All I want is a place to call my own

di Artemis Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: You know to keep your hopes up high and your head down low. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: One night to remember. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: You won’t get much closer, till you sacrifice it all. ***
Capitolo 4: *** 4.Damn your eyes, for getting my hopes up high, making fall in love again. ***
Capitolo 5: *** 5. Let the flame begins ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: You know to keep your hopes up high and your head down low. ***


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1. You know to keep hopeyour s up high and your head down low.


Avevo le cuffiette nelle orecchie ed ascoltavo gli A Day to Remember che suonavano All I Want, mentre preparavo la mia borsa, composta poi da un misero zaino.
Ficcavo dentro tutte le mie cose alla rinfusa, compresi i miei preziosi cd e i miei libri preferiti. Presi poi una maglia sbracciata nera con la scritta –Rock ‘n roll- stampata sopra e i miei shorts di jeans per vestirmi. Radunai la mia roba in bagno e la misi tutta nel beauty-case che poi avrei messo nello zaino. Mi allacciai i miei anfibi e indossai il mio chiodo nero.
Feci mente locale nella stanza per essere sicura di aver preso tutto, poi aprii la porta ed uscii finalmente da quella camera.
“Ma allora te ne vai sul serio?” mi chiese Jonathan mentre ruminava.
“Certo idiota.” Gli risposi, prendendo un sandwich che era sul tavolo della cucina.
“A Mike non piacerà. Lo sai che ti cercherà, vero?” mi disse.
“A me non me ne fotte un cavolo di Mike! Se ne può pure andare all’inferno, per quanto mi riguarda ha passato il limite.” Dissi.
Jonathan era il ragazzo che un anno fa mi aveva offerto un posto in cui stare, visto che cercavo un appartamento e se non fosse stato per lui, starei vagando per le strade di Chicago senza un tetto sulla testa. Che poi si rivelò una cattiva idea, quella non era colpa sua poverino.
D’altronde i parenti non si possono scegliere: Mike era suo cugino e venne a vivere con noi dopo circa due mesi che conobbi Jonathan. Sembrava un ragazzo simpatico e gentile all’apparenza, per poi rivelare il suo carattere patetico e manesco.
“Stammi bene!” mi urlò Jonathan dalla tromba delle scale.
Ma io ormai ero già uscita dal palazzo e stavo camminando a testa alta tra la gente frettolosa di andare a lavoro. Il giorno prima avevo chiamato la mia amica Valerie per dirle se poteva ospitarmi per almeno una settimana nel suo appartamento.
“Va bene tesoro! Sono contenta che finalmente ci rivedremo, ma dimmi che è successo? Non ti piace più stare a Chicago?” mi aveva chiesto al cellulare.
“È colpa di Mike, poi ti spiego meglio quando arrivo. Comunque grazie, non vedo l’ora di tornare a New York!” le risposi.
Finalmente arrivai alla fermata dei bus, comprai il biglietto di sola andata per la grande mela e aspettai pazientemente che il bus arrivasse. Nel frattempo feci scorta di panini e presi una bottiglia d’acqua per il viaggio nel bar di fronte alla fermata, poi verso le 11.30 salii finalmente sul bus. Il conducente sudaticcio e con i baffi grigi mi chiese di fargli vedere il biglietto ed io lo feci. Poi mi incamminai nel corridoio stretto del veicolo e mi andai a sedere nell’ultima fila di seggiole.
Misi le cuffiette e ripensai a tutto quello che mi era successo durante quest’ultima settimana: Mike aveva superato il limite, oltre a prendermi sempre a parolacce aveva osato anche alzare le mani su di me. Mi ero convinta che non l’avrebbe mai fatto su di me, ma invece mi sbagliavo ed adesso ero costretta a scappare da un maniaco geloso. Riuscivo sempre a cacciarmi in situazioni strane e pericolose, era una qualche specie di dote che madre natura mi aveva conferito.
All’inizio, quando la nostra storia andava bene, era carino e dolce con me ma dopo quella volta al bar, il nostro rapporto cambiò. Solo perché a lui non gli piaceva che io giocassi a biliardo con altri uomini, non voleva dire che io non dovessi farlo… e quella sera lo feci.
Il ritorno a casa fu un incubo: urli, parolacce, una litiga pazzesca con tanto di lancio d’oggetti. Da lì il nostro rapporto andò a frantumarsi piano piano. Forse avrei dovuto lasciarlo già da subito, ma il mio cuore si era ormai abituato ad avere qualcuno su cui contare, che ormai non riusciva più a vedere la realtà così com’era. Fino alla settimana scorsa.
Portavo i segni della sua violenza ancora sui miei polsi. Se non fosse intervenuto Jonathan io… non volevo neanche immaginarlo.
Chiusi gli occhi e cancellai quei ricordi dalla mia mente, poi mi addormentai.
Fui svegliata dal conducente ciccione e baffuto.
“Signorina, deve scendere. L’autobus è rotto.” Disse.
Mi stropicciai gli occhi e guardai fuori dal finestrino.
“Cosa? Ma io ho pagato il biglietto!” dissi lamentandomi.
“Mi dispiace, ne arriverà uno di sostituzione tra 4 ore.” Disse alzando le spalle.
“Cosa? Assurdo!” dissi.
Presi la mia roba e scesi dall’autobus. La gente che prima era sul veicolo, adesso vagabondava sul marciapiede in cerca di una soluzione.
“Dove siamo di preciso?” chiesi un’ultima volta al conducente.
“Più o meno siamo nel parco State Game Land, a 6 ore di distanza da New York.” Mi rispose prima di mettersi a leggere il quotidiano spalmato sul volante.
Sbuffai e decisi di aspettare. Ma la mia pazienza aveva un limite e dopo neanche mezz’ora, misi lo zaino in spalla e  cominciai a camminare nel tentativo di trovare qualche motel dove alloggiare la notte.
Ero nel bel mezzo di una strada che attraversava un parco nazionale e l’unica cosa che trovai alla fine di essa, fu un benzinaio con una tavola calda.
Si era ormai fatta sera e girare di notte per le strade non era molto sicuro, ma non lo era neanche stare in una stazione di servizio deserta.
Mi sedetti sulla panca fuori dal bar e tirai fuori i miei panini farciti con questo mondo e quell’altro. Mentre mangiavo, notai un tizio che riparava la sua moto in fondo alla stazione di servizio vicino ad un capanno degli attrezzi. Sembrava davvero infuriato e poco esperto su come aggiustare una moto. Finii i miei panini e poi mi avvicinai a lui, con discrezione. Magari se gli riparavo la moto poteva darmi un passaggio fino alla cittadina più vicina.
Mi schiarii la voce per attirare la sua attenzione.
Quando si girò, per poco non mi prese un infarto: sembrava uno di quei modelli che sfilavano per Dolce & Gabbana, con tanto di gelatina sbrilluccicosa in testa e due fari blu al posto degli occhi.
Terra chiama Jess! Svegliati imbecille!
“Ehm, ti serve una mano?” gli chiesi, svagando con gli occhi.
Aveva due bicipiti che mi impedivano di guardarlo negli occhi.
“Signorina, non mi sembra il caso.” Rispose gentile.
“Crede che una donna non sappia riparare un qualsiasi veicolo? E’ maschilista per caso?” gli chiesi incrociando le braccia sul petto.
La stavo prendendo sul personale. Esatto.
“No, mi scusi. È che le donne solitamente non riparano motori, ma se lei è così sicura… prego!” mi disse gentilmente.
Presi la chiave inglese che mi stava porgendo e mi misi all’opera. Mio padre mi aveva trasmesso la sua passione per le due ruote e da piccola avevo imparato molte cose utili su come ripararle, prima che lui venisse a mancare. Da quando era morto, mia madre aveva buttato via tutte le sue cose perché i ricordi la ferivano e avevamo anche cambiato casa.
Usò la scusa del lutto anche quando ormai erano passati anni e mi trattava come una pezzente. Così all’età di 18 anni, alla fine del liceo, me ne andai di casa per andare a cercare il mio posto nel mondo.
“Mi dispiace dirtelo ma… il motore è rotto e non  penso ci sia una qualche officina nelle vizinanze dove poterla riparare.” Gli dissi alzandomi da terra e pulendomi le mani su uno straccio che mi aveva passato.
“Lo immaginavo… Dannazione!” imprecò.
“Dovevi fare qualcosa d’importante?” gli chiesi con discrezione.
“No, veramente sono in… licenza. Voglio dire, sono in ferie e la moto mi abbandona!” disse alzando le braccia in aria.
“Mi spiace…” gli dissi.
Agitò una mano per dire che non era molto importante alla fine.
“Invece lei andava da qualche parte?” mi chiese indicando con lo sguardo il mio zaino.
“Si e ti prego dammi del tu! Stavo andando a New York quando il bus di linea si è rotto e mi ha lasciato a piedi.” Dissi roteando gli occhi.
“New York? Io invece devo ritornarci a quanto pare.” Disse mentre si ripuliva le mani dal grasso della moto.
“Beh, io mi metto in marcia… magari trovo qualche motel.” Dissi, andando a prendere il mio zaino.
“Non è prudente andare in giro a quest’ora! Soprattutto per una ragazza…. Come te…” disse, mordendosi un labbro.
Risi tra me e me e pensai che forse potevamo farci quel tipo di “compagnia” insieme.
“Non ho paura del buio, macho.” Gli urlai mentre mi mettevo in marcia.
Presi le cuffiette e premetti play, mentre con l’altra mano libera facevo segno di auto-stop.
Passava una macchina ogni tanto, ma nessuno si fermava e tiravo avanti, finché non mi sentii qualcuno toccarmi la spalla. La prima cosa che feci fu sferrare un pugno che fu bloccato a mezz’aria dal macho che avevo incontrato alla stazione di servizio.
Mio padre era un marines ed era stato lui a segnarmi ai corsi di Judo e karate, già dall’età di 9 anni e  diceva sempre di volermi mandare ad un corso di auto-difesa, una volta diventata grande. Si preoccupava molto di me e voleva che io fossi una donna forte e indipendente, che sapeva cavarsela in ogni situazione, anche in quelle di pericolo.
“Scusami!” dissi, togliendomi le cuffiette dalle orecchie.
“Scusami tu, devo averti spaventata.” Disse, lasciandomi la mano “Non sapevo il tuo nome ed avevi le cuffiette e non sapevo come chiamarti.” Disse infine.
“Hai ragione. Comunque io sono Jess, Jess Henderson.” Dissi con un sorriso.
“Steve Rogers…” disse, lasciando una certa suspense. Forse pensava avessi già sentito il suo nome… ma a dir la verità non sapevo affatto chi era, però mi ricordava tanto qualcuno.
“Sei per caso un attore?” gli chiesi, per evitare brutte figure.
Lui scoppiò a ridere.
“No! Sono una specie di… soldato.” Disse, schiarendosi la voce.
“Davvero? Mio padre lavorava nella Marina Militare.” Dissi di getto. Perché stavo rivelando informazioni private sulla mia vita?
Terra chiama Jess! Dispersione di informazioni riservate! Allarme!
“Wow! Io faccio parte di un… ecco adesso lavoro in un agenzia e…” sembrava in difficoltà, come se stesse pesando le parole per non rivelare qualcosa di segreto.
“È un’agenzia segreta del governo?” chiesi, per aiutarlo.
“Ehm, si. Non posso dire molto, ecco.” Mi disse con un sorriso sincero.
Era così tenero mentre mi sorrideva in quel modo, come se fosse dispiaciuto del fatto di non potermi dire molto sul suo lavoro e di non poter parlare liberamente che mi si strinse il cuore… oltre a far calare un po’ di bava dalla bocca per il suo fisico statuario.
Terra chiama Jess! Allarme rosso!
“Allora hai deciso di fartela a piedi?” gli chiesi, curiosa di sapere se mi stava seguendo o semplicemente stava cercando anche lui un letto in cui dormire.
“Non volevo lasciare una fanciulla in balia dell’oscurità.” Mi disse.
“Che gentiluomo!” mi stupii.
“Me lo dicono tutti… Negli anni in cui sono nato io, la galanteria era la regola d’ora per sorprendere una donna.” Disse, poi si accorse di aver detto troppo e si asserì.
“Quando sei nato scusa?” gli chiesi ridendo.
“Ehm… nel 1982!” mi rispose convinto.
“Oh, wow… io sono nata nel ’87 e non ho mai visto ragazzi applicare questa regola!” gli dissi francamente.
“Beh, sono di vecchio stampo.” Mi rispose sorridendo.
“Beh, macho… io continuerei a camminare finchè non troviamo un passaggio. Che ne dici?” gli proposi.
“Per me va bene!” disse con un sorriso, annuendo.
Continuammo a camminare, a parlare e a ridere come due buon vecchi amici. Era semplice e divertente chiacchierare con lui e dimenticarsi di tutti gli orrori che avevo passato. Sapeva rendermi leggera e felice. Questa magia che lui aveva su di me, lo rese speciale ai miei occhi all’istante, sin da quando gli avevo chiesto se gli serviva una mano. Nel giro di qualche ora era riuscito a mettere in subbuglio la mia mente e a farmi battere il cuore.
Ad un certo punto, un vecchio catorcio di macchina si fermò e il conducente abbassò il finestrino per parlarci: era un uomo di colore sui 50, con i rasta lunghi fino alle spalle e un accenno di barba sul volto.
"Serve un passaggio piccioncini?" Ci chiese.
Vidi Steve arrossire e spiegare all'uomo che non eravamo due piccioncini.
"Certo! Ci basta arrivare al più vicino motel." Gli dissi con un sorriso.
"Non me la raccontate giusta voi due!" Rispose il conducente ridendo.
"Dai, andiamo!" Dissi a Steve strattonandolo per un braccio.
"Aspetta! Non mi sembra molto... Affidabile." Disse, dando un'occhiata all'auto vecchia e piena di roba all'interno.
"Ho imparato a non avere pregiudizi molto tempo fa. E poi è l'unico che si è fermato al nostro auto-stop!" Gli dissi.
Scrollò le spalle e brontolò, ma poi entrò in macchina.
Non c'era molto spazio, visto che l'auto era stracolma di scatoloni, borsoni e altre cianfrusaglie. Quindi Steve si ritrovò spiaccicato al finestrino ed io spalmata sui suoi bicipiti.
Erano morbidi, caldi e sembravano essere così forti e...
Terra chiama Jess! Allarme super-rosso! Downloading di pensieri impuri!
Scossi la testa e tornai con i piedi per terra (e con la mente lucida!), quando sentii una zaffata di un odore pungente facilmente riconoscibile.
Vidi Steve arricciare il naso e tentare di aprire il finestrino, il quale era incastrato.
"Volete un tiro, giovini?" Disse l'autista, mostrandoci una canna.
"Non fumo!" Disse Steve.
Risi sotto i baffi, poichè Steve non capiva che quella non era una semplice sigaretta.
"No grazie..." Declinai l'offerta anche io.
Ma ormai la macchina era diventata una specie di bong gigante e il fumo passivo era anche peggio di quello aspirato.
Cominciava a girarmi la testa e scoppiai a ridere senza motivo più di una volta,  seguita a ruota dal conducente che scoprii chiamarsi Jamie.
Steve mi guardava preoccupato e stordito, come se non riuscisse a capire cosa diavolo mi prendeva.
"Perchè tu non ridi?!" Gli chiesi, buttandogli una mano sul petto.
"Ehm, Jess stai bene?" Mi chiese, guardandomi in uno strano modo.
"Mai stata meglio! La vita è bella, la notte è giovane e i tuoi muscoli sono da sballo!" Finii con l'avvicinare pericolosamente il mio viso al suo.
"Ehi amico! Sembra che la ragazza non si sia mai fatta una canna!" Disse ridacchiando Jamie.
Steve sgranò gli occhi e capì il perchè del mio ridere isterico e senza senso. Capì anche che l'effetto di quella droga non poteva funzionare su di lui per il suo metabolismo accelerato.


