Aren't you afraid to die?

di moriartea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prima parte. ***
Capitolo 2: *** seconda parte. ***



Capitolo 1
*** prima parte. ***


23 Novembre 2004.
Suona la campanella che segna la fine della seconda ora.
«Ricordate di copiare i compiti dalla lavagna appena finisce l'intervallo!» L'insegnante urla queste parole, ma gli unici a sentirla siamo io ed Edward Monroe. Anzi, probabilmente soltanto io, visto che conoscendo Edward potrei scommettere sul fatto che abbia la testa altrove.
Mi alzo sistemandomi la maglietta blu, e tiro fuori un pacchetto di Fonzies dallo zaino. Quando alzo lo sguardo lui è lì, davanti a me. Lo guardo, non capendo cosa possa volere da me, visto che a stento mi rivolge la parola. Alto cinque o sei centimetri in più di me, capelli biondo scuro e occhi color oro, le braccia incrociate sul petto.
«Lloyd, l'ultima cosa che ti servono sono quelle patatine. Mai pensato a una dieta?»
Non capisco a cosa si riferisce.
«Eh?»
«Non hai mai pensato di aver bisogno di una dieta?»
Mi strappa il pacchetto di Fonzies dalle mani e se ne va lasciandomi a bocca aperta.
Mi volto, vedendo il mio riflesso nel vetro della finestra.
I capelli neri raccolti in una treccia che mi ricade sulla schiena, gli occhi vispi concentrati ad esaminare il riflesso di quella bambina di quinta elementare, che all'improvviso non sembro più io. Non posso essere io. Perché all'improvviso quel riflesso ha una caratteristica che io non ho mai avuto: grasso.

 

12 Marzo 2005.
Taglio l'invitante bistecca davanti a me, sto morendo di fame, diamine.
Ne ingoio un boccone, sentendo la fame svanire in modo appena percettibile. Ne voglio ancora.
«Buona?»
Annuisco, sorridendo a mia madre, seduta dal lato opposto del tavolo. Ne ingoio un altro boccone, poi un altro, e un altro ancora. Le parole che Edward mi ripete ogni giorno mi balzano improvvisamente in testa: “Mettiti a dieta, Lloyd, con quella pancia non andrai da nessuna parte.” “Puoi spostarti? Sai, con quella tua pancia enorme non riesco a passare.” “Lloyd, dammi la tua merenda. Tanto non ne hai bisogno.”
Deglutisco a fatica.
Sposto il piatto con le mani, bevendo un sorso d'acqua.
Mia madre mi guarda confusa, non sono certo il tipo che rifiuta il cibo, no.
«Tesoro, tutto bene?»
«Sì sì, solo... non ho fame. Vado a fare i compiti.»
Salgo le scale, ma invece di andare in camera mia vado in bagno, posizionando la bilancia in mezzo alla stanza e piazzandomici sopra. Poco più di 67 chili.
Ha ragione. Sono grassa.

 

27 Ottobre 2008.
Mi alzo sbuffando, non mi va proprio di andare a scuola.
Faccio per vestirmi, ma il mio istinto mi fa bloccare quando i miei occhi si spostano sul mio riflesso nello specchio.
Capelli sporchi, trascurati.
Occhiaie di una ragazza che dorme una notte si e tre no.
Fisico forse normale, forse troppo magro, forse troppo grasso, non lo so. So solo che è sbagliato.
E' tremendamente sbagliato per una ragazzina di terza media, lo è. Io sono sbagliata.
Con gli occhi lucidi, vado in bagno e prendo la bilancia. 47 chili.
Non so più se sono troppi, troppo pochi, o abbastanza. Però, so che ai miei occhi sono davvero tanti. E devo calare, calare ancora. Non posso più mangiare.

