, lei e Scorpio. Elettra immaginava che nel passato lui la vedesse lontana e algida. Sapeva di dare questa impressione. Nemmeno lei, in verità, lo trovava simpatico, allora.
Voci concitate la distrassero dai suoi ragionamenti; si voltò indietro, verso l’interno del soggiorno, ma le voci non venivano direttamente da lì. Rientrò e vide, oltre la porta aperta, Ioria e Milo che discutevano nel corridoio. Li raggiunse a grandi passi con espressione torva.
"Che cosa state facendo?!" Li interruppe alzando la voce, loro si voltarono di scatto verso di lei. "Ma vi sembra il caso?" Aggiunse posando le mani sui fianchi.
"Stai tranquilla, Elettra." La blandì Ioria. "Stavamo soltanto avendo uno scambio di opinioni."
"A me sembra una discussione!" Intervenne Scorpio con espressione retorica.
"Ah, beh, certo…" Fece Leo voltandosi verso di lui. "…quando si ha a che fare con una testa dura come la tua, diventano discussioni per forza…"
"Ohhh, se si parla di teste dure, allora…" Ribatté sarcastico Milo.
"Tu…" Lo minacciò l’altro, brandendo l’indice.
"Mi volete dire cosa sta succedendo?!" Sbottò la donna, afferrando un braccio del ragazzo castano e attirando così la sua attenzione.
"Ma niente!" Esclamò lui. "È solo che io devo rientrare al Santuario di Atena e siccome non mi va di lasciarvi soli, gli ho chiesto se per favore poteva restare lui!" Spiegò, indicando il compagno con un gesto molle della mano.
"Senti, bello…" Replicò subito Milo. "…primo non me lo hai chiesto per favore e secondo, non capisco perché ci sia tanto bisogno di te al Santuario e non anche di un altro Cavaliere d’Oro, quale io sono." Fece indicandosi. "C’è per caso una gerarchia d’importanza della quale non sono a conoscenza? Fino alla sesta casa bravi e buoni e gli altri nel cesso?"
"Ma lo vedi che non mi fai mai finire un discorso?" Lo aggredì Ioria. "Non c’è verso con te, sei un prevaricatore!"
"Porca puttana! È perché i tuoi discorsi non hanno senso! Ma ti senti quando parli?!" Esclamò l’altro.
“Adesso basta.” Li supplicò Elettra, cui stava tornando il mal di testa; non era proprio dell’umore per ascoltare quei due litigare.
“No, non basta!” Replicò subito Milo; lei lo guardò incredula. “Io voglio capire perché lui ritiene la sua presenza al Santuario più necessaria della mia che sono un Cavaliere suo pari! Suo pari!” Pretese il ragazzo. “È una questione di principio!” Aggiunse compito.
L’ultima dichiarazione, nonostante non fosse proprio il caso, date le circostanze, fece venire da ridere ad Elettra, che cercò di trattenersi, coprendosi quasi metà della faccia con una mano.
“È molto divertente?” Fece, però, Milo, quando se ne accorse.
Lei alzò gli occhi e vide il ragazzo che la fissava con espressione seria e fronte contratta. “No, è che…” Cercò di spiegare la donna. “…è una frase che uso spesso anch’io e…”
Milo ritenne la faccenda priva di peso, quindi tornò a guardare Ioria. “Allora?” L’incitò.
“Guarda…” Esordì l’altro. “…è perfettamente inutile che cerchi di spiegarti la situazione.” Scorpio lo fissava cupo. “Saori deve darmi ancora molte spiegazioni, io ho la necessità di parlarle personalmente il più presto possibile, quindi…”
“Cosa ti dice che non debba chiederle qualcosa anch’io?” Ribatté Milo interrompendolo.
Ioria, a quel punto, voltò verso Elettra uno sguardo supplichevole; la donna sollevò sorpresa le sopracciglia, prima di rispondere.
“Perché guardi me? Io non c’entro niente.” Gli disse. “Quando eravate bambini potevo prendervi per un orecchio o riportarvi alla ragione con un calcio nel sedere, ma adesso siete adulti ed io non sono il re Salomone, risolvete le vostre questioni da soli.” Affermò poi, prima di dargli le spalle convinta ad andarsene.
Al cavaliere non restò che sospirare esasperato e voltarsi di nuovo verso l’antagonista, sapeva perfettamente che era inutile cercare di far cambiare idea a quella donna.
“Allora, che cosa fai, resti o no?” Domandò arreso al compagno.
“Resto.” Rispose Milo sorprendendolo. “Ma non perché me lo chiedi tu.” Aggiunse con tono irritante.
“Io ti… grandissimo bas…” Reagì Leo, alzando i pugni; Scorpio non gli rispose a parole, ma alzò l’elegante medio della mano destra, piegando, nel frattempo, le labbra nel suo famoso sorriso.
Elettra, che con la coda dell’occhio aveva assistito a tutta la scena, rientrò in soggiorno scuotendo la testa; quei due bisticciavano ancora come mocciosi, esattamente come quando lei e Aioros li dividevano da bambini. Bei ricordi.

CONTINUA

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


WYA - 3 Eccoci qua, col terzo capitolo, la storia si fa un po’ più drammatica, ma spero che continui a piacervi. Siate così gentili da farmelo almeno sapere, i commenti sono sempre graditi!

Vi lascio alla lettura!
Baci
Sara

- Capitolo 3 -

…stay at my side,
For you are my blessing you are my pride.
It's your love here that keeps my soul alive.
(Black Cowboys – Bruce Springsteen)

Elettra si era seduta al tavolo del soggiorno, fissando il vuoto. Le capitava così, all’improvviso. Il dolore era come un’onda che non ti aspetti. Bastava un nulla. Il libro che lui aveva lasciato a metà posato sul comodino. La sua maglietta nella cesta dei panni sporchi. O anche il solo sedersi a quel tavolo, intorno al quale avevano discusso infinite volte. O il suono chiaro della sua voce, che sarebbe rimasto tale ancora per poco. Se la sarebbe dimenticata, sapeva che era così. Inevitabile. Ma il vuoto fisico della sua presenza era qualcosa che non si poteva dimenticare. Una persona non c’era più. C’era un buco, un vuoto, una voragine…
Un singhiozzo violento le squassò la gola, si tappò la bocca con una mano, restando con gli occhi spalancati e pieni di lacrime. Quando sentì la porta chiudersi alle sue spalle, però, si asciugò velocemente il viso, ricomponendosi.
“Ioria è già andato via?” Domandò alla persona che era entrata, sospettando si trattasse di Milo.
“Sì.” Rispose il cavaliere avvicinandosi; lei si alzò, continuando però a dargli le spalle. “Ad ogni modo, mi domando come farà a tornare…” Aggiunse il ragazzo con tono ironico. “…visto che…”
Elettra si girò con un mezzo sorriso liquido. “…non ha la patente.” Affermò, terminando la frase; Milo sorrise beffardo.
“Chiamo il mio autista.” Annunciò la donna, dirigendosi verso il telefono.
“No!” La fermò lui. “Divertiamoci ancora un po’…” Suggerì poi, con aria vagamente maligna.
“Senti…” Fece lei voltandosi. “…non mi sembra il caso…” Sembrava, però, indecisa; Milo si approfittò subito della crepa.
“Suvvia…” La blandì il cavaliere, rispolverando il suo sguardo più seducente. “…non ditemi che non vi alletta l’idea di tenerlo un po’ sulle spine.” Elettra lo guardava negli occhi con un vago sorriso e le braccia incrociate.
“Sei sempre così persuasivo con le donne?” Gli domandò ironica.
“Modestamente…” Si vantò lui, alzando gli occhi al soffitto.
La donna lo fissò ancora per qualche istante, poi sorrise e si voltò verso lo scrittoio posto tra le due porte finestra. “Adesso chiamo.” Dichiarò quindi, afferrando il cordless; Scorpio rise scuotendo la testa.
Elettra avvertì l’autista di recuperare Ioria al terzo cancello e di accompagnarlo al Santuario di Atena, poi posò il ricevitore e tornò da Milo, che era rimasto in piedi in mezzo alla stanza, senza perdere la sua espressione canzonatoria.
“Tutto a posto, il viandante è in buone mani.” Annunciò al cavaliere. “Avresti preferito mandarlo a piedi?” Domandò poi, accorgendosi della sua espressione.
“Noooo….” Fece Milo divertito.
Elettra scosse il capo. “Siete un caso disperato, voi due.” Affermò poi; lui rise e lei lo guardò. “Mio padre sarebbe felice di rivederti.” Gli disse quindi.
“Dite?” Ribatté il ragazzo sorpreso.
 “Oh, sì, sono sicura che gli sei mancato.” Ribadì con tenerezza; a lui non restò che sorridere chinando il capo.
“Lui è mancato a me.” Confessò timidamente.
“Sono davvero felice che tu abbia deciso di restare.” Continuò Elettra.
Scorpio alzò gli occhi nei suoi e gli sembrò di vederli appena più vivaci; se ne rallegrò, prendendole le mani. “Anch’io ne sono felice, sul serio.” Le disse con sincerità.
Rimasero a guardarsi per un lungo istante. Nessuno dei due poteva negare che fosse avvenuto un contatto. Il nucleo di un sentimento che si poteva chiamare solidarietà. Ed era incredibile come questo fosse capitato con una persona ritenuta la più improbabile.
“La cena è pronta.” Annunciò la voce seria di Alexandros; dalla sua espressione si sarebbe detto che li osservava da un po’.
Elettra gli sorrise, senza togliere le mani da quelle di Milo. “Arriviamo, grazie amore.” Gli rispose poi, mentre il ragazzo lasciava delicatamente la presa.
Lei, quando il figlio fu andato via, lo guardò, con negl’occhi la domanda inespressa sul perché l’avesse lasciata; Milo non rispose, ma abbassò gli occhi, incapace di spiegare il suo imbarazzo.

