It's just fear of living.

di milla_m
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1- ***
Capitolo 2: *** 2- ***
Capitolo 3: *** 3- ***
Capitolo 4: *** 4- ***
Capitolo 5: *** 5- ***
Capitolo 6: *** 6- ***
Capitolo 7: *** 7- ***



Capitolo 1
*** 1- ***


Salve! Premetto che è il mio primo tentativo su efp, ma dico anche che sto lavorando su questa ff da un bel po'. 

Hope u like it! (:

1.

Mi toccai velocemente la gola. Non c'era nulla che mi trattenesse il respiro, ma non riuscivo ad inspirare; riprovai, mentre il mondo sembrava girare all'improvviso nel verso opposto. Il buio mi incombeva intorno.

Una pietra gelida mi sfiorò le labbra. Inspirai. Ossigeno, poi luce.

 

Il mio mondo era immerso nel buio; lo era sempre stato ed ero convinta che lo sarebbe stato per un bel po'. Sapevo che il fato non aveva predisposto per me nulla di abbastanza buono, fortunato o felice. Mi sentivo destinata a vivere fra egocentrismo, crudeltà e mancanza di scrupoli; erano le cose che mi avevano circondata maggiormente per molti anni: ci avevo fatto l'abitudine e mi ero adattata tanto da assumere io stessa questi stessi comportamenti.

Era una cosa su cui ormai riflettevo spesso: come ero diventata, migliorando o peggiorando secondo la situazione in cui mi trovavo. Qualche volta mi chiedevo se stavo cercando di decidere qual era il modo migliore di essere, quale fosse la difesa giusta al dolore di ogni tipo.

«Mh. Scusa.», strinsi le sopracciglia e sbuffai. Ero seduta su un muretto di pietra rossa, con le gambe penzoloni all'infuori ed i capelli che mi solleticavano il viso; non volevo essere disturbata ed effettivamente era anche troppo presto per incominciare a lavorare, così mi ero messa lì, scappando da tutti. La voce che avevo sentito mi sembrava...irreale.

Troppo perfetta e musicale perfino durante una breve tosse. Strinsi ancora di più le palpebre. Quella mattina in Canada quasi brillava il sole; era tanto strano quanto il venticello caldo di fine estate. Non mi sarei distratta, aprendo gli occhi per finire accecata dalla luce, anche se fioca.

«Qual è la casa famiglia 'Cottrin'?», l'uomo che sentivo essere a destra porse la domanda con gentilezza, come se la mia mancanza di educazione lo divertisse soltanto. Mi sprecai ad alzare una mano e indicare col pollice dietro di me. Normalmente non avrei risposto, ma quell'uomo sembrava troppo insistente per lasciarmi perdere.

«Grazie.», prego. Lo mandai al diavolo con il pensiero e rimasi lì.

Dopo quelli che mi parvero cinque secondi, ma che furono in realtà mezz'ora, sentii la musica. Il vecchio era ancora lì; solo lui sembrò convincermi ad aprire gli occhi e mettermi a sedere. Rimasi cieca finché i miei occhi non si abituarono alla luce, in parte ovattata dalle nuvole poco scure. Fred era un mio vicino di casa: un vecchietto alto e magro, con folti capelli bianchi ed un sorriso a mostrare la dentiera, affacciato alla sua finestra. La musica che aveva messo ad alto volume era forse un concerto di solo piano; era una melodia lenta, coinvolgente, però.

Fred mi fissava, mentre io fissavo lui. Sorrise. Non ricambiai ed andai via, poggiando la suola delle converse consumate sull'asfalto. Non avevo voglia di rientrare, né tanto meno volevo restare lì, però sapevo che avrei dovuto dare una mano dentro.

Appena misi piede nella casa famiglia me ne pentii; non era più lo sguardo di Fred che avrei dovuto sopportare, ma quello di qualcun altro: Olivie. Dal fondo della stanza mi guardava una donna alta un metro ed ottanta, il cui collo partecipava a darle l'aspetto di una giraffa; aveva, come ogni singola volta che l'avevo incontrata in vita mia, i capelli neri attaccati in uno chignon sulla nuca. Indossava una gonna nera che le arrivava a metà polpaccio ed una camicia bianca ben stirata, abbottonata fino al collo. Le labbra erano aperte in un ghigno rivolto a me, mentre gli occhi neri cercavano di capire cosa avrei potuto fare per lei quel giorno, magari che scatenasse la mia ira tanto da spingermi ad urlarle contro e farmi punire per qualche parola troppo cattiva alle orecchie dei bambini.
Mi sfuggì un'imprecazione a bassa voce, mentre mi chiamava; mi impalai al centro della stanza e la guardai male; era in contrasto in quell'ambiente così sterile: le pareti e le mattonelle del pavimento bianche, non facevano che incentrare l'attenzione su di lei. Non trovavo nulla di diverso su cui concentrarmi per evitare di sprigionare il mio odio così improvvisamente. Se mi fossi applicata sulla sua scrivania spoglia, forse mi sarei ritrovata con una mano sanguinante ed un'inutile scheggiatura nel legno duro.

«Isabelle.», mi richiamò, con più rabbia. Gli occhiali piccoli le scivolarono dal naso stretto, rimbalzando sul petto, ancorati alla cordicella che le passava intorno al collo. Avevo capito che uno dei suoi intenti era farmi arrabbiare e Olivie sapeva benissimo che chiamarmi 'Isabelle' era solo il modo più semplice e meno divertente che ci fosse.

Presi un respiro e mossi velocemente i piedi verso di lei; pensai che andarmene al più presto sarebbe stato un ottimo modo di far finire la tortura. «Aiuta con i neonati, di sopra. Cerca di essere gentile con Rosalie ed Emmett Cullen.», mentre parlava, sistemava dei fogli sulla scrivania, poi si sedette, ignorando lo scricchiolare della sedia.

Non lo sarò., mi ripetei. Perché essere gentili con degli sconosciuti se non lo sono con nessuno?; con questi pensieri distorti dalla rabbia, incominciai a salire le scale.

Conoscevo quell'edificio a memoria, forse grazie agli anni vissuti nel tentativo di nascondermi; aveva una pianta semplice, ed era organizzato in modo piuttosto efficace.

Al primo piano c'erano il largo ingresso, la mensa e la cucina; in quello superiore stanze di utilità ai bambini ed alcuni uffici importanti; subito dopo, due piani di stanze ed un buco nella mansarda, che chiamavo stanza, tutto mio.

Era un privilegio per qualcuno che aveva passato dai sette ai diciassette anni a rincorrere la libertà in quella casa famiglia, lottando contro le adozioni e i cambiamenti.

Volevo solo uscire di lì: era diventata la mia priorità, certamente l'unica.

La polvere che copriva di uno strato leggero le scale le rendeva quasi letali, per me che le stavo salendo distrattamente; scivolai all'ultimo gradino e, posizionando il ginocchio per terra riuscii a non cadere. Una scarica di dolore mi confuse per un attimo, così quando una mano fredda mi strinse il braccio, scattai con lo sguardo verso l'alto e arretrai, rischiando di cadere per tutta la rampa di scale ma finendo solo con il sedere per terra.

Definire quella stretta 'fredda', o 'gelata' o qualsiasi aggettivo che spinga una persona a rabbrividire, non raggiunge le sensazioni del contatto. Le sminuisce soltanto.

Per un attimo la temperatura della stanza scese sottozero, almeno per me; poi alzai lo sguardo: stavo guardando diritto in un paio di grandi occhi azzurri. Le pupille erano strette, quindi potetti fissare il colore delle iridi senza nemmeno sforzarmi. Subito dopo stavo guardando un ghigno perfetto e due labbra pallide, poco più scure rispetto alla pelle circostante; di un pallore triste, ma di una perfezione tale da lasciarmi senza fiato. Tutto, dai ricci corti e neri, alle mani curate dell'uomo che avevo davanti, mi lasciarono pensare che non fosse...normale. Quando si alzò in piedi notai la buona altezza e quanto fosse robusto; mi guardava, ridendo forse perché me ne ero rimasta lì ferma, con il sedere sulla scala. Mi alzai con lentezza studiata e mi avviai a sinistra senza guardarlo più; alla fine del corridoio me lo ritrovai affianco, quindi immaginai mi avesse seguita. Entrai nell'unica stanza davanti a me: la porta era aperta, mostrando alcune delle culle dei bambini; dentro regnava ciò che di più simile esisteva alla mia pace.