 

31 Dicembre 2011.
Accendo la televisione, buttandomi sul divano, esausta.
Faccio passare una mano tra i capelli per sistemare un ciuffo che mi è ricaduto davanti agli occhi, e quando la ritiro metà di quel ciuffo si è staccato ed è finito sulla mia mano. Tipico.
Su qualsiasi canale parlano solo di Capodanno. Stronzate.
Spengo la televisione, annoiata.
Inizio a girovagare a vuoto per la casa, e senza rendermene conto arrivo in cucina.
Noto un volantino sul tavolo, probabilmente uno dei tanti portati a casa da mia madre, ha la fissa. Lo prendo in mano, leggendo ad alta voce “L'ANORESSIA NON E' INVINCIBILE, NOI POSSIAMO AIUTARTI A SCONFIGGERLA. UNISCITI AL NOSTRO GRUPPO DI RECUPERO, NON SEI SOLO.” Stronzate.
Ricomincio a girovagare per la stanza.
Apro la dispensa, vuota. Provo con il frigorifero, ancora più vuoto. Inizio a sbirciare tra i cassettoni della cucina, e ne trovo uno con dentro una scatola di merendine al cioccolato. Ne apro una e la mordo, ma il morso è talmente piccolo e debole che sento a malapena il sapore. Ingoio, e sento un conato di vomito partire dallo stomaco per arrivare fino alla gola.
Corro in bagno, mi abbasso sul lavandino e vomito anche l'anima, sempre che ne abbia ancora una.
Dopo un buon quarto d'ora passato a rimettere, alzo il viso sullo specchio notando che le occhiaie sono visibilmente aumentate dall'ultima volta, le ossa delle spalle e delle mani sembrano voler squarciare la pelle, da tanto che sono sporgenti, il viso cupo e spento. Sento una lacrima tracciare il contorno scavato della mia guancia.
Lancio uno sguardo all'orologio sulla parete, sono le 24:02.
Buon anno a me.

 

