Hide and seek

di _hush
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Upheaval ***
Capitolo 2: *** Heat ***
Capitolo 3: *** Joyless ***
Capitolo 4: *** Indistinct ***
Capitolo 5: *** Blaze of light ***
Capitolo 6: *** Mindless ***
Capitolo 7: *** Once ***
Capitolo 8: *** Conceal ***
Capitolo 9: *** Falling dust ***
Capitolo 10: *** Hide, I ***
Capitolo 11: *** Hide, II ***
Capitolo 12: *** Hide, III ***
Capitolo 13: *** Seek ***
Capitolo 14: *** Habit ***
Capitolo 15: *** Desire ***
Capitolo 16: *** Memory ***



Capitolo 1
*** Upheaval ***


Hide and seek


;dedicata a Sara.
Perché me l'hai chiesta tu.


01. Upheaval



Camminavo a passo svelto, cercando di schivare le varie pozzanghere, residui della pioggia pesante di quella mattina. Accidentalmente, il mio piede destro, fasciato solo in Converse di tela blu, si immerse per metà in uno di quei maledetti piccoli laghi. Imprecai e scossi il piede come un cane bagnato. 
Mentre mi allontanavo borbottando da sola -ancora solo due di quei vicoli vuoti e sarei stata a casa- il cellulare mi vibrò in tasca. Lo ignorai stizzita e continuai a camminare. Era Nikolai, quasi di sicuro. Una ragione in più, insieme al mio immotivato cattivo umore che mi seguiva dalle sei del mattino, per non sprecarsi a tirare il Blackberry fuori dalla tasca. Eppure, lo feci. Era ovvio. Gli cedevo sempre, anche quando era a centinaia di chilometri di distanza. In un altro continente. 
 
Domani shoot a San Francisco. 
Cambio il fuso, ti chiamo io. 
 
Che patetica scusa. Non mi avrebbe chiamata. Era la prima volta in quattro giorni che mi rivolgeva parola, ed era tutto quello che sapeva dire. Dopo tutto quel gran casino che era successo proprio il giorno prima della sua partenza, mi accenna solo al fuso orario e a quel suo fottutissimo lavoro. 
Ricordavo ancora troppo lucidamente la nostra ultima discussione. Come sempre, negli ultimi tempi, su una questione così futile. Ma da lì, partiva un litigio su tutto ciò che ci creava fastidio. La cosa non funzionava più da un mese, ormai. E nessuno dei due, lo ammetto, aveva fatto sforzi per aggiustare le cose. A volte credo di coprire la mia vigliaccheria con la scusa dell'orgoglio. Forse lo fanno in molti. 
Oh, eccole ancora una volta, le lacrime a pizzicarmi gli occhi. Non riuscivo a contenerle, non riuscivo a contenere tutta quella scena, che stava di nuovo esplodendo nella mia testa, violentemente. Era la terza volta che scoppiavo in quel modo nella settimana, ed era solo mercoledì mattina. Lacrime, senza ragione, al solo pensare il suo nome. E poi il flashback. Iniziai a vedere i suoi capelli scuri e morbidi, come se fossero davanti a me, ancora bagnati dalla doccia. Ogni dettaglio, si faceva più definito... La libreria dietro le sue spalle, comprata insieme. Come se la speranza di andare a vivere insieme avesse mai potuto farsi concreta, con lui che non rimaneva in un posto per più di tre mesi. 
La sua maglietta rossa. La sua preferita. Comprata anche quella con me, proprio lì, a Londra. 
Iniziarono a scendere, salate. Mi appoggiai a un muro qualsiasi e cercai di contenermi, per lo meno di resistere fino a che non fossi entrata in casa. L'edificio era proprio al di là dell'angolo, dietro a quel muro, ma avevo intravisto del movimento, sagome che entravano e uscivano dalle loro case. 
Mai piangere in pubblico. Che perdita di stile, avrebbe detto mia madre. Riuscivo ad essere stupida e a tirarmela anche in momenti come quello. "Cielo, faccio schifo."
Mi sfregai la faccia, ravvivandomi e capelli e asciugandomi le lacrime. Aggiustai il trucco alla cieca e attraversai la strada, ora deserta. Ravanai nella borsa alla ricerca delle chiavi, ma non riuscii a trovarle, anche dopo una caccia di tre minuti in qualsiasi grotta recondita della borsa o delle mie tasche.
Ci mancava.

Mi massaggiai le tempie, cercando di restare calma, e mi sedetti sui gradini davanti la verde porta di casa, con un che di barboneggiante e disperato. Chissà cosa pensavano, quei vicini pettegoli che mi erano capitati. Abitavano nella casa vicina alla mia, a sinistra. Due vecchietti impertinenti, che consideravano sconveniente ogni cosa e amavano profondamente parlare alle spalle degli altri. Sì, loro avrebbero avuto da ridire anche sul fatto che mi ero seduta sui gradini di casa. 
Sconveniente, per un simile quartiere, già. Altolocato, vicino alla City, solo famiglie benestanti o giovani rampolli promettenti. Io ero fra gli ultimi, anche se forse non così promettente. E vivevo proprio in una di quelle schiere di case tipicamente londinesi, tutte attaccate alle altre, alte, cinque scalini per arrivare alla porta, muri bianchi. Costose.
L'aveva scelta mio padre, come ovvio. Come se avesse mai fatto scegliere qualcosa della mia vita a me. Liceo classico; medicina; al terzo anno, erasmus a Londra; un appartamento da sola, niente campus, per farmi sperimentare la vita da adulta. Fino a qui, escludendo l'erasmus in corso solo da due mesi, avevo messo un tic di fianco ad ogni cosa. Nessun esame perso, nessun anno mancato. Mi mancavano ancora, nella sua lista, in ordine: specializzazione in oncologia, come lui; laurea; tirocinio; entrata nel suo studio medico; matrimonio; figli; eredità dello studio medico. Poi magari sarebbe anche crepato il vecchio, alla fine.
Tutte cose che a molti avrebbero fatto gola. Mi sentivo orribile ad odiare tutto ciò. Se avessi potuto, avrei regalato tutto -i soldi, l'ammissione a medicina, la casa a Londra-; io non li volevo, nessuna di quelle cose faceva per me. 
Non sapevo cosa facesse per me, in realtà. Disegno, dipingo. Ma il fatto di non avere mai avuto il coraggio di mostrare qualcosa di mio a qualcuno che non fosse mio parente non mi ha certo aiutata a credere di potercela fare nel mondo dell'arte. Visto anche che i miei non mi ripetevano altro che quello di dipingere non era un lavoro.

E allora ero arrivata lì, in quella casa che, anche se da una parte odiavo per ciò che rappresentava, era diventata l'unico angolo completamente personale della mia vita; a quella relazione fallimentare con Nikolai, un modello (assicuro che non c'è da esaltarsi troppo) di ventidue anni, che all'inizio mi aveva fatta sentire incredibilmente fortunata ad averlo acchiappato, ma in verità era solo uno qualunque, soltanto con una faccia molto bella; a quella me, che mi disgustava fin da troppo tempo. A quella me seduta come una disperata sui gradini di casa sua, senza chiavi.
Gettai la borsa, ancora aggrappata alla spalla, lì di fianco, allungandomi sui gradini, quasi sdraiata. Mi puntellai sui gomiti e chiusi gli occhi, cercando di non pensare a niente, solo per un minuto, e di catturare quel sottile raggio di sole che aveva avuto il fegato di spuntare fra le nuvole ammassate. 
Inspirai ed espirai.
Sentii alle mie spalle il rumore di una porta che si apriva. Erano probabilmente i vecchi. I nuovi vicini, quelli della casa a destra, non si erano ancora fatti vedere. Me ne fottei, e lasciai andare la presa sui gomiti, appoggiando direttamente la schiena sull'angolo di un gradino. Ero tentata dal mettermi ad ascoltare l'IPod per evitare le loro chiacchiere. Cosa avevano da dire, poi? Chi ha bisogno di una casa, quando si può abitare tranquillamente sulle scale? Stavo già infilando la mano in borsa, quando udii una voce che chiaramente parlava a me.
Feci una smorfia, ancora ad occhi chiusi, per poi realizzare che la voce stessa non era assolutamente vecchia, anzi. Giovane, roca. Allegra.
Mi ero anche persa cosa aveva detto, nel frattempo.
-Mi hai sentito?- Disse sempre la stessa voce. 
Con molta tranquillità, aprii gli occhi e mi raddrizzai, facendo scrocchiare la schiena. Mi volsi verso la fonte della voce, alla mia destra. -No. Non ti ascoltavo.-  Solo dopo focalizzai il tipo che stava fermo sui gradini d'ingresso della casa di destra, la mano ancora poggiata sul pomello della porta color verde pino, identica alla mia. Lui alzò un sopracciglio, con uno strano sorrisetto sulle labbra. Aveva dei muscoli facciali incredibili, quel sopracciglio si era sollevato come minimo di tre centimetri. 
-Ti ho chiesto se avevi bisogno d'aiuto.- Ripetè, chiudendo bene la porta, sempre con quel mezzo ghigno stampato in faccia. Sembrava più giovane di me; aveva la faccia da bambino, occhi grandi e una massa di capelli castani e ricci, come i miei. Tutto in lui, almeno da quella distanza, aveva un che di infantile, tranne la voce. 
Cercai di sollevare ironicamente un sopracciglio anche io, sapendo bene che non avrebbe raggiunto certo l'arcata del suo. -Niente che tu possa fare, grazie.-
Stavo per tornare a sdraiarmi e cercare di ignorare il resto del mondo prima di chiamare i pompieri, quando mi giunse un'illuminazione. -Ah!- Scattai in piedi e con uno sguardo probabilmente folle mi rivolsi al ragazzo, che mi osservò con un che di preoccupato. -Tu vivi lì? Sei quello nuovo?- Dissi, indicando la porta da cui era spuntato prima. Si limitò ad annuire, sempre sul chi-va-là. Sorrisi. -Senti, sono rimasta chiusa fuori. E nella siepe fra i nostri due giardini c'è un buco. E la mia porta sul retro è aperta. Perciò- il sorriso si fece ancora più largo, e ci aggiunsi una molto innocente sbattuta di ciglia. -non è che mi faresti passare?-
Lui mi fissò per qualche secondo, impassibile, poi scoppiò a ridere. Forte.
A lungo.
Lo guardai di rimando, con una faccia per niente divertita. Ancora sorridente riaprì la porta e mi fece cenno di seguirlo. 
Raccolsi la borsa e salii i gradini tra l'irritato e il gratificato, per attraversare la soglia. Il tipo era già a metà del corridoio, e andava spedito e ridacchiante verso la porta che dava sul giardino. 
-La vuoi piantare di ridere, ragazzino?- Sbottai, cercando di tenergli dietro. A stare su quelle scale mi si erano addormentate le gambe. 
Mentre ancora camminava si voltò verso di me, ilare. -Oh, dai, ti sto facendo un favore.- Poi mi squadrò da capo a piedi. -E non puoi essere di molto più grande di me.- 
Mugugnai e uscii insieme a lui nel giardino. -Io ho ventidue anni. Tu al massimo quindici, ragazzino.- Gli soffiai, cercando di individuare il buco nella siepe. I vecchi vicini non si erano mai dati pena di chiuderlo, e figurarsi se l'avrei fatto io. Perciò era rimasto lì, ignorato e mordicchiato dal loro cane a cui piaceva accucciarsi lì sotto. 
Lo trovai, nascosto da un vaso piazzato proprio lì davanti. Lo scostai e osservai la rete sfaldata e il terreno umidiccio su cui sarei dovuta strisciare; il buco lo ricordavo molto più ampio. Mentre iniziavo ad infilare la testa e le braccia, la voce del ragazzo mi giunse da dietro; si capiva che stava sorridendo. -Ne ho diciotto.-  Con la coda dell'occhio notai che si era mosso e piegato sulle ginocchia.
Borbottai un "ma cosa cambia" e proseguii la mia missione molto marines. Finalmente toccai le mattonelle di terracotta del mio non molto verde giardino e in un momento fui dall'altra parte. Tutto quello che feci fu sdraiarmi davanti al buco, stanca di tutto. Voltai la testa e vidi la faccia del tipo al di là dello squarcio, leggermente inclinata, come quella di un gufo. Iniziò di nuovo a ridacchiare e quella volta non potei fare a meno di ridere anch'io, rotolando sul pavimento. Avrebbero dovuto filmarmi, una deficiente che striscia sulla terra bagnata, invadendo case altrui per intromettersi illegalmente nella propria. -E' così ridicolo- riuscii a dire alla fine, mentre cercavo di smettere di sghignazzare. 
Allargai le braccia e rimasi così, guardando il cielo grigio. -Dio.-  

Era la prima volta che ridevo così da una settimana. E per una cosa assurdamente stupida. 
Una mano con annesso braccio pieno di braccialetti spuntò dal buco. -Io sono Harry.- 
Mi rialzai e gliela strinsi. Era calda. Probabilmente lo feci rabbrividire. Le mie mani sono sempre gelide. -Belle.- Perchè presentarmi con il mio nome completo? Gli inglesi non lo sapevano mai dire correttamente, anche se Isabella è uno dei nomi italiani più usati all'estero. Semplicemente, in effetti, mi irritava la pronuncia, e dire solo "Belle" era diventata un'abitudine.
Lui mi sorrise, mostrando i denti bianchissimi e un paio di fossette. Come odiavo le fossette. Senza motivo, poi. Cercai di non sembrare irritata per una schiocchezza simile. -Bene, ragazzino.- Mi alzai in piedi, scollandomi la terra di dosso. -Grazie per avermi fatta passare.-  Gli dissi, muovendo la mano a mo' di saluto davanti al buco. 
-E' stato un piacere.- Sorrideva ancora, si sentiva. Come faceva ad essere continuamente allegro?
-Ci si vede.- Gridai spalancando quella graziatamente non chiusa a chiave porta del retro. 
Mi accolse il caldo termosifoni. Abbandonai la borsa e insieme ad essa gli appunti del corso di anatomia, e tutto quello che feci fu gettarmi sul divano. 
 
 



 
 
N.d.A.
Boh.
Che gran inizio di note, vero?
Caspita.
La verità è che sono piuttosto imbarazzata, non perché questa sia la mia prima pubblicazione su EFP (di fan fiction ne ho scritte parecchie, molte delle quali con account dimenticati e persi -argh!), piuttosto, la prima nel fandom dei One Direction. 
Mi farebbe, comunque, molto piacere sapere cosa ne pensate, anche con un commento di dieci lettere contate.
Sul serio, mi farebbe piacere.
Grazie, in ogni caso, per aver letto fino a qui.

_hush

*giusto per precisare: "Hide and Seek", il titolo della storia, in inglese è l'equivalente del nostro nascondino.

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Capitolo 2
*** Heat ***


02.  Heat

 
Quando mi svegliai era ormai sera. Mi occorsero circa dieci minuti per snebbiare la testa completamente e non cadere giù dal divano. Era un miracolo che non ne fossi già rotolata giù, ma probabilmente mi ero aggrappata allo schienale durante il sonno, a causa di un sogno movimentato, che non ricordavo già più. 
Sapevo solo che era ansiogeno e fin troppo complicato. 
Quando poggiai i piedi scalzi sul pavimento freddo rabbrividii e andai, in punta di piedi, alla ricerca delle pantofole, che sembravano essere scomparse dalla faccia della Terra. Già di malumore, andai al piano di sopra e mi misi un paio di spessi calzini come sostituzione. Di norma, adoravo andare in giro per casa scalza, ma quella sera provavo un freddo incredibile, e dal momento che i termosifoni scottavano ancora -lo testai- c'era una grande probabilità che stessi covando qualche virus. Cercai di ignorare l'eventuale problema e tornai al piano inferiore, trascinandomi giù per le scale di legno, strette e dagli scalini alti. Sembravano antiche, anche se il caseggiato non poteva avere più di trent'anni, ed era stato spesso ristrutturato, da quanto sapevo. 
Ero stata io a cambiare completamente gli interni della mia casa, prima di trasferirmi lì per l'erasmus. Mi irritava l'ambiente sterile e troppo moderno che avevano creato i precedenti proprietari, così io mi ero sbizzarrita ad aggiungere un sacco di dettagli e cose inutili; mazzi di fiori secchi appesi al soffitto, come nelle vecchie erboristerie; una parete ricoperta di scritte e citazioni dai miei libri e poesie preferiti; serie di post-it attaccati qua e là, a comporre parole. O ancora, un'altra parete tappezzata da disegni fatti a carboncino o ad acquerelli. Per il resto, molte cose me le ero portate dietro da Milano. Sapevo che sarei dovuta tornare, e quindi fare quel grande trasloco di nuovo, ma forse una parte di me sperava che quella traversata della Manica sarebbe stata definitiva. 
Di quel posto non mi sarebbe mancato nulla. Della mia famiglia, nessuno. Non mia madre, che mi stava attaccata in modo ossessivo, solo per controllare che non facessi nulla di sconveniente, che avrebbe potuto turbare l'aspetto angelico della nostra famiglia ai conoscenti. Non mia sorella, una presuntuosa viziata anche più di me. Non di certo mio padre, che in me non voleva vedere altro che una sua replica al femminile, anche se sapeva benissimo che non la sarei mai potuta essere. Non quel mucchio di amici spocchiosi e falsi che mi circondavano dall'infanzia e che erano tutto quello che, per decoro, potevo frequentare.
Ma lì, a Londra, era diverso. Semplicemente, per la loro estrema lontananza. 
Lì era dove per la prima volta in vita mia mi ero sentita libera.
Certo, libera non si collega sempre a felice. Ma è un passo.
 
Quella sera, sentivo che qualcosa non andava. Ero stata fin troppo scontrosa già da quando avevo aperto gli occhi la mattina, ed ogni volta che decidevo che una giornata sarebbe stata negativa, in un modo o nell'altro, presto o tardi, quella lo sarebbe diventata.
E' un fenomeno psicologico. Accade anche nelle relazioni: se si teme di essere antipatici ad una persona, tendiamo ad allontanarla perché pensiamo di non piacerle. Quindi, automaticamente abbiamo comportamenti irritanti verso quella persona. E quella persona ci troverà per forza antipatici, anche se prima non lo pensava.
Fu esattamente quello che feci quella sera. 
Ero di nuovo stesa sul divano, quando il cellulare, appoggiato sul bracciolo, iniziò a cantare "Dream On" degli Aerosmith. Lo fissai per qualche secondo, osservando senza espressione il nome Nikolai scritto in grosse lettere bianche sullo schermo. Non riuscivo a credere che mi avesse chiamata davvero, perciò pensai subito che lo facesse per un motivo negativo. Urlarmi contro, lasciarmi, annunciarmi la fine del mondo. Cose così. 
Di conseguenza, la mia risposta non fu certo felice. 
-Che c'è?- Dissi acida al cellulare. 
Nikolai non rispose subito, evidentemente non molto entusiasta di come lo avevo accolto. Potevo sentire della confusione lontana, come se si fosse appartato ad una festa. Sperai non fosse ubriaco. 
"Ah, ecco. Mi ha chiamata perché è ubriaco."
In effetti, la sua voce era impastata. Avevo detto che ti avrei chiamata. Non dovresti essere così sorpresa.-
Improvvisamente molto attiva, mi alzai dal divano, afferrai la coperta che vi tenevo sempre sopra e iniziai a girovagare per il salotto, con quella gettata sulle spalle. -La maggior parte delle volte in cui dici che chiami non lo fai mai. Ho un buon motivo per essere sorpresa, se ci pensi.- Mi aggiustai i capelli scompigliati, anche se con i ricci potevo fare ben poco.
Nikolai mugugnò dall'altra parte della cornetta. Sapeva che avevo ragione. -Parliamo d'altro, è meglio.-
Mi accigliai. -Mai una volta che ti scusi.-
Quella sera stavo decisamente prendendo la via sbagliata. Mi odio, quando faccio così.
-Si può sapere cosa c'è che ti irrita tanto?- Lo sentii sbottare. Quella era una bella domanda. Che cosa avevo? Cosa avevo in realtà per essere così irritata?
 
C'era il fatto che di me stessa odiavo praticamente ogni cosa; c'era il fatto che non riuscivo ad apprezzarmi veramente, non importava quanto bene mi fossi truccata, quanto bene fossi vestita, quanto gli altri mi dicessero che ero carina, o intelligente, o piena di fantasia, in ogni caso non ero abbastanza rispetto a tutte quelle ragazze splendide, magre, grasse, alte o basse ma sempre migliori di me, perché... Perché pensavo che loro erano di sicuro più intelligenti di me, più belle di me anche senza trucco, di più e basta. 
C'era il fatto che ero probabilmente bipolare, lunatica, senza uno scopo reale nella vita; senza qualità reali o particolari. 
C'era il fatto che non riuscivo realmente a dimenticare quel disastro della mia famiglia, che non riuscivo a perdonare mia madre per aver tradito mio padre, anche se mio padre era quel che era; c'era che volevo davvero sempre perdonare tutti, ma non ci riuscivo sul serio. 
Oppure il fatto che fossi ipocrita, falsa, distaccata dal resto del mondo, viziata anche se dicevo di odiare la spocchiosità della mia famiglia, imbarazzante. Che fumassi anche se ero una studentessa di medicina, e non so per quale motivo fumassi. Che prendevo tutte le relazioni fin troppo leggermente, e poi mi lamentavo se andavano male. Che facevo pesare eccessivamente qualsiasi piccola cosa negativa che mi accadeva.
O anche, che erano due giorni che avevo perso il mio gatto.
 
-Niente.- 
Mi grattai un sopracciglio e camminai lentamente fino alla porta-finestra del giardino. Aggiustai la coperta scozzese sulle spalle, afferrai il pacchetto di Black Devils appoggiato su un tavolino e uscii nel freddo della notte londinese. Mi piazzai vicino alla siepe, cercando di non schiacciare le foglie bagnate con le mie calze, e tirai fuori una sigaretta. 
Nikolai sospirò, facendo vibrare leggermente il Blackberry. -Perché non mi dici mai nulla?-
Portai la sigaretta nera alla bocca e fregai nelle tasche dei pantaloni, alla ricerca di un accendino. Lo trovai e la accesi con la mano sinistra, cercando di coprire la fiamma dal leggero vento che stava iniziando a tirare con l'altra mano.
Ne tirai una prima boccata, cercando di fare un anello con il fumo. -Perché tu te ne sei sempre fregato.-
Ora Nikolai era davvero irritato. Potevo sentirlo rodere. -Stai scherzando?- Mi gridò. Sobbalzai. Non me lo aspettavo. -Con tutte le volte che ti chiedo come stai quando sono lontano? Con tutte le volte che cerco di aiutarti?-
-Mio Dio!- Gli gridai in risposta. Non volevo iniziare un'altra discussione come quella di qualche giorno prima. Però lo feci, e basta. -Non ci provi mai davvero! Tu te ne freghi! Le uniche due volte che ho tentato di parlarti dei miei problemi eri dall'altro capo del mondo, e mi hai quasi attaccato il telefono in faccia solo perché dovevi andare!- Mi portai una mano alle tempie e tirai un'altra boccata di fumo. Mi morsi un labbro, forte. -Ti sembra aiuto, questo?- Ripresi, urlando. Perché dovevamo gridare? Non ce n'era ragione.
Ormai, però, era l'unico modo in cui dialogavamo.
-Sei ridicola!- Ridicola. Non sapeva nemmeno insultarmi decentemente. Ma forse ero davvero ridicola, a commentare cosa mi stesse dicendo. -E' assurdo continuare ad aggrapparti sul fatto che sono occupato, questo non c'entra affatto. Hai sempre saputo che non potevo farci niente. Sei TU che non vuoi mai ammettere che stai male, perché sei sempre così stupidamente orgogliosa!-
Ero già stanca. Forse perché non volevo più reggere tutto ciò, forse perché non volevo sentire la verità. 
-Come fai ad essere così ipocrita?- Insistette, malvagio. 
Gettai la sigaretta, ancora a metà, a terra, con violenza. Lasciai che bruciasse sul cotto delle piastrelle. 
Cosa avrei dovuto fare? Replicare, continuare ad urlare, come facevamo da settimane? Lasciar andare tutto? Non lo sapevo. Non ne avevo la minima idea.
-E tu, come fai ad essere così stronzo?- Mormorai. Sperai che mi avesse sentito.
Chiusi la chiamata. 
Rivolsi di nuovo lo sguardo a terra e osservai quella sigaretta ancora accesa, dai bordi rosso brillante. Presi un sasso qualsiasi e la schiacciai. 
Cercai di distrarmi su qualsiasi cosa, perché sapevo che stavo per piangere. Di nuovo. E non volevo. Odiavo piangere.
Sentii un movimento improvviso al di là della siepe scura e mi voltai di scatto. Vidi una coda soffice e grigia spuntare dal buco nella rete e mi avvicinai. Si sentivano delle fusa. 
Era Elia, il mio gatto, scomparso qualche giorno prima. Mi abbassai, e vidi che dall'altra parte del buco giungeva una mano che lo stava accarezzando. Da lì, le fusa. Elia mi guardò, con un che di accigliato e rimproverante nello sguardo. 
Un viso comparve vicino alla mano. Era un ragazzo -un altro- con un sorriso dolce e imbarazzato in volto. 
-Suppongo sia tuo.-
Gli feci un sorriso triste di rimando. -Sì, è mio.-
Il ragazzo smise di accarezzare Elia e tolse la mano. -Come si chiama?- Aveva un voce strana, particolare per un uomo, ma musicale e piacevole. Le sue guance erano ancora rosse. Doveva aver sentito la discussione. 
Afferrai il gatto da sotto la pancia e me lo misi in braccio. -Elia.- La mia voce, invece, era troppo roca. Stavo per scoppiare. Sentivo gli occhi lucidi.
Lui mi rivolse un altro sorriso gentile, prima di alzarsi e andarsene. -Buonanotte.- 
Io non feci altro che mordermi di nuovo le labbra screpolate e tornare in casa.














N.d.A.

Bene, e qui c'è il secondo capitolo. Ammetto che è abbastanza lungo, e non doveva essere così -mi sono dilungata troppo su alcune parti, ma non volevo toglierle, perciò-; in ogni caso, sono abbastanza soddisfatta. All'inizio non mi piaceva, ma adesso funziona, suppongo.
Poi, ditemelo voi.

*So che la storia non è ancora veramente iniziata, e mi dispiace, ma mi rifarò nel prossimo capitolo.
**So anche che avrei dovuto postare il disegno, ma il guaio è che il mio scanner si è rotto, quindi devo aspettare di rimediare una scannerizzazione da qualcuno.
***Oh, e grazie a HazzaIsMine e shygirl_96 che l'hanno messa fra le seguite già dal primo capitolo <3

Come sono stata fredda, sarà l'atmosfera del capitolo, LOL.

_Hush

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Capitolo 3
*** Joyless ***


03. Joyless



Quando aprii gli occhi, bastò la luce soffusa che proveniva dalle tende, tirate davanti alla grande finestra della mia camera, per infastidirli, dato che probabilmente erano ancora rossi e gonfi per il pianto della sera prima. Mi rizzai a sedere e osservai la polvere volteggiare nei fasci di luce. Rimasi a fissarla per qualche minuto, mentre la malinconia si faceva strada dentro di me. Mi voltai dall'altra parte e scesi dal letto matrimoniale, a piedi scalzi sul parquet di legno scuro, solo in maglietta bianca large. 
Lasciai il letto sfatto e mi preparai una veloce colazione -solo un cappuccino e un paio di biscotti. 
C'era così silenzio. 
Non un rumore dalla strada, sebbene fossero già le nove del mattino. Non un rumore dalle case dei vicini, dal giardino. 
Mi guardai intorno, con un che di sperduto. 
Proprio sulla parete che avevo di fronte una serie di post-it, con colori che variavano dal verde chiaro all'azzurro, componevano la parola "breathe". Respira. Semplicemente.
A volte, faceva stare meglio di qualsiasi altra cosa. Un semplice respiro.
Inspirai ed espirai, profondamente. 
 
Passai circa un'ora a leggere "L'Ombra del Vento", di Zafòn. Quel giorno avevo tutto il tempo che volevo; nessun corso. 
Per caso, gettai lo sguardo su un libro di cucina, con una grande torta al cioccolato stampata sopra, lucida e in rilievo. "Perché no." 
Era sempre stata buona educazione, per mia madre, portare un piccolo dono, anche solo una torta, per l'appunto, ai nuovi vicini. Così avevano fatto con me anche i vecchietti di sinistra, regalandomi del pudding. Cibo disgustoso. E sebbene io odiassi la mia famiglia, dal primo all'ultimo membro, alcuni loro insegnamenti erano profondamente radicati nella mia testa. 
Perciò, anche se di quei nuovi ragazzi non mi interessava granché, mi misi a fare quella torta, proprio quella della copertina. Non avevo alcuna voglia di stare a cercarne un'altra, e poi quella aveva davvero molto un'aria da benvenuto. 
A fare dolci ero piuttosto esperta; il tutto non durò più di un'ora e mezza. La lasciai raffreddare sul tavolo di marmo della cucina e salii al piano superiore, per lavarmi e prepararmi, dopo aver lasciato dei croccantini nella ciotola per Elia, che evidentemente era andato a fare un'altra passeggiata per il quartiere, perché in casa non ve n'era l'ombra.
Mi feci una doccia veloce, piuttosto fredda; l'acqua gelida mi riscosse e mi svegliò completamente. Con i capelli avvolti in un asciugamano, mi diressi verso l'armadio, e presi un paio di collant blu scuro e una canottiera maschile nera, di quelle con il lungo spacco laterale sotto le spalline. Dalla scarpiera tirai fuori la prima cosa che mi capitò sotto mano, ovvero un vecchio paio di Vans bianche. Mi asciugai in fretta i capelli e mi truccai leggermente, perché non mi andava di sprecarmi. 
Uscendo dal bagno, mi diedi un'occhiata allo specchio: c'erano di sicuro i miei capelli ricci e vaporosi, che dalle radici andavano naturalmente dal castano scuro fino al biondo delle punte,e mi arrivavano circa fin sotto le spalle; il collo lungo e pallido, da ballerina; il viso ovale, spruzzato di lentiggini; le sopracciglia arcuate, occhi color ambra, allungati anche dall'eyeliner; la bocca a cuore, rossa. Le braccia sottili, il corpo slanciato. 
Ma l'unica cosa che vidi fu il mio sguardo amareggiato. Amareggiato perché continuavo a disprezzare quello che vedevo dentro lo specchio, non importava cosa dicessero le altre persone. Amareggiato per tutto il resto.
Inspirai ed espirai, di nuovo.
 