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Buonasera :)
Eccomi di nuovo in questo fandom con una nuova storia, questa volta su Captain America!
Vi avviso già che sarà composta da massimo 5 capitoli e aggiornerò ogni qual volta che posso (quindi può darsi che domani pubblichi il secondo capitolo come tra una settimana). Parlerà della sua vita sentimentale e poco del suo "lavoro" (anche se ci saranno dei piccoli accenni).
Spero vi piaccia! Fatemi sapere la vostra impressione lasciando una recensione :D
A presto,
Artemis Black

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: One night to remember. ***


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Capitolo 2: One night to remember.


"Quanto manca ancora per arrivare in una cittadina?" Chiese bell'imbusto a Jamie.
"Veramente siamo già in città, fratello!" Gli rispose.
"Allora puoi anche lasciarci qui!" Disse Steve.
Nel frattempo io mi sentivo la testa girare ancora di più e il mio stomaco in subbuglio.
"Va bene qui? Là c'è una fantastica bettola, amico!" Disse Jamie indicando un motel.
"Va più che bene! Grazie del passaggio!" Disse, poi aprì la portiera e mi trascinò via da quella fumera.
"Ehi Jess, come va?" Mi chiese.
"Mi gira la testa..." Dissi, prima di incespicare sui miei piedi e rischiare di cadere a terra. Fortuna che Steve mi prese appena in tempo, per poi prendermi letteralmente di peso quando ormai capì che non riuscivo a reggermi in piedi.
 
