Sussurri lontani, memorie sepolte nella neve...

di UncleObli
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuori la neve continuava a cadere. ***
Capitolo 2: *** Finalmente capisco, grazie. ***
Capitolo 3: *** Questo è il mio requeim per te... ***
Capitolo 4: *** Soffia un vento gentile. ***
Capitolo 5: *** Ricordi di una domenica qualunque. ***



Capitolo 1
*** Fuori la neve continuava a cadere. ***


Fuori la neve continuava a cadere.

“Sei ancora qui? Ti avevo detto di tornare a casa...”

D'istinto, alzai la testa di scatto. Mi ero appisolato, alla fine avevo ceduto al sonno. Cercai di ritornare lucido, un impresa piuttosto difficile, soprattutto se si è reduci da due notti di veglia ininterrotte. Con voce calma, ma rotta dalla stanchezza, replicai:

“Non ti preoccupare per me. Piuttosto, tu non dovevi tornare domattina?”

La ragazza di fronte a me mise il broncio, vagamente irritata. Si tolse il cappotto e lo posò sull'unica altra sedia presente in quell'asettica camera d'ospedale. Poi appoggiò la borsa sopra il cappotto e mi offrì un croissant ancora caldo, che si era evidentemente premurata di acquistare al bar dell'ospedale.

“Domattina è adesso. Hai dormito più o meno quattro ore. E' stato il dottore a dirmi di chiamarti. Dovrebbe fare il giro visite, ma non sapeva se fosse il caso di svegliarti, dato che non chiudevi occhio da giorni. Usciamo, ti farebbe bene prendere un po' d'aria fresca. E poi non c'è molto che tu possa fare per lui, qui.”

Con riluttanza gettai un'occhiata al letto al centro della stanza. Sul materasso giaceva un ragazzo. Sembrava solo addormentato, ed effettivamente sul suo viso non si poteva scorgere alcun segnale di sofferenza. Però io sapevo che la verità era ben diversa. Mi alzai, e con passo incerto lo raggiunsi, come per sincerarmi delle sue condizioni. Il pallore sul suo volto sembrava peggiorato. E dopo due giorni ancora non si svegliava...

“Si, potrebbe essere una buona idea. Grazie per il croissant...”

Lei mi sorrise, poi mi accarezzo la testa, scompigliandomi i capelli. Io le ringhiai contro: sapeva benissimo quanto detestassi che mi si spettinassero i capelli. Rise, e mi accompagnò fuori con un sorriso. Diedi un morso esitante al croissant. Era alla marmellata. Lo finii in pochi morsi, resomi conto di quanto fossi in realtà affamato.

“Allora, ci sono novità?”

Io sobbalzai, poi scossi la testa, sconsolato.

“Non una che sia una...semplicemente continua a non ridestarsi dal coma. Non so più che cosa fare, non voglio che muoia...se succedesse non so che farei...”

Lei mi abbracciò, comprensiva. Capii solo qualche istante dopo di aver rotto un piccolo tabù: fino a quel momento nessuno di noi aveva avuto il coraggio di ammettere la possibilità di perderlo per sempre. Per qualche istante mi odiai, come se il fatto di aver messo in conto una simile possibilità mi rendesse automaticamente un mostro.

“Non ti devi preoccupare, vedrai che andrà tutto bene. Su, andiamo in giardino. Guarda, è da qualche ora che nevica. E' uno spettacolo magnifico, ti tirerà su di morale, credimi.”

Passeggiammo insieme senza dire nulla, ciascuno perso nei propri ricordi. Non ebbi il coraggio di guardarla in faccia: non riuscivo a togliermi dalla testa la sensazione di essere in errore, di aver commesso un crimine irreparabile. Proprio io, che mi ero ripromesso di proteggerlo a tutti i costi. Capendo il corso dei miei pensieri lei disse, dolce:

“Senti, te l'ho già detto, ma permettimi di ribadire il concetto: non è stata colpa tua. Certo, nemmeno sua ovviamente ma adesso non è il momento di piangersi addosso. L'unica cosa che possiamo fare è avere fiducia nei medici. D'accordo?”

Io annuii, continuando a tacere. Arrivammo al giardino. Era effettivamente un paesaggio stupendo, un parco gradevole e curato stranamente vicino all'ospedale. E imbiancato dalla neve aveva un qualcosa di magico. Non saprei dire cosa, ma sono certo di non sbagliarmi se dico che non ho più visto uno spettacolo simile. Mi accucciai all'ombra di un pino, e raccolsi una manciata di neve fresca. Me la feci scivolare fra le dita, godendo della sensazione di fresco che mi donava. Poi mi alzai, pulendomi le mani sui pantaloni.