Le luci al neon rendevano l'ambiente ospedaliero; la luce che entrava dalle poche finestre era soffusa per le tende chiare che coprivano i vetri. C'erano meno di dieci bambini addormentati nella stanza; non riuscivo a capire come tutti fossero così calmi.

In un angolo della stanza, verso cui mi diressi, sedeva su una sediolina di plastica una ragazza bionda; sembrava stesse per cadere in avanti, per come era seduta sul bordo: ginocchia strette tra di loro, mani sulle cosce e sguardo attento verso i neonati.

Quando gli occhi chiari scattarono nella mia direzione si alzò e abbassò subito lo sguardo; ero orgogliosa della paura che aveva verso di me quella bambina di dieci anni.
Se ne andò lasciando dietro di sé una scia di svolazzanti capelli biondo platino.

Mi sedetti, appoggiandomi lentamente allo schienale; il ginocchio su cui ero caduta pulsava dolorosamente. Un paio di braccia si alzarono dall'ultima culla a sinistra, quando l'uomo, che era rimasto fuori, entrò nella stanza. Lui fece un sorriso e si avvicinò, tendendo un dito ad una delle manine; sentii una risatina, di quelle che sciolgono i cuori di pietra.

«Come si chiama?», chiese. La voce mi colpì: l'avevo già sentita quasi tre quarti d'ora prima, all'esterno dell'edificio.

Così anche la sua voce è perfetta, pensai prima di rispondere, senza nemmeno guardare il bambino che gli stringeva il dito. Non avevo bisogno di leggere il cartello per riconoscere quella manina. «Joanne.»

Ripeté tra sé il nome, poi rimase a coccolare il batuffolo di lenzuola, ridendo come un ebete.

Joanne era stata posata, circa una settimana prima, direttamente tra le mia braccia; avevo appena finito di lavare i piatti dopo essere stata punita, e passando per l'ingresso stavo per salire le scale. Fuori diluviava. Sentendo dei colpi alla porta, mi fermai a metà della rampa di scale, aspettando che si ripetessero; quando successe, d'istinto, mi diressi alla scrivania di Olivie e presi le chiavi dal secondo cassetto a sinistra. Fu facile precipitarmi alla porta ed aprirla, dopo altri tre colpi. La spalancai vedendo sui gradini del cortile una ragazza con la testa coperta da uno scialle; tremava, ma riuscì a mettermi delle calde e morbide coperte tra le braccia. Le ripetei di entrare più volte, ma quello che fece fu ringraziarmi e correre via.

Quando rimasi sulla soglia, con il vento freddo a sferzarmi le guance, le coperte incominciarono a piagnucolare. 

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Capitolo 2
*** 2- ***


Ecco il secondo capitolo ed un po' ci avviciniamo a quella che è la vita della protagonista. Prima o poi questa cambierà e non è difficile immaginarlo...vi lascio alla lettura!


Rimasi lì finché non arrivò qualcuno a darmi un cambio, in silenzio e con le braccia incrociate sotto al petto; si presentò un'altra bambina di cui non ricordavo il nome, quindi non ricambiai il saluto che mi fece ed uscii, salendo le scale fino ad arrivare al mio pianerottolo vuoto. Entrai nella mia stanza e mi chiusi la porta alle spalle.

Aprii la finestra e, evitando un pettine, le ciabatte e diverse mollette che si erano accumulate sul pavimento, andai in bagno: era minuscolo, 2mx2m, e il soffitto era la parte più alta della mansarda, fortunatamente. La sfortuna erano le testate che prendevo ogni volta che mi alzavo dal letto. Lasciando i vestiti sul pavimento, come ormai facevo da un po' finché qualcuno non decideva di ordinare nella mia stanza, feci una breve doccia che avevo saltato quella mattina.

Mi avvolsi un asciugamani intorno al corpo; sentii un tonfo, così aprii la porta del bagno velocemente. La porta era aperta e sul pavimento vicino al letto c'era un libro: mi sconvolse di più del ragazzo che mi guardava con gli occhi sbarrati, seduto sul letto, tanto che mi lasciai scappare un urletto sorpreso.

I miei piedi si mossero da soli e presi 'Romeo e Giulietta' da terra, posandolo delicatamente sul comodino; osservai meglio il ragazzo: i capelli biondi erano nascosti da un cappellino da baseball rosso, gli occhi color nocciola mi guardavano quasi spaventati, e le mani erano occupate a arricciarsi intorno un lembo della maglietta gialla che indossava. Lo smile enorme stampato sul petto mi suggeriva che era un volontario.

Sulla difensiva, arretrai verso il bagno ed il ragazzo, che forse aveva la mia età, incominciò a balbettare scuse. Alla fine uscì e scese velocemente le scale; ero così irritata per l'intrusione che sbattei la porta, prima di incominciare a vestirmi.

 

Scesi solamente ad orario di pranzo, mossa dal mio stomaco; dalla porta, adocchiai sul bancone un ultima cotoletta. Proprio nell'istante in cui presi un vassoio, il ragazzo volontario che si era infiltrato in camera mia senza permesso, rubò la mia cotoletta e si sedette al mio piccolo tavolo con un compagno ed un bambino. L'odio che provavo per lui non sembrava essere infondato; quando addentò il pollo, desiderai che gli si ancorasse in gola, soffocandolo e lasciandolo bruciare nelle fiamme più calde dell'inferno.

Subito dopo pensai di andargli a vomitare la minestra, che stavo mangiando, addosso.
 

La mattina dopo, fui costretta a saltare il relax sul muretto da Olivie, che appena mi vide alla porta decise che servivo in cucina a riempire i cornetti preconfezionati.

Solitamente nemmeno in estate, in Canada, faceva così tanto caldo. Era come se l'aria volesse soffocarmi, chiusa in quella piccola cucina senza finestre.

Sobbalzai quando dalla porta apparve la cuoca, Martha: era una donna sui 50, in sovrappeso e con le guance rosse quanto quelle di una bambina. Spesso mi sentivo in dovere di essere gentile con lei, solo perché mi trattava bene, quasi non fosse colpa mia se trattavo tutti con cattiveria. Aveva lavorato tutta la vita in quella cucina; quando arrivai in quel posto, lei era già lì. Indossava un tenero vestito a fiori e una retina per trattenere i capelli ricci e corti; mi passò un grembiulino con un sorriso. Mi sforzai di ricambiare, ma uscì fuori solo una smorfia.

Quando c'ero io in cucina, con lei, di solito in mensa sembravano tutti felici: Martha sapeva che mi piaceva cucinare, così elaborava nuove ricette appena mi vedeva.

Biscotti: era quello che la sua inventiva aveva programmato quella mattina.

Non mi costrinse nemmeno a parlare: girava intorno al bancone affaccendata, chiacchierando da sola; rispondevo con mugolii, risatine stupide o semplicemente annuivo, ma non sembrava importarle.

«Hai sentito di quei ragazzi...? Com'è che si chiamano...?!», si fermò con una teglia di biscotti crudi in mano, poi spalancò quasi gli occhi, infornandoli. «Cullen! I signori Cullen.», storpiò la parola 'signori' come se per loro fossero solo due ragazzini. Siccome stava zitta, pensavo volesse una risposta, così mi fermai con lo stampino e mi girai verso di lei; mi stava guardando, così scossi la testa: non avevo idea di chi stesse parlando.

«Vogliono adottare Joanne. Sembrano apposto, ma sono strani. Sono...belli. Sicuramente ricchi.», capii, e le descrissi brevemente il ragazzo che aveva tenuto la manina di Jo, la mattina prima. Martha annuì, stranamente felice; forse era solo soddisfatta di avermi strappato qualche parola.

 

Nell'ingresso c'era di nuovo il signor Cullen, accompagnato però da quella che pensavo essere la moglie; bastò uno sguardo alle spalle per capire che era lei: aveva dei lunghi capelli biondi sciolti sulla schiena, che finivano per fare dei boccoli. Erano così splendenti da spingermi a mettere una mano davanti agli occhi. Salirono le scale ed io uscii, mettendo più distanza possibile tra noi.

Aprendo la porta, mi ritrovai la stupida e balbettante faccia dell'intruso, che non sembrava essere stato nemmeno sfiorato dal fuoco infernale. Si scostò per farmi passare, poi parlò, cercando di avere un po' della mia attenzione.

«Scusa per ieri, comunque.», mi venne di chiedergli se per l'essere entrato in camera mia, aver fatto cadere il mio libro preferito o avermi rubato la cotoletta. Scossi la testa e lo ignorai; mi sarebbe piaciuto urlargli contro tutte le bestemmie che conoscevo.

