The sound of silence grow

di NoaLillyORiordan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Questione di pelle. ***
Capitolo 2: *** Quando basta uno sguardo ***
Capitolo 3: *** Sogno o son desta? ***
Capitolo 4: *** Sudore e Sangue ***
Capitolo 5: *** Fermo immagine ***
Capitolo 6: *** Presa di coscienza ***
Capitolo 7: *** Fotoricordo ***
Capitolo 8: *** Parole e caffè ***
Capitolo 9: *** Ricerca dell'amore perduto ***
Capitolo 10: *** Silenzio Assenso ***
Capitolo 11: *** Attese ***
Capitolo 12: *** Richieste ***
Capitolo 13: *** Indietro, Nel Presente ***
Capitolo 14: *** È il passato, primavera ***
Capitolo 15: *** Indovina chi viene a pranzo ***
Capitolo 16: *** Confessioni ***
Capitolo 17: *** Fughe ***
Capitolo 18: *** Revelations. Complications. ***
Capitolo 19: *** Ritorni ***
Capitolo 20: *** Sconfitta ***



Capitolo 1
*** Questione di pelle. ***


Salve a tutti, mi presento: sono Noa Lilly O'Riordan. Questo doveva essere il primo capitolo ma preferisco considerarlo come il prologo della storia. Spero possa piacervi e a chiunque vada, di lasciarmi un commento. A presto Noa.

Prologo - Questione di pelle.

Michela non poteva soffrire Chiara. Nemmeno sapeva dire perché: una questione di pelle, di sensazione. Fatto era che non poteva soffrirla affatto. Eppure Chiara era una ragazza normale. Forse troppo silenziosa. Arrivava al cortile della palestra. Scendeva da un’auto grigia, guidata da un ragazzo. Entrava in spogliatoio e si cambiava. Si allenava, giocava e silenziosa come era arrivata se ne andava. Senza proferire parola, ne mai un piccolo cenno con la testa. Come riuscisse a giocare senza parlare mai con le compagne di squadra era un mistero. Eppure ci riusciva senza che il gioco o la squadra ne risentisse in alcun modo. Nonostante non fosse certo da panchina perenne. Aveva il suo bizzarro modo di comunicare: il silenzio. Che non fosse muta era un fatto accertato, l’avevano sentita rispondere al suo cellulare. E l’evento veniva commentato quasi come una leggenda. E pare non fosse nemmeno autistica. Semplicemente sembrava non gliene fregasse granché della vita che ruotava intorno a lei. Arrivava scendendo da una macchina grigia, giocava e silenziosamente si dissolveva, salendo sulla stessa macchina grigia. Forse era proprio questo il problema per Michela: odiava i misteri e quella ragazza era un mistero con le gambe.
Non l’aveva mai incontrata al di fuori degli allenamenti, ne sapeva esattamente dove abitasse. Ogni suo dettaglio poteva captarlo solo agli allenamenti e all’uscita della palestra, tre volte a settimana.
“Ragazze la sapete l’ultima?” disse con entusiasmo stridulo Fabiana, entrando a perdifiato in spogliatoio. Tutte le ragazze presenti ammutolirono all’istante. Erano verso la fine di un buon campionato e forse per qualcuna di loro c’era qualche possibilità professionale. Il fiato sospeso di tutte portò Fabiana a proseguire. “Sta arrivando la muta e l’ho sentita con queste orecchie litigare con il ragazzo prima di scendere dalla macchina” disse indicandosi le orecchie con espressione entusiasta di chi sta dando una notizia sensazionale. Lo sguardo basito di tutte le fece capire che la notizia non faceva molto scalpore. “Ma vai a cagare Fa!” asserì Michela. “E non chiamatela la muta. Ma quante volte ve lo devo dire? Se vi sente non credo le farà certo piacere. Lei si chiama Chiara” continuò la ragazza infilando calzettoni e scarpe. 
Chiara entrò silenziosamente nello spogliatoio tra il chiacchiericcio delle ragazze, che si interruppe al suo arrivo. Lanciò il borsone sulla panca, mancando di poco una compagna. Era tutta rossa e aveva visibilmente pianto. Voltando le spalle alle ragazze cominciò a cambiarsi, conscia di avere tutti gli sguardi puntati su di lei. Conferma che ebbe guardando lo specchio. “Bene ragazze, in campo: il mister ci aspetta” disse Michela, troncando sul nascere ogni domanda. Tutte la guardarono torve. Per tutta risposta lei aprì la porta e con braccio teso, con il dito puntato al campo, ordinò minacciosamente alla squadra di uscire dagli spogliatoio e dirigersi all’allenamento. Fissò per un secondo lo sguardo di Chiara attraverso il vetro appannato. Lo fissò dentro la sua mente. In quell’istante, le fece infinita tenerezza. Ma lasciò comunque la porta, che sbattette, alle sue spalle, raggiungendo di corsa la squadra.
Alla fine dell’allenamento, come sempre Chiara svanì silenziosamente. Ma stavolta nessuno la vide salire sulla macchina grigia. Michela la vide attraversare il cortile, dallo specchietto retrovisore della sua moto, uscire dal cancello e guardare impaurita la strada principale. Svoltato l’angolo Chiara svanì dalla vista di Michela, che ingranò la prima e lasciò dolcemente il piede dalla frizione, per partire.
Sulla strada principale vide la ragazza ferma alla fermata dell’autobus, ma proseguì. Fin quando, istintivamente non mise la freccia svoltando velocemente a destra. Fece il giro del quartiere per uscire di nuovo sulla strada principale. Giusto in tempo per vedere ripartire un pullman e la fermata, vuota.
“Che mi sarà preso, mah” commentò tra se e se, ripartendo velocemente verso casa.

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Capitolo 2
*** Quando basta uno sguardo ***


Salve, qui è Noa con l'aggiornamento alla storia: spero vi piaccia e se volete, lasciare una recensione.

Erano splendidi pomeriggi. Il sole era di un arancio intenso e accecante e seppur fosse marzo, l’aria era frizzantina. Cosi Michela aveva da poco deciso che poteva rispolverare la moto e andò agli allenamenti a cavallo del bolide. Già mentre allacciò il casco una strana sensazione le strinse lo stomaco. In quel momento, dopo tre giorni, un week end di lavoro, ripensò a Chiara. Ricacciò la strana sensazione e salita in sella alla moto, girò la chiave nel quadro. Accese gli anabbaglianti, tirò la leva della frizione, schiacciò con il piede sinistro il pedale del cambio innestando la prima e partì a tutto gas. Michela sfrecciava tra le macchine in sovrappensiero, sulla strada mal illuminata. A un paio di chilometri dalla palestra, in lontananza, una ragazza dal volto familiare la fissò. Solo all’arrivo in palestra si sarebbe resa conto che era proprio Chiara, che in quel momento vide arrivare dallo specchietto retrovisore della sua moto. La strana sensazione ritornò a morderle lo stomaco. Ma la mise a tacere e smontata dalla moto, entrò nello spogliatoio dove era in atto un dibattito molto acceso. “Michela cosa ne pensi del fatto che Sara l’abbia data dopo nemmeno tre appuntamenti?” chiese Fabiana in pieno tono provocatorio. La ragazza sotto santa inquisizione, Sara appunto, era nota per cambiare ragazzi come le mutande. E se si è persone pulite s’intende che li cambiava spesso.  “Affari suoi” decretò senza nemmeno guardarle. Proprio in quel momento entrò Chiara che come al solito non rivolse la parola a nessuno. “E tu che ne pensi, Chiara?” chiese Fabiana con tono pungente. Michela con la coda dell’occhio per vederne la reazione. La ragazza non rispose, ma continuò a prepararsi per l’allenamento. “Temo che oltre a essere muta sia anche sorda” commentò in maniera acida Fabiana, provocando ilarità generale. “Adesso basta Fa. E in campo!” commentò improvvisamente Michela, stizzita. Fabiana tentò di ribattere ma Michela la fulminò con sguardo torvo.
L’allenamento fu stranamente teso. Perfino l’allenatore se ne accorse e raccolte le ragazze in cerchio a centro campo fece loro un discorso. “Ragazze vi vedo tese e poco coese. Escludete delle persone dalle azioni. Siete una grande squadra, sia numericamente, che come forza. domenica abbiamo una partita importante e fondamentale. Quindi qualsiasi tensione tra voi lasciatela in spogliatoio, è chiaro?”. Alcune ragazze tentarono di ribattere ma l’allenatore chiese di nuovo, a gran voce “È chiaro?”. Un sommesso “si” arrivò dal gruppo che ruppe le righe e si diresse allo spogliatoio.
“Vedi se devo farmi cazziare per colpa di una sordomuta” commentò acida Fabiana, che con questa affermazione raccolse consensi. Michela scattò come una molla. “Fabiana adesso basta è chiaro? Se hai le cose tue vai a casa e prenditi un calmante e lasciaci tutti in pace!” disse Michela in tono piuttosto concitato. Rimasero tutte sorprese dalle reazioni delle due ragazze, da sempre grandi amiche di squadra. Chiara assisteva alla scena come se non si stesse nemmeno parlando di lei. Un forte bussare alla porta fece trasalire l’intero gruppo. “Tutto ok li dentro?” chiese da dietro la porta l’allenatore. “È vero che dovete lasciare in spogliatoio le vostre tensioni, ma nemmeno lo dovete sfasciare dopo gli allenamenti!” concluse con un risolino. Le ragazze dissero che era tutto ok e ognuna fece finta di niente cambiandosi e filandosela alla svelta dallo spogliatoio. L’aria che tirava non era affatto piacevole e la tensione si tagliava con il coltello. Perfino Michela non salutò nessuno, ma dritta come un missile si diresse alla moto e allacciato il casco ripartì a tutta velocità.
Svoltato l’angolo mise la freccia e si fermò a bordo strada. Aveva le palpitazioni e le tremavano le mani. La conosceva bene quella sensazioni di rabbia cieca. Doveva prima calmarsi per riprendere a guidare. Si tolse il casco e inspirò profondamente. Lasciò che la rabbia dal cervello scendesse giù per la gola, che risalisse dallo stomaco, che invadesse i polmoni, sporcandoli di nero, per poi espirare tutto il veleno. Notò che seppure fosse marzo e l’aria frizzantina, ancora emetteva nuvolette di vapore con il respiro. Innalzò lo sguardo al cielo. Era pieno di stelle anche se la luna era ben nascosta da qualche parte. Chiara la superò, mentre lei cercava con lo sguardo la luna, ancora in sella alla moto. “Guarda che oggi dalle nove è sciopero” disse Michela. La ragazza tirò dritto come se non avesse nemmeno sentito le sue parole. Ma superò a grandi passi anche la fermata. “Senti se vuoi ti do un passaggio. Ti ho vista prima, sono di strada se vuoi?”. Solo allora, con grande stupore di Michela, Chiara si voltò e la fissò intensamente negl’occhi. Quegli occhi: avevano qualcosa di particolare che non riusciva a spiegarsi. “Guarda che non mordo mica sai? E non corro nemmeno” mentì Michela. Offrì il suo casco a Chiara che continuava a fissarla, senza però accettare ne rifiutare la proposta. Dopo qualche secondo, che a Michela parvero secoli, stizzita disse “E allora? Vuoi salire o no?”. Non ricevendo risposta avvicinò il casco alla testa. “Come vuoi tu” disse in tono accondiscendete. Proprio allora Chiara fece un passo verso di lei e allungò una mano. Michela le diede il suo casco, lasciando che Chiara se lo allacciasse da sola. Con stupore della centaura, Chiara salì senza dubbi e senza fatica sulla moto. “Forse il suo ragazzo ne ha una” pensò tra se e se. Chiara non si aggrappò a Michela che le chiese “Mi vuoi dire dove abiti cosi ti lascio sotto casa?”. Alla domanda Chiara rispose con assoluto silenzio. Michela si girò e fissò la strada. “Ok ti lascio alla fermata dove ti ho visto. Se cambi idea dimmelo, ok?” disse Michela “Anche se poco ci credo” commentò tra se e se divertita. “Speriamo di non incontrare la polizia” disse, concludendo, di fatto, un monologo e partendo verso i due successivi chilometri di silenzio.

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Capitolo 3
*** Sogno o son desta? ***


Buona sera lettori, questo è l'aggiornamento al terzo capitolo. Spero vi piaccia e se lo desiderate lasciatemi un commento per mostrare il vostro apprezzamento (o il non apprezzamento) e le vostre critiche! Noa


Michela aprì la porta di casa e lasciò che l’enorme Cagnone nero la spingesse contro la porta. “Sei proprio un cucciolone fesso. Correresti anche incontro al diavolo” disse anche stavolta, come tutte le volte che rientrava a casa. Lanciò il mazzo di chiavi nel portaoggetti all’ingresso e cominciò ad esaminare il contenuto della sua posta. L’impatto delle chiavi contro il contenitore di latta risuonò in tutto il monolocale. Michela si diresse verso il cucinino e sfiorò il tasto della segreteria telefonica. “Bolletta, pubblicità, bolletta, bolletta…” disse tra se e se Michela quando la segreteria cominciò a “parlare”. “Questa è la segreteria di Michela: non sono a casa, lasciate un messaggio dopo il beep. Ps: per i creditori, non sono mai a casa”. A concludere il messaggio dal tono scherzoso, un sonoro beep diede inizio ai messaggi. “Ciao Michela sono Angelo. Non posso andare domani sera a lavoro, puoi sostituirmi? Non abbandonarmi mi hanno dato già tutti buca. A buon rendere. Chiamami.” Sbuffando Michela si disse che si sarebbe dovuta ricordare di mandargli un sms di conferma. “Ciao Michela sono mamma” nel breve silenzio che seguì Michela pensò di passare al messaggio successivo, ma non fece in tempo. “Non ti fai mai sentire, a volte sembra quasi che tu sia morta.” Un breve risolino nervoso fece capire a Michela che la madre aveva qualcosa di imbarazzante da dire. “Avanti Mà che vuoi?” chiese stizzita alla segreteria. “Comunque, ehm, tuo padre ha dato una cena in settimana. È una sorta di riunione di famiglia. E ci sono anche dei colleghi di tua sorella e di suo marito. Magari chi lo sa: potresti conoscere qualcuno. Ti aspettiamo mercoledì alle 19. E indossa qualcosa di carino, non la solita tuta. Fatti sentire. Ah a proposito mi raccomando, mangia!”. Michela non sapeva se ridere o essere nervosa. Buttò un’occhiata alla foto all’ingresso e distolse subito lo sguardo. Ritornò al cucinino, mentre il nastro girava ancora per un nuovo messaggio. Aprì il frigo nel più totale silenzio, prese una birra e l’aprì. Ancora silenzio fin quando non sentì “Che stai facendo?” e un veloce riagganciare. Posò incuriosita la birra sul tavolo e premette il tasto rewind per riascoltare il messaggio. Silenzio, nemmeno un fruscio. Quindi chi chiamava era in una stanza. Poi il “Che stai facendo?” incuriosito. La voce era maschile e profonda ma non credeva di averla mai sentita. Stava per ascoltare per la terza volta il messaggio quando squillò il telefono facendo trasalire Michela. Era Angelo che voleva una risposta. “Certo Angelo, ma a buon rendere!” rispose la ragazza all’amico. “Michela ma tutto ok? Sicura che non ci sono problemi? Non so come ti sento” chiese preoccupato Angelo. Michela rassicurò che era tutto ok e si congedò velocemente. Dimenticando della birra aperta sul tavolo Michela si diresse a farsi una doccia, per lavare via stanchezza, stress e pensieri. Si asciugò, mise il pigiama e si infilò a letto. Ebbe giusto il tempo di pensare “Forse avranno sbagliato numero” che scivolò in un profondo ma agitato sonno.

Michela aprì gl’occhi. La luce era intensa, era troppa. Quasi l’accecava. Ma chi aveva aperto la finestra? Faceva freddo, troppo freddo. Questo sole e questo freddo non combaciavano. Quando improvvisamente vide Chiara davanti a se e quasi tirò un urlo dallo spavento. “Come sei entrata?” chiese stridendo, portandosi una mano al petto. Chiara la fissava intensamente. Qualcuno urlava. Chiedeva aiuto e pietà. Un uomo picchiava una donna raggomitolata nell’angolo. “che succede?” chiese Michela scattando sul letto. Afferrò le spalle di Chiara e le urlò in faccia “che succede?”. Chiara continuò a fissarla semplicemente. Michela cominciò a sentirsi ardere. Credeva fosse la rabbia invece i suoi piedi cominciarono a prendere fuoco. “Mi hai lasciato morire, adesso andrai all’inferno”. Era sicura che a dirlo fosse stata Chiara eppure non aveva mosso assolutamente le labbra. “Aiutami ti prego!” implorò Michela. Ma Chiara si dissolse e la ragazza si risvegliò in piedi sul letto tra le sue urla. Si accasciò sul letto, ancora ansimante e con il cuore a mille. Si disse che era stato solo un brutto sogno. Poggiò la testa sul cuscino e tentò di rilassarsi. Invano. Cagnone sbuffò nel sonno, facendola trasalire. Il cuore batteva a forte. Ogni battito era un colpo di martello in petto. Quel muscolo impazzito: credeva lo stesse per sputare fuori. Tutti i suoi sensi erano amplificati.  Michela si rinfilò sotto le coperte sperando che il complice sonno l’avrebbe strappata a quella tortura ansiogena. Invece non chiuse occhio per il resto della notte.

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Capitolo 4
*** Sudore e Sangue ***


Prima domenica d’aprile. Partita fondamentale del campionato. Le ragazze se la giocavano con una squadra concorrente a pari merito. Michela non puntava allo sport come professione, ma molte altre ragazze si. Erano toste. Erano agguerrite. E Michela sapeva bene che si trovata in una giungla dove vinceva solo chi sopravviveva, quella domenica. O matematicamente dentro, o matematicamente fuori dal gruppo di squadre che potevano aspirare alla coppa e alla promozione di serie. Il mister era stato chiaro. “Tocca a voi. Dateci dentro!”. Pronte a mordere e a graffiare. Con le unghie e con i denti, a portarsi a casa la vittoria. 
Tutte presenti tranne Chiara, mancava dagli allenamenti ormai da tutta la settimana. “Forse è solo in ritardo” commentò Michela per tirare su il morale alla squadra. Anche se non sapeva perché, non ne era molto convinta nemmeno lei.
Squadre in campo: stretta di mano dei capitani. “Gioco pulito e leale” fu il monito di uno degli arbitri. Un muto assenso dalle squadre e il fischio dell’arbitro diede inizio all’incontro. Fabiana, il capitano, scrollò le spalle, inspirò profondamente e fece la battuta, iniziando di fatto la partita.
Intervallo di metà partita. Ragazze nello spogliatoio entusiaste. “Parità, possiamo farcela, le schiacceremo!” urlarono molte. L’allenatore si avvicinò loro. “Ragazze è vero potete farcela. Nonostante manchi un elemento importante della squadra” una breve pausa, prima di continuare “A proposito qualcuno ha sentito Chiara o ha ricevuto sue notizie nel frattempo?” chiese preoccupato. Diniego da parte di tutte, che controllavano i loro cellulari. “Va bene ragazze, concentriamoci. Ce la state facendo. Siamo in pareggio, non è detto ancora nulla, ma date il meglio di voi. Mi raccomando. Con le unghie e con i denti” concluse in mister sperando di incoraggiarle, ben sapendo che nonostante ci fosse stato dell’astio verso la ragazza assente, la sua silenziosa quanto preziosa presenza, mancava molto. “Chi vuole vincere oggi??” urlò l’allenatore. “Noi!” risposero in coro le ragazze. “Non ho sentito: chi vuole vincere oggi??” chiese di nuovo l’allenatore. “NOI!” gridarono più forte le ragazze che corsero di nuovo in campo con più grinta di quando avevano cominciato.
“Mister, so più o meno dove abita, posso andare a cercarla?” chiese Michela, seduta in panchina. “Sono solo due chilometri. So che l’hai accompagnata l’altra sera. Ma se pure avesse perso il pullman, a piedi non ci avrebbe messo più di 20 minuti. Non verrà oggi” rispose risoluto l’allenatore, mettendo a tacere la ragazza. Il tifo continuava, i minuti si susseguivano velocemente talvolta. Altre volte lenti. Troppo lenti.
Tre minuti alla fine del match. Fischio di time out. “Ragazze ma che vi prende?” chiese stizzito il mister. “Cinque punti. CINQUE!! Volete mancare proprio ora?”. “No mister” cominciò Fabiana “ma…”. “Niente ma. Nessun ma! Non vi alleno per i ma, per allentare la corda all’ultimo! Ce la potete fare, sono solo 5 punti sotto. In tre minuti si può fare!”. Le ragazze incoraggiate, rientrarono in campo. Michela sostituì una delle ragazze. La tensione era tanta. Fine time out. Fischio dell’arbitro. Le azioni si susseguivano. I corpi accaldati. Le gocce di sudore scendevano sopra gl’occhi irritandoli. Il fiato corto, il cuore in gola. Ronzio nelle orecchie. Sembrava tutto al rallenty. Le urla, i colpi al pallone, ogni respiro, rimbombavano nelle orecchie. Poi tre fischi dell’arbitro e l’esultanza della squadra. Stretta di mano tra le squadre. “Bella partita” e “Alla prossima” tra le ragazze. I festeggiamenti e gli abbracci nello spogliatoio. Avevano vinto.
“Stasera pizza birra e a rimorchiare boys!” face una delle ragazze, tra l’assenso generale, con un sensuale movimento del bacino ad indicare una serata in discoteca. “Anna io stasera non posso perché lavoro. Ho barattato la mattina e il pomeriggio per un doppio turno serale/notturno” disse Michela “Ma potete venire da me, tanto offre a tutti Fabiana” concluse tra l’ilarità generale. “Mamma mia, come fai a lavorare dopo una partita del genere?” chiesero alcune. “Chi non lavora, non fa l’amore!” disse Michela, ridendo. “E non paga da mangiare a tutta la squadra” concluse, complice, Fabiana.
Rotte le righe, Michela si diresse verso casa, godendosi l’aria tersa in moto. Avrebbe voluto dormire cento ore. Non dormiva più da quando aveva avuto quell’incubo. 
 
Mercoledì sera: fortuna aveva gli allenamenti come scusa. La madre l’aveva già richiamata più volte con insuccesso. Dopo una settimana, finalmente, Michela vide Chiara in spogliatoio. Armeggiava con il cellulare. “Almeno potevi ringraziarmi l’altra sera” scherzò la ragazza. Chiara trasalì alla frase di Michela. Si voltò. Si voltò mostrando un chiaro, ma ancora visibile livido in faccia. Michela indietreggiò. “Sono caduta” disse Chiara, parlando per la prima volta, con voce bassa e imbarazzata. “Dalle scale” riprese in fretta, come per paura di dimenticare.
Michela cominciava a comprendere l’incubo di Chiara. E cominciava a farne parte.
Entrambe sapevano che non era andata cosi.