17 Giugno 2012.
Il caldo è devastante. Esasperante.
In questa stanza d'ospedale, poi, mi pare che sia ancora di più. E' come se le pareti, il pavimento, il lettino, le lenzuola, il mobiletto, il tavolo e le sedie, siano tutti fatti di puro calore, e il mio fisico non è più in grado di sopportarlo.
Mia madre aveva ragione.
Sono diventata anoressica. Ho dovuto lasciare la scuola per essere rinchiusa in questa orribile stanza arancione – il colore delle pareti, oltretutto, le fa sembrare ulteriormente calde. Circa undici mesi fa ho dovuto smettere di fare sport perché il mio fisico non era abbastanza forte. Io non ero abbastanza forte. Ho dovuto lasciare anche quel poco che era rimasto della mia vita per essere confinata in queste quattro mura bollenti.
Mi hanno messo in pediatria, come se fossi una stupida bambina. I medici hanno detto a mia madre “A causa della malattia, sua figlia è molto irascibile e soggetta a frequenti sbalzi d'umore, perciò riteniamo che medici abituati ad avere a che fare con dei bambini siano più adatti ad occuparsi di lei, perché dotati di maggiore pazienza” senza minimamente preoccuparsi del fatto che lì c'ero anch'io. “A causa della malattia. Sono malata. E io so che quando dicono quella parola non pensano al mio stomaco, ma alla mia mente. Sono una stramaledetta malata mentale. E se non mi decido a guarire qui, mi spediranno in una clinica specializzata in casi come il mio. Sono un caso. Sono uno stramaledetto caso di malata mentale irreversibile. Perché i medici non lo ammettono ma, andiamo, mi ci è voluta una vita per distruggermi, e non saranno certo loro a rimettermi insieme in pochi mesi, o anni. Morirò. Potrei quasi dire di essere sicura di essere già morta.
Ma la cosa che odio di più è il comportamento di mia madre. Non le importa. Si limita a venire a trovarmi tutti i pomeriggi, portarmi stupidi volantini di gruppi di recupero o stronzate simili, già consapevole del fatto che non farò mai una cosa del genere. E' stato già abbastanza imbarazzante dire a tutti i miei compagni di scuola che me ne andavo a stare in un ospedale, se poi mi costringono a parlarne un giorno sì e l'altro anche, allora finirò per esplodere sul serio. E' già difficile sopportare le interminabili chiacchierate con lo psicologo e – oh, eccolo qui, lo psicologo. Non vedevo l'ora.
«Buongiorno Cher.» All'inizio mi chiamava Signorina Lloyd, ma, dopo un paio di giorni, quando ho dichiarato di aver fiducia in lui – non avevo poi molte alternative – ha iniziato a parlarmi come se mi conoscesse da una vita, e io non sono ancora riuscita capire se la cosa mi conforta o mi fa innervosire. Credo sia una delle infinite conseguenze della malattia.
«Buongiorno.»
«Come ti senti oggi?» Ho l'istinto di rispondere ‘bene’ ma mi blocco. Come mi sento? Solo dopo mi sento rispondere «Non lo so.» senza che neanche lo volessi.
«Ti senti bene o male?»
«Non lo so, ho detto. Non lo so, come sto.»