 

Una settimana dopo, guardandomi allo specchio, mi sembrò di vedere qualcun altro: le occhiaie che avevo di solito sotto agli occhi scuri erano sparite, dando spazio solo alla mia pelle pallida; i capelli rosso scuro erano ben pettinati e lisci, e cadevano sulle spalle più liberi del solito. Avevo preso qualche chilo, così le costole finalmente non erano più troppo in mostra; perfino le labbra erano più chiare e le guance più piene e sempre arrossate.

Indossai l'unico pantalone nero che avevo, le solite converse ed una maglia beige; cercai di fare una treccia velocemente e scesi le scale. Stranamente quella notte avevo dormito bene; ormai l'assenza di incubi ed insonnia capitava così raramente, da lasciarmi sorpresa. Non fu invece una sorpresa trovare i signori Cullen con Joanne; erano un quadretto davvero perfetto: guardando il viso della signora Cullen la mia autostima era stata calpestata più volte dai suoi tacchi a spillo. Sembrava un angelo: labbra piene ed a cuore, naso piccolo e proporzionato; gli occhi grandi e blu scuro che sotto alla luce del neon diventavano viola, così la prima volta che la vidi, i miei pensieri si zittirono all'improvviso; provai la strana sensazione di avere la mente vuota.

Joanne era degna di loro: le stavano crescendo ciuffetti di capelli neri e gli occhi grigi guardavano i suoi futuri genitori con ammirazione.

Mi sentii fuori posto, entrando nella stanza e sedendomi sulla sedia all'angolo. Quando mi salutarono alzai un po' gli angoli della bocca, imitando un sorriso.

Ogni mattina mi fu assegnato il turno in quella stanza, così ogni mattina passavo circa cinque ore nella loro compagnia silenziosa: spesso si limitavano a guardare Joanne incantati ed a fare grossi sorrisi sinceri. Subito dopo il pranzo di solito andavo dai bambini più grandi e annuivo alle loro chiacchiere senza senso. Incominciai ad avere una specie di routine in cui i miei orari coincidevano alla perfezione.

«Perché sei qui?», non era la prima volta che il signor Cullen mi parlava, ma decisamente non gli avevo mai davvero risposto. Mi porsi la stessa domanda che mi aveva appena fatto lui e incominciai a sudare i palmi delle mani.

«Aspetto.», risposi. Ero brava ad attirare mistero e teatralità, ma quei due davanti a me sembravano più bravi di me in quel gioco. La voce mi uscì roca e bassa; per un attimo dubitai mi avessero sentito.

«Cosa?», chiese invece la donna; sembrava avesse cantato quell'unica parola.

«Libertà.», feci spallucce: mi sembravano intelligenti, avrebbero capito da soli; Joanne incominciò a piangere, forse capendo che l'attenzione non era più su di lei. Fu coccolata finché il lamento non si spense.

Avevo evitato tutte le adozioni: la prima volta ero scappata, la seconda mi ero tagliata sul polso da sola, accusando i miei genitori. Portavo ancora le cicatrici di tagli e scottature.
La voglia di uscire di lì si ripresentò in modo violento ed improvviso; se fossi scappata probabilmente non avrebbero nemmeno tentato di trovarmi, ma mi accorsi di volerlo con tutta me stessa.

 

Voglio andare via.”,

scrissi con un pastello nero su un foglio vuoto; i bambini intorno a me facevano così tanti schiamazzi da innervosirmi e quasi far cadere il vaso stracolmo che era diventata la mia pazienza.

«Anche io.», un soffio mi sfiorò l'orecchio. Nonostante il frastuono, riconobbi la voce. Non mi girai, ed incominciai a colorare un angolo del foglio, calcando con la punta fino ad arrossare l'indice, che teneva il pastello.

«Con l'unica grande differenza che puoi farlo quando vuoi.», mi accorsi che era la prima frase vera e propria che dicevo da settimane. Fui così secca da offendermi da sola.

Rise, così mi girai per cercare quel divertimento anche nei suoi occhi: c'era; con ritardo, mi resi conto di aver assunto un'espressione contrariata.

«E' quello che vorresti?». Avrei voluto gridare: 'Si! È quello che voglio!', ma mi limitai ad annuire e a spingere con il massimo della delicatezza la spalla di un bambino che continuava a tirarmi la maglia. Si sbilanciò all'indietro quando lo toccai, ma il volontario che mi aveva fatto la domanda lo mantenne diritto con un braccio.

Lo ascoltò, in modo condiscendente e fece quello che gli chiedeva: forse avrei dovuto accontentarlo io prima, perché l'unica cosa che desideravano tutti i bambini era guardare la televisione e nella stanza cadde il silenzio appena il rettangolo nero si illuminò.

Capii che era il momento di fuggire, perché il ragazzo, che sicuramente mi avrebbe rubato un'altra cotoletta, si sedette alla sedia libera vicino a me.

«Comunque, se può interessarti, anche se ne dubito, mi chiamo Trevor.», bel nome. Sorrisi solo dentro di me, per la lieve ironia che usò. Rimasi impassibile.

«Fai bene a dubitare.», nonostante l'acidità del mio tono, Trevor mi sorrise: non aveva solo un bel nome, dei begli occhi o bei capelli...anche il sorriso. Mi alzai, facendo scivolare rumorosamente la sedia sul pavimento, e con passi veloci uscii dalla stanza.
 

«Comunque noi siamo Emmett e Rosalie.», disse Emmett all'improvviso mentre sua moglie annuiva. Dopo un mese dalla prima volta che avevo visto il ragazzone, loro erano ancora lì: li avevo visti venire tutti i giorni, forse in vestiti diversi e sempre più costosi, eppure sempre uguali; stesse espressioni dolci e gentili, stessa perfezione maniacale.

Ero appoggiata al muro vicino ad una delle finestre, stanca di stare seduta; mi guardavano dall'altra parte della stanza, come se aspettassero qualcosa.

«Hollie.», sussurrai; pensai fossero più stupidi di come sembravano: «Mi chiamo Hollie.»
A quanto pareva il chirurgo plastico non aveva rimosso il cervello, perché mi sorrisero. Mi girai a guardare fuori, ma tutto quello che occupava la mia visuale era la fiancata di un edificio grigio e triste.

Dei passi veloci mi costrinsero a rigirarmi verso la porta: Trevor apparve sulla soglia con un fiatone leggero; lo guardai con le sopracciglia aggrottate, aspettando che prendesse fiato per sapere cosa voleva.

«Isabelle...», i muscoli della schiena si contrassero senza che lo volessi davvero. Guardai i Cullen, sperando che non pensassero che io avessi mentito sul mio nome; stavano entrambi guardando Trevor. «Olivie mi ha detto di farti scendere.»

Una ragazzina apparve al suo fianco, accompagnando le sue parole, per sostituirmi.
Scesi le scale in silenzio, al fianco di Trevor; in tutti quei pomeriggi passati con lui, aveva tentato inutilmente di fare conversazione: apprezzavo ascoltarlo, facendo finta di ignorare tutto quello che diceva. A volte i suoi sforzi mi impietosivano e divertivano. Aveva persino preso l'abitudine di sedersi vicino a me a cena, e parlare velocemente, quasi senza respirare. Avevo incominciato a chiedermi se fosse una macchinetta delle chiacchiere.

Quella mattina era silenzioso; quando arrivammo alla fine della rampa di scale, Trevor non mi aveva rivolto lo sguardo nemmeno una volta, così incominciai a preoccuparmi che mi stessero aspettando dei guai, all'ingresso.

«Ti si sono scaricate le batterie?», chiesi, marcando il sarcasmo. Fece spallucce, poi scosse la testa.

«Tu sei abbastanza di buon umore per rivolgermi la parola?», era irritato, o forse proprio arrabbiato. Tirai un respiro di sollievo quando capii che aveva intuito la vera ragione per cui non parlavo con lui: malumore.

 

Olivie voleva che spolverassimo nell'archivio.

Poco dopo minuti ci trovammo in una minuscola stanza senza finestre, immersi in cartelline di documenti, fogli e piccole carte. Continuavo a starnutire per la polvere.

Ero irritata perché ancora una volta Olivie era riuscita a darmi un lavoro non pagato solo perché evitavo a me stessa di fare scenate. Trevor era al lavoro in silenzio, ma l'aria era carica di tensione. Se sperava fossi io a parlare, si illudeva soltanto; eppure dopo un po' decisi di fare un chiarimento.

«Comunque mi chiamo Hollie. Chiamami Hollie.», più che un chiarimento, fu un ordine.