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Capitolo 5
*** Fermo immagine ***


Chiara fissava Michela. Michela fissava Chiara. Quel livido che più lo si fissava più sembrava dovesse scomparire. Chiara cominciò ad arrossire: Michela non sapeva che dire. Le mani portate alla bocca, stupore e incertezza. Cominciarono ad arrivare le compagne per l’allenamento: le due ragazze trasalirono e sembravano riprendersi dallo stato di trance. Le ragazze si fissarono intensamente, anche se solo per un attimo. Poi Chiara buttò il cellulare in borsa, afferrò il borsone e scappò, a testa bassa, sgomitando in un gruppetto di ragazze incuriosite. Michela rimase a fissare il vuoto ormai lasciato da Chiara. “Oh Michela tutto ok?” chiesero incuriosite le ragazze. “Eh? come?” Michela si sentiva le gambe intorpidite. Si sentiva come risvegliata da un lungo, lunghissimo letargo. Era come se vedesse tutto per la prima volta. Le mattonelle che un tempo dovevano essere di un bel bianco brillante, ora sporche e scardate. Il lavandino che gocciolava costantemente, le porte degli spogliatoi, verdi e piene di scritte. I volti delle compagne. Una pesante verità le aveva appena sferrato uno schiaffone in faccia. Senza proferir parola si spogliò, indossò la tuta e si diresse al campo. Apatica e in sovrappensiero, la ragazza portò, a fatica, l’allenamento fino in fondo. Ripresa più volte da un allenatore preoccupato, Michela faceva spallucce, giustificando il tutto con stanchezza residua.
E al lavoro non fu da meno: distratta, svogliata; caffè al posto di birre, pizze al tavolo sbagliato. A metà del turno, per evitare ulteriori cazziate, il buon Angelo decise di sostituire completamente Michela, spedendola a casa. “Riposati e domani torna in forma, gente morta non ci serve. In fondo ti dovevo un favore”. Disse il ragazzo, poco convinto che la ragazza ce la potesse fare a tornare a casa da sola.
Tornata a casa, Michela si richiuse la porta alle spalle e si lasciò cadere sul materasso. Tutti i peluche e i cuscini sobbalzarono, qualcuno cadendo piano a terra. La ragazza cadde in un profondo sonno. Quando la sveglia trillò, le orecchie e la testa di Michela reagirono come se fosse stata data loro una picconata. Spense la sveglia, si voltò e si addormentò di nuovo. Si risvegliò alle dodici, con il sole che le batteva giusto in faccia. Aprì gli occhi di colpo, ma non aveva nessuna fretta di alzarsi. Si sedette a gambe incrociate sul letto analizzando la giornata precedente. Perché mai doveva importarle di una persona che a malapena le rivolgeva lo sguardo? Di cui non sapeva nulla se non che giocava con lei e che chiamava Chiara? Eppure ancora era scombussolata dalla vista del livido. Ancora se ci ripensava le batteva forte il cuore. Quella frase, detta con timidezza e paura le risuonava in testa. “Sono caduta. Dalle scala”. La fretta di proteggere un colpevole. Fretta di spazzare via macerie e polvere dalla sue spalle. Di accantonarla nello sgabuzzino degli orrori. Dondolarsi con le braccia strette intorno alle ginocchia, come una bambina impaurita. Il mostro cattivo che si avvicina. Continuare a dondolarsi, paralizzati dal terrore. Il fruscio rumoroso dei suoi pensieri venne interrotto dal trillo del campanello. Michela trasalì per un attimo, trascinata a forza nel mondo reale. Il campanello trillò ancora facendo scattare la ragazza giù dal letto. I piedi nudi godettero del pavimento freddo. Guardò dallo spioncino e vide Chiara. In tutto il suo splendore. L’ammirò per la prima volta sapendo di non essere vista. I suoi lunghi capelli cenere che le coprivano parte del volto. Gli occhi, non azzurri, ma chiari, nascondevano l’immensità del suo io. Un viso candido. Un naso ben proporzionato e una fronte ampia e aggrottata, in segno d’attesa. Labbra sottili, color del sangue. Labbra che spiccavano su un viso tanto splendente. Una ragazza semplice, eppure dalle mille sfumature. Michela rimase tanto estasiata che dimenticò perfino di respirare. Chiara si chinò, e la ragazza, da dietro la porta sentì un fruscio sotto i piedi. Prima di andarsene, chiara fissò lo spioncino. Michela, quasi sentitasi osservata e scoperta, si abbassò velocemente. Quando si rialzò per sbirciare nello spioncino, la ragazza era già andata via. Sfilò il foglio, ben ripiegato da sotto alla porta e lo aprì, con immenso stupore. Era un ritratto si se stessa, fatto davvero benissimo. Rimase li a fissarlo per quello che le parvero ore. Le sorprese di quella ragazza dal viso angelico, non erano che appena iniziate.
Chiara in strada sentiva ancora le mani tremanti. “Ma che cosa cazzo stai facendo?” si disse, guardando il riflesso del suo volto sul vetro di una macchina. Fece dietrofront e risalì al piano. Quando non vide più il biglietto sotto la porta, scappò via molto velocemente, con il cuore che sembrava schizzare via dalla gola.

 

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Capitolo 6
*** Presa di coscienza ***


“Bentornata Chiara” disse l’allenatore. Allenatore e la ragazza erano fianco a fianco. La mano di lui sulla spalla di lei. La squadra, in riga di fronte, fissava la ragazza. “È da un po’ che non ti si vede” commentò Fabiana. “Chiara è stata poco bene, ma riprenderà gli allenamenti regolarmente da oggi”. Il tono dell’allenatore era stranamente tutt’altro che predisposto a repliche. Tutte le ragazze tacquero. Michela guardava Chiara. Per poi abbassare lo sguardo, sorridere e arrossire, se quest’ultima si girava verso di lei. “L’allenamento sarà veloce e leggero, per reintegrare Chiara”. Le ragazze, contente per la notizia, si diedero tutte di gomito. Dopo settimane di duri allenamenti per importanti partite, ora potevano allentare la corda. “E brava Chiara!” disse Sara dando una sonora pacca sulla spalla a Chiara, che sorrise imbarazzata.
Il dopo allenamento fu pieno di chiacchiere e risate. Pian piano lo spogliatoio di svuotava, fino a lasciare sole Michela e Chiara. La prima seduta sulla panca era pronta da tempo. Chiara lo sapeva e, tenendole le spalle, sperava se ne andasse presto. I cuori di entrambe le ragazze battevano forte dall’imbarazzo. Il silenzio era tale che quasi si poteva percepire il sangue irrorare le guance di Chiara. Michela intanto temporeggiava e giocherellava con il cellulare. Avrebbe voluto farle mille domande. Eppure anche cosi andava benissimo. Il tempo era fermo, senza parole. E le andava benissimo. Da sotto alla camicia bianca scorgeva le sue spalle sottili e delineate dallo sport. I capelli cenere raccolti in una coda. La pelle chiara e delicata. Ma quando capì che non avrebbe avuto il coraggio di dire nulla, Michela si alzò, prese le sue cose e si diresse verso la porta. “Allora, ciao”. Chiara trattenne il respiro fino a quando non sentì il rombare la moto di Michela. Solo allora una macchina grigia entrò nel cortile. E per Chiara, il sollievo divenne terrore.
 
“Il suo credito verrà incrementato di cinque euro” confermò il disco registrato. Michela posò il cellulare sul tavolo di casa. Aveva fissato con una calamita il ritratto. Prese una sigaretta dal pacchetto che aveva nascosto nel barattolo del sale. La portò alle labbra. Prese il suo zippo, l’aprì. Prima di far scattare la pietra focaia ci pensò su. Non fumava quasi mai. Era un gesto di nervosismo estremo. Quella ragazza aveva qualcosa di particolare he non riusciva a cogliere. Inclinò leggermente il capo a destra sporgendolo avanti, continuando a fissare il foglio, con aria assorta. Il dito colpì la rotella che fece fuoco. Ispirò lentamente. Nascose di nuovo il pacchetto nella saliera e la chiuse nel mobile. Sperando di chiuderci dentro anche il seme di qualcosa che non sapeva ancora distinguere, ma che aveva tutta l’aria di portare guai.
“Ecco la mia bella distratta” disse Angelo. “Oggi ti voglio carica!”. Michela stava smontando dalla moto, in una tiepida serata d’aprile. Entrata nel locale, sentì subito l’aria calda e accogliente: il forno già acceso, emanava un calore scoppiettante. Cenni di saluto al personale già al completo e in attesa dei primi clienti. Michela si recò allo spogliatoio, tolse il giubbotto, mise il grembiule, infilò il blocco note per le prenotazioni nella tasca anteriore e si buttò nella mischia.
Ore dieci, Michela si annoiava. Pugno chiuso sotto il mento in attesa di una botta di vita. O della chiusura del locale. Non era ancora estate, dove i clienti si cacciavano via a calci. Insomma, una serata come tante. Fino all’arrivo di un giovane. Trent’anni al massimo. Ma forse anche no. Forse venticinque portati male. Nel flusso di pensieri della ragazza, il ragazzo si avvicina al banco. Capelli neri, taglio semplice. Lineamenti duri. Aria sicura e beffarda. “Due Margherite, ben cotte, con poco olio ed entro cinque minuti” disse perentorio il ragazzo. evidentemente era abituato a dare ordini. “E quante pretese per due pizze!” commentò sarcastica. A Michela quel ragazzo ricordava qualcuno, ma in quel momento, come capita spesso, le sfuggiva. “Sono sei euro, possibilmente a spiccioli, monete da un euro e cortesemente subito” scherzò Michela, attirandosi in un secondo l’ira del ragazzo. “Che cazzo hai detto?” gridò quasi il ragazzo, facendo di colpo scendere in silenzio in sala. Michela esterrefatta da quella reazione cercò di chiarire “Guarda scherzavo…”. Partì una spinta “E non scherza con me!” disse duro e perentorio il ragazzo dagli occhi neri. “Tutto bene qui?” Chiese Angelo con le pizze in mano. Michela a terra, sorpresa e confusa. “Sono sei euro, paga e sparisci!” disse sbattendogli le pizze sul bancone.  Il ragazzo lanciò dieci euro sul bancone. “Tieni il resto sguattera” prese le pizze e se ne andò. “Michela tutto ok?” chiese Angelo aiutandola a rialzarsi. La ragazza fece un cenno d’assenso e solo allora, vedendo passare fuori il locale una inconfondibile macchina grigia si ricordò chi fosse il cafone. “Ma tu guarda che gente!” commentarono alcune persone, voltandosi velocemente verso i loro piatti, facendo finta di nulla.
L’universo di Chiara cominciava a prendere forma nella testa di Michela. I tanti tasselli del puzzle volteggiavano nel cielo e pian piano, di colpo ogni tanto se ne incastrava uno nuovo.
“Alla pizzeria sai chi c’era?” Giovanni biascicava. “Una tua compagna di squadra. Come si chiama… quella con la moto” il suo alito sapeva d’alcol. Prese la Faccia di Chiara nella sua mano. Le strinse le guance, che divamparono. “Tu sei strana ultimamente. Hai parlato di me a qualcuno?”. Chiara cercò di divincolarsi, negando al contempo. Le sue tozze dita stringevano sempre più le sue guance. Il dolore era tale da farla lacrimare. Un’altra serata da ubriaco. “Allora?” insistette con forza il ragazzo, alzandosi in piedi di scatto, senza mai lasciare la morsa. Lasciò improvvisamente la presa, tirando però un ceffone sulle guance ancora arrossate. La prese con violenza e la portò in camera. La spinse sul letto. Chiara chiuse gli occhi ed entrò nel suo mondo. Sapeva cosa stava per succedere e lasciò che accadesse. Quando Giovanni in posizione fetale, si addormentò su un fianco, Chiara si alzò. Arrivata a piedi nudi in cucina, una lacrima rigò il suo viso. La bottiglia di vino, vuota, rovesciata sul tavolo, qualche goccia rosso violacea che macchiava la tovaglia. I cartoni di pizza ancora sul tavolo. Sotto i cartoni, un angolo di carta rossa plastificata, faceva capolino. Chiara lo tirò fuori. Era il bigliettino da visita della pizzeria. A quel rettangolo di carta improvvisamente ripose le sue speranze. Lo mise nella dispensa, dietro i pacchi di pasta. Chiuse lo sportello, pensando a Michela. Non sapeva perché, ma avrebbe voluto la sua presenza in quel momento. Quella sorta di gigante buono, che le infondeva tenerezza. Arrossi nuovamente e il cuore le cominciò a martellare in petto. Tanto era il silenzio e veloce era cuore che credeva di poter essere udita da quello che non poteva che essere designato come suo fidanzato. Ma si rese conto di essere colta da uno stato d’irrazionalità. Fece un respiro profondo e si calmò. Cosi prese a sparecchiare la tavola.

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Capitolo 7
*** Fotoricordo ***


Buona sera, lettrici e lettori, dopo un lungo ed estenuante pomeriggio dal medico (non per me, per fortuna), ecco che ho deciso di proporvi ugualmente il nuovo capitolo. Sempre ben felice se vi fermate a recensire e sentire qualche dritta. Buona serata, Noa.


“Ti va di uscire con me?” Michela si guardava allo specchio. “No troppo diretto”

“Ciao Chiara, perché non ci facciamo una birra insieme una di queste sere?” l’espressione della ragazza non era per niente convinta. Cagnone la fissava incuriosito. “Cagnone che ne pensi?” chiese Michela. Poi proseguì. “Sai ho conosciuto il tuo ragazzo l’altra sera…” Michela poggiò le mani al lavandino, esasperata. “Seh, un vero stronzo”. La ragazza girò il rubinetto dell’acqua fredda. Unì le mani a coppa. Le porse sotto il getto d’acqua. Le portò al viso. L’acqua colpì il viso, schizzandole la maglietta e il collo. I muscoli si contrassero, i pori si chiusero, gli occhi si strinsero. 

Chiara fissava la sua immagine allo specchio. Una strana morsa le stringeva lo stomaco. I pensieri fluttuavano liberi e indisturbati tra il cervello e l’intestino. Guardò il bigliettino della pizzeria. Pensieri che fluivano tra i neuroni e le vene, passando direttamente per il cuore. 
“Buonasera, ragazzuole!” esclamò Fabiana contenta. “Che si dice? Che avete fatto nel fine settimana?” il chiacchiericcio nello spogliatoio era crescente. Ma tutte avevano notato la tensione attrazione che si era creata tra Michela e Chiara. Se una entrava l’altra usciva e viceversa, e se la cosa non era possibile, rossori a parte, gli sguardi si incrociavano il minimo indispensabile. A fine allenamento erano sempre maggiori le chiacchiere fuori dallo spogliatoio. “Secondo voi che è successo?” Chiese una ragazza. “Ma che ti devo dire? Michela non è mai stata cosi chiusa come in questo periodo” ribattette Fabiana. “Secondo me c’entra il ragazzo di Chiara… e se Michela…” continuò Sara lasciando intendere ad un triangolo amoroso. Fabiana scoppiò a ridere sonoramente “Non credo proprio” disse quasi con le lacrime agli occhi andandosene. “Mah” dissero le ragazze in coro, e sospirando per un mancato succulento pettegolezzo, si sciolsero. Intanto le due dirette interessate erano di nuovo sole in spogliatoio. “Sembra lo facciano apposta” mormorò Michela. Chiara muta non rispose. Michela tentennava, prendeva fiato per parlare, ma le parole le morivano in gola. Proprio quando aveva trovato il coraggio, una sonora suonata di clacson richiamò all’ordine Chiara facendola filare fuori, lasciando di fatto Michela a bocca asciutta, se non secca. La ragazza fissò la sua immagine allo specchio. “Ma piantala, a chi vuoi darla a bere? Fanculo Michela!” si disse e se ne andò. 
“Oh Michela ma mi ascolti?” chiese stizzito Angelo. “Eh?” lo sguardo di Michela diceva chiaramente “Ma da dove sbuchi fuori? Chi sei??”. Angelo rise “Michela mi caschi da pero! Eheh, so io so…” continuò andando incontro a nuovi clienti. “Cosa?” chiese la ragazza, senza ottenere risposta. La porta si aprì piano. Una ragazza face capolino. Entrò intimidita e si guardava intorno spaesata. Michela la riconobbe subito e sentì i piedi sollevarsi da terra. “Appunto! Ti sei innamorata” asserì Angelo sorridente. “Ma va che dici?” disse distrattamente Michela. Si avvicinò ad una spaurita Chiara, che aveva le mani strette una dentro l’altra. “Ciao” disse Michela avvicinandosi. Le due ragazze si guardarono negli occhi. “Tutto bene? Vuoi delle pizze? Stai bene?” chiese a raffica Michela. Chiara scosse la testa ad ogni domanda. Cosi facendo una ciocca le scivolò davanti al viso. Era cosi carina che quando la ragazza se la spostò Michela istintivamente le fermò il braccio dicendo “No! Sei cosi carina lasciala dov’è”. Ma chiara impaurita dal gesto improvviso fece un passo indietro. Michela la lasciò immediatamente facendo anch’essa un passo indietro. “Scusami, scusami davvero” disse auto rimproverandosi. Se il ragazzo è cosi violento come lo è stato con me certo non apprezza scatti improvvisi!” pensò tra se e se. “Volevo vedere dove lavoravi” disse finalmente Chiara. Michela era certo alquanto sorpresa. “Faccio solo la cameriera in una pizzeria, niente di interessante” ribattette la ragazza. Chiara fece spallucce. “Visto che ci sei perché non ti siedi e mangi qualcosa, ti va?” Chiara rispose con un cenno d’assenso. La cameriera l’accompagnò a un tavolo. “Non abbiamo tavoli all’angolo o tavoli con grandi vetrate” scherzò Michela spostando la sedia per far sedere la ragazza. “Torno subito” disse Michela dileguandosi. “Mettici impegno, voglio la pizza più buona che sai fare!” ordinò la ragazza al pizzaiolo. Di rimando il ragazzo fece un cenno sorridendo. “E una porzione di antipasto all’italiana” ordinò nella cucina. Michela era molto esaltata, e mentre saltellando da una parte all’altra stappava una bottiglia di minerale Angelo le chiese ironico “Ah e tu non saresti innamorata?”. Michela continuava a servire, in attesa dell’ordinazione di Chiara, volteggiando sorridente tra i tavoli. Di tanto in tanto sbirciava la ragazza sola al tavolo, ora sorridendola, ora facendole l’occhiolino. “Questo offre la casa” disse Michela porgendo il piatto alla ragazza. Non aveva mai detto quella frase e ora le faceva un certo effetto. “Ti porto una birra? Ci sta benissimo una birra che abbiamo qui, con la pizza” chiese. “No, non voglio” disse contrariata Chiara. Michela non si perse d’animo e incalzò “Cosa desideri allora da bere?” voleva sentirla parlare. Aveva una voce cosi dolce. “Solo l’acqua va benissimo” rispose Chiara sorridendo. “È già troppo non posso ingrassare mica” concluse ridendo. Michela si allontanò entusiasta. Sospirò da dietro il bancone. Angelo l’abbracciò improvvisamente. “È cosi bella quando ride!” disse Michela. “Sono felice per te lo sai? Non ti vedevo tanto felice da Laura”. Michela tornò al tavolo, si sedette di fronte Chiara e la guardò fissa. “Perché continui a stare con lui?” chiese seria e d'impulso. Chiara s’incupì un secondo poi alzò la testa e disse tranquilla “Sono curiosa di vedere dove abiti”. Michela non capiva questo desiderio di “perlustrare” la sua vita, ma accettò, seppure titubante. Non proseguì oltre, non voleva metterla in imbarazzo e a quanto pareva comunque Chiara non ne avrebbe parlato. “Uno di questi giorni se vuoi ci vediamo a casa mia”. Chiara prese il braccio di Michela “Vorrei vederla adesso”. Michela capì allora che era più una richiesta d’aiuto che di una curiosità. “Ok, se aspetti mezz’ora stacco il turno e ce ne andiamo” disse alzando le spalle. Le sorrise e le accarezzò la mano. A fine turno, vedendo le due ragazze andar via insieme sulla moto di Michela, Angelo le fece l’occhiolino tirando su il pollice. Era quasi mezzanotte e Michela non sapeva se avrebbe dovuto poi riaccompagnare Chiara a casa. Non sapeva nulla, neppure perché lei fosse con lei. Ogni battito erano mille pensieri, paure, felicità. Entrate in casa Cagnone corse loro incontro tutto eccitato per il nuovo ospite. Cominciò ad annusare e sbavare ovunque per la contentezza, sbattendo la sua lunga coda ovunque. “Cagnone sta buono, buono bello, non fare  il solito esaltato” disse la ragazza cercando di calmarlo. Michela chiese sciolta, se Chiara avesse voglia di bere qualcosa. “Birra no, vuoi una coca?” Chiara fece segno di diniego. “Una tisana? Un Tè?” chiese ancora ricevendo solo cenni negativi. Michela si stappò una birra e si infilò i pantaloncini del pigiama. Intanto Chiara girava liberamente per casa osservando ogni cosa, sfiorando gli oggetti più particolari, fino a soffermarsi ad una cornice. Michela, che fino ad allora, appoggiata al lavandino, sorseggiando una birra fresca guardava la ragazza girare per casa, le si avvicinò. Nella semplice cornice, appoggiata su uno scaffale c’era una foto. Campi d’estate, due volti freschi, felici. Un bacio lieve tra due ragazze. “Era la mia ragazza” disse Michela senza imbarazzo. “Mi ha lasciato qualche mese fa, partendo per l’estero. Non so nemmeno dove sia di preciso”. Chiara carezzò lieve la foto con la punta delle dita. La prese per osservarla meglio. “Come si chiama?” chiese piano Chiara girandosi. “Laura” rispose Michela trovandosi faccia a faccia con una imbarazzata Chiara. Pochi centimetri le separavano. Cosa stava succedendo tra di loro? Non poteva crederci, Michela. Solo poche settimane prima non poteva soffrirla. Ora sentiva qualcosa. Un’attrazione, una fora magnetica la riportava a lei. Michela sfiorò il viso timido di Chiara, che chiuse gli occhi e chinò il volto verso la mano. Ad entrambe le ragazze batteva forte il cuore. Michela si chinò su di lei, quando squillò il cellulare improvvisamente. Chiara scattò e come ripresasi da uno stato di trance arrossì violentemente e si divincolò dalla presa di Michela. Sospirando Michela prese il cellulare e rispose. “Non ti ho mai dimenticata” una voce femminile al telefono, uno squillare in contemporanea alla porta. Cagnone cominciò ad abbaiare. Chiara l’aprì e si ritrovò di fronte il fresco volto della foto. “Chiara, no!” disse Michela lanciando il telefono sul tavolo. “Non sei contenta di rivedermi?” disse Laura, incurante della ragazza in fuga. “Chiara aspetta!” disse Michela correndo anch’essa a piedi nudi per le scale. Ma Chiara era avvantaggiata, e a Michela sfuggì il braccio della ragazza, lasciandole nient’altro che un pugno di mosche in mano. Non poteva far altro che osservare la ragazza che fuggiva via nella notte. “Chi era quella?” chiese Laura. “Che vuoi Laura? Sono mesi che sei sparita! Sparisci di nuovo” disse Michela quasi urlando, totalmente accecata dalla rabbia. “Sono tornata” disse semplicemente allargando le braccia, aspettandosi un abbraccio. Abbassò nuovamente le braccia quando capì che non avrebbe ricevuto nessun abbraccio. Perfino Cagnone, capito la situazione, si rifugiò con la coda tra le gambe sotto il tavolo della cucina. “Chi era quella? La tua nuova ragazza?” chiese incuriosita e con aria triste. “Non sono affari tuoi. Sei sparita, mi hai lasciato, ora che vuoi?” chiese Michela. “Ho comunque bisogno di un posto dove stare stanotte” concluse la ragazza con aria triste. Per tutta risposta Michela si chiuse in stanza sbattendo la porta.