«Dovresti avere fame, hai toccato appena un po' della tua pasta per pranzo ed è quasi ora di cena, e nel pomeriggio non hai mangiato nulla.»
«Non ho fame.»
«Io credo che tu ne abbia molta, solo che non vuoi pensare al cibo, mi sbaglio, Cher?»
«No, ho detto che non ho fame. Se avessi fame me ne accorgerei, non sono stupida.»
«Il cibo non è tuo nemico, Cher.»
«Ho mai detto una cosa simile, forse?» Non lo sopporto, giuro.
«So che lo pensi, Cher. Devi sconfiggere la tua paura del cibo.»
Mi alzo di scatto in piedi. «Io non ho paura proprio di niente!»
«Va bene, adesso calmati.» Mi siedo di nuovo, respirando profondamente, tranquillizzandomi, e sapendo che il mio fisico non può sopportare più di tanto l'agitazione. Il mio nervosismo però sale di nuovo quando lo psicologo pronuncia questa frase con lo stesso tono che le mamme usano con i loro figli piccoli. «Perché ti mette così a disagio parlare con me?» Non sono una bambina, parlami decentemente, diamine. «Beh, immagino che parlare a un uomo che conosci appena del problema che ti perseguita fin da piccola non metta a proprio agio nessuno.»
«Dovresti provare ad aprirti – e non ti agitare, lo sai che non ti fa bene.»
«Non mi va di aprirmi, non vedo come potrebbe aiutarmi.»
«E hai paura.»
«Le ho detto che non ho paura!»
«Cher, con me puoi parlare, sono qui apposta per aiutarti.»
«Se vuole davvero aiutarmi, allora se ne vada.» Morirò. E non ha senso sprecare tempo qui.
«Ammettere di avere paura è un ottimo inizio, sai?»
«Per l'ennesima volta, non ho paura
«Oh, non mi riferisco al cibo, Cher. Non hai nessuna paura? Neanche, per esempio, dei ragni?»
«No. Non ho paura del cibo, o dei ragni, o di qualsiasi cosa.»
Lo psicologo esita prima di parlare, come se sapesse già che ciò che sta per dire è forse un po' troppo per me. «Nemmeno della morte?»
Per qualche assurdo motivo, nella mia mente prende forma l'immagine di una lapide con sopra scritti il mio nome, la mia data di nascita e di morte, e per qualche motivo ancora più assurdo, l'unica immagine in grado di scacciarla è quella di uno dei tanti volantini che mi porta mia madre.
Mando giù il nodo che mi si è formato all'altezza della gola. Non voglio mostrarmi ancora più debole di quanto appaio.
«Lei ha paura della morte, dottore?»
«Non è di me che stiamo parlando Cher, ma se vuoi saperlo sì, l'idea della morte mi terrorizza. Tu non hai paura di morire?»
Non riesco a trattenere un risolino. «Dottore, io sono già morta.»
Mi guarda, l'espressione confusa.
«Cher, se fossi morta, io non potrei vederti.»
«Lei sta vedendo un corpo, dottore, un mucchio di ossa. Io, invece, sono morta.»
«Perché pensi di essere morta?»
«Perché da un bel po' di tempo non ho più la sensazione di respirare. E se non respiri, allora sei morto.»
«Tu hai una possibilità, Cher. Devi lasciarti aiutare.»
«Mi dispiace deluderla dottore, ma una laurea in psicologia non le farà resuscitare un morto.»