Mi fissò, senza dire nulla; mi aspettavo qualche reazione, magari l'annuire, ma rimase immobile in silenzio. Non volevo distogliere gli occhi, dimostrandogli di essere la più debole, ma fui costretta quando una figura apparve sulla porta. Era Olivie.

Seduta su un basso sgabello riuscivo a vedere le scarpe con il tacco alto di Rosalie Cullen, appena dietro Olivie.

«Mi serve il fascicolo di Joanne.», Trevor fu più attivo di me, si alzò e le porse una cartellina dalla scrivania. Per un attimo spalancai gli occhi: si stava occupando dei fascicoli e non me ne ero nemmeno resa conto. Non m'importò che se ne accorgesse, ma mi mossi velocemente con le braccia sul tavolo nel disperato tentativo di cercare il mio. Quando notai che me lo tendeva nell'aria, alla mia sinistra, perfino Olivie era sparita. Mi guardava, quasi frustrato. Presi la cartellina e la poggiai sullo sgabello, per poi sedermici sopra; forse l'aveva già sfogliata, ma non volevo lo facesse davanti a me: non volevo vedere la sfumatura orrida che avrebbe acceso i suoi occhi, mentre scorreva le poche frasi su quel pezzo di carta.

«Perché tu e la signorina Olivie non siete in buoni rapporti?», per qualche attimo rimasi a fissarlo con le sopracciglia aggrottate. Non capii che si stesse riferendo ad Olivie, siccome nessuno la definiva 'signorina' davanti a me da anni, ormai.

«Lei odia me, io odio lei.», non trovai modo più semplice per spiegarlo. Il mio rapporto con quella donna era sempre stato così, per la maggior parte del tempo, istigato da me ed i miei comportamenti strafottenti. Trevor annuì.

Avevamo catalogato tutto, anche se l'effetto finale non era ordinato quanto speravo. Mi alzai, facendo scivolare distrattamente la cartellina sui cui sedevo; alcuni fogli si sparsero sul pavimento. Mi abbassai ed incominciai a riprenderli velocemente: quando si trattava di quelle poche carte riuscivo a cercare di diventare ancora più invisibile.

Trevor si chinò con me, ma tutto quello che era rimasto sul pavimento era una mia piccola foto, forse sfuggita dalla spilla che la teneva unita alle carte. Il ragazzo la prese prima di me, e la guardo, con un sorriso accennato alle labbra; mi affrettai a strappargliela da mano e la infilai nella cartella, assicurandomi che entrasse.

«Che carina. Perché il broncio?», sembrava stesse parlando con la foto, non come me. Appoggiai il tesoro, che stringevo fra le braccia, nello scaffale in alto e più in fondo possibile. Mi innervosii alla sua domanda: non era ovvio?!

«Anche tu l'avresti avuto.», mi giustificai. Non volevo dirgli perché una bambina di 7 anni teneva così il broncio. 

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Capitolo 3
*** 3- ***


Salve!
Vorrei ringraziare chi ha messo la storia fra le seguite e Seforah, che ha recensito entrambi i capitoli, perché davvero questo è un contributo che apprezzo! Quindi...grazie! :)

Vi lascio alla mia Hollie! :)

3.

Va' lontano, alzati da quel muretto e conquista tutto quello che sogni.


Fui svegliata molto presto dal pizzicore che avvertivo alla gola; tossii, sentendomi quasi catapultata via dal sonno profondo dei pochi minuti prima. Mi raggiunse un forte odore di bruciato, così aprii gli occhi, fissando la finestra stranamente aperta. Ero certa che la sera prima fosse chiusa. Mi alzai a sedere in modo pigro e appoggiai i piedi sul legno freddo. Allungai il braccio fino alla finestra e la appannai, appoggiando poi la testa sul cuscino. Erano giorni ormai che dormivo serena, senza incubi: facevo sogni ambigui, irreali, ma li preferivo agli incubi spaventosi che spesso mi rubavano non solo il sonno, ma anche il respiro. Per la puzza che aleggiava ancora nella stanza fui costretta a tossire ancora, finché non mi alzai e cercai di capire da dove provenisse. Spalancando la finestra, fui invasa non solo dalla puzza, ma anche dal freddo: nuvole scure coprivano il cielo e piccole gocce di pioggia incominciavano a bagnare l'asfalto. Quando guardai verso il basso, mi si raggelò anche il respiro nei polmoni: una grande folla di persone in pigiama, vigili del fuoco, fumo, ed una parete nera. Le cose che si ripetevano di più erano confusione e disagio. Mi vestii velocemente, prendendo alcuni vestiti del giorno prima, calzini diversi ed un elastico per capelli. Scendendo le scale, feci una crocchia disordinata sulla nuca e chiusi la felpa; corridoi e scale erano deserti: sentivo solo il rumore dei miei passi veloci rimbombare nell'edificio. La porta di ingresso era aperta nonostante l'entrata fosse deserta; uscii fino in strada, lasciandomi prendere dalla confusione.

Fred.

Fred.

La facciata della casa del vecchio era completamente bruciata e la casa stessa sembrava non essere più sicura. Riconobbi volti di persone del vicinato e cercai di non fissare quelle nuove. Mi incantai, quando questa passò, su una barella; sopra c'era un sacco dimensione uomo e non mi serviva vedere al suo interno per capire chi lo occupava. La folla si disperse un po', lasciandomi notare una donna alta, con i capelli neri e corti, appoggiata alla spalla di un uomo. Piangeva in modo disperato. Il mio cuore riusciva a sentire il dolore nonostante fosse ormai rintanato e nascosto in qualche parte di me.

«Ti spaventa la morte?», fu la saggezza di quella voce dolce, a spaventarmi. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quella donna, così non lo feci e lasciai che rispuntasse fuori ciò che avevo nascosto a lungo.

«No. È quello che si porta dietro.», nella mia voce sentii una sincerità che non riconoscevo. Avrei potuto mentire, come ormai facevo sempre, ma in tutto quel dolore che mi circondava non sembrava giusto aggiungerne altro a me.

Il peso al petto che avevo ignorato per anni decise che era il momento giusto per tornare, così mi voltai di spalle e tornai in camera.

Non piangevo da così tanto tempo che mi resi conto di non sapere più come farlo: i singhiozzi si bloccavano in gola, impedendomi di respirare ed emettevo suoni disperati, angosciosi che pensavo di non aver mai creato.

 

«Ciao Hollie.»

Ciao Emmett.

Mi sedetti sulla mia sediolina a fissare il muro del palazzo di fronte attraverso la finestra.

Si era ripresentato tutto troppo velocemente ed avevo sbagliato a non tentare di controllarlo.
Di solito la pioggia mi scorreva addosso senza bagnarmi, ma questa volta ero fradicia.
Mi pulsava la nuca ed avevo tanta voglia di chiudere gli occhi arrossati; mi chiesi dove fosse quella donna, se avesse qualcuno o se in quell'istante fosse sola come lo ero stata io. Mi passò per la mente l'immagine dell'uomo che l'abbracciava: non era sola; la mia ferita al cuore non si risanò: non era della donna che mi importava, ma di me. Mi accorsi di non avere né un passato né un futuro ed a malapena stavo vivendo il mio presente. Ero convinta di ignorare quello che mi stava intorno, ma capii che stavo ignorando anche me stessa ed i miei stessi sentimenti, se mai li stavo provando.

Joanne incominciò a piangere tra le braccia di Rosalie Cullen: non era mai successo prima. D'istinto pensai di alzarmi, ma poco dopo la bimba si calmò.

Dalla porta spuntò una figura slanciata all'improvviso; scattai, alzandomi, verso destra, il lato opposto. I miei occhi si incontrarono con quelli dell'uomo e mi ci incantai. Ero stupefatta: avevano una forma allungata ed erano di un tenue azzurro; nonostante fossi distante più di tre metri, riuscii a vedere le ciglia bionde immobili sulle palpebre. Sembrava una statua: era un uomo immensamente bello, e mi venne subito da pensare ai Cullen per quanto questi erano simili: la pelle perfetta e pallida, estremamente pallida; le occhiaie pesanti e violacee sotto agli occhi. Qualcosa del mio inconscio mi stava indicando che aveva qualcosa a che fare con le altre due persone nella stanza. I capelli portati all'indietro fino alla nuca gli davano un'aria quasi saggia, ed il sorriso che mi stava porgendo non solo lo rendeva più bello, ma anche gentile. Rimasi imbambolata per un po', con le sopracciglia aggrottate, finché non sentii la sua voce, che non mi aiutò a ridestarmi.