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Capitolo 8
*** Parole e caffè ***


Un bicchiere colmo di spremuta di arance, una fetta di pane, burro e marmellata di fragole, qualche biscotto secco integrale, una tazza di caffè e un bicchiere con qualche fiorellino di campo. Una colazione perfetta. Il sole era alto in cielo e Michela era ancora chiusa nella sua stanza. Si svegliò sentendo un piatto cadere a terra e frantumarsi. Si riconobbe nel piatto, si sentiva fatta in mille pezzi dai bordi dritti ma affilati. Nessuno poteva più toccarla, altrimenti si sarebbe tagliato. Solo mani esperte avrebbe saputo rincollare i pezzi, farli combaciare e stare bene di nuovo insieme, per far rispendere nuovamente la bellezza della porcellana. Seppure con qualche crepa evidente controluce. “Mi spiace, mi è sfuggito il piatto di mano…” cominciò a giustificarsi Laura. “Comunque sai che hai il frigo vuoto?” continuò ironizzando la ragazza. “Vattene” disse Michela secca, mentre con la mano si grattava la natica destra. Laura le si parò davanti e le prese le braccia. “Conosco ogni parte di te, ogni tuo gesto, ogni tuo sguardo. Ho vissuto questa casa e anche te. Dammi un’altra possibilità” disse seria la ragazza, guardando fissa Michela. Quest’ultima si divincolò dalla presa  “Forse il concetto non ti è chiaro. Vattene. Non  ti voglio qui” disse. Laura la guardò, poi retrocesse. Fece il giro della tavola e si abbandonò alla sedia. “Le cose sono andate male” cominciò. “Sogni di gloria e fama. Fame di potere e successo. Sei giovane, sei stupido e non hai mai vissuto realmente. Cosi decidi di mollare le corde che ti trattengono e andare via”. Michela non sembrava interessata, ma ascoltava la storia, mentre si versava del caffè fumando una sigaretta. “Arrivi in un posto, cerchi un lavoretto, cosi cominci a campare in un letto in una schifosa casetta di quartieri periferici in attesa del grande evento. Cerchi, vai per locali e cerchi di fare audizioni. Alla fine anche la più infima parte di qualsiasi cosa, anche fare la trovarobe di uno stilista di quint’ordine ti sta bene. Cominci a capire che la scalata a qualsiasi cosa è dura, è difficile e c’è gente mille volte più agguerrita di te” Laura volse lo sguardo verso Michela che l’osservava. Attendeva la fine della storia anche se sapeva bene come si sarebbe conclusa. “Sei giovane e stupido. E quando comincia a mancarti il pane capisci il casino in cui ti sei messa. Mi dispiace. Se c’è una cosa che devo confessarti, nei momenti bui, la notte quando mi giravo nel letto, ad ogni rifiuto, ad ogni tramonto…”. “Non osare dire quella frase Laura!” scattò Michela. “Ti ho pregato, chiamato, rincorso in aeroporto. Ero disposta ad aspettarti cento anni! Non dire che ti sono mancata perché tu non sai che vuol dire sentirsi strappare l’anima dal corpo” continuò concitata la ragazza. “Le notti buie le ho passate io, a spaccarmi la schiena in una pizzeria per mantenere questo posto che avevamo scelto assieme!” concluse. Laura si guardò intorno. Poi si fissò le mani appoggiate al tavolo. “Ti prego. Guarda quella foto, non ricordi i momenti? Non è rimasto nulla di quel legame? Quel giorno ci giurammo amore per sempre” disse con il groppo in gola Laura. “È stato tanto tempo fa”. “Ti amo ancora”. Silenzio. “Mi hai rovinato la vita. Mi hai lasciato sola. Te ne sei andata, ora vattene”. “Ti amo”. Ancora silenzio. Michela lentamente spense la sigaretta nel porta cenere, si avvicinò allo scaffale e guardò la foto. La prese e la rigirò tra le mani. Aprì la vetrata della finestra e con un semplice scatto del braccio, fece volare via dalla finestra la cornice. Laura shockata sgranò gli occhi. Michela si sedette al tavolo. "Ecco cosa vali tu per me". E continuò a bere caffè. Il silenzio accresceva la tensione. Era tale, che poteva quasi essere palpata. “Ho bisogno di un luogo almeno dove dormire Michela. Non so più dove andare”. Fu Laura a rompere il silenzio. "Sia ben chiara una cosa. Non nego l’aiuto a chi ne ha bisogno. Tu dormirai sul divano, non entrerai mai nella mia camera. Non toccherai le mie cose. Entri, dormi, esci. Le nostre strade non si incroceranno mai” Michela bevve l’ultimo sorso di caffè “Fatti vedere il meno possibile, fai meno rumore possibile, e vattene il prima possibile. Non ti sbatto la porta in faccia, ma sappi che qui non sei gradita”. Con questo Michela si alzò da tavola e si diresse in camera. Ne uscì dopo poco vestita con le chiavi e il casco in mano. Attraversò quello che era un piccolo corridoio e usci. Laura si aspettò sbattesse la porta. Il silenzioso cigolio della porta chiusa alle spalle di Michela, sembrò come la quiete delle macerie dopo un violento terremoto.

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Capitolo 9
*** Ricerca dell'amore perduto ***


Buona sera, in questa fredda e piovosa serata ecco l'aggiornamento alle mia (complicata?) storia. Spero vi piaccia: mostrate il vostro gradimento o le vostre critiche con una bella recensione. Sono sempre aperta al confronto (educato). Buona serata e buona domenica, Noa



Michela prese il collare chiamando il cane. “Cagnore, giù, sta buono!” disse. Allacciò il collare ad un cane decisamente esagitato. Prima di uscire lasciò sul tavolo la copia della chiave di casa per Laura. Almeno non avrebbe dovuto bussare a qualsiasi ora per entrare. E lei avrebbe potuto parlarci il meno possibile. Scese a fare due passi con Cagnone, anche per schiarirsi le idee. Laura era tornata con i sogni di gloria infranti in valigia e l’intenzione di tornare con lei. Intanto dormiva sul divano di casa sua. Di Chiara non aveva notizie. D’altro canto che sapeva di lei? Nulla, non  il cognome, non dove abitava, non un numero di cellulare… nulla! La notte porta consiglio, camminare all’aria fresca aiuta a schiarire le idee… tutte cazzate! Michela si sentiva sempre più confusa. Dopo una lunga passeggiata decise di rientrare. Aperta la porta sciolse il cane dal collare. Cagnone si diresse sotto alla finestra a prendere sole a pancia all’aria. La ragazza sentiva lo scroscio d’acqua della doccia. Il divano era vuoto. Quindi Laura si era alzata e si stava lavando. Sentì l’acqua smettere di scorrere e la porta aprirsi. “Buongiorno Michela” disse allegra Laura. Silenzio. “Vabbè almeno buongiorno mi è concesso?” chiese stizzita. “Meglio niente, di “vattene”, ogni volta che mi rivolgi la parola” rispose sorridendo sarcasticamente, Michela. La ragazza si diresse nella sua stanza, e prima di chiudersi la porta alle spalle disse “Buongiorno” senza voltarsi e con tono accondiscendete. Se ne pentì subito. Ricordava quando era fin troppo accondiscendente con Laura dandogliela spesso vinta.
“Dove vai?” chiese Laura vedendo uscire Michela con un borsone e il casco. Non ottenne risposta e sentì chiudersi la porta. Sospirò e alzandosi dal tavolo si affacciò alla finestra guardando Michela partire sul suo bolide. Avrebbe dato chissà cosa per capire cosa era successo durante la sua assenza. Cosi ignorando l’ordine ricevuto cominciò a frugare nelle cose di Michela.
 
La ragazza rimasta sola cominciò a girare per casa. Osservava ogni cosa con attenzione, fino a trovarsi davanti alla porta della camera di Michela. Una sorta di Sancta Sanctorum. Poggiò la mano sulla maniglia e d’improvviso Cagnone emise un lamento. Laura ignorò il cane, fece un respiro profondo, chiuse gli occhi, trattenne il respiro e abbassò la maniglia, aprendo la porta. Si ritrovò di fronte a una camera semplice e luminosa. Spartana ma tutto sommato colorata. Si avvicinò ad una libreria e cominciò a scorrerei i titoli presenti. Prese un libro e lo sfogliò velocemente. Lo ripose con cura. Poi ne prese un altro e lo sfogliò, per poi riporlo. Cosi fece con un terzo, un quarto e un quinto libro. Finché, apertone un altro ancora cadde dalle pagine un foglio di quaderno mal ripiegato. Lo prese maledicendo la sua fretta. Ora non sapeva più tra quali pagine l’avrebbe dovuto infilare. Incuriosita aprì il foglio e si ritrovò di fronte ad un ritratto impressionante di Michela. Non c’erano firme ne messaggi. Laura ne rimase estremamente colpita e stupita. Decise di cominciare a leggere il libro, convinta che le due cose, libro e ritratto, fossero collegate. Ignorando il pericolo del suo gesto, si sedette a bordo letto e cominciò a leggere.
 
Michela non rivolse la parola a nessuno. Nessuno le rivolse la parola. Lo sguardo torvo lasciava intuire che era davvero il caso di lasciarla in pace. Chiara non era presente. Temeva il peggio. O che si fosse ritirata per non vederla più. “Michela posso parlarti?” chiese dopo gli allenamenti Fabiana. Michela non rispose, si stava rivestendo. Fabiana si sedette accanto a lei sulla panca. Lo spogliatoio era vuoto. “Non vorrai farmi una dichiarazione d’amore!” disse in tono ironico Michela mentre si infilava i calzini puliti. Fabiana unì le mani, tra le ginocchia. Attese di trovare le parole. Prese fiato e disse “Michela, so che non sono la persona più adatta a parlare. Ma pensaci bene. Non ti mettere nei casini”. “Che vuoi dire?” chiese Michela allacciandosi la cintura. “Sai che voglio dire, ha una situazione problematica” continuò Fabiana seriamente preoccupata. “Fa, non ti preoccupare ok?” la interruppe Michela “E poi so badare a me stessa” concluse uscendo. Fabiana la ricorse e l’afferrò per il braccio. “Ti prego aspetta. Non capisci!” disse Fabiana “Quello ti fa a pezzettini e ti spedisce ai ristoranti come bastoncini di pesce!”. “C’è altro che mi devi dire?” disse Michela guardandola fisso negli occhi. Fabiana esitò, poi lasciò la presa e lasciò che la ragazza se ne andasse.
Dopo uno stressante turno in pizzeria, Michela tornò a casa trovando Laura già addormentata. Cagnone che riposava vicino alla porta della camera, in attesa di poter entrare. Sorpassò il divano con la ragazza addormentata, quando con la coda dell’occhio vide un libro a terra. Lo raccolse credendo fosse di Laura, l’osservò sotto la luce della luna e l’ira scoppiò in un attimo. “Mi dispiace volevo solo leggere qualcosa” disse una finta addormentata Laura aprendo di scatto gli occhi. “Sei entrata in camera mia!” disse con pacata quanto pericolosa rabbia, Michela. “Sei entrata, ma come hai osato?”. Silenzio. “Cosa cercavi? Soldi? Oggetti di valore?” disse la ragazza strattonando laura costringendola ad alzarsi. “Mi stai paragonando a una ladruncola qualsiasi?” disse offesa Laura. “No hai ragione. Sei peggio” disse Michela lasciando la presa e spingendo Laura sul divano. “Quella è anche la mia stanza, ci abbiamo dormito entrambe” cercò di difendersi Laura. Michela sgranò gli occhi dallo stupore. “Lo è stata, tanto tempo fa”. La ragazza cercò di calmarsi. Chiuse gli occhi e respirò lentamente. “Dov’è il ritratto che c’era dentro?” chiese. Laura non ci pensò nemmeno a fare la finta tonta e rispose veloce “Sempre dentro il libro”. “Osa di nuovo, e ti giuro che me ne fotto se vai sotto un ponte. Ti sbatto fuori!” disse, prima di sbattere e chiudersi a chiave la porta della camera. Laura si pentì del suo gesto. Cosi non avrebbe capito nulla e avrebbe solo accresciuto le distanze. Nonostante la divisione, entrambe le ragazze faticarono a prendere sonno.
Non faceva ancora troppo caldo, che Michela usci dalla stanza. La chiuse a chiave, per precauzione. Cagnone cominciò a scodinzolare, speranzoso di una passeggiatina. “Non ora Cagnone, sta buono!” disse Michela facendogli una carezza. Quella mattina si era ripromessa di trovare Chiara.

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Capitolo 10
*** Silenzio Assenso ***


Michela girò l’intero paese, e le zone strettamente limitrofe. All’ora di pranzo il sole picchiava tanto che decise di fermarsi a riposare all’ombra. Parcheggiò la moto fuori un bar, ed entrò. Non erano accesi i condizionatori, ma subito l’investì l’aria fresca del locale. Si avvicinò al bancone, mentre tutto il sudore sulla schiena le si asciugava addosso. Un uomo sulla cinquantina, con brillanti occhi azzurri le si avvicinò. “Dimmi” disse sorridendo. “Vorrei una coca fredda con ghiaccio e limone” chiese Michela al barista. La ragazza attesa al bancone l’ordinazione; dopo aver dato una rapida occhiata al locale, prese a sfogliare distrattamente un quotidiano. Il bar non era pieno, solo qualche tavolo occupato da vecchietti intenti a giocare a carte o a leggere il giornale e commentare notizie. L’uomo posò gentilmente il bicchiere pieno di coca a ghiaccio davanti alla ragazza. Michela cosi, d’impulso chiese “Conoscete Chiara?”. In quell’istante i giochi si fermarono, fruscio di carta calata sui tavoli, occhi puntati sulla ragazza. “Non sei di queste parti” disse il barista. I suoi occhi da un brillante e allegro azzurro, divennero di ghiaccio. “No” confermò la ragazza. Michela era decisa a non farsi intimorire. “Signorina, fossi in lei, farei bene a finire la coca e andarmene. Sa questo è un piccolo paese, tutti sanno tutto di tutti” l’uomo lanciò un veloce sguardo agli altri che ripresero subito le proprie attività. “Sa, non vorrei che lei, o chiunque altro, si possa trovare nei guai, ficcanasando troppo” continuò il barista. “Potrebbe accadere che la voce delle sue ricerche arrivino all’orecchio sbagliato. Mi capisce vero? Seppure avessi qualcosa da dire non potrei proprio dirgliela. Capisce vero?” Michela capiva perfettamente. Era meglio se se la filava di li. “Comunque non conosco nessuna Chiara” concluse il barista con modi affabili e i suoi occhi tornarono allegri. Michela scese dallo sgabello, gettò delle monete sul bancone e senza dire una parola uscì dal locale senza aver ancora toccato la consumazione. Salì sulla moto, l’accese e partì senza guardarsi indietro. 
Era lei. Si era proprio lei. Dannazione! Cuore fermati, pensò Chiara, la ragazza in silenzio era al posto passeggero nella macchina del ragazzo. Quest’ultimo uscito dal giornalaio, entrò in macchina. “Che hai?” chiese brusco a Chiara. La ragazza fece un lieve gesto con la testa, per dire “nulla”. “Bene” disse il ragazzo ingranando la marcia e partendo a tutto gas. Erano giorni strani quelli. Giovanni non le rivolgeva la parola. Come sempre d’altro canto. Lei era sempre stanca. Fiacca, si sentiva gonfia e sempre sull’orlo di piangere. Ma resisteva. Arrivati a casa, il ragazzo si abbandonò sul divano a guardare televisione e la ragazza si rintanò in cucina. Mise una pentola sul fuoco, e aspettò leggendo un libro, che l’acqua arrivasse a bollore. “voglio mangiare!” ordinò bruscamente Giovanni, facendo trasalire la fidanzata. Poco dopo, alla tavola apparecchiata i due ragazzi mangiavano in religioso silenzio. Gli unici rumori erano dati dalle posate che toccavano i piatti, l’acqua o il vino che scorrevano giù per i bicchieri. Il silenzio era tale, per ogni piccolo rumore faceva trasalire la ragazza. Dopo aver mangiato, Giovanni ruttò sonoramente e si alzò per bivaccare nuovamente davanti al televisore. Chiara si alzò per sparecchiare, quando una fitta le prese lo stomaco. Un malessere che si arrampicava veloce, centimetro dopo centimetro attaccava le pareti dello stomaco. Pochi attimi per rendersene conto e chiara si ritrovò in bagno, con la testa nel water a vomitare. Non si aspettava che Giovanni si alzasse, ma in quel momento rimpiangeva una figura che l’aiutasse. Le sue gambe tremavano nonostante fosse inginocchiata. Le sue mani a stento tenevano lontani i capelli dalla faccia. Si rialzò lentamente, arrivò al lavandino, si sciacquò la faccia e la bocca. Strofinò piano un asciugamani in faccia e si diresse in cucina, per terminare le pulizie. 
Finito in cucina, Chiara di diresse in camera, si stese su di un fianco cercando di riposare. Dopo poco sentì la porta di casa cigolare, per poi richiudersi con violenza. Solo allora prese sonno, sapendo con non vi era più nessuno in casa. 

Michela rientrò in casa. Lanciò il mazzo di chiavi nella scatola di latta, oramai quasi distrutta. Cagnone le corse incontro. “Cagnone sta giù!” disse brusca la ragazza. Laura seduta al tavolo, osservò la scena senza fiatare. Michela percorse a grandi passi la casa e si chiuse in camera sbattendo la porta. Si abbandonò sul letto, cercando di riflettere, ma si addormentò, stremata dalla notte in bianco. Si svegliò in tardo pomeriggio. Il sole stava sulla via del tramonto e non sentiva rumori in casa. Era giorno di allenamento, ma non aveva proprio voglia. Ai alzò dal letto, uscì dalla stanza per entrare in bagno. Entrò nella doccia, girò i rubinetti dell’acqua e lasciò che le lavasse via la stanchezza e quel senso di frustrazione. Lasciò che l’acqua le scorresse addosso per un po’. Cercò di pensare, riflettere, ma l’unico pensiero era quello di lasciar stare. Era un caso, solo un caso, che quella sera aveva visto Chiara con il livido in faccia. Avrebbe fatto bene a far finta di nulla. “No!” esclamò d’improvviso tra se e se, picchiando il muro con un pugno. Uscita dalla doccia si asciugò con Cagnone che le ronzava  intorno, incurante della scortesia della padrona di qualche ora prima. Indossò una tuta comoda e si avviò verso la porta per andare in pizzeria. “Vado al lavoro. Da da mangiare al cane” disse con tono piatto rivolgendosi a Laura. Laura non rispose, assorta com’era dal film che stava vedendo. Ma fece un cenno d’assenso. Michela prese le chiavi e uscì all’aria fresca. 
 “Sei in anticipo” disse il proprietario del locale, con espressione sorpresa. La ragazza non rispose e si diresse direttamente nello stanzino a mettersi il grembiule. Tornò al bancone e si sedette fissando il vuoto. “A guardarti sembra che stai svolgendo complicati algoritmi a mente” scherzò il proprietario. L’uomo si sedette di fianco alla ragazza. “Senti” cominciò poggiando una mano sulla spalla della ragazza “quando un problema ti sembra insormontabile, il modo migliore per uscirne è staccare la spina per qualche tempo, poi ritornare e analizzare la situazione da terza parte. Poi affrontarla”. “A cosa ti riferisci?” chiese Michela. “Oh, bè a niente di particolare. E a tutto, tutto sommato” rispose enigmatico l’uomo. “Grazie Mario” disse la ragazza alzandosi per ricevere i primi clienti. 
Era sera, quando Chiara riaprì gli occhi. Un odore molto forte investì le sue narici, penetrandole il cervello. Subito la nausea la invase. Tentò di alzarsi e già tutto le girava intorno. Arrivò in cucina tenendosi le mani sulla testa. “Ma stai sempre male tu?” disse sprezzante Giovanni. “Ho portato la cena”. Sul tavolo c’erano una vaschetta con un pollo arrostito con patate, patatine fritte, varie verdure sott’olio come carciofini, melenzane e pomodori. Tutti quegli odori si mescolavano nello stomaco di Chiara e facevano pesantemente a cazzotti. Si portò subito una mano alla bocca in vista di un conato. “Ti vuoi sedere e mangiare?” disse il ragazzo duro. Chiara gli sorrise. Si diceva sempre che se quella era la vita che doveva vivere, valeva la pena di cercare di renderla  più dolce possibile. Cosi portò qualche patatina alla bocca. “Che hai da ridere?” scattò Giovanni. “Ti sistemo io! Sei troppo strana ultimamente” urlò battendo un pugno sul tavolo. Ma la ragazza non lo finì di ascoltare che corse in bagno. Di nuovo inginocchiata vicino al water, buttava fuori quel poco che aveva mangiato. Sentiva la trachea bruciare, lo stomaco vuoto continuare e contrarsi. La testa pulsava. Si sciacquò e tornò in cucina, dove trovò Giovanni paonazzo in volto. D’improvviso, le diede un ceffone. “Non solo ti porto la cena!” urlò adirato. “Ma, sto male” cercò di difendersi la ragazza, con lo stupore negli occhi e le lacrime che le rigavano le guance. “Tu disprezzi e denigri ciò che faccio per te” continuò il ragazzo battendo più forte il pugno sul tavolo, facendo saltare qualche patatina fuori dalla vaschetta. Giovanni si guardò intorno. Prese le chiavi della macchina, di casa e se ne andò sbattendo la porta. Un rivolo di sangue sgorgò dal labbro gonfio e pulsante di Chiara. La ragazza si portò le mani al volto, scoppiando a piangere e lasciandosi cadere a terra. Una goccia di sangue si staccò da mento cadendo su una mattonella candida. Poggiò la testa al muro e continuò a piangere, finché sfinita non si addormentò li, senza avere neppure più la forza di alzarsi.

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Capitolo 11
*** Attese ***


Buonasera a tutti, è Noa che vo parla! Ecco il nuovo capito di questa strana storia. Speo vi piaccia e che lasciate, magari, una recensione. Buona serata.


“Oh non ti si è visto l’ultima volta, che è successo?” chiese qualche ragazza nello spogliatoio. Michela guardava Chiara, che si cambiava velocemente. Chiara di tanto in tanto sbirciava Michela. Nessuna delle due ragazze, a cui era stata posta la domanda, rispose. A rompere il silenzio fu Michela, dicendo “Nulla di che. A volte la voglia cala” disse ironicamente. Nonostante le mancate spiegazioni, nessuno badò alla cosa. Troppo impegnate a concentrarsi. Tutte sovrappensiero, tutte pensavano all’imminente partita. “Ragazze, mi raccomando!” le incitò l’allenatore. “Queste qui sono toste, ma voi non siete da meno. Mostrate loro chi siete!” concluse concitato. Le ragazze si avviarono al campo con Chiara in testa, che sfuggì dalla presa di Michela, rimasta ultima. “Tu, vedi di restare concentrata e non di pensare alle farfalle e ai fiorellini, siamo intesi?” disse serio l’allenatore alla ragazza, bloccandola per una spalla. Il divario tra lei e Chiara non faceva che aumentare vertiginosamente. “Ok mister” disse guardandolo fisso negl’occhi. Senza guardare in realtà nulla.
Chiara guardò il campo, che sfuocò per un istante. Le pareti pian piano ritornavano al loro posto, ogni cosa riprendeva la propria forma. Ma la nausea, che si aggrappava al suo stomaco e alla sua mente, quella no, non riusciva a liberarsene più.
Il match ebbe inizio. Le ragazze in campo. Agguerrite ma tese. Una delle ultime partite di campionato. Una discreta folla occupava la palestra, facendo gran tifo a bordo campo. Due squadre, due fazioni, due cuori pulsanti. Le due squadre si impegnavano al massimo e la partita risultava piatta. Punteggio basso, pochi colpi di scena. Troppa suspense.
“Prendila, è nostra!”. Un pallone in volo, molte aspettative dalla panchina. “Chiara prendila, prendila!” gridavano saltellando  esaltate,  in molte, dalla panchina, Michela e allenatore compresi. Nessuna reazione da parte della ragazza. Il pallone stava per toccare terra. “Oh, ma che cazzo combini Chiara, PRENDILA!” sbottò l’allenatore. Il pallone toccò terra e il fischio dell’arbitro risvegliò Chiara da uno stato di trance. Si girò e guardò  la panchina con sguardo vuoto. Michela scattò verso la ragazza, incurante del gioco che era ricominciato e l’afferrò per un braccio, prima che sbattesse a terra. Uno stizzito arbitro fischiò un time out. “È svenuta!” disse Michela, girandosi verso la panchina tenendo la testa della ragazza. Solo allora le ragazze cominciarono ad avvicinarsi. “Fate aria, spazio!” tuonò l’allenatore, rompendo il cerchio che si era formato intorno alla copia. “Che si fa?” chiese qualche ragazza. “Si chiama un’ambulanza” rispose l’arbitro. Nessuno osò rispondere. “Sarà stato un calo di zucchero, la tensione” disse Michela cercando di non creare ulteriore tensione. Cosi decise di prenderla in braccio e portarla in spogliatoio. “Meglio che il gioco riprenda, mister” disse. “Hai ragione” concordò l’uomo. “Fabiana, ti lascio le redini: conduci tu la squadra” disse, seguendo Michela. “Su Chiara, non farmi fare tutto il lavoro” disse la ragazza ironizzando, sapendo che probabilmente non poteva sentirla. Era stupefatta dal leggero peso della ragazza. Era tesa, nervosa.  Voleva spaccare tutto e al contempo stringere quella ragazza al petto, proteggerla da ogni pericolo. Il suo viso era sul suo cuore, e sperava non si svegliasse con il martellare di quello strano muscolo, ora così veloce. Michela poggiò la ragazza tra le sue braccia, su una panca, arrotolando un’asciugamani pulita da mettere dietro la testa. L’allenatore intanto le teneva su le gambe. Nessuno dei due parlava. Tesi entrambi, i suoni che si udivano era il chiassoso tifo, fischi e colpi dati al pallone. “Chiara, dai riprenditi” disse tra se e se Michela, mentre con una mano le carezzava il volto. L’ambulanza arrivò presto. Due portantini irruppero in spogliatoio con una barella. La sirena, continuava a suonare. Nonostante ciò nessun curioso si affacciò. Il gioco continuava. “Che è successo?” chiese uno dei due uomini. Sbrigativo, dai modi un po’ rudi, ma delicato con il corpo privo di sensi. “È svenuta mentre giocava” fu l’unica cosa che riuscì a dire Michela, guardando la scena come se fosse tutto surreale. Mentre allacciavano il corpo della ragazza alla barella, Michela mise una giacca. “Che fai?” disse l’allenatore alla ragazza. “Vado con lei!” rispose. “Familiari, parenti, genitori?” chiese uno dei due uomini uscendo. “No nessuno presente” disse l’allenatore. “Io sono la cugina!” mentì d’istinto Michela. Il portantino la guardò dall’alto in basso. Chiuse gli occhi in segno di resa e Michela gli schizzò davanti saltando in ambulanza. Si chiusero le porte e  la ragazza ebbe modo di vedere lo sguardo attonito dell’allenatore, che alzò una mano in segno di saluto, prima di rientrare velocemente. Probabilmente, per riprendere in mano la situazione della squadra.
Il viaggio proseguì nel più totale silenzio, mentre la sirena strombazzava a più non posso, l’ambulanza schizzava tra le vie della città e i paramedici cercavano di rianimare Chiara. Michela pregava, o ci provava, silenziosamente nella sua mente, invasa dalle onde sonore della sirena. “Si sta risvegliando” disse concitato uno dei paramedici.
Chiara sbattette le palpebre più di una volta. La nausea la perseguitava e tutto quell’ondeggiare di quella strana barca non faceva che farla stare peggio. I suoi occhi appannati facevano fatica a mettere a fuoco la situazione, la sua mente annebbiata cercava di ricordare quando fosse salita su quell’imbarcazione spericolata: l’ultimo ricordo che aveva era di lei in campo ed era tutto confuso. Tentò di alzarsi. “Sta giù, giù!” disse animatamente il paramedico. “Ma sono su una nave?” disse puntando i polsi per potersi alzare. “Sta buona. Buona! Sei in ambulanza. Hai avuto uno svenimento” disse Michela prendendo la mano di Chiara. Chiara appoggiò la testa sul cuscino e si rilassò. “Come è andata la partita?” chiese. “Sta continuando, eravamo sotto quando sei svenuta” rispose Michela. “Mi dispiace” disse Chiara. L’ambulanza arrivò all’ospedale. “Non ti preoccupare” disse Michela, mentre i paramedici portavano via Chiara, oltre una porta. “Tu non puoi entrare” disse risoluto uno dei due uomini, fermandola, parandole un braccio davanti. Michela si sedette in sala d’attesa. La tensione era tanta che riusciva a malapena a distendersi. E l’attesa fu lunga.
 