 


non ho molto da dire, in realtà.
quella dell'anoressia è una tematica che mi sta molto a cuore, per svariati motivi.
questa one-shot è nata come un'originale, ma non so perché continuavo a immaginarmi Cher come protagonista, quindi l'ho adattata a lei e l'ho inserita nel suo fandom.
Ah, ci sarà una seconda parte, l'ho divisa in due perché altrimenti diventava lunga e pesante da leggere. Aggiornerò il prima possibile, comunque l'altra parte è già pronta e aspetta solo di essere postata.
E nulla, spero che questa parte vi sia piaciuta e che vorrete lasciarmi una recensione.
Che succederà a Cher secondo voi? Si farà aiutare o si arrenderà definitivamente?

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Capitolo 2
*** seconda parte. ***


17 Giugno 2012 – seconda parte.
La seduta con lo psicologo è appena finita ed io sono sull'orlo di una crisi isterica.
Sa solo fare domande, domande e ancora domande, come se fosse un interrogatorio.
E io puntualmente rispondo sgarbatamente, perché non so che dire e gli sbalzi d'umore sono difficili da controllare. Anzi, impossibili.
Bussano alla porta. «Avanti.» mormoro.
Entra mia madre, con un paio di pantaloni della tuta vecchi e sporchi, e una maglia tre volte più grande di lei. I capelli in disordine. Entrambe le scarpe con i tacchi rotti. Lei, maniaca della perfezione, si è ridotta così.
«Mamma, che... che hai fatto?»
«Oh nulla, non ti preoccupare io–»
«Certo che mi preoccupo, mamma! Ma che hai combinato?!»
«Nulla nulla, guarda che ti ho portato.»
Mi mostra una borsa di plastica, piena zeppa di volantini.
E' impazzita. E' diventata completamente matta. Ed è colpa mia. Tutta colpa mia.
«Mamma...»
«No no no, non devi dire nulla. Devi solo leggerli e decidere a quale gruppo preferisci iscriverti.»
«Mamma, ne abbiamo già parlato, io non–»
«Oh no, io non accetto di star qui e vederti morire, chiaro?!» sta piangendo. «Tu sei... sei mia figlia, Cher! Io devo fare qualcosa!»
«Ma mamma, trascurati in questo modo e riempirmi di volantini non–»
«Non mi sto trascurando! E' solo che... che... che mi preoccupo per te, Cher! Sto solo mettendo i tuoi bisogni davanti ai miei!»
E' pazza. Ed è colpa mia.
«Ma mamma, io sto bene qui, davvero.» cerco di essere il più convincente possibile. «Ci sono i medici a occuparsi di me. E le infermiere, e ho anche uno psicologo! Sto bene, sul serio.»
Mi viene incontro, svuota la borsa e riempie il tavolo di volantini, poi appoggia le mani alle mie spalle e mi guarda, gli occhi pieni di lacrime. «Devi promettermi che uscirai da qui, viva.»
«Io... io...» diamine, non posso mentirle. E' mia madre. «Mamma, ascoltami, non è facile e–»
«No Cher, ascoltami tu! Per tutto questo tempo non mi sono nemmeno accorta di cosa stava succedendo, non mi sono nemmeno accorta che ti stavi rovinando. E quando ho capito e ho tentato di rimediare, tu non hai voluto darmi retta e hai continuato a fare di testa tua. Io le ho provate tutte Cher, tutte, per aiutarti, ma tu non mi hai mai dato retta!» una lacrima scende dalla mia guancia. Ha ragione, lei voleva fermarmi, aveva capito prima che fosse troppo tardi. E io non l'ho ascoltata. «Adesso, non ho la minima intenzione di star qui e vederti sparire lentamente, no! Non se ne parla! Tu ora vai là, mangi, ti metti in forze, ti fai aiutare, e torniamo a casa, insieme! Promettimelo, Cher, promettimi che almeno questa volta mi ascolterai...» scoppio in un pianto incontrollato e sento le braccia di mia madre avvolgermi, come quando ero piccola e cadevo, e lei per consolarmi e tranquillizzarmi mi abbracciava e mi coccolava, fino a che non mi ero calmata. Non riesco a smettere di singhiozzare. Pochi minuti fa ho affermato davanti al mio psicologo che mi considero morta e che non ho la minima intenzione di provare a ‘guarire’, e ora mia madre mi chiede di prometterle che ne uscirò viva e più forte di prima. Solo oggi pomeriggio ho pensato che non le importasse di me e del mio ‘problema.’ Quanto sono stupida. Come ho potuto dubitare dell'amore di mia madre? Come diamine ho fatto a convincere me stessa che lei sarebbe stata bene anche senza di me? Ora lei è qui, e mi sta abbracciando, e io solo adesso capisco che è l'unica a cui importa davvero. I medici lo fanno per lavoro. Quei due o tre amici che mi chiamano ogni tanto lo fanno giusto per farmi credere che non si sono scordati di me. E lei invece, lei di cui ho sempre dubitato, lei che ho sempre trattato male ma che nonostante tutto mi è sempre stata accanto come solo una madre sa fare...
Con che coraggio le dirò che non mi importa più di respirare?
Non posso. Non posso farle del male, non a lei. Non lo merita.
Sciolgo l'abbraccio, guardandola negli occhi.
«Mamma...»
Mi guarda, in attesa che io trovi la forza di finire la frase.
Lei lo sa, quello che penso. Lo psicologo le parla delle mie sedute. Sa anche che la forza di finire la frase non ce l'ho. Ma sa anche che è una forza che devo trovare da sola, sa che questa volta non deve aiutarmi.
Lei aveva capito. Me lo diceva. Lo sapeva che mi sarei ridotta così, eppure mi sono sempre rifiutata di darle ascolto. Quanto sono stupida.
E' ancora lì. Mi guarda. Sa che posso farcela. Lei crede in me, ed è l'unica.
«Cher, promettimelo.»
«Io...»
Che cosa voglio veramente?
Voglio deludere mia madre, morire, finirla qui?
Oppure voglio andare avanti, renderla orgogliosa, e rimediare per tutte le volte che l'ho trattata come non meritava?
«Io...» sospiro profondamente, e prima ancora che possa pronunciare la frase mi sento avvolgere in un nuovo abbraccio, e sento che ha ricominciato a piangere, di gioia questa volta. Ha già capito. Lei capisce sempre.
«Te lo prometto mamma, uscirò da qui, viva.»

 