«Oh, ciao. Tu dovresti essere la Isabelle che la signorina Olivie sta cercando. Io sono Carlisle, il padre di Rose ed Emmett. Piacere.», non dissi nulla e continuai a fissarlo, aggrottando ancora di più le sopracciglia. Mi sembrava così impossibile avere quella voce.

Anzi, l'avevo già sentita, quella mattina. Chinò la testa in fare galante e tentai un sorriso.
«Preferisco Hollie. Piacere mio.», quando mi resi conto di avere una scusa per uscire, lo feci, in imbarazzo. Olivie per qualche motivo mi stava cercando, così mi diressi sovrappensiero da lei. Ero circondata da persone perfette.

Carlisle, il padre di Rose ed Emmett.”, avevo letto di un personaggio di nome Carlisle in un libro, ma era ambientato secoli prima; era un nome in disuso perfino per la sua generazione. Inoltre dimostrava di avere quasi la stessa età dei figli, quindi di essere della stessa generazione; dimostrava 30 anni mentre i figli circa venti. Inoltre, come poteva essere padre di entrambi?!

«Isabelle!», Olivie interruppe i miei pensieri proprio mentre ero arrivata al culmine del ragionamento. «Serve aiuto a Martha.»; un tuono rimbombò nell'ampia entrata mentre mi dirigevo in mensa, lentamente.

«Hollie...mi andresti a fare la spesa? Ecco la lista.», mi ci mandavano spesso, a fare la spesa. Il supermercato distava meno di un kilometro ed ero abbastanza grande per andarci; mi passò un foglio di carta con su scritte le cose da comprare ed una banconota da cinquanta dollari. Annuii e mi avviai alla porta di ingresso. Appena misi entrambi i piedi fuori, mi accorsi di aver dimenticato l'ombrello; la porta alle mie spalle era già chiusa, così incominciai a bussare il campanello senza ricevere nemmeno una risposta. Aspettai qualche minuto, poi me ne andai imprecando. Alzai il cappuccio della felpa ed incominciai a camminare velocemente. Il quartiere era molto silenzioso: mi mancava quella musica che risuonava durante la giornata per la strada. Il peso al petto aumentò.
Presi in pieno un paio di pozzanghere ed il vento arrivò ad abbassarmi il cappuccio. Tirai un respiro di sollievo quando vidi il supermercato. Mi presi tutto il tempo che volevo per comprare quello che mi serviva, poi dopo aver pagato, uscii fuori con le mie tre buste. Erano pesanti, così incominciai quasi a correre pur di arrivare presto. All'improvviso mi accorsi di non avere più la pioggia battente sulla testa e mi fermai di botto; allo stesso tempo, il peso delle due buste dal braccio sinistro sparì. Mi voltai di scatto, ritornando sotto alla pioggia: Carlisle Cullen, mi porse ancora l'ombrello, con un sorriso benevolo sul viso. Aveva preso le due buste e le teneva, continuando a cercare di proteggermi dalla pioggia.
«Grazie.», sussurrai. Mi porse il braccio, avviandosi; evitai di mettermi a braccetto e lo seguì di pochi passi più dietro, mentre cercava ancora di tenermi sotto l'ombrello, per nulla deluso. Non camminammo per molto, che si fermò: trovò una fermata del pullmann con una panchina al coperto ed andò a sedersi all'asciutto, aspettando che facessi altrettanto; mi arresi e posai la busta fra i piedi.

Presi un po' di coraggio e visto che quel silenzio stava diventando insopportabile, forse a causa del rumore unico della pioggia sul tettuccio di plastica feci una domanda che incominciava a tormentare la mia curiosità.

«Come puoi essere padre di entrambi?», lo fissai con le sopracciglia aggrottate. Era così bello che quasi mi incantai e non mi era mai successo prima, con nessuno. Sembrò molto divertito dalla mia domanda, e quando sorrise il suo viso si trasformò, diventando ancora più bello.

«Ho adottato entrambi e si sono innamorati.», fece spallucce e puntò gli occhi azzurri nei miei. Sembrava stesse per dire qualcosa, ma poiché anche io schiusi la bocca, mi fece parlare;

«Joanne sembra felice.», spostai lo sguardo sull'asfalto e mi morsi le labbra. Non sembrava, lo era. E dovetti ammettere che ero contenta di questo.

«Sarà una bella nuova entrata nella nostra famiglia. Ho anche altri figli, sempre adottati: Alice, Jasper, Edward e Bella, che considero come tale.», tutti quei nomi mi confusero per un attimo. Avevo notato la ricchezza di quella famiglia, ma mi accorsi anche della gentilezza e della voglia di far del bene. «Anche Alice e Jasper sono fidanzati, ed hanno intenzione di sposarsi presto.», notai orgoglio nel suo tono. Mi confusi ancora di più, e quando vide le mie sopracciglia pericolosamente aggrottate, si schiarì la voce.
«Quanti anni hai?», mi chiese; avevo voglia di tornare alla casa famiglia, anche portando le tre buste da sola: quella conversazione incominciava a non piacermi molto. Qualcosa mi spinse a rispondere ed a lasciare da parte la maleducazione che invece mi accompagnava ogni volta che aprivo la bocca.

«Diciassette.», a giudicare dalla sua espressione, dimostravo gli anni che avevo. Posò i gomiti sulle ginocchia, e si spostò un po' in avanti.

«Lavori alla casa-famiglia?», sembrò chiedermelo senza interesse, come se conoscesse la risposta e lo facesse solo per avere una breve e cortese conversazione con me.

«Ci abito.», risposi seccamente. La voglia di scappare aumentò.

«Perché?», sapevo cosa voleva. Non avrei dovuto darglielo, avrei dovuto alzarmi, prendere le mie buste ed andare via...per qualche strana ragione invece rimasi. Osservai il suo profilo: solo dopo circa trenta secondi di silenzio si girò lentamente a guardarmi.
Mi chiesi se ne valesse la pena.

Mi sorrise, come a giustificare la sua curiosità, ed a chiedermi scusa. Sembrò volesse dirmi: “Puoi non dirlo, se non ti va'”, ma volevo:

«Sono arrivata qui quando avevo sette anni. Non ricordo nulla. Non voglio ricordare, quindi mi adatto. Ciò che ricordo mi piace ancora meno di quello che ho voluto dimenticare.», mi studiò in silenzio; forse incominciò a riflettere su quanto ero in grado di continuare. Mi sentii sfinita all'improvviso, come se il peso del mondo mi fosse ricaduto addosso.

«Perché non sei mai andata via?», la sua domanda mi sembrò così spontanea e priva di originalità che la risposta mi parve ovvia;

«Libertà.», sperai capisse. Annuì.

«Non sei così chiusa ed asociale come sembri.», si alzò, prese le buste e si avviò con energia. Rimasi perplessa, mentre mi alzavo per andare io stessa: il suo scopo era capire come fossi? Mi arrabbiai e pensai di andare lì e dargli un calcio. Appena la pioggia tornò a bagnarmi la testa, mi coprì un velo di freddezza.

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Capitolo 4
*** 4- ***


Scusate il ritardo, ma ecco il quarto capitolo! E' solo di passaggio, quindi pubblicherò il seguente a poco. 

Ed ancora: hope u like it! (:


4.-

Can't wake up in sweat,
'cause it ain't over yet,
still dancing with your demons, 
victim of your own creation!

(Nightmare-Avenged Sevenfold)


«Hai finito, piccola?», posai la penna e mi lasciai accarezzare da quella mano dolce e calda.
Annuii lentamente; mi brontolò lo stomaco, così mi alzai per andare in cucina. Mia madre mi lasciò fare, osservandomi dalla poltrona cui era seduta. Appena varcai la soglia della stanza, notai l'uomo seduto alla tavola. Pensavo che mio padre fosse al lavoro, invece era lì, seduto con la testa tra le mani ed il corpo tremante: mi spaventò così tanto che urlai e lasciò cadere un foglio che teneva tra le mani. Quando mia madre mi spinse fuori incominciai a piangere; mi chiuse la porta in faccia, la lasciai fare. Mi accucciai dietro al divano. Le urla arrivavano confuse fin lì; la mamma piangeva, giurava di amarlo, di amare me.
«E' tutta una bugia! Hope non è mia.»

Continuavano ad urlare, ora in modo diverso. Passò un minuto. Mi alzai ed aprii la porta, prendendo coraggio: feci tre passi indietro ed osservai la scena da lontano: mia madre era sul pavimento, quasi inerme; mi fissava: aveva perso forse anche la forza di urlare insieme al sangue che bagnava il pavimento. Anche mio padre mi fissava, appoggiato al mobile: dalla mano gli era appena caduto il coltello del pane. Reagii di istinto e corsi in salotto, al telefono: composi velocemente il numero che conoscevo meglio, ed aspettai con ansia una risposta.