"Abbiamo solo una matrimoniale." Le disse la donna che sedeva dietro il bancone della reception.
"Va bene, mi dia quella!" Disse Steve, dandogli poi i soldi per il pernottamento.
Nel frattempo mi lanciava occhiate preoccupate, mentre ero seduta scomposta su una panchina.
Era vero che non avevo mai fumato dell'erba, ma non avevo neanche respirato così tanto fumo passivo in vita mia!
Steve ritornò da me, caricandosi il mio zaino in spalla e aiutandomi a camminare.
"Ce la faccio anche da sola!"'gli dissi scorbutica.
"Ok, ok. Questa è la stanza dove alloggeremo. Tu dormirai nel letto e io sulla poltrona, intesi?" Mi disse puntandomi i suoi due occhi azzurri nei miei, per comprendere se ero tornata in me.
"Ok..." Risposi.
Poi andai in bagno a sciacquarmi il viso e a prepararmi per la notte. Lanciai le scarpe vicino al letto, mi tolsi i pantaloncini e la maglia, rimanendo in intimo.
Quando uscii dal bagno, Steve mi guardò imbarazzato, poi si girò per pudore.
Raggiunsi il mio zaino e indossai la maglia larga dei Beatles, che usavo come camicia da notte, che mi stava 5 volte.
Mi infilai sotto le coperte e mi coprii fino al mento.
"Buonanotte." Dissi.
"Notte." Mi rispose Steve.
Lo guardai mentre tentava di trovare una posizione comoda per dormire su quella poltrona striminzzita.
"Puoi dormire nel letto, a patto che tu rimanga nel tuo lato!" Gli dissi dolcemente.
"Sicura?" Mi chiese.
"Non te lo ripeterò due volte, soldato." Dissi sbuffando.
Sentii i suoi passi sulla moquet e lo spostamento d'aria che provocò quando alzò le coperte.
Era rimasto immobile per tutta la notte, in pizzo al bordo del letto e molto distante da me, come da patto. Si addormentò subito, mentre io dormii a malapena 4 ore. Colpa degli incubi che non mi lasciavano in pace neanche un attimo.
Mi svegliai verso le 6 e di Steve nessuna traccia.
All'inizio pensai che fosse stato tutto un mio sogno ed invece lo vidi tornare dopo neanche mezz'oretta.
"Buongiorno!" Mi disse con un accenno di sorriso.
"Buongiorno..." Mugugnai. Avevo un mal di testa tremendo.
"Ho chiamato un mio amico, tra poco sarà qui e ci porterà a New York." Mi annunciò.
Annuii stroppicciandomi gli occhi.
"È stato alquanto strano ieri sera.." Sospirò Steve.
Sgranai gli occhi e pensai di esserci andata a letto e non ricordarmelo. Che disdetta!
"No! Non è quello che pensi! Intendevo l'avventura in macchina di quel tizio." Disse.
Sgranai ancora di gli occhi e pensai di aver fatto un menage à trois.
"No! No! Nel senso che quel tizio ha fumato una gran quantità d'erba e aveva fatto diventare la macchina una specie di camera a gas!" Si riprese agitando le mani.
"Ah!" Sospirai.
Peccato...
Terra chiama Jess! Ritorna in te, idiota!
Stiracchiai le braccia e mi andai a vestire in bagno. Mi cambiai maglietta ma misi gli stessi pantaloncini con gli anfibi.
Mi raccolsi i capelli in una coda alta e lasciai il mio viso acqua e sapone. Mi tolsi i polsini beri e controllai i lividi: stavano finalmente guarendo e da violacei scuri erano passati a un colore più chiaro seppur evidenti. Alzai la maglia e controllai gli altri che avevo sui fianchi e all'altezza delle costole. Quelli erano ancora evidenti, ma non mi dolevano più.
"Vado a prendere qualcosa da mangiare!" Dissi prima di uscire dalla stanza.
Vidi alcuni distributori automatici in uno spiazzale che divideva le stanze del motel in due blocchi.
C'erano dolciumi in gran quantità, ma anche tramezzini, bibite e alcolici.
Presi due tramezzini e alcune merendine al cioccolato, poi rimasi interdetta se prendere la bottiglietta di Jack Daniel's.
Chiusi gli occhi e presi un respiro. Non potevo ricadere in tentazione...
Premetti velocemente i pulsanti e raccolsi la bottiglietta dal cestello. La stappai e ne bevvi metà tutto d'un fiato. La richiusi e la misi nella tasca del giacchetto con repulsione.
"Non avrei dovuto farlo." Mi dissi.
Entrai in camera e mi ritrovai Steve a petto nudo che si stava rimettendo la maglia.
Non so se era colpa dell'alcol appena ingerito o del fatto che in quella camera faceva troppo caldo. Fatto sta che mi sentii le gote andare in fiamme.
"Ho preso da mangiare!" Dissi, senza distogliere lo sguardo da tutto quel ben di dio.
"Fantastico!" Mi rispose, rimettendosi sfortunatamente la maglia.
Mangiammo in silenzio, anzi divorammo il cibo in men che non si dica e siccome il ragazzone aveva ancora fame, uscì a prendersi qualcos'altro, mentre io rimasi distesa sul letto.
Strinsi la bottiglietta nella giacca, ma riuscii a trattenermi nel berla.
"Il mio amico è arrivato, ci sta aspettando qua fuori!" Disse Steve rientrando con due tramezzini in mano e uno in bocca.
Presi lo zaino e la giacca di Steve, che era sulla poltrona e gliela porsi. Mi ringraziò con un sorriso, poichè era impegnato a mangiare.
Una macchina sportiva nera opaco ci attendeva non poco distante, con i vetri oscurati e un uomo che ci attendeva appoggiato ad essa. Aveva occhiali sportivi neri, un berretto blu in testa ed era serio, quasi incazzato.
"Non credo sia felice di vederti." Sussurrai a Steve. Lui rise e poi mi spiegò che quella era la solita faccia di Clint, il suo amico.
Infatti appena ci avvicinammo, mi rivolse un ampio sorriso e si presentò, poi salutò Steve.
"Felice di rivederti, capitano!" Disse.
Da lì dedussi che Steve doveva ricoprire un ruolo importante nel suo lavoro.
Entrammo in macchina e ci mettemmo in viaggio. Dopo neanche un quarto d'ora, mi appisolai con i Linkin Park che cantavano nelle mie orecchie.
 
Mi spinse addosso al tavolo della cucina e sentii un dolore lancinante salirmi su per il fianco. Ancora stordita dal dolore, mi sentii prendere i polsi e stritolarli fino a farmi strillare.
Mike continuava a urlarmi contro, ma non riuscivo a capire niente di quello che diceva. Caddi a terra, mi diede dei calci allo stomaco, poi riuscii a bloccargli i piedi e a farlo cadere a terra. Mi rialzai a fatica e corsi fino in camera. Chiusi la porta appena in tempo, la chiusi a chiave e mi nascosi dietro al comodino vicino al letto. Sentivo le sue urla piena di rabbia e frustrazione perforarmi le orecchie, la porta che veniva percossa da violenti pugni ed infine fu aperta improvvisamente. Aveva sferrato un calcio per aprirla ed adesso non avevo scampo.
“Smettila! Basta!” gli urlai.
Le lacrime rigavano il mio viso e scioglievano il trucco nero, impastandomi gli occhi. Mi tirò per un braccio e mi buttò sul letto. Mi tirava i capelli e continuava a urlarmi contro inferocito. Io non avevo più nessuna forza per oppormi, rimanevo inerme sul letto mentre lui continuava a percuotermi.
Avrei voluto reagire, ma non ce la facevo.
Pensai a mio padre e a quando diceva che dovevo essere una donna forte… e quanto lo stavo deludendo arrendendomi contro Mike.
 
Mi svegliai di colpo, con il fiato corto e la fronte imperlata di sudore.
Gli occhi preoccupati di Steve mi riportarono alla realtà, facendomi calmare. La mia mano corse su per la giacca, fin dentro la tasca dove c’era la bottiglia di liquore.
“Tutto ok?” chiese Steve.
Annuii con la testa deglutendo.
“Era solo un incubo.” Era solo uno dei ricordi che tormentavano il mio sonno.
Appena Steve si rigirò in avanti, presi la boccetta di Jack Daniel’s. Me la rigiravo tra le mani non sapendo cosa fare. Poi la aprii e bevvi tutto quello che ne era rimasto.
Quando alzai gli occhi, vidi Clint che mi guardava dallo specchietto retrovisore.
Sostenni il suo sguardo neutro, imbarazzata e frustrata.
“Problemi con l’alcol?” mi chiese, come se niente fosse.
Vidi i muscoli delle spalle di Steve contrarsi.
“Non sono affari tuoi.” Dissi astiosa. Poi me ne pentii e gli risposi.
“Erano mesi che non toccavo una di queste…” sussurrai.
“Una ricaduta. Capita, me non devi lasciarti scoraggiare.” Mi disse. Sembrava avere esperienza su questo campo, ma preferii farmi gli affari miei anziché chiederglielo.
Il resto del tragitto lo passammo in silenzio, finchè il mio cellulare non squillò.
“Jess! Sono io, Valerie. Devo darti una brutta notizia… il padrone di casa mi ha sfrattato e mia madre vuole che ritorni in Francia da lei. Mio padre l’ha mollata.” Disse incazzata.
“Cosa? O mio dio mi dispiace…” risposi. In realtà ero incavolata nera e stavo reprimendo un moto di rabbia. Le nocche della mia mano sinistra erano diventate bianche per quanto la stringevo.
“Lo so, mon amie. Mi dispiace così tanto.” Mi disse “Scusa ora devo prendere la mia roba prima che quel pazzoide me la butti fuori casa!” mi attaccò.
“Merda!” urlai.
“Scusate…” dissi, rivolgendomi ai ragazzi.
“Cos’è successo?” mi chiese Steve, con discrezione.
“È successo che la mia pseudo-amica mi ha appena scaricato per strada per tornarsene in Francia!” dissi urlando.
“Oh…” mi rispose.
“Non puoi andare dai tuoi?” mi chiese gentilmente.
“Mio padre è morto e mia madre è un’acida pazza che mi ha sbattuto fuori casa.” Gli risposi, portandomi le mani sul viso.
Stavo pensando in fretta a dove poter stare. Controllai anche quanti soldi possedevo e constatai di avere all’incirca 200 dollari, praticamente troppo poco per sopravvivere a New York.
“Posso ospitarti nella mia casa, se vuoi.” Disse sorprendendomi Steve.
Sia io che Clint sgranammo gli occhi. Rimasi interdetta: non volevo procuragli fastidio o altro.
“Ecco io… non vorrei disturbare...” gli dissi, rigirandomi i pollici.
“Oh tranquilla, per la maggior parte di tempo io non sarò a casa. Non mi darai fastidio.” Mi disse sorridendomi.
Gli sorrisi intimidita, ma nel profondo già festeggiavo e ballavo la samba.
Terra chiama Jess! Un po’ di contegno, per favore!
“Se per te non è un disturbo, accetto volentieri.” Gli dissi, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Un leggero rossore apparve sulle guance di Steve , che si girò di scatto in avanti, mentre il suo amico affianco rideva di gusto.