Un gran soffio di vento mi scompigliò i capelli; mi strinsi nella giacca di pelle nera, che avevo afferrato velocemente mentre uscivo di casa, insieme alle chiavi, la torta, la borsa con il cellulare e le sigarette, più un maglione trovato strada facendo. Mi sentivo abbastanza carica, e non far cadere la torta era un'impresa. 
Suonai il campanello per la seconda volta, ormai scettica sul fatto che ci fosse qualcuno in casa. Mi riappoggiai alla ringhiera, sbuffando.
Dopo poco sentii dei passi affrettarsi verso la porta e fermarsi di colpo. Probabilmente il figuro stava esaminando chi ci fosse al di là della porta. La suddetta dopo poco si spalancò, mostrando il viso sorridente ma stranamente incerto del ragazzo della sera prima, dalla siepe. 
Gli feci un sorriso leggero anch'io, staccandomi dalla ringhiera. -Da buon vicinato, vi ho portato una torta di benvenuto.- La indicai; chiusa in quello strano coperchio azzurro da torte, la sua natura non doveva essere chiarissima. -Spero di non disturbare.- Terminai, allungandogli il vassoio. 
Il sorriso del ragazzo di fece più largo e luminoso. Sembrava davvero felice per quel gesto. Prese la torta, cercando di sbirciare sotto la plastica. -No, figurati, non disturbi. Mio Dio, grazie!- Rise. -Non me lo aspettavo. L'hai fatta tu?-
Annuii, e il vento si divertì a coprirmi la faccia con un paio di ciocche dei miei capelli. Le sistemai con un gesto stizzito. -Sì, poco fa, in effetti.-
-Non avresti dovuto, davvero.-
Alzai le spalle. -Non mi è costato niente.- Avevo pur sempre preso un'ora e mezza, ma cos'altro avrei potuto fare? In fondo, mi aveva fatto piacere. Molto in fondo. Più che altro, mi aveva distratta per un po'. 
-Perché non entri?- Mi chiese lui, spostandosi leggermente e lasciando spazio libero vicino alla porta aperta. 
La mia natura diffidente si irritò. Ma quel ragazzo era così gentile e sincero. Affabile. -Non voglio rompervi ancora di più.- 
Lui scrollò la testa e insistette. Gli cedetti ed entrai in casa.
La prima cosa che notai,e che non avevo avuto il tempo di osservare quando quell'Harry mi aveva fatta passare, fu che avevano fatto un grande open space. Era tutto molto arioso e bianco, minimalista e moderno. Riusciva, però, a non essere freddo e asettico: c'erano fotografie ovunque, attaccate qua e là sulle pareti: di concerti, persone famose, ragazzi. Un paio di chitarre erano appoggiate in giro per la sala, e c'era uno strano equilibrio fra la confusione totale e l'ordine maniacale. Per l'aria viaggiava un brano dei Clash. 
Mi riscossi allo schiocco della porta che veniva chiusa. Mi rivolsi di nuovo al ragazzo. -Sono Belle.- Mi presentai, allungandogli una mano.
Lui la strinse, per poi incamminarsi verso l'angolo cottura. -Io Louis.- Mi invitò a sedermi su uno sgabello dell'isola in legno bianco. Lo assecondai, osservandolo cercare un coltello per assaggiare la mia torta. Quella casa mi trasmetteva una strana calma. O forse era la presenza del ragazzo. 
Non che mi fossi dimenticata della sera prima. 
Mentre, dopo averla annusata per bene ammirato, Louis iniziava a tagliare la torta a fette, esordii. -Mi dispiace.- Feci un gesto vago con la mano destra. -Per ieri sera.- Terminai. L'idea di aver quasi pianto davanti ad uno sconosciuto mi dava davvero molto fastidio, e non sapevo come facesse lui a sembrare a proprio agio.
Fu il suo turno di alzare le spalle, noncurante. -Non devi scusarti. Era la mia presenza ad essere indiscreta.-
Che gentiluomo inglese.
Non dissi nulla, ma gli feci solo un sorriso. Lui mi allungò un piattino con una bella fetta grondante di cioccolata sopra, poi ne prese uno per sé e mi si sedette davanti, dalla parte opposta del tavolo, passandomi anche una forchetta da dolce. Lo osservai. Era un bel ragazzo, senza dubbio. Doveva avere circa la mia età; aveva i capelli castani, portati con il ciuffo a destra, un sorriso simpatico e la faccia da elfo. -Tu da quanto sei qui? Dall'accento sembri straniera.-
Annuii. -Sì, italiana. Da tre mesi circa. Sai, per studiare.-
Come risposta, lui infilzò la torta. Attesi che la assaggiasse. -E' davvero buona!- Ne prese subito un'altra forchettata. 
-Oh, grazie.- Risposi soddisfatta. Ne presi un pezzo anch'io. -Perciò... Voi due vivete insieme? Cioè, tu e l'altro ragazzo.-
Louis sembrò sorpreso. Probabilmente, Harry non gli aveva detto della mia scappatella in casa loro, e quindi non sapeva che l'avessi già incontrato. -Sì. Già da prima, ma ha deciso di cambiare casa.-  Notai che aveva già quasi finito la sua fetta. Io diedi un altro paio di morsi.
Non sapevo bene se fare o no quella domanda che mi stava girovagando in testa. Ma ho sempre avuto la tendenza a fare do mande sconvenienti, per di più nei momenti in cui non andrebbero assolutamente fatte. Pensai che me ne sarei pentita e che magari mi avrebbe anche cacciato con eleganza di casa, da bravo inglese, ma ovviamente andai dritta come un treno. -E state insieme?- Ecco, l'avevo detto.
Lui strabuzzò gli occhi e cercò di non strozzarsi con la torta. All'inizio non capii bene cosa stesse facendo, ma poi realizzai che si stava letteralmente spanciando dalle risate. Lo osservai perplessa. -E' una domanda così ridicola?- Accennai con un sorrisetto.
Louis scosse la testa, ridendo. -No, affatto. E' che non sei la prima che ce lo chiede.- Ridacchiò ancora, ma questa volta fra sé e sé, come se stesse ripensando a qualche vecchio ricordo divertente. -In ogni caso no, non stiamo insieme. Non siamo gay.-
Rimasi un attimo in silenzio, soltanto per gustarmi tutta la mia inappropriatezza fino in fondo. Era la seconda volta che entravo in quella casa ed era anche la seconda volta che facevo una figura del cavolo. E anche questa volta, mi veniva dannatamente da ridere. Mi scappò una risata. -Perché io devo fare sempre queste uscite imbarazzanti?- Sorrisi ancora e mi piegai sul tavolo, coprendomi la faccia con i capelli. 
Mi rialzai e Louis rincominciò a ridere. Io, che incominciavo ad avere caldo, mi tolsi la giacca e la appoggiai in grembo. Proprio in quel momento, la porta si spalancò di nuovo con violenza, e una figura piuttosto entusiasta saltellò fino alla sala. -Lou?- Gridò, prima di guardarsi intorno ed accorgersi della nostra presenza proprio un paio di metri alla sua destra.
Louis la osservava sorridente, la forchetta a mezz'aria con sopra l'ultimo pezzo della sua fetta di torta. Io mi ero voltata per metà verso la suddetta figura, roteando sullo sgabello, con le braccia ancora appoggiate all'isola ed uno sguardo piuttosto sarcastico. Come era quasi ovvio, era l'altro inquilino, Harry. 
Si tolse sciarpa e giacca in fretta e si avvicinò, con un gran ghigno. -Guarda chi si vede.- Ammiccò. -Hai avuto altri problemi con le chiavi o cercavi semplicemente una scusa per vedermi?-
Stavo per rispondergli, sicuramente non bene, quando Louis lo fece per me. -In realtà, ci ha portato una torta. -  Indicò quello che ne era restato. -Di benvenuto.- Aggiunse, con il tono dei bambini che vogliono precisare qualcosa quando ci tengono particolarmente.
Harry mi guardò sorpreso. -Non ti pensavo tipa da fare dolci.- 
La mia espressione si fece ancora più sarcastica. -Ma se mi hai vista sì e no per dieci minuti...- Volevo continuare, ma notai che l'attenzione di Harry era stata catturata da altro. Mi fissava il fianco, lasciato scoperto dalla canottiera. All'inizio pensai che mi stesse guardando il seno (sapevo che con quella canottiera si intravedeva, di lato) ma poi capii che era concentrato sul mio tatuaggio. A volte mi dimenticavo di averlo. 
Non che fosse piccolo, anzi, era abbastanza grande da occuparmi metà fianco destro della schiena; ma l'avevo tenuto così in segreto che ero quasi riuscita a convincere anche me stessa di non averlo. 
Uno scacciasogni. Di quelli indiani. Non colorato, in bianco e nero.
L'avevo fatto appena compiuti i diciotto anni. 
Speravo scacciasse tutte le cose brutte dalla mia vita. 
 
Ruotai di nuovo sullo sgabello, dandogli le spalle. 
Ingoiai anche io l'ultimo pezzo di torta e mi rimisi la giacca, raccogliendo anche tutte le mie cose, che avevo poggiato a terra. -Devo davvero andare, sono stata qui anche troppo.- Sentii Harry che si avvicinava famelico e si prendeva una fetta di torta.
-Te ne vai già?- Dissero lui e Louis contemporaneamente. Gli feci un sorriso mesto. 
-Sì, esco a pranzo. Ma mi ha fatto piacere passare.- 
Mi alzai e aggiustai la giacca. Louis fece per alzarsi. -Ti acompagno alla porta.- 
Gli feci un cenno con la mano. -Non c'è bisogno, figurati. Sul serio, non volevo disturbare così tanto.-  Lui si risedette, facendomi un altro sorriso gentile. Harry invece mi guardò accigliato, la bocca gonfia di torta. Tentò di dire qualcosa, ma venne bloccato da un'occhiataccia di Louis. Si mise a sedere, imbronciato.
Mentre mi allontanavo verso la porta mi voltai indietro, agitando una mano. -Ci vediamo, vicini.-
Harry, che ancora mangiava, sventolò anche lui una mano e cercò di sorridermi a bocca chiusa. Louis, invece, era ancora tutto denti. -A presto.-
Chiusi la porta dietro di me, rabbrividendo leggermente non appena il forte vento mi investì. 
Dovevo realmente andare a pranzo fuori, con Poppy, la mia migliore amica a Londra. Ma continuavo a sentirla come una scusa per uscire da lì.
Sapevo che ero probabilmente apparsa diffidente, distaccata, altezzosa. Lo sapevo e non potevo farci niente, perché nemmeno io conoscevo il motivo per cui allontanavo sempre, sempre, le persone in quel modo. Anche Louis, che era stato così gentile. 
Continuavo solo ad essere così stanca di me stessa, sempre di più.
 


 
 
P.O.V. esterno
 

Quando Belle chiuse la porta delicatamente, Louis tirò subito uno scappellotto ad Harry.
-Ei! Cosa diavolo ti ho fatto?- Si lamentò quello, massaggiandosi il collo.
Louis lo guardò, rimproverante. A volte quel ragazzo riusciva ad essere così sensibile. Ma altre volte era così idiota.
Raccolse i piatti e li portò nel lavello, insieme alle forchette. Poi strappò il vassoio con la torta da sotto le mani di Harry e la coprì, per poi metterla in dispensa. -Dovresti stare più attento.-
Il riccio gli fece uno sguardo stupito. Palesemente non capiva di cosa stesse parlando. 
-Belle, Harry.- Rispose, mentre gli passava affianco per andare a recuperare un libro abbandonato in un'altra stanza. -Non fare il cazzaro anche con lei.- Si fermò un attimo, osservando le foglie degli alberi mosse dal vento, fuori dalla finestra. -Sembra così triste.-
 
 
 










N.d.A.

Inizio di nuovo con un boh.
Boh perché non so se questo capitolo mi piaccia o no. Bohbohbohboh.
In più, sono anche abbastanza confusa, dopo aver appena scoperto l'esistenza del piccione Kevin.
Quanta gente darebbe chissà cosa per essere quel piccione.
Sì, ecco, dette queste cavolate, ora posso solo dire che mi affido alla vostra opinione. Che mi piacerebbe avere, perché vedo che lo leggete. Vi veeedo *tono da fantasma*
Uuuuuhuhhh

No, non sto molto bene. Stasera proprio no.
Oh, aggiungo un'immagine del tatuaggio e della  strana canottiere di Belle, tanto perché ve ne facciate un'idea più chiara. Sì, so che sembra vagamente da battona, ma è una nuova moda londinese/hipster, a quanto pare. E poi, volevo che si vedesse il tatuaggio v.v

_Hush


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Capitolo 4
*** Indistinct ***


*Soundtrack: Young Blood, The Naked and Famous (http://www.youtube.com/watch?v=MJ9gFAKYRYE)
Buona lettura, ci vediamo più giù.







04. Indistinct




Passai la serata con Poppy; o meglio, con lei passai tutto il giorno a partire da mezzodì in poi.
Fino ad allora, era stata l'unica persona, in tutta la mia vita, con cui non mi sarei mai stancata di essere in compagnia; una di quelle amiche che ti sono sempre vicine, anche se magari non fisicamente. Erano semplicemente lì, a supportarti, forse in silenzio. Di quelle persone che ti tenevano in vita. 
Il nostro incontro non era stato particolare, non uno di quelli da raccontare. Seguivamo lo stesso corso all'università, e lei aveva attaccato bottone il secondo giorno in cui ero arrivata a Londra. Così espansiva, fin da subito, come se mi conoscesse dalla nascita e non malapena da mezzora. E nonostante io spesso cerchi di allontanare quel tipo di persone, lei era riuscita a insidiarsi, senza prendere troppo spazio, capendomi già dall'inizio. 
Non era la mia migliore amica; era la persona migliore che avessi avuto di fianco a me da sempre.
 
Pranzammo insieme fuori, in un ristorante vicino al campus, e cenammo a casa mia, con una semplice pizza da asporto. Avevamo passato il pomeriggio a non fare niente di particolare, come al solito. Un giro allo skate-park, in una vecchia libreria, in un negozio di dischi. 
Tentammo anche di fare dei pancake, ma li abbandonammo a metà. 
Sdraiata sul tappeto davanti al divano su cui Poppy era accucciata, la osservai. Mi era sempre piaciuto guardare i tratti delle persone, anche dei passanti per strada. Ne prendevo ispirazione per i miei disegni; tutti avevano un che di particolare, da ricordare. Poppy, benché a prima vista sembrasse una ragazza molto comune, non lo era affatto. Ormai sapevo tutti i suoi tratti distintivi a memoria, tanto da poterle fare un ritratto senza vederla. 
Aveva il naso piccolo, dritto, sempre incipriato a dovere; un neo di fianco all'occhio destro e uno esattamente al centro della guancia sinistra. I capelli biondi, con le punte turchesi, lunghi fino alla vita, lisci e spesso elettrici. Mani incredibilmente piccole e curate, con uno smalto diverso quasi tutti i giorni; gambe lunghe, nonostante la sua scarsa altezza. Un sorriso espansivo e sempre felice; particolare, per via del leggero spazio fra i due incisivi. 
Si accorse che la stavo guardando e scivolò giù dal divano, trascinando con sé la coperta. Mi diede un'occhiata di rimando, ammiccante. Dopodiché, fui sommersa da del tessuto scozzese ispido. Rotolai via, cercando di togliermi il plaid dalla faccia, sputacchiando fili di lana; urtai contro la libreria, che mi fece tornare indietro, come una pallina da ping-pong. 
-Dannazione.- Borbottai, cercando di non scoppiare a ridere. Cosa che Poppy aveva già fatto. Tentò di avvolgermi ancora di più nella coperta, ma il mio cellulare, appoggiato sul divano, vibrò. Lei diede uno sguardo al mittente e si accigliò. Me lo allungò silenziosa. 
Lo presi. Era Nikolai. 
Emisi uno strano verso, fra il rassegnato e il preoccupato, poi sbloccai il Blackberry e lessi il messaggio. 
 
Mi dispiace. 

Tutto qui. 
Sospirai, scrutando la tastiera e sperando che scrivesse da sola la risposta. 
Sentii il tocco di Poppy sulla spalla, delicato. -Se devi chiamarlo vado di là.-
Scossi la testa. -Io...- Cosa avrei potuto rispondergli? Ma perché? -No, rispondo solo, tranquilla.- Osservai titubante i tasti ancora per un po'. Poi mi decisi. Per una volta, ero riuscita a mettere l'orgoglio da parte. Magari stavo lentamente diventando normale. Magari.

E' stata colpa mia. 
Scusami
 
Io e Poppy continuammo a guardare il film in silenzio (Pulp Fiction, per quella che era forse la millesima volta). La risposta arrivò un paio di minuti dopo. Aspettai la fine della scena e poi afferrai il cellulare. Perché avevo ancora quello strano nodo allo stomaco che mi tormentava dalla sera prima?
Perché non potevo stare mai completamente calma? Avevo voglia di darmi uno schiaffo.

Mi manchi.
 
Diamine.

... Anche tu.
 
Andai nel menù e spensi il cellulare. Poppy mi squadrò. -Tutto bene?-
Io alzai le spalle. -Forse.-
Lei mi abbracciò, e continuammo a guardare il film. 
 
Erano passati due giorni, tremendamente normali. Li avevo trascorsi, per la maggior parte, a mettermi in pari con lo studio e ad aggiustare gli appunti. Dopo aver terminato di recuperare tutti i fogli di biochimica, che era meglio non perdere, uscii dalla porta di casa per la prima volta in ventiquattr'ore e andai a cercare un libro qualsiasi in biblioteca. Alla fine, optai per "La Valle della Paura" di Doyle. Era da talmente tanto tempo che mi ero ripromessa di leggere qualcosa di Sherlock Holmes. 
Iniziai a leggerlo in giardino, a casa, sulla vecchia sdraio di legno mezza rotta. Quel giorno si stava così bene all'aperto.
Avevo già divorato quattro capitoli, quando sentii del movimento provenire sia dal giardino dei vecchi che da quello dei ragazzi. Scocciata, cercai di ignorare la confusione che stava iniziando a crearsi. I vecchi, dopo aver spostato qualche tavolo per un loro sconosciuto motivo, tornarono dentro. I ragazzi, invece, continuarono a fare chiasso. All'inizio non capii cosa esattamente stessero facendo, ma poi distinsi chiaramente che qualcuno stava accordando una chitarra, qualcun'altro (un adulto, dalla voce) sgridava i ragazzi, e un'altro ancora gli rispondeva a tono. 
Tutto ciò non mi interessava poi granché. Mi rimmersi nella lettura, fino a che, per puro caso, non captai il nome "Belle".
Senza volerlo, rizzai le orecchie. Era più forte di me. 
La voce dell'adulto non si sentiva più: erano solo Louis ed Harry. 
Mi avvicinai in punta di piedi alla siepe, stando bene attenta a non farmi intravedere dagli spazi vuoti. 
-...quindi credi che non lo sappia?-
-Non penso proprio. Avrebbe reagito in un altro modo, anche se non fosse particolarmente fan.-
Silenzio.
-Meglio così. Sarà interessante.- Potevo chiaramente sentire un sogghigno nella voce.
Rientrai, piuttosto accigliata.
 
Alle sedici circa, mentre stavo sparecchiando, in ritardo, il mio pranzo solitario, ovvero il penultimo sacchetto di cappelletti che mi era rimasto dall'Italia, sentii il campanello trillare prepotentemente. Pensai fosse Poppy, che per qualche motivo voleva fare una comparsa; gridai un "Arrivo" alla porta e infilai l'ultimo pentolame in lavastoviglie.
Come sempre scalza, mi avviai alla porta. Passando, incrociai con lo sguardo il mio riflesso su uno specchio del corridoio. I miei ricci erano in quello stadio definito, da Nikolai, "da sesso", e indossavo solo un vecchio maglione bianco tricot, rubato a mio padre. Cercai di ignorarmi e non fare commenti, e aprii la porta.
A volte sono così impulsiva. Non era Poppy, in effetti.
-Heilà! Hai dello zucchero?- Mi chiese la faccia sorridente di Harry. 
Mi limitai a sollevare le sopracciglia, ironica. -Davvero? Zucchero?-  Feci un mezzo sorriso sarcastico. -Pensavo che lo chiedessero solo nei film.-
Lui ridacchiò. -Ho davvero bisogno di zucchero.-
Sospirai, e gli feci cenno di passare. Mentre entrava, notai che mi squadrò le gambe nude. Feci finta di non averci fatto caso e chiusi la porta dietro di me. -Seguimi.- Lo condussi in cucina e gli indicai di sedersi. -Quanto te ne serve? Ne ho due pacchetti, posso darvene uno.- Spalancai la porta della dispensa e li cercai con lo sguardo.
Lui rispose in ritardo. -Oh, sì, grazie.- Dalla voce sembrava distratto. Individuai un pacchetto di zucchero e lo presi, per poi appoggiarlo sulla tavola. Harry vi era appoggiato con i gomiti, la faccia affondata nelle mani; si guardava intorno, curioso. 
Aspettai un minuto, in silenzio. -Lo zucchero è lì.- Sbottai alla fine, indicandolo. Come se non fosse abbastanza chiaro, gliel'avevo piazzato sotto il naso.
Lui si riscosse e mi fece un altro sorriso. -Lo so.- Gli diede un'occhiata e poi tornò a fissarmi. -Non mi offri il tè?- Disse, sempre con quel sorriso impertinente.
Per un momento mi scordai di essere in Inghilterra e trovai quella domanda molto scortese. Ma poi, mi venne in mente che lì offrivano il tè a chiunque, ed erano le quattro. Non sarebbe stato comunque educatissimo chiedermelo, ma glielo lasciai passare. Non so bene perché.
-Già.- Masticai a forza. -Il tè.- Mi girai di nuovo e misi l'acqua nel bollitore rapido. O automatico. Non so come si dica. In ogni caso, non ci mise nemmeno un minuto. Gli offrii la tazza con l'infuso già dentro e un piattino con biscotti. Presi anch'io la mia tazza e mi sedetti. 
Questa volta lo guardai meglio. Da vicino, sembrava più adulto. Aveva sempre un che di indefinibilmente infantile, che non avrei saputo descrivere. Forse erano i grandi occhi verdi; sembravano contemporaneamente limpidi e malandrini. Fosette. Un sorriso luminoso, che trasmetteva i caratteri dello sguardo. Labbra scure e un sacco di capelli ricci; sembravano molto più curati di quanto un ragazzo normale facesse. In effetti, notai, anche il modo di vestire era particolare: indossava una giacca da completo rossa, una polo bianca e pantaloni color cachi. Non cose che si vedono spesso tutti i giorni. O perlomeno, in certi ambienti. Fra le amicizie di Nikolai, ad esempio, tutti seguivano la moda più recente.
Eppure, c'era qualcosa. Come se fosse pronto per la copertina di un giornale.
-So di essere affascinante, ma come mai mi fissi così?- 
Non mi diedi pena di rispondergli e assottigliai gli occhi, per metterlo meglio a fuoco. Un'immagine appannata di una copertina scandalistica, appesa fuori da un'edicola, mi si formò nella mente. 
-Ah, ecco.- Lui sollevò un sopracciglio, bevendo un sorso di tè. -Sei Harry Styles.-
Styles mugugnò qualcosa di affermativo da dietro la tazza e si alzò dalla sedia, iniziando a girovagare per la cucina. Non comprendevo se gli desse fastidio o no che lo avessi capito. Forse gli sarebbe piaciuto godersi di più l'anonimato, ancor di più se era stato lui a dire quell'ultima frase che avevo ascoltato in giardino.
Ma non avrebbe dovuto preoccuparsi tanto. Di lui e della band di cui faceva parte, i One Direction, sapevo giusto i nomi, e il fatto che fossero diventati famosi grazie ad X-Factor. E tutto mi era stato solo accennato da ragazze dell'università. Il loro genere di musica non era decisamente quello che più mi appagava, in quel periodo.
In ogni caso, erano piuttosto famosi. Pensai che la sua risposta sarebbe stata un "già, ovvio" o "sì, vuoi un autografo?".
-E tu, invece?-
Lo guardai, sorpresa. -Oh...- Appoggiai la tazza. -Isabella. Isabella Molinari.- 
-E' bello.- Mi lanciò un'occhiata ambigua e sparì nel corridoio che portava al salotto. Restai immobile qualche secondo poi mi alzai, seguendolo.
Vagava per la sala, osservando i miei disegni e le scritte, bevendo un sorso di tè di tanto in tanto. E io, ancora, non riuscivo ad essere davvero infastidita. Magari perché con la sua presenza la casa sembrava meno vuota.  
Sfiorò con la mano uno schizzo a carboncino che avevo fatto al parco, un giorno di sole. Erano due bambini, che si tenevano per mano davanti al laghetto delle anatre. Sorrisi al pensiero, e non mi accorsi che Harry mi si era avvicinato, guardandomi con una strana espressione. 
Era tornato quel silenzio infinto che ogni tanto calava in casa. Questa volta, però, non malinconicamente vuoto. Sentivo bene il respiro di Harry di fianco a me, gli accordi di chitarra che venivano da casa sua e persino lo stormo di uccelli che volava nel cielo al di là delle finestre sul giardino. 
-Sei brava a disegnare.- 
Feci un gran respiro, e gli diedi uno sguardo scettico. -Non abbastanza.- Per tutta risposta, lui mi infilò una mano nei capelli, accarezzando i boccoli.
Lo guardai stralunata, allontanandomi. 
Harry fece un altro gran sorriso e scrollò la testa, per mettere a posto i suoi ricci. -Era dall'altra volta che volevo farlo.-
Lo fissai. Non sapevo se ridere o arrabbiarmi.
-Ti vado a prendere lo zucchero.-
Tornai in fretta, stringendo il pacchetto bianco e blu. Gli diedi una pacca sulla spalla per riscuoterlo dall'osservazione dei disegni e quasi lo spinsi verso la porta. -Suppongo che Louis stia aspettando lo zucchero da un bel po'.-
Harry ridacchiò. -Ti dirò, non avevamo tutto questo bisogno dello zucchero.-
-Allora posso tenermelo.- Dichiarai, aprendogli la porta. 
Lui fece uno sguardo impertinente e me lo prese dalle mani. Poi iniziò a scendere le scale. -Da cosa scappi?- Chiese, fatto l'ultimo gradino.
Distolsi lo sguardo, leccandomi le labbra secche. -Io non scappo.- Risposi, rivolgendomi di nuovo verso di lui.
Dalla sua espressione, capivo che anche lui sapeva che stavo mentendo.














N.d.A.

Dunque, questo capitolo per me non è granché, quindi non so bene cosa dire. Ho la sensazione che il diaologo fra Harry e Belle si svolga troppo in fretta, ma non avevo altro modo per trasmettere la Belle sfuggente che c'è qui.
Per il resto, sul capitolo non ho nient'altro da dire -a parte il fatto che lo pubblico prima di uscire, mi farebbe tanto piacere trovare delle vostre opinioni, domani mattina.
Invece, ho un paio di novità. Come avrete notato, all'inizio del capitolo ho messo un link ad un video. Infatti, ho pensato che da qui in poi, all'inizio di ogni capitolo, posterò il link di un brano che si adatta al capitolo -tanto per scassarvi un po'. E' ovvio che non siate obbligate ad ascoltarlo, ma in ogni caso se lo fate magari potete capire di più il mood in cui l'ho scritto/pensato.
In più, alla fine delle n.d.a., metterò un'immagine "scattata" da uno dei personaggi all'altro, con note e tutto. Una specie di mini album fotografico.
Bòn, fine.
Alla prossima.

Baci,

_Hush.



















 
 
 


20 febbraio 2012, Belle.
Scattata da Poppy.















   

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Capitolo 5
*** Blaze of light ***


*Soundtrack: Breathe Me, Sia (http://www.youtube.com/watch?v=q_9sd6kGRuk)
Buona lettura!






05. Blaze of light






Le note di Heart Shaped Box, dei Nirvana, volteggiavano per la casa. 
Il volume dello stereo era probabilmente troppo alto, e quasi di sicuro i vecchi sarebbero venuti a protestare. 
Rimasi bloccata per qualche secondo con la mano a mezz'aria, indecisa se prendere il telecomando o no per abbassare. 
Tornai a ripassare quelle stesse pagine di appunti di Farmacologia, che mi stavano facendo dannare da due ore. Ci passai sopra un'altra mezzora, quando il mio stomaco brontolò violentemente. Era mezzogiorno e io non mangiavo dal pomeriggio prima. 
Mi chiesi perché avessi deciso di saltare la cena. 
Ah, già. Forse perché avevo trascorso tutto il pomeriggio a studiare Patologia generale.
Feci scivolare la sedia all'indietro, cercando di far sì che non cigolasse, e fallendo. Il mal di testa che mi perseguitava alla tre di notte si lamentò. Arricciai il naso, infastidita, e mi diressi verso il frigorifero, anche se sapevo bene che era dannatamente vuoto. 
Aprii lo sportello, il gelo mi investì -assurdo come lo sentissi bene- e rimasi a fissare una carota, due bottiglie di birra, un paio di limoni e del succo di frutta alla pesca. 
Starnutii e richiusi il frigo. 
 
Appena uscii dalla porta di casa, il freddo mi fece rabbrividire.
Mi strinsi il Montgomery addosso e notai che durante la notte era caduto qualche millimetro di neve. Il piccolo supermercato era solo a qualche isolato da casa; pensai che, nonostante la neve e il cielo scuro, non avevo nemmeno bisogno di prendere un taxi. Fu una scelta infelice.
Comprai quasi tutto il negozio, perché, in effetti, adoravo fare la spesa. Non ero nemmeno di cattivo umore, quel giorno, nonostante il mal di testa sempre più violento, e passai tutto il tempo con l'IPod nelle orecchie, canticchiando di tanto in tanto, e beccandomi le occhiate stranite dei passanti e dei clienti. Con grande prevedibilità mi fissavano anche perché non ero esattamente la solita fighetta che frequentava quel quartiere, col mio giaccone gigante, la calzamaglia blu e le Vans rosse. A Londra, da quasi tutte le parti si incrociavano persone vestite in modo decisamente più estroso del mio. Ma di certo non dove mio padre mi aveva mandata a vivere.
Feci un sorriso estremamente finto ad una signora impellicciata che mi squadrava vagamente disprezzante ed afferrai un pacchetto di caramelle. 
Poi guardai lo scaffale strapieno di dolci, e ne presi un altro.
Mi diressi verso la cassa, il carrello strapieno. Spesi tutti i soldi che avevo portato con me e notai disperata che fuori stava incominciando a piovere. Certo, lì ogni volta che si usciva di casa bisognava portare un ombrello con sé. Ma io li avevo persi tutti. Mai che uno durasse più di qualche mese.
Carica di borse, aspettai che le porte automatiche semi-rotte si decidessero a lasciarmi passare e tirai un canchero in italiano, sotto le prime gocce. Non volevo correre, perché sapevo che mi sarebbe caduta tutta la spesa, perciò mi limitai a camminare il più velocemente possibile.
 