«Mamma e papà, zio. Mamma e-e papà-à.»

 

Erano mesi ormai che non mi svegliavo in lacrime. Gli incubi c'erano sempre stati, spesso erano gli stessi ricorrenti, ma era passato così tanto da quando avevo pianto durante il sonno l'ultima volta che rimasi un attimo a sedere nel letto, senza nemmeno asciugarmi le guance. L'urlo di mio padre mi rimbombò in testa, come se fosse il suo eco:

«Hope non è mia.»

 

«Buongiorno.», Carlisle mi fissò dalla sedia su cui era seduto, mentre mi avvicinavo alla stanza alla fine del corridoio. Mi distrasse: avevo da poco incominciato a contare i miei passi pur di non pensare ad altro, come riuscivo a fare per giornate intere, quando mi fece perdere il conto. Avevo raggiunto i 789 passi.

«Ciao, Carlisle.», mi sorrise, forse ringraziandomi della spontaneità. Sedeva su una sedia di plastica bianca messa tra due altre nel corridoio, forse aveva riaccompagnato Rosalie ed Emmett. Detti uno sguardo alla porta aperta ed intravidi la chioma lucente della bionda. Quando Carlisle mi fece segno di sedermi accanto a lui, mi fermai e mi chiesi di nuovo se ne valesse la pena.

Mi sedetti.

Tra le mani pallide stringeva un libro dalla copertina nuova e liscia, eppure dalle sembianze antiche; si spostò un po' sulla sedia, poi mi guardò, porgendomi il libro.

«Mi hanno detto che ti piace leggere, così ti ho portato questo.», fece spallucce, e spinse ancora di più il libro verso di me. Mentre tendevo la mano per prenderlo lessi sulla copertina; erano poesie di Pablo Neruda.

Il libro era più pesante di quanto credessi ed, aprendolo, notai che le pagine erano spesse, quasi come se fosse davvero un libro vecchio.

«G-grazie.», avrei evitato volentieri che mi si incrinasse la voce o il balbettare stesso, ma fu una reazione involontaria. Nessuno mi aveva mai prestato un libro, anche se ne avevo un gran bisogno.

«Di nulla. Domani potrai dirmi se ti piace.», mi sorrise mostrano una dentatura perfetta, ma un po' inquietante. Un sorriso da predatore.

«Cosa hai intenzione di fare una volta uscita da qui?», stavo per alzarmi, ma quando fece la domanda bloccai il pensiero a metà. Non avevo bisogno di pensare a cosa rispondere, poiché erano cose che cercavo di programmare da più di un anno. Cose che programmavo da una vita.

«Cercarmi un lavoro, un appartamento e cercare di pagare gli studi per medicina.», detto ad alta voce sembrò così assurdo che arrossii. Mi alzai, andando verso la porta.

«Io faccio il medico.», invidiai l'orgoglio nella sua voce e desiderai immediatamente di imitarlo. 

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Capitolo 5
*** 5- ***


Non nasconderti, ragno, lascia la luce del giorno

penetrar nella tua tana, non nasconderti, ragno.

In quelle chiarezze entrerà l'allegria,

le cose sono allegre quando la luce le bagna.

Ragno, non nasconderti. L'oblio ed il dubbio

aleggiano nell'ambiente del tuo angolo oscuro,

le cose amaramente sono ostili e mute,

con la tinta oscura della desolazione.

Guarda, ragno, la vita; perché tutta la vita

alla luce piace con la sua palpitazione.

Non nasconderti, ragno, quella luce benedetta

porterà l'allegria al tuo angolo oscuro!

(Pablo Neruda)

 

Alla fievole luce della lampada da comodino stavo leggendo, seduta sul pavimento. Tra tutte le pagine che avevo sfogliato, l'ultima aveva un'orecchietta in alto a destra; alzai lo sguardo sull'orologio: erano le quattro del mattino. Dalla finestra ancora aperta riuscivo a notare che il buio era ancora fitto; le cose sono allegre quando la luce le bagna. Mi sembrò che non ci fosse bisogno della luce perché il cielo sembrasse perfetto.

 

Si sentiva ancora un dolorosa tanfo di bruciato, come se i muri, l'erba, l'asfalto, l'aria ne fossero impregnati. Il libro sul petto si muoveva su e giù, seguendo il mio respiro. Avevo intenzione di restituirlo a Carlisle e ringraziarlo. Sarebbe stata la terza volta in cui avrei detto grazie a quell'uomo di nuovo.

«Ecco dov'era quel libro!», spalancai gli occhi: la donna che aveva appena parlato mi stava osservando da destra, mentre camminava verso di me. Prima ancora di guardarla notai Carlisle alle sue spalle: stava sghignazzando. La figura minuta e leggermente paffuta che si avvicinava, mi donava fiducia; la donna aveva gli stessi tratti perfetti di quello che immaginavo fosse il marito, ma il viso a cuore, ed i capelli color caramello che lo circondavano, rendeva, la sua, un altro tipo di bellezza: dava delicatezza a tutto ciò che c'era intorno.

Mi misi a sedere lentamente, cercando di imitare un sorriso sghembo.

«Ciao, Hollie. Esme, questa è Hollie.», si fermarono entrambi, così mi alzai in piedi; cercai di sorridere di nuovo. Mi avvicinai tendendo il libro ad Esme.

«Mi è piaciuto tanto, grazie mille.», la donna lo afferrò, sporgendosi verso di me. Sembrava che il mio piacere la rallegrasse più di qualsiasi altra cosa.

«Te ne ho portato un altro...», Carlisle si fermò per un attimo, poi si batté la mano sulla fronte; il gesto teatrale provocò ilarità alla moglie e fece luccicare i suoi occhi , così mi ritrovai anche io a ridacchiare.

«...l'ho dimenticato in auto.», sembrò scusarsi; era una cosa così insignificante dimenticare un libro. Ero però curiosa di sapere che libro fosse, e provocare la mia curiosità non rientrava nelle cose che perdonavo facilmente.

Mi ritrovai a fissare Esme senza nemmeno rendermene conto; era come se in quella famiglia ogni individuo, volendo o meno, trovasse un modo per attirare a sé il resto del mondo. Lo notavo in ogni sguardo che si posasse su di loro, compreso quello di Olivie che non aveva mai avuto tanto rispetto per un essere umano.

Distolsi lo sguardo su Rosalie ed Emmett che arrivavano ridendo e fu un pessimo errore: il suono delle loro risate assomigliava a delle campane scintillanti, con toni più bassi ed alti. Fu come se all'improvviso mi sentissi in dovere di fare la 'padrona di casa' o almeno di essere educata, quindi li scortai fino all'ingresso. Osservare l'espressione di Trevor nel vedere la perfezione che era anche Esme, la quale stava al mio fianco, mi consolò. Non ci mise molto ad accorgersi di me ed a rivolgermi un saluto con la mano ed un sorriso.

L'attenzione dell'intera stanza si spostò su Rosalie ed Emmett, quando questi entrarono; il ragazzone posò un libro tra le mani di Carlisle, proprio quello destinato a me. Quando l'uomo me lo porse mi sentii riluttante a prenderlo, ma l'amore per la lettura in ogni sua forma lasciava da parte l'orgoglio dell'accettare un aiuto.

“La storia della medicina.”, non fermai il sorriso spontaneo che mi si allargò sul viso.

 

«Così...siete diventati amici?», la voce di Trevor si incrinò leggermente. Misi una porzione di patate nel piatto di una bambina che mi stava davanti al bancone, e Trevor seguì a metterle una coscia di pollo rivolgendole un sorriso. Presi un respiro profondo, spazientita.

«Di chi parli?», avevo una piccola idea sulla risposta, ma volevo solo che quell'ennesima conversazione/tortura finisse. Mi guardò per un attimo, come per accertassi che non fossi troppo nervosa.

«Della famiglia perfetta. Non pensavo permettessi a te stessa di avere degli amici.», rimarcò con acidità l'ultima frase; pensai di istinto di andarmene, lasciandolo da solo a fare tutto il lavoro.

«Non siamo amici. Sono solo gentili con me.», feci spallucce e servii un'altra porzione. Era vero: era la famiglia perfetta anche per comportamento; riuscivano a non fare nulla di sbagliato.