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Buongiorno :)
Eccomi con il secondo capitolo! Allora, che ne pensate?
La nostra protagonista andrà a vivere con Capitan America (anche io voglio vivere con lui ç_ç) e finalmente dal prossimo capitolo si avranno degli accenni "romantici".
Grazie a 
 Fipsi Floyder Luna_Bella maura 77 Strix veronika87 per averla messa in una delle tre categoria e a Alley che ha recensito :)
Spero vi sia piaciuta e lasciate una recensione se vi va!
A presto,
Artemis Black

 

P.S: questa è la mia pagina fb Artemis Black efp per qualsiasi cosa :)

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Capitolo 3
*** Capitolo 3: You won’t get much closer, till you sacrifice it all. ***


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Capitolo 3: You won’t get much closer, till you sacrifice it all.


[Un mese dopo…]
 
La voce del cantante dei 30 Seconds to Mars risuonava in tutta la casa, mentre io cucinavo la cena da brava coinquilina. In realtà stavo semplicemente scartando l’ordinazione del ristorante cinese, ma poco importava.
Non lo sentii entrare perché la musica era veramente molto alta e quando mi girai per prendere dei tovaglioli me lo ritrovai davanti e per poco non svenni.
Era vestito di una tuta grigia e nera e portava i capelli scompigliati e sudati. Sicuramente era andato ad allenarsi in palestra.
“La musica non sarà un tantino troppo alta?!” mi disse sorridendo.
Prese una fetta di pane di riso e l’addentò.
“Come vuoi, vecchietto.” Gli dissi, girandogli intorno per andare a spegnere lo stereo.
Avevo scoperto chi era veramente e tutti i miei perché sulla sua galanteria d’altri tempi furono chiariti: era Capitan America, l’uomo che viveva nella leggenda, che aveva più di ottant’anni ma ne dimostrava solo trenta. Lo avevo scoperto circa una settimana dopo essermi trasferita nella sua casa. Ero in cerca di asciugamani grandi, per potermici avvolgere dopo una doccia e mentre rovistavo tra i vari cassetti, andai a finire nella sua camera, ultima spiaggia dove andare a cercare.
Avevo aperto i cassetti del mobile con discrezione, non volevo frugare tra le sue cose, ma avevo bisogno di un dannato asciugamano. Mentre alzavo pile di magliette e canottiere, scivolò a terra un fascicolo marrone scuro con dentro molti fogli.
Lo raccolsi, ma nel farlo i fogli si sparpagliarono sul pavimento, rivelando una sua foto in divisa a stelle e strisce. In un primo momento pensavo fosse un fotomontaggio, poi ripresi tutto alla rinfusa e lo rimisi nel cassetto… ma la curiosità era tanta.
Così la sera, quando lui tornò a casa, io ero in sala seduta sul divano con il fascicolo poggiato accanto a me.
“Non volevo, ma stavo cercando una cosa ed è saltato fuori. Scusa se ho ficcato il naso nelle tue cose ma non era mia intenzione.” Dissi, martorizzandomi le mani per il nervoso.
All’inizio asserì, ma poi mi spiegò tutto con calma e disse che non importava se io ormai lo sapevo. Ma dovevo tenerlo segreto. Per i giorni seguenti, tra noi regnò un silenzio surreale e lui mi evitava, uscendo di casa presto e ritornando tardi.
Finché un giorno non mi svegliai alle 5, gli preparai una colazione da re e piombai in camera sua , sedendomi u un lato del letto.
“Non puoi evitarmi adesso.” Gli avevo detto svegliandolo.
Lui rise e disse che ero buffa e dolce, facendo così colorare le mie guance di rosso.
“Ti ho preso il pollo alle mandorle, come mi avevi chiesto.” Gli dissi, porgendogli la confezione.
Lui si mise un asciugamano intorno al collo e prese la confezione.
“Che hai fatto oggi?” mi chiese, mentre si impiccava per prendere il boccone con le bacchette.
“Sono andata a cercare un altro lavoro e l’ho trovato!” dissi trionfante, mentre mangiavo un involtino primavera.
“Però… mi faresti un favore?” gli chiesi, facendomi piccola piccola.
“Certo, dimmi.” Mi rispose.
“Potresti venirmi a prendere alla fine del turno? All’andata ci posso andare con i mezzi, ma al ritorno stacco alle 2 di notte.” gli chiesi cortesemente.
“Certo! Non ti lascio vagare di notte da sola.” Disse sorridendo.
Ok, stavo per avere un infarto ma dettagli.
“Grazie!” gli dissi a quarantadue denti.
“Dov’è che vai a lavorare?” mi chiese mentre si puliva la bocca.
Quelle labbra così invitanti…
Terra chiama Jess! Ehi, datti una regolata ragazza!
“In un bar. Mi prendono in prova e se vado bene mi danno il lavoro.” Dissi, finendo di mangiare.
“Bene, bene… dopo settimane in cerca di lavoro, finalmente qualcosa!” disse.
Poi si alzò e mi disse che si sarebbe andato a fare una doccia calda.
Io rimasi in cucina a pulire e buttare i rimasugli della cena. Presi l’ipod dallo stereo e misi le cuffie: nelle mie orecchie esplosero i Linkin Park con New Divide.
Cominciai a ballare in mezzo alla cucina, mentre la sistemavo e davo una pulita. Poi presi una mela e l’addentai senza pensarci due volte. In pochi morsi la finii e finalmente il mio stomaco fu sazio.
Saltellando andai in salotto per prendere il mio libro e tornare in camera e quando mi girai mi scontrai con qualcosa di più alto di me e il tappeto scivolò sotto i miei piedi, facendomi cadere di sedere.
“Ahi ahi!” dissi imprecando.
Quando alzai lo sguardo mi ritrovai uno Steve piegato in due a ridere.
“Che ti ridi, capitan ghiacciolo?!” gli dissi, facendo la finta arrabbiata.
Lui mi guardò storto.
“Non chiamarmi con quel nomignolo. Lo odio.” Disse puntandomi un dito, cercando di non ridere.
“C-a-p-i-t-a-n g-h-i-a-c-c-i-o-l-o.” dissi, facendo lo spelling.
“Come osi?!” disse e si avventò su di me, facendomi il solletico.
Risi come una matta, fino a farmi mancare il fiato e a colpire Steve sul naso.
“Sta attenta!” mi disse. Io feci finta di niente e mi alzai, ma la sua mano mi tirò indietro, facendomi cadere su di se.
Per un attimo i nostri sguardi si incrociarono e l’elettricità nell’aria esplose: i suoi occhi blu cielo erano brillanti e imbarazzati, ma subito dopo si addolcirono e un lampo veloce di malizia li attraversò. I miei erano spalancati e sconcertati, ma poi si chiusero lentamente, fino a che non piegai la testa per poggiarla sul suo petto. Mi sentivo protetta e cullata tra quelle braccia così forti ma allo stesso tempo delicate nei movimenti. Mi accarezzò i capelli e disegnò cerchi invisibili sulla mia schiena, facendomi venire i brividi.
Non era la prima volta che avevamo un rapporto così ravvicinato, fatto di piccole carezze e tocchi delicati: qualche giorno prima, io mi trovavo in cucina a preparare un omelette e lui volendone assaggiare un pezzo, poggiò una sua mano molto delicatamente su un mio fianco e prese un boccone dalla forchetta. Poi si accorse del gesto e ritrasse la mano imbarazzato. Anche se io con un’occhiata gli feci capire che non mi aveva dato fastidio.
Ma adesso… eravamo abbracciati, distesi a terra a beare di quel piccolo momento di tenerezza fuori dal tempo. Poi i ricordi presero a girare vorticosamente nella mia testa e non riuscii a trattenerli e si riversarono tutti fuori.
Mi alzai di scatto dal suo petto e balbettai qualcosa sul tardi e che era ora di andare a letto. Poi mi precipitai in camera da letto e mi chiusi la porta dietro.
Presi un grande respiro e cercai di cacciare via quei flashback così violenti.
Un nodo alla gola mi impediva di deglutire e tutto quello che feci, fu stendermi sul letto e piangere fino ad addormentarmi.
 
“Smettila! Mike, fermati!” gli urlò contro Jonathan.
Ma Mike lo spinse via dalla stanza e chiuse la porta.
“Puttana! Stronza! Sei solo una puttana!” mi urlò contro.
Mi prese per il collo e mi tirò su dal letto. Mi ficcò la lingua in bocca, ma quando io gliela morsi e tentai di allontanarlo lui mi colpì in faccia. Nel frattempo Jonathan sbraitava dietro la porta, ma non riuscivo a capire che diceva per quanto ero stordita.
Mi strappò la maglietta di dosso, tentò di togliermi i pantaloni, ma con un calcio in mezzo alle gambe lo feci allontanare. Mi misi in piedi e raggiunsi la porta, cercando di reprimere il dolore che mi attraversava l’addome.
“Dove vai?!” mi urlò.
Gli chiusi una mano nella porta, poi scappai. La polizia fece irruzione nella casa, Jonathan mi prese da parte e mi abbracciò forte. Gli misero le manette, lo portarono via. Dopo di loro entrarono due paramedici, mi tastavano ovunque, controllavano le ferite e le tamponavano. Poi all’improvviso persi i sensi.
 