A un isolato da casa inizai a sentire la testa molto più pesante del solito. C'era decisamente qualcosa che non andava. Avevo rincominciato a sentire i brividi di freddo di qualche giorno prima. 
Le mie mani erano troppo gelide per sentirmi il polso o la fronte, ma il sospetto si fece comunque largo nella mia testa.
"Brava, idiota. Ti sei anche ammalata." Il mio primo auto-insulto della giornata era arrivato solo per l'ora di pranzo. Fino ad allora, in effetti, era stato un giorno non orrendo come sempre. Da quando mi ero svegliata, alle sette, mi ero accorta di essere molto più attiva e frenetica del normale, ma non mi ero posta troppe domande. In reatà, era solo colpa del mio cervello annebbiato dal virus che covava. L'avevo già sospettato a quel freddo improvviso di quattro giorni prima.
Entrata in casa, sbolognai le borse in corridoio, starnutii un paio di volte e corsi di sopra a togliermi i vestiti spolti. Mi feci una doccia calda e asciugai subito i capelli, per evitare di prendere ancora più freddo. Li legai in una treccia larga e mi infilai dentro ad una grande felpa grigia. Presi un paio di grosse calze di lana rosse e girai per casa a gambe nude, cercando i pataloni della tuta. Non trovandoli, decisi di avvolgermi nella coperta. 
Starnutii ancora. Dovevo soffiarmi il naso. Per fortuna avevo sempre un cassetto pieno di pacchetti di fazzoletti. Ne raccolsi quattro o cinque, insieme al termometro, dall'amadietto dei medicinali, e mi accampai sul divano.
Improvvisamente mi venne da pensare al mio cellulare. L'avevo abbandonato in qualche stanza, al piano di sopra, e mi resi conto che non me ne importava. Sarebbe stato zitto, almeno per quel giorno. Accesi la televisione su un canale qualsiasi e mi accomodai meglio, sistemando per bene la coperta intorno alle gambe e in vita. Poi presi il termometro e lo ficcai sotto l'ascella destra, cercando di non incastrarmi nel maglione con l'anello che portavo sempre all'indice sinistro. 
Aspettai irritata un minuto, osservando la tv senza guardarla veramente, fino a che quello non si decise a fare "bip". Lo tirai fuori. Ero già a trentasette e mezzo, il che per me era molto, dato il fatto che la mia temperatura media era bassa.
Emisi uno strano verso, simile a quello di uno che si sta strozzando, o qualcosa di simile. Resistetti per poco alla tentazione di sfogare la frustrazione sul termometro e scagliarlo in un angolo della sala. 
«Vaffanculo». Strillai, la voce sorprendentemente acuta. Starnutii ancora, e l'eco dello starnuto, insieme a quello del vaffanculo, rimbalzò per le pareti. Mi sembrò persino di sentire una risata di risposta, piuttosto attutita. Dovevo star impazzendo definitivamente, perché le visioni causate dalla febbre (suggerirono gli studi di medicina) possono iniziare dai gradi quarantuno in poi, e soprattutto nei bambini.
Ma a cosa diamine andavo a pensare.
Mi soffiai di nuovo il naso, e in quel momento il campanello trillò. 
Mi bloccai per qualche secondo, fissando la porta con una delle facce più inacidite che avessi mai fatto. Feci scrocchiare la mascella, nervosa. 
Inspirai profondamente, sperando che, chiunque fosse la persona che si era decisa a scocciarmi proprio in quel momento, girasse i tacchi e se ne andasse al diavolo. 
"Din don", disse ancora il campanello, spietato. 
Schioccai la lingua, gli occhi assottigliati rivolti verso la porta. Forse speravo di uccidere quella persona con lo sguardo, anche attraverso il legno. Mugugnai e scesi giù dal divano. L'alzarmi mi creò un leggero giramento di testa, ma strisciai comunque fino alla porta, con la coperta che per metà mi faceva da strascico. 
Non avevo voglia di guardare nello spioncino e la aprii direttamente, cercando di restarne mezza nascosta dietro per avvertire meno il freddo. 
Vidi spuntare gli occhi azzurri di Louis, più delle ciocche riccie. Sporsi leggermente la testa, per vedere meglio. Harry era aggrappato alla schiena di Louis e ridacchiava. Louis sembrava essere completamente a suo agio, e mi sorrise.
Io tirai su col naso. «Mmhm». Era supposto di suonare come un "salve".
Louis si scrollò Harry di dosso, che per poco non capitombolò giù. Si rimise diritto e affiancò il coinquilino. «Ciao». Esordì Louis. «Disturbiamo?»  Poi mi osservò meglio in viso, e si corrucciò vagamente.
«Nah». Mentii, le palpebre ancora abbassate per metà. 
Louis aggrrottò ancora di più le sopracciglia, mentre Harry guardava, silenzioso. «Volevamo chiederti, sai, da buon vicinato» ricalcò le parole che gli avevo detto, alla mia visita. «se ti andrebbe di venire a cena da noi, stasera. Se non sei occupata».
Li guardai di rimando, tirando di nuovo su col naso e assottigliando le labbra. «Sai, in realtà» Iniziai, sciabolando le sopracciglia. Sentivo la febbre che saliva di minuto in minuto. Stavo perdendo il mio contegno. «ho la febbre».
La risposta di Louis fu uno sguardo che significava "lo sapevo, che avevi qualcosa che non andava". Harry invece mi rivolse finalmente la parola. «E stai da sola?»
Gli lanciai un'occhiata scocciata. «Per forza, io abito da sola». Presi la coperta e me la misi meglio, tirandola fin sopra le spalle. Louis sussultò, come pizzicato da qualcosa, e poi guardò Harry, indispettito. Lui gli fece un sorriso angelico, sbattendo le ciglia. 
«Ma non puoi, qualcuno ti deve aiutare». Harry spinse di lato Louis e mi fece un gesto sbrigativo con le mani. «Su, facci entrare».
Spalancai gli occhi. «Ma no».
Lui mi ignorò totalmente, afferrò per la giacca Louis, spinse la porta e se lo portò dietro. «Harry, non ti sembra vagamente scortese...» Tentò di protestare quello, venendo subito zittito.
Io cercai di rispingerlo fuori, ma ammetto che non avevo né la forza né la voglia. «Che cazzo, ragazzino». Dichiarai, in piedi in mezzo al corridoio, mentre la porta si chiudeva. «Cosa credi di fare, è violazione di domicilio ...» Lui, non considerandomi ancora una volta, e lasciando Louis a sorridere in un angolo, mi prese e mi trascinò fino al divano, mentre io mi divincolavo come un'anguilla. Mi ci gettò sopra molto poco elegantemente e assunse un'espressione decisa e soddisfatta. Louis gli si avvicinò e presero ad osservarmi con un che di professionale. 
«Da quanto stai male?» Dissero all'unisono.
Io scoppiai a ridere, sarcastica. «Se credete di saperne voi due più di me riguardo alla medicina...»
«Da quanto?» Continuò imperterrito Harry.
«Poco». Mi infossai nel divano, coprendomi la faccia fino al naso con il plaid. «Una vasocostrizione» borbottai da dietro la coperta, cercando di non ingerire i pelucchi. Mi sentivo un nano sclerotico.
«Cosa?»
«Una vasocostrizione» strepitai, agitando le mani sempre da sotto il plaid, così da sembrare ora, invece, un tricheco isterico. «Evidentemente, stavo già covando un virus. Sono uscita al freddo, è c'è stata una vasocostrizione, che ha fatto diminuire i leucociti, che sono importanti per difenderci dalle infezioni». Brontolai, spiattellando tutto con il tono apatico di uno dei libri del mio corso. «Capito?»
Louis non rispose e lo sentii muoversi per il salotto e aggieggiare con il cellulare, mentre Harry replicava un «Non importa». Si spostò anche lui e mi comparve davanti, piegandosi sulle ginocchia per arrivare al mio livello. «Misurati di nuovo la febbre».
Io sbuffai e afferrai il termometro. «Non vedo, in ogni caso, il motivo per cui dovreste venire a fare i dittatori in casa mia. Posso cavarmela benissimo da sola» mi accigliai. «Lo faccio sempre». Aggiunsi, a bassa voce. Lo feci per ammetterlo a me stessa, più che per farlo sapere a loro. Non volevo mai che gli altri capissero come mi sentivo la maggior parte del tempo, e non so perché. Forse perché ero abituata a mentire alla mia famiglia, a fare la sfacciata, quella che era sicura di sé e distaccata dagli altri, più che mostrare che in realtà io ero tutto il contrario. Mi ero specializzata nel regalare sorrisi falsi e a rispondere "bene", quando mi sentivo tutto, tranne che bene. 
Non sapevo se mi avrebbe fatto meglio ammettere tutto ciò, se far capire a tutti avrebbe cambiato qualcosa. La verità era che alla maggior parte delle persone non interessava.
Immersa nei miei pensieri, mi accorsi a malapena che Harry si era seduto di fianco a me, sul divano, e aveva preso possesso del telecomando. Louis spuntò da dietro lo schienale, con un sorriso che chiedeva scusa. «Mi dispiace lasciarti nelle sue mani, Belle, ma devo uscire con Eleanor. Torno stasera, giusto per vedere se gli sei sopravvissuta». Rise, e mentre si allontanava Harry si alzò leggermente per dargli una pacca sul sedere. Io li osservai, soffiandomi il naso, gli occhi semi-chiusi e maledicendo mentalmente Louis e quella Eleanor. 
Harry si voltò verso di me; la porta si chiuse e rimanemmo soli.
Mi spostai leggermente sul divano, portando su le gambe. Lo guardai, e notai che era leggermente in imbarazzo. Eravamo praticamente sconosciuti, io e lui; mi chiesi perché fosse rimasto, se la cosa gli creava problemi.
Sospirai. «Perché sei qui?» Scossi la testa per spostare una ciocca ribelle, e la fronte mi pulsò. «Dico sul serio. Non c'è bisogno». Lui mi fissò negli occhi e io distolsi lo sguardo. 
Si mise più comodo anche lui, poi rimase zitto per qualche secondo, pensando alla risposta da darmi. «Hai mangiato?» Disse, con un certo che di saccente.
Io sussultai. Me ne ero completamente dimenticata. Pensandoci, la spesa era ancora abbandonata nel corridoio. «No». Ammisi, voltandomi dall'altra parte, verso la finestra. Sentii il suo grido di vittoria. Si alzò e andò spedito verso la cucina. «Tu hai bisogno di aiuto». Ci furono altri rumori indistinti, poi un verso di disapprovazione. «Ma qui non c'è niente
Io feci schioccare la lingua, continuando a fissare la finestra. «Le borse sono nell'ingresso». Gridai, senza nemmeno voltarmi verso la sua direzione.
«Ottimo».
Aveva forse intenzione di farmi da mangiare? Sperai vivamente di no, visto il fatto che la cucina inglese mi repelleva. Mi attentai a chiederlo. 
«Oh, sì». Rispose. La sua voce aveva un che di malefico.
Il mio stomaco brontolò, di nuovo. Mi guardai la pancia, e decisi di lasciarlo fare.
 
Era passata qualche ora, non so dire quanto tempo con precisione. Ormai il sole era già calato, ma entrambi ci eravamo rifiutati di alzarci ed andare ad accendere le luci, perciò dovevamo orientarci nell'alone del televisore. Il piatto di pasta che mi aveva fatto -in onore della mia italianità, aveva detto- giaceva completamente spazzolato, in precario equilibrio, sul bracciolo del divano alla mia destra. 
Harry, sdraiato a sinistra, con i pedi a penzoloni appena fuori dal bordo del suo bracciolo, mangiava di tanto in tanto una caramella pescata dal pacchetto che tenevamo in mezzo, fra noi due, su una pila di cuscini; nel frattempo, insultava la regia di Paranormal Activity.
Io invece stavo sempre peggio; la fronte mi scottava paurosamente, e dopo aver raggiunto i trentanove gradi, mi ero stabilizzata sui trentotto e sette. Era da qualche minuto che mi ero rifiutata di prendere un'altra aspirina, dopo che Harry me ne aveva fatta ingoiare una a forza insieme alle penne all'arrabbiata, quando vidi viaggiare davanti ai miei occhi il pacchetto bianco delle pastiglie. Diedi uno schiaffo mogio alla mano di Styles, prendendomi un'occhiataccia. «Non lo voglio, quello schifo».
Lui, preso nuovo coraggio, me lo piazzò in grembo. «E allora muori, medico». Impertinente. «In ogni caso, sono lì». Si stese di nuovo, sfregandosi il naso. In un attimo, il suo sguardo divenne perso. Avevo notato che gli accadeva spesso; era curioso però, come fosse contemporaneamente a conoscenza di tutto quello che gli stava accadendo intorno. Io ripresi a guardare il film, anche se l'avevo già visto e non mi aveva spaventata affatto. Erano stati pochi i film horror che mi avevano davvero terrorizzata, ed erano tutti di Dario Argento. 
 
Quel film era una cavolata. 
Alla scoperta delle orme nella farina, starnutii per tre volte di fila; sembravo in preda alle convulsioni. Harry non si squassò neanche, ma continuò le sue fantasticherie. Si riscosse solo qualche minuto dopo, meravigliandomi. «Ti dà fastidio, il fatto che io sia qui?» Non guardava me, ma era concentrato sul soffitto.
Io mi morsi le labbra, pensandoci su, sinceramente. All'inizio la sua presenza mi aveva irritato, questo sì. Ma mi resi conto -solo allora- che con lui il tempo era volato; mi aveva fatta sentire molto meno sola di come ero di solito ed era risciuto a scacciare via, per quelle poche ore, tutti i miei pensieri. 
Se all'inizio mi era sembrato un idiota, si era poi rivelato una persona gentile. 
«No». E poi, mi venne voglia di chiederglielo di nuovo. «Perché sei restato?»
Lui allungò un braccio, dalla manica della felpa tirata su fino al gomito e il polso pieno di braccialetti, e iniziò a far correre la mano sullo schienale del divano, agitando due dita come se fossero gambe. Poi la fermò di blocco, quando raggiunse il bordo più alto. «Perché avevi bisogno» rispose, semplicemente.
 
Paranormal Activity era appena finito, ed Harry era alquanto impegnato a scegliere un nuovo film. Io mi divertivo a punzecchiargli il braccio, giusto per fare qualcosa e non lasciare che il mio cervello si disattivasse definitivamente. 
Thunderstruck, degli AC/DC, arrivò dal piano di sopra, facendoci sobbalzare entrambi. Avrei dovuto cambiare quella suoneria. L'inizio della canzone era troppo inquietante. 
Harry mi guardò implorante, pregandomi di non farlo andare a prendere il cellulare. Io sapevo che, con ogni probabilità, era Nikolai. Solitamente era quello l'orario in cui mi chiamava, quando era via. Rimasi ferma per un secondo, indecisa. Perché non mi andava di parlargli? Avrei dovuto sentirne voglia, dopo tanto che non sentivo la sua voce. 
Diedi la colpa alla febbre. «Lascia stare. Deve essere Nikolai. Non è urgente ...» Lui mi guardò, indecifrabile, poi tornò a fare zapping; poco dopo mi chiese cosa mi andava per cena. Io mormorai un «Pizza» molto stancamente e lui la ordinò dal suo IPhone.
Dopo aver mangiato, lentamente mi addormentai. Più tardi, mi sembrò che qualcuno mi mettesse un'altra coperta addosso.















N.d.A.

Tàtàtàtàààn. Eccoci qui. 
Su questo capitolo non so proprio che dire -magari che Nikolai è solo stato accennato, e l'ho fatto perché a qualcuno non ispira. Eh, il sesto senso. Capirete.
Altro: la malattia di Belle non è una cosa seria, si rimetterà subito in sesto. In ogni caso, dopo un po' lei se ne fregherebbe e uscirebbe lo stesso, quindi è meglio evitare che il mio stesso personaggio mi si ribelli contro.
Oh, giusto: grazie a EllyNarry e mesmiler
 per averla messa fra le seguite.
A presto, e grazie di avere letto.

_Hush


















 


14 dicembre 2011, Poppy -qualche ora prima che si tingesse i capelli di blu.
Scattata da Belle.


 
 
 

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Capitolo 6
*** Mindless ***


*Soundtrack: Skinny Love, Birdy (http://www.youtube.com/watch?v=XL2Uzz4j01s)
Buona lettura!






06. Mindless






Ecco, di nuovo il campanello della porta.
Mi sarebbe davvero piaciuto tanto staccarlo, tagliare quei maledetti fili e gettarlo giù per lo sciacquone del cesso.
Ma no, no, non potevo, perché l'essere umano normale doveva pur sopportare il fatto di vivere in una società. Ma, esattamente, quando avevo deciso di voler diventare un essere umano normale?
Valutai per un secondo l'opzione di ritirarmi in un convento, prima di tastarmi la fronte dolorante e piazzarci sopra la borsa del ghiaccio. Durante la notte la febbre era scesa, fermandosi verso i trentasette gradi e otto, ma la testa continuava a somigliare ad un macigno, ed il naso a colare. 
E la mia rabbia verso il campanello non era tanto per il fatto che esistesse, ma più che altro perché mi aveva svegliata. Non era tardi, questo no -saranno state circa le dieci-; ma ero rimasta sveglia dalle tre fino alle sei. 
Inspirai a fondo e gettai all'aria le coperte, quasi strisciando verso il piano inferiore, arrotolata nel piumone. Calpestai qualche foglio sparso per il pavimento, strada facendo, ma non ci feci caso. Arrivata alla porta, che sembrava essere il centro di movimento del quartiere, negli ultimi giorni, sbirciai nello spioncino. Visualizzai una massa di capelli castani e occhi verdi ammiccanti.
Rimasi un attimo ferma ad osservare la porta, per poi voltarle platealmente le spalle e camminare via verso le scale. Ma la voce di Harry giunse inesorabile. «Dai, ti ho vista! Aprimi!»
Feci un altro respiro profondo, prima di girarmi di nuovo. Lanciai un'occhiata alla finestra vicina alla porta, che stupidamente non avevo calcolato. Invece della porta, aprii quella e mi affacciai sul davanzale. Diedi ad Harry uno sguardo obliquo. «Dimmi, vicino».
Lui sorrise, come era quasi scontato. «Volevamo sapere come stai. E se hai ancora bisogno». La cosa era piuttosto gentile, sì, ma tutto quello che desideravo in quel momento era tornare di sopra, a letto, e dormire. Circondata solo dal silenzio.
Perciò scossi leggermente la testa, quel tanto da non farmela dolere. «No, grazie. La febbre non è alta». Lui mi fece un altro sorriso di risposta, agurandomi buona guarigione, e si allontanò verso una macchina grossa e nera, che evidentemente aspettava lui, dall'altra parte della strada. 
D'improvviso si bloccò, proprio sulla linea bianca dell'asfalto. Mi guardò, mentre stavo per chiudere la finestra, e starnutì. Io iniziai a nutrire un sospetto.
Tornai dentro, scrollando le spalle.
 
La sera stavo meglio. Non avevo più quasi nemmeno una linea di febbre, e la pila di fazzoletti usati calava. Ne ero piuttosto contenta, perché non volevo perdere troppe lezioni, appena rincominciate dopo la pausa natalizia. Vagabondai un po' per casa, attaccando ai muri i disegni più recenti, e così arrivai allo studio, dove avevo abbandonato il mio cellulare. Lo presi e lo guardai, incerta.
Sapevo che dovevo richiamarlo, dal momento che non l'avevo ancora fatto. Sperai che, per una volta, fosse libero. 
Composi il numero di Nikolai. Il telefono squillò per un po' a vuoto e io mi misi sdraiata sul divanetto, ad aspettare. Finalmente, sentii che la chiamata veniva accettata.
«Ciao» mi rispose; tutto qui. C'era qualcosa di strano nel suo tono di voce; non riscivo a capire se fosse rimorso, o fretta per qualcosa. 
Io cercai di rimanere neutra. «Hei». Iniziai ad attorcigliarmi una ciocca di capelli intorno all'indice. «Ho potuto chiamarti solo ora. Ho avuto la febbre» lo informai, temendo che non la prendesse bene, anche se non sapevo per quale motivo. Forse continuavo semplicemente a sentirmi in colpa per la discussione. 
Lui, invece, si mostrò dispiaciuto,e subito mi chiese come stavo.
Parlammo a lungo, per più di un'ora, come non facevamo da tempo. Di quello che ci era successo ultimamente, di una coppia di amici che aveva deciso di sposarsi; mi disse che era ritornato a New York e lì era stato accettato in casting che gli interessavano da molto, e stava già lavorando a cataloghi d'alta moda per la primavera/estate maschile. A volte invidiavo così tanto la vita che faceva. Poteva viaggiare talmente spesso. E viaggiare, per me, era lasciarsi alle spalle ogni cosa e rincominciare sempre d'accapo, dovo nessuno ti conosceva, dove potevi essere chi volevi, dove non eri mai stato. Dove potevi non essere te stesso, ma qualcun'altro, magari migliore. 
Anche a me sarebbe piaciuto potermi slegare da tutto e andare via. Non solo da Milano per sempre, ma via.
L'unica cosa di cui invece potei informarlo io era la presenza dei nuovi vicini. Solo alla fine, quando ormai dovevamo staccare, mi disse che sarebbe presto stato a casa. Nel momento in cui lo disse fui così stupidamente contenta che non mi chiesi perchè me ne avesse reso a conoscenza solo allora. 
Disse che era questione di quattro o cinque giorni e che mi avrebbe avvisato il giorno dopo dei dettagli, perché ancora gli altri, i ragazzi con cui viaggiava sempre, non erano riusciti a decidersi. Ma non mi importava, ero solo felice del fatto che da lì a poco sarebbe stato con me.
Era ridicolo come riuscisse a farmi tornare quella ragazzina di quindici anni, che osservava i bei modelli di Milano sfrecciare sullo skateboard al parco, intoccabili, perfetti, in un modo incredibile. E sapevo che me ne sarei pentita, perché, in fondo, sapevo anche che mi avrebbe fatto ricredere di molto su di lui. 
A volte si è così stupidi. 
 
 
Il giorno dopo, Poppy passò da me.
Io mi ero quasi completamente ristabilita, ed era rimasto solo il raffreddore e il mal di testa; eppure, mi aspettavo comunque un po' di comprensione da parte sua. 
Non fece altro che insultarmi per mezz'ora, accusandomi del fatto di non averla informata della mia febbre. Tentai di spiegarle che non avevo la voglia nemmeno di alzare la forchetta per mangiare, figuriamoci pensare abbastanza per mandarle un messaggio. Ignorò del tutto ciò che le avevo detto.
Dopo che si fù sfogata, si decise a passarmi gli appunti delle lezioni a cui ero mancata. Ne approfittammo per studiare insieme, giusto per non lasciar ammassare i capitoli fino al mese degli esami. Dalla mattina alle dieci, quando era arrivata, studiammo fino all'ora di pranzo, quando io gettai via i libri dalla scrivania e me ne andai dallo studio imprecando, lasciando Poppy sola a ridere come un'ossessa sul divanetto. 
Mi ero stancata facilmente.
Mi diressi verso la mia camera e mi gettai a peso morto sul letto. La faccia infossata nel cuscino, sentii a malapena i suoi passi che mi raggiungevano. Si buttò anche lei di fianco a me, ridendo. Alzai leggermente la testa, solo per darle un'occhiata. Era girata a pancia in su, picchiettandosi un motivetto sulle coscie. Sembrava così immotivatamente felice. Mi ricordava Harry e Louis. 
Perché le altre persone risciuvano a essere così contente, senza motivo?
Senza doversi preoccupare di niente, in quel momento? 
Essere felici e basta?
Come facevano, gli altri?
«Sto pensando di tingermi completamente i capelli». Annunciò, pungolandomi la schiena per farmi voltare. Io mugolai e mi puntellai sui gomiti, girandomi di scatto per poi lasciarmi ricadere subito. «Rosa, sempre con le punte blu». Le osservai le punte turchesi, che donavano perfettamente alla sua carnagione e ai capelli biondo chiaro. 
Ci riflettei su, cercando di immaginarla rosa. «Sei sicura? Proprio rosa?- Mi inumidai le labbra, pensando. «Staresti meglio completamente turchese». Lei mi guardò, prima sorpresa; poi annuì, convenendo sulla mia opinione. Rimanemmo così per qualche minuto, sdraiate sul mio letto fresco, ad ascoltare il silenzio, come ci piaceva spesso fare. Poi lei iniziò ad agitarsi, prima di alzarsi in fretta. 
Decisa, mi puntò un dito contro. «Voglio farli oggi. Perciò» asserì, prendendo il cellulare. «Copriti bene, mi accompagni». Compose velocemente il numero della sua parrucchiera e si mise a discutere sull'orario dell'appuntamento. 
Io non provai nemmeno a ribattere, ma mi trascinai giù dal letto, afferrando dei vestiti a caso.
 
Seduta su quella scomoda sedia girevole di plastica arancione per gli accompagnatori, vicino a Poppy -che invece aveva una confortevole poltrona- mi aggiustai la maglia nera dei Nirvana, la mia preferita. Dover aspettare era odioso.
Il colore gliel'avevano già fatto, e anche piuttosto in fretta, ma era il dopo, ad essere lungo. Ero riuscita a rimanere zitta fino ad allora, ma non ce la facevo più. «E' davvero necessaria la mia presenza, qui?»
Poppy annuì, senza muovere troppo la testa. Io starnutii e presi l'ennesima rivista di gossip, su fatti che non mi interessavano minimamente. Iniziai a sfogliarla, guardando distrattamente le immagini dei vip e non sprecandomi nemmeno a leggere i titoli scandalistici; mentre stavo per voltare pagina, arrivata ad un punto in cui non guardavo quasi più le fotografie, tornai indietro, sopresa. C'era Harry, lì sopra.
Mi ricordai solo dopo che sapevo già che fosse famoso. La febbre mi aveva davvero ritardata.
Indicai la pagina patinata a Poppy. «Sai che questo qui è il mio nuovo vicino?» Le dissi assentemente, cercando di capire quale fosse il centro dell'articolo. A quanto pare, si accennava ad un suo nuovo tatuaggio, che, dall'ingrandimento di una foto, sembrava una comune stella. 
Poppy allungò leggermente il collo per guardare, poi ritornò a posto. «Sì?» Si capiva, dal tono di voce, che neppure lei era molto interessata. «Ah, tienitelo. Non è il mio tipo». Si mise di nuovo a guardarsi allo specchio, stocchicciandosi le ciocche che uscivano dall'asciugamano.
Io misi via la rivista. «Poppy. Io ho Nikolai. Com'è che non te ne ricordi mai?» 
Lei fece una smorfia, continuando a sistemarsi i capelli. «Perché non lo sopporto, forse?» Con ogni probabilità, lei era l'unica persona a cui avrei permesso di dirne sul mio ragazzo. L'odio immotivato che provava verso di lui era indistruttibile, e sarebbe stato solo inutile e non costruttivo cercare di farli andare d'accordo. 
Io feci un giro sulla sedia, gettando il capo all'indietro. «Ritorna il primo di Marzo» la informai. Mi aveva mandato un messaggio quella mattina.
Poppy si stizzì, dimenandosi sulla sedia. Non era molto entusiasta.
Continuammo a chiacchierare, fino a che il tempo non scadde. Si fece togliere l'asciugamano, e all'apparire della chioma azzurra lanciò uno strillo acuto. Io scoppiai a ridere, entusiasta come lei. Se li era anche fatti accorciare, ma stava divinamente. L'idea di tingerli mi stuzzicò, ma poi la faccia di mio padre mi si mostrò in mente.
Un tatuaggio poteva essere nascosto, sì. Ma i capelli no. Irritata, cercai di accantonare l'idea. 
«Non sono stupendi?» Era così elettrizzata, anche se non erano asciutti, e il vero risultato non era quello. Ma erano davvero incredibili.
«Dio, sì.» Risposi, e non potei fare a meno di allungare una mano per toccarli.
 
Nel tardo pomeriggio, la accompagnai in giro per Londra, mentre lei mostrava orglogliosa la sua nuova tinta a chiunque incontrasse per strada. Guardarla saltare in giro era piuttosto divertente.
Ma più stavo fuori, più il mal di testa si faceva acuto, e temetti un nuovo alzarsi della febbre. Verso le sette, perciò, mi riaccompagnò a casa, offrendomi il taxi, e mi promise che mi sarebbe venuta a trovare il giorno seguente, per accertarsi che stessi bene.
Prima di andarsene, mi permise di darle una scrollata ai capelli. 
Dopo aver chiuso la porta, mi diressi verso il salotto e accesi la televisione, per poi spegnerla subito, perché mi accorsi che il rumore del chiacchiericcio mi faceva pulsare la testa. Gettai il telecomando da qualche parte sui cuscini e cercai di pensare a qualcosa di decente da farmi da mangiare. 
Alla fine optai per una curativa zuppa alle verdure. 
Mentre cucinavo, misi di sottofondo un cd di Allevi. La musica classica mi calmava incredibilmente, e oltretutto mi alleggeriva la testa. Riuscii a preparare tutto piuttosto velocemente, e per le otto e mezza avevo già finito di mangiare. Decisi di andare subito a dormire, sperando che un sonno profondo mi aiutasse a guarire del tutto. 
Ero così convinta che sarebbe filato tutto liscio.
 
Sotto le note di Vento d'Europa mi ero infilata il pigiama -ovvero una delle mie solite grandi felpe, questa volta blu- e giravo per casa, lentamente, controllando che tutto fosse a posto, con un che di maniacale. Mi capitava, certe sere. 
Credo che fosse quando mi sentivo particolarmente sola.
Controllai ogni stanza, chiusi bene le finestre. Diedi la doppia mandata alla porta d'ingresso e a quella del giardino. 
Era una cosa stupida, ed infantile. 
Ma magari io ero stupida ed infantile.
Il brano finì, e proprio in quel momento sentii scoppiare una forte musica house. All'inizio ero troppo confusa per capire da dove provenisse, ma poi mi accostai al muro, e mi accorsi che la fonte era decisamente la casa dei ragazzi. Sembrava che avessero un impianto stereo collegato in tutti gli ambienti, perché riuscivo a sentirla da ogni parte della mia casa, sia al pianterreno che a quello superiore. 
Rimasi seduta in bilico sul divano per dieci minuti buoni, aspettando. Non so cosa, aspettavo e basta. Forse che prendessero coscienza del volume assurdamente alto, o che si decidessero a trasferirsi da un'altra parte. 
E, in quel lasso di tempo, riuscii ad non arrabbiarmi. Rimasi solo inquietantemente ferma, mentre sentivo quell'orrenda musica rimbombarmi dentro la testa sempre di più. Ma quando arrivai al punto che quella iniziò a girarmi, non ce la feci più. Non riuscivo ancora a realizzare tutta la situazione, semplicemente volevo silenzio. Giusto perchè la testa non mi scoppiasse. Silenzio.
Mi infilai la giacca ed uscii fuori, scendendo le scale e svoltando subito a destra, per salirle di nuovo. Premetti forte il campanello, a lungo, cercando di ignorare il freddo alle gambe. Avevo la pelle d'oca. 
Finalmente la porta si aprì, e Harry ed un altro tipo apparvero sulla soglia. Quello nuovo aveva i capelli scuri, la pelle abbronzata, e la faccia adatta a fare le pubblicità del dopobarba. Sembravano entrambi sovreccitati. Harry mi sorrise, pieno di fervore. 
Io rimasi impassibile, salutandoli con un cenno della mano. «Senti» iniziai, squadrandolo. Come sempre, era ben vestito. Anche l'amico, che solo allora realizzai essere un altro membro di quella band, era tirato. «ti dispiacerebbe abbassare il volume? Mi fa male alla testa. Non sto ancora bene». Cercai di fare la vittima, ma probabilmente avrebbe funzionato meglio se fossi stata accompagnata da una coperta e da un pigiama serio. 
Al posto di Harry, però, rispose quell'altro. Ero sicura che avesse un nome strano che iniziava per "z". «Mi dispiace, babe, ma c'è una festa quì dentro. Non possiamo abbassare» poi mi diede un'occhiata. «Se vuoi, però, puoi entrare».Terminò, aggiungendo un'occhiolino.
Mi trattenni a stento di dare un calcio nelle palle sia a lui che ad Harry, che rideva lì affianco. «Chissà che divertimento, una festa di liceali». Commentai sarcastica. Poi ripresi. «Abbassate solo un po'. Non vi costerà tanto. Al massimo ricorrerete al gioco della bottiglia...» Non feci in tempo a finire la frase, che Harry mi afferrò per un polso e cercò di trascinarmi dentro. Io lo scrollai via facilmente, vista la sua presa poco salda. Sembrava già ubriaco.
Io non riuscii nemmeno ad essere sopresa per quel gesto. Ero troppo stanca. «Coglione» commentai, voltando le spalle ad entrambi e dirigendomi verso la mia porta.
Era una reazione esagerata, sì. 
 
Ma non mentivo dicendo che spingo via le persone da me. 
E quel giorno ero troppo confusa, senza una motivazione specifica, per poter fare di meglio.
















N.d.A.

Va bene, questo capitolo fa schifo, lo so. Ma è di passaggio, perciò sì, avrei potuto fare di meglio, ma non modificare gli eventi.
Spero che non disgusti troppo.
A parte questo, mi scuso per il fatto di aver detto che avrei pubblicato subito questo capitolo, quando non è stato così; ci ho messo inaspettatamente troppo tempo a scriverlo ed è orrendo lo stesso. In ogni caso, voglio chiarire che è anche comportato dal fatto che Belle ha la testa in palla. Non poteva certo essere filosofica come al solito. 
Tuuutto quì, gente.
Alla prossima. 

_Hush

* Ah, vorrei ringraziare Clara Styles DaviteSnape_LoveStylesxMean che hanno messo la storia fra le seguite e ChibiNeko xlifeisaconcert che l'hanno messa fra le preferite.
** Ma sono solo io, o Harry, da quando è diventato maggiorenne, ha la voce più profonda? Benedetto ragazzo.















 


24 aprile 2009, Nikolai -al primo incontro con Belle.
Scattata da Belle.











 

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Capitolo 7
*** Once ***


*Soundtrack: Video Games, Lana Del Ray (http://www.youtube.com/watch?v=cE6wxDqdOV0&feature=relmfu)
Buona lettura!






07. Once






Incredibilmente, splendeva il sole.
Era il ventisei febbraio, e a Londra il sole splendeva. Il cielo non era attraversato neanche da una nuvola,e gli inglesi entusiasti si smanicavano, lasciando a casa le giacche.
Io, che osservavo il via vai della città dalla mia finestra, la tazza di caffèlatte in mano, ancora in pigiama, facevo del mio meglio per non spalancare di colpo la porta ed uscire fuori a godermi quei rari raggi di sole. Perché, anche se io di norma amavo la pioggia e i temporali, ne avevo avuto abbastanza.
E quel sole mi rendeva facile dimenticare la pessima notte che avevo appena passato. 
Addormentarsi era stato un'impresa, con quell'orrendo fracasso da discoteca che si infiltrava nei muri, e il mio mal di testa mi aveva tormentata per tutto il tempo.
Miracolosamente, quella mattina era svanito.
Era passato tutto, persino il raffreddore, e credo sia stato merito del fatto che finalmente, verso mezzanotte, mi ero decisa a prendere il moment e le pastiglie per il raffreddore. 
Senza più nessuna scusa, ero costretta ad andare a lezione. Anche se mi ero già detta che non era il caso saltare i corsi, quando erano giusto appena rincominciati.
Diedi un ultimo sguardo al cielo e chiusi la finestra. Poggiai la tazza blu sul tavolo della cucina ed andai a prepararmi.
Mi bastarono una decina di minuti, come al solito, sia per il trucco che per i vestiti. Per l'università, un paio di jeans e una maglietta andavano più che bene. 
Una maglietta dei Ramones, però. 
Mentre scendevo le scale in fretta, accorgendomi di essermi attardata troppo a ripassare alcuni appunti, mi accorsi che quel mattino stavo bene.
Non importava la maleducazione di Harry, il poco riposo, o le mie ricadute dei giorni precedenti.
Forse era stata la notizia del ritorno di Nikolai.
Non lo sapevo, però stavo bene.
 