«Anche io ero gentile con te.», mi immobilizzai. Aveva ragione. Posai il cucchiaio che avevo in mano e lo guardai: aveva capito di aver fatto centro, ma non sembrava arrabbiato, solo intristito. Abbassai lo sguardo;

«Mi dispiace.», il mio tono stridulo non aiutò a far sembrare quelle parole naturali. Cosa mi stava succedendo? Erano anni che non chiedevo scusa, che non dicevo di essere dispiaciuta. Trevor non si aspettava molto, ma notò quanto quelle dieci lettere mi fossero costate.

«Non importa. Cercavo di capire.», si accompagnò con una voce rassegnata.
La fila davanti a noi era finita. 





Mi ritrovai ad essere gentile per tutta la settimana, anche con Trevor. Carlisle ed Esme accompagnavo i figli ogni giorno ed avevo come l'impressione che stessero in qualche modo cercando di conoscermi meglio. Ogni due giorni avevo un libro da leggere e sentii che in qualche modo il sole stava sorgendo.

Olivie aveva comprato tramite i fondi dei libri di testo, compreso uno per me che mi sembrava alquanto banale; ero seduta in un angolo nell'aula dei bambini, mentre Trevor ed un altro volontario adulto cercavano di farli stare tranquilli. Era un libro di test di letteratura, nulla di più semplice: l'anno prima avevo studiato il doppio del programma, convinta che avrei sostenuto l'esame in anticipo mentre avrei dovuto farlo entro la fine di giugno.

Trevor mi si sedette vicino;

«Come va oggi?» i suoi occhi luccicavano di una strana emozione; posai la matita in grembo e lo osservai.

«Come sempre.», feci spallucce e tornai a scrivere. Dopo mezzo minuto prese il libro che avevo sulle gambe e lo chiuse; protestai silenziosamente mentre rideva. Non lo trovavo divertente.

«Ho una proposta.», alzai gli occhi al cielo; sarebbe stata sicuramente una cosa stupida, «Ti ascolto.», sussurrai, cercando di riprendermi il libro che lui scostò.

«Ho preso un pomeriggio libero.», quindi? «...per entrambi.»

Non capii subito cosa volesse, ma quando ci arrivai, sorrise della mia espressione sbalordita. Scossi la testa.

«Non mi faranno uscire, Trevor.», era più che ovvio. La dirigente dell'edificio non c'era mai, l'avevo vista massimo due volte, ma ero sicura che l'unica cosa che potessi fare era andare a fare la spesa dietro l'angolo, eppure sperai che Trevor intendesse andare da qualsiasi altra parte. Olivie non mi avrebbe mai permesso nulla.

«Hai il permesso. Andiamo a fare un giro in città.», rimasi sbalordita, tanto che dovette costringere la mia bocca a restare chiusa.

Una bambina arrivò in quell'istante ad annunciare che il pranzo era pronto, così Trevor dovette alzarsi per fermare dei demoni affamati che già si dirigevano verso le scale.

Io anticipai tutti per mangiare, avviandomi in mensa; notai che i Cullen erano ancora in quel corridoio. Esme mi salutò con la mano, così feci lo stesso.

Quando mi sedetti, Trevor si avvicinò solo per un attimo.

«Dopo pranzo, okay?», annuii senza nemmeno pensarci. Non ero mai andata al centro di Vancouver: in realtà non avevo mai visto nulla di quella città. Mi ritrovai ad essere eccitata per quel pomeriggio.

Mangiai tanto in fretta che quasi mi ingozzai, poi salii velocemente in camera mia. Cambiai la maglietta, preparai l'unica giacca pesante che avevo e mi concessi 10 minuti in bagno per lavarmi e pettinarmi. Le guance erano stranamente gonfie ed accese di un rosso tenue; quando scesi le scale fino all'ingresso, Trevor mi aspettava vicino alla porta; Esme e Carlisle parlavano con Olivie, ma quando mi videro si girarono a guardarmi, interrompendosi; mi rivolsero un sorriso caldo, per poi continuare ad osservarmi anche mentre mi dirigevo da Trevor, che si era scostato dal muro.

Anche lui mi rivolse un grande sorriso, poi mi aprì la porta e salutò Olivie con la mano. La donna lo guardò acidamente.

 

Raggiungemmo una grande piazza all'esatto centro della città con i mezzi; Trevor aveva scelto bene il giorno: il sole illuminava tutto. L'unico fastidio era il vento, che era tanto forte da continuare a sballottarmi un po'.

Costrinsi Trevor ad andare in un museo: era chiaro come fosse l'ultima cosa che aveva in programma; lui aveva optato per lo zoo, così come una bambina gli dissi di fare strada.

Ci tenne per offrirmi una cioccolata calda e camminammo tanto che i miei piedi incominciarono presto ad implorare pietà. Riuscì a parlare tutto il tempo, per nulla scoraggiato dai miei periodici silenzi. Quando parlavo stava in silenzio ad ascoltarmi, o faceva domande per farmi parlare ancora; arrivarono le sette di sera e noi eravamo ancora seduti allo stesso tavolino a parlare.

«Sei sicura di voler fare tutto da sola?», avevo capito cosa intendeva. Mi sporsi in avanti e posai la tazza. I suoi occhi mi fecero dubitare per un lungo attimo, ma alla fine annuii.

«Lo sono. È quello che ho voluto fin'ora.», sussurrai. Non avrei mai potuto cambiare idea.

«Ma guardati intorno. Non puoi odiare il mondo. Il mondo non è quell'edificio.», accompagnò le sue parole con un gesto delle braccia. All'improvviso quello che dicevano e facevano le persone intorno a noi divenne poco importante.

«Non odio il mondo. Sono sicura di non potermi però inserire al meglio. Lo sto scoprendo solo ora.», mi sembrava complicato perfino prendere un pullman, o camminare in una piazza senza osservare tutto quello che avevo intorno.

«Hai bisogno di aiuto.», se anche così fosse stato, non l'avrei accettato e speravo lo capisse in fretta. Scossi la testa.

Cacciò dalla tasca il cellulare e guardò lo schermo: la sua espressione divenne sorpresa, forse perché aveva scoperto l'orario, poi si alzò per andare a pagare.

Quando uscimmo mi strinsi nelle mie stesse braccia, attaccata dal vento gelido. Trevor si tolse piano la sciarpa e me la annodò al collo senza che avessi il tempo di rifiutare, poi mi circondò le spalle con un braccio e mi strinse a sé. Avrei voluto scostarmi, dirgli che riuscivo a riscaldarmi da sola...ma ero sicura che non mi avrebbe lasciata andare.

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Buonsalve! (?) 
Ecco il quinto capitolo! Ammetto che non sono molto contenta di questa ff, perché nella mia testa è migliore. Anche Hollie lo è, e poi vorrei che scorresse più veloce, invece mi ritrovo con dei paginoni enormi. La trama nella mia testa è...wow, ma non so se riesco a renderla. Spero per voi di sì <3 AHAHAHAH 
Ciao, belli .u. 

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Capitolo 6
*** 6- ***



6.


Ci mettemmo quasi due ore a tornare in periferia: due ore di gelo e chiacchiere. Riuscì a farmi ridere due volte, un po' costretta ma emisi il suono più simile possibile ad una risata. Quando arrivammo nel giardino capii che quella sensazione di serenità era divertimento: per quel che ricordavo non mi ero mai divertita.

Pensavo che sarebbe rientrato con me, invece si fermò al cancello; quando me ne accorsi, tornai indietro di due passi.

«Grazie, Trevor.», gli sussurrai. Si sporse verso di me, così quasi arretrai eppure rimasi immobile: mi baciò l'angolo delle labbra delicatamente, poi mi sorrise e mi diede le spalle. Rientrai, sentendo ancora il calore delle sue labbra.

 

Scesi le scale lentamente: avevo le gambe indolenzite. Arrivata all'atrio vuoto, arrossii al ricordo della sera prima; appena avevo messo piede dentro, Olivie mi aveva assalita nonostante la presenza della famiglia Cullen. Emmett rideva mentre la donna mi accusava di essere un'irresponsabile e di aver ritardato tanto solo per farle una ripicca. Carlisle si era mosso per difendermi ed appena Olivie aveva incontrato il suo sguardo, batté in ritirata. L'uomo sostenne infatti che il servizio pubblico per gli spostamenti era carente e quindi causa del mio ritardo.

Ciò non evitò che appena la famiglia andò via, Olivie mi assegnasse una punizione; quella mattina ero scesa presto proprio per scontarla; fui costretta a pulire i pavimenti di mezzo edificio ed in seguito a controllare i bambini per tutta la mattinata. Trevor non si fece vedere, invece i Cullen arrivarono anche a salire due piani per salutarmi.