Mi svegliai di soprassalto ed annaspai in cerca d’aria.
Riuscii a calmarmi soltanto dopo aver constato che mi trovavo nella camera degli ospiti di Steve.
“Merda…” sussurrai. Mi lasciai cadere pesantemente sul cuscino, poi decisi di alzarmi ed andare a prendere un bicchiere d’acqua.
Feci meno rumore possibile nell’aprire la porta ed andare in cucina. Non volevo svegliare il capitano.
Buttai giù due bicchieri d’acqua e uno di vodka.
“Riuscirò mai a liberarmi di questi maledetti ricordi?” pensai.
Poi notai una figura sdraiata sul divano: era Steve, si era appisolato con un braccio sugli occhi e uno sull’addome. Sul tavolino lì vicino c’era un block notes pieni di fogli scomposti.
Lo presi e mi sedetti sulla poltrona opposta al divano.
Erano disegni di persone, luoghi e animali… ed erano tutti bellissimi.
Aveva un tratto leggero ma deciso e le figure parevano quasi prendere vita. Ce ne era uno che raffigurava una ragazza con i capelli mori e boccolosi, le labbra grandi probabilmente rosse e gli occhi scuri. Era un primo piano, ma si notava il colletto di una divisa appena accennato.
“Che sia Peggy?!” pensai. Era uguale alla foto in bianco e nero che c’era nel fascicolo di Steve.
Richiusi il block notes e lo rimisi al suo posto, poi andai a prendere una coperta e lo coprii, facendo cura di non svegliarlo.
 
La metro era abbastanza vuota anche se erano le 7 di sera.
Il mio fedele iPod mi teneva compagnia e nelle mie orecchie risuonavano i Paramore con Brick by Boring Brick. Una vecchietta si era appisolata sulla spalla di un ragazzo di colore che aveva i dread e i piercing al naso e alla bocca. Un signore poco distante da me leggeva il giornale, mentre un barbone contava gli spiccioli e scuoteva la testa.
Una voce meccanica annunciò la fermata. Presi la bora e scesi.
Il locale non distava molto dalla fermata, infatti ci impiegai dieci minuti ad arrivare.
“Cerco Dean.” Dissi ad uno dei baristi.
“Sei quella nuova?” mi chiese un ragazzo alto, con i capelli biondo cenere e gli occhi scuri.
“Si, comincio oggi.” Gli risposi.
“Vieni, ti faccio vedere dove puoi lasciare la borsa e cambiarti.” Mi rispose.
“Cambiarmi?!” chiesi. Forse intendeva darmi una grembiule!?
“Si, non lavorerai qui. Ma nel locale dietro.”
Mi portò davanti una porta anti-incendio color rosso scuro e poi l’aprii.
“Ma… non era questo quello che intendevo fare.” Dissi fermamente.
“Il lavoro è questo. Se ti comporti bene, Dean ti pagherà molto profumatamente.” Disse.
 
Steve si fermò davanti al locale alle 2 di mattina, proprio come Jess gli aveva chiesto.
Aspettò cinque, poi dieci ed infine mezz’ora, ma di Jess nessuna traccia.
Smontò dalla sella ed entrò nel pub. C’era poca gente rispetto alle tante auto parcheggiate fuori.
Si guardò intorno, ma non c’era traccia della ragazza.
“Ehi! Scusa, sto cercando Jess.” Chiese al ragazzo con i capelli biondo cenere e gli occhi scuri.
“Chi?!” chiese a sua volta.
“Media altezza, capelli biondi, occhi chiari…” mimò Steve.
“Aaaah, ho capito amico.” Gli fece un cenno e lo portò davanti ad una porta rosso scuro.
“Sei uno sbirro?” gli chiese, con un’occhiataccia.
Steve non capì, ma gli rispose di no.
Il ragazzo aprì la porta e lo lasciò da solo.
C’era un altro locale dietro quella porta, pieno di gente e ragazze poco vestite.
Steve si arrabbiò e strinse i pugni mentre cercava Jess tra le ragazze vestite a malapena da un costume da coniglietta o da gatta.
La vide mentre portava un vassoio colmo di drink ad un tavolo pieno di uomini. Aveva un body nero di pelle, un paio di tacchi vertiginosi e delle orecchie da gatto tra i capelli scompigliati.
Era dannatamente bella… ma Steve scacciò via quel pensiero e l’afferrò per un polso.
“Che ci fai qui?” gli chiese sbalordito.
“Steve!” disse lei sorpresa. Controllò l’ora guardando l’orologio affisso su un muro.
“Vieni via, adesso.” Disse Steve.
Lei corrucciò le sopracciglia e balbettò qualcosa, andando a prendere la borsa.
 
Neanche ebbe il tempo di cambiarsi, perché Steve la trascinò via da quel posto.
“Mi fai male!” gli dissi.
“Scusa…” disse, lasciandomi il polso.
“Ma come ti è saltato in mente di lavorare in un locale del genere?!” sbottò lui.
Rimasi sbalordita per il modo in cui me lo disse.
“Non lo sapevo… sul volantino c’era scritto barista.” Dissi balbettando.
“Si certo…” rispose, poi si infilò il casco e me ne diede uno anche a me.
Mentre tornavamo a casa, ripensai a tutto quello che era successo e del modo in cui Steve si era rivolto a me.
“Non puoi trattarmi come una bambina in quel modo! Mi serviva un lavoro per guadagnare!” gli dissi appena entrammo a casa.
Lui si girò sconvolto e mi puntò un dito.
“Eri in uno Strip Club dannazione!” disse.
“E allora?! Stavo lavorando?!” gli urlai contro.
 “Secondo si può chiamare lavoro quello che stavi facendo? Eri mezza nuda dannazione!” mi rispose.
“Esagerato. Sei tu quello antiquato tra i due.” Gli dissi a denti stretti.
“E tu sei quella che si spoglia per pochi spiccioli!” mi disse.
Mi aveva dato della poco di buono, in poche parole. Serrai i pugni e cercai di trattenere le lacrime che stavano affiorando.
Scappai in camera, presi il mio zaino e ci buttai dentro tutte le mie cose presa da un raptus di rabbia.
“Che stai facendo?” mi chiese Steve sull’uscio della porta.
“Me ne vado!” gli urlai.
“Ferma, fermati!” mi disse, poi mi bloccò le braccia in un abbraccio.
“Tu non capisci! Non puoi capire!” gli urlai.
E continuai a muovermi per liberarmi, mentre lui mi teneva sempre più stretta a se.
“Io voglio solo essere felice…” dissi a singhiozzi.
“E chi te lo impedisce?” mi chiese dolcemente, mentre mi spostava una ciocca di capelli dal viso.
“Mike.” Dissi con un filo di voce.
Gli raccontai tutta la storia, tutta d’un fiato, mentre mi puliva il viso dalle lacrime.
Lo vedevo stringere i pugni ogni tanto, mentre la mandibola era serrata.
Una volta finito di raccontare, mi tolsi il body nero e gli mostrai il tatuaggio che nascondeva la ferita sull’addome: una fenice nera con le ali spiegate era disegnata tra l’addome sinistro e il fianco. Anche se il livido non si vedeva più, quello era per me un simbolo.
“La fenice rinasce dalle ceneri…” disse sottovoce Steve.
Annuii.
Toccò il tatuaggio, lasciando una scia di fuoco sulla mia pelle. Disegnò i contorni delle ali e poi mi afferrò dolcemente per i fianchi.
Mi attirò a se e avvicinò le nostre bocche, riuscivo a sentire il suo fiato caldo.
Poi le sue labbra morbide furono sulle mie. 

_______________________________________
Eccomi qui con il terzo capitolo :)
Per quanto riguarda il viaggio di Jess da casa Roger al lavoro, non ho specificato bene la posizione in quanto non sono mai stata a New York e non so neanche come funzioni la metro lì, quindi è tutto naturalmente inventato da moi.
Spero vi sia piaciuto il capitolo ed anche che la storia continui a soddisfarvi.
Per qualsiasi cosa vi lascio la mia pagina efp
Fatemi sapere la vostra con una recensione, grazie :D
A presto,
Artemis Black

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Capitolo 4
*** 4.Damn your eyes, for getting my hopes up high, making fall in love again. ***


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4.Damn your eyes, for getting my hopes up high, making fall in love again.

Spostai leggermente le coperte e raccolsi i miei panni sparsi sul pavimento freddo. Indossai velocemente una maglietta e andai verso la porta. Prima di uscire, gli diedi un’ultima occhiata: il suo petto si alzava e abbassava con regolarità, aveva un’espressione rilassata e quasi angelica, i suoi capelli scompigliati erano bellissimi e un ciuffo ribelle gli cadeva sul viso incorniciando il suo viso perfetto.
Chiusi leggermente la porta e andai in cucina a preparare la colazione.
Erano quasi le 9 ed era strano che Steve ancora non fosse andato a lavoro, solitamente per quell’ora era già fuori.
“Forse dovrei svegliarlo.” Pensai.
Poi ricordai la sua espressione rilassata e mi dissi che era meglio lasciarlo riposare.
Presi una coppia di uova e le aprii nella padella, poi aggiunsi della mozzarella tagliata a cubetti e cominciai a strapazzare il tutto. Poi in un’altra padella cucinai della pancetta, mentre ascoltavo della buona musica con l’ipod. Saltellai fino al frigo e presi il cartone di succo di frutta all’arancia rossa e la posai sul bancone. Mentre ballavo in mezzo alla cucina a ritmo di Panic Station dei Muse, misi le due porzioni di cibo in due piatti e versai il succo in due bicchieri.
E mentre la canzone finiva e ne iniziava un’altra, sentii una risata sommessa.
“Sei troppo buffa!” mi disse Steve avvicinandosi a me.
“Ehi! Non sono buffa!” gli dissi, mollandogli un pizzicotto sulle sue braccia nude.
Per risposta ricevetti un dolce bacio sulle labbra, poi mi sollevò da terra e mi circondò la schiena con le sue mani ed io gli allacciai le gambe alla sua.
“Hai messo la mia maglia…” disse Steve.
“Oh! Non ci avevo fatto caso…” dissi sarcastica.
Mi baciò ancora ed ancora, finchè non mi poggiò sul tavolo della cucina ed andò a prendere i piatti della colazione. Mangiammo così: io seduta sul tavolo e lui seduto sulla sedia affianco a me.
“Lo sai che ore sono?” gli chiesi.
Lui scosse la testa e mi guardò interrogativo mentre mangiava la pancetta.
“Beh solitamente vai a lavoro presto… e io non volevo svegliarti perché stavi riposando ed eri così rilassato!” gli dissi.
“O mio dio, che ore sono?” disse alzandosi di scatto e finendo velocemente la colazione.
“Le 9.30.” gli risposi mordendomi il labbro.
“Dannazione! Sono in ritardo!” disse.
Corse in bagno a farsi una doccia e a vestirsi, poi mi disse che sarebbe tornato tardi probabilmente.
“Aspetta!” gli dissi sul pianerottolo di casa.
Lui si voltò e gli presi il viso tra le mani e lo baciai delicatamente.
“Buona giornata.” Gli dissi, arrossendo.
“Buona giornata anche a te.” Mi rispose sorridendomi, poi scappò via.
 