All'università, anche Poppy notò che andava meglio. Di conseguenza, rideva di più anche lei. E sentirla ridere era sempre un piacere; la sua era una risata contagiosa, trillante, che lei lasciava uscire spesso e rendeva tutto migliore.
Le ore passarono velocemente; pranzai con alcuni miei compagni di corso e bighellonammo sotto il sole del campus fino alle quattro, lasciando che il sole e il caldo ci entrassero nelle ossa. La poca neve di qualche giorno prima si era sciolta, e i laghetti d'acqua luccicavano sotto i raggi dorati. Dopo un po', iniziò a tirare un vento leggero.
Quando decisi di rientrare, Hannah, una ragazza dai corti capelli rossi, la pelle abbronzata e occhiali rettangolari dalla montatura nera, si offrì di accompagnarmi. Era fra le poche di noi del terzo di medicina ad avere una patente, una macchina, e a sfruttarla. 
Mi scaricò davanti alla fila di case bianco gesso, ripartendo a razzo e cantando a squarciagola "Hey Soul Sister". Io mi incamminai ridendo verso la mia porta; solo a metà strada mi accorsi che due figure maschili mi aspettavano sul pianerottolo in cima alle corte scale. Cercai di focalizzarle meglio, vagamente sorpresa, e realizzai che una di quelle era Louis. L'altro era un ragazzo, alto circa come Louis, o forse un po' di più, con i capelli color miele e un'espressione tranquilla. Più mi avvicinavo, più mi rendevo conto di averlo già visto. 
Quasi ai piedi delle scale li salutai con un «Ehilà» e loro mi risposero con un cenno della mano. «Avete un gran tempismo» commentai, raggiungendoli. Feci un sorriso a Louis e osservai l'amico. Era chiaramente uno dei One Direction, ma ero indecisa sul suo nome, se fosse Liam o Niall. Lo guardai, perplessa. 
Lui sembrò leggermi nel pensiero. «Liam» disse, con un che di imbarazzato. 
Mi presentai a mia volta, poi subito Louis mi spiegò il motivo della visita. «Volevamo scusarci per ieri sera». Aveva uno sorriso comprensivo.
«Harry e Zayn non ci hanno detto che eri passata fino a stamattina, altrimenti avremmo abbassato». Si inserì Liam, dispiaciuto. Notai che aveva dei bei lineamenti, molto regolari, e occhi allungati. Sembrava il più maturo dei membri di quella band che avevo incontrato fino ad allora. «Spero che tu sia riuscita a dormire».
Io scrollai le spalle. In fondo, non mi importava più tanto. Stavo cercando di non darmi preoccupazioni, per una volta. «In realtà, no». Iniziai a ravanare nella tracolla di pelle, alla ricerca delle chiavi che sentivo tintinnare da qualche parte. «Ma non è stata colpa vostra. Non dovete preoccuparvi, davvero». Finalmente le trovai, e le inflai nella toppa.
«In ogni caso, ci scusiamo anche da parte loro». Louis scosse la testa, sistemandosi i capelli. «Che due cretini. Harry si è anche ammalato». Disse, più a sé stesso che a me. Ma quando io captai quella frase, mi lasciai sfuggire un sorriso, che probabilmente appariva malvagio. Lo era. 
«Ah, sì?» Mi voltai di scatto. Ecco perché aveva starnutito, l'altra volta. Gli avevo attaccato il virus. «E com'è successo?» Chiesi, innocente.
Ci pensarono su per qualche secondo, poi Liam rispose. «E' stato probabilmente perchè non ha fatto altro che fare fuori e dentro dalla porta per tutta la notte. Non faceva particolarmente caldo».
«Già». Era ovvio che fosse colpa mia, ma non si sarebbe ammalato se si fosse tenuto al caldo. Non gli avevo forse spiegato la storia della vasocostrizione? Ragazzino ignorante.
Stavo per tornare ad aprire la porta, quando mi soggiunse una voglia improvvisa. Non sapevo se fosse causa della mia strana espansività di quel giorno, o della mia vena cattiva che spuntava di tanto in tanto. Avevo molta voglia di ridere in faccia ad Harry Styles. «Vorrei vedere come sta».
Sia Louis che Liam mi guardarono straniti. Dalle poche conversazioni che avevamo condotto insieme, si era già capito bene che non ero esattamente il tipo di persona da interessarsi molto agli affari altrui. Solitamente, infatti, non me ne fregava proprio un cazzo. 
Dissero che mi avrebbero fatto entrare, piacevolmente sorpresi da quella cortesia.
 
La loro casa era sommersa nel buio. Solo una piccola lampada, posizionata sopra un tavolino, rendeva i contorni degli oggetti vagamente visibili. E con quei colori freddi che dominavano l'ambiente, la scena poteva essere adatta ad un film horror.
Rimasi ferma nel corridoio, mentre Liam e Louis si orientavano perfettamente e si avvicinavano al divano. Louis si sporse oltre lo schienale e diede uno schiaffo ad una massa di coperte, che poi si rivelò essere Harry.
Lui si mise a mugolare e a lamentarsi, prima che Louis lo interrompesse. «Hai visite». Mi indicò, poi prese la via delle scale insieme a Liam. «Noi andiamo di sopra, e dopo usciamo. Stiamo cercando di evitare di ammalarci tutti quanti».
Mi fecero entrambi un sorriso gentile e sparirono nel buio, mentre io mi chiedevo come facessero a non inciampare negli scalini. Il rumore di qualcuno che si scontrava contro uno spigolo mi fece ricredere sulla loro agilità.
Il mucchio di coperte si mosse, ed Harry si affacciò. Tornò subito sotto i plaid. «E' tutta colpa tua!» Mi gridò, rauco.
Io mi avvicinai, cercando di non apparire troppo gongolante. «Non ti pare un saluto scortese, ragazzino?» Mi sedetti su quelli che forse erano i suoi piedi, aggiustandomi i pantaloni. «E io che ero venuta a prendermi cura di te». Dissi ironica. 
Lo sentii agitarsi e poi ritornare fermo a posto. «Ammettilo, invece, che sei venuta a prenderti gioco di me». Soffiò. Io risi, alzandomi e arrivando esattamente davanti a dove doveva essere il suo viso. Afferrai il bordo di una coperta e la tirai giù, giusto per fargli un dispetto. Lui lanciò un grido, strizzando gli occhi, quasi ci fosse troppa luce, e non la chiazza mogia e gialla di una piccola lampadina. Cercò di ritirare su il plaid, ma io lo tenevo fermo. «Vedi cosa succede, Styles, quando i ragazzini vogliono far baldoria?». Gli gettai la coperta addosso e feci per andarmene, ma mi sentii di nuovo il polso bloccato, inaspettatamente. Mi voltai e vidi la sua mano che mi stringeva saldamente, con una forza che non avrebbe dovuto avere, visto quanto si lamentava.
Mi tirò di nuovo giù, non sprecandosi nemmeno a parlarmi a volto scoperto. «Oh, no. Dove credi di andare». Non mi mollava.
Provai a scrollarlo via, scocciata. «A casa mia. E' così assurdo?»
«Te lo puoi scordare». Starnutì. «Io sono stato con te, quindi tu ora rimani con me. Quei traditori mi hanno abbandonato» inveì, gesticolando verso le scale da sotto le coperte. Ci aggiunse un colpo di tosse, per impietosirmi. 
Io sospirai.
Se me ne fossi andata mi sarei sentita in colpa, lo sapevo. Conoscendomi, non subito. Magari il giorno dopo, quando non ci sarebbe più stata possibilità di rimediare. A volte desideravo che alla nascita ci regalassero un bel pulsante di rewind, per poter cancellare tutto quello che facevamo di sbagliato nella vita.
Mi sarebbe servito tante volte. Nelle litigate con i miei, perché alla fine mi dispiaceva sempre, anche se non era colpa mia. Nelle relazioni con gli altri; nelle scelte scolastiche. Nelle scelte. Erano quasi tutte sbagliate.
Ma non esisteva.
Guardai Harry, che sbirciava sopra il bordo del plaid. Mi trattenni dal ridere e mi gettai sul divano di fianco a lui.
 
Riaprii con velocità la porta d'ingresso, rientrando il più velocemente possibile. Il vento, fuori, era aumentato; persino nel piccolo tragitto di neanche cinque metri fra la mia porta e quella di Harry e Louis avevo rischiato essere spazzata via, insieme a tutte le cose di cui le mie braccia erano cariche. 
Prima di chiudere, guardai la strada.
Si era ormai fatta notte, ed era completamente deserta. Solo i lampioni illuminavano l'asfalto bagnato, e l'unico rumore che si sentiva era quello di un cane che abbaiava in lontananza. 
Era una scena che mi metteva inquietudine, come se mi facesse sentire ancora più sola di quello che non provavo già. 
Rabbrividii e mi chiusi la porta alle spalle; subito arrivò la voce di Harry, attutita. «Hai preso la roba?» Urlò stridulo. 
«Seh!» Gridai in risposta. Camminai veloce per evitare che le cose mi cadessero, fatto che stava per accadere, e le scaricai sul divano. Ero appena tornata dalla ricerca di cibo e film nei recessi più profondi delle mie stanze, piuttosto vittoriosa. In più, ne avevo approfittato per cambiarmi con una più confortevole tuta da ginnastica. 
Mi sedetti, cercando di mettermi comoda e rubare un po' di coperta ad Harry. Poi presi i dvd che avevo selezionato. «Allora» esordii. «abbiamo: Via col Vento» Harry vece un verso disgustato. «Non osare criticare Via col Vento. Taci». La sua unica risposta fù soffiarsi il naso. Io ripresi ad elencare. «Gremlins; Suspiria; Stand By Me; the Breakfast Club». 
Carburò per qualche secondo. «Breakfast Club! Breakfast Club! Non credevo che lo conoscesse qualcun'altro oltre me!» Disse scalciando. «Metti quello!» Strillò. 
Io obbedii in silenzio, poi mi risedetti, facendo partire il film. Gli passai un barattolo di Nutella e, dopo aver cercato per un po' l'apribottiglie -che ero sicura di aver portato- fra le pieghe di tessuto, mi aprii una Guinness. Al rumore dello stappo, Harry emerse fino al naso, guardandomi sospettoso. «Tu sei una ragazza strana».
Alzai le spalle. «Dammi la definizione di normale, e poi pensa quello che vuoi». Allungai le gambe, appoggiando i piedi sulla poltrona vicina.
Nel frattempo, sentivo il vento soffiare forte.
 
Come la volta precedente, il tempò volò. Chiacchierammo parecchio, e mi sorpresi di quanto facile mi riuscisse. 
Era strano come quel ragazzo passasse da momenti di più completa stupidaggine a discorsi seri, adulti. Sembrava diventare felice per qualsiasi cosa, come un bambino, eppure, a volte, si dimostrava adulto. 
Mi raccontò della sua famiglia e del suo paese natale, Holmes Chapel. Sembrava contento di parlare della sua vita normale. Io gli dissi di Nikolai, della nostra relazione difficile e strana, di quello che mi piaceva fare, della passione per lo skate, la fotografia, l'arte. 
Non parlai della mia depressione altalenante, del rapporto pessimo con i miei parenti, del fatto che incolpavo me del casino con Nikolai. Ma gli parlai di me, mi fidai, non seppi perché. E per una volta i sorrisi che facevo non erano finti.
«Non mi hai ancora chiesto niente... Sai, del fatto che sono un cantante». Prese una cucchiaiata di Nutella. «E' bizzarro». Aggiunse, con un sorriso insolito. 
Io risi. «Sai, me n'ero dimenticata. Tendo a farlo». Ammisi. Rise anche lui, per poi bloccarsi la testa con espressione dolorante. Io mi ricordai che ero lì per un motivo e gli riempii la borsa termica con nuovo ghiaccio. 
Restammo in silenzio per qualche minuto, continuando a guardare il film. 
Ebbi la sensazione che avesse iniziato a piovere, così mi alzai e mi diressi verso la finestra, avvicinandomi al vetro per guardare meglio. In effetti, scendeva qualche goccia. Rimasi per un po' lì, il naso quasi schiacciato, le dita che creavano aloni di vapore sul vetro.  
«Grazie. Per essere qui».
«Di niente, Harry». Mi raccolsi i capelli in cima alla testa e li fermai con un elastico, facendo uno chignon largo. Qualche ciocca ricadde giù, ma non me ne preoccupai.
«Perciò, hai il ragazzo. Peccato».
Ecco, uno di quei suoi momenti di cambio di personalità. Io feci un suono infastidito e tornai sul divano. «Qualche ora fa non ti avevo detto di tacere, Styles?»
Lui fece un gesto noncurante con la mano e si raddrizzò, mettendosi a sedere. Ondeggiò, e la coperta scivolò giù. La riprese subito, mettendosela da sopra la testa, i capelli arruffati come un cespuglio. «Strega, è solo colpa tua se sono così». Ribadì ancora una volta. Non avrebbe mai smesso di incolparmi per la sua febbre, e io non avrei mai smesso di affermarlo con gioia. 
Andammo avanti così, ad insultarci a turno per un po', fino a che non si rannicchiò in posizione fetale, assonnato. 
Non capendo bene se stesse dormendo o no, abbassai in ogni caso il volume della televisione. 
 
Era passata una ventina di minuti. Harry si mosse, infastidito da qualcosa nel sogno. Rotolò, fino a che le sue mani non arrivarono a toccarmi la pancia. Si tirò in avanti e mi mise la testa in grembo, russando leggermente. 
Io lo guardai immobile, senza sapere cosa fare. 
Se mi fossi spostata si sarebbe svegliato. 
Rimasi così, cercando di toccarlo il meno possibile, mentre sentivo bene il suo respiro caldo sopra la maglietta.
















N.d.A.

Lo so, lo so, è abbastanza corto. Ma mi piaceva finirlo così, e aggiungere altri fatti in mezzo avrebbe reso solo qualcosa di artificioso.
Perciò, ecco quà.
Spero che vi piaccia come gli altri, anche se un po' strano.
Sta di fatto che mi vengono meglio quando Belle è depressa.
Mi sento frustrata D:

_hush

*Ovviamente, grazie a tutte le persone che hanno commentato lo scorso capitolo, e grazie anche a chi ha iniziato a seguire la storia o a metterla fra le preferite, ovvero CloLovesOneDirectionPaja93xBritneyBieberx_Lalle_itsandreea e xadrymalikx .
* Per avere un'idea dell'interno della casa di Harry e Louis, click qui (http://27.media.tumblr.com/tumblr_lsldewGp6I1qk21cfo1_500.jpg).



 








 


26 febbraio 2012, Poppy -la mattina dopo essersi tinta i capelli.
Scattata da Hannah.

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Capitolo 8
*** Conceal ***


*Soundtrack: Shelter, Birdy (http://www.youtube.com/watch?v=QXwPUYU8rTI&ob=av2e)




08. Conceal






Mi svegliai presto, molto più del solito.
Sapevo di aver fatto un altro incubo, durante il sonno. Fortunatamente, non me lo ricordavo.
La sensazione spiacevole e penetrante rimaneva, però.
Capii che era l'alba passando davanti alla finestra della mia camera per scendere al piano inferiore.
Indossai una felpa verde, trovata su una sedia del pianerottolo, sopra la maglietta nera che avevo usato per dormire. Il pavimento, sotto i miei piedi, era freddo come l'aria che respiravo.
Inspirai, mordendomi le labbra.
Nonostante la giornata precedente si potesse aggiungere a quelle positive, mi sentivo, già dalle sei meno venti del mattino, che quella non sarebbe stata altrettanto. Era raro, per me, avere più di un giorno felice alla settimana. I giorni negativi tendevano sempre ad avere la maggioranza. A volte erano più negativi, altre volte meno. A volte qualcuno riusciva a risollevarmi il morale, a volte ci riuscivo da sola.
L'unica cosa che sapevo, di certo, era che dovevo tenermi occupata. Fare qualcosa che mi facesse concentrare profondamente, che mi facesse allontanare dal mondo, rendere estranea a ciò che mi circondava. Spesso, una soluzione era il disegno.
Quella mattina, totalmente libera e vuota, non rappresentava un bell'orizzonte.
Feci colazione, lentamente, per perdere tempo; e così lentamente sparecchiai.
Mi ritrovai in mezzo alla sala, a guardarmi intorno. La casa era in ordine, pulita, il frigorifero pieno. Tutto terribilmente a posto.
Uscii in giardino; le foglie erano ancora ricoperte dalla brina, ed ogni cosa sembrava immobile, ma si iniziavano già a sentire i primi rumori del mattino.
Un forte miagolio mi fece girare di scatto verso la siepe. Elia comparve, strisciando sotto la rete.
Era tutto acciaccato, con un orecchio sanguinante, lo sguardo spento e i baffi di traverso.
Lo osservai, sforzandomi di non ridere.
Quando era in amore, era sempre così. Svaniva per giorni, o settimane, girando per il quartiere e azzuffandosi con altri gatti, per ritornare a casa a pezzi.
Lo afferrai da sotto la pancia, cercando di non fargli male, e ritornai in dentro; con lui in braccio mi diressi nello studio, leggermente più felice. La ricomparsa di Elia mi aveva fatto dimenticare il sentimento di panico con cui mi ero svegliata.
Lo appoggiai nella sua cesta, posizionata in un angolo luminoso e caldo, ripromettendomi di dargli da mangiare, più tardi.
Rimasi per un secondo immobile, incantata a guardare il riflesso dei primi raggi di sole sul vetro della finestra.
Presi una tela e gli acquerelli, mettendomi proprio sotto la finestra.
Chiusi un attimo gli occhi ed inspirai, iniziando a dipingere.
 
Quando finalmente mi staccai dalla tela, il sole era ormai alto. Controllai l’orario sull’IPod, e scoprii che erano quasi le dodici. Non ero sorpresa; spesso mi capitava di non accorgermi del tempo che passava, ancora di più se disegnavo. Un motivo per cui spesso ero in ritardo. Ma non avrei mai messo un orologio. Odiavo gli orologi.
Feci roteare la mano destra, quella con cui dipingevo, e il polso scrocchiò. Roteai il collo, quasi anchilosato, e distesi le braccia e le dita.
Stavo meglio.
Coprii il secondo acquerello della mattina, ancora da finire, con un pezzo di stoffa, e scesi al pianterreno, dopo essermi cambiata. Mi diressi in cucina e misi un mucchietto di cibo per gatti nella ciotola per Elia.
Avevo deciso che avrei pranzato alla caffetteria del campus, ma nonostante ciò stavo ravanando nel freezer, alla ricerca dell’ultimo sacchetto di cappelletti. Avevo la ben fondata sensazione che Harry non avrebbe mangiato, altrimenti.
Non mi posi il problema del perché stessi facendo una cosa simile. Semplicemente, mi era venuto tremendamente naturale, pensare a lui. Forse per il lungo tempo che avevo passato con lui il giorno prima, o forse perché finalmente il mio istinto di medico si faceva vivo, perciò mi sentivo in dovere di aiutare un malato.
In ogni caso, mi ritrovai a pensarci solo dopo, scoprendomi a scongelare il brodo.
Mi bloccai perplessa davanti ai fornelli, poi scrollai le spalle.
Non mi andava affatto di preoccuparmene –non era la giornata giusta.
 
Quando il brodo fu sufficientemente pronto, o meglio non un blocco di ghiaccio, misi tutto dentro una sporta, raccattai la mia tracolla di pelle con i libri e uscii, dirigendomi subito al pianerottolo dei ragazzi.
Suonai un paio di volte, in fretta.
In effetti, speravo che qualcuno mi aprisse velocemente. Mi ero dimenticata che avevano abbandonato Harry da solo.
Udii un mugolio indistinto provenire da dietro la porta, e la figura spernigata di Harry apparve, avvolta in una coperta. Aveva gli occhi assottigliati, non seppi dire se per la luce o per il sonno.
Non mi salutò, ma emise solo un altro lamento sottomesso. Mi fece passare, poi si gettò sul divano, che dall’innaturale forma a conca doveva essere stato il suo letto fino ad un minuto prima.
Io andai verso l’angolo cottura e cominciai subito a preparare i cappelletti. Sistemai tutto in una grossa pentola, che probabilmente in origine era destinata alla cottura a pressione.
«Harry» lo chiamai, avvicinandomi al divano. Mi appoggiai allo schienale.
Lui si girò dalla mia parte, molto lentamente. Sbatté un paio di volte gli occhi.
Raccolsi la borsa che avevo lasciato lì vicino. «Ho appena messo su i capp-» Mi fermai subito, immaginando che lui non avesse la minima idea di cosa i cappelletti fossero, e avevo troppa fame e minuti di ritardo all’appuntamento con Poppy per stare lì a spiegare ad un inglese rintronato che cosa fossero. «La pasta» Mi corressi. «E’ in brodo, ti fa bene alla gola. Toglila tra otto minuti.»
Sperai avesse capito, e che non si sarebbe messo a scolarli. Feci per allontanarmi verso la porta, ma lui allungò una mano. Forse voleva prendermi il braccio, ma non fece lo sforzo di alzarsi per arrivarci.
Rinunciò, e il braccio ricadde a peso morto sulla coperta. Harry chiuse gli occhi, tornando a voltarsi. «Grazie.» Tirò su col naso, coprendosi il volto con il plaid. «Di nuovo».
Io gli feci un sorriso, anche se sapevo che non poteva vederlo, e andai fuori.
L’aria fredda mi sferzò il viso.
 
Non appena uscii dalla porta principale dell’università, a quelle che forse erano le quattro del pomeriggio, il cellulare squillò.
Continuai a camminare, distanziandomi un po’ dai miei compagni di corso. Trovai un angolo comodo e deserto,  vicino ad una piccola fontana. Mi sedetti sul bordo e tirai fuori il cellulare, premendo il tasto verde senza nemmeno guardare il numero.
«Pronto?»
Chiunque ci fosse al di là della cornetta, ci mise un po’ a rispondere. Sentii un sospiro, come se parlare gli costasse fatica. «Sono io».
Riconobbi subito la voce chiara e solida di Nikolai. Mi nacque un sorriso spontaneo. Avevo sempre adorato le chiamate o le visite a sorpresa, e da lui , che non le faceva quasi mai, le apprezzavo ancora di più. «Ciao» Cercai di mettermi più comoda sul cemento della vasca, e mi aggiustai i capelli, portandoli da una parte. «dimmi».
«Niente». Aveva ancora una volta un tono di voce strano, esitante. Niente.
Sollevai le sopracciglia. «Va bene». Risi, non rendendomi conto di quanto riuscisse forzato. Con solo due parole, era riuscito a creare tensione, e non ne capivo il motivo.
Nikolai fece uno schiocco con la lingua, abitudine che aveva preso da me. «Com’è andata oggi?»
Ci riflettei su per qualche secondo, cercando di pensare obbiettivamente. Nonostante mi fossi svegliata con un peso addosso, era stata una giornata normale. Noiosa, identica alle altre. «Non male» risposi sincera. «A te?»
Di nuovo, ci mise un po’ a replicare. «... In realtà» avvertii la sensazione che qualcuno mi stesse fissando. Mi guardai intorno, ma tutti gli altri studenti erano lontani. «sono qui».
Mi alzai subito in piedi, sistemandomi la gonna a pieghe. «Sei qui?» Ecco, questo davvero non era mai successo. Nikolai era sempre stata una persona estremamente precisa, riguardo le partenze e gli arrivi. Non affidava mai nulla al caso; se diceva che sarebbe stato a casa per una certa data, non sarebbe arrivato né prima né dopo, ed esattamente all’orario prestabilito.
«Girati».
Eppure, eppure era lì. Non appena mi ero voltata, era apparso davanti a me, con uno sguardo incredibilmente triste, afflitto e deciso allo stesso tempo.
Non seppi cosa dire.
Lo osservai, e basta.
C’era qualcosa di sbagliato, in tutto ciò. Non era il suo aspetto, come sempre curato e perfetto, come se fosse sempre pronto per un casting: Vans nere, zaino in spalla, una semplice maglietta bianca e jeans neri. Non era il fatto che la sua perfezione mi colpisse sempre di più, nonostante ormai dovessi esserci abituata.
C’era qualcosa di sbagliato nella sua espressione, nella sua posa innaturale, nella sua stessa presenza lì.
Pensai che ero solo io a farmi sempre dei problemi, per qualsiasi cosa.
Gli andai incontro, con un’espressione confusa, ma apparentemente felice. Lo abbracciai, con naturalezza, contenta di poter sentire di nuovo il suo profumo fresco.
Lui non mi strinse, ma rimase freddo, passivo.
Mi staccai. «Che c’è?» Cercai di non essere preoccupata, ci provai.
Fallii, e lui sembrò crollare.
Si stropicciò il volto con le mani, pizzicandosi la base del naso. «Che c’è, dici?» Ripeté, con qualcosa di sarcastico nella voce. «Che cosa c’è».
Io lo guardavo, ad occhi sbarrati, perché sapevo quello che stava per succedere. Lo avevo temuto per ormai tre mesi a quella parte. Non poteva essere di nuovo una mia paranoia, perché sembrava così reale.
Così terribile.
Così ovvio.
Presi un respiro profondo, cercando di calmarmi, cercando di fare finta di niente. Come se non avessi capito.
«Dimmelo». Però avevo capito, era questo il problema. Mi uscì una risata amara. «Avanti, su.» Mi umettai le labbra, rivolgendo lo sguardo ovunque tranne che su di lui.
Sentii lo stesso bene la sua voce. «Non ci riesco più». Con la coda dell’occhio lo vidi mettersi le mani in tasca e tirarle subito fuori. «A fingere che tutto vada bene. Che tu stia bene. E io...» Sorrise, triste. Per finta. Come poteva essere davvero dispiaciuto per me, per quello che stava succedendo, se era lui a causarlo? «Io non sono capace di sostenere questa storia. Non ce la faccio, e basta. E mi sento un verme» Si interruppe, e cercò di prendermi il braccio, per attirarmi a sé. Io lo strattonai, allontanandomi.
Era già abbastanza cercare di non piangere, di non fare la debole davanti a lui. Non avrei potuto reggere anche il contatto, e non volevo concederglielo. «Per favore, ascoltami». Sembrava supplichevole.
Lo guardai, disgustata. «Lo sto facendo. Non sono così vigliacca». Vedere i suoi occhi era la parte più difficile.
Mi misi dritta davanti a lui, raddrizzandomi e mettendo bene la borsa sulla spalla sinistra. «Continua». Era assurdo come proprio in quel momento riuscissi a mantenere il controllo, ad essere così acida.
E forse lui era davvero amareggiato, forse non era solo l’apparenza della sua espressione. «Mi sento un verme, ma so che io non posso aiutarti. Che ti faccio solo male, ci facciamo male». Pareva non sapere più cosa dire.
Mi morsi il labbro inferiore, forte. «Perciò» Iniziai, aspra come prima. «tu sei venuto fino a qui per dirmi questo? Per lasciarmi perché sono troppo malata? E l’hai scoperto dopo un anno e mezzo, che non riuscivi a sopportarmi?» Scaturì in me una forte voglia di fargli del male. Qualsiasi tipo di male. Ma non l’avrei fatto. Come avrei potuto, io? «Sei un codardo».
Fu l’ultima cosa che gli volli dire. Mi allontanai verso la folla, sbattendo gli occhi più del normale, per ricacciare indietro le lacrime prepotenti. Avvertivo le presenza di Nikolai dietro di me, che cercava di seguirmi –la voce confusa con mille altre- ma camminai il più in fretta possibile, lasciandolo dietro di me, lontano. Non mi accorsi che avevo iniziato a correre, sempre più forte, mentre la borsa mi sbatteva sul fianco e il fango che calpestavo schizzava il terreno intorno a me.
Corsi, fino a che una voce diversa, femminile e più dolce, non mi chiamò. Sembrava felice, contenta. «Belle, dove vai?» Nella calca in movimento, Poppy sembrava l’unico punto fermo, sorridente. Mi fermai. «Non ti ricordi? Hannah ci accompagna a casa».
Rimasi a bocca aperta, solo un attimo, prima di mettere su un sorriso. Ormai ero un’esperta. «Già, è vero. E io che credevo di perdere l’autobus.»
Lei rise, prendendomi a braccetto, mentre ci avviavamo al parcheggio. Attaccò a parlare di quello di cui aveva discusso a lezione, schivando abilmente le pozzanghere.
Solo una volta si distratte, voltando improvvisamente la testa. «Quello sembrava... » Si accigliò, poi scosse il capo. «Niente, è impossibile». Sapevo che aveva visto Nikolai, ma non dissi niente.
 
Per tutta la durata del viaggio in macchina tenni le mani fredde posate sugli occhi chiusi. Mi faceva stare meglio.






















N.d.A.

Non so sinceramente cosa dire su questo capitolo.
Sta tutto a voi.
Per favore, non siate troppo spietate.
E so che è corto, ma il prossimo sarà luuungo, prometto. E verrà sviluppato tutto.
_Hush

*Grazie, grazie a tutte quelli che hanno seguito/messo fra i preferiti/recensito questa storia.




















12 ottobre 2011, ragazza sconosciuta sull'autobus.
Scattata da Belle.

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Capitolo 9
*** Falling dust ***


*Soundtrack: Heart Shaped Box, Nirvana (http://www.youtube.com/watch?v=by6lyNC3D9Y)






09. Falling dust





La luce era così accecante.
Appoggiata alla porta-finestra della sala, la guancia schiacciata contro il vetro freddo, tenevo gli occhi chiusi, evitando quel bianco assurdo, innaturale, che era tutto intorno a me.
Non avevo notato la luce quasi artificiale di quel pomeriggio fino a quel momento, nonostante fossero già le cinque. Mi urtava gli occhi e risplendeva sulle superfici bianche dei mobili.
Ma non mi mossi; non abbassai le tapparelle, né cambiai stanza. Non mi andava.
Perciò rimasi lì, seduta sul pavimento, ad occhi chiusi.
Perché c’erano anche altre cose che non ero in vena di fare, in quel momento.
Non so, ad esempio riflettere su ciò che era appena successo.
O semplicemente pensare.
Respirare.
Qual’era stato, in fondo, il senso della discussione con Nikolai? Non riuscivo a trovarlo, o forse non volevo, per paura di scoprire che ero stata io, di nuovo, a fare un errore.
Ma se un senso non c’era, qual’era allora quello di ragionarci sopra?
Quello di fare ancora più confusione nella mia testa, più di quanta non ce ne fosse già?
L’unica cosa certa, in mezzo a quel rotolo intricato di pensieri che mi volteggiava per la mente, era il volto di Nikolai. Triste, forse per finta, forse per davvero; forse dispiaciuto per quello che stava facendo; forse nemmeno sapeva quello che stava facendo. Ma l’aveva fatto. E proprio il suo viso, con quella strana espressione, quasi illeggibile, si aggrappava solido ai miei occhi, senza voler andare via.
Faceva male.
Terribilmente. Però ero così sorpresa, orgogliosa di me stessa. Non avevo ancora pianto. Non potevo negare che le lacrime avessero iniziato a formarsi, sui bordi delle palpebre, ma non avevo pianto. Quella piccola, minuscola conquista, però, per quanto sul momento mi fosse sembrata importare, non contava niente.
Non contava niente.
Perché nonostante avessi avuto la forza di non cedere davanti a lui non avevo alcunché da festeggiare. Non riuscivo ad essere contenta di una sciocchezza simile, oppure ad essere forte quanto speravo, perché in ogni caso, non potevo negarlo, mi faceva male.
Faceva male sapere che ancora una volta non ero stata abbastanza.
Sapere che ancora una volta mi ero sbagliata nel giudicare una persona, che non mi ero fidata di me stessa, ma di lui sì, anche se nel profondo sentivo che lui non mi avrebbe mai accettata per quella che ero. Ovvero una ragazza bipolare, insicura, con dei problemi che probabilmente non sarei mai riuscita a risolvere perché non riuscivo davvero a capire quali fossero o la loro provenienza. Non riuscivo ad accettarmi io, come avrebbe potuto farlo lui? Tutta quella situazione doveva essere stata troppo per lui, i miei continui cambiamenti, le mie lamentele, quello che non dicevo ma che avrei dovuto dirgli, tutto, era stato tutto sbagliato. Io ero sbagliata.
E sapevo che non sarei riuscita a cambiare, perché non avevo nessuno che mi avrebbe sorretto. C’era stato lui, ma si era sempre tenuto distaccato, non mi aveva mai aiutata davvero, e la sensazione di benessere che avevo provato con lui, me ne accorgevo solo allora, era falsa, come i sorrisi che ero sempre costretta a fare. C’era sì Poppy, ma lei era un’amica. Qualcuno che mi sarebbe sempre stato vicino, a supportarmi, ma le tacevo molto, per non farla preoccupare. Ed era perciò di nuovo colpa mia, di me che non riuscivo ad aprirmi completamente.
Nikolai sapeva che non mi ero mai confidata del tutto con lui; forse una delle motivazioni per cui mi aveva lasciata, perché non mi sentiva abbastanza vicina. La nostra era stata una storia semplice, in verità. Uguale a tutte le altre, nulla di più, nulla di meno. E credevo che un po’ di normalità, con una persona così normale come era Nikolai, mi avrebbe aiutata. A diventare normale a mia volta.
Non aveva funzionato, e basta.
E allora, mentre quella luce accecante stava tramontando e la notte saliva, vorace, la mentre travolta da tutti quei pensieri maligni e veritieri, mi resi conto che non ne potevo più, di tutto.
 