“Lo so, ma non riesco a perdonarmi comunque. Sai, non ho mai voluto fare nulla per gli altri. Avrei voluto proteggere un'unica persona, e ho fallito. Le mie forze non sono state sufficienti nemmeno per questo...provo una grande rabbia per la mia incapacità...”

“Ti capisco, ma purtroppo non è possibile disfare il passato. Cerchiamo di costruire il nostro futuro, piuttosto. Lui non è ancora morto. Non ci è ancora stata negata la possibilità di ritornare a ridere felici, tutti e tre insieme, giusto?

Io mi asciugai le lacrime che intanto avevano iniziato a scorrere con un sorriso triste. Avevo perso ogni speranza per la sua guarigione. Dentro di me già sapevo che oramai era solo possibile ritardare l'inevitabile. Però non permisi al mio egoismo di distruggere anche l'ultima scintilla di speranza nel cuore di lei. Sarebbe stato ingiusto, e ignobile.

“Rientriamo, comincia a fare freddo...”

Camminammo con calma, facendo tutta la strada a ritroso senza una parola. Quando si avvicina la morte di una persona cara spesso si ha la sensazione di non poter intervenire, di dover preservare il fragile equilibrio che si viene spontaneamente a creare. Eppure non mi stupii quando il medico ci venne a chiamare poco dopo il pranzo. In fondo nessuno di noi ci credeva. Nessuno di noi aveva la forza di negare che ora dopo ora la sua vita ci sfuggiva dalle mani, come un origami sotto la pioggia: per qualche istante esso sembra conservare la sua grazia, anche sotto il diluvio, ma poi, senza appello, si disfa, e non rimane che il ricordo per chi invece resta.

Lei piange, si dispera. Io rimango calmo, perché glielo devo, in qualche modo. Lui vorrebbe che io fossi forte, come mi sforzavo di essere davanti a lui. Ma la testa e il cuore sembravano di ghiaccio, e pulsavano dolorosamente.

Era destino, mi dissi. Almeno non soffre, mi ripetei. Ma queste piccole consolazioni non riescirono a risarcirmi allora e non lo fanno nemmeno adesso. Che cosa crudele: lui non era ancora morto, eppure per noi già lo era. Con la consapevolezza non giunge immediatamente l'accettazione, ma il passo non è poi così lungo. Quando lei se ne andò per andare a lavoro io rimasi al suo capezzale. Un vecchio sacerdote entrò per celebrare l'ultima unzione. Io lo respinsi con dolcezza, ma fermezza. Né io né lui siamo mai stati persone religiose, e preferii evitare di cadere nella banalità accettando una facile consolazione. 'Quando stasera tornerò a casa e cenerò con lei, lui sarà già in un posto a me precluso.' Il solo pensiero mi era intollerabile. Decisi di andarmene poco prima delle sette. Mi alzai per l'ultima volta e lo guardai in viso. Gli accarezzai i capelli. Avrei desiderato che lei fosse lì con me, per sorreggermi, e per salutarlo, come sarebbe stato giusto. Fuori, la neve continuava a cadere.

 

Fuori, la neve continuava a cadere.

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Nota dell'autore:

Salve a tutti. Sono UncleObli, ragazzo liceale di diciassette anni. Questa è la prima volta che cerco di pubblicare una serie di racconti legati ad un tema comune. E' una sfida che spero possa interessarvi, ma imploro la vostra comprensione per eventuali errori negli scritti. Su di me non ho molto da dire, anche se è la prima volta che scrivo qualche parola al termine di un mio racconto, quindi glisserò con classe l'argomento. E va bene lo ammetto: cerco di raccattare umilmente visite giocando sul presunto alone di mistero che dovrebbe circondare l'autore. Scherzo. Vi rivelerò qualcosa andando avanti con i capitoli, se vi interessa. Alla prossima.

UncleObli

 

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Capitolo 2
*** Finalmente capisco, grazie. ***


Finalmente capisco, grazie.

“E così sei sveglia....”