“O mio dio!” urlai appena chiusa la porta.
Avevo un sorrisino stupido stampato in faccia e tutto mi sembrava più bello che mai!
Mi venne in mente di andare a comprare fiori e cioccolatini, poi pensai che era meglio andare a fare un salto da Victoria’s Secret ma poi finii sul divano a guardare  la tv distrattamente mentre ripensavo a quello che era successo la sera precedente.
E senza accorgermene, si fece ora di pranzo e non avendo niente in frigo, mi vestii e andai a fare la spesa.
Nel discount, riempii un carrello di roba e mentre giravo sorridente tra i scaffali, notai un uomo che mi fissava da dietro un paio di occhiali scuri. Non riuscii a riconoscerlo, poiché non mi sembrava di averlo mai visto. Aveva un berretto nero in testa e una barba piuttosto curata. Guardava verso di me mentre metteva delle mele prese a caso in una busta. Proseguii per gli scaffali e andai infine a prendere del latte.
Vicino in banco frigo c’era il tizio sospetto. Feci finta di niente e presi due bottiglie di latte, poi fu lui a presentarsi… o meglio a farmi domande.
“Lei è la signorina che va a letto con Steve Rogers?” disse spudoratamente.
“Cosa?” gli dissi, facendo l’indignata.
“Beh l’ho vista uscire dal suo appartamento. A meno che lei non sia una ladra…” disse massaggiandosi la mandibola.
“Comunque…” disse togliendosi gli occhiali “Sono Tony Stark.” Concluse con un affascinante sorriso.
“Quel Stark?” chiesi stupita.
“Ovviamente. L’unico e il solo, bimba.” Disse.
“Oh certo, mi scusi signor Stark.” Risposi stizzita.
“Chiamami Tony! E tu…?” mi chiese.
“Non so se fidarmi o no di lei, ma al momento può chiamarmi Jess.” Dissi, sfoderando un sorriso falso.
“Le serve una mano?” mi chiese indicando il carrello.
“In effetti si.” Risposi. Non ce l’avrei mai fatta a portare tutta quella roba a piedi fino a casa di Steve.
“Aumenterebbe la mia affidabilità?” chiese dispettoso.
“Probabilmente.” Risposi.
E fu così che entrai in un’auto a dir poco lussuosa e veloce. Era un’audi R8 E-Tron, completamente elettrica e “molto utile da usare per diminuire le immissioni di CO₂ e contribuire a non allargare il buco nell’ozono”, così mi disse Stark.
Mi accompagnò fin dentro casa e mi aiutò a mettere a posto le cose, o meglio, andò in giro a ficcanasare.
“Come vi conoscete tu e Steve?” gli chiesi.
“Oh bimba, non puoi saperlo: Top Secret.” Disse, con un sorriso sfrontato.
“Come la tua fama di playboy… ci sta provando con me per caso?” gli chiesi insospettita.
“In effetti è un test per capire se lei ha battuto la testa e si innamorata perdutamente di quel ghiacciolo oppure è sotto effetto di narcotici.” Disse guardandomi negli occhi.
“La sua sfrontatezza è allucinante, Tony.” Dissi stupita.
“Quindi assume allucinogeni?” mi chiese puntandomi un dito contro.
“L’unica cosa allucinante qui è il suo stupido discorso.” Gli dissi.
“Adesso ho da fare, se ti dispiace…” gli dissi, indicando con lo sguardo la porta.
“Non è sicuramente gentile e rispettosa come Steve…” affermò.
“E non sono insolente e sarcastica come te.” Affermai.
Mi guardò serio per un momento, poi si girò e se ne andò, salutandomi con un cenno della mano.
 
Erano le 22 e Steve ancora non accennava a tornare a casa.
Così mangiai la mia cena e lasciai la sua nel microonde. Optai per la maxi maglietta di Steve come pigiama mentre ero indecisa se farmi trovare nel suo letto oppure andare nel mio.
Scelsi il suo letto.
Alzai le coperte e mi ci infilai sotto. Afferrai il suo cuscino e aspirai il suo profumo fresco ed unico. Poggiai così la testa e morfeo mi accolse tra le sue braccia.
Mi svegliai solo quando sentii qualcosa accarezzarmi una guancia. Aprii lentamente gli occhi e mi ritrovai il viso di Steve a pochi centimetri dal mio.
“Non volevo svegliarti…” disse mordendosi un labbro dispiaciuto.
Quella sua espressione da cucciolo mi fece sciogliere e gli circondai il collo con le braccia.
“Io invece sono felice che tu l’abbia fatto.” Dissi e poi lo attirai a me.
Mi passò un braccio dietro le spalle e mi baciò.
Le coperte si aggrovigliavano, i nostri baci diventavano sempre più passionali fino a farci dimenticare del resto del mondo. I vestiti sparirono magicamente, lasciando spazio alla nostra pelle calda ed eccitata. Lo sentivo sussurrarmi parole dolci che le mie orecchie mai avevano udito prima. Lo strinsi e a me e sperai tutto ciò non fosse solo un sogno.
 
“Cosa?! Stark è stato qui?” mi chiese mentre mi accarezzava dolcemente i capelli.
Era mattina presto e subito dopo essermi svegliata, mi accorsi che anche Steve era sveglio così ne approfittai per parlargli del giorno precedente.
“Si. Mi ha soprannominato La signorina che va a letto con Steve Rogers.” Dissi ridendo.
“Ha oltrepassato il limite!” disse arrabbiato.
“E ci ha anche provato…” dissi per vedere la sua reazione.
“Cosa?!” scattò seduto sul letto.
“Scherzavo!” dissi ridendo.
La sua faccia stupefatta si trasformò in un ghigno crudele e cominciò a farmi il solletico e a riempirmi di baci.
“Non voglio che qualcun altro ti prenda, tu sei… mia.” Disse con un sussurro.
Quelle parole gli costavano fatica ammetterle, poiché il suo carattere un po’ all’antica lo bloccava. Sapevo che stava compiendo un enorme passo avanti stando con me.
Mi bloccai a quel pensiero: stavamo insieme?
“Qualcosa non va?” mi chiese lui. Dovevo aver lasciato trasparire quel mio dubbio perché Steve mi guardò corrucciato.
“No niente…” dissi sorridendogli.
“C’è una cosa che vorrei chiederti…” disse grattandosi la nuca.
“Cosa?” gli chiesi curiosa.
“Beh ecco, Stark ha organizzato una specie di festa d’autunno e vuole che partecipi. Perciò mi chiedevo, ti va di essere la mia dama?” mi disse.
Mi stava chiedendo di accompagnarlo ad una festa?! Seriamente?!
“Non so, ecco… come mi presenterai? Come un’amica?” gli chiesi schiettamente.
Lui abbassò lo sguardo e assunse l’espressione di chi sta pensando a come rispondere.
“No, ti presenterò come la mia ragazza.”  Disse guardandomi, con un sorriso accennato.
Ok, stavo andando in iperventilazione.
“O-ok.” Dissi sbalordita dalla risposta.
“Non va bene?” mi chiese lui.
Gli buttai le braccia al collo e lo feci sdraiare sotto di me.
“Va benissimo.” Gli dissi e poi lo baciai.
 