Un mucchio di corpi mi urtavano contro, quando, piuttosto disperatamente, stavo cercando di raggiungere la porta del bagno di quel locale.
Ancora una volta, imprecando contro l’ennesimo tizio sconosciuto che cercava di strisciarmi addosso, mi chiesi perché fossi lì.
Lo squallido bagno mi irritò ancora di più, nonostante fossi abituata a quel genere di pub. Sbattei la borsa sul lavandino e mi guardai allo specchio. Non avevo un vero motivo per andare in bagno, semplicemente volevo allontanarmi da quella confusione senza scopo, il più possibile. La musica dei Guns N’ Roses arrivava attutita da dietro la porta bianca. Cercai di ignorarla, provando a fare spazio e silenzio nella mia mente. Avevo bevuto solo un drink leggero, ma già la testa mi irritava.
Aprii il rubinetto d’istinto, lasciando scorrere l’acqua per qualche istante. Lo girai a fredda e mi rinfrescai le guancie, provando a non disfare il trucco. Chiusi l’acqua e rimasi immobile, a fissarmi allo specchio.
Ero più pallida del solito, sotto le lentiggini. Anche la bocca era esangue, e le dita gelide.
La ragazza nello specchio fece un’espressione disgustata e mi voltò le spalle.
Inspirai a fondo e mi aggiustai il chiodo di pelle nera, afferrando la borsa. In quel momento, il cellulare squillò. Controllai sullo schermo e scoprii che era Poppy.
«Eh». La voce mi uscì roca, e mi grattò la gola. Cercai di schiarirla, con poco successo. Urtai il cestino con il piede, per la frustrazione.
Poppy urlava, cercando di sovrastare il rumore. «Ma dove diavolo sei finita? Non ti vedo da venti minuti». Ebbi il sospetto che lei avesse intuito qualcosa, e che perciò si stesse preoccupando di conseguenza. Mi ero comportata in modo strano tutta la sera, diventando più distaccata del solito con gli altri, ed eclissandomi eccessivamente. Per non parlare di quanto avesse dovuto insistere per convincermi ad uscire. L’unica motivazione che ero riuscita a darle, per non andare al pub con lei, era che non mi andava. Mi sentivo uno schifo per non essere ancora riuscita a parlarne con lei, ma non ci riuscivo. Semplicemente, non ci riuscivo ancora. Perché temevo una sua esagerata apprensione, perché non volevo che mi rinfacciasse tutte le volte che mi aveva avvertita su Nikolai.
Di sicuro aveva percepito che qualcosa non andava. Forse, però, nemmeno lei voleva affrontare l’argomento, temendo di innervosirmi ancora di più.
Diedi un calcio alla porta, spalancandola e probabilmente colpendo un paio di persone che stavano dietro. «Sto arrivando». Risposi, in tono abbastanza neutro e freddo. Chiusi la chiamata e gettai sgraziatamente il Blackberry nella borsa.
Sgusciai fra le persone, senza accorgermi di nulla, gli occhi quasi velati, fino a che non raggiunsi il tavolo da cui spuntava la chioma blu di Poppy; lei mi diede un’occhiata indecifrabile. Mentre mi sedevo sul bordo del divanetto rosso, avvertii lo sguardo degli altri ragazzi.
Sistemai la borsa in un angolo e chiusi gli occhi, stretti, sperando che non iniziassero di nuovo a chiedermi come stavo, o che cosa avevo. Quello che desidero, però –lo sapevo bene- non si avvera mai.
James, seduto di fronte a me, diede una scorsa veloce agli altri, poi tossicchiò, ma non disse niente. Io sollevai un sopracciglio. «Che c’è?» Questa volta mi rivolsi a tutti. «Che c’è, ancora?»
Proprio lui mi rispose, scrutandomi con quei suoi assurdi occhi azzurri. «Niente». James era un ragazzo adorabile, di un anno più grande della maggioranza di noi. Veniva da una ricca famiglia londinese, che lo viziava ed adorava. Di bell’aspetto, alto, la pelle lattea, i capelli neri e mossi, e quegli occhi color azzurro ghiaccio che davano i brividi. Era una persona particolare, molto concreta e che capiva al volo le situazioni.
Anche se avesse provato a chiedermi di nuovo come stavo, sapeva bene che non gli avrei detto la verità. Lo ringraziai silenziosamente, evitando lo sguardo grave di Hannah mentre Ben, un altro compagno di corso con cui da poco si era messa insieme, continuava a non capire, o a fare finta. Mi sfuggiva sempre, e io sapevo che era perché, in un qualche modo, gli mettevo paura.
Mi trovava inquietante, come la maggior parte delle persone normali. Persino un professore, a scuola, mi aveva chiesto di smettere di guardarlo con i “miei occhi spiritati”. Lo ricordo bene, aveva detto proprio così. E non era stato l’unico; il barista del caffè dove facevo sempre colazione, amiche. C’era qualcosa di troppo che lasciavo sfuggire di me, delle mie emozioni, nei miei occhi, e questo infastidiva. Ma quella ero io, e non sapevo cosa farci. Da troppo tempo mi odiavo senza poter far nulla per cambiare.
 
Presi un altro sorso del mio White Russian, ormai quasi finito. Cercai di cancellare con il pollice destro le impronte di rossetto che avevo lasciato sul bordo, ma dopo poco rinunciai, scocciata. “Chanel è resistente” pensai ridacchiando.
Ben mi guardò con gli occhi spalancati. Chissà, forse lo aveva turbato il fatto che ridessi da sola. Ammiccai nella sua direzione, sogghignando. Eravamo rimasti da soli al tavolo, e avevo la tentazione di infastidirlo. Sapevo che non avrei dovuto, per Hannah, ma mi andava.
Stavo per avvicinarmi a lui, scavalcando il mucchio di giacche, ma mi sentii afferrare per una manica del chiodo. Mi voltai di scatto, e vidi James che mi sorrideva, il viso alla mia altezza. «Vieni» mi prese la mano e mi fece alzare. Lo seguii, piuttosto docile.
Arrivammo alla parte opposta della sala, dopo che quasi mi ero fatta infilzare dalla cresta verde di un tipo, e mi ritrovai a ballare con James, senza averci pensato molto su. Era da almeno un’ora che non pensavo più adeguatamente come avrei dovuto fare; una delle motivazioni per cui continuavo a bere.
Ballai, senza pensare al tempo, ma solo alla musica. Adoravo quella sensazione di vuoto nella mia mente, vuoto completo, dove scorrevano solo note, non più pensieri sbagliati, non più il suo viso. Niente.
Solo più tardi, a un tempo imprecisato, mi accorsi delle scritte che costellavano la parete scarlatta. Scritte grandi, di ogni colore, spesso citazioni da canzoni, o motti di vari movimenti giovanili.
Sono sicura che mi brillarono gli occhi, e mi comparve addosso un sorriso entusiasta. Fissai la parete, poi corsi velocemente a recuperare un pennarello nero che tenevo sempre in borsa. Ci misi un po’ a trovarlo, ma dopo averlo scovato tornai da James, che rideva rivolto a me, stupito.
Risi anch’io, senza motivo. Gli feci cenno di abbassarsi verso di me, e lui mi accontentò, rivolgendomi la schiena. Io gli montai a cavalcioni sulle spalle, sicura di poter stare su. Quando si alzò, ondeggiammo entrambi, e mi aggrappai violentemente al tessuto della sua maglietta; scoppiammo di nuovo a ridere. Lui si stabilizzò e io gli diedi un colpetto ai fianchi, per farlo andare avanti. Oscillammo ancora, ma questa volta James sembrava più solido. «Su, avvicinati al muro».
Come risposta lui mi diede un pizzicotto sulle gambe e obbedì.
Avevo ormai scritto tutte le prime quattro strofe di About a Girl dei Nirvana quando la voce di Poppy ci gridò addosso. «Belle, scendi!» Aveva qualcosa di isterico. «Siete tutti e due ubriachi,vedi che adesso cadi. Vieni giù!»
Girai la testa verso di lei, mentre James si appoggiava al muro. «Certo che cado, se gufi» masticai, rimproverandola. Tornai a rivolgermi al muro, iniziando a scrivere la quinta strofa.
Poppy puntò una mano minacciosa a James. «Falla scendere, subito» sibilò.
Lui fece un gesto noncurante con le mani e si inginocchiò di nuovo. «Ah, come ti pare». Io sbuffai e schioccai la lingua, contrariata, ma senza la forza di protestare di più.
«Poppy, mi vuoi bene?» Le sussurrai all’orecchio, appoggiandomi al suo braccio sinistro.
Lei non poté fare a meno di sorridere, poi mi scrollò di dosso. «Oh, per favore».
 
L’aria fredda, che mi sferzava la faccia entrando violenta dal finestrino aperto, mi aveva snebbiato leggermente la testa. Ben si lamentava per il freddo, seduto sul sedile vicino a me, e io lo ignoravo palesemente. Hannah e James, nella parte anteriore, ridevano; Poppy era silenziosa.
Mi lasciarono circa ad un isolato da casa, perché il mio quartiere era interdetto alle macchine da mezzanotte in poi, e il vigilante della zona ci avrebbe di sicuro sentiti. Scesi dalla macchina, accorgendomi che perlomeno non avevo le gambe molli. I ragazzi mi salutarono, e Poppy mi lanciò un’occhiata eloquente. «Passo domani, verso mezzogiorno».
Io iniziai ad incamminarmi. «’Notte».
La luce giallognola e disturbata dei lampioni illuminava il marciapiede a tratti, lasciando ampie zone d’ombra. Io saltavo dall’una all’altra, dondolando sulla striscia del bordo d’asfalto bianco, un piede davanti all’altro e le braccia aperte, come da bambina.
Le chiavi, infilate per l’anello che le univa sull’indice, tintinnavano contro la cerniera della giacca.
Immaginai di essere su delle rotaie che mi portavano lontano.
Notai, ormai arrivata alla mia sezione di case, due figure vicine, quasi davanti alla mia porta. Indifferente, proseguii.
La coppia non mi notò, ma i due continuarono a baciarsi e a sussurrarsi qualcosa di tanto in tanto. Io bloccai il flashback di Nikolai sul nascere, però fece male lo stesso. Scossi la testa, per scacciare quei pensieri, ma quelli rimasero in un angolo, non prepotenti, ma infidi e non nascosti per davvero, come un motivetto che non vuole andarsene e ti tormenta per tutto il giorno.
«Sei sicura che non vuoi entrare?» La voce bassa di Harry cercò di convincere la piccola ragazza che stringeva in un abbraccio.
«Mi dispiace, davvero, ma devo tornare a casa …»
Incredibilmente, riuscii ad ignorarli. Volevo ignorarli. Le loro voci scomparvero, loro scomparvero, rimasi solo io e quel silenzioso marciapiede. Non mi accorsi nemmeno di averli superati, fatto le scale ed essere arrivata davanti alla mia porta fino a che non vidi quel verde acceso davanti ai miei occhi.
Sentii che qualcuno saliva le scale di fianco, lentamente, e mi voltai, stanca. Harry aveva iniziato ad armeggiare con le chiavi, l’espressione a metà fra il ghigno e l’insoddisfatto. Non riuscivo nemmeno ad essere sorpresa del fatto che si fosse ripreso così in fretta, in fondo anche io mi ero rimessa presto.
«In bianco, mh?» Mi sfregai gli occhi, poi afferrai di nuovo le chiavi.
Lui rise. «Sfiga» Rispose, senza nemmeno guardarmi. «A te com’è andata?»
Io rimasi in silenzio, infilando la chiave più grande nella toppa, mentre lui faceva lo stesso. Solo allora, sentii il suo sguardo che si concentrava sul mio viso. Mi studiò, mentre trafficavo con la serratura, l’annebbiatura da alcol tornava e il volto di Nikolai mi ritornava in mente, così disperato e distante.
«Stai bene?»
Quante volte avevo sentito quella domanda, durante il corso della serata? Quante volte ero stata insincera, non solo quel giorno, ma in tutta la vita? Sentivo che tutto quello che non avevo detto stava crescendo dentro di me, rabbioso, confuso, cieco.
Smisi di affaccendarmi con le chiavi e mi bloccai, le mani che tremavano leggermente, e mordendomi forte le guancie. Con uno scatto mi allontanai dalla porta. «Sai che c’è?» feci un riso amaro. «C’è che no, no, non sto bene. Per niente. Fa tutto schifo.» Non mi posi il problema di quello che poteva star pensando. Il fiume di parole continuò ad uscire. «Sai, magari a te che sei una star non frega assolutamente un cazzo della mia vita, ma il problema è che a nessuno frega della mia vita. Nemmeno a chi dovrebbe. E io sono così stanca di tutto questo, di essere circondata da persone false a cui non importa niente di me, non per davvero. Sono stanca anche di me stessa, non so nemmeno cosa sto dicendo … » Scossi la testa, e i capelli svolazzarono. «E poi torno a casa, dopo una giornata di merda, non mi ricordo già più cos’è successo stasera, e sai perché, perché quello stronzo mi ha lasciata così, come se fossi una fottuta bambola di plastica che aveva già sfondato, e io non l’ho ancora detto a nessuno perchè tutti mi avevano avvisata su di lui, e so che l’ho perso per sempre e che lui non mi merita e blablabla, in verità sono io a non meritare nessuno, e ho bevuto, so solo questo, e allora torno a casa e tu ti limoni con una» la mia voce si alzava di parola in parola, senza farlo apposta. Non era giusto, lo sapevo, mi stavo rifacendo con qualcuno che non c’entrava niente, ma era lì, ed era capitato al momento sbagliato. Gridavo, forse, e sentivo lacrime di rabbia e disperazione scorrermi sulle guancie, senza che mi fossi accorta di aver finalmente iniziato a piangere. «e sembri così contento, cazzo, e anche lei, e io continuo a non capire perché non posso essere così anche io, COS’HO DI SBAGLIATO? COSA?» Le lacrime uscivano sempre più forti, senza controllo.
Accecata dal pianto, non mi ero resa conto che Harry non era più lontano, sul suo pianerottolo di scale. Non lo vidi arrivare, sentii solo il suo abbraccio forte e dolce intorno alle spalle. Io rimasi passiva, spossata e debole, la testa appoggiata al suo petto.
Avvertii la sua mano che mi prendeva le chiavi dal palmo e le infilava nella toppa, senza mai staccarsi da me. Mi portò dentro casa, delicato, poi fu il buio.
 
 
 
 
 
p.o.v. esterno
 
Nella camera ci sarebbe stato il nero completo, se non fosse stato per quelle piccole lampadine arrotolate sulla testiera di ferro del letto. Creavano un’ombra calma, surreale, da favola.
Anche con quella poca luce, Harry vedeva bene Belle, stesa al suo fianco. Aveva il trucco leggermente sbavato intorno agli occhi, i capelli ricci tutti sparsi intorno al cuscino ed intrecciati, il vestito stropicciato. Il viso ora era calmo, immerso nel sonno, ma aveva ancora quell’espressione di eterna tristezza che non la lasciava mai.
Continuò ad osservarla, mentre fuori dalla finestra pioveva forte e le tende bianche rendevano tutto offuscato. Belle si agitò e afferrò stretto il cuscino, artigliandolo. Harry, da seduto che era, si sdraiò, appoggiando la testa al braccio destro, rivolto verso di lei. Le prese la mano e la staccò dalla federa, lentamente.
La strinse, portandola al fianco. Restò lì, nella penombra, respirando piano. Lei era così fragile.












N.d.A.

Va bene, lo so, lo so che ci ho messo un sacco a pubblicare questo capitolo. So anche che è strano.
Però a me piace, davvero. Non posso farci nulla.
E poi è lunghino, no? *sbatte le ciglia*
Spero che vi piaccia, sono piuttosto ansiosa. Ah, spero che sia sia notato il progressivo cambiamento di Belle durante il capitolo, e che si capisca che l'alcol ha fatto un certo effetto. Sappiatemi dire <3

Detto ciò.
HANNO VINTO,HANNO VINTO! NON RIESCO ANCORA A CREDERCI!
Sono così contenta per loro, sono sicura che anche voi vi sentite così.
Ahhhhhh.
Ahhh.
Ah.

_Hush













17 settembre 2011, James.
Scattata da Poppy.

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Capitolo 10
*** Hide, I ***


*Soundtrack: Take a Bow, Greg Laswell (http://www.youtube.com/watch?v=OBX49QLEPjg)
Buona lettura!






10. Hide, parte I





Mi svegliai lentamente, uscendo dai sogni pian piano, a passi contrari e in modo incerto. Non ricordavo nulla di quello che avevo sognato la notte, in testa avevo solo le tenebre più complete e da esse mi ero districata male.
Non avevo realizzato di essere completamente sveglia se non alcuni minuti dopo, e neppure allora mi alzai subito dal letto. Rimasi immobile, sotto le coperte pesanti e calde che la sera prima sicuramente non c’erano, a guardare il nero nella stanza di fronte a me, senza un motivo particolare. Stavo solo fissando il buio.
Ancora più tempo mi occorse per realizzare ciò che era accaduto il giorno prima. Non volevo, non volevo tornare a pensare a Nikolai. Mi obbligai ad accantonarlo di nuovo in un angolo, perché ancora, infantilmente, non avevo il coraggio di affrontare la situazione.
Scendendo lentamente dal letto tiepido mi diressi verso la finestra, a tentoni. Erano spente persino le lucine intrecciate alla testiera, e con difficoltà aprii gli scuri. La luce forte di quel mattino mi investì, infastidendomi gli occhi.
Rimasi per un po’ ferma, il viso mezzo fuori dai vetri, lo sguardo perso fra le chiome degli alberi che svettavano dal parco di quartiere. Mi sedetti sul pavimento, mi accucciai contro al muro, la testa poggiata sulle ginocchia, e provai a ricordare cosa fosse successo la sera prima, ma comparve lo stesso buio dei sogni. Provavo solo la sensazione di aver fatto qualcosa di sbagliato. Il che non era una novità, tuttavia unicamente un altro motivo per prendermela con me stessa.
Cercai di non pensare nemmeno a quello, perché sapevo che non ero nella condizione di sostenerlo.
Rimasi sul pavimento freddo per parecchi minuti, perché la percezione di gelo mi faceva stare meglio. Quando finalmente mi decisi a rialzarmi, ondeggiai leggermente, malferma. Mi diressi lentamente in bagno per fare una doccia e cambiarmi dai vestiti che portavo della serata precedente, e lo sguardo mi cadde sul letto. Il lato su cui io non dormivo era intatto ma stropicciato, e il cuscino era stato tirato fuori da sotto le coperte.
Provai una strana fitta allo stomaco.
“Harry”.
Se ne era andato.
Sapevo che non avrei dovuto sentirmi dispiaciuta, eppure non riuscivo a scacciare quella sensazione spiacevole dallo stomaco.
Solo poco avevo rammentato di lui in quel momento; il ricordo offuscato di un abbraccio e la sua presenza accanto a me, per tutta la notte, come una costante. Era stato semplicemente lì, sempre. E rendeva ancora tutto più confuso. Perché non sapevo cosa voleva dire, perché non era normale che qualcuno si preoccupasse così di me, dopo sole due settimane di conoscenza, perché era strano per me essermi aperta così tanto, ed iniziavo già a sentire la paura.
 
La doccia non mi aiutò.
Indossato un maglione ed un paio di pantaloni della tuta freschi e morbidi, mi sedetti sul bordo del letto. Mi strizzai gli occhi con le dita e portai le mani alle spalle, fissando la porta bianca.
Qualcuno bussò e sobbalzai eccessivamente.
Mi alzai in fretta a la aprii, l’espressione corrucciata. Mi ritrovai Harry davanti, già cambiato, lo sguardo sorpreso.
Io non riuscii a dire niente.
Lui scosse i capelli e mi sorrise, avvicinandosi. «Buongiorno …» Sembrava improvvisamente imbarazzato e aveva la punte dei piedi, fasciati in All Star bianche, rivolte all’interno. Mi ricordò un bambino sorpreso a fare qualcosa che non doveva, come mangiare tutta la marmellata di nascosto in dispensa. «Non volevo disturbarti. Il fatto è che ti ho preparato la colazione, di sotto, e avevo sentito dei rumori, perciò …»
Io lo interruppi, guardandolo negli occhi verdi che mi sfuggivano, sorvolando gli oggetti della mia camera. «Sei rimasto, di nuovo».
Lui mi fissò per qualche secondo, prima di rispondere. «Sì.»
Ancora non seppi che cosa rispondere. Non feci altro che fissarlo di rimando e gli sorrisi. Gli sorrisi per davvero, mentre gli occhi mi si appannavano leggermente. Gli sorrisi e basta, senza avere la minima idea di quello che stessi facendo o provando.
 
Feci colazione, mentre lui sgranocchiava qualche biscotto seduto di fronte a me.
Aveva preparato un paio di toast con uova, che finii presto, perché mi scoprii divorata dalla fame. Harry non smise di guardarmi un minuto, mentre mangiavo, ed io non potei fare a meno di sentirmi a disagio. Non sapevo dire se avrebbe voluto parlare della sera prima, o chiedermi qualcosa, o mandarmi al diavolo per avergli fatto perdere tempo. Magari era rimasto solo perché altrimenti si sarebbe sentito in colpa, oppure perché temeva che sarei andata dire qualcosa alla stampa. Oppure magari dovevo smetterla di pensare certe cazzate.
«Sei bravo a cucinare.» Ah, che patetico tentativo di deviare i pensieri. Non riuscii a fare di meglio.
Lui ignorò la mia affermazione. Appoggiò il viso al palmo della mano destra, picchiettando leggermente  le dita dalla sinistra sul tavolo di cucina, sul quale ci eravamo sistemati. «Come stai?»
Questa volta, la domanda non mi infastidì, non so per quale motivo. Forse perché la percepivo come sincera –no, era sincera, doveva esserlo-.
Io risposi con verità. «Non lo so. Non ne ho idea». Mi sfregai la fronte con le mani, per poi spingere lontano la sedia dal tavolo. «Credo solo di non avere voglia di vederlo». Mi resi conto, in quel momento, che ad Harry non avevo spiegato niente. Non sapeva sulla di quello che era successo veramente, se non quel poco che avevo urlato e che al solo pensiero mi paralizzavano. Gli dovevo un chiarimento. «Senti, io, ieri sera …» Deglutii a vuoto e mi impedii di iniziare a gesticolare. «Non so come scusarmi. E’ successo …» Mi ero bloccata, involontariamente. Non riuscivo ad andare avanti, faceva male.
«Non devi farlo» Alzai di scatto la testa verso di lui. «Sul serio, non c’è ne bisogno». Lo ringraziai con lo sguardo. Non mi sentivo pronta, ecco la verità. Non riuscivo a far accettare l’idea nemmeno a me stessa.
Feci un sospiro profondo e rimasi in silenzio.
Controllai l’orologio appeso sulla parete alle mie spalle e sussultai, accorgendomi di essere in ritardo per patologie generali. Erano già le dieci passate. Non avevo alcuna voglia di andarci, o addirittura di uscire semplicemente di casa, ma non potevo saltare un’altra lezione, sapendo che mio padre controllava le mie presenze sul sito dell’università. Mi sentivo braccata, si era già arrabbiato per quei due giorni di assenze dovute all’influenza, e quello che mi mancava era proprio un’altra sua sfuriata irragionevole.
Mi alzai adagio, apatica. «Devo andare a lezione».
Harry seguì il mio esempio e guardò l’ora a sua volta. «Anche io devo andare, sarei già dovuto essere in studio» Sembrava piuttosto reticente di andare via.
Presi la borsa e andai fino alla porta con lui, senza dire nulla.  Mi sembrava così strano che lui non avesse bisogno di spiegazioni, di parlare di quello che era successo, di chiarire. Mi sembrava strano che non volesse prendere le distanze da una come me.
Solo quando stavamo per separarci, io a prendere l’autobus e lui –supposi- la sua macchina, mi fermò, toccandomi leggermente il braccio. Eravamo in mezzo alla strada deserta e il rumore delle auto era lontano. «Ti va di cenare con me e Louis, stasera?» Aveva uno sguardo così limpido e sincero, in un modo incredibile. Quella volta, non c’era ombra di malizia.
Dissi “sì” senza nemmeno accorgermene. Fu come liberarmi da un peso.
 
All’università, Poppy rimase alquanto sorpresa nel vedermi arrivare. Disse che la sera prima era andata a casa preoccupata,e che mi aveva promesso di venirmi a trovare verso mezzogiorno, se non mi fossi fatta vedere prima. Anche gli altri mi studiarono attentamente, ma io riuscii a rimanere sorprendentemente tranquilla, senza lasciar trapelare nulla, forse perché sul momento non ne sentivo il bisogno. Allora, non mi ero ancora resa conto che era stato grazie alla presenza di Harry.
Solo più tardi, mi informai su quello che avevo fatto la sera prima al pub, senza essere poi così interessata. Lo feci più per Poppy, che sembrava ansiosa di rimproverarmi, come accadeva sempre dopo che prendevo la sbornia. Mi disse che non aveva fatto altro che frenarmi per tutta la sera, non perché avessi bevuto di molto più del solito, ma perché , sue parole, avevo la tendenza a dare il peggio di me. Fortunatamente, l’unica cosa che avevo rischiato, sfuggita alla sua supervisione, era di cadere dalle spalle di James.
Notai che quel giorno lui non era al campus.
Le ore scorsero lente e noiose, facendo crescere in me l’insofferenza. Non riuscii a seguire le lezioni, e la mia utilità fu quella che potevo dare stando a casa. Scarabocchiavo sui quaderni degli appunti, senza concludere un disegno vero e proprio e sentendomi irritata per la mia mancanza di ispirazione, anche se sapevo a cosa ero dovuta. Non riuscivo affatto a concentrarmi, da quando mi ero svegliata.
Alla fine dei corsi, Poppy mi bloccò all’uscita. Forse pensava di cogliermi impreparata, ma mi ero già prestabilita la risposta al suo interrogatorio.
«Che cos’hai, Belle?» Sembrava così profondamente preoccupata. E lo era, ovviamente. Però non volevo dirglielo, non ancora. Mi diedi dell’egoista più volte durante il corso della giornata, e lo aggiunsi alla lunga lista delle mie caratteristiche negative. Il fatto era che non volevo deludere anche lei. E temevo che sarebbe stata delusa, che mi avrebbe rinfacciato quanto spesso mi aveva avvisata su Nikolai. Mi odiavo anche per la poca fiducia che le davo, ben sapendo che lei non avrebbe mai fatto una cosa simile.
Mi morsi la lingua. «Posso … Posso spiegarti tutto un’altra volta? Domani.» Sospirai. «Per favore».
Poppy mi guardò per un lungo momento, senza espressione. Poi annuì, quasi a se stessa, mi abbracciò, e si allontanò leggera sui propri passi.
 
Il resto della giornata passò senza farsi notare, come se il tempo si stesse nascondendo da me. Io lo lasciai fare, perché non avevo alcun desiderio di allungare quella pena.
Arrivai a casa quasi senza rendermene conto, e così anche giunse la sera. Non pensai nemmeno a cambiarmi per la cena, semplicemente perché non ne sentii il bisogno.
Il sistema di Harry per chiamarmi fu quello di gridare dal giardino, e fu anche la seconda volta in un giorno che mi fece prendere uno spavento.
Non commentai e mi alzai pigramente dal divano, raccogliendo le chiavi dal tavolinetto posizionato lì accanto. Uscii di casa e suonai il campanello, solo allora titubante.
Forse non avevo fatto bene ad accettare. Forse ero stata troppo impulsiva, non ci avevo riflettuto abbastanza. No, in effetti non ci avevo proprio riflettuto e adesso ero lì a rimpiangere la mia scelta, da povera idiota che non pensa prima di agire.
Non feci in tempo a trovare una soluzione, una qualsiasi deviazione, perché la porta si aprì, e il volto gentile e sbarazzino di Louis apparve.
Credevo, ed ero quasi sicura, che Harry gli avesse detto che cos’era successo, del mio enorme motivo di imbarazzo nell’essere lì da loro. Eppure lui sembrava a suo agio, splendente, in una semplice maglietta a righe e un’aurea rassicurante.
Lo salutai con un cenno della mano e un sorriso di labbra, e lui ricambiò. «’Sera! Vieni, entra». Si scostò e mi fece passare.
Appena varcata la soglia, notai subito il cambio di temperatura. C’era quasi più freddo lì dentro che all’aperto. Quando rabbrividii, Louis mi diede subito la spiegazione. «Harry soffre di caldo. Parecchio».
Mi venne da sorridere. «Non c’è problema. Anche io».
«Parlate di me in mia assenza, mh?» Harry spuntò da dietro una porta, notevolmente spettinato e in pantaloni da ginnastica. Sapevo di aver fatto bene a non cambiarmi.
Si avvicinò ridendo e scambiandosi occhiate con Louis. Io mi limitai a guardarli, conscia del fatto che mi stava sfuggendo qualcosa.
 
Durante la cena, mi sorprese il modo in cui loro due riuscivano a trattarmi. Fu proprio quello, probabilmente, che mi spinse ad aprirmi e a raccontare finalmente della rottura con Nikolai in modo più adeguato di quanto non avessi fatto.
Non mi guardavano come se fossi qualcuno di strano, di inquietante, di sbagliato, come la maggior parte delle persone faceva, né Harry provò ad ignorare quanto fossi debole ed in una situazione precaria, proprio la sera prima. Ci sarei stata abituata, in ogni caso, perché chi non era preoccupato da me, voleva solo lasciare il problema dietro e fare finta di nulla.
No, loro furono normali. Puri, come riusciva ad essere Poppy.
E allora parlai di come quella relazione andasse male, da troppo tempo, di come io fossi stata cieca e stupida, e lo feci perché in quel momento non provai paura, per una volta, ma solo bisogno di parlare. E loro ascoltarono, discreti, lasciandomi liberare da quelle parole che non sopportavo più.
Mi trovai a mio agio con loro come non mi ero trovata da tanto tempo con qualcuno che non fosse Poppy. Non sapevo cosa voleva dire, però.
 