La cena fu piuttosto mesta. Elettra mangiò pochissimo, altrettanto fece Alexi, e Milo, in tutta coscienza, non è che avesse tanto appetito.
La sacerdotessa, ogni tanto, si estraniava, fissando il vuoto. Sotto le luci della sala da pranzo il suo volto era ancora più pallido e per il cavaliere era difficile riconoscere in lei la donna autoritaria e sarcastica che aveva conosciuto. Ma per metabolizzare il dolore, si sa, non sono sufficienti i giorni.
Il soggiorno li accolse subito dopo cena, ma Elettra lasciò Milo e Alexi da soli quasi subito, poiché volle personalmente occuparsi del caffè per tutti.
Il cavaliere si sentiva un po’ in imbarazzo ad essere solo con il ragazzo. Era uno strano essere, Alexandros. Certo il suo umore non doveva essere dei migliori, date le circostanze. Milo immaginava che lui e Camus fossero molto legati, la credeva una cosa inevitabile, visti i rapporti del cavaliere con la madre. La dignità e la compostezza del ragazzo, però, denotavano una certa maturità. Certo, pensando che aveva più o meno l’età dei ragazzi che i Gold Saints avevano affrontato al Santuario…
C’era qualcos’altro però… una forza che lo circondava, che modificava lo spazio intorno a lui, come una consapevolezza… una pace… Un cosmo!
Milo spalancò gli occhi fissando Alexandros. Non era un cavaliere e questo era chiaro. Allora come si spiegava questa cosa? Che sua madre lo avesse addestrato? No, non completamente almeno, non alla guerra, di sicuro… No, no, era diverso… più come un istinto…
Il ragazzo alzò lo sguardo verso il cavaliere e lo fissò con i suoi occhi profondi e scuri. “Devi dirmi qualcosa?” Gli chiese.
Il ragazzo lo aveva percepito, era chiaro. Milo avrebbe avuto molte cose da chiedergli, ma si domandò a che punto arrivasse la consapevolezza di Alexandros. Decise di limitarsi alle faccende più urgenti e, dopo un profondo sospiro, si avvicinò al divano. Doveva chiarire.
“Mi domandavo se, per caso…” Esordì incerto, posando le mani sulla sponda della poltrona di fronte a quella di Alexi. “…prima di cena, quando sei entrato qui, tu non ti fossi chiesto se ci stavo provando con tua madre…” Affermò infine.
Alexandros aggrottò la fronte, leggermente perplesso. “Avrei dovuto chiedermelo?” Replicò poi, posando il libro che aveva in mano.
“Beh, non lo so…” Rispose imbarazzato Milo, grattandosi una tempia. “Ma la situazione poteva dare adito a… dubbi.” Spiegò.
Il ragazzo si sistemò sul divano senza guardarlo. “Non ti conosco bene…” Riprese poi. “…ma non mi sembri il tipo che si approfitta di certi momenti.”
“Certo che no!” Confermò Scorpio serio.
“Ad ogni modo.” Gli disse Alexi guardandolo negli occhi. “Lei si sa difendere, e anch’io.” Milo non aveva il minimo dubbio che si trattasse della verità, non sembrava uno sprovveduto e certo non lo era sua madre.
“Bene.” Annuì quindi il cavaliere. “Sono felice di aver chiarito, non mi piacciono le situazioni ingarbugliate e non è mia intenzione iniziare la nostra conoscenza con perplessità e fraintendimenti.”
“Dunque, tutto a posto?” Lo interrogò il ragazzo. “Adesso puoi rilassarti.” Aggiunse divertito.
“Sì.” Rispose Milo sorridendogli. “E sarà meglio che mi sieda, ho dolori ovunque…” Aggiunse, massaggiandosi una spalla.
“Che cosa ti è successo?” Gli chiese il ragazzo che, incuriosito, aveva rinunciato a riprendere il libro.
Scorpio esitò un attimo prima di rispondere, c’erano particolari di quello che era successo che lui stesso preferiva non ricordare, ancora. Era una sensazione che conosceva fin troppo bene, il senso di colpa. Si sedette evitando di guardare Alexi.
“È… è successo nella battaglia…” Affermò infine, titubante. “Il mio avversario è riuscito a colpire le quindici stelle dello Scorpione disposte nel mio corpo e questo, capirai, mi ha lasciato piuttosto messo male...” Fece una risatina nervosa per cercare di allentare la propria tensione. “Se poi consideri che nelle ultime trentasei ore ne ho dormite sì e no tre…”
Alexandros, però, sembrava non ascoltarlo; teneva il capo chino e lo sguardo era perso, il corpo immobile, con le mani ai lati delle ginocchia. Milo lo guardò e si ritrovò a pensare che, in quel momento, il ragazzo era bello come una statua di Apollo, ma gli si strinse il cuore ricordando il prezzo che sua madre aveva dovuto pagare per tanta perfezione. Il suo vero padre, Alexandros, infatti non lo aveva mai conosciuto. Sacrificato ad Atena, per il bene di tutti.
“Tu lo hai conosciuto…” Mormorò infine il ragazzo. “…lo hai conosciuto il Cavaliere che ha sconfitto Camus?” Domandò, alzando gli occhi blu in quelli azzurri dell’interlocutore.
Ecco, sapeva che sarebbe arrivato il momento. E adesso come gli avrebbe spiegato che, se lui non avesse salvato Hyoga, Camus ora sarebbe stato vivo? Come, se non riusciva a far capire a se stesso, che quel gesto era stato inevitabile? Per Atena l’ho fatto… per Atena… c’è chi ha perso più di un amico per Lei… c’è chi ha perso un padre…
Le parole, infine, gli uscirono stentate. “Sì…” Disse. “Sì, lo conosco…” Ammise con un groppo doloroso alla gola, mentre fissava gli occhi di Alexandros.
“Allora, lo volete il caffè?” Chiese Elettra entrando in quel momento in salotto.
Milo e Alexi si voltarono verso di lei, ringraziandola mentalmente per aver interrotto quel drammatico dialogo; nessuno dei due voleva angosciarla di più, quindi si ricomposero all’istante.
La donna posò il vassoio sul tavolino tra i due divani e si sedette accanto a Milo, poi li guardò. “Di che cosa stavate parlando?” Tra Alexi e il cavaliere passò un’occhiata allarmata.
“Di niente.” Si sbrigò a rispondere Scorpio. “Solo uno scambio di opinioni…”
Elettra aggrottò la fronte sospettosa. “Spero non si tratti di uno scambio di opinioni simile a quello che hai avuto con Ioria.” Ipotizzò sarcastica.
“Oh, no… no, davvero!” Ribatté Milo con un sorriso; nel frattempo Alexandros si alzò.
“Cosa c’è, tesoro?” Gli domandò subito la madre, ridiventando seria davanti all’espressione mesta del figlio.
“Niente, sto bene.” Rispose lui vago. “Vado in camera mia.” Annunciò quindi.
“Non lo prendi il caffè?” Chiese Elettra.
“No, grazie, non mi va.” Rifiutò il ragazzo. “Buonanotte.” Augurò a Milo, prima di uscire dalla stanza; la madre non aggiunse niente e cominciò a riempire le tazze.
La mano di Elettra, però, tremò e la donna fu costretta ad interrompere il gesto, per posare di nuovo la caffettiera di porcellana decorata sul vassoio d’argento. Si appoggiò indietro, contro lo schienale e fissò le proprie dita stringere la stoffa azzurrina del vestito.
“Non riesco a vederlo così.” Affermò quindi, con un filo di voce. “Non hai idea di cosa sia, per una madre.” Aggiunse; Milo non poté fare altro che prenderle una mano e stringerla nella sua.

Non era molto tardi, quando Elettra accompagnò Milo in una delle stanze da letto del secondo piano. Era una camera piuttosto ampia, ma con un mobilio essenziale: letto a due piazze, un divanetto, un cassettone, il tavolo con due sedie.
La luce proveniva dalle grandi porte finestra che davano sul balcone; almeno finché la donna non accese l’interruttore.
I mobili erano bianchi, il parquet chiaro, le tende bianche e blu; sopra al letto c’era il grande quadro di un paesaggio innevato.
“Se vuoi cambiarti per la notte, ci sono delle cose di Camus nei cassetti.” Gli disse Elettra indicandogli il comò.
Milo si voltò sorpreso. “Questa era la sua stanza?” Le chiese.
“Hm… sì…” Rispose imbarazzata lei. “A volte avevamo bisogno della nostra privacy, pur non riuscendo a stare più lontani di un paio di porte.” Aggiunse abbassando il capo con sguardo malinconico.
Milo, però, non la guardava più, stava fissando la stanza. Gli occhi vagavano senza riuscire a posarsi in un punto preciso. Le tracce della vita di Camus erano ancora presenti. C’era un libro sul comodino, si vedeva chiaramente un segnalibro vicino al termine delle pagine. Le lenzuola pulite. Alcuni indumenti stirati appoggiati su una sedia. Gli si aprì una voragine nello stomaco e contrasse la mascella per evitare di piangere.
“Se non te la senti, posso fartene preparare un’altra.” Mormorò Elettra a capo chino.
“N… no… grazie…” Balbettò Milo in risposta, posando appena gli occhi su di lei e tornando subito a guardare la stanza. La verità era che sarebbe voluto scappare, ma, allo stesso tempo, desiderava restare lì, dove la presenza di Camus era ancora così viva.
“Bene.” Annuì la donna, poi, prima di andarsene gli prese la mano e lo guardò negl’occhi. “Buonanotte.” Gli disse, stringendo le sue dita tra le proprie.
“Buonanotte a voi.” Rispose il cavaliere, salutandola con un piccolo cenno del capo; lei gli sorrise con tristezza e se ne andò.
Milo rimase solo. Chiuse lentamente la porta e vi si appoggiò con la schiena, poi allungò una mano e spense l’interruttore. Nella penombra lasciò che il dolore prendesse il sopravvento, senza violenza, sordo e cupo. La sua mascella tremò, mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Il ragazzo alzò una mano e se la portò alla bocca. Il dorso e le nocche erano freddi contro le labbra, ma le lacrime bruciavano sulle guance. Scivolò lungo la porta, fino a trovarsi seduto per terra e si lasciò andare al pianto, con lo sguardo perso nella stanza vuota.

Alexandros entrò silenzioso nella stanza della madre. Erano accese solo poche luci, quelle ai lati del letto e quelle della specchiera, che s’intravedevano chiaramente oltre la curva del muro. Il ragazzo passò tra le colonne davanti alla porta del bagno, dirigendosi verso il tavolo dove avrebbe trovato la madre; infatti, Elettra era seduta davanti allo specchio.
La donna si era sciolta i capelli, ma sembrava che non trovasse la forza di pettinarsi; la sua mano destra era sulla spazzola, ma i suoi occhi erano persi sugli oggetti disposti ordinatamente davanti a lei. Il figlio si avvicinò.
“Mamma…” La chiamò.
Elettra sussultò, accorgendosi solo in quel momento del suo arrivo, però si voltò con un flebile sorriso. “Cosa c’è, tesoro? Perché non sei ancora a letto?” Gli chiese.
“Vuoi che resti qui anche stanotte?” Replicò Alexandros.
“Se vuoi farlo…” Rispose lei, sospirando e posando il mento sulle mani sollevate.
“Solo se lo desideri.” Ribatté il figlio.
Elettra sorrise e si alzò, avvicinandosi ad Alexi. “Sai che mi fa piacere.” Gli disse prendendolo con dolcezza per le spalle. “Tu sei la mia forza.” Aggiunse abbracciandolo.
“Ti voglio bene.” Mormorò il ragazzo carezzandole i capelli.
“Sei una benedizione, il mio orgoglio…” Affermò a bassa voce Elettra, stringendo forte a se suo figlio. “…è il tuo amore che mi fa sopravvivere, se tu non ci fossi mi sarei lasciata andare molto tempo fa.” La sua voce, ormai, era commossa.
“Io non ti lascerò mai.” Dichiarò con forza Alexi, pur non riuscendo a trattenere le lacrime.
“Lo so…” Rispose la madre, allontanandosi appena, per guardarlo negl’occhi. “Lo so.” Ribadì con un lieve sorriso. “Insieme siamo invincibili, finché mi sarai vicino… finché saremo uniti, supereremo qualsiasi cosa.” Gli garantì senza cedimenti, lui l’abbracciò di nuovo.
“Ce la faremo?” Domandò il figlio, con il viso sprofondato nei capelli della madre; la sentì annuire contro il suo capo.
“Sì, credimi… credimi!” Lo supplicò dolcemente, nonostante le lacrime. “So che adesso sembra impossibile, che il dolore è tanto forte, ma sai… il dolore diminuirà, si rifugerà in un angolo del tuo cuore, pronto ad uscire quando meno te l’aspetti certo, ma la vita riprenderà il sopravvento… credimi, passerà…” L’abbraccio di Alexi si fece più forte ed Elettra lo sentì singhiozzare contro la sua spalla, non riuscendo a fermare le proprie lacrime. “Passerà… io lo so…”

CONTINUA

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


WYA - 4
E siamo arrivati al capitolo forse più drammatico della storia. Questa storia giace nel mio pc da così tanto tempo che non riesco nemmeno a ricordare quando l’ho scritto, probabilmente il mio stile è molto cambiato da allora, spero che non si vedrà troppo la differenza nei prossimi capitoli.
Vabbene, vi lascio alla lettura e, come sempre, aspetto qualche commento.

Un altro caloroso grazie a sagitta72 che segue e commenta con passione questa storia, sei veramente carina! ^_^
E grazie anche a Eirien per la pazienza di aspettare quelle due righe che devono chiudere questa storia. Un saluto bimbaminkioso: ti lovvo, caVissima!