Il lettino correva ancora. Le pareti scorrevano veloci come fotogrammi. Le voci si accavallavano tra di loro. Qualcuno che le chiese il nome. Il nome. Ma quale? “Mi senti?” chiese qualcuno che non riuscì a distinguere. “Chiara”. I neuroni si misero in moto, ma non riusciva a ricollegare a chi appartenesse la voce. "Chiara Ceno". La nausea, la nausea era troppo forte. Eccolo, in tutto quel dondolare, correre, scorrere: Chiara puntò le mani sul lettino, si sporse e vomitò, schizzando le persone intorno, che rallentarono la corsa fino a fermarla. “Michela” sibilò la ragazza che si stava pulendo con il camice di un dottore, convinta fosse un’asciugamani. “Michela, dove sei?” sospirò prima di perdere nuovamente conoscenza.
 
Chiara si risvegliò in una camera illuminata. Un odore di disinfettante colpì la sua attenzione. Dalla finestra aperta entrava aria fresca. Aria di primavera, aria di buono. Le lenzuola che toccavano le sue gambe erano fresche e morbide. La stanza era bianca, spartana, asettica. Vuota. Sentì la mano sinistra intorpidita e solo allora si accorse che una ragazza si era addormentata tenendole le mani. Michela era seduta su una sedia dall’aria scomoda e la testa appoggiata sul braccio. L’altra mano era stretta intorno alla sua mano. Chiara si sedette, facendo piano per non svegliarla. Si guardò intorno e non vide nessun altro. Gli altri tre letti erano vuoti. Allungò timidamente una mano verso Michela. Le sfiorò piano il capo, per poi infilare le dita nei suoi corti capelli castani. La ragazza alzò lievemente la testa. “Ti sei svegliata!” disse stropicciandosi gli occhi. “Mi hai fatto stare in pensiero” disse sorridendo. Ma con aria decisamente seria. In quell’istante entrò una dottoressa nella stanza. “La belva si è svegliata” disse con un ampio sorriso. “Senza offesa Chiara” disse subito. Michela si alzò facendo scrocchiare sonoramente le vertebre della schiena. “Io vado a prendermi un caffè” disse sfiorando la delicata mano di Chiara. Uscita dalla stanza la dottoressa e la paziente si guardarono negli occhi. Veloci flash invasero la mente di Chiara cercando di capire se l’avesse già vista. “Ti sei battuta come un leone, ma non eri in te. Abbiamo dovuto sedarti per poterti fare semplici analisi come quelle del sangue” disse la giovane donna. “E probabilmente tutta la confusione e il giramento di testa, ti hanno provocato la nausea”. L’alone di una macchia giallastra si notava sul camice della dottoressa. Altri ricordi, confusi, veloci, agitati fecero capolino nella mente della ragazza che indicò la macchia. Con aria colpevole disse “Mi… mi dispiace”. “Tranquilla, può succedere” disse la dottoressa sedendosi a bordo letto. “Sei stata soggetta a forte stress, e un calo ipoglicemico ti ha provocato lo svenimento. Nulla di cui preoccuparsi, ma sarà il caso di stare più a riposo ora che sei in attesa” spiegò il medico. “In attesa?” chiese Chiara con leggerezza. “Certo! Non è una condizione di malattia, ma non è una cosa da prendere sottogamba, una gravidanza”. Il silenzio. Un tuffo al cuore. Lo stupore negl’occhi, lo sgomento. “Sono… incinta?”.

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Capitolo 12
*** Richieste ***


Michela rientrò nella camera con lo stecchino del caffè in bocca. “Chiara tutto ok?” chiese preoccupandosi subito. La ragazza annuì. “Sei proprio pallida! Chiamo subito la dottoressa” disse agitata. “No, non ce n’è bisogno. È tutto a posto. Vieni qui vicino a me” disse Chiara tendendo una mano verso la ragazza. “E’ stato un calo di glicemia, mi dimetteranno tra poco”. Michela si sedette e prese la mano della ragazza e la strinse. Non sapeva che dire, cosi tacque.
Chiara sospirò. Incinta. Non poteva crederci. Come? Le poche brutali volte che era stata con Giovanni, non voleva altro che tutto finisse in fretta. Non aveva mai pensato a nient’altro. E ora, aveva un piccolo feto nel grembo. Sospirò ancora, mentre Michela la osservava incantata. “Sei bellissima” le scappò. Chiara la fissò intensamente. “Lo sai che meriti di meglio?” continuò Michela. “Di meglio tipo, mmm te?” disse cercando di scherzare. “Perché no?” rispose Michela con occhi fermi. Stringeva forte le mani di Chiara e non staccava il suo sguardo. “È perché sono una ragazza?” chiese. Chiara cercò di ribattere quando Michela lasciò la mano della ragazza. “Sai cosa? Scusa ho detto una cosa stupida. Meriti di meglio non perché ci sono io. Lo meriti a prescindere. Meriti di meglio perché sei una persona troppo buona per tutto quello che subisce, tutti i giorni”. Il flusso dei pensieri era tale che poteva quasi essere percepito. Chiara guardava la ragazza di fronte a se che si coprì gli occhi con i palmi per asciugare le lacrime. La ragazza il cui volto era segnato da lacrime, non di dispiacere perché la donna di cui si stava innamorando stava con un’altra persona, bensì perché quella persona la rendeva infelice e triste. Michela stava per alzarsi quando decise di parlarle. “Michela aspetta devo dirti una cosa”. Le prese la mano e fece un sospiro. “Chiara! Ci hai fatto prendere uno spavento incredibile!” disse Fabiana entrando, seguita da tutta la squadra. L’imbarazzo era tangibile, tanto che Michela ritirò la mano. Chiara arrossì. “Abbiamo interrotto qualcosa?” chiese l’allenatore. “No, no tutto ok” si affrettò a dire Michela stemperando l’imbarazzo. “I dottori dicono che è tutto ok, è stato solo un calo di glicemia. La dimetteranno tra poche ore, il tempo di ricevere le ultime analisi” disse la ragazza alzandosi. Attraversò il gruppo sulla porta ed uscì, dirigendosi al bagno. Aprì il rubinetto dell'acqua e la guardò scorrere. Si sciacquò la faccia e si fissò allo specchio. Si accorse di essere rossa in volto e di avere delle lacrime che le rigavano il volto. Fabiana aprì la porta e rimasta sull'uscio la osservava. “Vattene Fa, non è cosa oggi” disse brusca Michela, girandosi di spalle, fingendo di asciugarsi le mani per non fare vedere le lacrime. “guarda che lo so che stai piangendo” disse Fabiana avvicinandosi. Michela colpi di scatto il phon per le mani, tentando di far cadere il discorso. “So che significa vedere la persona di cui ti sei innamorata, che va dietro ad un'altra. E magari vederla anche soffrire” continuò Fabiana avvicinandosi e affiancando la ragazza. “Mi dispiace” disse Michela con gli occhi arrossati. “Adesso torna dentro e aiutala: ha bisogno di te sai?”. Michela si avvicinò alla porta, ma prima di aprirla chiese “Da quando?”. Non si voltò, sapeva che avrebbe fatto solo più male. “Troppo tempo ormai” rispose Fabiana. Michela abbassò la maniglia, spinse la porta e si diresse in camera di Chiara.
“Allora, pronta ad uscire?” disse quasi sospirando Michela. La stanza era ritornata vuota. Probabilmente l'infermiera aveva cacciato via quel gregge di pecore schiamazzanti dalla camera della ragazza. “Hai chiamato qualcuno per farti venire a prendere?” chiese ancora. La ragazza di fronte a se fece un cenno negativo. “Ho detto che mi avresti riaccompagnato tu, mi spiace”. Michela comprese che non poteva essere chiamato nessuno. Figurarsi il fidanzato. Cosi senza dire una parola, cominciò ad organizzare le cose della ragazza. Prese i suoi vestiti e glieli porse. “Ce la fai da sola?” chiese imbarazzata. Chiara afferrò i suoi vestiti e si diresse al bagno in camera. Uscendo vestita nuovamente, con la tuta da gioco, porse un mazzo di chiavi a Michela. “Le hanno portate le ragazza. Fabiana ha detto di averti parcheggiato la moto nel piazzale”. Michela annuì, prese le sue borse portate dalle ragazze, prese la roba di Chiara e si mise alla porta aspettando che la ragazza fosse pronta. Firmate le carte di dimissione e ritirate le analisi si avviarono verso l'uscita. “ce la fai a reggerti in moto? Non ho altro mezzo per accompagnarti”. Chiara fissò la ragazza che aveva già montato in sella. “Ho solo detto che eri tu la mia accompagnatrice, non devi per forza accompagnarmi. Me ne posso andare da sola” dichiarò Chiara. Michela scoppiò in una sonora risata. “avanti che fastidio mi dai. Ormai sono tua cugina, non ti lascio certo a piedi” le due ragazze si guardarono. “A meno che qualche condizione di cui io sono all'oscuro ti vieta di salire in moto” concluse Michela. Quella frase colpì Chiara che arrossì all'istante. Pensò al piccolo fardello che ora aveva dentro di se e non poté fare a meno di sfiorare la pancia. Si risvegliò dal rombo degli scarichi della moto di Michela. “Questo rumore non mi piace. Cambia gli scarichi” disse Chiara salendo sul mezzo. “Fa la passeggera e non scocciare” disse ridendo Michela.
Affrontato un po' di traffico, il viaggio non fu particolarmente lungo. Chiara alla fine si decise a confessare deve abitava. La centaura rimase colpita da quanto fosse vicino al bar dove era stata. Chiara smontò dalla moto e passò il casco a Michela. La ragazza la guardò, abbassò lo sguardo per poi riguardarla. Chiara faceva lo stesso: avevano entrambe qualcosa da dirsi e cominciarono a parlare entrambe per poi fermarsi subito. “Inizia tu” disse Chiara. Ma Michela. Dopo qualche secondo di silenzio, tirò la leva della frizione, ingranò la prima e se ne andò, senza fissare il casco sotto il mento. La ragazza, rimasta sola sul ciglio della strada era basita. Andarsene cosi. Ma, forse, era meglio per tutti. Era meglio per lei.
Michela rientrò, confusa, in casa. Era pomeriggio inoltrato, una bella aria calda rendeva l'aria piacevole e Laura stava preparando una macedonia di frutta. “Come è andata la partita?” chiese, mentre sbucciava le banane. “Non lo so” rispose Michela, stravaccandosi sul divano. Accese la tv e cercò qualcosa di interessante facendo pigramente zapping. Cagnone si distese sotto le sue gambe. “Come non lo sai? Avete vinto o perso?” chiese ancora e insistentemente Laura, mentre affettava la frutta. “Una ragazza si è sentita male e ho passato la giornata al pronto soccorso. Non so nulla” spense la tv e lanciando stizzita il telecomando sul divano chiese “E comunque che ti importa?”. Il silenzio piombò nella stanza. “Fatti gli affari tuoi allora”. Laura ne rimase colpita. Era proprio nervosa Michela. Le cose si erano un po' acquietate nei giorni precedenti e si stupì di una cosi violenta reazione. Concluse le sue considerazioni, con un'alzata di spalle, Michela era già sotto un forte getto d'acqua tiepida, per lavare via tutte le frustrazioni della giornata. Quel giorno avrebbe solo dormito, sino a dimenticare il passato.
Chiara era sola in casa. Giovanni era uscito, o forse mai rientrato dal giorno prima. Ogni tanto cosi, prendeva e spariva. Una birra di troppo, uno schiaffo di troppo, una donna di troppo. A volte, quella di troppo si sentiva lei. Si era fatta una doccia, si era messa un pigiama pulito e senza cenare, si era infilata sotto le coperte. Se Giovanni fosse tornato... no, quella sera non sarebbe tornato. “Sono una vera stupida” disse mentre sentiva il suo cuore galoppare in gola. Aveva mille pensieri per la testa. Fin quando avrebbe potuto tenere nascosta la storia del bambino? E Michela? Ormai traspariva dai suoi occhi, dalla sua anima. Stava per addormentarsi quando vide il suo telefono sul comodino. Lo prese, e lo rigirò per un po' tra le mani.
 
“Dimostrami che tu, sei il meglio che posso meritare. C.” Michela ricevette questo messaggio a notte inoltrata. Chissà quanto ci aveva riflettuto prima di schiacciare quel tasto. Il tasto “INVIO”. Solo allora Michela si addormentò con il cellulare in mano, sul cuscino.

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Capitolo 13
*** Indietro, Nel Presente ***


Michela non rispose subito al messaggio. Di tanto in tanto lo rileggeva, provava a scrivere qualcosa, ma poi posava il cellulare. Stava uscendo pazza: prendeva e posava il cellulare ogni dieci minuti. Lo fissava, provava a prenderlo e poi lo lasciava nuovamente. Come se il cellulare scottasse come una patata bollita. Chiara dall’altro capo fissava il cellulare. Sperava che da un momento all’altro le arrivasse una risposta. Aspettava da ore. Si chiese se non fosse stata avventata. Forse poco chiara. Forse era suonato stupido. Troppi forse e nessuna risposta. Alla fin fine sapevano cosi poco l’una dell’altra, si potevano dire sconosciute. Eppure qualcosa le legava, un sentimento, forse. Un evento, un ricordo un qualcosa che le univa tanto da separarle. Entrambe le ragazze aspettavano. Qualunque cosa: anche un improbabile segno dal cielo sarebbe stato gradito. Uno squillo fece trasalire Chiara. Pensò di non farsi false speranze. “Potrebbe essere lei ma non ci sperare”. Con il cuore a mille prese il cellulare, lo sbloccò: “1 NUOVO MESSAGGIO”. L’avviso troneggiava sullo schermo del cellulare: la ragazza con mani tremanti premette “LEGGI”. “Gentile cliente la informiamo che il suo credito sta per terminare”. Con sguardo basito e attonito Chiara mollò il cellulare con comò. “Ma vai a cagare!” imprecò. Decise allora di non perdere più tempo, di alzarsi e portare avanti la sua giornata. Ma il risultato fu che si mise a sedere sul divano a guardare pigramente la televisione sperando silenziosamente in un qualcosa.
 
“Mi sembri una pazza, ti calmi?” esclamò scocciata Laura. Michela trasalì. La guardò negl’occhi. “Ma che ci tieni con sto’ cellulare?” disse sbattendo il cucchiaio sul tavolo. “Scusa?” chiese stizzita Michela. Non solo stava in casa sua, occupava il divano, stava sempre tra i piedi, non accennava ad andarsene ma osava anche criticare le sue cose? “Si! E lo prendi, e lo posi, poi scrivi qualcosa, poi no. E basta! E falla sta chiamata!” disse alzandosi e poggiando in malo modo la tazza con cui faceva colazione nel lavello. Michela rimase molto colpita del suo atteggiamento. Ma non ci badò più di tanto e lasciò il cellulare sul tavolo. Andò a vestirsi e decise di fare un giro in moto, tanto per svagare la mente. In camera, mentre infilava i jeans buttò l’occhio sul disegno che aveva fatto Chiara settimane prima. Era cosi lontano eppure cosi vicino quell’evento. Si abbandonò ai ricordi stendendosi sul letto. Quando la spiò da dietro la porta, quando si accorse di quanto era bella, il suo sorriso teso, lo sguardo serio ma impaurito. Chissà che le avrebbe detto quel giorno e che sarebbe successo se non fosse mai tornata Laura. Il turbine dei ricordi strinse pian piano sempre più e sempre più forte lo stomaco e l’intestino, fino a farle sentire dolore. Il fiato le mancava dai polmoni e non riusciva a inspirare, il cuore di dimenava come un pazzo nel petto. Gli occhi della ragazza,  già chiusi, si strinsero più forte fino all’esplosione di mille scintille. Le mani afferrarono un angolo del lenzuolo fino a quando ossigeno non invase i polmoni, il respiro tornò regolare, il cuore riprese i suoi ritmi e il corpo si rilassò. Michela non capiva perché dovesse avere una tale reazione verso una persona di cui sapeva ben poco: quel tanto che bastava che l’avrebbe dovuta mettere in fuga da un pezzo. Invece più si avvicinava, più l’abisso tra le due ragazze cresceva. E più questo accadeva più voleva quella ragazza tra le sue braccia. D’improvviso si alzò, si diresse in cucina e prese il cellulare.
 
“Tu cosa proponi?” questo il breve messaggio da parte di Michela. Chiara rilesse più volte il messaggio per controllare che fosse davvero lei. Cosi attese troppo e il telefono squillò ancora. “Ti va una passeggiata al mare?”. Ancora una volta attese troppo. Quel tanto che bastava da convincere Michela a chiamarla. Il cellulare cominciò a suonare e vibrare e il cuore di Chiara batteva forte. Ebbe la tentazione di nascondere il cellulare sotto il cuscino, ma poco prima che Michela cedesse, rispose.
“Ah, ehm, ciao, ti disturbo?” disse Michela imbarazzata. “Pronto? C’è nessuno?” chiese dopo qualche secondo di silenzio. “S-si, sono io. Ciao” rispose dall’altro capo Chiara rossa in volto e in evidente stato di imbarazzo. Ancora una volta le due ragazze tacquero. Chiara prese fiato e tutto d’un colpo disse “Quando vorresti andare al mare?”. L’imbarazzo la fece parlare cosi veloce che temeva la ragazza dall’altro lato non avesse capita. Michela sorrise. “Ti va se passo ora?” disse con il cuore in gola, quasi lo dovesse rigettare. Chiara rimase sorpresa. “O-Ok” confermò, nonostante fosse titubante. “Se non ti va facciamo un’altra volta” disse Michela pentendosi della fretta che aveva avuto. “No, ok, ti aspetto”. Le due ragazze si salutarono imbarazzate. “Esci?” chiese Laura. Michela non le diede retta e si chiuse in camera. Si spogliò completamente, rimanendo in mutande e reggiseno. Si mise davanti all’armadio e pensò a cosa avrebbe dovuto mettersi. Laura intanto seduta sul divano era torva. Aveva dato poco a vedere che la faccenda la faceva arrabbiare, ma ora era troppo. Rivoleva Michela, l’avrebbe riavuta a tutti i costi. Era sua. Sferrò un pugno nell’aria. Si alzò e se ne uscì di casa. Michela riaprì la porta della stanza, sentita la porta di casa chiudersi e chiamò la ragazza senza ricevere risposta. “Laura sei uscita?” chiese ancora, sentendo solo la sua voce. “Evidentemente si” pensò tra se e se. Troppo elegante, troppo sportivo, troppo casual, troppo trasandato: qualunque abbigliamento lo trovava inappropriato. Cosi fece un bel respiro e cercò di calmarsi. Accese lo stereo e con un po’ di musica cercò di riflettere. Il ritmo si impossessò del suo piede e dei suoi fianchi che cominciarono ad ondeggiare. Sull’onda della musica decise di indossare un paio di jeans comodi, una maglietta verde pastello con un gilet nero. Infilò le scarpe e un giubbino, prese chiavi, portafoglio e caschi e usci di casa, non senza accarezzare il cane. “Dai Cagnone, torno presto”. Le batteva forte il cuore. Chiara l’aspettava, l’aspettava un lungo pomeriggio. O forse no. Montò in sella, con il piede tolse il cavalletto, girò la chiave nel quadro, inserì la prima, lasciò la frizione e partì. Scorrazzava per le strade, il vento avvolgeva il suo collo, il cuore non smetteva di correre, ogni suo muscolo contratto ed eccitato.
Chiara d’altro canto, non era più quieta. Sentiva tutto il corpo tremare. Fissava il suo sguardo allo specchio: occhi pieni di paura, di domande di perché e desideri. Non sapeva cosa l’aspettava. Sapeva cosa voleva. Cosa aveva. Ma non sapeva dove sarebbe arrivata. Michela arrivò presto, prima di quanto sperasse. Non si dissero una parola, un intenso sguardo bastò. Chiara  montò in sella e si concesse la libertà di abbracciare Michela e lasciarsi cullare dall’andatura. Michela ne rimase sorpresa ma la piacque quel contatto. La pancia e il seno che aderivano morbidi e caldi alla sua schiena. Le braccia che cingevano la sua vita, il mento appoggiato alla sua spalla. “Siamo arrivate” disse Michela, dopo un viaggio lungo ma piacevole. Chiara sorrise imbarazzata. Le due ragazze camminarono sulla spiaggia, per un po’, in silenzio, finché Michela non decise di sedersi. Si tolse le scarpe, i calzini e lasciò che ogni singolo granello di sabbia si infilò tra le dita. Strinse le gambe tra le braccia e poggiò il mento tra le ginocchia. Si voltò e sorrise a  Chiara. “Che hai fatto di bello oggi?” chiese per rompere il silenzio. Chiara la fissò stupita. Michela sorrise ancora e allora continuò “Non voglio metterti in soggezione, non dobbiamo per forza parlare di cose importanti. O meglio si, ma voglio conoscerti, voglio passare del tempo con te, voglio conoscere la tua voce”. “Io per esempio oggi ho cercato il coraggio per chiamarti. E pensa Laura si è infuriata  perché smaniavo con il cellulare di continuo” continuò ridendo. “Quindi dimmi: cosa hai fatto di bello oggi?”. Chiara schiarì la  sua voce. “In realtà molto del mio tempo l’ho passato ad aspettare una tua risposta. Ah, e a maledire i messaggi del proprio operatore”. Entrambe scoppiarono a ridere. “Perché non mi racconti qualcosa di te?” chiese Michela seria. “Dimmi che fai nella vita”. Chiara guardò l’orizzonte. Prese fiato, il cuore martellava in petto. Michela le prese la mano e la strinse. “Va bene, tranquilla, non devi per forza. Posso cominciare io”. “No, no tranquilla. Voglio.” rispose con voce agitata la ragazza. “Frequento l’università: studio Psicologia” cominciò a raccontare, con voce tremante. “È l’unica concessione che mi ha fatto mio padre da quando è morta mia madre”. “Come è morta?” chiese Michela. “Credo una malattia. Mio padre non ne ha mai voluto parlare e io ero piccola, per ricordare. Avevo sei anni e l’ultimo ricordo che ho di lei è quando mi prese in braccio mi accarezzò la spalla e mi disse –coraggio-”. Chiara si fermò e sospirò. “Non devi per forza” cercò di dire la ragazza che le era seduta a fianco. Restarono in silenzio per un po’, ognuna assorta nei proprio pensieri. Michela scavava in profondità, nella sabbia, con le dita dei piedi, fino a sentire la sabbia bagnata e fredda. Chiara voltò la faccia dall’altro lato per non far vedere che due grosse lacrime le rigavano le guance pallide come la Luna. “Ti manca?” chiese Michela senza attendere risposta. “Non c’è vergogna nel piangere”. Chiara arrossì a quella affermazione. Asciugò le lacrime con la manica del suo cardigan. “Capii più tardi che voleva dire mia madre”. Poi non disse più nulla. Aveva un groppo in gola, un nodo che non riusciva più a sciogliere. Così Michela le prese la mano e la strinse. “Invece io lavoro per vivere. Potrei trovare di meglio che la  pizzeria, ma mi sono fatta degli amici li e mi sono sempre detta che sarebbe stato temporaneo, che… che sarebbe tornata. Laura intendo” si girò per controllare la reazione di Chiara ma entrambe tennero ben salda la stretta delle mani. “Me ne sono andata di casa, mai ufficialmente s’intende, a 19 anni, quando i miei mi hanno trovata in camera mentre baciavo la mia ex ragazza. Nessuno ne fece parola, mai. Non si discusse, nessuna minaccia o tentativo di qualche tipo. Pensai che forse mi ero sbagliata e che l’avevano accettato semplicemente. Quando poi cominciarono a combinarmi incontri con i figli delle amiche di mia madre capii la situazione” la ragazza fece una pausa e scoprì di avere lo sguardo di Chiara addosso. Pendeva dalle sue labbra. “Che noiosa la storia della mia vita eh?” disse scherzando. “No! Continua, ti prego” disse con slancio, Chiara, arrossendo ancor di più appena si accorse dello sguardo divertito della sua interlocutrice. Le onde cullavano piano le parole della ragazza, che riprese a parlare. “Cosi una sera in preda allo sconforto presi la moto e andai. Percorsi cosi tanti chilometri che nemmeno lo so, stetti cosi tante ore fuori di casa! Alla fine esausta, trovai una pizzeria in chiusura e chiesi solo una birra. Il proprietario mi disse che quello non era un bar, ma me la diede comunque. La bevvi mentre i ragazzi lavavano per terra. Uscendo vidi il cartello “CERCASI CAMERIERE”, ritornai sui miei passi e semplicemente il proprietario mi invitò a ritornare il giorno dopo. Non capii mai perché lo fece, ma è da allora che lavoro li. Non ebbi quindi tempo di pensare che avrei fatto l’università, me ne andai di casa qualche settimana dopo, con il disaccordo e la disapprovazione dei miei. Vissi per un po’ nel retrobottega dormendo sul divano. Poi, in un piccolo monolocale vicino la pizzeria”. Michela si fermò, ma non si voltò a vedere la sua ascoltatrice. Stava per arrivare una parte del racconto che non sapeva se Chiara aveva piacere di ascoltare. Cosi tacque. Il sole era diventato di un arancione tendente al rosso e stava per immergersi nel mare, trasformandolo in oro liquido. “Immagino hai conosciuto Laura in pizzeria” disse dopo un po’, timidamente, Chiara. “Si” rispose semplicemente Michela, tacendo nuovamente. Chiara appoggiò la testa nella spalla di Michela. Stupita, la ragazza non azzardò nessun movimento. Aveva paura di fare qualcosa di sbagliato, ma continuò a stringere la mano della ragazza. “Cosa succederà ora?” chiese Chiara, più  se stessa che a qualcuno. Michela avrebbe voluto chiederle cosa intendesse, ma lo sapeva bene, era la stessa cosa che si chiedeva lei. Ormai il pomeriggio era volto al termine e l’ansia saliva. “Sono quasi le sette di sera, sarai affamata e annoiata dal mio lungo monologo. Ti riaccompagno a casa” disse in tono pacato, anche se l’avrebbe voluto chiedere. Chiara alzò la testa con aria interrogativa e fissò negl’occhi quella che poteva essere definita un’amica. Forse. Michela alzò un sopracciglio, divertita. “Non deve succedere nulla, ok? Non accadrà nulla che nessuno delle due non desidera” disse sorridendo. Lasciò, a fatica, la presa di Chiara, si rimise le scarpe e si alzò in piedi. Si scosse tutta la sabbia di dosso e tese una mano alla ragazza ancora seduta. Sembrava si fosse richiusa in se stessa, ma quando alzò lo sguardo sorrideva e appariva visibilmente più distesa. Si avviarono alla moto in silenzio. Si prepararono al viaggio indossando i caschi e chiudendo bene le giacche. “Guarda che mi devi raccontare ancora molto di te” disse scherzando Michela. Per tutta risposta Chiara diede due pizzicotti ai fianchi della centaura. Poi l’abbracciò e si assopì durante tutto il viaggio.