Erano ormai le undici e stavo per andarmene, quando delle improvvise grida e risate arrivarono da dietro la porta d’ingresso. Louis ed Harry si guardarono, preoccupati, come se sapessero già chi fosse arrivato.
Ci accostammo tutti in fretta alla porta e loro due sbirciarono nello spioncino, spingendosi a vicenda per farsi spazio e vedere meglio.
Harry brontolò. «L’hanno già trovato». Si agitavano ancora davanti allo spioncino, stuzzicandosi come bambini.
Io alzai le sopracciglia, perplessa. «Cosa?»
«Il nuovo appartamento di Harry». Louis si staccò e lasciò Harry a guardare fuori, appiccicato alla porta.
«Pensavo abitaste insieme, non … Ah, boh.» Rinunciai presto a ricordarmi che cosa esattamente Louis mi avesse detto quella volta che gli avevo portato la torta. Non avevo nemmeno idea di che cosa avevo mangiato a pranzo.
Lui tirò Harry per la maglietta, dandogli dell’idiota e dicendogli di smetterla di guardare le ragazze. «In realtà, io sono stato qui solo per poco. L’ho aiutato con il trasloco».
«Era troppo drastico separarci così, Lou».
«Lo so, Harry». Era l’ennesima volta che deviavano dal discorso in quel modo, anche durante la cena. Sembravano di fatto una coppia.
Io agitai una mano, indicando la porta. Le urla erano più attutite, ma si sentiva che c’era ancora qualcuno, di là. Mi premeva la curiosità di andare a vedere, ma mi trattenni. «Quindi, quelle, sono fan?»
Loro annuirono all’unisono.
«Sì» Continuò Louis «è meglio che tu non esca di lì. So che non è molto gentile, ma cosa ne dici di passare di nuovo dalla rete?»
Io accettai con una scrollata di spalle, valutando che era di certo un’opzione migliore dell’essere assalita dalle fan che, a quanto capii, mi avrebbero fatto ogni genere di domanda, semplicemente per essere uscita dalla porta di Harry.
Lo salutai, quasi con una certa fretta.
Mentre Louis mi accompagnava in giardino mi voltai indietro, camminando, e vidi che Harry mi seguiva con lo sguardo, da dietro la porta-finestra.
Lo osservai di rimando fino a che non mi accovacciai per passare dall’altra parte della siepe.
Una volta passata, allungai un braccio per far abbassare Louis alla mia altezza. Quando fu al livello del mio viso, evitai il contatto con i suoi occhi. «Grazie».
Lui mi afferrò inaspettatamente la mano, stringendola fra le sue calde per un momento. «Se hai bisogno, noi siamo qui» disse piano, serio.
Era una frase scontata, e l’avevo già sentita troppe, troppe volte.
Gli credetti.
E quando realizzai di averlo fatto,allora ebbi paura.
Non seppi nemmeno di avere gli occhi spalancati, mentre mordendomi nervosamente un labbro ritiravo la mano e gli mormoravo un “buonanotte”.
Ritornai veloce in casa, lasciando la porta aperta dietro di me, per distrazione.
 
Ricordo un lontano giorno di scuola, alle superiori.
Era una bella mattina luminosa, e la luce forte rendeva piacevole persino la forzata presenza fra le mura del mio liceo.
Stavamo facendo un gioco. Una sciocchezza, in verità. Non varrebbe nemmeno la pena di essere nominata.
“Quale animale saresti?” Un’idea rubata da un test da giornalino, probabilmente. La regola era di andare a carattere e possibilmente far combaciare anche l’aspetto. Mi piaceva, mi divertivo a immaginare tutti i miei compagni come volpi, gatti, pettirossi.
Il mio turno arrivò alla fine.
Fu curioso, perché nessuno riuscì a far combaciare la propria opinione con quella degli altri. C’era chi mi dava del lupo per gli occhi, chi della gatta.
Ricordo con esattezza quello che disse il mio compagno di banco, e che mi colpì più degli altri.
Disse che io, in realtà, ero solo un topolino.
In quel momento non dissi nulla, ma restai in silenzio.
Gli chiesi la motivazione solo qualche giorno dopo.
«Perché scappi» disse lui, giocherellando con una penna. «Corri di qua e di là, frenetica. Annusi l’aria, non le persone, e appena qualcuno ti si avvicina, ti nascondi».
Ricordo che fu allora che iniziò il gioco del mio nascondino.


















N.d.A.

*Questo capitolo è orrendo, fa schifo, ci ho messo una settimana a partorirlo, il travaglio è stato dololoroso ma fa schifo. Dimenticatelo, saltatelo, ignoratelo, se non l'avete già fatto non leggetelo. Argh.
*Suppongo abbiate notato quello strano "parte I", ovvero prima parte, di fianco al titolo. Questo perché compreso il corrente ci saranno tre capitoli intitolati "Hide". Il perché si capirà con il terzo. Nooon preoccupatevi :D
*Vorrei ringraziare dal profondo le nove persone che si sono messe lì a recensire lo scorso capitolo, più tutti quelli che seguono la storia e l'hanno messa fra i preferiti, e i centinaia di visitatori. Wow.
*Attenzione: seguitemi tutte su Twittah, qui: https://twitter.com/#!/Aria_Kerouac . Potete farmi ogni genere di domanda sulla storia e sui personaggi. Vi followerò subito (:
*Infine, anche se non c'entra nulla, vorrei esprimere il mio dispiacere per la recente perdita nella famiglia Malik. So che non serve a nulla, ma i nostri pensieri gli sono vicini.

_Hush












 

 
 
 

 

1 Luglio 2011, Hannah -con il vecchio taglio.
Scattata da James.

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Capitolo 11
*** Hide, II ***


*Soundtrack: Make it without you, Andrew Belle (http://www.youtube.com/watch?v=tGXWr6Ixg60)
Buona lettura!





11. Hide, II





Era da un po’ che continuavo a punzecchiare quel trancio di pizza con il coltello, staccandone di tanto in tanto pezzettini di mozzarella e lasciandoli sparsi per il piatto di plastica bianca. La fetta di margherita era ancora intera, senza nemmeno un morso o un taglio, sebbene l’avessi ordinata da più di un quarto d’ora.
Doveva essere ormai fredda.
Le diedi degli altri colpetti con la lama, quasi come a voler far dispetto al cibo.
Sentii lo sguardo contrariato di Poppy, al di là del tavolo verde mela della caffetteria del campus. Appallottolò un tovagliolo e me lo lanciò a sorpresa, facendomi rizzare sulla sedia su cui prima ero piegata, ingobbita come Quasimodo. «Che hai?» sbottò, con un tono di voce che voleva essere duro.
Gettai il coltello in mezzo al piatto, risvegliandomi dall’apatia in cui ero caduta. «Niente. Non ho fame».
Lei masticò rumorosamente l’ultimo boccone del suo cheeseburger, poi iniziò a gesticolare, puntandomi addosso l’indice e indicandomi. «Stai dimagrendo troppo, Belle». Era sempre stata ossessionata dal mio peso. Mi vedeva così gracile e magra, non perdeva mai occasione di dirmelo. No, tutti me lo dicevano. Ma io avevo la sensazione che le mie gambe diventassero sempre più grosse, e le parole volanti delle altre persone non mi avevano e non mi avrebbero mai fatto cambiare idea, credevo.
«Non è vero».
«Quanto pesi?» La guardai. Lei era così bella, così perfetta. Senza sforzarsi, senza fare nulla. Lei era così e basta, e sapevo che era anche per come era fatta dentro, non solo per l’aspetto con cui era nata. Era una persona splendida, e questo si rifletteva anche nello sguardo, nel sorriso, in tutto.
Allora il mio problema stava anche lì.
«Quarantacinque. Come sempre». Nemmeno io avevo mai fatto qualcosa per meritarmi quel peso, lo ammetto. Era quello da quando avevo sedici anni, e sempre dai sedici anni ero alta solo un metro e sessantacinque. Per me non era sotto la media.
Poppy stava per ribattere qualcosa, lo si capiva bene –dal modo in cui si era agitata sulla sedia, dallo sguardo attento. E io non volevo che lo facesse, perché sapevo dove sarebbe andata a finire la discussione. Un’altra di quelle su come io stessi bene così, di come fossi bella, di come non dovessi dimagrire.
Bugie. Parole inutili. Parole volanti.
E allora lo buttai lì, in mezzo al discorso. Probabilmente lo dissi anche perché volevo togliermi quella storia di dosso, sperando che non riapparisse più. «Nikolai mi ha lasciata». Mi sembrò d’improvviso così reale ed inappropriato che desiderai, per l’ennesima volta, poter tornare indietro e non dire niente, stare zitta, tenermelo dentro fino che lei non sarebbe venuta a scoprirlo da sola, probabilmente presto.
Era un cosa infantile.
“Smettila, smettila. Tu sei infantile” dissi a me stessa, quasi arrabbiata.
Poppy sussultò e subito mi guardò. Notai la preoccupazione dei suoi occhi. Notai anche che aveva di nuovo il desiderio di dire qualcosa, ma ebbe la delicatezza di rimanere in silenzio, forse per lo sguardo che io avevo in quel momento, più triste del solito, forse perché capiva e basta, come lei era solita fare.
E mi stupii ancora di come lei fosse incredibile e continuasse a starmi dietro, nonostante io avessi la sensazione di non meritarla, sempre.
Avevo la sensazione di non fare niente in cambio, e quella sensazione faceva schifo.
 

Quella giornata passò, normale, identica alle altre, silenziosa.
Non pensai più a nulla, perché ero stanca. Dalla sera prima, da me stessa. Non mi andava di pensare alle conseguenze dei gesti che avevo fatto, e basta. Dall’ora di pranzo fino al pomeriggio del giorno successivo mi volarono per la mente solo vecchie canzoni che mi riportavano ad un tempo in cui non ero nemmeno nata. E l’idea era rilassante.
Erano le quindici circa, quando il cellulare mi vibrò violentemente in tasca. Mi allontanai dal gruppo degli altri ragazzi che erano appena usciti con me dall’università, di qualche metro, giusto perché il rumore non mi impedisse di sentire.
Controllai lo schermo, ma non conoscevo il numero. Alzai le sopracciglia e premetti il pulsante verde, portandomi il Blackberry all’orecchio. «Pronto?» risposi, il tono leggermente incerto.
Di sottofondo potevo sentire un gran rimescolio di voci. «Belle, sono Harry» la sua voce bassa stava cercando di sovrastare il vocio che udivo bene. «Come stai?» urlò qualcosa a quelli che erano intorno a lui, ma troppo velocemente ed in inglese stretto perché io capissi.
«Bene» risposi automaticamente, senza nemmeno pensarci. «Ma come …  Ah, il numero te l’ha dato Louis, credo». Ricordavo vagamente che me l’avesse chiesto, due sere prima, mentre Harry si era appartato per chiamare qualcuno.
«Sì, sì» la voce di Harry tremò per un attimo e la cornetta vibrò, come se ci fosse un disturbo di connessione. Sentii una porta che schioccava ed intuii che si era mosso ad aveva cambiato stanza. Ora c’era molta più quiete, e lo sentivo bene. «Ti ho chiamata perché volevo dirti una cosa».
 
«Mi annoooio» si lamentò il bambino con i capelli castani e lisci, pestando il terreno del parco giochi, irritato. Si grattò il naso, lasciando una striscia rossa sulla guancia. Aveva le mani sporche di pennarelli.
Gli altri quattro lo guardarono e poi si scambiarono occhiate fra di loro, svegli e concentrati, mentre il sole del tardo pomeriggio faceva splendere i loro visi luminosi.
La scuola era finita tardi per tutti, quel giorno, ma tutti i bambini di Milano erano ancora svegli. Solo le mamme erano stanche, non loro. O, perlomeno, i bambini non lo capivano.
 
Accettai quella stana risposta, tranquilla, benché fosse sempre stata preludio di qualcosa di negativo.
Mi aggiustai la borsa sulla spalla, cercando di non tirare una ciocca di capelli che si era infilata sotto la tracolla. «Dimmi …»
 
Una bambina dai boccoli biondo scuro scalciò, seduta sul bordo dello scivolo.«Giochiamo a nascondino» propose, tirando le bretelle della salopette di jeans.
Tutti gli altri bambini asserirono, entusiasti. Era da tanto che non facevano quel gioco, impegnati com’erano stati nel mercato di pigne.
Un’altra bambina bionda e ricciuta si alzò da terra. «Facciamo la conta per chi fa la conta». I bambini si misero tutti vicini, in cerchio, e la stessa bambina iniziò a canticchiare, puntando il dito su ogni bambino, a turno.
Giunsero ad una soluzione solo vari minuti dopo, perché la bambina barava, cercando sempre di eliminare sé stessa.
«Conta Luca!» gridò alla fine la riccia,soddisfatta. Quella mattina non gli aveva voluto prestare i suoi colori nuovi.
«Luca, Luca!» le fecero da coro gli altri bambini.
Il bambino castano pestò di nuovo, perché l’aveva fatta l’altra volta.
 
Harry esitò, prima di replicare. «Io e i ragazzi siamo via per due settimane, in tour. Partiamo domani» la cornetta gracchiò di nuovo, ma non ci feci caso. «Andiamo negli Stati Uniti».
«Ah». Non mi venne in mente nient’altro di meglio da dire.
«Mi dispiace. Avrei dovuto dirtelo prima». Il tono della sua voce era confuso. Non riuscivo a capire cosa stesse pensando.
Inspirai e scrollai le spalle. Mi gettai i capelli all’indietro, mettendo a posto le varie ciocche ribelli. «No, per quale motivo. Non importa» strizzai gli occhi e mi morsi le guancie. Lo stavo facendo troppo spesso, ultimamente, e sentivo che stavano per sanguinare.
Mi sentii un’idiota, perché realizzai che me ne importava. Che mi importava che se ne andassero per due settimane, mentre non sarebbe dovuto essere così, non mi sarebbe dovuto importare di niente, non mi sarei dovuta fidare. E non sapevo perché me ne importava, me ne importava e basta ed odiai quel sentimento.
«Davvero? Sul serio, mi-»
Lo interruppi, controllando la mia voce nervosa. «Davvero». Stavo iniziando ad essere agitata, tesa.
Non andava bene. Non dovevo.
Non doveva andare così.
«Ti salutiamo domani, in ogni caso» continuò. Sembrava iniziasse ad avere un certa fretta addosso.
 
Il bambino si appoggiò ad un albero, le braccia incrociate davanti agli occhi chiusi. Iniziò a contare, piano, perché in matematica non era bravo.
Gli altri bambini iniziarono a spargersi per il parco, alcuni ridacchiando mentre gli altri gli facevano «Shh!» per zittirli, perché altrimenti lui li sentiva.
Due si nascosero in coppia, mentre la bambina bionda e quella dai boccoli color miele sapevano bene che per non farsi vedere non ci si poteva nascondere in tanti.
Era sempre complicato, pensare ad un nascondiglio.
Ce n’erano di due tipi: quelli difficili, che a trovarli ci si metteva un sacco di tempo e ti facevano vincere sempre. Poi quelli semplici. Quando non si ha la voglia né la forza di cercare un nascondiglio migliore, perché si è troppo stanchi, si scelgono gli ultimi. Ma in quelli si viene scoperti facilmente.
La piccola Isabella quel giorno si sentiva stanca, non come gli altri bambini. Forse perché lei era più esile, più piccolina. Scelse un nascondiglio facile, il primo che le capitò, il più vicino, anche se era stata lei a proporre quel gioco.
Non sapeva se avrebbe vinto come al solito, quella volta.
 
«Belle, ti chiedo solo una cosa» si fermò per un secondo, quasi come se fosse incerto sul dire o no quello che aveva in mente. «Vorrei che per ogni giorno che sono via, tutti i giorni, tu mi facessi un disegno». Rimasi in silenzio, stupita. Aprii la bocca, ma non uscirono le parole. «Lo so che è strano. Ma per favore» aveva iniziato a parlare più velocemente, e sembrava stesse sistemando delle cose. «vorrei solo che tutte le sere tu ti mettessi lì e facessi un disegno per me».
Provai davvero ad immaginare le ragioni per cui mi chiedeva una cosa simile, ma non mi venne in mente nulla di giustificabile. Mi portai una mano alla fronte e risi leggermente. «Va bene, come vuoi».



Erano le otto del mattino.
Ero sveglia già da un po’, stretta nel grosso maglione di lana rossa che avevo trovato in un angolo di casa, abbandonato su una sedia. Non ricordavo da dove fosse saltato fuori; probabilmente, avevo scordato di ridarlo a qualcuno.
Profumava di mela.
Sdraiata sul divano, accarezzavo il pelo morbido e caldo di Elia, e l’unico rumore che si sentiva in casa erano le sue fusa.
Mezzora dopo, i ragazzi bussarono. Io mi alzai lentamente, andando piano verso la porta. Aggiustai il maglione come meglio potevo, anche se continuava a pizzicare sulla gambe scoperte.
Aprii la porta, trovandomi Harry davanti. Era come sempre ben vestito, con un impermeabile color cammello e pantaloni scuri, un paio di Ray-Ban infilati nel collo della maglietta bianca. Guardando quasi insistentemente il maglione rosso, sorrise.
Mi sembrò così distante, in quel momento. Per la prima volta, lo vidi solo come un’icona, un’immagine della copertina di un giornale, qualcuno di lontano. C’era qualcosa di irreale nella sua presenza lì; non c’entrava nulla con me.
E forse, visto quella confusione di sentimenti del giorno prima, avrei dovuto sentirmi triste, dispiaciuta. Invece, non sentivo niente.
Niente.
Lo salutai solo con un cenno del capo.
Vidi Louis che accompagnato da un tipo enorme trasportava le ultime cose verso un SUV nero. Si voltò verso di noi e agitò la mano, per poi incamminarsi verso di me.
Li salutai semplicemente, perché avevo sempre odiato gli addii. Era sempre meglio non farli, a mio parere.
Loro non facevano che sorridere, evidentemente eccitati per quel tour così importante; sembravano così felici, avrebbero fatto nascere la risata sulle labbra di chiunque. Mi raccontarono varie cose, come le tappe previste, quello che avrebbero fatto, chi avrebbero visto, tutte le interviste, e ciò non fece altro che renderli più distanti, ai miei occhi, perché non contava che Harry mi avesse chiesto i disegni o che Louis mi avesse offerto il suo aiuto. Non contava, perché io non contavo proprio nulla, né rispetto a loro né a Poppy o alla maggior parte delle persone che avevo conosciuto, e non lo capii mai bene come in quel momento.
Il fatto che per un breve momento, un secondo, una sera sola, avessi pensato di potermi legare anche lontanamente a loro mi rendeva ancora più stupida e ingenua.
Non avrei permesso che accadesse la stessa cosa che mi era successa con Nikolai, non volevo.
Ma non dissi nulla.
Louis mi abbracciò, ancora allegro, gli occhi che brillavano. Scese le scale quasi saltellando, il ciuffo di capelli lisci che ballonzolava. «Mi puoi chiamare, lo sai» disse, arrivato ai piedi degli scalini, sventolando il cellulare. Io gli sorrisi, anche se sapevo che avrei avuto troppa paura per chiamarlo –non solo lui, ma anche qualsiasi altra persona- per affrontare i miei problemi.
Harry seguì Louis con lo sguardo, poi mi osservò dritto negli occhi. Mi abbracciò, stretto, stringendomi una mano. La sentii pizzicare, scossa da un brivido.
Se ne andò via, voltandosi  in mezzo alla strada per guardarmi, come aveva già fatto una volta.
Chiusi la porta, mentre la mano posata sulla maniglia tremava e nella testa mi esplosero troppi pensieri.
 
Non è curioso quel sentimento che si ha, non appena inizia la conta a nascondino? C’è prima una calma priva di sensi, dove si sta immobili come statue, senza avere la minima idea di cosa fare. Poi subito dopo, in un attimo, tutte le percezioni scoppiano, si ha il caos nella mente ed è proprio allora, in una frazione di secondo, che devi scegliere dove nasconderti.

















N.d.A.

*Ma che cazzo ho scritto, LOL.
Non ne ho proprio idea, non so ancora se mi piaccia ho no. Che ve dico? 
Non ne ho idea. E' meglio che mi facciate sapere voi, và. 
Ah, sì, ecco: è corto, me ne rendo conto, ma gli eventi che ci volevo mettere erano solo questi, e non mi piace aggiungere troppe frivolezze.
*Ancora grazie, grazie a tutti i miei recensori,a quelli che segono e che hanno messo la storia fra i preferiti. Ancora, non finirò mai di ringraziarvi.
*Metto di nuovo il contatto Twitter, perché non si sa mai e anche perché sì: 
https://twitter.com/#!/Aria_Kerouac . Follow me, everyone! Regalo spoiler a chi desidera.

_hush













17 gennaio 2012, James -streetskating.
Scattata da Belle.

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Capitolo 12
*** Hide, III ***


Soundtrack: Blue Jeans, Lana del Rey (http://www.youtube.com/watch?v=8t-I-Lqy06g)





11. Hide, III





Il ticchettio inesistente del tempo che passava mi rimbombava nella testa.
Inesorabile ed insopportabile, andava avanti, senza pietà. Così vuoto ed inutile.
Non volevo sentirlo, non volevo andare avanti.
I giorni pesavano sempre di più, uno dopo l’altro, vani.
 
Era notte profonda, ma non avevo coscienza dell’orario.
Poppy era qualche metro dietro di me e rideva rumorosa con James, seguita da Hannah, Ben e altre tre persone delle quali non ricordavo il nome.
Io camminavo davanti a tutti nella strada scura e deserta della periferia. Non riuscivo a seguire esattamente la linea che spiccava bianca sull’asfalto, l’alcol mi faceva ondeggiare un po’. Scocciata, provai a concentrarmi sui miei passi.
Quasi non mi accorsi, dopo vari minuti in quel vicolo nero, che eravamo arrivati in un viale principale, affollato di macchine e luci. Avevo la testa troppo pesante e i bagliori iniziarono a mescolarsi fra loro, volteggiando. Camminai più in fretta, involontariamente, senza nemmeno sapere se gli altri mi stessero seguendo.
C’erano così tanti volti intorno a me, che il vapore e i fumi di scarico rendevano appannati e impastati, indistinguibili. Si agitavano ed andavano più veloci di me, fino a creare una scia unica di movimento che mi circondava.
Poi d’improvviso eravamo dentro un locale trovato per caso, in mezzo alla folla che era una folla di pazzi, in trance, con un che di beatnik e bop che riportava ad anni passati e dimenticati. C’era musica antica, che non aveva niente a che fare con noi e ci trascinò via con quel pianista e il saxtenore e il loro rauco blues fatti di benzedrina come gli autori perduti di cinquant’anni fa. La musica entrò e prese il posto di quel vuoto enorme e desolato. Vibrava, mi teneva viva.
Era così rilassante avere la mente vuota, per una volta. E in quel momento proprio nulla mi interessava, perché non avevo nulla a cui interessarmi. Tutto quel mucchio di pensieri confusi, disperati e tristi, per quella sera erano scomparsi. Sapevo bene che sarebbero ritornati il mattino dopo, come già era successo in precedenza. E sapevo anche che questa volta non ci sarebbe stato nessuno.
 
Quasi albeggiava.
Aprii la porta con difficoltà e la slanciai dietro di me, facendola chiudere con un gran rumore. Dimenticai di accendere le luci e inciampai spesso su vari oggetti sparsi per il pavimento, mentre andavo al piano superiore.
La testa iniziava a dolere e mi portai le mani fredde sulla fronte, sperando mi facesse stare meglio, ma più di tanto non funzionò. Mi appoggiai allo stipite della porta dello studio, la fronte poggiata al legno fresco, e quasi scivolai dentro la stanza, per poi cadere sul divanetto.
Decisi che avrei dormito lì. Mi stesi, ma sentii qualcosa di molto scomodo sotto la schiena. Lo tirai fuori e rimasi a fissare quell’album da disegno con sguardo vacuo, per chissà quanto tempo; la voce di Harry mi riecheggiò nelle orecchie e mi diede fastidio, mi irritò, perché era l’unica cosa assurdamente chiara e limpida che provavo in quel momento, proprio quando ero riuscita a non sentire nulla e nessuno.
Mi alzai di scatto e la testa mi girò violentemente. Per poco non cascai sulla scrivania, ma riuscii a fermarmi con le braccia che fecero un gran tonfo sopra il legno. In quella semioscurità tastai ovunque cercando una matita, con un che di frenetico e disperato. Misi tutto a soqquadro, spargendo ovunque i fogli,e finalmente ne trovai una a mine. Afferrai un foglio a caso e mi sedetti sotto la finestra, da dove la luce stava incominciando a provenire sempre più forte.
Il disegno nacque subito sotto le mie mani gelide ed arrossate, con mosse convulse, mentre le lacrime mi scendevano sulle guancie ed io non provavo nemmeno a trattenere i singhiozzi.
 
Passò una settimana .
Quella parte di muro blu fra la libreria e il divanetto, nello studio, si stava lentamente riempiendo di fogli anneriti da matita e carboncino.
Mi vedevo bene, come in quelle scene di film che vanno avanti veloce, attaccare un nuovo disegno ogni giorno, sfiorarlo con cura e toccarne i bordi ogni volta, per non rovinarlo; poi sparire dalla stanza in un attimo, simile a un fantasma.
Inutile come un fantasma, invisibile come un fantasma.
Quanto mi odiavo.
Cogliona.
Non c’era alcun senso in quello che mi stava succedendo. Non sapevo nemmeno perché la situazione peggiorasse di giorno in giorno, perché esattamente mi sentissi in quel modo. Era stupido, sbagliato. Senza motivo.
Cosa cazzo stai facendo?
Sapevo che non era solo per Nikolai, non poteva esserlo. Sapevo anche, però, che mi aveva fatta sentire male. Perché aveva confermato tutto quello che già pensavo su me stessa. L’aveva provato e reso reale, sbattuto in faccia con brutalità.
E così ero sommersa da tutto quello schifo che sapevo di essere. Stavo affondando.
E’ colpa tua. E’ tutta colpa tua.
Tante altre persone erano orrende. Chi mi aveva insultata a scuola, ad esempio. Chi mi aveva lasciata andare. Chi non mi riteneva abbastanza. Chi non si interessava. Ma era per colpa mia. Perché se non avessi avuto qualcosa di sbagliato, allora le altre persone si sarebbero comportate con me nello stesso modo in cui lo facevano con chiunque.
Era colpa mia, perché non davo fiducia a loro, a nessuno. Anche Poppy mi sembrava allora così lontana.
Era colpa mia.
Sei stupida, non cambierà niente.
Avevo perso le speranze, ormai, che qualcosa cambiasse. Era da troppo tempo che doveva accadere ed io ero stanca di aspettare. Una vita di attesa era troppa.
E io davvero avevo provato a cambiare. Semplicemente, era andata peggio.
E quella settimana passò ed io mi ritrovai a guardarmi disgustata allo specchio. Ogni cosa non andava bene. Salì forte l’impulso di dare un pugno a quello specchio, a quella figura che non sopportavo, vederla andare in frantumi, scomparire. Pezzo per pezzo.
Portai le mani al fianco, dopo essermi aggiustata una ciocca di capelli dal bagno, lasciando la porta aperta dietro di me mentre andavo fuori dal bagno.
 
Tre e sedici minuti, lampeggiava la scritta rossa della sveglia; la sua luce sanguinea contrastava con quella bianca e asettica della lampada della scrivania.
Mi sfregai gli occhi e mi pizzicai le guancie, per risvegliarmi.
Posai il carboncino di fianco al foglio pallido e osservai fuori dalla finestra, dove le palle giallognole dei lampioni si stagliavano nella nebbia notturna. Una figura nera passò rapida fra i cespugli del parco, rompendo quel fitto grigiore.
Distolsi lo sguardo, sapendo bene che me l’ero immaginata.
Strascinai la sedia all’indietro, non curandomi dello stridio che fece sul pavimento. Mi alzai, dopo aver preso il disegno, e mi avvicinai alla parete, il nastro biadesivo in mano. Elia si divertì a strusciarsi sulle mie gambe.
Appesi il foglio, senza badare molto alla posizione rispetto agli altri, e pianai bene i bordi con la parete. Mi allontanai leggermente, aggiustata  una sfumatura con l’indice, ed osservai la danzatrice leggiadra che si stava legando una scarpetta.
Iniziai a vedere mille difetti che ormai non potevano più essere modificati, e soffiai per l’irritazione. Se non fossi stata così stanca, e se i miei occhi avessero retto, l’avrei stracciata e rifatta daccapo.
Le volsi le spalle e tornai alla scrivania, rileggendo ancora una volta quel foglio stampato, pieno di cancellature e scritte nere, che ormai da giorni giaceva lì sopra. In effetti, non ricordavo quando l’avevo fatto. Martedì o mercoledì, probabilmente.
Lo ripresi fra le mani, sfiorando le parole calcate con forza. Era il testo di What Makes You Beautiful. Oh, sì, alla fine avevo ceduto alla curiosità, in un pomeriggio solitario e offuscato. C’era così tanto che non sapevo, di Harry e del gruppo di cui faceva parte. Non sapevo bene perché avevo così voglia di sapere di più, e nemmeno mi interessava saperlo.
Chissà quanto tempo avevo speso a guardare i loro video e a mettere in ripetizione le loro canzoni. Per quei pochi minuti, mi facevano stare bene. E allora, ero arrivata a stampare il testo di quella canzone, quella che ha dato loro il successo mondiale.
E mentre leggevo il testo stampato nero su bianco, per la prima volta, senza le loro voci ad accompagnarlo, ogni parola mi sembrava una bugia così grande, così enorme. Con rabbia avevo preso la penna, cambiando le parole.
Che gesto infantile.
Che stanchezza.
Attaccai anche quel foglio al muro e spensi la luce, uscendo.
La ballerina, allora, si alzò in piedi ed iniziò a danzare, muovendo le sue ombre lunghe, volteggiando da un foglio all’altro, stuzzicando gli altri ritratti e poi correndo via, solitaria.
 
Non contavo più i giorni che passavano.
Andavo avanti, e basta.
Fu una sera, mentre mi preparavo ad uscire, che sentii del gran rumore provenire dalla strada. Parecchie macchine si erano fermate nei dintorni e c’era un gran mescolio di voci di ragazze. Ascoltai meglio, e udii anche il trascinare di oggetti e un movimento fitto di persone.
Erano tornati.
E questo provocò in me quel barlume di sentimento che non volevo avere.
Perché sapevo bene che avevo scelto  il nascondiglio troppo facile, troppo vicino.
 

 
p.o.v. esterno

Quella successiva era una giornata di sole splendente.
Belle afferrò in fretta la borsa dei libri e le chiavi, lasciando la giacca abbandonata su una sedia, perché per lei faceva troppo caldo.
Si affaccendò a togliere le mandate alla porta e la spalancò con impeto, rimanendo poi impietrita sulla soglia. «Harry».
Lui, il dito ancora puntato al campanello che stava per suonare, le fece un sorriso largo. «Ciao». Harry la osservò, esaminandola in pochi secondi. I capelli disordinati erano raccolti in una crocchia, ma alcuni ricci riuscivano a sfuggirle lo stesso. Aveva un trucco leggero, che non nascondeva bene le occhiaie scure sotto gli occhi spalancati e attenti. Le guancie erano spente e le labbra a cuore pallide.
Lei sembrava spenta. Tranne in quegli occhi, così strani …
Harry portò lo sguardo ai vestiti, e notò che Belle aveva ancora indosso il suo maglione rosso. Ricordava bene di averlo dimenticato a casa sua, la sera in cui aveva dormito con lei.
Non sapeva dire se aveva voglia di farglielo presente, però. «Se stavi uscendo torno dopo».
Belle rimase ferma ancora per qualche attimo, colta di sorpresa. «Non ho …» si morse lentamente un labbro, quasi distratta. «No, entra». Lei lasciò cadere la borsa ed Harry entrò. Rimase ad osservarla un secondo, poi le si avvicinò.
Belle quasi non ci fece caso, immersa in vaghi pensieri. Si riscosse solo quando sentì che la mano calda e morbida di Harry stringeva la sua. «Allora, i disegni?» Disse, serio.
 