Steve era andato a lavoro da un pezzo, mentre io mi ero presa il computer e cercavo di imparare più cose possibili sulle feste mondane ma soprattutto su come bisognava vestirsi.
Poi qualcuno mi mandò un’e-mail sulla mia casella postale: era l’invito ufficiale al Galà d’autunno indetto dal signor Anthony Stark in persona.
Lo stampai e poi mi misi a cercare notizie sui vestiti da indossare ai galà.
Dopo aver vagabondato per alcuni siti di moda e di bon ton, decisi che non ero proprio il tipo che poteva permettersi un vestito elaborato ed adatto all’occasione. Questo mi avrebbe costretta a declinare l’invito di Steve.
Chiusi il portatile e presi il mio chiodo nero, poi uscii di casa.
Passeggiavo per le strade di New York mentre pensavo a come dire a Steve che non sarei potuta andare alla festa perché non avevo abbastanza soldi per comprarmi un vestito così elegante.
Passai addirittura davanti un negozio di Gucci e notai un bellissimo vestito color pesca in esposizione. Il prezzo era esorbitante e il mio stato d’animo fu letteralmente calpestato.
Mi chiesi anche se fossi la ragazza giusta per stare insieme a Capitan America… in fondo non ero mai stata brava in niente se non a combinare casini e a deludere le persone che amavo.
Mi sedetti su una panchina di un parco e cominciai a pensare e a pensare, tanto che non mi resi conto che il tempo passava inesorabile e che si era già fatta sera.
Sentii il cellulare squillare.
“Pronto?” risposi
“Jess dove sei?” mi chiese Steve.
“In un parco, tra la 27esima e la 15esima. Successo qualcosa?” gli chiesi.
“Non ti ho trovato a casa ed è tardi, aspettami lì. Vengo a prenderti!” mi disse.
Non feci in tempo a rispondere che già aveva agganciato.
Aspettai pazientemente seduta sulla panchina e quando arrivò, lo guardai cercarmi in mezzo alla gente e a nascondere il viso sotto un berretto degli Yankees.  Quando mi vide sulla panchina, mi rivolse un sorriso luminoso.
“Eccoti, vagabonda!” mi disse, cingendomi la vita con un braccio.
“Ehi…” risposi.
“C’è qualcosa che non va?!” mi chiese preoccupato.
“In effetti... si…” Dissi.
Lui rimase stupito e perplesso.
“Dimmi tutto.” Mi disse.
 “Non sono adatta al tipo di feste che organizza Stark. Finirei per combinare qualche macello… e poi… non ho un vestito adatto.” Dissi abbassando la testa vergognandomi come una sciocca bambina.
Lui mi guardò per un istante e poi scoppiò a ridere.
Lo guardai accigliata, perché non mi piaceva essere presa in giro.
“Che c’è da ridere?” dissi a braccia conserte.
Ghignò ancora per qualche secondo, poi buttò la testa all’indietro.
“Non sono motivi validi per disertare il mio invito.” Disse accarezzandomi il viso.
“Davvero?” chiesi stupita.
“In realtà al vestito ci avrei già pensato io… ne avevo visto uno molto bello ed ero sicuro che ti sarebbe stato bene addosso, perciò mi sono permesso di comprartelo.” Disse sorridendomi placidamente
Rimasi a bocca aperta.
“Lo hai comprato veramente?“ chiesi stupefatta.
Annuii con le testa.
“Ecco… lo vedi che sono un peso per te?!” dissi alzandomi in piedi e vergognandomi del mio stato valutario in rosso che non mi permetteva di comprarmi neanche un semplice vestito.
“Cosa? No, no! Volevo farti una sorpresa! E’ un regalo per te, tesoro.” Disse prendendomi per le spalle.
“Non lasciarti abbattere da queste piccole… idiozie! Non è un problema per me, quindi non deve esserlo per te.” Mi disse abbracciandomi.
“Devo trovarmi un lavoro.” Dissi mugugnando tra le sue braccia.
“Se è questo che vuoi, potrei aiutarti.” Disse baciandomi la fronte.
“No, credo che me la caverò da sola…” risposi.
“Beh, l’ultima volta non te la sei cavata…” disse alludendo al mio precedente lavoro.
Mi mordicchiai le unghie e lo guardai di sottecchi.
“Beh… forse hai ragione, ma devi ammettere che quel body mi stava una favola.” Dissi ammiccando.
“Si certo, ma avrei preferito  non vedertelo addosso mentre eri in mezzo a un mucchio di gente con pensieri poco casti.” Disse.
Mi prese la mano e ridemmo insieme.
Tornammo a casa e cenammo con un cartone di pizza appena sfornata, ci accoccolammo sul divano per poi finire in camera da letto.

___________________________
Buongiorno! 
Scusate per l'enooooorme ritardo, ma sono stata impegnata e in più avevo una sorta di blocco e non a decidermi su come far andare avanti la storia
Mi dispiace immensamente, ma vi promette che il prossimo capito lo pubblicherò presto (è già in cantiere).
Spero vi piaccia e recensite :)
A presto, 
Artemis Black

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Capitolo 5
*** 5. Let the flame begins ***


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5. Let the flame begins


[Quattro settimane più tardi, dopo svariate colazioni a letto, colloqui di lavoro andati male e alcune missioni in Russia non molto tranquille…]

 

“Sta fermo!” dissi a Steve “Altrimenti non so come toglierti questi punti.”

“Voglio sapere chi è quell’intelligente che mi ha soccorso… non ho bisogno di cure, dannazione!” disse, mentre tentavo di strappargli i punti dalla guancia sinistra.

Era appena rientrato da un’altra missione segreta in Russia.

“Già, tu ti auto rigeneri e bla bla bla.” Dissi facendo la vocetta.

“Mi prende in giro, Mrs Henderson?” chiese con un sorriso sbilenco terribilmente sexy.

“No affatto, capitan ovvio.” Dissi seria.

Tentò di farmi il solletico, ma si procurò soltanto dolore perché per scartare di lato, gli strappai con forza i punti. Una goccia di sangue cadde sui suoi pantaloni scuri, ma appena posai gli occhi sulla ferita, quella era sparita.

“Ecco fatto, Capitan destrezza.” Dissi denigrandolo ancora.

“Ci sentiamo spiritose oggi?” disse avvicinandomi a se.

“No, è più il nervoso per stasera, che mi fa essere così spavalda nel prenderti in giro.” Dissi, giocando con il suo ciuffo di capelli davanti gli occhi.

“Non devi esserlo, alle feste ci si diverte generalmente… no?!” disse, mentre mi sedevo sulle sue ginocchia.

“Si hai ragione…” risposi.

“Soprattutto a quelle di Stark… vedrai.” Mi disse.


 

Dopo aver lasciato Steve nella sua camera a crogiolare nel letto e a tentare di trattenermi lì con lui, mi chiusi in bagno e cominciai a prepararmi per la serata.

Mi lavai con cura corpo e capelli, poi mi misi alcuni bigodini qui e li per creare poi un effetto onda. Nel frattempo che aspettavo che i capelli si asciugassero, applicai una crema al viso, mi misi lo smalto nero sulle unghie e poi passai al trucco: misi dapprima un ombretto perlato e tracciai poi una linea nera d’eyeliner su entrambi gli occhi e infine misi un po’ di blush pesca sulle guance. Sciolsi i capelli e passai il ferro giusto sulle ciocche davanti.

Uscii dal bagno e andai a mettermi il vestito che Steve mi aveva gentilmente regalato.

Era nero, lungo e con uno scollo sulla schiena molto profondo. Aveva due cinturini, uno dietro il collo e un altro all’altezza del basso schiena, tempestati di cristalli a cui avevo abbinato due bracciali: uno grande molto elaborato, l’altro aveva un semplice giro di cristalli d’argento e per finire un paio d’orecchini lunghi a cascata. Per completare il tutto, avevo abbinato un paio di décolleté nere con la suola rossa.

Quando mi specchiai un’ultima volta e applicai il rossetto di una leggera tonalità di rosso, ero pronta e mi consideravo decente, almeno per la festa.

Uscii dalla stanza e mi ritrovai Steve in smoking nero e camicia bianca che litigava con il farfallino che aveva intorno al collo. Mi avvicinai e lui alzò lo sguardo per vedermi: per un momento rimase fermo a scrutarmi e infine mi sussurrò un dolce “bellissima” all’orecchio.

Quando lo aiutai a sistemarsi il farfallino, notai una piccola spilla a forma di scudo a stelle e strisce che aveva messo sul bavero e sorrisi tra me e me.

“Non andremo in moto, vero?” gli chiesi preoccupata.

“O no, ho chiesto a Tony di mandarci una macchina. Sarebbe stato più… comodo.” Disse guardando il mio abbigliamento.

Quando scendemmo, notai la macchina nera sportiva a due posti super lussuosa parcheggiata nel retro di casa.

“E meno male che gli avevo chiesto qualcosa di sobrio.” Disse quando ci sedemmo sui sedili in pelle rossa all’interno.

“Beh, niente male.” Dissi ridacchiando.

In poco tempo arrivammo sotto la torre Stark, che splendeva come un faro tra gli altri grattacieli di New York, e lasciammo la macchina in un garage sottostante riservato.

Ci chiesero gli inviti, anzi mi chiesero l’invito poiché Steve aveva il lasciapassare e salimmo al 20esimo piano con l’ascensore.

Le mani mi tremavano leggermente, Steve se ne accorse e mi rassicurò. A poco serviva perché in qualunque caso tutti mi avrebbe squadrata dalla testa ai piedi per capire cosa spingesse Capitan America a star insieme ad una come me.

-Ma che dici? Non eri quella che “il giudizio degli altri non mi importa”?!- disse una vocina dentro di me. Aveva ragione. Così scostai i capelli solo su una spalla e drizzai la schiena.

“Tutto ok?” mi chiese Steve con un sorriso.

“Certo, sto molto meglio.” Dissi con un sorriso sfrontato.

Sogghignò e quel suo sorriso sbilenco lo fece apparire così terribilmente sexy. In un attimo lo presi per il bavero della giacca e gli regalai uno dei miei baci passionali, che solitamente riservavo soltanto quando eravamo in camera. Le sue mani scivolarono lungo la mia schiena, provocandomi dolci scariche elettriche, e mi strinsero salde al suo addome.

Poi le porte dell’ascensore si spalancarono e ci scostammo, come se fossimo stati sorpresi a fare qualcosa di proibito. Mi girai verso di lui e sorrisi, nascondendo il volto tra i miei capelli, poi mi prese la mia mano e con passo deciso ci unimmo agli altri invitati, che ci guardavano con un misto tra lo stupore e l’apprezzamento.

“Ehi Cap!” un uomo gli fece cenno vicino ad un tavolino. Aveva un calice di champagne in mano, la giacca dello smoking aperta e la cravatta leggermente allentata. Steve mi presentò e scoprii che si chiamava Clint, che io collegai subito a Occhio di Falco senza dirglielo, perché alcune informazioni non avrei neanche dovuto saperle.

“E così tu sei la famosa ragazza di Steve di cui parla Stark.” Disse, buttando giù l’ultimo sorso del drink.