- Capitolo 4 -

You're missing when I shut out the lights
You're missing when I close my eyes
You're missing when I see the sun rise
You're missing…
(You're missing – Bruce Springsteen)

Milo, seduto su una poltrona di vimini, osservava da circa un quarto d’ora il quadro appeso sopra la testata del letto; solo una lampada sul comodino illuminava la stanza e la parete su cui era posto.
C’era una baita, sulla sinistra, del fumo che usciva dal camino; dietro la costruzione un boschetto di abeti. Sull’altro lato solo colline innevate, che si distinguevano una dall’altra solo perché il pittore aveva usato sfumature diverse. Il cielo all’orizzonte tendeva al violaceo, più chiaro dietro alla baita, poi andava scurendosi oltre le colline.
Il mondo di Camus. Il mondo di ognuno di loro. La ricerca di una casa calda, di una famiglia, della luce, ma un’anima persa in un deserto. Milo lo sapeva bene. Che fosse di sabbia o di ghiaccio, sempre deserto restava. Sperò che il suo amico, almeno un po’ di felicità, l’avesse provata.
Il cavaliere sospirò, adagiandosi contro la spalliera. Era stata una giornata terribile. Gli ultimi due giorni erano stati devastanti. Era stanco, come mai lo era stato in tutta la vita, eppure il suo cervello si opponeva al sonno, troppo impegnato con il tumulto dei pensieri e delle sensazioni. Nemmeno una lunghissima doccia calda gli era servita; forse era il caso di fare due passi.
Attraverso le finestre aperte entrava un lieve vento che sapeva d’estate: una stagione che splendeva, incurante del dolore, della rabbia, della solitudine. Non era la stagione giusta per soffrire, o per piangere, ma in fondo, quale stagione lo è? Si chiuse la porta alle spalle.
Le stanze erano calde, quasi soffocanti; la pietra rilasciava ora il calore del sole e le finestre aperte non davano uno sbocco sufficiente. O forse sembrava a lui, che era attanagliato da un nodo alla gola che sembrava impossibile da sciogliere.
Milo scese le scale, attraversò il corridoio, fino alla sala da pranzo. Le finestre erano spalancate ed il vento muoveva le tende leggere. Il ragazzo accese la luce e si versò un po’ d’acqua da una brocca che stava sulla credenza, quindi chiuse l’interruttore ed andò sul balcone.

Elettra guardava la notte fuori dalla grande finestra, quando il vento scostava le tende. Alexi dormiva accoccolato contro di lei, in posizione fetale; la donna ogni tanto gli carezzava i capelli, tanto non riusciva a dormire.
La sacerdotessa avrebbe voluto trovare le parole, per dire a suo figlio quanto grande fosse il conforto che le dava; sperò che Alexandros lo capisse dai suoi occhi, dalle carezze, dai gesti. Voleva fare affidamento, una volta in più, a quell’istinto naturale che suo figlio possedeva nel capire le persone.
Se lei e Jean si fossero capiti di più, quanto diverse sarebbero potute essere le cose… Nel loro rapporto non era mancato l’amore, non era mancata la complicità o la tenerezza, ma la comprensione, purtroppo, era sempre stata una chimera. Quante volte si era rimproverata la sua testardaggine e l’orgoglio. E quelli di Jean. E i loro caratteri troppo forti, troppo simili. Adesso era tardi per tutto, per i rimpianti, le recriminazioni e per tutte le parole dette e ricevute… era finita, finita ormai… Stava per piangere di nuovo e non voleva farlo lì.
Elettra verificò che suo figlio dormisse. Il sonno di Alexi sembrava profondo, così decise di alzarsi, tanto non riusciva a chiudere occhio da due giorni. La sua camicia da notte frusciò contro le lenzuola, mentre lasciava silenziosamente il letto, ma il ragazzo non si mosse.

Lungo l’ampio corridoio vi erano alcune lampade accese, la loro bassa luce la guidò fino alle scale e oltre, fino in fondo alla rampa; quando si trovò davanti all’arco che conduceva alla piscina, si accorse che c’era luce oltre l’altra entrata, vicino alla sala da pranzo. Incuriosita si affacciò, scrutando l’oscurità, e si sentì gelare…
Una figura elegante era ferma presso il bordo della piscina, s’intravedeva appena; un uomo alto, il fisico scolpito e i capelli lunghi. Sembrava… sembrava lui…
Milo sobbalzò, quando le luci della piscina si accesero all’improvviso; si voltò verso l’arco d’entrata, mentre il riverbero azzurro gl’illuminava il viso. In mano aveva un grappolo d’uva. Spalancò gli occhi sorpreso, vedendo Elettra con ancora la mano sull’interruttore.
“Oh, siete voi…” Mormorò quindi.
“Hm… sì…” Rispose vaga lei, avvicinandosi. “Per un attimo…” Riprese poco dopo, facendosi coraggio. “…con i capelli lunghi e quei vestiti… sembravi Jean.”
Milo aprì appena la bocca, sorpreso, poi la richiuse, abbassando gli occhi. “Mi vanno un po’ lunghi, questi pantaloni…” Disse quindi, scotendo l’orlo del pigiama a quadretti che indossava insieme ad una maglietta blu.
Elettra, nel frattempo, si era fermata al suo fianco e fissava la superficie della piscina; l’acqua illuminata disegnava stani ghirigori su tutta la sua figura, ma gli occhi sembravano vuoti.
“Mi sembra normale.” Affermò quindi la donna. “Era un po’ più alto di te.”
Milo sorrise appena; Camus era sempre stato uno spilungone. Il discorso, però, gli sembrava infelice, dato quello che era successo; Elettra doveva essere rimasta agghiacciata nello scambiarlo per l’amico… Era meglio cambiare argomento.
“Vi devo ringraziare.” La donna si girò verso di lui, quando pronunciò questa frase.
“Per quale motivo?” L’interrogò quindi, con un sorriso.
“Immagino che siate stata voi ad occuparvi della tomba di Melissa.” Le spiegò Milo, prima di mangiare l’ultimo chicco d’uva.
Elettra lo fissò per un attimo, il suo profilo un po’ malinconico e le lunghe ciglia scure abbassate appena sugli occhi chiari, resi trasparenti del riflesso della luce sull’acqua.
“Non devi ringraziarmi per questo.” Rispose infine. “Le volevo bene, era un dovere per me.”
“Grazie lo stesso.” Dichiarò il cavaliere, alzando su di lei il suo sguardo di cristallo; Elettra fece un sorriso triste e chinò gli occhi sull’acqua.