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Capitolo 14
*** È il passato, primavera ***


Michela tornò a casa. Il ritorno era stato piacevole come l’andata, se non di più. Il sole al tramonto baciava i loro sorrisi e le loro speranze. I loro cuori leggiadri danzavano con il vento. Posate le chiavi nella solita scatola di latta, vide Laura preparare la cena. Cagnone le corse intorno e le fece le feste. La ragazza camminava ad un palmo da terra e piroettando si distese sul letto. Ed anche li non sentì il rimbalzo, ma solo una presa che l’avvolgeva. Non era successo nulla e si sentiva piena, sazia: anche se a pensarci bene aveva una gran fame. Fame d’amore. Ma lo stomaco brontolò e si disse che anche fame fisica. Ripensando al pomeriggio si emozionava sempre più fino a procurarsi un piccolo singhiozzo. Ad un certo punto sentì bussare lieve alla porta. “Avanti” disse la ragazza sedendosi sul letto. “Ti ho portato la cena. Pensavo fossi stanca per mangiare di la” disse Laura. Quest’ultima entrò timidamente in camera con un vassoio di legno tra le mani, con due piatti fumanti di pasta al sugo, due bicchieri d’acqua e le forchette. Posò il vassoio a bordo letto. Michela la guardò corrugando la fronte. “Se vuoi me ne posso andare, ma pensavo ti andasse di raccontare il tuo entusiasmante pomeriggio, visto il sorriso con cui sei rientrata”. Michela arrossì e abbassò lo sguardo ma non disse nulla. Prese il suo piatto e mise in bocca un boccone. “Buona” disse semplicemente. Laura fece come per andarsene e la ragazza a letto, con il boccone in bocca pronunciò un quasi incomprensibile “Puoi restare”. Scoppiarono entrambe a ridere. Mangiarono in silenzio e quando ebbero finito Michela raccattò i piatti per portarli in cucina ma Laura la precedette. “Lascia, faccio io” disse quest’ultima sorridendo.
 
Chiara infilò la chiave nella toppa. Era ancora emozionata e non vide Giovanni seduto sul divano che fissava il televisore spento. “Dove sei stata?” disse con tono fermo. La ragazza trasalì. “Mi hai spaventata” disse, ritornando nella realtà. Nella sua realtà. “Dove sei stata?” richiese secco il ragazzo poggiando il telecomando sul tavolo ed alzandosi. “A fare una passeggiata con le compagne di palestra”. Giovanni strinse il braccio della sua fidanzata. Chiara sentiva che poteva sostenere il suo sguardo. Non le avrebbe distrutto la serata, dopo un pomeriggio cosi intenso. Nulla avrebbe potuto. “Dove-sei-stata” disse, ben scandite le parole, sibilando tra i denti. “Te l’ho detto”. Giovanni lasciò la presa sospingendo la ragazza verso il lavello. “Preparami la cena. Domani sono fuori per lavoro”. Il cuore della ragazza si librò nel cielo. Sapeva che era una bugia: ogni volta che andava fuori per lavoro, doveva incontrare qualcuna delle sue amichette. Donne di cui non si dava pena di nascondere. Bugia di formalità, solo per non farla facile. Donne di cui sentiva l’odore di profumi pensanti sulle camicie, sulle giacche o in macchina. Capelli persino sui suoi cuscini, o sui suoi vestiti. Ma non importava più. “Quanto starai fuori?” chiese. “Tutta la settimana” rispose distrattamente il ragazzo mentre sedeva al tavolo. “Tanto che hai da fare?”. “Niente” pensò Chiara “con te proprio nulla”.
La ragazza preparò la cena e apparecchiò sorridendo. Una settimana. Un’intera settimana. E poi alla fine? Non ci pensava. Voleva solo godersi quei giorni, poi dopo avrebbe deciso. Dopo aver mangiato e lavato i piatti, si distese sul letto e si addormentò. Si risvegliò in piena notte: le pupille facevano fatica a mettere a fuoco tutto ciò che la circondava. Una presa allo stomaco l’assalì e si rese conto che era quella che l’aveva svegliata. Giovanni dormiva pesantemente al suo fianco, rannicchiato su un fianco, dandole le spalle. Sapeva già cosa stava per succedere: saltò giù dal letto e corse in bagno, dove liberò lo stomaco della cena. Non riuscì a ricacciare i brutti pensieri, l’ansia per il futuro l’assalì e seduta a terra scoppiò a piangere.
Quando si risvegliò, Chiara trovò casa vuota. Giovanni non faceva nemmeno finta di interessarsi a ciò che lo circondava. Aveva semplicemente infilato un jeans, aveva preso il borsone e se n’era andato. La ragazza si trascinò sul letto: avrebbe voluto riposare un altro po’. Prima prese il cellulare e controllò se c’erano messaggi. “Sono stata bene. Buonanotte, Mic”. Il cuore prese a batterle forte ma la stanchezza vinse e si addormentò, emozionata.
Il sole entrava prepotente nella stanza di Michela che era già sveglia da un po’ e ripensava al pomeriggio precedente. Ogni tanto chiudeva gli occhi e le sembrava di essere li, di sentire le onde del mare infrangersi contro la riva, la brezza leggera che le scaldava al pomeriggio e infreddoliva la sera, il suo abbraccio caldo durante il viaggio. Viaggiava con la mente e non sentì bussare alla porta. Era Laura che insistette bussando ripetutamente. “Ho portato la colazione” esclamò dall’altra parte della porta. “Posso entrare?”. Michela si sedette sul letto e ripose che poteva entrare. Era ancora diffidente nei suoi confronti ma ora era troppo felice per pensarci. Laura entrò nella stanza tenendo un vassoio con una tazzina di caffè forte, poco zuccherato, come piaceva a Michela e un cornetto al cioccolato, recuperato chissà dove. “Buon appetito”
Disse la ragazza poggiando il vassoio sulle gambe di Michela. Laura indugiò sulla porta, poi disse “Caldo eh?”. Il tono non sembrava malizioso, a Michela parve semplicemente che volesse fare conversazione. La guardò e si rese conto che ragazza di fronte a lei aveva una canotta molto attillata, di un colore azzurro pastello; in fondo alle sue braccia che cominciavano a scurirsi, portava dei braccialetti chiari, che risaltavano sulla pelle. Un paio di pantaloncini sopra il ginocchio, di un tessuto molto leggero e fresco, facevano risaltare le gambe. Michela avrebbe voluto chiederle se con quella roba ci dormisse, ma non voleva offenderla. “Provochi?” disse distrattamente. Laura sapeva di essere stata osservata bene. Senza rispondere alzò i tacchi e tornò in cucina. Le tremavano le mani, l’emozione della prima volta, essere osservata in un certo modo. Non sapeva come avrebbe continuato, il suo piano. Voleva solo che Michela ritornasse da lei. Quest’ultima entrò in cucina e posò le stoviglie nel lavello. Poi si diresse in bagno a farsi una doccia. Laura rifletteva. Avrebbe voluto portarla a uscire, magari riportarla casualmente nel luogo del primo bacio. Forse cosi si sarebbe accorta che l’amava ancora. Ma era presto e lo sapeva. Aveva troppa fretta e si ritrovava spesso a costringersi a non affrettare le cose.
Dopo qualche calda e tranquilla ora, Michela si diresse, di tutto punto, verso la porta, portando con se i due caschi. “Io esco, dai da mangiare al cane” disse richiudendosi la porta alle spalle. Laura fu accecata dalla rabbia e lanciò il libro che stava leggendo attraverso la stanza. “Vaffanculo” imprecò.
 
Chiara era pronta e tesa alla soglia del portone di casa. Michela arrivò puntuale, sorridente. Mentre la ragazza montava sulla moto chiese “Dove andiamo stavolta?”. “Vedrai” disse Michela tra se e se partendo come un razzo. Non ci volle molto che si accostò al ciglio della strada. “Tutto bene?” chiese Chiara sporgendosi verso la centaura. Michela si guardò intorno e poi riprese a camminare entrando pian piano nella vegetazione. “Ma che fai?” disse tra il preoccupato e il divertito la passeggera. Michela continuò a non rispondere, fin quando non uscì dalla fitta vegetazione e non arrivò a un largo spiazzo verde. Spense la moto e smontò, dopo Chiara, si tolse il casco e tutta entusiasmata chiese “Non è un posto bellissimo?”. “Ma dove siamo?”. “Tranquilla, solo a pochi chilometri dalla strada principale. Ho scoperto questo posto, girando bel bosco”. Dallo zaino la ragazza estrasse un plaid e lo stese a terra, si tolse le scarpe, camminò un po’ a piedi nudi sull’erba e poi si lasciò andare sulla coperta. Intrecciò le dita delle mani dietro la testa e volse lo sguardo verso la ragazza che osservava ancora tutto, incantata. “Ma è un posto meraviglioso!” esclamò. L’erba era verde brillante, il prato era sparso di margherite, violette e papaveri. Farfalle dai toni sgargianti svolazzavano qua e la e di tanto in tanto di scorgeva un’ ape che cercava nettare, lasciando cadere polline dalle zampe posteriori. Chiara si sedette sul plaid e strinse le ginocchia al petto. Era meravigliata da tanta natura. “Non ti facevo da posto del genere” disse. “Lo so” disse semplicemente, Michela. Entrambe le ragazze inspirarono forte il profumo di tutti quei fiori. Lasciarono che la natura invadesse i loro corpi, ne prendesse possesso e le facesse sentire bene. “Giovanni è andato via, per una settimana” disse improvvisamente Chiara. Michela non fece una piega. “Cioè, dice di essere andato a lavorare” disse subito la ragazza, pensando di aver dato l’impressione sbagliata. “E invece non è cosi vero?” chiese tranquilla Michela. Non ci furono repliche, ma Chiara si sciolse e si stese di fianco alla centaura. La mani strette sulla pancia e sguardo fisso in cielo. “Mio padre mi ha costretto, sai?” cominciò a parlare Chiara. “Io sto con Giovanni per lui. O per colpa sua, se vogliamo. Io… io non sono bisessuale ok? Non che ci sia nulla di male ecco. Ma io sono lesbica. Punto” disse avvampando in volto. “Anche io” disse Michela sogghignando. “Non c’è nulla da ridere, volevo solo metterlo in chiaro. Giovanni è un suo collega di lavoro. Lavorano entrambi nella stessa ditta, come falegnami. E se l’è scelto quanto più simile a se stesso: rozzo e violento”
“Quando avevo sedici anni portai a casa la fidanzatina di allora. Io e mio padre non parlavamo molto, niente affetto ne debolezze. Ero la donna di casa e avevo ben poche libertà. Ma pensavo lo facesse solo per formarmi, per farmi crescere. Non si parlava della mamma, non si parlava di scuola, di servizi o di sentimenti. Non è mai venuto a ritirare una pagella, non è mai venuto a prendermi a scuola, non potevo invitare amiche a casa. Pensavo solo non avesse tempo. Sapevo che ogni tanto si intratteneva con qualche donna. Mi dicevo che un uomo ed era normale cosi. Perché pensai che fosse giusto che lui conoscesse la mia fidanzata, non lo so. Fu anche lei ad insistere: disse che non sarebbe potuto essere cosi tremendo. Si chiamava Aurora.
Mi guardò disgustato, cacciò di casa Aurora. Da allora non la vidi più: mi chiuse in casa. È un uomo ignorante, ma non stupido. Sapeva farsi consigliare bene dagli altri. Mi ritirò da scuola e mi fece studiare da privatista. Anche ora che studio all’università lo faccio a casa e sostengo gli esami accompagnata. Uscivo con lui, alzava la cornetta dell’altro telefono se ricevevo una telefonata, quasi dovevo chiedere anche il permesso di andare in bagno. Ma per tutti questi anni non si è mai fatto parola della mia “diversità”.
A diciotto anni si presentò a casa con un giovanotto, con l’aria di un bravo ragazzo. Disse solo “Lui è Giovanni, il tuo nuovo fidanzato. Lui ti correggerà” e da li iniziò di nuovo l’inferno. Se speravo di trovare un amico, mi sbagliavo. Non so cosa deve avergli promesso mio padre in cambio di questo favore. Alla fine a lui che importa? Ha la schiavetta di casa e se ne va con le sue amichette quando vuole. Non ci amiamo e non serve nemmeno”. Chiara aveva gli occhi lucidi e una lacrima vinta dalla forza di gravità le rigò la guancia. La ragazza si apprestò ad asciugarsi. “Quanti anni hai ora?” chiese Michela, che durante il racconto si era stesa su un fianco. “Ventitré” rispose in un soffio Chiara. “E tu sopporti tuto questo da cinque anni”. Non era una domanda. Era una chiara e semplice affermazione. La verità  era li, ed era cosi semplice. “Potresti essere felice”.
“Con te?” rispose Chiara, di nuovo, come tre giorni prima in ospedale.
“Anche da sola”. Era chiaro che Michela non voleva dargliela vinta. Ma si sciolse, le prese una mano e disse “Mi stai dando una possibilità ma potrei non essere la persona che credi, potrei non piacerti. Il fatto è che prima di cambiare direzione, anzi no che dico, cambiare completamente vita, devi sciogliere quella matassa incasinata che hai nascosto nell’angolo. Non continuare a fare finta che la vita vada bene cosi. Tu sei una persona speciale Chiara, mi piaci, non meriti tutto questo” disse con un certo imbarazzo.
“Non so come fare” Chiara a quel punto, inaspettatamente scoppiò a piangere. Un fulmine a ciel sereno, un pianto di rabbia e liberatorio. Un temporale cosi forte, forse represso per anni. Michela la tirò a se e la strinse tra le sue braccia. Chiara nascose la testa tra le sue spalle e continuò a piangere a lungo, fin quando il pianto si placò in qualche singhiozzo, i singhiozzi divennero tirate di naso e Chiara finì con l’addormentarsi sfinita tra le braccia di Michela, che le carezzava il volto, commossa.
Gli occhi delle ragazze si strinsero in espressione di fastidio quando dopo un paio d’ore si ritrovarono il sole puntato in faccia. “Scotta da morire” disse Michela alzandosi e correndo veloce all’ombra di un albero, con la mano di Chiara stretta nella sua e le scarpe nell’altra. Stava per ristendere la coperta a terra quando senti un brontolio. “Questo non è certo un altro temporale!” disse ridendo. “Già, muoio di fame” disse Chiara imbarazzata. Erano passate le due del pomeriggio, faceva un caldo tremendo e Michela propose di andare a mangiare la sua fenomenale pasta fresca a casa sua. “Senza impegno ok? Solo se vuoi, altrimenti...”. “Va benissimo” rispose veloce la ragazza dagli occhi grandi ancora umidi di pianto, ma più sereni.
Quando arrivarono a  casa però trovarono una sorpresa. Tavola già apparecchiata per due e una scodella di pasta fresca al centro della tavola. Laura sperava Michela tornasse in tempo per il pranzo e fu felice di vederla tornare. “Giusto in tempo, Mic”. Fu molto meno felice quando vide Chiara, invadere il suo territorio. 

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Capitolo 15
*** Indovina chi viene a pranzo ***


Cari lettori, dopo giorni di assenza, ho deciso di pubblicare finalmente un capitolo (forse un po' mini). Spero vi piaccia. Fatemi sentire il vostro gradimento con una bella recensione (o critica perchè no). Buona lettura, Noa!