13 Settembre 2014.
Infilo le scarpe e asciugo velocemente una lacrima sfuggita al mio controllo.
Ho fatto molti progressi in questi due anni. Ho accettato di essere malata. Ho capito che da sola non ce la potevo fare, e ho lasciato che mi aiutassero. Ho imparato a controllare l'umore. Sono vicinissima al mio primo traguardo: non avanzare cibo. Riesco a finire tutto il pranzo. Ho recuperato ben tredici chili! E, soprattutto, mia madre è orgogliosa di me, ed è questo che conta di più. Un giorno ho preso uno di quei suoi mille volantini, uno a caso, e ho telefonato. Hanno mandato il modulo d'iscrizione nell'ospedale in cui sto, e con un po' di coraggio e qualche lacrima sono riuscita a compilarlo. Oggi è il giorno in cui inizierò il recupero vero e proprio. Oggi è il giorno in cui i miei dubbi svaniranno, e inizierò a guarire.
Esco in corridoio, salutando i medici e le infermiere che mi hanno sopportata per tutto questo tempo. Una delle infermiere, Rose, è quasi scoppiata a piangere quando le ho detto che mi sarei unita al gruppo di recupero. Quando arrivo davanti al mio psicologo, il dottor Carter, non riesco a respingere l'istinto di abbracciarlo e ringraziarlo per quello che ha fatto, soprattutto perché non ha mai mollato con me. Lui ricambia l'abbraccio e dice di essere fiero di me, il che mi fa scappare un'altra lacrima, che rimpiazzo rapidamente con il sorriso più sincero che riesco a fare.
Dopo aver salutato tutti, raggiungo mia madre che mi accompagna fino alla fermata del bus. Voleva accompagnarmi lei, ma deve andare al lavoro e io non ho certo intenzione di impedirglielo.
La saluto con un bacio sulla guancia e lei mi raccomanda di non agitarmi perché il mio fisico fa ancora fatica a sopportarlo, e ad ogni modo è sicura che andrà tutto a meraviglia.
Dopo pochi minuti il bus arriva, ed è praticamente vuoto. Decido di sedermi in uno dei posti più in fondo.
Dopo un paio di fermate salgono due ragazze – a giudicare dall'orario, devono essere uscite da poco da scuola – e una di loro mette nello zaino un pacchetto di patatine mezzo pieno; non può finirlo perché è vietato mangiare o bere nei mezzi pubblici.
«Lloyd, l'ultima cosa che ti servono sono quelle patatine. Mai pensato a una dieta?»
«Eh?»
«Non hai mai pensato di aver bisogno di una dieta?»
Chiudo gli occhi, cercando di scacciare i brutti ricordi.
Adesso sono più forte, sì, guarirò.
Non sono più l'adolescente anoressica. Ora sono cresciuta, ce la posso fare.
Scendo dal bus e, con le mani tremanti, mi avvicino all'edificio dove il mio gruppo si ritrova. Dopo un istante di esitazione suono il campanello, e mi apre un uomo che deve avere circa la mia età, ovvero sui vent'anni. Non è certo molto più grande di me. Ha un viso familiare, ma penso che probabilmente l'ho visto in ospedale qualche volta, e quindi non ci do peso.
«Beh, per prima cosa, benvenuta!» sorride, radioso. «Il nostro gruppo è formato da undici persone, inclusa tu. Io, insieme ad altri specialisti, ti aiuterò a guarire da i tuoi disturbi alimentari, qualunque essi siano. Non preoccuparti se all'inizio ti senti un po' a disagio con noi, è normale, ma se sarai abbastanza forte da aspettare ad arrenderti vedrai che ti troverai bene e ce la farai, e io sono più che sicuro che tu sei abbastanza forte per superare il disagio dei primi giorni.»
Mi accompagna in una piccola stanza con un divano e un tavolino, mi fa firmare qualche modulo e mi chiede se me la sento di raccontargli la mia storia.
«Allora... ehm...»
«Quand'è stata la prima volta che ti sei sentita grassa?»
«Beh... ehm... alle elementari, in quinta. C'era un bambino che mi prendeva in giro, dicendo che ero grassa, che avevo bisogno di fare una dieta e cose simili e–» mi blocco, notando il suo sguardo confuso. Ho detto qualcosa che non va?