Il silenzio era freddo e solido, come il pavimento ruvido sotto i piedi nudi di Milo, e azzurro, come il riverbero dell’acqua sulle piastrelle nel fondo della piscina. Azzurro, come gli occhi di Elettra, fissi sull’acqua.
Il cavaliere spostò lo sguardo, quando vide la liscia, elegante e grande mano della donna stringersi sulla stoffa morbida della sua camicia da notte. Un brivido gli aveva percorso la schiena funesto. Sentiva che lei stava per chiedergli qualcosa di pericoloso.
“Tu…” Esordì Elettra titubante, con voce flebile. “…tu lo hai visto, prima… Ci hai parlato?”
Qualcosa di terribilmente freddo e tagliente si avvolse al cuore di Milo, stringendolo in una morsa. Sapeva che, rimanendo lì, prima o poi quella domanda gli sarebbe stata posta. E sapeva dove quella domanda avrebbe condotto. Non voleva andare, eppure… una risposta la doveva.
“Ho visto Camus, quel mattino.” Accennò l’uomo, tormentando tra le dita quel che rimaneva del grappolo d’uva. “Era…” Annaspò in cerca delle parole. “…era come sempre, sarcastico e pieno di se.” Un amaro sorriso increspò le labbra della donna. “Sembrava non avere mai paure o dubbi.” Aggiunse il cavaliere, abbassando mestamente il capo.
“Che cosa ti disse?” Fece lei; la voce si propagava in modo strano, ovattato, in quello spazio vuoto che sapeva di cloro e umidità.
“Vorrei potervi riferire che mi parlò di come si sentiva, di quello che provava, o di voi, vorrei avere parole che possano colmare il vuoto di un saluto mancato…” Rispose Milo rammaricato, trattenendo un singhiozzo, mentre guardava gli occhi di Elettra farsi più grandi e lucidi. “…ma lui, lo sapete bene, non parlava di certe cose e non era fatto per i grandi discorsi.” Lei annuì. “Mi salutò, come se ci dovessimo rivedere di lì a poco e, infatti, lo rividi, più tardi.” Riferì infine.
Elettra si girò verso di lui con sguardo interrogativo. “Lo rivedesti dopo l’inizio della battaglia?” Milo annuì, cercando il coraggio per raccontare tutta la storia a chi aveva il diritto di conoscerla.
“Mi chiese il permesso per attraversare l’Ottava e scendere alla casa di Libra.” Affermò il ragazzo.
“Ma perché? Cosa doveva fare lì… io non capisco…” Replicò la donna, scuotendo il capo.
“Ce lo inviò il Gran Sacerdote.” Riferì Milo a capo chino. “Doveva fermare l’avanzata di Hyoga del Cigno, che era stato precipitato lì attraverso…”
“Il Cigno?” L’interruppe Elettra, stringendogli all’improvviso l’avambraccio; lui confermò annuendo. “Quindi ha combattuto contro l’allievo del suo discepolo…” Mormorò poi tra se.
Milo si sottrasse alla sua presa e fece qualche passo, dandole le spalle. Lei seguì quel movimento insospettita. L’atteggiamento del cavaliere non la convinceva, avvertiva chiaramente una stonatura nel suo cosmo. Un dolore. Una colpa. Qualcosa a proposito di Camus.
“Milo, che cosa c’è?” Gli domandò allora la donna. La sua voce era seria, intrisa di potere, abituata al comando. Una voce cui si deve rispondere, per forza.
“Io…” Esordì il ragazzo, ma lo slancio iniziale venne subito a mancare e scrollò il capo. “Dovete perdonarmi, Divina Elettra, io non vorrei…” Riprese poco dopo. “…non vorrei parlarne, non vorrei darvi questo peso, ma non posso… non ce la faccio a portarlo da solo, stavolta, devo parlarne con qualcuno o mi ucciderà!” Le sue parole erano rotte dalla disperazione.
Elettra era immobile. Fissava le ampie spalle del cavaliere senza riuscire a muovere un muscolo. Cos’era questa storia adesso? Non era sufficiente il dolore, dovevano esserci i misteri, i sensi di colpa, le rivelazioni? Desiderò che tutto scomparisse in un accecante bagliore bianco, che non esistesse più nulla, non la piscina, o la stanza, o il palazzo. O il mondo. Più nulla. Era devastata. Non aveva già sofferto abbastanza nella vita? Quando le sembrava che tutto potesse solo migliorare, ogni cosa era precipitata e c’erano state di nuovo la separazione, la morte, la perdita…
Respirò a fondo, socchiudendo gli occhi, poi li riaprì, rassegnata. Per l’ennesima volta aveva capito che era la sua natura, il suo destino, andare avanti e sopportare tutto. Come uno scoglio tra le onde. Guardò il giovane uomo davanti a se. Una persona che come lei aveva conosciuto il peggio della vita. Voleva sentire cosa aveva da dirle. Forse dopo sarebbero stati meglio entrambi.
“Parla.” Gli ordinò glaciale.
Milo sussultò e si voltò sorpreso, sgranando i suoi bellissimi occhi chiari. Una lacrima scese lungo il suo viso, ormai incontrollata.
“Parla!” L’incitò lei; il cavaliere fece un passo indietro, intimorito dal tono autoritario della sacerdotessa, poi chinò il capo.
“È colpa mia.” Sostenne infine Milo, lei lo guardò confusa, ma lui le negò gli occhi. “Camus, durante la battaglia alla Settima, rinchiuse Hyoga in una teca di ghiaccio, convinto che il ragazzo non fosse ancora pronto ad essere un eroe, un paladino di Atena e me lo disse, quando risalì alla casa di Acquarius.” Raccontò quindi, con tono triste. “Ma gli altri Cavalieri di Bronzo lo liberarono, grazie alle armi di Libra, così il Cigno fu in grado di combattere contro di me…” Elettra lo ascoltava parlare senza capire di cosa fosse colpevole, ma non lo interruppe. “Lo scontro è stato durissimo, per la prima volta, nella mia vita di guerriero, ho avuto paura, e poi… mi avrebbe sconfitto, lo sapevo, o sarebbe morto provandoci, ma la nostra battaglia non è mai finita.” Milo alzò gli occhi, incontrando lo sguardo interrogativo della donna. “Io… io l’ho salvato dalla puntura letale di Antares, l’ho lasciato andare e lui… lui ha ucciso Camus… è colpa mia se è morto.”
La sacerdotessa fissava il viso del cavaliere, ormai rigato dalle lacrime. I suoi occhi chiari erano arrossati e stanchi e avrebbe potuto giurare che lo fossero anche i propri. Non riusciva a togliere gli occhi da lui, mentre il suo cervello rimetteva faticosamente insieme i pezzi di quella giornata che aveva sconvolto la vita di tutti e due.
“Perché?” Riuscì finalmente a scandire la voce arrochita di Elettra; Milo sollevò lo sguardo, triste e rammaricato. “Perché lo hai salvato?”
Era l’unica domanda che avesse un senso, per lei. Le ragioni di Camus, solo lui avrebbe potuto spiegarle. I motivi che lo avevano spinto a combattere il suo allievo, a scontrarsi con l’unico uomo che poteva sconfiggerlo, solo lui le conosceva. E il cavaliere di Acquarius non era più lì per rispondere. Ora solo le motivazioni di Milo lei poteva conoscere. E voleva sapere cosa lo aveva spinto a salvare quel cavaliere, quel ragazzo.
Lui scosse il capo, appena smarrito; chiaramente non si aspettava quella richiesta. “L’ho fatto…” Mormorò titubante. “Ma ha importanza il motivo? Non conta solo che Camus è morto per colpa mia?!” Esclamò poi, indignato, piangendo.
“Per me, ha importanza!” Replicò Elettra gridando e afferrandolo per il collo della maglia. “Per me ne ha!” Aggiunse scuotendolo.
Le labbra di Milo tremarono e socchiuse gli occhi, da cui scesero copiose lacrime. Sentì che stava cedendo e lasciò che le sue ginocchia si piegassero. Caddero entrambi a terra, piangendo. Lui con le mani abbandonate lungo i fianchi, lei reggendolo senza forza per la maglia.
“Per Atena l’ho fatto.” Sussurrò infine il cavaliere, rivolto a Elettra, che lo aveva lasciato e ora gli dava quasi le spalle. “Era con lui, dietro di lui, nel suo cosmo, nei suoi colpi, con lui… e chi sono io per mettermi contro Atena? Io devo servirla, io sono un Cavaliere d’Oro, i miei dubbi sono spariti, ho capito che loro, gli invasori, non erano tali, che Lei era con loro e io… io non avevo il diritto di fermarli… ma questo non sminuisce la mia colpa…”
“Smettila!” Gridò la donna, colpendolo con uno schiaffo senza vigore, per poi cadere seduta sulle proprie gambe. “Smettila…” Lo supplicò poi.
“È colpa mia, mia, mia!” Infierì imperterrito lui, piangendo sempre più disperatamente.
Elettra si risollevò sulle ginocchia e gli prese il viso tra le mani. “Guardami, adesso.” Gli ordinò quasi brutale, obbligandolo a farlo. “Smettila, non è colpa tua.” Gli disse poi; Milo scuoteva la testa. “NON è COLPA TUA!” Gli urlò in faccia. “Lo hai fatto per la giustizia, per Atena! Per Atena…” Aggiunse abbassando progressivamente la voce, poi gli abbracciò la testa. “Per Atena…”
“Era il mio migliore amico…” Singhiozzò il cavaliere, ormai seduto scompostamente a terra, con lei che lo cullava come una madre. “Gli volevo bene…e… non sono mai riuscito a dirglielo…”
“Sono sicura che lui lo sapeva…” Sussurrò Elettra tra i suoi capelli. “Spero sapesse che lo amavamo.”  
Rimasero così per qualche minuto, piangendo in silenzio, ognuno per il proprio dolore, quasi sostenendosi per non cadere. Elettra, infine, si staccò da lui e gli prese nuovamente il volto tra le mani.
“Milo, ascoltami.” Gli disse, triste, asciugandogli delicatamente le lacrime con le mani. “Camus ha fatto le sue scelte, lui soltanto ha deciso di combattere, di affrontare Hyoga.” Affermò poi, dura. “Tu hai fatto l’unica cosa possibile, hai visto la verità e non potevi uccidere quel ragazzo sapendo che Atena lo guidava. Hai fatto ciò che era giusto.” Continuò la donna. “Pensa a cosa sarebbe successo se tu non avessi capito, non alle scelte che qualcun altro ha fatto autonomamente.”
“Ma come fate ad essere così lucida? Io… io non ci riesco…” Mormorò il cavaliere.
“Non so come faccio.” Ammise Elettra sconsolata. “Forse, purtroppo, ho solo imparato a conoscere il dolore, oppure sono solo fatta così e non posso farci nulla.” Quest’ultima affermazione strappò un sorriso amaro a Milo.
“Probabilmente avete ragione.” Si ritrovò, quindi, ad affermare, scrollando il capo. “Ma…”
“Ci sono già troppe persone, in questa storia, che si sono prese colpe e responsabilità non proprie, Milo.” L’interruppe lei. “Tu non hai bisogno anche di questo.”
Il cavaliere la fissò sorpreso. Sapeva a cosa Elettra si riferiva. Il suo senso di colpa per la morte di Melissa, un peso che lui portava con se da cinque anni. E ora, che gli sembrava di riuscire finalmente a superarlo, ci aggiungeva il rimorso per la scomparsa di Camus.
“Io…” Soffiò il ragazzo.
“No, basta adesso.” Gl’impose la donna, poi si alzò e gli porse la mano, perché facesse lo stesso.
Lui sospirò e si arrese. Ciò non significava che avesse improvvisamente cambiato idea o che si fosse convinto delle ragioni della sacerdotessa. Ma era stanco e questa notte stava diventando troppo lunga. Afferrò la mano di Elettra e si tirò in piedi.
“Pensa ai bei ricordi, è l’unica cura.” Gli suggerì la donna, con un lieve sorriso.
“Ci proverò, ma… è presto.” Replicò Milo.
“Me ne rendo conto.” Soggiunse lei. “Forse, adesso, dovremmo dormire un po’.” Il cavaliere annuì.
“Vi accompagno.” Si offrì poi, quindi s’incamminarono verso le scale.
Sì, forse Milo non avrebbe dovuto incolparsi così per quello che era successo, forse stava esagerando a causa del dolore così fresco. Giuro, però, a se stesso che avrebbe fatto di tutto per aiutare Elettra e suo figlio, se questo significava redimersi dalla colpa che sentiva. Era una promessa solenne che faceva al suo migliore amico, a suo fratello.

CONTINUA

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


WYA - 5

Questo, gente, è il penultimo capitolo. So che magari siete abituati a storie più lunghe e articolate, in questo fandom, ma temo non siano la mia specialità; non scrivo mai cose lunghissime, però diciamo che fanno quasi tutte parte di un progetto più grande, ecco. XD
Spero apprezzerete anche questa parte, buona lettura.

Grazie ancora di cuore a chi legge, preferisce, segue e soprattutto commenta la storia. Baci!
Sara

- Capitolo 5 -

We've got no fairytale ending
In God's hands our fate is complete
Your heaven's here in my heart
Our love's this dust beneath my feet
Just this dust beneath my feet
If I'm gonna live
I'll lift my life
Darlin' to you
(Countin' On A Miracle – Bruce Springsteen)

Milo si svegliò alle prime luci dell’alba, dopo solo poche ore di sonno. La testa gli doleva un po’. Si girò tra le lenzuola, verso la finestra e osservò la luce opaca di quel mattino estivo. La stanchezza non gli era certo passata, come anche quel senso di oppressione sul petto, ma lo sfogo della sera prima, forse, era servito a sollevarlo un pochino.
Si mise seduto, stiracchiandosi appena. Aveva fatto caldo quella notte e il cavaliere si era tolto il pigiama, finendo per dormire solo con i boxer. Scese dal letto e andò sul balcone. L’aria era, naturalmente, ancora fresca. Era presto, il mondo cominciava a svegliarsi in quel momento. Lui respirò a fondo, come se quell’aria limpida potesse in qualche mondo pulirgli l’anima.
Il ragazzo ricordava benissimo le parole della Divina Elettra. Era veramente giusto da parte sua accollarsi la colpa della morte di Camus? Forse no, ma il suo cuore non era pronto a superare quello scoglio. La presenza di Atena, probabilmente, avrebbe alleviato i suoi crucci e chiarito molti punti oscuri di ciò che era successo. Oggi sarebbe tornato al Santuario.
Tornò dentro ed andò a lavarsi. A colazione avrebbe parlato con la sacerdotessa; che Ioria fosse venuto a prenderlo oppure no, lui sarebbe tornato a casa quel giorno.

Il cavaliere di Scorpio raggiunse la sala da pranzo verso le sette. Non si era aspettato di trovare qualcuno, ma Elettra era vicino al carrello con la colazione che si versava una tazza di profumato caffè. Lui si fermò sotto l’arco di accesso.
“Buongiorno.” Salutò.
Gli rispose il primo sorriso sincero della donna, da quando Milo era arrivato al Santuario di Zeus. La sacerdotessa posò la tazza sul tavolo e lo attese, mentre lui si avvicinava sorridendo.
“Buongiorno a te.” Gli disse. “Se vuoi il caffè, serviti pure, è appena fatto.”
“Grazie.” Rispose il ragazzo, prima di farlo.
“Hai dormito almeno un po’?” Gli chiese premurosa Elettra, dopo essersi seduta.  
“Sì, non per molto, ma è servito.” Affermò lui, sedendosi alla sua destra.
La tovaglia era candida, così come i piatti e c’era una chiara e fresca luce che proveniva dalla finestra aperta, le cui tende bianche si muovevano piano. Particolari che Milo fissava, cercando di trovare argomenti per rompere il silenzio. La donna spiluccava distrattamente una fetta di pane tostato, mentre lui beveva il suo caffè.
“Oggi torno al Santuario.” Le confessò infine.
Lei sollevò gli occhi, sorpresa e anche, forse, un po’ delusa. “Già, immagino che sia necessario…” Commentò, prima di rivolgere di nuovo lo sguardo alla fetta di pane.
“Mi dispiace, ma…” Soggiunse Milo, prendendole la mano. In quel momento si sentì squillare un telefono in lontananza. “…sono sicuro che Atena, quando conoscerà la vostra storia, vorrà certamente revocare il confino.”
“Sei gentile.” Replicò dolcemente la donna, guardandolo negl’occhi. “Ma non voglio che sia forzata a farlo.”
“Ma Divina Elettra, voi…” Tentò di ribattere il cavaliere, ma fu interrotto dall’arrivo di Alexi.
Il ragazzo entrò in sala da pranzo dalla porta in fondo, non dall’arco che dava sulla piscina. Era pallido e la sua espressione era abbastanza sconvolta e smarrita, aveva il cordless in mano. Elettra scattò immediatamente in piedi.
“Alexi, che c’è?” Gli domandò allarmata.
“È… è il nonno…” Mormorò con fronte aggrottata e occhi lucidi. “Non… non so che cosa dirgli…”
La sacerdotessa ripiombò sulla sedia, gli occhi improvvisamente pieni di lacrime e le mani tremanti, poi guardò Milo.
“Mi sono dimenticata di avvertirlo…” Riuscì soltanto a dire; lui le strinse subito la mano.
Il cavaliere la fissò un attimo negl’occhi. Era un momento drammatico. Nikolais, il padre di Elettra, che un tempo era il custode della biblioteca del Santuario di Atena, era stato in un certo senso un padre anche per Camus e Milo sapeva che, di certo, l’uomo amava il cavaliere scomparso come un figlio. La donna, però, adesso era scioccata e non gli sembrava in grado di parlare col padre e di dargli spiegazioni su ciò che era accaduto. Si voltò verso Alexandros, ma anche il ragazzo, che piangeva copiosamente, non poteva farlo. Prese la decisione in un attimo.
“Ci parlo io.” Dichiarò deciso, alzandosi, dopo aver stretto un po’ di più la mano di Elettra; a grandi passi si avvicinò ad Alexi e gli prese il telefono dalle mani. “Nikolais, sono Milo… no, stia tranquillo, le devo solo dire una cosa…” Esordì all’apparecchio, mentre usciva dalla stanza e Alexi correva tra le braccia della madre.
Il cavaliere tornò dopo qualche minuto. Elettra e suo figlio erano seduti a tavola. Lui guardava il vuoto con espressione triste e lei gli carezzava i capelli, ma quando Milo entrò sollevarono immediatamente gli occhi su di lui.
“Allora?” Fece mesta la donna.
“Tutto a posto.” Rispose l’uomo, posando il telefono sulla credenza e tornando a sedersi al suo posto. “Sta venendo qui.” Entrambi gli interlocutori sospirarono sollevati, poi Elettra lo guardò negl’occhi, riconoscente.
“Grazie.” Sussurrò quindi.
“Di niente.” Replicò lui. “È un dovere.” La donna gli sorrise incerta e Milo seppe di aver fatto davvero il suo dovere.