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Cagnone alzò giusto la testa per vedere chi fosse arrivato, ma non si scomodò a fare le feste. Faceva troppo caldo anche per lui, cosi tornò a riposarsi all’ombra della pianta. “Salve” disse intimidita Chiara guardandosi un po’ intorno. In quella casa lei e Michela si erano quasi baciate e la ragazza che le stava di fronte aveva mandato tutto all’aria. “Dove si mangia in due si mangia in tre” disse Michela rompendo il ghiaccio e aggiungendo una sedia al tavolo. “Ma ho calato poca pasta. Potevi avvisarmi!” disse Laura con tono da mogliettina sull’orlo di una crisi isterica. “Basterà” disse con fermezza Michela che si sedette a tavola servendo tutte.
“Allora” disse Laura “che combinate voi due?”
“Niente. Abbiamo fatto un giro” disse Michela. Chiara taceva, la situazione le sembrava abbastanza imbarazzante.
“E dove siete state?”. Laura rincarava la dose e non mollava. Voleva proprio fare conversazione.
“Te l’ho detto a fare un giro”. Michela cercava qualcosa di diverso da dire, ammesso che ce ne fosse davvero bisogno. Il silenzio, però era più imbarazzante della strana, morbosa, curiosità che Laura aveva sviluppato nei loro confronti. “Ottimo piatto, pasta al dente” affermò, tanto per dirne una.
“Già. Proprio come piace a te” rispose la ragazza, a denti stretti, fissa dritto negli occhi di Chiara. Quest’ultima arrossì. “Si, buona” disse. Pensava  fosse opportuno dire qualcosa di carino. Sembrava quasi che, extra corpo, si potessero vedere i fili rossi che intrecciavano le ragazze, che le legava indissolubilmente. La fitta nube di pensieri, imbarazzi, mezze frasi, creava un muro tra loro. Laura si alzò per posare i piatti nel lavello. Chiara si sporse verso la ragazza sedutale a fianco “E io devo sciogliere la matassa incasina nascosta nell’angolo?” sussurrò accigliata, scimmiottandola. Michela sorrise intrecciando le dita tra loro, sul tavolo. “Già” sussurrò tra se e se.
“Ecco qui. Torta di kiwi e fragole”. La ragazza portò un imponente dolce a tavola. Non era felice di farlo. Avrebbe voluto mangiarlo sola con il suo oggetto del desiderio. Ma forse, pensava, quell’asso nella manica, avrebbe intimidito la rivale. Insomma: lei conosceva Michela da molto meno, quanto poteva sapere?
Michela guardò la ragazza accigliata. Ma che aveva in mente? La sua pasta speciale, il suo dolce preferito.
“Chiara, allora... che fai nella vita?” -oltre a rubare ragazze-. Pensò tra se la ragazza.
“Studio psicologia” rispose timidamente Chiara. Laura sbottò in un risolino che cercò di nascondere in un colpo di tosse, forzatamente finto. “E che anno sei?”
“Al primo di specializzazione”. Laura continuava ad affettare la torta e distribuirla nei piatti. Casualmente nel piatto di Chiara finì una fetta buttata con po’ troppa veemenza.
“E cosa pensi di fare dopo?” continuò Laura, sempre con un tono di, palese, finto interesse. Chiara non rispose, calò gli occhi sul dolce e si concentrò su quello.
“E tu cosa pensi di fare?” disse sarcastica Michela. Le ragazze si guardarono in cagnesco. “Che ho detto?” disse Laura scrollando le spalle.
“Quando porti le tue chiappe fuori di qui?” incalzò Michela.
“Fintantoché preparo quel che mangi…”
“E da quando sei diventata una cuoca esperta?”
“Da quando tu hai fatto diventare una pannocchia bollita, un cesto di pop corn!”
“Ah! Ricordati cara, che subito dopo hai fatto diventare delle patate al forno, carbone da barbecue!”
Il battibecco cessò. 1-0 per Michela, Laura non poteva che tacere. Chiara in tutto quel battibeccare si divertì un bel po’.
“Senti, stasera mi accompagni alla stazione?” chiese Laura.
“Mi corrompi prendendomi per la gola?” disse Michela in tono scherzoso, dando di gomito a Chiara che sorrise.
“Eh già”.
“Comunque, ehm, no!” disse sicura e sorridendo. “Vado a lavorare, io”.
“Ma è per un colloquio, appunto!” protestò la ragazza. Chiara assisteva divertita a quel battibeccare.
“Di sera?”. Il tono ironico stizzì non poco Laura. “Embè?” rispose.
“Embè, fattela a piedi”. Con questa la discussione sembrava chiusa. “Please?” disse in tono supplichevole Laura, parandosi dinanzi a Michela con sguardo da micio indifeso.
“Assolutamente no, mi devi già un milione di favori” disse. “E adesso te ne devo un milione più uno” disse Laura.
A Michela la situazione cominciava a non piacere. Qualcosa non quadrava, se lo sentiva. Prese il pacchetto di sigarette nascosto nel vaso dietro il mobile e se ne accese una. “Pensavo avessi smesso” disse Laura, infastidita dal fumo. Michela mugugnò qualcosa, senza rispondere realmente. Chiara fece un visibile passo indietro, per scansare il fumo, che si stava dirigendo verso lei, per effetto della corrente d’aria. Il gesto fu visibile a tutti e Michela spense subito la cicca. “No, non è che mi da fastidio!” esclamò subito la ragazza in tono di scusa. Ed era vero, non le dava fastidio, abituata ormai all’uomo che le circolava per casa. Pensava che potesse dare fastidio alla piccola creatura.
“Scusa, avrei dovuto chiederti se potevo” disse Michela. Laura sussultò: non le aveva mai chiesto se poteva fumare in sua presenza, nonostante avesse più volte detto la cosa le desse fastidio. “No, no scusa” continuò Chiara, ma Michela non l’ascoltava più, ormai la sigaretta era spenta.
“Senti, devo farti vedere una cosa” sussurrò Michela all’orecchio di Chiara, prendendola per mano. La portò in  camera sua. L’ira travolse gli occhi di Laura, la paura e l’ansia il cuore di Chiara. Michela chiuse la porta dietro di se e scorse la paura negli occhi della ragazza. “Sta tranquilla” disse sorridendo “volevo solo farti vedere questo” concluse indicandole il ritratto che aveva incorniciato. Chiara arrossì violentemente. “Volevo solo dirti, beh, che ero li quel giorno”. L’imbarazzo cresceva sempre più. Sembrava che avessero mille pensieri per la testa, ma quando volevano dire qualcosa, il vuoto. Ci furono molti sospiri, molte frasi a mezz’aria: Michela si sedette a bordo letto, in attesa di un qualcosa che accadesse.
“Forse… forse è ora di tornare a casa” disse Chiara, guardandosi l’orologio.
“Che fine ingloriosa, di una bella giornata” replicò la ragazza seduta sul letto. “Mi dispiace è colpa mia, ti ho messo in imbarazzo”.
“Ma no, tranquilla” Chiara voleva trovare una scusa per non far sentire in colpa la ragazza che le era di fronte, ma non fece in tempo a pensarci che un fracasso la distrasse. Un rumore di ceramica infranta e l’abbaiare d’un cane fece schizzare Michela fuori dalla stanza. “Ma che cazzo combini?” urlò.
“Mi spiace, è solo una tazza” si difese Laura. “Stavo lavando e mi è scivolata per il sapone” disse, con le mani perfettamente asciutte. Michela era molto stizzita e arrabbiata per come stavano evolvendo le cose. Non sarebbe dovuta tornare a casa. Prese i caschi e si diresse verso la porta. “Vieni Chiara, ti riaccompagno a casa”. Laura pensò che forse le cose non erano andate come previsto se era cosi arrabbiata. Si accinse a raccogliere ogni più piccolo frammento, esultando tra se e se.
“Ci vediamo domani in palestra?” chiese Michela ormai sotto casa di Chiara.
“Non credo”. Chiara aveva le sue buone motivazioni. Non poteva più.
“Allora, ciao” disse Michela rinfilandosi il casco e accendendo la moto. Prima che partisse, Chiara le prese il braccio. “Non è colpa tua”. Michela la guardò negl’occhi. “In fondo voglio solo che tu stia bene” disse, prima di partire senza mai rallentare, ne guardarsi indietro.

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Capitolo 16
*** Confessioni ***


“Cosa cazzo combini?!” disse piena di rabbia Michela. “Cosa vuoi?”. Laura era basita, non aveva fatto in tempo a sentire la porta chiudersi, che si ritrovò Michela quasi addosso. “Va bene, calmiamoci un attimo” provò a dire. “Calmiamoci ‘sti cazzi!” sbottò la ragazza. “Allora, hai niente da dirmi?” chiese nuovamente. “No… forse sono un po’ nervosa” si difese Laura. “Che c’hai, le tue cose?”. “Senti, ma hai quasi venticinque anni, quando impari a dire mestruazioni?” chiese stizzita Laura. “Comunque no. Sai forse è per via di quel colloquio”. “Auguri allora. Ma non intrometterti più nella mia vita”. Michela si chiuse in stanza. Era arrabbiata, nemmeno sapeva bene per cosa. Non stava esattamente corteggiando Chiara, voleva aiutarla a uscire da una brutta situazione. Quando avrebbe ammesso che le piaceva? Fino a poche settimane prima, poteva dire di non poterla soffrire. Eppure qualcosa prendeva il suo stomaco, ogni volta che il suo pensiero volgeva a quella ragazza. Si affacciò alla finestra, assaporando un po’ d’aria fresca. C’era un bel tramonto.
Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto dalla porta che si aprì. Avrebbe desiderato che fosse Chiara. Ma sapeva che non era cosi. Non si diede pena di girarsi a guardare la ragazza che entrava lentamente in stanza. “Cosa vuoi ancora?” chiese. La ragazza le si avvicinò affiancandola. Sospirò. Michela decise di volgerle lo sguardo. “Che c’è?” chiese ancora. “Io…” provò a dire Laura, ma era troppo in preda alle emozioni. Balbettò ancora qualcosa di incomprensibile. Michela si stava spazientendo, quando la ragazza che le era di fronte fece un passo verso di lei, azzerando le distanze e senza che se ne rendesse conto davvero, le mise una mano dietro la nuca e la tirò a se, costringendola in un bacio.
 
Chiara, era seduta davanti al televisore acceso. Faceva zapping senza vedere realmente nulla. Era stata una bellissima giornata. E avrebbe voluto poter stare ancora con Michela. Una settimana non era poi cosi lunga e presto sarebbe tornato Giovanni. Chissà cosa pensava Michela in quel momento. Voleva solo aiutarla? O desiderava qualcosa di più? E lei cosa voleva? Non sapeva se avrebbe trovato il coraggio di parlarle del bambino. Non aveva mai avuto il coraggio di andarsene davvero da quella casa. Trasse un profondo sospiro e una lacrima le rigò il viso. Qualche secondo dopo si passò il palmo della mano sulla guancia, asciugandola. “Basta lacrime!” si disse. Aveva deciso che avrebbe preso la sua vita in mano. Si diresse alla porta, prese le chiavi e uscì senza pensarci due volte.
 
Michela e Laura si fissavano. La prima si portò una mano alle labbra, sfiorandole con la punta delle dita. La mano le tremava e non sapeva dire se era rabbia o altro. “Spiegami… che cosa diamine ti passa per la testa” disse, in uno stato tra la rabbia e la sorpresa. “Io… io ti amo Michela. Non ho mai smesso di farlo…” cominciò Laura con voce tremante. “Mi sembra che ne avessimo parlato, quando sei tornata”. “No! Tu hai parlato, cazzo! Non mi hai dato la possibilità di dire nulla!” esclamò risentita la ragazza. Le sue guance già rosse si rigarono di lacrime. “Tu, tu non hai nessun diritto…” Michela fu interrotta dallo squillo del telefono. “Chi è? Lei? Guardami!”. Michela ignorò la richiesta e prese il cellulare. Sullo schermo lampeggiava il nome “MAMMA”. Avrebbe voluto non rispondere, ma aveva una brutta sensazione. “Mamma!” esclamò la ragazza. “Michela, devi venire subito. È per nonna”. La madre sembrava seriamente preoccupata. La voce era piana di agitazione e sembrava fosse sull’orlo di una crisi di pianto. “La nonna è all’ospedale”. La telefonata si concluse nel silenzio. “Nonna” sospirò Michela. In quel momento la ragazza si sentì presa da un vortice di emozioni. Tutto nella stanza girava e si appoggiò al  letto per non cadere. “Mic, tutto bene?” chiese Laura preoccupata. “Si, credo si si. Ma ora vattene. Lasciami sola” rispose la ragazza. Michela si alzò e cominciò a vestirsi. “Dove vai? Io, noi… abbiamo ancora da parlare. Ho cosi tanto da dirti” disse Laura. “Non abbiamo niente da dirci Laura, lo capisci? È finita”. Questa verità fu per Laura come un ceffone in pieno viso. “Tu non capisci!” protestò la ragazza. “No, tu non capisci! Lasciami in pace, per una buona volta. Nonna è all’ospedale e ho altro a cui pensare. Altro che te, Chiara o altre cazzate!” esclamò Michela, mentre cercava le chiavi della motocicletta.  “Nonna… vengo con te”. “Scordatelo, non fai più parte di me, ne delle persone che mi stanno a cuore” sentenziò la ragazza. Michela attraversò a grandi passi l’appartamento. Stava per aprire la porta quando Laura le strinse un braccio. “Lei non ti conosce come ti conosco io. Io so di cosa hai bisogno. Io so come va il tuo cuore. Io so che ti senti ferita come un animale” disse Laura “Credi che una volta uscita da quella situazione, resterà con te? Non sa nemmeno cosa vuole per se. Apri gli occhi: se ne andrà senza nemmeno ringraziarti. O peggio, non cambierà mai. E in quel momento, ci sarò io che ti accoglierò tra queste mie braccia” concluse Laura. Michela si voltò lentamente. Ponderò bene le parole. Aveva solo voglia di sfogarsi. Voleva ferirla e se avesse potuto l’avrebbe fatto realmente. “Se anche fosse, sono affari che non ti riguardano” disse serafica. Non era quello il momento. Ci sarebbe stato il tempo in cui, Laura, avrebbe capito di che pasta era realmente fatta. “Tornerai mia, in un modo o nell’altro” disse la ragazza, mentre Michela varcava la soglia di casa.
 
Chiara vagava per le strade, con aria sospetta. Non sapeva dire perché, non c’era nessuno eppure di sentiva gli occhi del mondo addosso. Una strana sensazione che le faceva venire la pelle d’oca. Ma il suo obbiettivo era rivederla. Fissarla negl’occhi. Scoprire cosa provava lei. La pizzeria era vicina: non impazziva all’idea di doverla disturbare sul posto di lavoro, anche se nella sua mente si inseguivano immagini di loro due per mano che scappavano via lontano, immagini filmesche, romantiche. Arrivata davanti alla pizzeria si convinse che era impossibile. “Ma almeno potresti scoprire se prova davvero qualcosa”  di disse e si decise a varcare la soglia. Come nella prima volta, era intimidita. Come la prima volta il suo sguardo vagava a destra e sinistra. “Ciao” esclamò un ragazzo, “Posso aiutarti?”. Angelo riconobbe la ragazza e si chiese che ci facesse li, visto che Michela non si era ancora Presentata. “Cerco Michela” disse timidamente la ragazza “Ma non vorrei disturbarla” si affrettò a concludere, credendo fosse impegnata. “Guarda nessun disturbo, Michela non c’è, non si è presentata ancora” rispose gentilmente il ragazzo. In quel momento squillò il telefono del locale e il ragazzo si congedò educatamente. “Buona sera mi dica” disse. “Angelo, sono Michela, stasera non vengo” Michela pareva parecchio agitata. “Tutto bene? Hai una voce” chiese preoccupato il ragazzo, che al contempo fece cenno a Chiara di non andar via. “Tutto ok Angelo, poi ti spiego. Ora devo proprio scappare”. Michela stava per riattaccare quando il ragazzo le spiegò che c’era la ragazza –quella sua amica- in pizzeria. la centaura ancora a cavallo della moto non sapeva che fare. Non poteva tornare indietro e nemmeno lo voleva in quel momento. Non voleva però lasciarla sola li. “Vedi se ha bisogno di qualcosa. Ora non posso muovermi, mi dispiace” chiuse la telefonata cercando di mettere a tacere i sensi di colpa. “Mi spiace, stasera non verrà” disse Angelo “Ma se hai bisogno di qualcosa chiedi pure” si affrettò a dire, notando la delusione nel volto della ragazza, che, però, fece spallucce e se ne andò.
 
“Cos’è successo?” chiese Michela avvicinandosi alla madre. “Hai fatto presto. Come stai? Non ti fai mai sentire!” disse la madre. “Mamma, sono grande, avanti, dimmi che succede!” esclamò infastidita la figlia. “Niente di certo ancora, stanno facendo le analisi. Papà è dentro con lei”. “Si, ma che ha avuto?” incalzò Michela. “Aveva male al cuore, e l’abbiamo accompagnata in pronto soccorso”. Entrambe tacquero. “Come sei sciupata! Ma mangi? E poi non potresti indossare qualche abito più carino?”. La ragazza fulminò con lo sguardo la madre e andò a sedersi, attendendo ulteriori notizie. Dopo poco si avvicinò anche la madre. “Non sei venuta a quella cena e non hai nemmeno richiamato”. “Avevo da fare, mamma”. “Lavori ancora in quel posto?”. Michela sospirò, si stava spazientendo. “Non fare quella faccia. Non sta bene che una ragazza della tua età lavori come… sguattera. Dovresti essere già sposata e dovresti renderci nonni felici”. “Se lo Stato me lo permettesse” ribatté sarcastica la ragazza. La madre sembrò non sentire. “Ci sono tanti bei partiti in giro – rincarò la madre – per esempio il marito di tua sorella ha un cugino, direttore d’azienda. Sapessi che bravo ragazzo che è” esclamò la madre con voce zuccherosa. Michela decise di alzarsi e allontanarsi. Stupita la madre decise di seguirla, ma faceva fatica a starle dietro. “Michela… Michela fermati a mamma, dove vai?”. La ragazza si fermò di scatto. “Mamma – disse piano – mamma, lo sai?”. “Cosa?” chiese la donna con aria davvero sorpresa. “Mi sto innamorando”. Che la figlia avesse trovato un bravo ragazzo? “Mamma” la figlia si voltò lentamente e fissò la madre dritta negl’occhi. Non l’aveva mai detto. Mai detto in faccia ai genitori. Se n’era semplicemente andata. Non ne aveva mai parlato: mai una parola, un’allusione, un niente. “Mamma io sono lesbica. Mi piacciono le ragazze. E mi sto innamorando di una ragazza”. Il cuore le batteva forte ma continuò a fissarla. - Che male c’è a sperare che alla fine capisca e accetti? - si chiese Michela. Ma il volto della madre si contorse in una smorfia di disgusto, anche se cercò di mascherarlo con scherno. È cosi che si sentì ferita due volte, la figlia. “Avanti tesoro, non dire sciocchezze, non sei più una bambina. Smettila con queste storielle. È ora di crescere”. La rabbia montò dentro Michela in un attimo. Ma non ebbe modo di ribattere, che, uscito da una stanzetta, il padre si intromise. “Buonasera, Michela. Come stai?” chiese in tono asciutto. “Ciao” rispose semplicemente. L’uomo, alto, con capelli ormai tendenti al grigio, scortò le due donne nella stanza, ove riposava l’anziana signora. “Michela!” esclamò la donna. “Nonna, come stai?” chiese la ragazza sedendosi a fianco al letto. Per un momento Michela venne presa dal passato, ricordando che solo pochi giorni prima si trovava nella stessa posizione. Prese una mano dalla pelle aggrinzita della nonna e la strinse tra le sue. “Che pelle giovane che hai” disse. “Vorrei avere vent’anni come te” disse con un sorriso malizioso. “Ma è proprio perché ti credi una ragazzina che ti sei sentita male” ribatté acida la madre di Michela. “Sandra, che aria tirata che hai! E poi, quel po’ che mi resta da vivere, me lo posso godere?” sentenziò l’anziana. “E ora lasciatemi sola con la mia nipote preferita!” esclamò, stringendo le guance della ragazza nella sua mano. I genitori provarono a ribattere, ma furono liquidati brevemente da un gesto della mano, della donna. “Allora Michela, raccontami qualcosa, come stai?”. “Ma nonna, tu dovresti dirmi come stai” disse stupita la ragazza. “Oh, sono certa che avrai cose più interessanti da raccontarmi”. Michela tacque un momento. Era cosi affezionata a quella donna. Il solo pensiero di perderla, la faceva piangere, come una bambina. “Hai conosciuto qualcuno?” chiese, con la classica curiosità, un po’ invadente e un po’ no, delle nonne. La ragazza si compiacque, sorridendo sotto i baffi. “Ti racconto tutto quello che vuoi, se almeno mi dici che è successo e come stai ora” disse la ragazza. Negl’occhi della nonna brillò una luce: una luce di gioia e malizia. “Ho avuto un principio di infarto, ma per fortuna mi hanno presa in tempo. Ora, dimmi di te”.  Michela sospirò: non sapeva proprio da dove cominciare. Decise di restare vaga. “Mah, nulla di che nonna, il solito: lavoro e vado in palestra” disse la ragazza. La nonna parve delusa, ma decise di non demordere. “Mmm, qualcosa mi nascondi. Nipote mia, io ti leggo dentro” disse la nonna portandosi un dito alla tempia. “Com’è?”. “Chi?”. Michela pareva seriamente accigliata. Ma la nonna non gliela diede vinta. Il suo sguardo – guarda che anche se vecchia, non mi fai fessa – parlava chiaro. “È molto bella. È alta come me e ha i capelli biondo cenere. È timida ma dolce; frequenta l’università e ha 23 anni. Ma non stiamo insieme” disse Michela. “E perché mai? Sembra anche meglio di Laura. Non mi è piaciuta dal primo istante” disse l’anziana, in tono diffidente. “È complicato” disse semplicemente, guardando fuori dalla finestra. Sospirò. Chissà Chiara cosa faceva in quel momento. La riassalirono i sensi di colpa, per averla lasciata a se stessa. Ma d’altronde se fosse andata da lei e la nonna fosse stata male? Non se lo sarebbe mai perdonato. A tutto questo trambusto nella sua mente, mise fine la nonna. “Michela, le relazioni non sono mai facili. Nulla lo è a questo mondo, per natura”. La nonna carezzò la guancia della nipote e la ragazza guardò negl’occhi la nonna. Occhi in cui si perdeva quando era bambina e si faceva leggere le storie più belle e avventurose. Ci aveva costruito castelli e salvato principesse, sconfitto draghi e navigato i sette mari, negl’occhi di sua nonna. “Nonna, sta con un altro” cominciò “anche se non vorrebbe. Lui è un violento ed è il padre di lei che l’ha costretta” aggiunse d’un fiato. L’espressione della donna cambiò da sorpreso, ad accigliato, a schifato. Scosse la testa vigorosamente. “Lei cosa vuole? Se vuole stare con lui allora lascia perdere. Non tendere la mano a chi non vuole essere aiutata” la donna si concesse un’altra pausa e prese fiato. Quel principio di infarto l’aveva comunque provata. “Ma non tutto è perduto, cara nipote”. “Nonna, io voglio solo aiutarla. Se lo facessi con l’intento di farla stare con me, non la liberei da uno stato di... schiavitù”. La due donne furono interrotte da un volto che faceva capolino da dietro la porta. “Tempo scaduto” disse la madre di Michela. “Sandra ancora un momento” disse l’anziana, lasciando intendere che doveva ancora lasciarle in privato. “Tua madre è sempre cosi rigida!” esclamò la nonna creando ilarità. “Michela, hai sempre avuto un cuore grande, anche con due genitori cosi… Non è questo il modo che avrei voluto crescesse mio figlio” disse con aria delusa. “Ma sappi una cosa: la vita non è poi cosi lunga come si crede. Approfitta dei tuoi 25 anni: non farti mancare nulla, non perdere tempo con gente che non ti merita. Con questo non voglio dire che lei non ti meriti, dico solo, tesoro, non metterti nei pasticci” disse preoccupata la nonna. Michela si alzò e rifletté un attimo, poi sorrise. “Ne farò tesoro nonna”. La ragazza si avviò verso la porta. Aveva già abbassato la maniglia quando si sentì chiamare. “Michela, questo non è un film: facciamo in modo che tu non debba mai dirle – Avrei voluto che la conoscessi - ?”. “Certo nonna. Te la farò conoscere. Ora riposa”. La nonna acconsentì e chiuse gli occhi. “Nonna?”. “Si, amore?”. “Si chiama Chiara”. “Chiara…” sussurrò la nonna prima di addormentarsi. Michela uscì dalla stanza chiudendo piano la porta dietro di se.
 
Michela era a cavallo della moto, nel parcheggio, mentre controllava se Chiara l’avesse chiamata. “Michela, dove vai? Io e te dobbiamo parlare” disse perentorio il padre. Michela non aveva più paura dei suoi genitori e, fiera, li fissò negl’occhi. “Cos’è questa storia, che sei…” l’uomo non ebbe il coraggio di dirlo e distolse lo sguardo. “Cosa papà?”. Tutti tacquero e lì, Michela, capì che non l’avrebbero accettato mai. E lei non si sarebbe mai piegata alla vita che volevano per lei. “Cosa papà? Che sono lesbica?”. Lasciò che questa parola risuonasse chiara e forte. Lasciò che impattasse sui suoi vecchi. “Papà, mamma – disse, vedendo lo sconcerto negli occhi dei suoi genitori- vi voglio bene, e voi non avete sbagliato nulla. Ma a me piacciono le donne. Amo una donna. Accettatelo, o mi perderete”. La madre cominciò a piangere. Il padre alzò lo sguardo: uno sguardo duro, di chi guarda uno sconosciuto di cui non si fida. “Tu, non sei più nostra figlia” disse secco. Michela arricciò le labbra: aveva un nodo in gola, cosi grosso che faticava a deglutire, ma non diede la soddisfazione di piangere. Non disse nulla: semplicemente, mise il casco e partì senza guardarsi indietro. È durante il viaggio che i suoi occhi cedettero ad un lungo e pericoloso pianto.  

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Capitolo 17
*** Fughe ***


Salve, pazienti lettori: dopo un lungo periodo di fermo dato da molti problemi sia fisici sia familiari, eccomi qui con un nuovo capitolo. Spero vi piaccia e che lasciate qualche recensione. E per le critiche... come detto prima! Noa 

Fughe
 

Michela accostò la moto al marciapiede. Il motore continuava a brontolare, mentre la ragazza, tolto il casco, continuava a piangere. Non sapeva nemmeno bene per cosa. Aveva sempre detto che non le importava di perdere la famiglia, ma sentirsi rifiutata, ripudiata, faceva male. Avrebbe voluto urlare. Avrebbe preso il casco e lanciato lontano, per sfogarsi. Ma tremante, si sforzò di aprire gli occhi e rilassare i suoi muscoli. Si disse che rompere qualcosa, seppur liberatorio, non avrebbe migliorato proprio un bel nulla. Guardò l’ora e si rese conto che era molto tardi. Le 23.30. Era ora di fare ritorno a casa, ma non sentiva forza nelle braccia, nelle gambe. Sentiva un grande vuoto. A quale casa sarebbe dovuta tornare poi?
 
Chiara era appena rientrata e si sedette sul divano. Aveva passeggiato un po’ prima di rientrare. Tante domande e illusioni. Si domandava cosa si aspettava fosse successo se la ragazza era li. Avrebbe avuto il coraggio di dirle quello che aveva da dire? Forse no, si disse. Era tutto cosi confuso. Giovanni sarebbe rientrato tra cinque giorni e sentiva che quella era l’occasione di cambiare la sua vita. Di tirare in ballo Michela, però, non se la sentiva. Di una cosa ava ragione. Prima di stare con qualcun altro, avrebbe dovuto sciogliere “quella matassa incasinata”.
 