Belle lo portò solo davanti alla parete. Non li commentò ne li spiegò, come faceva di solito. Poi li staccò, uno ad uno, e glieli porse con cura.
Passarono diversi minuti in silenzio, seduti sul divanetto, mentre Harry li guardava con attenzione. Erano disegni tristi, pensava. Era l’unico aggettivo adatto a definirli. Così belli e malinconici. Una diretta proiezione di Belle, si disse.
«Sono stupendi» esordì infine. Li posò di fianco a se, delicato. «Grazie di avermeli fatti. Davvero». Sperava tanto che l’avessero aiutata, distratta, in un qualche modo.
Belle scosse la testa e sorrise leggermente. «Se lo dici tu».
Passarono tanto tempo, quella mattina, a parlare sul divanetto, anche se Belle sapeva di aver saltato due lezioni. Lo sapeva e non le importava davvero, in quel momento.
In quelle due ore, Harry non le chiese mai cosa avesse fatto nelle due settimane precedenti.
Erano le undici, quando il campanello squillò. Belle scese lentamente dal divano, mollemente e senza voglia. Fece cenno ad Harry di stare fermo, mentre usciva dalla stanza. «Torno subito, scusami». Lei iniziò a scendere le scale, ed Harry si alzò, osservando curioso la stanza.
Notò, d’improvviso, che c’era ancora un foglio attaccato alla parete su cui Belle aveva messo i suoi disegni. Vi si accostò, per guardare meglio, e subito riconobbe quelle parole tanto familiari, quasi che gli venne da canticchiarle mentalmente. Ma poi vide che ad ogni riga, ogni singola riga, una penna nera aveva tracciato correzioni e modifiche, con una scrittura disordinata e obliqua.
Lesse fino a metà, poi gli si inumidirono gli occhi e si allontanò.
In quel momento, delle voci concitate arrivarono dal piano inferiore.
«No, non voglio parlarti. Non adesso». Belle lanciò uno sguardo stanco a Nikolai, che stava davanti a lei, rigido, come se fosse pronto a scattare da un momento all’altro.
«Non fare la bambina. Voglio chiarire le cose». Anche se Belle cercava di bloccarlo, lui riuscì comunque a farsi spazio ed entrò nell’ingresso. Belle rinunciò a tenerlo fuori, ma tenne il volto fisso verso la porta ancora aperta.
«Non c’è nulla da chiarire. E’ tutto molto chiaro, dal mio punto di vista».
Nikolai fece una risata acida, passandosi una mano fra i capelli scuri. «E poi secondo te ero io il problema. Ma non vedi come ti comporti? Se-»
«Belle, va tutto bene? » La voce inaspettatamente dura di Harry fece sussultare Belle, che si voltò di scatto verso la fonte. Harry era in piedi in mezzo alle scale, infastidito, lo sguardo dritto verso Nikolai.
Belle strinse le labbra in un’espressione strana. «Sì. Nikolai se ne stava andando».
Nikolai schioccò la lingua, sarcastico. «Io non me ne stavo affatto andando. E quel ragazzino chi è, il tuo nuovo gioco?» Lo guardò con gli occhi assottigliati, sprezzante.
«Vattene, adesso. Vai fuori.»
«Sei troppo impegnata con lui, per parlare con me, quindi?»
Harry intervenne di nuovo, cominciando a venire giù dalle scale. «Senti, lasciala-»
«Fuori, porca puttana».
 
Era passato un quarto d’ora da quando Belle aveva cacciato Nikolai di casa. Harry stava uscendo, dopo aver provato a parlare con lei di quello che era successo. Ma Belle, oltre a ringraziarlo per essere intervenuto, non aveva voluto aggiungere altro. Sembrava si stesse mordendo le labbra per non far uscire un altro fiume di parole.
Appena fuori dalla soglia, Harry si voltò verso di lei. «Non ne hai bisogno, Belle. Non hai bisogno di lui». Lei non rispose.
Il vento iniziò a soffiare.

















N.d.A.

Allora, ho parecchia fretta, ma voglio dire un paio di cose.
Non so come sia venuto questo capitolo, davvero. Mi dispiace per avervi fatto aspettare così tanto per un coso così. Ditemi voi, al massimo riscrivo.
Poi, come al solito, vi voglio ringraziare tutte. Tanto.
Mi fate sempre sorridere.
*Come sempre, alle nuove lettrici, dico di seguirmi su Twitter per domande varie e free spoiler. Vi followerò back uù https://twitter.com/#!/Aria_Kerouac
_hush


















28 luglio 2011, Ben -alla spiaggia.
Scattata da Hannah.

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Capitolo 13
*** Seek ***


13. Seek






Curioso, come prima il tempo scorresse pesante e fioco, mentre ora semplicemente passava, insignificante.
Niente cambiava da un minuto all’altro, da un giorno all’altro. Il tempo andava ed io rimanevo, ferma immobile, mentre tutto scorreva grigio intorno a me.
Non provavo più continuamente angoscia ed inadeguatezza. Semplicemente non provavo nulla.
Mi ero ritrovata spesso a chiedermi cosa  mi stesse succedendo, e non riuscivo a darmi risposta. Non avevo nemmeno voglia di pensarci. Era solo una domanda che mi balzava in mente, emergendo dalla nebbia di idee confuse, per poi essere ignorata e rituffarsi in quel buco nero che era diventata la mia testa.
Ero un buco nero, ecco cosa ero diventata. Come quelli che creano le stelle dopo essere implose, un buco nero che non fa nulla, se non essere nero ed inghiottire qualsiasi barlume di vita nei suoi dintorni.
Sul bus, di ritorno a casa dopo l’università, ridacchiai al pensiero della mia bocca come un grande buco nero che mangia qualsiasi cosa si trova davanti. L’immagine era abbastanza insulsa, ma risi comunque.
La signora ben vestita, con un tallieur grigio e l’aria seria, seduta nel sedile davanti al mio, si voltò leggermente e  mi guardò male. Io le diedi un’occhiata pacifica e tornai a guardare a vuoto fuori dal finestrino.
Chissà, magari le ero sembrata pazza.
Scesi poco dopo alla mia fermata e arrivai alla porta di casa scalciando tutti i sassolini che avevo davanti ai piedi. Mentre aprivo la porta, notai di aver impolverato le Vans nere, ma non le scossi.
Afferrai il biglietto giallo che qualcuno aveva appiccicato alla porta verde ed entrai. Era di Poppy, e diceva che aveva infilato sotto la porta una busta con le foto scattate qualche giorno prima.
Probabilmente, avrei dovuto leggerlo prima. Abbassai lo sguardo e vidi che stavo pestando una busta giallo senape, piuttosto voluminosa. La osservai per qualche secondo, poi decisi di lasciarla lì dov’era.
 
Ero stesa sul tappeto bianco e morbido posizionato davanti al divano, in sala. Fissavo il soffitto, battendo il tempo dei brani che stavo ascoltando sulle gambe. Era piacevole, non udire nient’altro che musica.
Entrava già la luce morbida del tardo pomeriggio, affusolando tutti gli angoli duri dei mobili. L’aria era fresca, e faceva vento; lo sentivo passare attraverso le finestre e la porta aperti sul giardino. Odoravo persino il profumo dei fiori primaverili.
Mi parve per un momento di sentire qualcuno che parlava, al di là delle cuffie, ma non ci feci caso. Chiusi gli occhi ed aggiustai i collant strappati che tiravano, spostandomi più verso il mezzo del pavimento.
Passarono tre canzoni, ed ero quasi riuscita ad eliminare il mondo dalla mia testa. Qualcuno, d’improvviso, mi toccò una spalla.
Sobbalzai, sbarrando gli occhi, e ritrovai quelli verdi di Harry sopra di me, spalancati e luminosi.
Sgusciai qualche centimetro più in là e mi misi a sedere, togliendo le cuffie. Lo guardai, le palpebre semichiuse. «Ma ti credi normale?» gettai indietro una ciocca di ricci che continuava a scendere sulla guancia destra.
Lui era inginocchiato al mio livello, con un piccolo sorriso sulle labbra. «Al momento sì, perché?»
A suo parere, quindi, non c’era nulla di anormale nell’entrare a sorpresa, chissà come, in casa di qualcuno. Ma andava bene, non m’interessava più di tanto. «Se tu pensi che entrare in casa mia come un ladro sia una cosa da tutti i giorni, allora okay». Scrollai le spalle e mi alzai in piedi, aggiustando il maglione.
Iniziai a dirigermi verso la cucina, mentre lui mi seguiva, facendo particolare rumore di tacco con i piedi. A metà strada mi voltai, infastidita, e notai che aveva indosso degli stivaletti alla caviglia, molto in stile rocker.
«Volevo salutarti» esordì. La sua voce mi sembrava già distante. Scompariva, mentre io mi estraniavo di nuovo da tutto. «sono stato via parecchio, ultimamente. E mi dispiace, avevo detto che sarei stato più vicino» era sempre più lontana, fioca, ed io rincominciavo ad immergermi nel nulla. Mi ricordava una piacevole nuvola d’estate, che pian piano svanisce nell’azzurro. «Sapevo che eri in casa, ma ho suonato cinque volte al campanello e non rispondevi. Perciò sono passato dal giardino. Non farmi fare mai più una cosa del genere. Sinceramente, stesa su quel tappeto mi sei sembrata morta».
Sarebbe stato maleducato rispondere “Non ancora, sai”? Probabilmente sì, perciò rimasi zitta.
Harry continuò a parlare, finché non raggiunsi la cucina e mi misi a preparare il caffè. Ne bevevo a litri, negli ultimi tempi.
Era molto più chiacchierone e sciolto, quel giorno. Io, però, non sentii più una parola di quello che disse. Solo silenzio ovattato, calma.
Mi riscossi al rumore dello schianto di Harry contro uno degli sgabelli intorno alla tavola. Lui lanciò un grido di dolore e si morse le guancie, afflosciandosi sulla sedia. Io sbattei un paio di volte gli occhi e lo guardai, apatica. «Sei un impiastro».
Lui ricambiò lo sguardo, alzandolo dal ginocchio quasi sicuramente rosso sotto i pantaloni neri. Mi fissò per un po’, come accorgendosi solo in quel momento di qualcosa. «Belle, stai bene?» Era ancora leggermente piegato, e io mi persi nell’osservare i due ciondoli che portava al collo dondolare avanti e indietro, ipnotici.
Mi morsi un labbro, snebbiandomi. Provai a fare un sorriso il più possibile sincero. «Ho solo un gran mal di testa» risposi, tirando la caffettiera via dai fornelli.
Non era colpa sua. Era stato così occupato con il lavoro, con tutti quei suoi casini. E con me non aveva alcun obbligo. Io, con lui ed il suo mondo, non avevo nulla a che fare.
Era comprensibile che non si fosse accorto di niente, e speravo che fosse altresì comprensibile che io gli mentissi in risposta. Come facevo con tutti.
Quando, più tardi, lo accompagnai alla porta, non lo notai mentre raccoglieva la busta delle foto da terra. Me la porse, adocchiando l’angolo di una fotografia che si intravedeva sa un buco della carta. «Per terra si rovinano, se non lo sai».
«Meglio».
Lui alzò un sopracciglio, poi si infilò nella porta. «Torno presto, appena posso». Mi strinse una mano e si allontanò.
 
C’era un sole forte e caldo; la luce accecava, scontrandosi con le superfici chiare.
Era quasi irritante al solo camminare all’aperto.
Stavo arrivando al campus a piedi insieme a Poppy, e quasi speravo venisse un acquazzone improvviso. Era preferibile a quella troppa luce.
Lei di tanto in tanto lanciava un’occhiata rimproverante alle mie gambe, scoperte dai pantaloncini di jeans. Come era successo al bar, una volta, sapevo bene cosa stava per dire.
Scoppiò mentre aspettavamo che il semaforo per pedoni diventasse verde, ad un incrocio.
«Belle» nella penombra delle fronde verdi scuro degli alberi, che costeggiavano il viale, ero comunque costretta a tenere una mano sulla fronte per guardarla in faccia. «sei dimagrita troppo». Schietta come sempre.
Io flettei un braccio, e il gomito schioccò. «E’ che ultimamente non ho fame, Poppy». Era la verità. Non avevo mai fame, nemmeno la sera dopo essere rimasta senza mangiare tutto il giorno.
Lei mi guardò storto un’ultima volta, poi si fissò sulla strada. «Prima o poi vengo da te e ti ficco un ago da alimentazione artificiale nelle vene. La notte. Mentre dormi».
Proprio allora mi sembrò che scattasse il verde. Io risi leggermente, iniziando ad attraversare la strada, senza guardare né a destra né a sinistra. Non mi venne in mente, ma era da un po’ che mi capitava. Di non fare attenzione mentre camminavo, mentre ero in strada. Non facevo proprio più attenzione a niente, in realtà.
Accadde tutto molto velocemente.
Non era verde. Un macchina arrivava subito alla mia destra, piuttosto rapida. Nello stesso momento in cui stava per arrivarmi addosso con il faro sinistro anteriore, Poppy mi aveva afferrata per un braccio, trascinandomi indietro con violenza. La macchina frenò di colpo, e sia il conducente –un uomo sui cinquant’anni, da quanto notai sul momento- che Poppy mi guardarono con occhi sbarrati.
Lei mi fece voltare dalla sua parte, sempre tenendomi per il braccio. Aveva il terrore, nella sua espressione. «Come hai fatto a non vederla?» mi stringeva il braccio quasi ossessivamente, da farmi male.
Io non avevo cambiato la mia espressione da quella neutrale che tenevo sempre.
Era in effetti l’unica auto nei dintorni, me ne accorsi allora.
«Non avevo guardato, mi dispiace».
La paura non si allontanò dal suo sguardo, mentre strani pensieri le attraversavano la mente.
 
Mi svegliai di soprassalto, nel buio indefinibile della stanza.
Sentivo solo il mio respiro affannato.
Le coperte bagnate di sudore mi si erano appiccicate addosso; le scostai da me con un movimento irritato, e mi rannicchiai a sedere scostandomi i capelli umidi dal viso. Lo tastai, e sentii che era rigato dalle lacrime, e alcune continuavano a scendere.
Mi sfregai in fretta le guancie e gli occhi, cercando di asciugarli. Tirai su le maniche della maglietta bianca.
Scesi dal letto e accesi la luce solo quando gli spasmi si calmarono.
Tolsi via in fretta tutte le coperte e il lenzuolo, gettandoli nella cesta del bucato da fare in bagno, e in fretta tirai le tende, vedendo che era mattino inoltrato. Mi feci una doccia tiepida e indossai la prima felpa lunga che mi capitò sotto mano.
Passando davanti allo specchio, ed evitando con cura di guardare la mia immagine, ebbi solo un flash veloce di me, quella notte, seduta lì sotto, nella semioscurità;  i capelli davanti al viso, i graffi rossi sulle gambe e sulla pancia. Camminai oltre, chiudendo la porta e lasciando la ragazza accoccolata a piangere nel bagno da sola.
Stavo scendendo le scale, lenta, quando dallo studio arrivò la vibrazione prepotente del cellulare. Dopo aver tentennato un po’, incerta, risalii i pochi gradini che avevo fatto e raggiunsi il cellulare, che lampeggiava rosso. Sembrava arrabbiato con me.
Lo sbloccai e mi apparve davanti un messaggio di Harry.
Ti va una passeggiata del buongiorno?”
Forse sorrisi involontariamente.
Infilai le solite Vans e uscii, senza sprecarmi a cambiare i vestiti, chiudendo delicatamente la porta dietro di me, per non fare rumore.
Soffiava di nuovo vento.
Era più forte dei giorni precedenti; piegava i rami degli alberi, facendoli tutti inchinare al suo passaggio, e sollevava le vecchie foglie dai marciapiedi con vigore, prendendole con se per ballare un antico valzer. Solo alcune, le più leggere, le raccoglieva e le portava lontano.
In mezzo al marciapiede vuoto, mi fermai, aprendo le braccia e cingendo il vento ad occhi chiusi. Respirai profondamente quel freddo che veniva da chissà dove.
 
Era uscito non appena avevo bussato alla porta, con un grande sorriso a salutarmi.
Avevamo camminato parecchio, tanto da arrivare quasi in periferia. C’erano pochi passanti, quel giorno. Quasi tutti avevano preferito stare in casa, e non affrontare quel vento da tempesta, che però non sembrava disturbare Harry.
Arrivammo al Tamigi, e trovammo presto un ponte per passare all’altra riva. Era un ponte modesto, senza grandi impalcature di ferro. Mi ricordava quei vecchi ponti che si trovano a Parigi, sulla Senna, pieni di statue e lampioni arzigogolati.
Il vento soffiava sempre più forte.
Arrivata a metà, mi fermai. Harry mi precedeva di qualche metro, con la fretta di arrivare da qualche parte.
Io mi fermai perché quel vento lo sentivo bene.
Ah, fin sotto la pelle.
Mi era entrato nelle vene con il suo gelo.
«Ci possiamo sedere un po’, Harry?» non mi resi nemmeno conto di pronunciare quella frase. Uscì da sola, volando nell’aria, mentre il mio indice andava ad indicare uno dei muretti di protezione.
Senza nemmeno aspettare la risposta, mi diressi verso il muretto del lato destro, sedendomi verso l’esterno, le gambe a penzoloni.
Udii solo vagamente i passi di Harry che tornavano indietro, a un paio di metri di distanza da me. Con quel soffiare, li sentii solamente perché il ponte era deserto.
Pian piano, la sua figura stava scomparendo. Non c’era più Harry, i passanti di là, in strada, le foglie agitate e i cani che abbaiavano nei giardini vicini.
Pian piano, scomparve tutto, come se un pittore stesse cancellando le parti che non gli andavano più bene in un disegno preparatorio al quadro, quelle parti inutili, in quel momento. Li vedevo scomparire, linea per linea, tutti intorno a me.
Rimasi solo io, sul ponte parigino, sopra le acque scure e furiose, e il vento.
Scalciai con i piedi nel vuoto, giocando come una bambina.
Chissà da quanto avevo lo sguardo fisso sulle onde, laggiù.
Mi alzai in piedi sul muretto, senza sentire il peso del mio corpo. Ero leggera, in quel momento. Leggera come le foglie con cui il vento ballava.
Seguii un’onda lenta con lo sguardo, fino a che non si rituffò insieme alle altre nella profondità del fiume.
Ah, il vento, come lo sentivo bene.
Aprii le braccia, come ali. I vestiti mi premevano contro la pelle, svolazzando dietro la schiena.
E il vento soffiava, soffiava …
Chiusi gli occhi, non stretti, ma lasciando che poca della luce che traspariva tra le nuvole passasse attraverso le palpebre.
Chissà se ero abbastanza leggera perché il vento decidesse di portarmi via con se.
«Belle! No!» Passi affrettati, una voce ansiogena, concitata, e la bolla si ruppe. Il disegno era di nuovo mal fatto.
Aprii gli occhi, ma non mi voltai. «Non avvicinarti, Harry». La voce non era ferma come desideravo. «Non provare ad avvicinarti».
I passi si fermavano, ma sentivo ancora quel suo strano respiro affannato e strozzato. «Va bene, io sto qui. Non mi muovo. Ma tu scendi, Belle». Deglutì. «Per favore».
Io risi, risi forte, e la risata si perse volando via. Le mani mi tremavano, ma le portai davanti, in modo che non le vedesse. «E perché?» avevo le labbra secche e fredde. Ci passai la lingua, ma il vento le asciugò subito. Risi ancora, ma gli occhi iniziarono ad inumidirsi.
«Ci sono milioni di ragioni, Belle». Anche la sua voce tremava.
Ticchettai il terreno con un piede, spostandomi. Stringevo i pugni talmente forte da farmi male. «Dammene tre. Tre» forse i palmi avevano cominciato a sanguinare. «e non mi butto».
Sapevo che desiderava avvicinarsi. Chiusi di nuovo gli occhi, stanca.
«La tua famiglia».
«Mi odiano».
«Sai bene che non è vero. E Poppy? E l’arte? E tutte le altre persone? E tutto quello che ami, di cui mi hai raccontato?»
«Oh, no, mi odiano. E l’arte non è abbastanza, io non sono abbastanza nell’arte. Poppy è solo una ragione» la voce mi si ruppe. «E le cose che amo sono solo una seconda. Non c’è una terza ragione».
Aspettò qualche secondo prima di rispondere. «Io sono la terza ragione».
Mi voltai di scatto, furiosa, mentre le lacrime cominciavano a rigarmi il viso. «Non mentire! Non mentire anche tu! Cosa ti può importare di me? Cosa ho fatto io per meritarmi te? Guarda cosa sto facendo. Sono solo una schifosa egoista. Guardami!» mi indicai, con un gesto frenetico. E il vento si stava abbassando, stava andando via … «Se io morissi, ora, tu non ti ricorderesti più di me in due settimane. Nessuno lo farebbe. E io non ce la faccio più, più … » Scivolai lentamente a sedere, abbandonando gli arti lungo il corpo. «Lasciami andare, Harry …»
Ed eccolo lì, a tenermi stretta mentre il vento riprendeva a soffiare, malvagio. Non lo allontanai, perché sapevo che se lo avessi fatto avrei di nuovo aperto le ali, e questa volta sarei volata via.
E allora mi aggrappai alla sua schiena, perché adesso era la mia vita.
«Io non sono lui, Belle».
 
Il nascondino era finito.
Avevo perso, di mia volontà. Ero stata troppo debole, ed ancora una volta avevo dato troppa fiducia.
Avevo lasciato che mi trovassero, e non avevo nemmeno combattuto, non avevo corso per fare tana, perché ero troppo stanca per correre veloce.
Il nascondino era finito e Harry mi aveva trovata.
 
 















 
N.d.A.

Che cosa scrivere questa sera?
Che non lo so. Non so se questo capitolo sia venuto come desideravo, ho paura di averlo immaginato molto diverso. E’ stato difficile, e non so se vi piacerà. Non solo per come è scritto, ma anche per l’argomento trattato.
Perché il suicidio giovanile è un argomento spesso fin troppo schivato ed ignorato, mentre per sconfiggerlo, per aiutare quelle persone, ci vuole dialogo, chiarezza, e conoscenza di questi problemi. I giovani che si tagliano non sono solo ragazzini emo, sono persone che soffrono troppo internamente per colpa di offese e bullismo sia fisico che psicologico. Il suicidio non è una scelta di vigliaccheria, ma è l’unica via di scampo, per molti.
E ancora non so se sono riuscita a trattare questo argomento con la dovuta delicatezza, e spero profondamente di non avere né urtato né offeso nessuno. Se è così, chiedo scusa in anticipo.
E’ ovvio che per eventuali domande o chiarimenti potete contattarmi qui o su Twitter (https://twitter.com/#!/Aria_Kerouac). In ogni caso, posso già dire un paio di cose. Voglio che sia chiaro che Belle non cerca di commettere suicidio solo perché Nikolai l’ha lasciata. Non è assolutamente solo per lui. Il fatto che Nikolai l’abbia lasciata è stata per lei solo una conferma di quanto sgradevole e non amata –secondo lei- fosse. E in quel particolare stato di fragilità psicologica era esattamente ciò che serviva per far scattare i procedimenti della ragione che l’hanno portata alla depressione.
Nella storia, non ho ancora ben raccontato della violenza psicologica che ha subito alle scuole medie e superiori dai compagni di classe, né bene della sua situazione famigliare. Sono pesi enormi, che si porta dietro da anni, e che di giorno in giorno non passano, ma la fanno sentire peggio e sono la causa maggiore delle sue profonde e radicate insicurezze.
Quindi, come ultima cosa, vorrei dire, e parlo per esperienza personale, di stare attenti con le parole. Perché le persone più sensibili ricordano tutto, ogni cosa, e la più piccola offesa, sommata agli altri eventi negativi, può portare a qualcosa di molto peggiore rispetto a un semplice pianto. E quando è accaduto, tutti quei “avremmo potuto fare di più” non servono a nulla.

Non ho nemmeno riletto, spero abbia senso.

*Oggi niente immagine né canzone, non ci stavano proprio.
*Di nuovo, come sempre, grazie infinite a tutte voi, ragazze, che mi recensite sempre, e grazie ai nuovi lettori e recensori. Senza di voi, di certo non sarei qui a scrivere con passione.

_hush

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Capitolo 14
*** Habit ***


*Soundtrack: Skinny Love, Birdy (http://www.youtube.com/watch?v=XL2Uzz4j01s)





14. Habit
 



 
Era buio.
Forse era notte profonda. Lo era, con ogni probabilità.
Tum.
Vento forte, intorno a me. Freddo, fin nelle ossa. Le acque scure che si agitavano, libere, sotto i miei piedi, profonde, lontane.
Minacciose, ammalianti.
Tum.
Mi alzai d’impeto, gettando con uno scatto le coperte umide di sudore dietro di me. Ondeggiai nella stanza scura, senza equilibrio. La testa era esplosa, erano rimasti i frammenti a urtarmi. Ognuno di essi, uno dopo l’altro, mi si lanciava contro, ancora in preda all’onda d’urto.
Faceva male.
Tum.
Braccia grandi, calde nonostante il gelo sferzante. Mi avvolgevano completamente, vi ero immersa. Quelle mi facevano stare bene.
La strada deserta, e le foglie spose del vento fuggivano con lui.
Tum.
La porta era stata faticosa da trovare.
Afferrai la maniglia con troppa forza, quasi mi ci appoggiai. Spalancai la porta e un corridoio altrettanto buio quanto la mia camera mi si presentò davanti. Di sicuro qualcosa si annidava, nel grumo di nero dell’angolo più lontano.
Ah. Ancora la testa.
Tum.
Luce di pomeriggio. Le stesse braccia, e ricci che mi stuzzicavano la fronte. Una voce roca che mi diceva di continuare a dormire.
La luce che si affievoliva, piano, delicatamente.
Tum.
Camminai lentamente fino alle scale, senza fare rumore. Il mostro nell’angolo era quieto, e mi ignorò. Sentivo bene delle voci sottili provenire dal piano inferiore, e le stavo seguendo, curiosa.
Mi sedetti sul primo gradino, appoggiando la schiena al muro. Dalla sala giungeva solo una luce debole, che bastava a malapena a definire i contorni delle cose.
Chiusi gli occhi e provai a concentrarmi, e d’improvviso le voci si fecero più chiare, quasi fossero di fianco a me.
«… e non è la scelta giusta». Non seppi riconoscere chi parlava.
«Non sta a te decidere cosa io debba fare». Oh, questo sì. Ormai mi era così familiare, la voce bassa di Harry.
«No, è vero. Ma sai benissimo a chi non piacerà questa storia».
«Credi davvero che m’interessi la loro approvazione?»
«Dovrebbe, Harry. L’opinione pubblica …». Riconobbi Liam.
«Non me ne frega un cazzo, dell’opinione pubblica».
Mi alzai in fretta, la mente molto più lucida di prima.
Non riuscii lo stesso a mettere in ordine i pensieri, ma le loro frasi mi erano rimaste bene impresse in testa.
L’unica cosa che riuscii a formulare era che stavo creando troppa confusione. Non volevo farlo. Io volevo diventare invisibile, scomparire, e non stava accadendo ciò. Lo sentivo, era l’inizio di tutto il contrario.
Quasi corsi, per tornare a letto.
 
Tic toc, faceva l’orologio.
 
Sbattei un paio di volte gli occhi, rendendomi conto solo allora di quanto quella sembrasse una scena surreale.
Da telefilm, o fotografia degli anni cinquanta.
Cosa ci faceva Harry, seduto al di là del mio tavolo, a bere tranquillamente la sua tazza di tè, come se fosse diventata un’abitudine? Un braccio appoggiato al piano, come faceva sempre –come facevo io a sapere che lo faceva sempre?- l’altro ad afferrare la tazza, e lo sguardo vagabondo a osservare come sempre tutti i dettagli che più gli piacevano.
Cosa ci facevo io, apparentemente a mio agio, di fronte a lui, a fare colazione insieme?
Tutto suonò alle mie orecchie come lo scoppio di una bolla di gomma da masticare.
E il sogno scoppiò come quella gomma da masticare rosa, uscita dalla mia infanzia, proprio mentre Harry alzava lo sguardo e mi sorrideva felice.
Per qualche ragione, anche se il sogno era finito, sapevo che gli avevo risposto, con un luccichio divertito negli occhi.
 
Il cellulare continuò a vibrare insistentemente e con una certa maniacalità.
Feci emergere di poco la testa da sotto le lenzuola ed allungai un braccio, afferrando il cellulare. Lo portai sotto le coperte e lessi il corto messaggio.
Era di Harry.
“Sono qui davanti. Il campanello non va.”
Chissà perché, rimasi a fissarlo per un po’.
Era passata una settimana. E da allora, non era trascorso un giorno senza che venisse a trovarmi.
Era stato quel sogno, a farmi sembrare tutto ciò strano.
Solo allora, solo in quel momento.
Poi, l’attimo svanì.
Per una volta, una sola, non volevo pensare troppo.
Scesi dal letto e mi vestii, infilando abiti leggeri, perché ormai il freddo era passato. Feci le scale velocemente, accorgendomi che c’era uno strano profumo di fiori nell’aria, e andai verso la porta, cercando di accantonare dalla mente una canzone che continuava a riemergere e a tormentarmi, a tratti. La aprii e come sempre lui mi salutò solo con un sorriso. Io agitai la mano, e lo feci entrare.
Andammo fino alla sala, immersi in una luce bianca e morbida. Le finestre erano chiuse –sigillate, quasi- ma sapevo che il vento soffiava ancora, fuori. Le chiome verdi degli alberi si agitavano, con un movimento quasi ipnotico.
Le osservai, con sguardo perso, fino a che non sentii il tocco della mano di Harry sulla mia. Guardai giù e vidi i suoi occhi verdi che erano molto più seri del sorriso portato sulle labbra. Mi prese il polso e mi fece sedere di fianco a lui, sul divano.
Raggomitolai le gambe sotto al corpo, incominciando a distrarmi di nuovo. Le dita di Harry mi accarezzarono i capelli, e io quasi non ci feci caso. Era un gesto che aveva preso l’abitudine di fare.
Era calato di nuovo quel silenzio tranquillizzante, sulla via.
Dopo poco, non sentii più le mani di Harry che attorcigliavano le mie ciocche. Scese e mi sfiorò una guancia, con fare distratto.
Mi voltai a guardarlo, stupita, e anche lui si girò, sotto il peso del mio sguardo. Ma parve non badarci. «Credo dovresti rincominciare ad uscire, Belle».
Io sbattei un paio di volte le palpebre, e non risposi.
Senza togliere la mano dalla mia guancia mi osservava dritto negli occhi, di nuovo con quella sua strana serietà. «Credo dovresti uscire con me».
Quasi mi venne da ridere, e senza motivo. Sembrava solo assurdo. Non c’era migliore definizione.
Non seppi perché, ma gli dissi che aveva ragione.
 
La notte era già calata, e per le strade, ovunque, si potevano sentire echi di risate.
Il marciapiede, pieno di buche, era ora fitto di pozzanghere. Ne saltai una, mentre Harry la prese completamente. Lo guardai maledire acido la pioggia e non riuscii a non ridere, facendogli un cenno agitato con una mano. «Su, non fare il palombaro e sbrigati, siamo già in ritardo per il primo spettacolo».
Lui scrollò le spalle e mi fece un sorriso sghembo, raggiungendomi e posizionandosi al mio fianco.«E tu non fare la pignola, abbiamo ancora tempo».
«Poco. E sai una cosa» aggiunsi all’ultimo momento, precedendolo di qualche passo, giusto per fargli un dispetto. «da uno come te non mi sarei mai aspettata il cinema, come prima uscita».
Harry fece tre grandi falcate, guadagnando molto terreno. Aveva le gambe dannatamente lunghe. «Ci sono tante cose che non sai».
«Che battuta squallida da uomo del mistero». Feci una piccola corsa, cercando di distanziarlo. Mi voltai indietro, tentata dal fargli uno sberleffo. Lui si fermò un momento, le mani in tasca e l’aria pensosa, poi si mise a correre, superandomi velocemente e quasi scomparendo fra le pallide luci dei lampioni e della strada. «Cosa fai? Non vale!» mi arrivò presto la sua risata. «Al diavolo!» Iniziai a rincorrerlo e risi per davvero, senza neanche accorgermene.
Arrivammo davanti al cinema con il fiatone, e lui ovviamente per primo, ma non ebbe il coraggio di rinfacciarmelo.
Solo poco prima di entrare a prendere i biglietti mi ricordai di chi ero. Del fatto che non era normale che io parlassi così normalmente, o perlomeno negli ultimi tempi. Del fatto che era da mesi che non ero contenta in modo così frivolo. O ancora, del fatto che quella me stessa era semplicemente stata seppellita e nascosta da tanto. Harry me l’aveva fatto scordare, anche solo per quei corti minuti.
Rimasi perplessa a guardare il mio riflesso sulle porte trasparenti e lucide, prima di seguirlo lasciandomi di nuovo fuori.
 