Qualche ora dopo, Ioria si ripresentò al Santuario di Zeus. Elettra lo incontrò nel proprio studio. Il cavaliere di Leo la trovò decisamente meglio e non solo perché si era truccata ed aveva acconciato i capelli, ma proprio per lo spirito. Sembrava aver riacquistato la sua storica flemma e…
“Ioria, puoi sederti, o quel manico di scopa che hai al posto della spina te l’impedisce?”
…il suo sarcasmo, ma di quello se ne faceva anche a meno.
“Non sei divertente.” Commentò lui.
“Non era mio intento.” Replicò immediata la donna, tornando a donare attenzione alle carte sulla scrivania.
“Ho parlato di molte cose, con Lady Saori, ieri sera.” Raccontò il cavaliere. “Anche di te.”
Elettra lo guardò, dopo aver incrociato le braccia sul piano. “Io le ho scritto una lettera, stamattina.” Gli disse, stupendolo, poi gli porse una busta chiusa. “Vorrei che tu gliela consegnassi.”
“Sarà un piacere, per me.” Replicò Ioria, prendendola.
“Spero che un giorno mi sarà possibile incontrarla.” Si augurò la donna con un breve sorriso.
“Ne sono certo, Elettra.”
In quel momento bussarono un po’ sguaiatamente alla porta. Ioria si voltò, mentre Elettra invitava ad entrare. Milo fece il suo ingresso saltellando su una gamba, poiché l’altra era sollevata nell’atto d’infilarsi una scarpa. Il cavaliere di Leo gli rivolse un’occhiata supponente.
“Milo, ti ho fatto chiamare perché ho pensato, dato che Ioria è qui, che potreste tornare insieme.” Spiegò la sacerdotessa al nuovo arrivato.
“Vi ringrazio, Divina Elettra.” Rispose il ragazzo, dopo aver finito di mettersi la scarpa.
Fu in quell’attimo che il suo sguardo azzurro e divertito incrociò quello severo di Ioria. Si osservarono per qualche istante, poi Milo fece il suo classico sorrisetto beffardo.
“Cosa c’è?” Gli domandò quindi. “Ho qualcosa che non va? Macchie in faccia, strappi nei pantaloni in punti indecenti?” Aggiunse con tono malizioso.
Ioria fece una smorfia ringhiosa e distolse lo sguardo. “Sei inopportuno come al solito.” Commentò.
“Andiamo, lascialo in pace.” Intervenne Elettra.
“Ma che fai? Lo difendi?!” Sbottò allibito il cavaliere, sotto lo sguardo divertito dell’altro.
“Non ha fatto niente di male.” Replicò lei tranquilla.
“Santo cielo, Elettra, sei una Gran Sacerdotessa e non è questo il modo di presentarsi davanti a te!” Protestò Ioria infervorato.
“Oh, Santi Numi, ragazzo mio, sei una vecchia beghina con la cuffia e hai solo ventidue anni!” Ribatté scoraggiata la donna, sbuffando. “Vedi di scioglierti un pochino o resterai vergine a vita!”
A quella battuta, Milo non poté trattenersi e ridacchiò spudoratamente, guadagnandosi un’occhiata inceneritrice da parte del compagno.
“Che c’è? Non è vero che sei vergine?” Ironizzò maligno il cavaliere di Scorpio.
“Ti credi tanto migliore di me, eh, principe del materasso?” Punzecchiò Ioria.
“Io non mi credo migliore di n…”
“Adesso basta.” Li interruppe Elettra, già stufa dei loro battibecchi ancora prima che entrassero nel vivo. “Ioria…” Chiamò poi, attirando l’attenzione del cavaliere. “Mi raccomando la lettera.”
“Non temere, la consegnerò nelle sue mani.” Le assicurò il ragazzo.
“Bene, non ho nient’altro da dirvi.” Concluse la donna, preparandosi a congedarli.
Ioria si alzò, allungandosi sulla scrivania per prenderle la mano. “Sei sicura di non aver bisogno di nulla, io posso restare ancora…”
“Sei gentile, ma non ce n’è bisogno.” Rispose Elettra, alzandosi a sua volta. “Sta arrivando mio padre.” Gli annunciò poi.
“Ah, mi fa piacere.” Soggiunse lui. “Sarò felice di rivederlo.”
“Sono certa che anche lui sarà felice di rivedere tutti voi.” Affermò sicura la sacerdotessa, spostando lo sguardo su Milo, che annuì sorridendo.
“Bene, sono anche più tranquillo, sapendo che arriva lui.” Aggiunse Ioria, mentre Elettra aggirava la scrivania, pronta ad accompagnarli.

Quando furono nel corridoio si videro venire incontro Alexandros. Anche lui sembrava stare meglio. Indossava jeans e una maglietta nera, i lunghi capelli biondi legati sulla nuca e un colorito decisamente più sano di quello del giorno prima. Sorrise a tutti.
“State andando via?” Chiese il ragazzo ai due cavalieri.
“Sì.” Rispose Ioria, mentre Milo annuiva.
“Voglio venire anch’io al Santuario di Atena.” Dichiarò allora il ragazzo sicuro.
Gli occhi di tutti si spalancarono. Elettra agghiacciò. Ioria si sentì afferrare il braccio con una stretta di ferro e abbassò gli occhi sulla mano della donna che lo reggeva. Gli occhi della sacerdotessa erano fissi sul figlio.
Anni, pensava Elettra. Aveva impiegato anni di sforzi, per proteggere suo figlio dal Santuario di Atena. Sotterfugi, sacrifici e segreti, per mantenere sotto anonimato la sua identità, per impedire all’usurpatore di scoprire l’esistenza del figlio di Aioros. E ora… tutto inutile, tutto finito, perché era lui stesso a chiedere di andare. Sapeva, sapeva che sarebbe successo…
“Sei… sicuro di volerlo fare?” Mormorò infine la donna, con voce tremante. Era a conoscenza che non c’era più pericolo, ma lo stesso era dura, lasciarlo andare da solo nel luogo da cui, per tanto tempo, lo aveva protetto.
“Non devi avere timore, mamma.” La rassicurò lui. “La dea Atena è tornata ed è necessario che qualcuno vada.” Aggiunse tranquillo. “Non permetterò che Camus faccia da solo l’ultimo viaggio, tu non puoi andare, quindi devo farlo io.” Quelle parole commossero Elettra, che sentì subito le lacrime agli occhi. Spesso aveva sottovalutato l’affetto di Alexi per Camus, si ripromise di non farlo più. “Non avere paura.” Continuò il figlio. “Nessuno sa chi sono e poi, ci saranno loro con me.” Concluse, indicando i due cavalieri dietro di lei con un sorriso.
“Bene, se è questo che vuoi…” Accettò infine la donna, lasciando finalmente il braccio di Ioria; Alexandros annuì sorridendo.
“Vado a prepararmi, ci metto un attimo!” Affermò poi, correndo via.
Elettra chinò il capo, quindi si portò le mani a coprire la bocca e sospirò rassegnata. “Doveva succedere.” Disse poi, più a se stessa che agli altri presenti. “Lei lo ha chiamato…” Aggiunse in un sussurro.
“Come?” Fece Ioria perplesso, girandosi verso di lei, ma non poté aggiungere altro, poiché Milo si mise tra loro e prese le mani alla sacerdotessa.
“Non temete, Divina Elettra.” Esordì con energia. “Lo proteggerò con la mia stessa vita, se fosse necessario.” Le garantì appassionato.
Lei sorrise tristemente. “Sei dolce, grazie.” Gli rispose, con una carezza sulla guancia, quindi si allontanò, dopo aver salutato Ioria con un cenno.
Quando la sacerdotessa fu sparita in fondo al corridoio, il cavaliere di Leo guardò malevolo il compagno, che alzò le sopracciglia con espressione interrogativa.
“Avrei dovuto dirlo io, è mio nipote.” Affermò Ioria cupo.
“Non sei stato abbastanza veloce.” Replicò l’altro stringendosi nelle spalle.
“Io, sono il più veloce.” Ribatté secco Leo.
“Fossi in te, non me ne vanterei troppo.” Soggiunse Milo, allusivo come sempre. “Non in tutti i campi è un pregio…” Suggerì poi, precedendolo verso l’uscita.  

“È diverso.” Mormorò Alexi guardandosi intorno.
I due cavalieri che lo precedevano si voltarono verso di lui e lo studiarono con lo sguardo, poi entrambi sorrisero.
“Diverso da come lo immaginavi?” Chiese Ioria, mentre erano fermi su uno spiazzo brullo, ai piedi di uno scalone di marmo.
“Beh, sì, però…” Rispose il ragazzo. “…è anche come se lo conoscessi, questo posto.” Aggiunse, continuando ad osservare il paesaggio intorno a se.
“Probabilmente è perché tua madre e Camus te ne hanno parlato.” Ipotizzò Milo.
Alexandros annuì, prima di seguirli sulle scale, ma lo fece soltanto perché sarebbe stato difficile spiegargli che si sentiva più come se ci fosse già stato, al Santuario di Atena. E visto che, effettivamente, lui non ci era mai stato, la cosa poteva diventare complicata.
“Vieni, facciamo la strada più breve…” Lo incitò la voce di Ioria.
“Io, veramente…” Lo interruppe Alexi; i due cavalieri lo guardarono di nuovo, interrogativi. “…vorrei passare dai dodici templi, se è possibile.” Chiese timidamente.
“Potrebbe essere un problema.” Affermò Leo.
“Ci sono macerie e parti pericolanti, è un gran casino.” Rincarò Milo.
“Ma che diavolo avete combinato?!” Esclamò il ragazzo.
“La battaglia è stata feroce.” Raccontò Ioria. “Il tempio di Leo è praticamente distrutto.”
Alexandros, stupito, si voltò verso Milo. “E il tuo tempio?” Domandò.
“Beh, non ha subito gravi danni strutturali, però… sarà un problema togliere tutto quel sangue.” L’espressione di Alexi si fece sconvolta. “Che hai da fissarmi così? È la guerra, ragazzo!”
Lui scosse il capo biondo. “Che risposta da Camus.” Commentò poi divertito. Milo ridacchiò.
“Ci ho passato troppo tempo insieme, probabilmente!” Fece quindi, sorridendo.
“Un problema che abbiamo in comune!” Replicò Alexi.
Risero, poi Milo prese per le spalle il ragazzo e deviò il suo percorso verso la salita dei templi. Ioria li seguì scuotendo il capo.
Le dodici case dello zodiaco non erano messe bene, bisognava ammetterlo; alcune erano proprio ridotte ad un cumulo di macerie.
Salutarono Aldebaran, davanti alle colonne pericolanti del suo tempio; lui ancora stoico in armatura, col suo corno reciso. Passarono all’esterno di Cancer, ancora velata dalla sua aura di morte. Si rammaricarono delle rovine di Leo, mentre il suo custode proclamava la ricostruzione immediata. La pace di Libra li accolse, quando già cominciava a fare caldo. Non passarono all’interno di Scorpio, perché proprio in quel momento stavano provando a pulire il pavimento dal sangue. Fu solo davanti alle porte del tempio di Sagitter che si fermarono.
Tutti e tre guardarono in alto, verso la facciata severa col simbolo della freccia, poi Alexandros si rivolse ai compagni di viaggio.
“Mi dispiace se fare questa strada vi ha in qualche modo turbato.” Gli disse con semplicità.
Ioria gli rivolse un’occhiata comprensiva, poi gli strinse una spalla con la mano, come a dire di non preoccuparsi. Milo gli dedicò un’occhiata solidale.
“Non preoccuparti.” Gli disse poi. “Sono giorni così, staremo meglio, vedrai.”
Il ragazzo annuì, poi tornò ad osservare l’accesso a quella che un tempo era la casa di suo padre.
“Io… vorrei entrare.” Ammise titubante. Ioria e Milo si scambiarono uno sguardo.
“Beh…” Disse poi Scorpio. “…non c’è un custode che possa impedirtelo, quindi…”
“In realtà si dovrebbe…” Provò ad obiettare Leo, ma fu zittito da un’occhiata dell’altro cavaliere che era disapprovazione pura. “Entriamo.” Esalò arreso lui.