“Pronto, Chiara?” Michela ancora ferma a bordo strada tremava e continuava a piangere, ma cercava di non darlo a vedere. Respirava a grandi boccate, per smorzare il rumore del pianto. L’aria fresca, non scaldata dal naso, le gelava la gola e i polmoni.
“Ciao, Michela, come va?” Chiara era sorpresa di quella telefonata. – È forse un segno che le debbo parlare? - si chiese Chiara. Si decise: - glielo dirò!- disse entusiasta la ragazza tra se e se.
“Ti stavo giusto pensando, vorrei parlarti di una cosa” disse.
“Anche io” rispose Michela dall’altro capo. Era cosi confusa che non la sfiorò minimamente, la curiosità. Non voleva essere egoista, ma aveva bisogno di un salvagente. “Ho bisogno di un posto dove stare” disse senza dare il tempo alla ragazza dall’altro capo di fare domande. “Per piacere” disse, lasciandosi di nuovo travolgere dalle lacrime.
Chiara non sapeva che dire. Non aveva mai visto Michela piangere ne lasciarsi andare a debolezze.
“Michela tutto bene?” chiese preoccupata.
“Ti prego… posso stare da te stanotte?”.
“Certo”. Chiara rimase ancora un po’ con il telefono con il telefono vicino all’orecchio, cercando di carpire un qualsiasi rumore. Sentì solo qualche singhiozzo e qualche tirata di naso e poi più nulla. Michela aveva attaccato e si era rimessa in moto.
 
“Tutto bene?” chiese Chiara preoccupata quando Michela si presentò alla sua porta. Aveva la faccia stravolta, occhi gonfi e guance rosse rigate dalla lacrime. Il corpo contratto eppure allo stesso tempo spossato, senza forze. Sembrava quasi potesse crollare con un solo soffio. Manteneva in una mano il casco e guardava a terra. Deglutì più volte a fatica trattenendo a stento ancora lacrime.
“Mi… mi basta un divano” disse semplicemente.
Chiara prese sottobraccio e la condusse nella stanza da pranzo dove era stato preparato il divano. Michela sussurrò qualche scusa, senza guardare in faccia l’ospite e senza spogliarsi ne infilarsi sotto le coperte si abbandonò sul divano.
“Va a dormire stai tranquilla” disse. Ma più che una rassicurazione sembrava un invito a lasciarla sola. Affondò la testa nel cuscino e continuò a piangere silenziosamente.
Chiara era molto confusa e spaesata. Non sapeva che fare. Vicino al divano tentò più volte di aprir bocca e dire qualcosa. Aveva anche lei bisogno di un “posto dove stare”. Ma dopo un po’ si ritirò nella sua stanza, socchiudendo piano la porta.
 
Michela aprì piano gli occhi. Non riusciva a capire dove si trovava. Il suo letto non era cosi ruvido a contatto con la pelle. E non puzzava di sigarette e alcool. Si sentiva costretta in una morsa, ma ben presto si rese conto di non essere a casa sua. Non era nel suo letto ed era per giunta ancora vestita. Si girò supina e allungò la mano verso i pantaloni. “Cristo!” esclamò vedendo che erano inoltrate le tre del mattino. Si sedette, inarcò la schiena e aprì le braccia, fin quando una ad una le vertebre non schioccarono e lei si sentì meno intorpidita. Si rese definitivamente conto di essere in casa di Chiara, con tutte le cose che avrebbero potuto comportare. – non potevo scegliere momento peggiore – si disse, stropicciandosi gli occhi. Si diresse a tentoni in cucina, sperando di non trovare la timida ragazza in piedi.
In cucina aprì il rubinetto dell’acqua e vi infilò la testa sotto per bere. L’acqua fresca e lievemente calcarea scorreva tanto veloce dal rubinetto, entrando di getto tra le labbra della ragazza, che le schizzò il volto e la maglietta. Si asciugò con la manica del giubbotto e decise di perlustrare silenziosamente a casa. La prima porta, intrapreso il corridoio, era socchiusa. Michela ci si affacciò e scorse Chiara, rannicchiata che riposava. Ebbe un sussulto: non si aspettava di vederla cosi presto, nella prima stanza. La ragazza, in posizione fetale, respirava in modo profondo e regolare. Le leggere lenzuola aderivano morbide al suo esile corpo. La pelle chiara, quasi risplendeva di luce propria. Il volto era stranamente sereno e rilassato. Come non lo aveva quasi mai visto. Michela si scoprì osservare la ragazza, in ogni sua forma. Si scoprì desiderare entrare in quel letto e abbracciare quella donna. Fece lentamente dietro front (si scoprì perfino aver già fatto qualche passo nella stanza!) e senza far rumore decise di andar via.
 
Il sole filtrava timido dalla finestra, coperto dalle nuvole. Chiara si svegliò con un sussultò e si girò di scatto. Il cuore martellava già. Forse si aspettava di vedere Michela al suo fianco e non sapeva dire se il batticuore era una delusione o un brutto presentimento. Ancora scalza e vestita solo di un leggero e fine pigiama, che lasciava intravedere le sue forme, si precipitò nella sala da pranzo, dove, con molto dispiacere non trovò nessuno. Sospirò: non si aspettava che le piombasse in casa così, ma sentiva che non sarebbe rimasta. Più cercava di cogliere qualcosa, più la situazione si incasinava.
Decise di alzarsi dal divano e cominciare ad aprire le finestre. Ma alzandosi sentì un lieve e debole fruscio. Vide un biglietto cadere a terra, che colse con grande stupore. – Ma dai, un biglietto! Non sai fare di meglio? – disse tra se e se, anche alquanto risentita.
 

Ciao Chiara,
intanto, grazie di avermi ospitato. Scusami di esserti piombata letteralmente tra capo e collo stanotte e scusami ancor di più di averti abbandonata così. Ma, vedi, non potevo sostare oltre. Vederti nel letto, cosi bella, cosi serena, desiderare di abbracciarti… Non ho negato questi miei desideri, ho solo evitato di invadere prepotentemente te.
Scusami ancora: se vorrai saprò farmi perdonare.
Fammi una sorpresa!
M.

 
La ragazza rilesse più volte il biglietto. Di primo acchito si sentì spogliata, nuda. L’aveva osservata mentre dormiva. Quanto si era spinta in camera? Si coprì il torace, come protezione. Ma rileggendo ancora il messaggio, dopo un iniziale sconcerto, si sentì lusingata e le sue gote si colorarono di rosso. Si ritrovò a sorridere come un’ebete e decise che poteva farla questa sorpresa.
 
“Michela, se non ti calmi, oggi fai male a qualcuno!” esclamò Fabiana irritata.
La ragazza era una furia. Giocava con rabbia, nervosa. Aveva molto da sfogare, da buttar fuori. Gli occhi sembravano persi nel vuoto, ma fissi e concentrati su un obiettivo. I muscoli tesi, i nervi a fior di pelle, lo sguardo aggressivo e cattivo.
“Sei aggressiva, se vuoi sfogarti su qualcuno vai in un bar e scatena una rissa, ma non venir qui a far male qualcuno”.
Michela sembrava non ascoltare, persa nel vortice della sua rabbia. Arrabbiata con se stessa anche per aver pianto; rimpiangeva ogni lacrima versata. – Non se le meritano nemmeno – pensava sempre, ripensando al dolore della sera prima. Però qualcosa persisteva. Rabbia. Cieca furia, voglia di prenderli a schiaffi, scuoterli dal loro maledetto perbenismo.
“Michela mi ascolti?” chiese ancora una volta stizzita la ragazza. “Va fuori, ora!”.
Michela si riprese e vide che tutti la osservavano. Il mister, un uomo sulla cinquantina con uno sguardo preoccupato la invitò con un gesto a lasciare il campo.
“Va a farti una doccia, Michela” disse l’uomo.
La ragazza si allontanò, sentendo in corpo di non aver ancora vomitato tutto il dolore, sfogato tutta la rabbia.
“Mi vogliono far esplodere?” disse dando un calcio ad una panca che si sollevò di qualche centimetro per poi piombare a terra. Un forte rumore metallico vibrò a lungo invadendo la stanza. Michela era sicura che si era sentito anche sul campo, ma sentì ancora rumore di palloni che colpivano terra e un gran vociare. Segno che, tutte, stavano facendo finta di nulla. Si sentì sollevata, ma d’altro canto ebbe un moto di stizza. Nessuno le chiedeva nulla?
Su queste  note amare e tese, Michela decise non lavarsi nemmeno, infilando i jeans e la giacca e andando via cosi. Cominciava a far davvero caldo e – Non mi ammalerò di certo per un po’ di sudore – si disse. Prese lo zaino e si diresse fuori. Cavalcò la moto, girò la chiave nel quadro e sistemò gli specchietti quando vide riflessa una figura.
“La prossima volta rimani e abbracciami” disse d’istinto Chiara. Michela si voltò sorpresa.
L’aveva attesa con ansia, durante gli allenamenti, fino a abbattersi e demoralizzarsi. Era radiosa. In una camicetta bianca e un paio di jeans. Aveva un casco a scodella recuperato chissà dove.
“Allora, questo perdono?” chiese sorridendo Chiara, indossando la scodella.
In quel momento Michela si pentì di non aver già fato una doccia.
“Guarda, ho sudato…” cominciò a scusarsi con imbarazzo.
“Anche io sudo,  non profumo di rose” rispose divertita la ragazza.
“Michela!” urlò Fabian correndo fuori dalla palestra “Michela aspetta”. La ragazza affannata dagli allenamenti, aveva le gote rosse e il fiato corto.
“Ciao, Chiara” disse la ragazza, con freddezza. “Michela, devo parlarti”.
La ragazza, a cavallo della moto si sentì infastidita. Fabiana come al solito voleva mettere il naso negli affari suoi. Si rese conto che proprio pochi minuti prima si era stizzita per l’opposto. – È proprio vero, l’essere umano non è mai contento di quello che ha – si disse.
“La prossima volta Fa, ora, io e Chiara dobbiamo andare. Su sali” disse secca.
Chiara montò in sella perplessa. Ma ormai era abituata a questi repentini cambi scenografici. La centaura mise in moto e partì velocemente.
La ragazza in calzoncini, ancora rossa in volto e sudata, rimase li, stupita e offesa.
“Che successo tra te e Fabiana?”
Michela non rispose subito. Era indecisa se fare un giro o andarsi a fare una doccia.
“Nulla. Non avevo voglia che si impicciasse” fece con fare distaccato. Continuava a guidare sovrappensiero. Aveva voglia di stare con lei, ma non si aspettava si presentasse davvero. Era confusa, sentiva tante emozioni contrastanti dentro se. Era in atto una bella lotta tra stomaco e cervello. Se le stavano dando proprio di santa ragione e l’effetto era che le scoppiava il cervello e le si contorceva lo stomaco.
“Guarda che se ho beccato un brutto momento mi puoi anche riaccompagnare a casa. Anzi guarda – disse scocciata la ragazza – lasciami qui che me la faccio a piedi”. Con stupore vide che la ragazza azionò gli indicatori di direzione e accostò al marciapiede. Chiara non sapeva se smontare. Dalla sera prima, la centaura non faceva che essere schiva, chiusa.
Nella mente di Michela risuonò una frase. Non voleva che Chiara andasse via. Non riusciva a capire nemmeno se stessa. Scosse il capo: non voleva rischiare di ritrovarseli faccia a faccia.
- Michela, questo non è un film – E lo sguardo duro di suo padre le strinse lo stomaco.
- facciamo in modo che tu non debba mai dirle – Le lacrime di sua madre le trafissero il cuore.   
- Avrei voluto che la conoscessi -? – Si voltò verso Chiara, mentre sei stava per smontare.
“Ti va di conoscere mia nonna?” chiese con le lacrime che pizzicavano gli occhi.
Chiara rimase colpita. “La tua famiglia?” chiese timorosa. Era una cosa forte. E lei aveva bisogno di parlarle. “Io…” tentò di dire, abbassando lo sguardo, balbettando guardandosi la pancia.
“Mia nonna è la mia famiglia”. Chiara comprese che la famiglia di Michela, per qualche motivo, si restringeva solo alla figura anziana della nonna. Perfino lei, aveva più punti di riferimento.
Michela sorrise, di un sorriso dolce e amaro. Chiara ebbe la sola forza di annuire. Sospirò e alzò lo sguardo al cielo. “E conosciamo questa nonna” disse con ironia.
Michela sorrise e ingranata la prima, partì a razzo superando tutta la colonna di macchine in coda.

 

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Capitolo 18
*** Revelations. Complications. ***


Revelations. Complications. 


Michela attraversò i corridoi a grandi passi. Sentiva fossero li e non avrebbe voluto incontrarli. Chiara le stava dietro a fatica e non capiva perché la ragazza corresse tanto. Avrebbe voluto dirle di rallentare, ma qualcosa le diceva che era meglio tacere. E in ogni caso non voleva vedere un nuovo cambio d’umore. Non l’avrebbe retto.
Michela correva quasi. Si sentiva come se il successivo passo sarebbe stato nel vuoto, come quando in fondo ad una scala ci si aspetta un ultimo gradino. Il suo cuore martellava come in quella frazione d’attesa. I muri si susseguivano con velocità, sempre uguali, sempre dello stesso monotono e spento colore. I volti sfuocati di medici e infermieri non facevano in tempo a restare impressi nella sua mente.
Quando vide le schiene dei suoi genitori si sentì mancare un colpo, tutto le divenne grigio ma non rallentò il passo. Anzi, decise di allungarlo ancor di più, infilandosi senza bussare nella stanza della nonna.
“Michela!” esclamò sorpresa la nonna, mettendosi a sedere. Chiara entrò qualche secondo dopo, rossa in volto e affannata.
“Nonna, come stai?” chiese la ragazza avvicinandosi al letto. Le prese la mano e la sentì fredda nonostante facesse un gran caldo.
“Ragazza, questo non è orario di visita!” esclamò l’anziana signora. “E… ho saputo di quello che è successo, non dovresti essere qui”.
“Nonna, hai fatto altri esami oggi?”. Michela decise di ignorare le considerazioni della nonna.
L’anziana decise di fare come lei e ignorano la domanda si rivolse a Chiara, che ancora vicino all’uscio osservava in silenzio e imbarazzo. “Non mi presenti il tuo ospite, Michela?”.
La ragazza sembrò riprendersi e spalancò gli occhi. “Certo! Nonna lei è… è…”
“Sono Chiara, signora” disse con un filino di voce e allungando la mano verso la signora. “È un piacere conoscere un familiare di Michela”.
“Che ospite scostumato sei, nipote!” disse la donna, con tono duro ma con sguardo benevolo. Allungò un buffetto sulla guancia della nipote. “Sembri un baccalà”.
Michela deglutì a fatica. – Ho portato Chiara da mia nonna – si disse. – Ma perché? – si chiese stupita.
“Sei proprio carina come diceva mia nipote” osservò la donna facendo un occhiolino a Chiara.
“Nonna!” esclamò risvegliandosi Michela “Queste sono confidenze private”.
Chiara sorrise e si sentì lusingata. Michela aveva parlato di lei alla nonna. Chissà cosa si erano dette, ma il fatto che la nonna l’avesse definita carina, così come aveva riferito la nipote, la fece arrossire. Il cuore le cominciò a battere e incrociato lo sguardo di Michela, le sorrise.
La donna colse la complicità tra le due e ne fu felice. “Allora Chiara, siediti. Dimmi, cosa fai nella vita?”.
“Studio psicologia, signora” rispose la ragazza.
“Bene, una studiosa, al contrario di mia nipote!”
“Sa, non tutti sono portati. Andare all’università non vuol dire essere per forza intelligenti”
“Giusta osservazione, ma…”
“E comunque, molto probabilmente quella di vostra nipote è stata più una necessità”
La signora aveva una espressione perplessa. Sapeva perché la nipote se n’era andata di casa, ma difficilmente lo rivelava. I genitori avevano pur sempre un nome e non voleva parlar male di loro.
“All’epoca le offrii di stare da me ma questa stupidina rifiutò” disse rivolgendosi alla nipote.
“Nonna sai bene che non volevo pesare sulle tue spalle” rispose Michela.
“Non volevi infastidirmi con le tue compagnie…” disse con leggerezza la donna. Tutte sorrisero. Michela calò il capo scuotendolo. “Donna lungimirante”.
La conversazione continuò per dei minuti, spandendo nell’aria risate e leggerezza. Chiacchieravano del più e del meno, prendendo in giro Michela per le prodezze infantili.

“Io vado un attimo in bagno” disse Michela ridendo ancora per l’ultima battuta.
Le due donne rimaste sedute videro Michela allontanarsi ed entrare nel bagno. Uno strano silenzio imbarazzante scese tra loro. Quella che era stata un’aria fresca e leggera si tramutò presto in un’aria imbarazzata e interrogativa. Chiara si mordeva il labbro e guardava le sue mani intrecciate appoggiate sulle gambe. Il suo interrogativo le martellava cuore e mente. – Quando glielo dirò? –
“Cosa provi per mia nipote?” chiese di getto la signora. Il suo sguardo era serio e profondo.
“Come?” chiese Chiara, temendo, o meglio, sperando, di aver capito male. Il suo sguardo era sinceramente interrogativo.
“Ci tieni a lei?” riformulò la domanda, ma il senso era lo stesso. La nonna aveva due occhi cosi profondi e seri che era impossibile mentire. Chiara si sentì nuda e smarrita.
“Certamente, signora” rispose in un soffio. Non sapeva dove volesse andare a parare, eppure aveva una strana sensazione. Le due donne sentirono tirare lo sciacquone e l’anziana, afferrando il polso della ragazza, s’affrettò.
“Se ci tieni veramente, glielo devi dire”
Chiara era stupita: non sapeva a cosa pensare. E se pure fosse quello che pensava, come diavolo lo aveva scoperto?
“Non fare la tonta. Sei una brava ragazza, intelligente e buona. Lo vedo che ci tieni, ma non incasinare e non far soffrire mia nipote” disse stringendo ancor di più il suo polso. L’acqua nel bagno scorreva, Michela si stava lavando le mani.
“Cosa… come fa a saperlo?”
“Le donne in attesa, sono coperte da una luce particolare. Le donne in attesa sono sempre uguali ma un po’ diverse. Sono speciali” disse con dolcezza.
Michela stava chiudendo la porta del bagno e Chiara si chinò per ascoltare meglio. “Lei ci tiene a te, credimi. Non farla soffrire” disse alla fine tutto d’un fiato, sussurrando.
“Di cosa parlate a cosi bassa voce?” chiese incuriosita Michela.
“Di quando, tu da piccola, per prendere i cereali sul mobile cadesti dal seggiolone!” esclamò la nonna senza batter ciglio.
Michela si era appena seduta quando la porta si aprì. “Ehi!” esclamò una infermiera. La nonna fece in tempo a portarsi un indice davanti alla bocca che si corrugò. La donna entrò socchiudendo la porta e abbassando la voce. “Voi non dovreste essere qui” protestò “Questo non è l’orario di visita!”
“Dai Cristina, sono le mie due nipotine che non vedo da tempo, sii buona” disse l’anziana strizzando l’occhio in un occhiolino.
“Va bene” disse con fare frettoloso “Ma vi voglio fuori in meno di sessanta secondi!”
Michela, già in piedi, battè i tacchi come un soldatino e l’infermiera la guardò con aria di sfida: si sentì provocata, ma lasciò correre, vedendo il sorriso sincero della ragazza. “Fuori!”
Michela baciò la nonna sulla fronte e presa Chiara per un braccio, scapparono sorridendo. Le due ragazze decisero di prendere un’uscita d’emergenza. Già che avevano infranto una regola, tanto valeva infrangerle tutte. C’era una strana euforia tra le due. Sorridevano e si guardavano furtivamente sottecchi.
Arrivate vicino al mezzo, Michela giocava con le chiavi. Sembrava indecisa.
“Tua nonna sembra proprio una brava persona” disse Chiara ancora sorridente, ma con una punta di imbarazzo. Non dimenticava quello che aveva sentito. Michela aveva, sicuramente, fatto apprezzamenti su di lei.
“Sembra?” chiese Michela con ilare sarcasmo.
“Si… cioè, è una forte!”
“Puoi ben dirlo” sussurrò la nipote. “Mi ha praticamente cresciuta. Non nel senso che io sia cresciuta in casa sua. Anzi. Ma è lei che mi ha reso la persona che sono”
“È evidente che ha fatto un buon lavoro” asserì Chiara. Si sentiva strana. Euforica, le farfalle nello stomaco. Si morse il labbro e deglutì. Era cosi vicina a lei, che non riusciva nemmeno a pensare.
Michela, d’altro canto era persa nei suoi occhi. Riusciva a respirare a fatica. La rabbia, le lacrime, la furia, il nervosismo di quei giorni, scomparvero, dinanzi a quella che reputava la creatura più bella e speciale del mondo. Le due ragazze si avvicinarono l’una all’altra, portandosi, millimetro dopo millimetro, l’una di fronte all’altra. Michela prese le mani di Chiara. Le ragazze si guardavano intensamente negl’occhi.
“Questo momento non potrebbe essere più perfetto. Se pure non ti baciassi, sarei la persona più felice del mondo”
“Ma?” chiese intrepida Chiara.
“Perché non rendere il momento, magico?” disse Michela, che nonostante la sua affermazione non fece nulla.
Fu Chiara ad avvicinarsi. Le sottili pelli delle rosse e desiderose labbra si sfiorarono appena.
 
- Se ci tieni veramente, glielo devi dire – alla ragazza tornarono alla mente quelle parole e rimbombarono forte come un tuono. Si allontanò di getto dalla ragazza.
Michela non si sorprese. Immaginava cosa le passasse per la testa. O almeno cosi credeva. Fece nuovamente un passo verso di lei. “Non avere paura” sussurrò guardandola negli occhi, carezzandole la guancia.
“Non, non posso” disse Chiara “Devo prima parlarti di una cosa”. Le cose le stavano sfuggendo di mano.
Michela annuì e sorridendo la esortò a parlare. La ragazza deglutì più volte, scuoteva la testa, si tormentava le dita. La compagna decise di avvicinarsi nuovamente e in quel momento Chiara reagì mettendole le mani avanti, posandole sulle spalle, sospingendola.
“Sono incinta” disse di getto. Senza pensare alle parole giuste o sbagliate. Il cuore, che mancò un colpo quando si sentì dire quelle parole, cominciò a galoppare. Le si gelò il cervello e cominciò a sudare freddo. Non si aspettava che lo accettasse: sperava solo capisse. Che capisse perché l’avesse tenuto nascosto.
“Come, scusa?” chiese incredula la centaura. Il volto contratto in una smorfia di incomprensione. Credeva di aver recepito il messaggio sbagliato.
“Aspetto un bambino” disse a testa bassa, ma scandendo bene ogni parola. Non voleva ripeterlo: era già abbastanza dura cosi.
Michela era incredula. La pancia non si vedeva per niente. Ma non era esperta di gravidanze quindi non avrebbe saputo comunque dire a che mese fosse. Sapeva solo che pancione voleva dire parto imminente e che pancia piatta voleva dire inizio. Ma non avrebbe potuto dirlo con certezza se non fosse stata almeno di qualche settimana.
“Da quanto lo sai?” chiese cominciando ad arretrare. I passi che affondavano nel ghiaino erano tristi e sconsolanti.
“Non volevo mentirti”
A Michela saltò la mosca al naso. “Da quanto cazzo di tempo lo sai!” tuonò stizzita.
“Da quando sono stata male alla partita, e mi hai portato all’ospedale”. Chiara era impaurita ma speranzosa.
“Mi hai mentito”
“Non volevo farlo”
“Ma lo hai fatto!!” sbraitò.
“Si, ma cazzo non è figlio tuo!!” scattò Chiara, che si pentì immediatamente per quello che aveva detto e come lo aveva detto. Michela si risentì ancor di più e si incupì.
“Si” assentì “non è figlio mio. Ti riporto da suo padre. Crescerà proprio bene, con quello”. Nella voce della ragazza c’era cattiveria e Chiara si sentì ferita. Stavano giocando a farsi male. Era cosi quel loro strano rapporto e la ragazza si sentì persa nelle ferite di quello che aveva sentito ed era spaventata.
“Michela ascolta…” cominciò Chiara.
“No. Senti, non voglio sapere niente” disse Michela “Perché? Eh? perché non posso avere una persona normale anche io?” la ragazza si appoggiò alla sua moto. Due lacrime le rigarono il volto e staccatesi dal mento caddero bagnando la sella.
“Mi dispiace” disse Chiara avvicinandosi accarezzandole la spalla. Era sincera, ma anche arrabbiata e ferita. Michela scrollò le spalle scostando la sua mano. Si allontanò aggrappandosi a una rete vicina, che dava su un campetto da calcio. In due giorni, quel parcheggio l’aveva distrutta.
“No a me dispiace. Proprio di te dovevo innamorarmi?” disse. Più a se stessa che a Chiara. Non avrebbe voluto dirlo cosi, ma quella confessione fu come uno schiaffo per entrambe. Impalate, svuotate, ferite, le due ragazze non parlavano. Dopo qualche minuto di attesa, Michela decise che era il momento di troncare quella situazione. Si avvicinò alla moto, porse il casco a Chiara e la riaccompagnò a casa.
Chiara sentiva la distanza. Era seduta in punta, quasi come lei non fosse li. Chilometro dopo chilometro, l’ansia accresceva, come la consapevolezza. Ogni chilometro passato, erano dieci che li separavano. 