Prende i moduli che ho firmato poco fa e inizia a sfogliare le fotocopie in gran fretta.
Resto a fissarlo. Non parla. Non mi guarda. Non fa nulla, se non cercare tra quell'ammasso di fogli. Dopo qualche minuto sembra aver rinunciato. Si passa una mano tra i capelli e il suo sguardo torna su di me.
«Posso... posso chiederti come ti chiami?» oh, è vero. Sono qui da quasi un'ora e ancora non l'ho detto.
«Cher Lloyd.»
I suoi occhi si spalancano.
«Oddio... io sono... ehm...»
«Stai bene?» sembra più malato lui di me.
«Sì... io, ehm... solo...» la sua voce si riduce in un sussurro che riesco a malapena a sentire. «E' colpa mia...»
«Come scusa?»
«Eh? Ah no... niente... io...» ma che diamine gli prende?
Voglio chiamarlo, ma non sapendo il suo nome guardo sul cartellino che porta attaccato al petto.
Mi si gela il sangue nelle vene quando leggo “
EDWARD MONROE.”
E' lui. Lo stesso ragazzo che mi ha trascinata qui, ora deve aiutarmi a uscirne fuori.
«Tu sei...» non riesco nemmeno a trovare le parole.
«Senti, mi dispiace, davvero...»
«Tu... tu...»
Non ce la faccio.
Mi alzo, sentendo le lacrime scendere incontrollate sul mio viso.
Prendo la mia borsa e mi dirigo fuori dall'edifico.
«Aspetta! Hey!» mi giro, vedendolo lì, davanti a me.
«Che vuoi?»
«Cher, io... io non sapevo che...»
«Certo che non lo sapevi! Nessuno lo sapeva! E' solo colpa tua! Tu... tu non hai idea di cosa significhi! Con che coraggio ti sei messo a fare questo lavoro, dopo tutto quello che hai fatto a me?!»
«Cher, calmati–»
«Non dirmi di calmarmi! Io... io ci ho messo anni, a convincermi a venire qui, capisci?! E adesso anche quel poco di forza che mi era rimasta è svanita! Per colpa tua! E' sempre stata solo e soltanto colpa tua!» ormai non ha senso provare a smettere di piangere.
«Io... Cher.... scusa, mi dispiace, davvero...»
«Ti dispiace?! Tu mi hai rovinato la vita!»
«Cher...» si avvicina e mi mette una mano sulla spalla per calmarmi, ma io prontamente la ritraggo e faccio qualche passo indietro.
«Non toccarmi!» prima che possa ribattere me ne vado. Dovrò iscrivermi ad un altro gruppo...
Oh, ma chi voglio prendere in giro. Non ne uscirò mai.
E' finita per me, finita davvero.
In quel momento mi tornano in mente le parole del mio psicologo: “Tu non hai paura di morire?”
«Tu non hai paura di morire?» ripeto a me stessa. «No, dottore. Aveva ragione lei, io non sono morta. Ma è questo il mio destino. Mi sono distrutta, e non c'è niente che posso fare per rimettermi insieme. E' finita.»
Resto a fissare la strada, gli occhi che bruciano sotto la luce del sole.
Un grosso camion arriva dal lato destro della strada, è ancora lontano ma riesco a vederlo benissimo.
Il mio corpo si muove meccanicamente, non sono più padrona delle mie azioni.
Cammino, fino ad arrivare al centro della strada.
Il camion si avvicina, sento il suono assordante del clacson rimbombare nelle mie orecchie.
L'ultima cosa che riesco a fare è mormorare un 
«Perdonami, mamma.» prima di venire accecata dalla luce dei fari.
Io non ho paura di morire.


 


Eccomi qui con la seconda parte di questa one-shot alquanto deprimente.
Beh, immagino che possiate capire da sole cosa le succede.
All'inizio avevo pensato di far in modo che lei provasse a fidarsi di Edward ma, purtroppo, la mia depressione momentanea ha avuto il sopravvento.
Perdonate il finale orribile lol
E niente... spero che vi sia piaciuta, nonostante tutto.
Grazie infinite a chi ha recensito la prima parte, a chi l'ha inserita tra le seguite/preferite e soprattutto a chi recensirà questo capitolo.♥
Per me è molto importante, sul serio.
Ovviamente si accettano più che volentieri anche le critiche!
Alla prossima!

 

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