Carlisle aveva un nuovo libro con sé.

Uscii dalla stanza d'asilo e mi appoggiai allo stipite della porta, mettendomi davanti a lui.

«Pensavo ad una ricompensa dopo la punizione.», era un piccolo romanzo dalla copertina rigida.

«Grazie, Carlisle. Dopo ti porto quello che ho già finito.», risposi al suo sorriso con spontaneità. Sembrava avesse qualche preoccupazione, così per allentare la tensione chiesi dove fossero gli altri; sembrai fare centro:

«Rose ed Emm parlano con la dirigente, vogliono portare Joanne a casa.», si passò una mano tra i capelli, con un sorriso. Non mi ero nemmeno accorta che la dirigente ci fosse, quel giorno. Incrociai le braccia sotto al petto, sorridendo. Pensai per un attimo che sarei stata presa da una lieve malinconia, se non fossi riuscita più a vederli. Però avevo sopportato di peggio.

«Anche Esme è con loro, forse dovrei andare anche io o potremmo perdere il turno per il nostro colloquio.», sembrò sottintendere qualcosa, ma poi arretrò di due passi, guardandomi con aspettativa. «A dopo.», sussurrò alla fine, avviandosi alle scale. Anche io tornai dentro, ma mi fermai al centro della stanza.

Il nostro colloquio.

Tornai indietro e lo richiamai, così a metà rampa si girò verso di me.

«Adottate qualcuno?», chiesi, sottovoce. All'improvviso capii anche perché erano sempre lì con i figli. Fece due scalini verso di me, poi annuì. Il sorriso che gli spuntò sul viso mi spaventò quasi. «Se ci è concesso.», aggiunse, poi.

«Chi?», più che una parola sembrò un respiro rumoroso. Mi sembrava assurdo.

Carlisle tentennò, poi si guardò per un attimo intorno e mise le mani in tasca. Mi fissò intensamente e provai l'orribile sensazione di poco ossigeno al cervello. «Te.»

Il libro che stringevo forte mi scivolò da mano.

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Altro capitolo di passaggio, meno di 24h al prossimo! 
...buonasera! (:

-Suspaaaance.

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Capitolo 7
*** 7- ***


7.

Aiutami a portare il fuoco,

lo terremo acceso insieme.

Aiutami a portare il fuoco,

illuminerà il nostro cammino per sempre.

 

Arretrai mentre Carlisle si avvicinava velocemente, porgendomi una mano. Di scatto tesi le braccia all'indietro per evitare che le raggiungesse.

«Non ora, non subito.», scossi la testa frettolosamente a quello che mi diceva. Mi sentii all'improvviso arrabbiata, come se avessi avuto la conferma che fidarsi di qualsiasi persona fosse sbagliato.

Conosceva i miei progetti, perché anche solo pensare di cambiarli?

Sembrò intercettare i miei pensieri: «Scusa, Hollie.», provai difficoltà nel respirare guardandolo negli occhi. La personalità violenta tornò a galla ed ebbi voglia di dare uno schiaffo al viso perfetto che mi stava davanti. Strinsi i pugni e chiusi gli occhi, che pizzicavano. Tentò di parlare, ma riaprii gli occhi e corsi velocemente verso le scale; lo sentii chiamarmi, ma aumentai soltanto il passo.

Nell'atrio c'erano anche altri adulti, tutti raggruppati, in chiacchiere. Incontrai lo sguardo stranito di Rosalie, ma uscii fuori quasi saltando.

Camminai per strade che mi sembravano troppo brevi, fino a stancarmi e ad avere il fiatone; mi sedetti contro il tronco di un albero, in un parchetto deserto. Il vento incominciava ad essere freddo, così tirai le maniche della maglietta fino a coprire anche le mani, e me le portai sulle guance.

Il mio parere nelle mie adozioni non era mai contato molto. Per evitare una famiglia ero costretta ad agire appena arrivata nella nuova casa, creando disastri, ferendo persone o me stessa. Non era mai tanto complicato. Non volevo rifarlo però, non dopo essermi accertata che quella parte della mia vita fosse chiusa e che si stesse per aprire una nuova. Una in cui non mi sarebbe servito nessuno.

“Ti serve un aiuto.”, le parole di Trevor spuntarono e mi arrabbiai ancora di più. Mi costrinsi a trattenere le lacrime e per la rabbia diedi un pugno al terreno, facendomi solo male. Erano momenti come quelli in cui odiavo tutti.

Mi sarebbe bastato aspettare un po', finire l'anno, compiere diciotto anni, firmare un paio di pratiche ed assicurare a tutti di essere abbastanza matura, poi non avrei avuto bisogno di nessuno. Sembrava che il mondo non la pensasse così, che fosse tutto inutile.

«Ti ho trovata.», dalla mia posizione riuscivo ad intravedere soltanto le mani di Trevor infilate nelle tasche. Ero arrabbiata anche con lui per qualche motivo sconosciuto.

Sbuffai e mi girai fino a rivolgergli la schiena; sentii la sua risata divertita e poi si sedette al mio fianco, stringendomi piano la vita con un braccio. Sentii le lacrime pronte a scendere. «Ho parlato con Esme.», il mio silenzio lo invogliò a continuare, ma mentre mi aspettavo un discorso lungo e ben articolato, mi rivolse solo il succo dei suoi pensieri:

«Va' con loro.», scossi la testa ed incominciai involontariamente a dondolare. «Per favore.», sembrò supplicarmi, ma non riuscivo nemmeno a capire cosa gli importasse. «Per una volta soltanto, pensa sul serio a cosa è meglio.»; sapevo cosa fosse meglio, ma non rientrava in quello che stava succedendo.

Mi alzò il mento con due dita, fino a farmi puntare gli occhi nei suoi.

«Forse dovrei essere egoista e costringerti a rimanere qui, ma un addio per il tuo bene rientra anche nella mia felicità.», la sua voce si era abbassata di molto, fino a diventare solo un sussurro. Chiuse per un attimo gli occhi, stringendo le palpebre. «Mi dispiace.»
Sussultai quando lo vidi avvicinarsi lentamente, carezzandomi la guancia con l'altra mano; eppure non mi ritrovai in panico, e socchiusi gli occhi. Le sue parole mi avevano riempito di tristezza. Mi sentivo stanca, ma appena le sue labbra si posarono sulle mie, il mio cuore batté tanto veloce da darmi vita. Le sue labbra si mossero lentamente, in sincronia con le mie. Ci ritrovammo a darci un bacio bagnato, non solo umido, per le mie lacrime che alla fine si stavano liberando nonostante avessi gli occhi chiusi. Sentii le sue mani tremare sul mio viso, mentre si scostava lentamente. Cercai di rallentare il respiro, ancora con gli occhi chiusi, ma non ci riuscii del tutto, così tornai a guardarlo.

Quando si alzò, porgendomi una mano, era ancora angosciato.

 

Era così buio in ingresso che la luce dell'archivio mi accecò quasi; mi mossi velocemente verso le scaffale più in alto e nascosto, chiudendomi la porta alle spalle.

Trovai la cartellina che stavo cercando e mi sedetti alla tavola, spargendo i fogli ed i documenti che c'erano all'interno sul legno scuro.

Presi la foto che giorni prima Trevor aveva visto e la posai di lato. Mi concentrai sul primo foglio di una lunga serie.

 

Isabelle Hollie Hope Greypearl.

Genitori (deceduti): Emmie Black – Jack Greypearl

Nata a Portland, Washington, il 30 Settembre 1996.

Numero adozioni: undici.

Seguiva una lista infinita di nomi e cognomi, che terminava con due ultimi ed una firma di cui quasi riuscivo a sentire l'odore dell'inchiostro:

Cullen Carlisle – Evenson Esme

Mi strinsi forte il foglio al petto, poi presi un gran respiro e sistemai nella cartellina tutte le pratiche. Prima di uscire mi augurai a bassa voce buona fortuna. 



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Bene, ecco il 7! 
Reazione di Hollie piuttosto plausibile e spaventata, o almeno è quello che volevo trasmettere. Direi di augurarle in coro buona fortuna tutti insieme, perché potrebbe servirle...o meno. :)
Vi ringrazio davvero tanto, comunque, perché conto ogni visualizzazione, anche se magari la ff viene aperta per caso. :')

Be'...ciao! 


p.s.: Ascoltate, se avete voglia ed accettate un consiglio, 'No sound but the wind' degli Editors, magari un live...per esaltare la voce di Tom Smith. Io l'adoro! :)

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