Il film, in realtà, era molto noioso, e non migliorò nemmeno quando iniziammo a lanciare pop-corn sulle file inferiori.
Prima che i soggetti attaccati si decidessero a chiamare le maschere strisciammo fra le poltrone e risalimmo il corridoio buio, ignorando le inutili proteste di una ragazza che diceva di non volere baciare il protagonista, quando poi tutti in sala sapevano che era bensì il contrario.
L’aria frizzante mi pizzicò il viso, restituendomi un po’ di ragione. Mi sentivo molto più sveglia.
Osservai la strada intorno a me, quasi del tutto vuota, se non per qualche passante per la maggior parte delle volte solitario. Le macchine erano lontane –quasi non se ne sentiva il rumore- e l’asfalto bagnato luccicava sotto le illuminazioni dei cartelloni appesi fuori dal cinema. Sollevai lo sguardo e vidi che un paio di stelle, quasi per magia, quella sera erano riuscite a superare il velo grigio di Londra e a pulsare deboli.
Le indicai, con un mezzo sorriso. «Era da tanto che non le vedevo». Udii i passi leggeri di Harry avvicinarsi e mettersi al mio fianco. Guardò anche lui in su, e i ricci gli ricaddero in modo strano, rimbalzando sulla fronte.
«Anche io».
Lo guardai di striscio, poi mi incamminai lenta verso il centro della strada deserta. Era una strana sensazione, essere lì, quasi come se avessi attraversata una barriera. Mi sembrava di essere al centro del mondo, eppure così distante. Mi sentii come mi sentivo tutti i giorni, al centro, ma senza poter realmente toccare le cose e le persone.
Mi piegai e mi sedetti da terra, appoggiata sulle braccia dietro la schiena, con ancora il naso all’insù, rivolto verso il cielo.
Mi raggiunse la voce bassa di Harry, stranamente arrotondata e morbida. «Mi ricorda qualcosa». Disse lentamente, con un tono vagamente ironico.
Io mi voltai verso di lui e gli sorrisi. «Siamo appena stati al cinema, la mia citazione è scusata».
Mi si sedette accanto, sfiorandomi il fianco. «Sei la ragazza più strana con cui sia mai uscito» si fermò un attimo, quasi ridendo fra di sé. Si abbracciò le ginocchia piegate con le braccia. «ma lo sapevo già».
Strana.
Detto da lui, non faceva male.
«Ho la sensazione che adesso accadrà qualcosa». Giocherellai con una ciocca di capelli, tirandola come una molla.
«Che cosa?»
«Non so, tipo un stella cadente».
Non rispose, ma rimase in silenzio. C’era il caldo del suo corpo anche al di là della giacca, e c’erano quelle poche stelle tenaci, e c’era la sua mano che, notai solo dopo, era stretta alla mia sul terreno freddo.
C’ero io che per una volta non avevo voglia di analizzare la situazione, perché riuscivo a stare bene.
Non contai il tempo, e non so dire nemmeno se passò per davvero.
Riprese a scorrere quando arrivò un coro di voci confuse e schiamazzanti dal fondo della strada.
Sembravano solo uomini, da quanto riuscii a distinguere. Grida alte, risate vuote. Più si avvicinavano, più mi sembrava di sentire una voce che avevo sperato di non ricordare. Ma chi c’è ad ascoltare i desideri?
«Ooh, guarda chi c’è!» Doveva essere lui per forza, per forza, vero?
La mia stella cadente.
Era necessario, che io non potessi essere felice.
«Sei tu, Belle?» ci fu una pausa, e la voce arrochita dal fumo di Nikolai si spense per un attimo, come se non fosse mai esistita. «Certo che sei tu. Di nuovo con quel ragazzino, brava».
Harry si agitò, di fianco a me, ma si calmò quando gli posai una mano sulla spalla. «Andiamocene, subito». Mi alzai in fretta e così fece lui.
Nikolai era a qualche metro di distanza, in compagnia di amici che non conoscevo. Nessuno di loro sembrava essere completamente sobrio, ma quando mi voltai verso di lui lo sguardo di Nikolai si fece più attento. «Un marmocchio. Ti sei rifatta presto».
Harry mi prese la mano ed iniziò a camminare via velocemente, dalla parte opposta della via da cui erano arrivati, verso la città più trafficata. C’era qualcosa, però, che mi tirava dall’altra parte, verso di loro.
«Belle, è ubriaco, ignoralo» mi sussurrò Harry, continuando a camminare. Aveva l’aria molto più preoccupata di quanto fosse mai stato. «Ignoralo».
«Marmocchio figlio di puttana» Nikolai gridava ancora, ma ormai lo sentivo lontano. Un coro di risate, e li vidi per l’ultima volta in controluce, offuscati dalle lampadine del vecchio cinema.
 
Quando arrivammo a casa, io non avevo ancora detto una parola.
Mi aprì la portiera con sguardo grave, e mi accompagnò fino alla porta. Si udivano i grilli del grande parco vicino, e la luce sopra la porta dei vecchi sfarfallò strana.
Le stelle si erano coperte.
Quando presi il coraggio di parlare, mi uscì solo un sussurro roco. «Harry, credo che non dovremmo vederci più».
Evitai i suoi occhi, perché sapevo che mi avrebbero dato molto più che fastidio. «Non dirmi che gli hai dato ascolto». Tremò leggermente nell’intonazione, come se la sua voce stesse facendo le montagne russe.
«No» era la verità. Non era per lui, no. Mi morsi un labbro. «è che non credo di essere quella che vogliono vederti di fianco». Feci un sorriso tirato, perché sapevo già che non sarei riuscita a spiegarmi come dovevo. «Sono strana, Harry. Sono troppo strana. Sono una disadattata. Sono malata. Non mi vogliono». Pensavo già alle fan furiose con me, agli agenti che avrebbero protestato perché causavo danni alla sua immagine. Avevo rincominciato a pensare troppo.
Harry mi guardò di nuovo dritto negli occhi, intenso come prima. Le pagliuzze verde scuro e dorate delle iridi scintillarono, e le vidi bene, perché erano così vicine.
Sentivo anche il suo respiro.
Era troppo vicino.
Era troppo vicino, perché quando ritrovai le sue labbra morbide sulle mie, non seppi reagire.
















N.d.A.

Bene, allora.
Come posso fare per scusarmi del ritardo?
Non ci sono scuse, lo so. Sono stata pessima.
E so tutti i motivi per cui sono arrivata a pubblicare solo ora non vi interessano per niente, quindi vi dirò solo che sono stata parecchio impegnata con la scuola ed ho avuto varie faccende personali.
Spero davvero che mi scuserete, perché non potrei essere più dispiaciuta. E spero anche che questo strano capitolo vi sia gradito. Non so cosa pensare, sinceramente. Non lo trovo una completa schifezza, ma poi boh. Insomma, sapete che io le opinioni le esprimo nelle risposte alle recensioni, sono fatta così, mi ci vuole tempo per chiarirmi (?).
Come al solito, un paio di cose. Ho riproposto "Skinny Love" di Birdy perché pensavo ci stesse parecchio, non chiedetemi spiegazioni migliori. Poi, la citazione, diciamo, del film di cui parla Belle mentre è seduta in strada è presa da "The Notebook", anche lì succede circa la stessa cosa.
Infine, volevo ringraziarvi tutte per le numerossissime recensioni per lo scorso capitolo. Non me le aspettavo, non sapete quanto mi avete fatta sentire apprezzata, soprattutto su un tema simile. 
Non so, ecco, se il capitolo sia un buon proseguimento.
Ma grazie, davvero, come sempre.

Vi adoro.

*Sappiate che nella fretta non ho nemmeno riletto. Argh.
*E come al solito, per domande ed eventuali spoiler a richiesta, il mio Twitter: https://twitter.com/#!/Aria_Kerouac .

_hush















23 aprile 2011, vecchia foto di Hannah e Ben, in macchina.
Scattata di nascosto da Belle.

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Capitolo 15
*** Desire ***


*Soundtrack: Give Me Love, Ed Sheeran (http://www.youtube.com/watch?v=XF2AlO8cKbE)





15. Desire








 
desiderio
[de-si-dè-rio] s.m. (pl. -ri)
dal latino "de sidera" (sidus, sideris
"stella, astro"),
"riguardante le stelle".

1 Aspirazione e impulso a soddisfare un bisogno o un
pia
cere: d. di cibo; voglia, sete di qlco.: d. di gloria;
bramosia sessuale: 
la vista della giovane eccitò
il suo d.
; aspirazione ad avere qlco. di cui si manca e
di cui si ha fisicamente o spiritualmente bisogno: 
d. di
pace
; rimpianto, nostalgia di qlco. o qlcu.: ha d.
della sua
giovinezza

2 Ciò che è desiderato: esprimi un d.









Le figure sullo schermo televisivo passavano veloci, senza che io le guardassi davvero. Somigliavano, quella mattina, più a fantasmi alla cui esistenza non credi veramente, ma solo per stare al gioco.
Perché sapevo anche io che era inutile cercare di distrarmi con stupidi programmi dei quali, in realtà, non interessava niente a nessuno.
Distrarmi.
Non era la parola esatta.
Ci si distrae da qualcosa, un pensiero fisso.
Ma io non avevo un pensiero fisso in mente. Piuttosto, era da due giorni che avevo solo una nebbia che copriva ogni cosa con un che di delicato, non una nebbia pesante, ma di quel tipo che ti lascia intravedere le forme di ciò che ha inghiottito. Non è certo però che tu riesca a capire esattamente cosa ci sia sotto.
Anzi, è più probabile fraintendere.
E Belle, tu non puoi permetterti di fraintendere.
Lo sai, sì?
 
Mi alzai con lentezza dal divano, per andare in cucina a mettere su l’acqua per un tè.
Mi chiesi che ore fossero. Forse era appena passata l’ora del pranzo.
Chissà che ore erano in Francia.
Ah.
Mi morsi le labbra per punizione.
Non fraintendere.
Presi il bricco per l’acqua e lo riempii, con una fretta improvvisa e insensata. Non appena accesi il fornello per farla bollire, sentii il cellulare vibrare sul tavolo. Misi l’acqua sul fuoco e lessi il messaggio, mentre ancora, senza accorgermene, mi mordevo il labbro inferiore.
A quanto pareva, Poppy era fuori dalla porta.
Uscii velocemente, ricordandomi all’ultimo di spegnere il gas e di prendere la borsa.
Poppy era ai piedi delle scale, turchina e sorridente, all’ombra di James. Lo guardai sorpresa e li salutai con un cenno della mano.
«E’ ora che tu faccia aggiustare quel campanello» mi apostrofò lei.  
Scesi le scale fissando entrambi con una certa attenzione. «Lo farò, sì … » raccolsi i capelli in una crocchia disordinata. «Che c’è?»
«Siamo venuti a trascinarti fuori dalla tana» rispose James con un sorriso. Mi ero dimenticata di quanto mi ricordasse Nikolai. Oppure, ci avevo fatto caso solo allora.
Ma c’era qualcosa, di lui, che mi riportava indietro. A prima.
Tentai di non accigliarmi più di tanto.
«Va bene» sorrisi a entrambi senza sembrare troppo stanca. «e dove andremmo?»
Replicarono insieme con un tono ovvio. «Allo skate-park».
Mi limitai a scrollare le spalle e a rientrare in casa per recuperare lo skateboard.
 
Avevo ragione. Era giusto il primo pomeriggio.
Il sole luccicava con aria soddisfatta, riscaldando tutti quelli seduti sulle gradinate ad osservare i volteggi degli amici, qualche metro più in basso.
Guardavo James, incantata, come già mi era successo anni prima.
Me lo ricordavo bene, benissimo. Una giornata identica a quella, limpida e frizzante. Ma in un altro paese. Un altro contesto. Un’altra persona. Un’altra vita. Quella vecchia, a Milano, con vecchie amicizie e vecchi luoghi. Quando ero ancora piccola e non aveva idea di che cosa davvero volesse dire soffrire e avere paura. Prima che lo stesso ragazzo che guardavo ammirata mi spezzasse del tutto.
«Ed Harry» la voce di Poppy arrivò diretta e distruttiva come un proiettile. «l’hai sentito?»
«E’ in Francia» risposi, secca. «a Parigi». Osservai per l’ultima volta James completare una rampa, i capelli neri e la pelle pallida scintillanti sotto il sole, poi mi voltai verso Poppy. Non era curiosa, come mi aspettavo che fosse.
Forse “preoccupata” si adattava meglio alla sua espressione, anche se provava a nasconderlo.
Strinse le labbra carnose, scrutandomi con i suoi occhi glaciali, che celavano una personalità opposta. «No» replicò, con una semplicità spiazzante.
«Poppy».
«Sono sicura che siano tornati ieri, Belle». Si immobilizzò, quasi sicuramente per osservare la mia reazione.
Strinsi le labbra a mia volta, tanto da farle diventare quasi bianche, poi mi voltai, fissando lo sguardo dritto davanti a me e alzando il mento. «Non importa». Presi fuori il pacchetto di sigarette e l’accendino dalla borsa, tirandone fuori una e offrendo il pacchetto a Poppy. Lei ne prese una stecca e attese pazientemente che gliela accendessi dopo la mia.
Sbuffai la prima nuvola di fumo stropicciandomi gli occhi.
Il cellulare vibrò nuovamente e io mi limitai a lanciare uno sguardo allo borsa per poi distoglierlo di nuovo.
Poppy mi guardò, le sopracciglia alzate, poi si allungò sopra di me per prendere fuori il cellulare. Controllò lo schermo e tossicchiò con nonchalance. Me lo passò, eloquente. «Forse vuoi rispondere».
Questa volta, c’era il nome di Harry che lampeggiava sopra lo schermo.
Mi alzai dalle fredde gradinate di cemento, allontanandomi di qualche metro dal rumore dello skate-park.
Sospirai.
«Me lo concedi un secondo appuntamento?» la sua voce roca mi diede il benvenuto dopo due giorni di silenzio.
Cercai di non sorridere, perché temevo che me ne sarei pentita.«Che cosa?» feci qualche altro passo, raggiungendo il parco verde.
«Le ho chiesto, signorina, se mi concede un secondo appuntamento».
«E quando?»
La sua voce, quella che non provava a nascondere un sorriso, non tentennò un secondo. «Adesso, signorina».
 
Eravamo andati lontano.
Sapeva che mi piaceva viaggiare.
Non ricordo di avergliene mai parlato, ma Harry lo sapeva e basta.
Non chiacchierammo molto durante il viaggio. Preferivo vedere il mondo al di fuori scorrere via.
Quando abbassai il finestrino, per sentire il vento freddo sul viso, mi prese la mano e la tenne stretta fino a che non arrivammo.
Anche se, in realtà, non avevamo alcuna meta.
 
Parcheggiò la macchina vicino a una vecchia casa in mattoni rossi, abbandonata da tempo.
Io scesi e mi guardai intorno, con la curiosità che luccicava negli occhi. Era un piccolo paese, gettato in mezzo alla campagna di una contea al di fuori di Londra.
Lo percorremmo tutto, fino a che non trovammo una panchina di ferro. Ci sedemmo e io mi strinsi le gambe al petto, avvolgendole con le braccia e appoggiando il mento sopra le ginocchia. Harry mi si avvicinò ed incrociò le gambe.
Sorrisi involontariamente e lui sorrise a sua volta, guardandomi negli occhi.
Non avevo mai pensato a quanto il suo sorriso mi riempisse dentro.
Tamburellai le dita sulle gambe per un momento. «Facciamo un gioco» dissi a voce bassa.
Lui sorrise di nuovo. «Che gioco?» Si avvicinò di più, toccandomi la spalla.
«Dobbiamo descrivere tutto quello che vediamo».
Lui assentì con un cenno silenzioso della testa.
Per prima cosa accadde un gatto.
«Vedo un grosso gatto grigio che attraversa la strada».
«Vedo un grosso e grasso gatto grigio che entra nel giardino di una casa bianca».
«Vedo un grosso e grasso gatto grigio che si apposta dietro al cespuglio di rose gialle del giardino della casa bianca».
«Vedo una signora in carne che esce dalla porta blu della casa bianca».
«Vedo la signora in carne che rincorre il grosso e grasso gatto grigio appostato dietro al suo cespuglio di rose gialle per fare chissà che cosa».
«Vedo il grosso e grasso gatto grigio che scappa e la signora in carne che ansima dalla stanchezza sul marciapiede».
Per seconda cosa accadde un bambino.
«Vedo un bambino che cammina sul marciapiede».
«Vedo un bambino che cammina sul marciapiede e si volta a guardare un grosso e grasso gatto grigio che scappa nella direzione opposta».
«Vedo un bambino che cammina sul marciapiede».
«Vedo un bambino che si ferma a parlare con la signora in carne ancora piegata in due».
«Vedo un bambino che corre via dalla signora in carne che gli sta urlando dietro».
«Vedo un bambino che corre via ridendo».
Per terza cosa accadde…
 
Ero stesa sull'erba umida e smeraldina, le braccia allungate. 
Avevo gli occhi chiusi, ma sentivo Harry sdraiato di fianco a me, il suo respiro leggero, le sue dita che correvano fra i fili d'erba. 
Non c'erano più le voci dei passanti, degli animali, di nessuno. Era il tramonto, e tutti erano nelle loro case.
Era ancora troppo presto perché dai campi iniziassero ad avvicinarsi le lucciole, ma sentii un grillo cantare. Erano arrivati già da tempo, ricordai.
Aprii gli occhi e guardai il sole che stava tramontando, infiammato.
Mi venne da pensare che anche il sole era una stella, anche se è trattato in modo diverso. Chi esprimerebbe mai un desiderio al sole?
Eppure, al tramonto, il sole è una stella cadente.
«Tu lo sai cos’è un desiderio, Harry?»
«Sì».
«E credi che sia una cosa giusta?»
«Sì, perché è quello che vuoi davvero».
«Io non ne sono più così sicura».
 
Quando tornammo a casa era notte inoltrata. 
Harry insistette di nuovo per accompagnarmi fino alla porta, e quando mi abbracciò stretto, come si era abituato a fare, sentii il suo odore di mela insieme a quello dell'erba fresca di quel pomeriggio. Allontanandosi, si fermò all'altezza del viso, con un sorriso sulle labbra. «Tu sei la ragazza più strana con cui io sia mai uscito».
«Credo di averla già sentita» risposi, distogliendo lo sguardo. 
Lui rise. «Allora sai anche come andrà a finire». Mi prese il volto con una mano, facendomi girare verso di lui. 
Si avvicinò lentamente, e io sentii di nuovo il suo profumo e il suo respiro caldo sulla pelle. Non riuscivo a concentrarmi su nient'altro che non fosse lui. Ed è scontato, mi baciò, ma lo fece come se volesse essere amato, come se ne avesse davvero bisogno anche lui, bisogno di qualcuno.
Ed è scontato, lo baciai.
Sentii le sue mani che mi accarezzarono il viso, e scesero giù, ad abbracciarmi i fianchi, calde e forti come le ricordavo, quelle braccia che mi facevano sentire lontana dalla paura. E non era solo una sensazione, era così e basta.
Mi sfiorò le guance con la punta del naso e portò le labbra sul collo, baciandolo leggero.
E allora lasciai solo per quella sera le stelle lassù dov'erano, a guardarci dall'alto senza emozioni.















N.d.A
Heeiiilààààà!
Come va, gente?
Sì, sto tentando spudoratamente di fare lo gnorri.
Ma potremmo buttarla sul positivo: almeno ho aggiornato. C'è gente che non lo fa, nemmeno con mesi di ritardo.
Non ci sono davvero parole per scusarmi, e non so nemmeno dirvi come mai ci ho messo così tanto a presentarvi un capitolo che non è un granché ed è pure corto. Sinceramente, non ne ho davvero idea. Credo solo che per me scrivere stesse diventando un peso e non volevo che lo fosse, perchè i capitoli sarebbero peggiorati e non avrebbe più avuto un senso andare avanti. Ma adesso mi sono appassionata di nuovo a questa storia e ho tutte le intenzioni di finirla.
Per l'appunto, la storia. Vi dico subito che nel capitolo ho messo alcune cose a cui dovete prestare attenzione per gli sviluppi della trama futura, ovvero delle sensazioni particolari di Belle. E James. 
Facciamo che non dico altro perché sono bitch.
Ah, e poi volevo far notare come dopo il "seek" Belle si fidi in modo quasi spassionato di Harry, come da copione. Perché l'ha salvata, e lei lo sa. 
Poi basta, voglio fare la misteriosa. Perché ho in programma una grande svolta, fra qualche capitolo. 
Vedrete.
E grazie di essere di nuovo arrivate fino qui.

*D'ora in poi aggiornerò con regolarità, anzi, dal prossimo capitolo vi do la data fissa in cui pubblico.
**Ringrazio già tutte quelle che ritorneranno a recensire la storia o che semplicemente la leggeranno dopo che sono stata così tanto assente. 
***Un'ultima cosa: sono riuscita a prendere i biglietti per Verona, ci sarà qualcuna di voi? :D

_hush







 


14 novembre 2011, nuova camera di Harry.
Scattata da Harry.





 

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Capitolo 16
*** Memory ***


*Soundtrack: Youth, Daughter (http://www.youtube.com/watch?v=VEpMj-tqixs)





16.  Memory





Shadows settle on the place that you left./Our minds are troubled by the emptiness./Destroy the middle, it’s a waste of time/from the perfect start to the finish line./And if you’re still breathing, you’re the lucky ones/’cause most of us are heaving through corrupted lungs.
Le ombre rimangono nel luogo che hai lasciato.
Perdi un’ombra ogni volta che te vai, non credi anche tu?
 
Uscii dall’aula fredda, tirando sgarbatamente su con il naso. Mi riaggiustai i capelli che persistevano nel venire davanti a coprirmi il viso e mi diressi verso la mensa, a passi lenti e svogliati. Avremmo fatto le solite conversazioni di sempre, con le persone di sempre. Persone che diventavano di giorno in giorno più simili quelle che avevo abbandonato senza un saluto a Milano.
Raggiunsi il tavolo abbastanza affollato,dove già Poppy, James ed Hannah erano seduti, facendomi strada tra la massa di studenti. Presi posto di fianco a James, lasciandogli un sorriso distratto.
Iniziai a sistemare il cibo sul vassoio con una certa meticolosità, in modo che non mi desse fastidio. Aprendo la bottiglietta d’acqua, presi a mordicchiarmi il labbro inferiore. Lo sentivo ancora bruciare. D’improvviso, mi sembrò di provare di nuovo la sensazione delle sue mani, così calde, sulla pelle scoperta dei fianchi, sul collo e sul viso; dei suoi capelli morbidi, del suo respiro; dei suoi occhi verdi incredibilmente limpidi. Cristallini, che non riuscivano a mentire, come il suo sorriso, come lui.
«Belle, torna a terra». La voce di Poppy mi distrasse dalla mia distrazione, con una nota maliziosa che forse mi immaginai.
«No».
La vidi sporgersi sul tavolo con la coda dell’occhio, agitata per una sua qualche motivazione recondita. Mi schiaffeggiò una mano e poi la afferrò con una certa violenza, portandola verso quella abbronzata di una ragazza che, a quanto pareva, era seduta di fronte a me e che prima non avevo notato.
Era più piccola di noi, quasi sicuramente. Lo si poteva capire dai suoi tratti ispanici più morbidi, ancora vagamente infantili. Aveva vestiti semplici ma curati, una passata di rosso sulle labbra e occhi neri ben truccati, incorniciati da sopracciglia dritte e scure come i lunghi capelli lisci. Quasi tutto in lei sembrava costruito per sembrare più grande di quanto fosse in realtà, ma la ragazza, evidentemente, non capiva che sarebbe stato sufficiente solo il suo sguardo a lasciar intendere che dentro, lei era vecchia e stanca come noi.
O, almeno, come me.
Strinse la mia mano fredda con un’ossimorica forza spossata. «Clara, piacere». Quasi istintivamente le regalai un sorriso largo.
 
Da un po’ tentavo di concentrarmi sul libro di una materia che non mi interessava affatto. Stava lì, aperto sul pavimento in legno scuro della mia camera, cercando di confondersi tra gli altri fogli e tomi sparpagliati in un sensato disordine, e fallendo poveramente.
Presi a chiedermi per quale motivo non avrei potuto mollare tutto in quell’esatto instante e andarmene via. Poi, il motivo chiamò al cellulare.
«Ciao, mamma».
La cornetta già gracchiava fastidiosamente. «Isabella! Finalmente mi rispondi, avresti potuto considerarmi anche prima».  Risentire la voce di mia madre dopo più di due mesi mi fece lo strano effetto di riportare a galla vari flashback della mia vita che avrei gradito non vedere più.
Inspirai, cercando di non sbatterle la chiamata in faccia. «E’ la prima volta che chiami. Per favore». Soffocai gli insulti che mi nascevano spontanei.
Ci fu un momento di silenzio, nel quale probabilmente stava cercando un’altra cazzata da inventarsi. «Ah, davvero?» buttò lì distrattamente. «Potevi chiamare anche tu».
«Sono stata molto occupata». Il senso di irritazione cresceva di secondo in secondo. Afferrai con rabbia il pacchetto di sigarette e feci le scale a passi pesanti, per uscire in giardino. Passando dalla sala, mi resi conto di quanto fosse bianca e fredda.
«Brava, stai studiando …» rispose lei, già persa nel fare qualcosa di differente dal prestarmi attenzione. «Come va per il resto, cara?»
Emisi un verso sarcastico. Aprii la finestra dalla maniglia gelata e andai fuori, nella luce tiepida e confortevole del pomeriggio. «Bene. Qui sono molto felice». Mi stropicciai gli occhi stanchi, tirando di nuovo su col naso.
Mi accesi una sigaretta.
«Oh, come sono contenta!» ridacchiò. Sentii che aveva iniziato a trafficare con dei bicchieri. «E dimmi un po’, ti sei rifatta il ragazzo?» Il tintinnio proseguì.
Istintivamente, guardai a destra, verso quella siepe che mi separava da Harry. Il mio sguardo scivolò sul buco che ancora nessuno aveva riparato. Le labbra mi bruciarono ancora e mi ritrovai in una giornata di sole a fissare per la prima volta quei troppo limpidi occhi verdi, ridendo.
Le labbra mi bruciarono ancora e mi ritrovai sul suo divano a guardare confusa la tua testa assopita sul mio grembo, frenando la tentazione forte, troppo, di toccarlo.
Le labbra mi bruciarono ancora e mi ritrovai a fissare le stelle.
«No».
Mia madre finì di buttar giù il bicchiere d’alcol che si era preparata. «Non ti preoccupare, cara. Sei così bella, qualcuno si innamorerà di te …» lei continuò a parlare, ma le sue frasi si dissolsero in una nuvola di fumo aromatizzato alla vaniglia.
 
 
We are the reckless/we are the wild youth/chasing visions of our futures/one day we’ll reveal the truth/that one will die before he gets here./ And if you’re still bleeding you’re the lucky ones/’cause most of our feelings, they are dead and they are gone.
 
Era quasi mezzanotte.
Fissavo con sguardo vacuo la tela appoggiata sul pavimento, davanti a me. Toccai quella macchia di colore ad olio lì accanto e che non sarebbe mai venuta via.
Posai di nuovo gli occhi sulla tela, dove spiccavano solo i primi tratti di matita. La coprii comunque con un vecchio lenzuolo e mi allontanai. Andai verso il letto, cercando la maglietta che usavo come pigiama fra le coperte ammucchiate, e mi cambiai velocemente.
Rimasi seduta per qualche secondo sul letto, nella camera illuminata solo dal lampione al di là della finestra, nella strada deserta. Presi in mano il cellulare gettato vicino a me e lo guardai ancora, aspettando un messaggio che non sarebbe arrivato.
Dopo cena, Poppy aveva chiamato. Era così curiosa di sapere cosa fosse successo il giorno prima, curiosa di sapere cosa ne pensavo, come mi sentivo, quali intenzioni io e lui avessimo. Ed io mi ero sentita così oppressa da quelle domande, perché non sapevo cosa rispondere, perché non avevo una risposta vera a nessuno di quei punti interrogativi, e mi sentivo oppressa da Poppy e dalla sua preoccupazione assidua che era però una delle poche cose ancora certe e che mi stavano salvando.
Guardai profondamente male quell’ammasso di chip e fili la cui unica colpa era quella di essere stato acquistato da me.
Lo abbandonai sul comodino e mi sdraiai, cercando di districare le coperte da buttarmi addosso. Dopo esserci riuscita, affondai la guancia nel cuscino, fissando il solitario scattare dei minuti della sveglia.
Mezzanotte meno tre.
Mezzanotte meno due.
Mezzanotte meno uno.
Il cellulare squillò.
Lo guardai sorpresa, e risposi solo dopo un po’.
«Harry?».
«Affacciati». Di nuovo, come sempre, aveva il sorriso nella voce roca.
Mi alzai a sedere e guardai fuori dalla finestra, da dove arrivava la luce riflessa sulle mie gambe pallide. Gattonai sul letto fino a che non raggiunsi il bordo più vicino alla finestra.  Scesi lentamente e guardai giù.
E di sotto, in mezzo all’asfalto nero, c’era Harry, in pantaloni del pigiama e vecchio maglione. «Vieni giù!» gridò, senza importarsene del fatto che magari fosse strano, o che poteva svegliare qualcuno. Sembrava che il mondo fosse vuoto, immobile, e fossimo vivi solo noi due.
Sbattei un paio di volte le palpebre, poi mi allontanai di scatto, afferrai un maglione e scesi di sotto, cercando quasi freneticamente un paio di scarpe e la borsa. Buttai tutto all’aria, e mentre stavo per uscire tirandomi dietro la porta, mi resi conto che ero stanca e anche assonnata, e che quello che stavo facendo non aveva senso; non solo in quel momento, ma tutta la relazione con Harry non ne aveva, neanche un briciolo: non aveva un progetto, una direzione, non aveva mai avuto un inizio determinato né –sapevo- avrebbe mai avuto una vera fine. E forse era questo, e lì lo ammisi per la prima volta, che rendeva lui e la nostra relazione diversi da tutto quello che avevo vissuto. Diversi: non so dire se significasse migliori.
Allora lì, ancora sulla soglia della mia casa, mi fermai un attimo, mi sistemai i capelli e misi a posto la borsa. Poi chiusi la porta alle mie spalle e guardai Harry in quella strada che mi ricordava un mucchio di cose, gli sorrisi come fece lui e gli corsi incontro, accompagnata dall’eco di passi sull’asfalto e dalla mia risata.
 
Eravamo in un piccolo parco per bambini.
Si vedeva poco, perché i lampioni erano lontani; ma distinguevo benissimo la figura di Harry che si dondolava sull’altalena di fianco alla mia.
Iniziai ad arrotolarmi su me stessa, cercando di non incastrare le dita nella catena d’acciaio. Quando raggiunsi il limite, mi lasciai andare con un grido, mentre tutto intorno girava troppo veloce. Harry rise, e quando mi fermai si spostò verso di me e mi prese le mani, facendomi alzare e tirandomi verso di lui. Mi sedetti sulle sue gambe e mi diede un bacio. Sorrisi sulle sue labbra e mi alzai.
Presi fuori dalla borsa una macchina fotografica usa e getta e gli scattai un paio di foto, illuminando il parchetto con il flash.
«Giochiamo a nascondino?» chiese, con una nota così poco innocente da stonare nell’ambiente in cui eravamo.
Sollevai le spalle, fissandolo negli occhi. «Tanto hai già vinto». Gli sorrisi. «Conta fino a venti» gli suggerii. Mi avvicinai per chiudergli gli occhi, poi mi allontanai e iniziai a correre ridendo.















N.d.A.
Bè, buonasera.
Dunque, finalmente questo capitolo è arrivato e io non ho proprio niente da dire. Insomma, non so nemmeno se mi piaccia. 
E' decisamente strano. Comunque, mi rendo conto che è dallo scorso capitolo che non succede niente di particolarmente interessante, ma ho voluto lasciare appunto un momento di "break" tranquillo -più o meno- prima dei prossimi, che saranno una simpatica escalation di depressione.
Vi avevo già detto che infatti presto sarebbe accaduta una cosa grossa e sarà così, ma per il resto sto zitta. Vi dico solo che è dallo scorso capitolo che ogni tanto vi lascio degli indizi nella storia.
Per la faccenda degli aggiornamenti, mi sono organizzata e ho deciso che pubblicherò ogni due settimane, nel weekend. E se vedete che non lo faccio venite a sgridarmi.
Per il resto non ho nulla da dire, se non che ringrazio tutti quelli che mi recensiscono o che solo la leggono (siamo a 3500 visite per il primo capitolo, unbelivable). Mi date una sicurezza incredibile. Grazie davvero.

_hush EDIT: perché non siete venute a dirmi qualcosaaaAAAA DAMN






24 marzo 2012, nuova collana di James -di cui era molto orgoglioso. Scattata da Belle.










 

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