La sensazione che provò Alexandros nel tempio di Sagitter non era spiegabile a parole. Perché lui conosceva quel luogo.
Conosceva l’odore, la luce particolare proveniente da angolazioni improbabili, conosceva il silenzio ed il modo in cui i rumori si propagavano in quello spazio vuoto. Sapeva che l’avrebbe trovata lì, splendida e lucente, sul piedistallo, con le ali d’oro spiegate e la freccia puntata verso il cielo: la sacra veste di Sagitter.
Il ragazzo si avvicinò quasi ipnotizzato, abbagliato dall’oro dell’armatura; alzò lentamente una mano, facendosi sempre più vicino.
“Non credo sia il caso di toccarla.” Lo avvertì Ioria.
“Devo.” Rispose soltanto lui, prima di sfiorare il gelido metallo.
In quel momento accadde qualcosa che Alexandros non si sarebbe saputo spiegare per molti anni ancora. Il presente svanì e lui si ritrovò in quello stesso tempio, ma in un altro tempo.
Vide suo padre, giovane, forte, generoso, imbevuto di verità e giustizia. Ascoltò la sua voce calda impartire lezioni ad un piccolo Ioria che somigliava troppo a lui da piccolo. E vide sua madre, come un tempo l’aveva vista Aioros: con un sorriso da bambina che ormai non aveva più. Vide le risate, le confessioni, le promesse. Vide i baci e gli addii. Durò anni. E lui era presente.
E poi apparve un volto di fanciulla. Lui non sapeva chi era, eppure la conosceva. E lei stava chiamando il suo nome.
Poi il tempo si riavvolse e ricominciò a scorrere normalmente. I suoi occhi tornarono a vedere il presente: il luccicante oro delle vestigia sacre.
“Alexi.” Lo chiamò la voce leggermente allarmata di Ioria, mentre gli toccava un braccio.
“Cosa è successo?” Domandò confuso il ragazzo, guardando prima uno poi l’altro dei suoi accompagnatori.
“Devi dircelo tu.” Fece Milo. “Per un attimo ti sei estraniato ed abbiamo sentito…” Guardò Ioria, per avere conferma, lui annuì.
“Abbiamo avvertito il tuo cosmo.” Affermò il cavaliere di Leo.
“Solo un attimo?” Chiese Alexi, loro annuirono. “Per me è durato così tanto…”
“Vuoi dirci che cosa è successo?” L’interrogò Ioria.
“Ho visto mio padre, la sua vita…” Rispose assorto il ragazzo. “Devo andare da lei.” Aggiunse deciso, sottraendosi alla presa blanda di Leo.
“Da chi?” Chiese perplesso Milo.
“Da Atena.” Rispose sicuro Alexi, precedendoli verso l’uscita del tempio.
Ioria fece per seguirlo ma fu bloccato dalla presa di Milo sul braccio, che lo fece fermare e voltare verso il compagno d’armi.
“Non fare finta che non sia successo niente.” Gli disse Scorpio a bassa voce. “È stato inquietante.”
“È inutile stare qui a farci domande di cui non abbiamo la risposta.” Ribatté Leo, anche se la voce non gli uscì sicura come avrebbe voluto. “Solo Lady Saori può chiarire i nostri dubbi.”  
Milo, con una smorfia poco convinta, lo lasciò andare e quindi lo seguì verso l’uscita della nona casa – ancora un semplice buco nel muro. Il cavaliere, però, non poté impedirsi di continuare a pensarci, mentre osservava zio e nipote salire tranquilli verso le rovine del decimo tempio.

I dubbi, però, aumentarono solamente, nel momento in cui Alexandros incontrò Saori Kido.
Non ci furono presentazioni, né domande o risposte. Sembrò solo che il tempo si fermasse, quando si guardarono negli occhi, sotto lo sguardo incredulo dei cavalieri di bronzo e di Ioria e Milo.
“Ti stavo aspettando.” Disse la fanciulla al ragazzo, con un sorriso dolcissimo.
“Lo so.” Annuì lui.
“Finalmente sei arrivato.” Continuò la Dea, prima di aprire le braccia per lui.
Alexandros l’abbracciò delicatamente, mentre le espressioni allibite e scandalizzate dei santi di bronzo parlavano da sole.
“Mi sei mancata.” Le sussurrò Alexi. Non sapeva perché lo diceva, visto che l’incontrava per la prima volta, ma sentiva che era la verità.
“Anche tu.” Rispose Saori, carezzandogli i capelli biondi.
Ed a quel punto, nessuno seppe veramente più che cosa dire. Tranne Seiya, che protestò vibratamente per il modo irrispettoso con cui quel tipo toccava Milady.

CONTINUA




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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


WYA - 6
È più di un mese che penso a cosa fare di questo capitolo, ma alla fine era inutile continuare a rimuginarci sopra, temo che meglio di così non mi verrà mai.
Quindi lo consegno a voi lettori per il verdetto, spero che lo giudicherete meglio di quanto faccio io.
Sono arrivata alla fine anche di questa storia che giaceva nel mio pc da tempo immemorabile, solo averla finita per me è una vittoria. Gli altri commenti li lascio a voi.

La canzone citata alla fine del capitolo è “Terry’s song” di Bruce Springsteen, nessun scopo di lucro.

Buona lettura.
Sara

- Capitolo 6 -

To the dead it don't matter much
'Bout who's wrong or right
You asked me that question I didn't get it right
You slipped into your darkness
Now all that remains
Is my love for you brother
Lying still and unchanged
(Gipsy biker – Bruce Springsteen)

Il sole era particolarmente brillante, quella mattina, sul Santuario di Atena. Saori guardò fuori, oltre le colonne del balcone e sorrise. Aveva passato buona parte della notte con Alexandros, a parlare, a farsi raccontare la sua vita e quella di sua madre. Aveva letto la lettera di Elettra e ne aveva a sua volta scritta un’altra, in risposta.
Bussarono alla porta, sapeva chi era, quindi invitò ad entrare. I suoi più fedeli paladini entrarono in quello che una volta era lo studio del primo ministro.
Seiya precedeva gli altri, mentre Shiryu, rimasto per ultimo, chiudeva silenziosamente la porta. La ragazza sorrise a tutti e quattro e loro salutarono con un cenno.
“Vi domanderete perché vi ho convocati così presto.” Disse Saori, accomodandosi sulla poltrona dietro la pesante scrivania.
“Immagino sia per darci una qualche spiegazione sulla faccenda di quel tipo.” Ribatté immediato il cavaliere di Pegasus, incrociando le braccia.
“Si chiama Alexandros.” Precisò Shun dalla sua destra.
“È inutile che ti ostini a chiamarlo: quel tipo.” Rincarò Hyoga dietro di lui.
“Sentite!” Sbottò Seiya, voltandosi verso gli amici. “È arrivato qui e sembrava che conoscesse Milady da una vita, voglio semplicemente sapere chi è!”
“Cavalieri.” Li richiamò all’ordine la ragazza. “Sarebbe piuttosto lungo e complicato, spiegare ora l’importanza di Alexandros, ma sarei molto felice se voi voleste trattarlo come un nuovo membro del gruppo, uno di voi.” Aggiunse dolcemente.
“Ma non è un Cavaliere.” Soggiunse Shiryu.
“No, non lo è.” Rispose Saori.
“E allora chi diavolo è?!” Esclamò spazientito Seiya.
“È il figlio di Aioros.” Rivelò infine la ragazza; i quattro cavalieri la fissarono con gli occhi sgranati. “Adesso lo senti un po’ più vicino, Seiya?” Chiese quindi lei.
“Io…” Esalò incredulo il ragazzo. “…davvero… non avevo idea…” Balbettò mortificato.  
“In molti non sapevano della sua esistenza, sua madre è stata molto brava a proteggerlo da Arles.” Spiegò Saori. “Solo due Cavalieri conoscevano il segreto, fortunatamente lo hanno mantenuto.”
“E dove è rimasto, per tutti questi anni?” Domandò incuriosito Shiryu.
“Sua madre è la Gran Sacerdotessa di Zeus.” Raccontò la ragazza. “È stato il Santuario del Grande Padre a nasconderlo dalle forze del male.”
“E perché lei non è qui, Milady?” Interrogò garbatamente Shun. Saori sorrise.
“È proprio questo uno dei compiti che voglio affidare ad alcuni di voi.” Annunciò poi, allungando sul tavolo una pergamena arrotolata chiusa da un sigillo di ceralacca. “Hyoga, Shun, volete andare al Santuario di Zeus a portare questo alla Divina Elettra?”   
“Di che cosa si tratta?” Chiese il cavaliere del cigno.
“È la revoca dal confino impostole da Arles.” Rispose tranquilla la ragazza. I due cavalieri si scambiarono uno sguardo d’intesa, poi annuirono a Saori.
“E noi due, cosa dovremmo fare, nel frattempo?” S’informò deluso Seiya, indicando se stesso e Shiryu.
“Voi, insieme ad Ikki, collaborerete con i Cavalieri d’Oro per organizzare la cerimonia funebre.” Gli rispose Saori. “Voglio che i defunti abbiamo tutti gli onori.”