Io guardo la mia amica con trasporto, annuendo. Lei sorride, emozionata, e lascia cadere la borsa a terra per corrermi incontro. L'abbraccio, le lacrime...tutto sembra irreale. Ci sediamo alla caffetteria dell'ospedale, dal momento che i medici mi hanno dato il permesso di uscire dalla mia stanza. Io prendo un tè verde, e lei un caffè macchiato. Mentre mescola piano il contenuto della tazza i suoi occhi marroni non cessano di squadrarmi e di esaminarmi. Riesco quasi a sentire sulla pelle lo sdegno dei suoi pensieri, mentre il suo sguardo si sofferma sui numerosi lividi del viso e sul braccio steccato, ancora ben lontano da una guarigione completa. Io non posso fare a meno di rabbuiarmi. Quel corpo così ferito e che forse non ritornerà mai come prima mi pesa moltissimo. Mai come adesso capisco quanto sia andata vicina alla morte. Era iniziata per caso, come sempre. Forse mi ero dimenticata di stendere il bucato o forse lui aveva semplicemente bevuto troppo. Ricordo il primo colpo, il secondo, ma da quel punto i miei ricordi si fanno confusi, e affondo lentamente nell'oblio. Più cerco di riafferrare i miei ricordi e più questi mi sfuggono. Ma forse è un bene. Sono stata in coma due settimane. Al mio risveglio ho scoperto che mio marito ha spacciato il pestaggio per una “caduta accidentale dalle scale”, ma dubito che gli inquirenti se la siano bevuta. In ogni caso devono ancora farmi delle domande. La mia amica interrompe il filo dei miei ricordi confusi.

“Cosa farai, ora? Intendo, non vorrai tornare ad abitare con quel bastardo spero.”

Io scuoto piano la testa. Non vorrei sentire altro, perché so quello che vorrebbe dire e che infatti non riesce a trattenere:

“Io te l'avevo detto. Sono sempre stata contraria al vostro matrimonio, ed era da qualche mese che le tue scuse per giustificare i numerosi lividi non mi convincevano più. Se non ti fossi svegliata più probabilmente l'avrei ammazzato. E bada bene: non è detto che io ci abbia del tutto rinunciato.”

Non posso fare a meno di sorridere, mio malgrado. La freschezza delle sue parole, il modo schietto e franco di dirmi quello che pensa mi rammentano giorni felici e spensierati della mia giovinezza. Non sapendo bene cosa dire guardo fuori dalla finestra. La neve cade ormai da giorni, a sprazzi. Poi, finalmente, rivelo:

“Ho deciso di divorziare. Questa volta l'ho capito molto bene, sai. Con lui non ho futuro. I medici mi hanno detto che a causa delle contusioni ho perso il bambino, ma non me ne dolgo. La sua vita sarebbe stata terribile con un padre così. Forse è stata una fortuna. Non sarei mai riuscita a crescere con amore una sua creatura, seppur innocente.”

Lei sbarra gli occhi, sconvolta. Probabilmente non credeva che i medici me l'avessero detto. O forse le mie parole le sembrano orribili, indegne della ragazza spensierata e innamorate che ero. Ma ho deciso di vivere solo per me stessa, almeno per un po'. Nessuno dovrebbe sopportare quello che ho sopportato io, in silenzio, per anni. La mia amica mi fissa di nuovo con trasporto, come se mi vedesse davvero soltanto ora.

“Sei cambiata. Davvero. Una volta non avresti mai parlato in questo modo. Però ti capisco, per quanto possibile. Era ovvio: non sei stata ferita solo nel corpo, ma anche nello spirito. Ti ci vorrà tempo per ritornare quella di prima, se mai ci riuscirai. Però non parlare in questo modo di chi non ha colpe, è da stupidi, e tu non lo sei.”

Io inizio a ridere sommessa.

“Non è vero, e lo sai bene. Sono stata una stupida per anni. Cieca e innamorata, un'orribile combinazione. E questo mi ha rovinato. Non ho più paura di parlare come desidero, sono stata zitta fin troppo a lungo. Ora è tempo di vivere la mia vita, e ho intenzione di tagliare i ponti con il passato. Credo che venderò la casa. Fortunatamente me l'aveva regalata mia madre, e non era inserita nel contratto prematrimoniale. Dovrei riuscire a ricominciare lontano da qui senza particolari difficoltà. Anche al lavoro non è che tenga particolarmente.”

“Sai bene che se vuoi puoi restare a casa mia, per tutto il tempo che ti serve. Potremmo fare come ai tempi dell'università, in cui dividevamo le spese dell'appartamentino in affitto vicino al teatro, te lo ricordi?”

Io sorrido ancora, ma non accetto né rifiuto. Non sono ancora pronta per una decisione definitiva. Una parte di me vorrebbe andarsene e non tornare più, ma un'altra è restia ad abbandonare quanto di buono c'era nella mia vecchia vita. E lei era una di quelle poche cose buone, che non si dimenticano facilmente, semplicemente volendolo. Non sarebbe nemmeno giusto nei suoi confronti, peraltro.