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Capitolo 19
*** Ritorni ***


Ritorni.

Chiara aprì la porta di casa. Non rimase a guardare Michela schizzar via. Non sapeva dire se era più arrabbiata o delusa, dispiaciuta o ferita. Era una mistura di sentimenti. Lo stomaco era stretto in una morsa, la testa le girava. Cento ore di sonno non avrebbero alleviato lo stato d’animo.
Posò le chiavi, e si avviò verso il bagno. Camminava piano, era ormai una abitudine, anche quando lui non c’era.
Poco meno di ventiquattr’ore prima Michela era in quella casa. L’aveva vista nel suo letto e leggendo il biglietto si era sentita nuda. Ora aveva distrutto tutto per sempre. Chiara era confusa: non si sentiva del tutto colpevole. Si chiedeva cosa avrebbe fatto Michela al posto suo. Era facile parlare dal di fuori. Queste considerazioni rendevano Chiara più confusa e nervosa. Era cosi in sovrappensiero che solo quando sospinse la porta della sua stanza, invece che quella del bagno, si rese conto del chiacchiericcio e dei risolini che erano ben udibili, in realtà, in tutta la casa.
“Oh, oh” disse una donna bionda, seminuda stesa sul suo letto. “E lei chi è?”
“Lei è Chiara”. Giovanni non si premurò di specificare quale legame li legasse. I due erano, evidentemente e pesantemente ubriachi. La donna aveva solo un corpetto nero e cingeva la schiena dell’uomo con le gambe. Lui era completamente nudo, puntellandosi sulle ginocchia e tenendo ferme le braccia della donna con una mano.
“Perché non ti unisci a noi?” chiese zuccherosa e melliflua la donna. Le risate erano impastate. Non erano stupiti ne si vergognavano di quello stato.
A Chiara girò lo stomaco. Erano ubriachi, nudi e stavano facendo sesso sul suo letto. La ragazza venne presa da un attacco di nausea. Si sentì sporca. Pensò che non sarebbe bastato dare fuoco alle coperte per non sentirsi più cosi. Pensò che non sarebbe bastato dare fuoco all’intero appartamento. Rischiuse la porta e andò a rifugiarsi in cucina. Con le mani sul tavolo, cercava di cancellare quella immagine. Che Giovanni la tradisse lo sapeva e non le importava. Il loro non era nemmeno un rapporto d’apparenza. Era solo convenienza. Si sentiva sempre più male e avrebbe voluto rimettere. Impossibile avendo lo stomaco vuoto. Doveva cancellare quella scena. L’avrebbe dovuto fare, perché in quel letto ci avrebbe dovuto dormire comunque, una volta chiusa quella situazione. Ma più cercava di non pensarci più i due restavano incisi, come marchiati a fuoco, nelle retine della ragazza.
“Ehi, dove vai?” disse la donna “Torna qui zuccherino!”
Giovanni si avviò verso la cucina. Chiara sentiva pesanti passi dietro di lei, ma non si voltò. Sapeva che era Giovanni: camminava sbattendo i talloni a terra, e il suo arrivo sembrava sempre la carica di una mandria.
“Vieni immediatamente di la” ordinò duro Giovanni. L’ebrezza aveva cambiato rapidamente il suo stato d’animo. Ora era furioso.
“No” Chiara fu secca e diretta, dandogli ancora le spalle. Giovanni le prese un braccio e la fece girare bruscamente.
“Come osi contraddirmi?”
“Lasciami!” urlò la ragazza. I due cominciarono a litigare pesantemente. Più lui la strattonava più lei si divincolava. Era nauseata, disgustata. Voleva solo scappare da quella casa.
Stavano già discutendo da un po’, quando lui spazientito cominciò a diventare più violento e alzò un braccio. Chiara istintivamente, in un attimo parò le braccia davanti, non voleva subire ulteriori violenze. Era stanca e urlò istintivamente “Non farlo. Sono incinta!”. Giovanni abbassò il braccio e fece un passo indietro. Anche Chiara fece cadere le barriere. Ma si rese subito conto dell’errore. Giovanni infuriato allungò un ceffone. Chiara non sentì molto. Si rese solo conto che stava arrivando. Tutto il resto fu il buio delle profondità oceaniche.
 
Solo entrando in casa si rese conto da quanto tempo era mancata. La notte precedente l’aveva passata per metà a casa di Chiara e per metà a vagare in moto fino a prima mattina per poi buttarsi sul divano del locale, a dormire, con i piedi penzoloni, mentre l’impresa di pulizie continuava rumorosamente a fare il suo dovere.
“Cagnone, scusami per l’assenza”
Michela si guardò intorno. Laura era seduta vicino il tavolo e leggeva. Fingeva di leggere per ignorarla. Per fingere di ignorarla. Ma non alzò lo sguardo dalle sfuocate righe che aveva davanti agli occhi.
“Hai fatto mangiare Cagnone?”
“Certo” disse secca.
Entrambe stavano ricordando gli avvenimenti della sera prima. E non avevano voglia di riaffrontare l’argomento.
“È stata una brutta giornata, vado in camera”. Michela sentiva di doversi scusare. In un certo senso voleva scusarsi. O credeva di volerlo. In questo stato d’agitazione, non prendeva nulla sul serio. L’insidia e il pericolo erano all’angolo e non voleva fare cazzate. Ne aveva già fatte fin troppe.
Si rese conto anche che era la seconda sera che non faceva una doccia. – Mamma faccio proprio pietà – si disse. Cosi detto, si infilò sotto un getto di caldissima acqua. Davanti ai suoi occhi l’acqua apparve torbida. Non era solo lo sporco, era la delusione, le ferite che perdevano ancora. Restò nuda ed immobile ancora molto tempo, mentre l’acqua, che poco a poco diventava rovente, scrosciava e scivolava sul suo corpo. Fissava le mattonelle per un tempo indefinibile; poi, senza insaponarsi ne null’altro, chiuse l’acqua, prese una asciugamano e si asciugò.
 
“Di chi è?”
Chiara faceva fatica ad aprire gli occhi. Si sentiva un lato della faccia gonfio e le faceva male una tempia. La bocca asciutta ma impastata come se avesse un milione di gomme secche in bocca. Scosse il capo: ebbe un conato di vomito dalla nausea. Il dolore alla tempia s’intensificò.
“Dove sei stata?”. L’uomo era in canotta e jeans. Chiara non poté fare a meno di notare che almeno aveva avuto la decenza di vestirsi e non di farle l’interrogatorio nudo come un verme.
Chiara cominciava a mettere a fuoco la stanza. Era seduta sul divano, messa scomposta, probabilmente Giovanni ce l’aveva buttata senza troppa cura.
“Allora?” chiese spazientito.
“È tuo, brutto stronzo”
Giovanni scattò e le fu subito addosso. Le strinse le guance tra le dita. Chiara sentì una fitta lancinante e resistette all’impulso di vomitargli addosso. Fu così improvvisa e violenta la presa che i denti ferirono le guance e la ragazza cominciò a sentire un brutto sapore di ferro in bocca.
“E da dove esce tutta questa presunzione?” chiese tra il sarcastico e lo schifato il ragazzo. “Con chi mi hai tradito, eh, puttana?”. Lasciò la presa per darle modo di parlare.
“E tu che stavi facendo, porco schifoso?” Chiara non si stava tanto ribellando a lui. Si stava sfogando, stava riversando su di lui tutta la frustrazione di quei giorni. – Tanto – si disse – non fa alcuna differenza. Se lo merita comunque – .
Partì un ceffone. Quasi come se avesse percepito i suoi pensieri. Il labbro di chiara si spaccò e il sangue si impastò con i capelli, che si tinsero rapidamente di rosso.
“È tuo”
“Impossibile”
“Certo che è possibile. È figlio delle schifose violenze che usi!”
Un altro ceffone. Chiara cominciava a non sentire più dolore. soprattutto dentro, dove cicatrici su cicatrici le impedivano di provare dolore.
“Da dove stavi tornando?”
“Ero uscita a prendere un po’ d’aria”
“Non prendermi in giro chiaro?” sbraitò l’umo. “Stavi tornando dal tuo amante, non è vero?”
Chiara scosse il capo con amarezza. E con altrettanta amarezza disse “Magari non fosse tuo”.
Giovanni non ci vide più. “Tu sei mia” sibilò.
“Col cazzo” disse secca la ragazza. Chiara tentò di alzarsi. Era stanca, volva lavarsi e andare a dormire. Dormire per secoli.
Giovanni la spinse nuovamente sul divano. Era sua, solo sua. Portò una mano alla cintura e cominciò a sfilarla.
“Se lo fai, e lo perdo, è colpa tua. E ti ammazzo”. Non aveva mai pensato ai sentimenti che provava verso il bambino. Non era sicura di quello che provava. Non si sentiva madre, ma non lo odiava nemmeno.
Giovanni si sentì impotente. Chiara sapeva che non sarebbe finita li. In un modo o nell’altro l’avrebbe pagata. E così fu.
 
Era notte inoltrata e Michela non riusciva a dormire. Erano ore che si rigirava nel letto. Non percepiva rumori ne segni di vita. A un certo punto cominciò a pensare che Laura se ne fosse andata. Non se sarebbe curata, se comunque un irresistibile desiderio di fare la pipì la portò ad alzarsi.
Uscita dal bagno buttò un’occhiata verso la cucina e nell’oscurità si rese conto che c’era una presenza.
“Sei ancora in piedi?” sussurrò la ragazza avvicinandosi al tavolo. Laura era ancora nella stessa posizione di quando era arrivata. “Stai cosi da due giorni?”.
La ragazza non si degnò di rivolgerle lo sguardo.
“Cos’è, lo sciopero della parola?”. Silenzio. “Ore quattro, calma piatta”.
 
Quando Michela rivide, il mattino seguente, Laura, con la testa sulla tavola, si stupì. Stoica, era rimasta seduta per tutta la notte. Scosse la ragazza che si svegliò di soprassalto.
“Che mi vuoi dimostrare?”
“Nulla”
“Che miglioramento, ora parli!”
“Fottiti”
Michela mise su la caffettiera. Guardò fuori la finestra. Dava le spalle a Laura e le venne in mente il bacio. Le si strinse l’intestino. Non voleva parlarne. Non ne doveva parlare.
“Senti…” disse tentennando.
“Non abbiamo nulla da dirci. Il tuo atteggiamento è stato eloquente”.
Detto questo, Michela si mise il cuore in pace, si versò il caffè e andò nuovamente in stanza.
 
“Nonna, come va?”. La nipote aveva deciso di andare a trovare nuovamente la nonna.
“A te come va, bimba mia?”
Michela era solo felice di non aver incontrato i suoi genitori. Ma era ora di pranzo e non era cosi sicura che non se li sarebbe trovati alle spalle. “Almeno loro non ci sono. Quindi bene”.
“A loro modo ti vogliono bene”
“Il loro modo è incompatibile con il mio. E mia sorella? Nemmeno una parola”
“Lo sai che da quando si è sposata presenzia solo per mostrare dove è arrivata”
“Che si fottano”
La nonna aggrottò la fronte. Michela alzò le mani in segno di scusa. Non capiva questo criticare la famiglia, senza poter dire che potevano andare al diavolo. “Si si, prova a metterti nei loro panni” cantilenò la ragazza. La nonna annuì compiaciuta.
“Allora, come va con la bella fanciulla?”
“Mah”
“Qualcosa che non va, ragazza?”. La nonna temeva di sapere di che si trattava. La nipote aveva spesso reazioni esagerate verso notizie shock.
Michela si guardò le scarpe. Un po’ in fondo si vergognava di come aveva reagito. – Ti ha mentito! – urlò una voce dentro di se.
“Sai nonna, forse avevi ragione. Non fa per me” si limitò a dire.
“Sempre la solita esagerata” la nonna si infervorò. Era proprio quello che pensava. “Ha o non ha bisogno di te? Non pensi che possa crescere meglio con te piuttosto che con lui?”
Michela aveva la stessa faccia di chi per la prima volta scopre che babbo natale non esiste.
“Nonna, cosa sai?”. Un po’ si risentì. La nonna sapeva già più di lei.
“Se ti chiedi come lo so, beh sono nonna, madre e figlia. Se non ne so qualcosa io di gravidanze…”.
“Mi ha mentito”
“Me lo dici, o lo ripeti a te stessa per convincerti che la reazione che hai avuto è giusta e giustificata?”. Michela non seppe rispondere. “Sei stata violenta verbalmente?”
“Non mi esprimo più cosi da un pezzo nonna”.
“Nipote, come ti ho detto l’altro giorno, la vita non è semplice. Ma credimi, lei a te ci tiene. Non te l’avrebbe detto altrimenti. Forse ha bisogno che tu l’aiuti a uscirne. Ma ha bisogno di te”.
“Anche io credevo di tenerci”
“Non fare l’orgogliosa del cazzo” Michela sorrise a quella esclamazione. La donna raramente diceva parolacce, ma ci voleva proprio. “Scendi dal piedistallo, passa un po’ di carta vetrata sul crostone che ti sei fatta crescere intorno e smussa gli angoli. Nella vita ci sono un milione di sfumature”.
“Questo che vuol dire?”
“Che ci possono essere un milione di possibilità per la quale non te l’abbia detto subito. Prima tra tutte, che vi frequentate da poco e che non voleva farti scappare”.
Michela ci rifletté su. Si guardò l’orologio. Era quasi ora dell’orario di visite e non voleva incrociare i suoi. Aveva pattuito con l’infermiera che poco prima dell’orario di visita, doveva sgattaiolare dalle scale di emergenza e sparire. Si alzò. La donna seguì con lo sguardo la nipote.
“Grazie nonna”
“Le vie del Signore sono infinite”
“Il Signore si diverte a cancellare il sentiero che sto seguendo”. L’anziana sorrise.
“Forse sta cercando di farti trovare il sentiero giusto”. Michela annuì.
“Forse”.
 
Michela bussò due volte il campanello. Non sentì alcun rumore. Sperava di non aver preso una scelta affrettata. Bussò ancora dopo una trentina di secondi. Aveva le braccia lungo i fianchi e schioccava le dita nervosamente. Stava per bussare nuovamente, quando la porta si aprì.
“Senti, ti volevo parlare. Scusami per ieri e…”
“Vattene” Chiara stava per chiudere la porta, ma Michela mise un piede tra stipite e porta. Vide il volto tumefatto della ragazza e s’infuriò.
“Vieni immediatamente via con me. Io a quello lo ammazzo” era piena d’ira che non ci vedeva più. Cominciò a urlare sul pianerottolo.
“Sei impazzita? Vuoi dare spettacolo proprio qui? Vai via immediatamente”.
“Si, vai via, sguattera”. alle spalle di Chiara comparve Giovanni. Il ragazzo, che sovrastava Chiara in altezza, cinse le spalle della ragazza.
“Vattene” sibilò Chiara, con aria supplichevole.
A Michela si riempirono gli occhi di lacrime.
“Lei è mia” disse Giovanni sbattendo la porta. “Che voleva?”
“Proprio nulla” rispose Chiara fissando, con gli occhi punti dalle lacrime, la porta. 

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Capitolo 20
*** Sconfitta ***


 
Sconfitta.
Il telefono squillava. Michela attraversava la sua camera avanti e indietro. Dalla finestra all’armadio e viceversa.
La prima volta squillò a vuoto. La seconda pure. Alla terza volta la fredda voce femminile rispose dopo qualche squillo. Dopo di ché si attivò direttamente la segreteria.
“Questa è la segreteria di Chia…”
“Cazzo” imprecò Michela agitata. “Cazzo, cazzo. CAZZO!” urlò la ragazza, lasciando cadere il cellulare sul letto.
Le sue preoccupazioni erano molteplici. Lo aveva sentito? Lo aveva sentito prima lei? E se l’avesse preso prima lui?
Nonostante tutto, i dubbi, la frustrazione, la paura, non riusciva a smettere di far squillare il suo cellulare.
 
Il ronzio ritmato del cellulare contro il legno del comodino non preoccupò minimamente la ragazza. Giovanni stava seguendo la tv, troppo preso dalle sue cose per badare a lei. Come al solito. Si sporse a controllare chi fosse, anche se in cuor suo già sapeva.
Soppesò l’apparecchio, poi lo lasciò vibrare, silenziosamente, tra le coperte. La vibrazione le avrebbe dato meno fastidio.
 
“Possiamo parlare?”
Michela inviò il messaggio, sperando che almeno lo leggesse. Che leggesse e ci pensasse. Il cuore le faceva quasi male in petto. Voleva urlare, voleva piangere. Voleva dare sfogo a tutto, ma ore di urla non sarebbero mai bastate. Nulla sarebbe stato sufficientemente sfiancanti per scrollarle di dosso tutto. Cose a cui non sapeva dare un nome ma che sapeva che facevano male. E molto.
 
Telefonate. Uno. Due. Tre. Mille. Messaggi. Chiara spense il cellulare. Si voltò verso la finestra e scorse la luna che, nel suo freddo e grigio spicchio crescente, le porgeva un sorriso. Un sorriso amaro e maligno.
Cercò di addormentarsi. Il volto le faceva ancora male. E le braccia. E le gambe. E la schiena. Il corpo le doleva, ma più di tutto, le doleva il cuore. Il cuore aveva perso.
 
“Alzati!” disse perentorio l’uomo, scuotendo la ragazza per le spalle. “Alzati immediatamente”. Chiara aprì a fatica gli occhi. Occhi stanchi. Occhi neri. Occhi gonfi di botte e pianto.
“Preparati che dobbiamo andare”
“Dove?”.
Giovanni la scrutò, ma non rispose.
“Posso sapere dove dobbiamo andare, o non mi è concesso nemmeno fare domande?”.
“Andiamo da tuo padre”
“Perché?” chiese senza ottenere risposta.
La coppia si vestì nel silenzio. Chiara non era per nulla felice di dover andare dal padre. Lo vedeva raramente. Con lui e Giovanni insieme si sentiva sempre (ancor più che con solo Giovanni) all’erta, seduta di punta. Era sempre rigida e mai rilassata, nemmeno nei tre minuti che usava il bagno.
La ragazza si guardò allo specchio: si riconobbe appena. Nemmeno il trucco riusciva a coprire tutto. Tratti violacei spuntavano qui e li.
“Ci muoviamo?!” urlò nervoso, dalla porta, Giovanni, già con le chiavi in mano.
A dire il vero Chiara non si era nemmeno particolarmente truccata: voleva che il padre vedesse.
“Andiamo” disse, presentandosi alla porta.
 
“Buongiorno Raffaele” disse Giovanni, stringendo la mano dell’uomo.
“Ciao Giovanni, come va?” rispose stringendo la mano a sua volta. Il ragazzo scrollò le spalle e andò a sedersi sul divano, facendo zapping senza reale interesse.
“Ciao papà” salutò Chiara.
Il padre fece un breve e quasi impercettibile accenno di saluto. Lo sguardo era duro, freddo. Gli occhi azzurri conferivano ancora più durezza allo sguardo. L’uomo aveva i baffi e i capelli spruzzati di bianco, un po’ di barbetta incolta e molte rughe sul suo volto. Appoggiò le mani sul tavolo, le intrecciò e dopo averle fissate per qualche secondo, fissò la figlia. Chiara si era seduta. Aveva mani e gambe strette, compattate al suo corpo. Nessuno parlava ed era tale il silenzio in quella stanza, che quasi si potevano sentire respirare.
“Non mi chiedi cosa è successo?” ruppe il silenzio la ragazza accennando ai suoi lividi.
“Giovanni mi ha detto che sei incinta” disse. Raffaele non diede segno di aver colto la domanda. “È vero?” chiese stavolta.
“Certo”
“E di chi è?”
“Come ho detto a lui, è suo!” sbottò.
Il rumore sordo di un ceffone, si espanse nell’aria. “Insolente!”. Poi l’uomo si ricompose, strofinò la mano sulla gamba del jeans, quasi a pulirsi di quel gesto e parlò nuovamente.
“Sostiene di non aver avuto molto modo di metterti incinta - l’uomo prese una pausa – quindi è lecito fare certi pensieri” concluse in toni freddi.
Il silenzio ricadde nella stanza. Chiara aveva rabbia e paura in corpo e non sapeva che dire.
“Faremo il test del DNA” disse. “E chissà quante altre con me”.
“Delle altre non mi importa, mi importa di te. Bisogna dare un padre a questo bambino”
“E se non fosse Giovanni che fai? Fai picchiare a sangue il padre fino a convincerlo a sposarmi?” rise sarcastica Chiara. Il padre tacque, pensieroso.  
“In ogni caso, a questo bambino serve un padre e a te, un marito”.
Chiara soppesò quella decisione. Non aveva nemmeno la forza di stupirsi.
“Con Giovanni?”
“E con chi altro se no? State insieme da tanto”
“Piuttosto che una vita cosi, piuttosto che darla a lui – si indicò la pancia – meglio farla finita”
Raffaele fece scioccare la lingua. A Chiara pizzicavano di nuovo gli occhi. Ma si trattenne: non doveva mostrarsi debole proprio in quel momento.
“E uccidere mio nipote? L’unico erede? Non avrai questa soddisfazione”. Il tono calmo non ammetteva repliche. “A costo di metterti sotto sorveglianza costante, farai come ho deciso”.
Chiara capì di non avere più speranze.
“Papà – tentò supplichevole – papà ti prego di sentir ragione” si sporse a raccogliere le mani del padre tra le sue. “Dai una vita migliore ad entrambi. Mi sposerò, sarò una brava moglie e una madre amorevole, ma ti prego non con lui!”. Chiara oramai in preda al panico, proiettandosi in futuri senza speranza, piangeva tremando tutta.
L’uomo ritirò bruscamente le mani e rise compiaciuto. “Sei proprio come tua madre, così supplichevole, come sul letto di morte”
“Non osare parlare di lei!” urlò la ragazza esasperata tentando di avventarsi sul padre. La sedia si rovesciò e le mani arrivarono alle spalle dell’uomo dallo sguardo freddo e sarcastico.
Due grosse e ruvide mani afferrarono la ragazza per le spalle spostandola malamente.
“Porta rispetto per quest’uomo che è tuo padre!” abbaiò Giovanni.
“Non c’è bisogno figliolo”
“IO SONO TUA FIGLIA!” Chiara era violacea in volto e respirava a fatica. Cominciarono a spuntare e pulsare le vene del collo.
“Stai calma ok? – l’uomo cambiò umore divenendo più serio e nervoso – vuoi o non vuoi farai come ti dico. Un giorno capirai e tuo figlio mi ringrazierà. Vuoi che sia additato come il figlio di una puttana?”
“Siete solo due porci”. Chiara era stanca, e le forze le venivano meno. Era la preda all’angolo e aspettava solo che uno dei due sferrasse l’ennesimo colpo.
Giovanni si fece avanti, ma l’anziano lo bloccò. “Per oggi basta” fu tutto quello che disse, ritirandosi nella sua stanza da letto.
“Dovresti ringraziarlo – ringhiò il ragazzo – Andiamo”.
“No” si impuntò la ragazza, sicura di scatenare qualche altra violenta reazione.
Giovanni si avvicinò a lei, la fissò e poi con rabbia afferrò con forza, senza tirare, i capelli della ragazza. “Andiamo” disse scandendo bene le lettere in un soffio. 



Dopo a quasi un anno di distanza cerco di proseguire. Spero vi piaccia come all'inizio. E spero di portare finalmente a termine questo parto! Noa

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