Sapeva che non sarebbe dovuto entrare lì, che gli avrebbe fatto male, ma era stato più forte di lui spingere quel pesante portone scuro e fare un passo nella stanza fredda. Quello che non avrebbe sospettato era di trovarci qualcun altro.
La grande sala ovale era illuminata da alte fiaccole tremolanti ed occupata quasi interamente da letti di pietra, su cui erano adagiati i corpi dei guerrieri periti nella battaglia. L’aria era così fredda che sembrava ci fosse in opera un impianto di condizionamento.
“È scavata nella pietra, non fa mai più caldo di così.” Gli spiegò la voce del giovane di spalle, accanto ad uno dei giacigli.
Alexi si avvicinò a Milo stringendosi nella maglietta estiva. “Per questo la usano come… obitorio?” Fece, con tono sarcastico. Il cavaliere annuì.
“Le tombe sono ancora più in basso.” Indicò poi, verso delle scale che scendevano nel buio.
“Credo che lui avrebbe preferito una teca di cristallo tra i ghiacci della Siberia.” Affermò il ragazzo, accennando al corpo disteso davanti a loro.
“Già.” Annuì Milo.
“Credevo che mi avrebbe fatto più effetto, vederlo… così.” Disse Alexi, mentre fissava l’espressione serena di Camus. “Sembra che dorma.”
“Tu hai un bel sangue freddo, ragazzo.” Replicò Milo.
“Me lo diceva anche lui.” Soggiunse. “Diceva che avevo ereditato il carisma di entrambi i miei genitori e che avrei potuto guidare un esercito.”
Milo lo guardò. Il profilo nobile ed i profondi occhi blu, con uno sguardo senza cedimenti, seppure davanti ai sentimenti forti che certamente provava. E aveva solo tredici anni. Forse non c’erano le falangi della Macedonia per questo Alessandro… ma un Santuario senza guida, sì.
“Non so se voglio che mia madre lo veda qui.” Dichiarò Alexi, con ancora gli occhi sul corpo senza vita di Camus.
“Lei è forte, credo che possa…” Tentò Milo.
“Adesso devo pensare io a lei.” Lo interruppe deciso il ragazzo.
“Alexi…” Lo chiamò il cavaliere, distogliendo la sua attenzione dal giaciglio. Lui lo guardò con gli occhi finalmente lucidi. “…hai solo tredici anni, devi pensare anche al tuo, di dolore.”
Si fissarono per un lungo attimo negli occhi. Emozioni troppo simili li attraversavano, mentre Milo teneva il ragazzo delicatamente per un braccio.
“Tu, gli volevi molto bene?” Domandò infine Alexi, continuando a guardarlo.
“Era… era mio fratello.” Rispose Milo, deglutendo a metà frase. “Nessuno si era mai preso cura di me, prima di lui, mi ha fatto sentire per la prima volta come se potessi essere qualcuno, non uno dei tanti.” Spiegò poi, col tono liquido e gli occhi bagnati. Alexi annuì.
“È stato l’unico padre che io abbia avuto.” Affermò poi. “Quindi ti capisco.”
“Non credo che vorrebbe vederci qui a piangere.” Dichiarò il cavaliere, prendendolo per le spalle.
“No, non penso.” Ammise il ragazzo.
“Allora, andiamo, gli renderemo onore quando sarà il momento.” Lo incitò Milo, spingendolo verso la porta. “E poi, se non ti riporto subito, tuo zio penserà che ti sto portando su una cattiva strada…” Aggiunse, con un sorrisetto sbieco.
“Credo che ci abbia già pensato Jean…” Ribatté furbo Alexi, alzando un sopracciglio.
“Oh, era un artista, in questo!” Esclamò Milo, mentre iniziavano a salire le scale.
Risero. E continuarono a salire verso il sole, ricordando aneddoti divertenti su Camus e scoprendo così che sarebbero stati quei bei ricordi a farli andare avanti.  

I due giovani cavalieri avevano pensato che sarebbero stati ricevuti in una sala del trono o qualcosa di simile, visto com’era l’ambiente al Santuario di Atena. Non avevano mai conosciuto un vero Gran Sacerdote e questo un po’ li intimoriva. Vennero invece accompagnati in uno studio elegante, luminoso, pieno di libri e con i mobili bianchi.
Nessuno dei due si era seduto, in ansia per l’imminente arrivo della sacerdotessa. Hyoga era vicino alla finestra e guardava fuori, mentre Shun curiosava tra i volumi della grande libreria.
Lo sguardo del giovane si fermò su alcune cornici d’argento esposte su uno dei ripiani. Erano fotografie allegre, alcune sulla spiaggia. Facce felici nel sole della Grecia. Una lo colpì più delle altre: c’erano ritratti due ragazzi molto giovani, seduti su una battigia sassosa. Lei era incinta ed aveva uno sguardo un po’ triste, lui le era seduto dietro e l’abbracciava dolcemente.
“Oh, santo cielo…” Esalò Shun, riconoscendo il ragazzo della foto.
“Cosa c’è?” Domandò Hyoga, voltandosi.
“Vieni a vedere queste foto.” Lo invitò con tono preoccupato.
Il cavaliere del cigno si avvicinò all’amico e osservò le immagini così accuratamente ordinate davanti a loro. I suoi occhi si spalancarono quasi subito.
“È… è Camus…” Mormorò sconvolto.
“Sì.” Annuì l’altro. “E sembrano piuttosto… vicini…”
Non ci voleva un genio della deduzione per capire che quei due si volevano bene. Avevano mandato l’assassino di Camus nella casa della donna che amava. Shiryu l’avrebbe chiamato karma. Hyoga lo stava chiamando accanimento.
“Perché diavolo Milady ha mandato proprio me?!” Si chiese il ragazzo con disperazione.
“Forse è una prova.” Ipotizzò Shun.
“E non ne ho avute già abbastanza?” Replicò frustrato l’altro.
L’amico gli prese delicatamente un braccio. “Forse è meglio se affronti subito questo fantasma, piuttosto che portartelo dietro in futuro.” Gli disse.
“È un giovane uomo saggio, il tuo amico.” Intervenne una voce femminile, profonda e vibrante.
I due ragazzi si voltarono e videro la sacerdotessa. Era chiaramente la stessa ragazza della foto, ma allo stesso tempo sembrava più antica e distante, nella sua fredda bellezza. Somigliava un po’ a sua madre, pensò Hyoga, con quei capelli biondi e gli occhi chiari, ed era tragico che la sua nemesi avesse tratti in comune col suo più bel ricordo.
“Benvenuti, Cavalieri.” Li salutò la donna con un sorriso dolce, in fondo aveva un figlio praticamente loro coetaneo.
“Grazie.” Le rispose educatamente Shun, mentre Hyoga era rimasto leggermente impalato.
“Posso sapere i vostri nomi?” Chiese Elettra, sempre con gentilezza ed il sorriso.
“Sono Shun di Andromeda.” Si presentò subito il ragazzino dai tratti delicati, porgendole la mano; lei la strinse con calore. “E lui…”
Elettra guardò Hyoga negli occhi. Lui aveva due bellissimi occhi azzurro ghiaccio dal taglio a mandorla, con lunghe ciglia bionde, ma sembravano tormentati e incerti.
Lei era bella ed aveva un’espressione tranquilla, materna quasi. Il ragazzo sentì il senso di colpa squassargli le viscere. Pensò ancora a sua madre, pensò a Camus… il mondo vorticava.
Le porse la mano. “Sono Hyoga di Cigno.” Le disse.
Gli occhi di Elettra si spalancarono, mentre gli stringeva la mano ed ascoltava quel nome. Lo fissò incredula per qualche secondo. Per Hyoga fu chiaro che sapeva tutto, abbassò gli occhi.
“Io…” Mormorò il cavaliere.
“Non dire niente, Hyoga.” Lo interruppe la sacerdotessa. “Non ce n’è bisogno.”
Aveva affrontato quel discorso una volta di troppo, nelle ultime ore. Adesso non voleva obbligare questo ragazzino dall’aria smarrita e colpevole ad una confessione dolorosa e drammatica come quella di Milo. Lui non aveva colpe, aveva solo fatto il suo dovere.
Si sedette alla scrivania, accorgendosi che loro erano rimasti in piedi. In quel momento, lontani da armi e battaglie, apparivano per quello che erano: troppo giovani per la vita che facevano.
“Mi rendo conto che sia difficile per tutti noi.” Affermò Elettra, cercando un tono accogliente ma risultando un po’ fredda, le mani le tremavano appena. “Ma so che siete qui per un motivo ben preciso, quindi v’invito a portare a termine il vostro incarico.”
Shun guardò Hyoga: aveva gli occhi fissi sulla donna, lucidi. Sapeva bene quanto il suo amico fosse sensibile, nonostante spesso si mostrasse arrogante. Allungò una mano e strinse la sua. Hyoga si girò e Shun gli sorrise, incitandolo con un cenno.
“Oh, sì!” Si riscosse il cavaliere del cigno, traendo la lettera di Saori.
“Lady Saori vi manda questa.” Le disse Andromeda, mentre l’altro le porgeva la pergamena.
“È la revoca del confino.” Spiegò Hyoga.
Elettra prese il rotolo tra le mani. Lo aveva aspettato per anni. Questo era il vero simbolo che la guerra era finita. Atena era tornata. Il sacrificio di Aioros non era stato vano.
Non era il momento di prendersela con chi non aveva sbagliato. Era ora di asciugarsi le lacrime e abbandonare i sensi di colpa. Era il tempo del perdono.

Elettra era sul balcone principale del tempio, quello da cui le gran sacerdotesse facevano i loro discorsi in occasione delle cerimonie. Molte volte lei stessa aveva parlato alla folla dall’alto di quella balconata di marmo candido.
Ora, però, si limitava a guardare in basso con espressione assorta, mentre i due giovani cavalieri lasciavano il Santuario di Zeus e l’orizzonte si mangiava un altro giorno senza Jean.
“Chi sono quei ragazzi?” Domandò una voce alle spalle della donna.
Non era necessario voltarsi, per sapere che si trattava di suo padre. Nikolais era arrivato qualche ora prima e, dopo aver raccolto il suo racconto ed il suo sfogo, adesso le stava discretamente vicino, come aveva sempre fatto nei suoi momenti di dolore.
“Messaggeri di Atena.” Rispose Elettra, continuando a seguire con gli occhi le due schiene che si allontanavano verso il cancello.
Nikolais osservò un attimo i ragazzi, poi tornò sul viso impassibile della figlia. La capacità di controllarsi di Elettra a volte lo spaventava, non era molto naturale essere sempre così incrollabili.
“Sono i guerrieri venuti con Lei dall’Oriente?” Chiese il padre, lei annuì. “Quelli che hanno combattuto alle Dodici Case?” Continuò stupito.
“Sì, sono loro.” Confermò Elettra.
“Sono… poco più grandi di Alexandros…” Commentò Nikolais.
“Già.” Fece lei.
“E tu pensi…” Nikolais esitò un secondo. “Sai se è stato uno di loro a…”
Elettra si voltò verso di lui e gli afferrò la mano sulla balaustra, fissandolo intensamente. “No, padre, nessuno di loro.” Gli disse autoritaria.
“Ma, Elettra…” Tentò l’uomo.
“No, non posso portare rancore a chi combatteva per la giusta causa.” Precisò lei. “Nessuno sapeva meglio di Jean cosa significa essere un Cavaliere e lui, sono certa, lo è stato fino in fondo.”
“Se è quello che vuoi.” Annuì il padre. “Non desidero sapere altro.”
“Ti ringrazio.” Gli disse la figlia, stringendo la sua mano. “Non sarà facile ed ho bisogno di te.”
Lui sorrise e rispose alla stretta. “Ha chiamato Alexi.” L’informò poi, gli occhi di Elettra brillarono.
“Cosa ha detto?” Domandò subito.
“Che sta bene, di stare tranquilla e che sarà felice di vederti lì domani.” Riferì Nikolais, lei sorrise.
“Sarà strano, tornare.” Ammise infine la donna.
“Anche per me.” Concordò il padre, poi le offrì le braccia aperte, dove Elettra si rifugiò.
Restarono così, a guardare il tramonto, sperando che dopo tanto dolore, un futuro di luce finalmente trionfasse.

Non pioveva da settimane, ormai, quindi non poteva che essere un mattino splendente quello del giorno delle esequie dei cavalieri. Il cielo era turchese e limpido, lo scirocco portava su dal mare l’odore salmastro ed il profumo balsamico di pini e tamerici.
Atena avrebbe parlato in cima al Palladio e loro l’avrebbero ascoltata, prima di accompagnare i morti in fondo alla cripta che li avrebbe accolti nella sua gelida pace.
Ora i cavalieri attendevano l’ultimo arrivo, prima di salire nel luogo più sacro del tempio a rendere onore agli amici caduti.
Ioria fremeva, fiero nella corazza del Leone, tenendo un braccio sulla spalla del nipote, che gli sorrideva sereno. Milo, le braccia conserte sull’ampio pettorale d’oro, scambiò un sorriso con Alexi e poi tornò a guardare giù, le scale che conducevano alla dodicesima.
Finalmente il piccolo corteo apparve oltre la curva del costone roccioso. Il cavaliere d’Ariete scortava la sacerdotessa di Zeus. Lei era vestita di blu, tanti drappeggi e la placca con l’emblema d’oro della folgore sul petto, un velo a coprire i capelli biondi. Li seguiva soltanto un uomo di mezz’età, con jeans e una camicia bianca.
Milo lo riconobbe subito, anche se non lo vedeva da più di cinque anni. L’emozione gli chiuse la gola.
Vide Alexi staccarsi da Ioria e correre giù dalle scale. La madre lo abbracciò, Nikolais lo abbracciò. Restarono tutti e tre stretti per qualche secondo, poi Elettra alzò il capo, sorrise a Ioria, salutò lui con un cenno e riprese a salire. I cavalieri d’oro s’inchinarono, quando raggiunse lo spiazzo davanti al tredicesimo tempio.