“Già, è stato piuttosto singolare incontrare Tony in un supermercato mentre mi pedinava.” Dissi ridendo.

Steve e Clint si lanciarono un’occhiata e quest’ultimo scoppiò a ridere.

Poi fece la comparsa una donna in un lungo vestito blu notte, con uno spacco laterale da capogiro. Aveva i capelli rossi e occhi indagatori.

“Steve, è un piacere vederti.” Disse languida.

“Natasha! Ti presento Jess, la mia fidanzata.” Arrossii nuovamente alla parola “fidanzata” e le strinsi la mano.

“E’ un piacere conoscerla.” Mi disse con un sorriso appena accennato, mentre con la coda dell’occhio vidi Clint soffermarsi sullo spacco della roscia.

Ci mettemmo a chiacchierare finchè Stark non comparve insieme a Pepper Potts e diede il via alla festa.

“Capitan Ghiacciolo!” esclamò Tony avvicinandosi.

“Tony…” disse Steve roteando gli occhi.

“Non mi presenti alla tua donzella?” disse con il suo solito sorriso sfacciato.

“Credo che tu l’abbia già casualmente incontrata al supermercato.” Gli rispose Steve.

“Da quando vai al supermercato, Tony?” chiese Pepper.

“E’ una lunga storia noiosa, piacere di rivederla Jess.” Disse infine.

“Ma guardate chi c’è!” disse Stark.

Un uomo sulla quarantina con capelli neri e gli occhiali si fece avanti, tenendo le mani nelle tasche del suo smoking scuro con camicia verde.

“Dottor Banner! Come va?” disse Tony dandogli una pacca sulla spalla.

“Tony per piacere, sai di avermi praticamente costretto a venire qui…” rispose.

“Mostra un po’ di entusiasmo, guarda quante belle donne sono pronte a giocare al dottore e l’infermiera con te, stasera.” Disse.

Vidi Pepper mettersi una mano sulla fronte e blaterare qualcosa sul dover assumere un po’ d’alcool per reggere alla serata.

“Oh, Steve! E’ bello rivederti!” disse infine Banner.

Poi guardò me e mi tese la mano:” che maleducato, mi perdoni se non mi sono presentato prima. Sono Bruce Banner.”

“Jess, Jess Henderson.” Dissi stringendogli la mano.

“Bene, dopo le presentazioni, direi di andare al bar a prendere qualche drink.” Disse Stark.

“Ti seguo, vuoi qualcosa Natasha?” disse Clint. Lei scosse la testa.

Ci mettemmo seduti ad un tavolo e cominciammo a discutere di varie cose: Banner mi chiese se avevo frequentato l’università o se ne avevo intenzione, mentre Natasha chiacchierava con Steve.

Dopo qualche ora, vari assaggini e alcuni bicchieri di champagne di troppo, mi alzai e andai al bagno.

Appena entrai, chiusi la porta e scrollai le spalle. Mi sciacquai le mani e mi rinfrescai il viso.

“Beh, non sto andando male…” dissi al mio riflesso sullo specchio.

Poi sentii alcuni rumori provenire da una delle toilette. Bussai leggermente e chiesi se qualcuno si sentiva bene, ma nessuno rispose e i rumori smisero. Girai la maniglia e la porta si scoprì essere aperta: un uomo in divisa da cameriere stava armeggiando con una scatola nera nascosta sotto il wc e quando mi vide, scattò verso di me. Prontamente mi girai e cercai di richiudere la porta che fu bloccata da uno dei piedi dell’uomo. Indietreggiai e mi diressi verso la porta per uscire, ma il vestito non facilitava i movimenti, così l’uomo mi prese per un braccio e mi trascinò dietro.

Mi mise una mano sulla bocca e mi cinse le braccia dietro.

“Sta zitta!” mi disse.

Poi armeggiò con qualcosa nella sua tasca e ne estrasse un telecomando. Fu allora che collegai le due cose: quella nascosta in una delle toilette poteva essere una bomba. Cercai di divincolarmi e gli morsi la mano.

Gridai, ma la musica fuori copriva le mie urla. Cercai di non farmi prendere dal panico e fu allora che misi in atto gli insegnamenti di mio padre.

Sferrai un calcio su un piede dell’uomo e affondai il tacco fino a farlo urlare di dolore e liberarmi dalla sua stretta. Mi girai e con una ginocchiata allo stomaco lo feci piegare in due. Tentò di afferrarmi e prese uno dei miei piedi. Scivolai sbattendo la testa sul pavimento. Leggermente intontita dal colpo, tentai invano di rialzarmi perché l’uomo mi si avventò contro. Mi legò stretti i polsi con un fazzoletto e poi tentò di tapparmi la bocca, ma la posizione in cui stava lo metteva a rischio: infatti con un calcio gli colpii le palle e lo feci ritrarre. Lanciai via i tacchi e mi alzai in piedi, poi colpii l’uomo con pugno in faccia e gli ruppi il naso. La mano mi doleva ma ne era valsa la pena, riuscii a uscire dal bagno e quando la gente mi vide si spaventò.

“Steve!” gridai, lo vidi in lontananza con il professor Banner accanto. Si girò verso di me, ma in quel momento qualcosa nel bagno era stato azionato: la bomba esplose.


 

La schiena mi doleva, ogni mio muscolo era indolenzito e tentava di opporsi ai miei comandi. Tentai di alzarmi, ma le braccia cedettero. Feci uno sforzo enorme per mettermi seduta.

Gli occhi mi bruciavano per la polvere che mi circondava , ero ferita ad un braccio e ad una gamba. La gente intorno a me gridava, tentava di alzarsi per scappare, chiedeva aiuto. La schiena mi faceva un male cane, ci passai una mano sopra e sentii tanti piccoli graffi lacerare la mia pelle.

“Steve!” gridai con voce roca.

Strappai un pezzo del mio vestito per fasciare il braccio sanguinante e feci lo stesso con la gamba. Ormai avevo addosso un mini abito che copriva ben poco.

Una donna affianco a me urlava di dolore, un signore tentava di farla calmare. C’era gente che correva via, che urlava nomi, che tentava di chiamare un ambulanza.

Mi avvicinai a carponi alla donna.

“Dove ti fa male?” le chiesi. Lo dovetti ripetere ben due volte per farmi ascoltare.

“La gamba!” urlò tra le lacrime.

Le scostai il vestito e ispezionai la gamba, poi la girai di fianco e vidi la grossa scheggia di ferro che le si era conficcata nella coscia. Non poteva fare niente, se non fermare il sangue legando un pezzo di stoffa sopra la ferita, così da creare una specie di laccio emostatico che avrebbe impedito l’afflusso di sangue .

Di tanto in tanto mi guardavo intorno per cercare Steve. La sala stava lentamente prendendo fuoco.

“E’ ferito?” chiesi all’uomo che teneva la mano alla donna ferita affianco a me.

“N-no.” Disse.

“Bene, dobbiamo spostarla, o il fuoco ci raggiungerà.” Gli dissi.

“Mi chiamo Jack.” Disse.

“Bene Jack, al mio tre sollevala dal busto, io le terrò la gamba distesa nel frattempo.” Dissi ansimante, mentre mi mettevo in piedi.

“Ehi, adesso ti portiamo via. Devi stringere i denti però.” Dissi alla donna, che annuii spaventata.

Al tre la sollevammo e sentii le sue unghie conficcarsi nel mio braccio per il dolore, mentre io mi morsi un labbro per tenere duro.

Ma dopo qualche passo, ci trovammo vicino ad una porta con delle tende sopra che presero spaventosamente fuoco. La donna gridò, l’uomo si fece prendere dal panico e attraversò di corsa la porta, che subito dopo fu divorata dalle fiamme. Stupidamente lasciai andare la gamba della donna per coprirmi il volto e indietreggiare.

Tornai indietro, cercai un riparo dal fuoco, ma ormai era tutto lambito dalle fiamme. L’unica chance era prendere l’ascensore, ma si sa che in caso di emergenza l’unica cosa da non prendere è proprio l’ascensore, che alla fine si rivelò guasto.

Ero in trappola ormai.

“Steve!” gridai più volte presa dalla disperazione. Mi rifugiai nell’ascensore, l’unico posto dove le fiamme non erano ancora arrivate.

Mi venne la brillante idea di aprire poi la botola d’emergenza sul soffitto dell'abitacolo di ferro, mi aggrappai con tutte le forze e mi issai su. Era impossibile scendere ad un piano inferiore, cosi cominciai ad arrampicarmi sulle corde metalliche, cercando di raggiungere almeno il piano superiore. L'allarme aveva fatto aprire automaticamente tutte le porte e quando finalmente ne vidi una, le mani cominciavano a dolermi da morire. Con un ultimo e faticoso gesto, riuscii a raggiungere quella fessura e per poco non rischiai di cadere.

La stanza era illuminata dalla luce della luna che attraversava le grandi vetrate, era piena di scaffali e server che lampeggiavano. Cercai un fottuto modo per uscire da quella situazione, ma l'unica cosa che trovai fu un'altra scala antincendio. Corsi a perdifiato, finché i muscoli non cominciarono a dolermi. Entrai in un'altra stanza, forse al momento sbagliato, perché vi trovai un gruppo di ladri intenti a scassinare chissà quale informazione da un grosso pannello metallico.

“Prendetela!” urlò qualcuno.

Ero troppo stanca per riuscire a scappare realmente, tentai invano di tornare indietro ma fui acciuffata.
 

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Perdonatemi questo enorme ritardo, ma il computer si era rotto e ho avuto problemi con word e ho dovuto portare tutte le storie su un altro programma.
Spero vi piaccia questo capitolo (e spero che non ci saranno più problemi in futuro)
A presto, 
Artemis Black

 

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