Non ci fu molto tempo per i saluti o le chiacchiere, la cerimonia doveva avere inizio. Milo porse il braccio a Elettra, prendendo il posto che era stato di Mu durante la salita al tempio. Gli altri si accodarono, mentre attraversavano le colonne diretti all’interno del Santuario.
Nel piccolo piazzale davanti alla statua di Atena c’erano gli altri Gold Saints sopravvissuti: Aldebaran, nobile e imponente, e Shaka, elegante e compunto. C’erano inoltre i cavalieri di bronzo, senza le loro armature distrutte, su cui non era ancora potuto intervenire Mu.
Saori Kido, la dea Atena, era in piedi a metà della scalinata che saliva all’imponente statua che la rappresentava. Guardò Elettra negli occhi, le sorrise e annuì.
La sacerdotessa sentì il riverbero del suo potere raggiungerle il cuore e fu, infine, davvero sicura che tutte le sue battaglie erano state giuste. Strinse la mano di suo figlio, poi lo guardò e lui le regalò uno dei sorrisi più belli che lei gli avesse visto negli ultimi anni.
Ogni cosa, alla fine, trova il suo giusto posto… soleva dire Aioros, con quella sua passione di fare sempre tutto bene e nel modo migliore.
Adesso anche tuo figlio ha trovato il suo posto e lui è sicuramente il tuo capolavoro… pensò Elettra, osservando Alexi che guardava Atena come se niente fosse più bello.

La cerimonia cominciò e la Dea parlò. Tutti loro ascoltarono in religioso silenzio disposti in un semicerchio, al centro del quale stavano Elettra e suo figlio.
“Oggi rendiamo omaggio a coloro che sono caduti.” Esordì Atena. “Uomini che hanno combattuto per ciò in cui credevano e non importa se sono stati accecati dalla loro ingenuità, dall’orgoglio o dall’ambizione, essi erano guerrieri di Atena ed hanno diritto di essere celebrati per questo.”
Elettra pensò che erano parole giuste, il rancore non poteva durare per sempre. Lei, ad esempio, aveva saputo solo ora che era stato Shura di Capricorn ad infliggere il colpo mortale ad Aioros. Lo aveva conosciuto, un tempo, e sapeva che era stato amico di Sagitter. Non era colpa sua se era stato ingannato da Arles: il Gran Sacerdote era la legge per un cavaliere, non si poteva mettere in dubbio la sua parola. Aioros, che l’aveva fatto, aveva anche pagato con la vita.
Qualcun altro l’ha fatto… si disse, spostando gli occhi su Milo. Lui le sorrise appena, lo sguardo triste di chi sa di aver fatto la cosa giusta, ma ha pagato a sua volta un prezzo troppo caro.  
Camus di Acquarius, Signore delle Energie Fredde. Il pomposo titolo di cui andavi tanto fiero… Ti rendi conto di quante persone hai lasciato a soffrire per te? Sei sempre stato un ottuso testone, cosa potevo sperare…
Speravo di passare tutta la mia vita con te, ecco cosa. Certo che ti avrei sposato, certo che avrei fatto dei figli con te. Adesso lo avrei fatto. Perché non hai capito che non potevo, prima? Finché Lei non fosse tornata, niente poteva essere giusto…

Un fiotto di dolore le raggiunse la gola, lo trattenne, nonostante gli occhi le si fossero riempiti di lacrime. Non poteva lasciarsi andare così, non davanti a tutti, non davanti ad Alexandros.
Si sentì stringere un gomito con delicata forza. Spostò gli occhi bassi, prima vide una mano, poi un bracciale d’oro, quindi alzò lo sguardo per incrociare quello serio e lucido di Milo.
Lo amavi tanto anche tu, vero? Sembravano chiedere gli occhi turchesi di Elettra. Milo annuì, le si avvicinò un po’ e la sostenne per il resto della cerimonia.

I feretri, infine, furono accompagnati nella cripta, avvolti nei loro mantelli bianchi, immacolati nella purezza della morte. Tutti avevano ricevuto il perdono, tutti l’ultimo saluto. Le loro anime erano nei Campi Elisi e la loro memoria sarebbe stata immortale.
Le Porte dei Giusti si chiusero alle spalle del corteo funebre. Elettra restò un ultimo attimo, accarezzò le decorazioni di bronzo, poi si voltò. Alexi l’aspettava per risalire insieme le scale.

Now your death is upon us
And we'll return your ashes to the Earth
And I know you'll take comfort in knowin'
You've been roundly blessed and cursed
But love is a power
Greater than death
Just like the songs and stories told
And when she built you brother
She broke the mold

Alexandros sedeva sulle scale guardando il tramonto. Elettra lo raggiunse, lui le sorrise, lei gli carezzò i capelli fermando la mano sulla nuca, prima di sedergli accanto.
“A cosa pensavi?” Gli chiese la madre, mentre spostava gli occhi anche lei sull’orizzonte.
“Ti ricordi quando ho vinto la mia prima gara di nuoto?” Le disse il ragazzo con un sorriso.
“Come potrei dimenticarmelo!” Esclamò lei.
“Jean fece un sacco di tifo e poi ci portò a festeggiare con una pizza gigante.” Le ricordò Alexi, Elettra annuì, cercando d’impedire ai suoi occhi di farsi lucidi.
“Era molto orgoglioso di te, incorniciò la coccarda col numero uno.” Raccontò Elettra, mentre abbracciava il braccio del figlio.
“Beh, era stato lui ad insegnarmi a nuotare, quindi…” Replicò tranquillo il ragazzo, sorridendo dolcemente alla madre. Lei gli baciò la guancia.
“Ti amava molto, non dubitarne mai.” Gli disse poi.
“Io no, e tu?” Ribatté Alexi. “Neanche tu devi dubitare.”
Elettra avrebbe voluto dirgli che non era dell’amore di Jean che dubitava, quanto piuttosto del suo modo di dimostrargli che anche lei lo amava. Ma erano cose da adulti ed era inutile crucciare suo figlio con i dubbi che perseguitavano il suo cuore.
“Non potrei mai farlo.” Lo rassicurò con dolcezza.
Si sorrisero e poi si appoggiarono uno all’altra, nella luce aranciata di quel lungo giorno che finiva.
“Hey!” Li chiamò una voce, si voltarono verso le scale e videro Milo scendere verso di loro. “Siete spariti.” Continuò il cavaliere con un sorriso.
“Raccontavamo aneddoti su Jean.” Spiegò Alexi senza imbarazzo. Elettra sorrise al nuovo arrivato.
“Oh, ne avrei migliaia da raccontare!” Esclamò Milo, sedendosi a qualche passo da loro.
“Sentiamo.” Lo incitò la sacerdotessa, sempre abbracciata al figlio, che annuì.
“Una volta abbiamo rubato delle rose dal giardino di Aphrodite – non quelle avvelenate, ovviamente.” Iniziò Milo, ridacchiando. “Erano davvero belle, bianche…”
Non riuscì a finire il discorso perché si ritrovò inchiodato da uno sguardo severo e accusatorio di Elettra. La fissò preoccupato e perplesso.
“Quelle rose, le ha regalate a me.” Affermò la donna. “Ed erano rubate?!”
“Oh… cazzo…” Esalò lui.
“E questo è esattamente quello che devi dire quando lei fa questa espressione.” Gli suggerì saggiamente Alexi, mentre Elettra lo fissava ancora disapprovante.
“Ma… è stato un gesto d’amore…” Tentò Milo, gli occhi di Elettra si assottigliarono pericolosamente. “…e si è fatto malissimo per prenderle…”
“Gli ho anche curato i tagli, a quel cretino!” Sbottò lei, mettendo il broncio.
“E non vi è venuto il sospetto che se li fosse fatti per prendere le rose?” Si permise di domandare Milo, osservandola guardingo.
“No!” Rispose Elettra. “Era un Cavaliere, cosa ne so a quali perversi e masochistici allenamenti vi sottoponete!” Esclamò quindi, indignata, con un’espressione buffamente arrabbiata.
Milo e Alexi, a quel punto, non si trattennero più e scoppiarono a ridere. Elettra li guardò male entrambi, prima d’incrociare le braccia.
La donna stava ancora borbottando, quando anche Nikolais li raggiunse. Si fermò a guardarli per un attimo in cima alle scale, poi sorrise e scese verso di loro.
“Posso sedermi con voi?” Chiese l’uomo. Gli risposero dei sorrisi invitanti.
Nikolais che, per la sua età era un uomo ancora in forma, preferì comunque l’appoggio della solida spalla di Milo, per aiutarsi a sedere sui gradoni di marmo. Ringraziò il ragazzo con un sorriso.
“Ricordavate Jean?” Domandò poi l’uomo; lo guardarono sorpresi.
“Come fai a saperlo?” Chiese il nipote.
“Cos’altro potevate fare tutti qui insieme.” Rispose tranquillo il bibliotecario.
Milo sorrise dolcemente e chinò il capo tra le spalle abbassate, Elettra alzò gli occhi al cielo, mentre Alexi sorrise direttamente al nonno.
“Non è facile dirgli addio.” Confessò il ragazzo senza però smettere di sorridere. Nikolais gli strinse appena la spalla.
“Io non so se sono pronta.” Mormorò invece Elettra, continuando a fissare l’orizzonte che si scuriva. Tutti la guardarono, accorgendosi dei suoi occhi lucidi.
Il padre le prese la mano e la tenne tra le sue in una stretta calda. Lei lo guardò, lasciando che qualche lacrima sfuggisse al suo rigido controllo.
“Non vogliamo dimenticarlo.” Le disse l’uomo. “Vogliamo solo lasciarlo andare.”
Milo sentì un fiotto di dolore lasciare il suo petto e riversarsi nella gola, trattenne le lacrime respirando forte, ma sentiva gli occhi troppo pieni di lacrime; guardò il cielo che stava diventando viola. Alexi, invece, abbracciò la madre e nascose il viso contro il suo collo.
“Dobbiamo lasciarlo andare…” Ripeté Nikolais, mentre liberava una mano e con essa prendeva quella di Milo. “…perché ovunque sia Jean, il nostro amore per lui sarà sempre nei nostri cuori e non potremo mai dimenticarlo.” Affermò sicuro. “Ovunque lui sia, sarà sempre con noi.”
E tutti e quattro sapevano che era vero, che il loro amore per Camus li avrebbe tenuti uniti per sempre e che era inutile continuare a pensare al come ed al perché. Lui, ormai, non c’era più e l’unica cosa che potevano fare era ricordarlo per quello che gli aveva dato.
Un sacrificio non richiesto che lasciava la pace come eredità. Non consolava, ma potevano accettarlo, perché coloro che se ne vanno, diventano il ricordo più prezioso di chi resta.

A bad attitude is a power stronger than death
Alive n' burnin' or stone cold
And when they built you brother ...

FINE



Nota finale:

Continuo a pensare che le battute finali di questa storia siano di una banalità terribile, però, alla fine, è quello che è successo a me. Anche quando perdi qualcuno che ami, la vita va avanti comunque e, spesso, anche se non ne hai voglia, ricominci lo stesso. Tutto qui. Purtroppo non so dirlo meglio.

Ad ogni modo, grazie a tutti, anche a chi ha letto senza commentare, ma in particolare a quelli che l’hanno fatto. Alla prossima!
Baci!

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