“Più ti guardo e più non riesco a capire. Mi immaginavo di trovarti a pezzi, in uno stato pietoso. E davanti a me sei sempre più simile alla te stessa dei tempi migliori. Una donna forte, e indipendente. Provavo una grande rabbia, sai? Ti vedevo cambiare, giorno dopo giorno, e non sapevo come aiutarti. Ma sono più tranquilla, ora.”

Mentre parla, noto che un ragazzo e una ragazza ci passano di fianco, dirigendosi verso il giardino poco fuori dall'ospedale. Mi alzo subito, e vado a pagare al bancone. Prima che lei possa protestare pago anche per lei. Le dico che è il minimo, dopo che mi è venuta a trovare da così lontano. Poi le faccio cenno di seguirmi. La condussi attraverso tutto l'ospedale, senza spiegarle dove la stavo conducendo. Esitando, busso alla porta socchiusa della camera di fronte alla mia. Non ricevendo risposta entrò, in silenzio. Sul letto, un ragazzo addormentato profondamente. Lei mi guarda interrogativa, ma evita di parlare, forse temendo di svegliarlo. Io faccio spallucce e commento, laconica:

“Non si sveglierà. Vieni, andiamo fuori.”

Ci sediamo sulle poltroncine vicine alla sala visite del reparto e inizio a spiegarle a bassa voce:

“Ecco perché ho deciso di cambiare. Quel ragazzo è in coma, come ero io. Sai, quando mi sono svegliata, pochi giorni fa, ho ricevuto più o meno le visite di tutti i famigliari dei degenti. In questo reparto è cosa molto rara che un paziente si svegli dal coma, e fra amici e famigliari dei pazienti si sviluppa una strana solidarietà. Hanno tutti insistito per conoscere la mia storia, per farmi gli auguri...cose del genere. Insomma, ho ricevuto la visita di tutti i famigliari dei pazienti, tranne uno. Quel ragazzo che hai visto è vegliato giorno e notte da un suo coetaneo, che non lo abbandona mai, neppure la notte. Piuttosto spesso sta insieme ad una ragazza molto carina, ma in genere è da solo. Sono quelli che ci sono passati di fianco prima, fra l'altro. Comunque, incuriosita, non appena ho potuto muovermi sono andata a conoscerlo. Devo dire che non è un tipo molto loquace, per usare un eufemismo. Però sono riuscita a capire qualcosa, e ho intuito molto anche dai suoi lunghi silenzi. Per farla breve le speranze che si svegli sono poche, e ho visto il dolore negli occhi del suo amico...penso che tu lo abbia capito, no? I nostri ruoli potevano essere scambiati. Io ho avuto la possibilità di svegliarmi e tornare a vivere, lui ancora no, e forse non l'avrà mai. Non voglio più avere rimpianti o sogni irrealizzabili. Voglio costruire la mia vita, anche in memoria di chi non è stato altrettanto fortunato. Per questo, quando verrò dimessa, gli porterò qualche fiore, e forse tornerò a trovarlo. Non lo so, non ci conosciamo nemmeno, eppure sento uno strano senso di protezione nei suoi confronti, lo trovi strano?”

Lei sta sorridendo, fra le lacrime. Credo di averla scossa, almeno un pochino. Poi se le asciuga, e si soffia il naso con un piccolo fazzoletto di stoffa.
“No, non credo sia strano. Sono solo fiera di te, e di quello che stai costruendo. Almeno per qualcuno quest'inverno porterà dell'altro, oltre al freddo e alla neve. Credo sia una bella cosa.”

“Lo è davvero.”

Restiamo in silenzio a fissare la porta chiusa della camera del ragazzo. Non vi è altro da dire, ma finalmente ci siamo riconciliate. Piano piano, con timidezza, giunge una pace nuova nel mio cuore: un'amica a lungo perduta e ora ritrovata.

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Nota dell'autore:

Vi ringrazio se siete giunti sin qui nella lettura. Per me è la prima volta che cerco di scrivere rispettando delle scadenze autoimposte. Spero possiate apprezzare lo sforzo. In ogni caso in origine non avrei voluto riprendere i tre personaggi del racconto precedente, ma inconsciamente credo di aver creato dei personaggi troppo vicini per lasciarli andare così. In futuro mi piacerebbe molto svilupparli ancora di più, ma per il momento posso assicurare che con l'ospedale dei primi due racconti abbiamo chiuso. Il prossimo racconto dovrebbe essere totalmente slegato dagli altri. Se non vi disturba vi chiederei di recensire, per farmi capire cosa ne pensate della storia. Grazie di cuore se avete avuto la pazienza di leggere anche questa noiosa nota dell'autore. Alla prossima.

UncleObli.

 

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Capitolo 3
*** Questo è il mio requeim per te... ***


Questo è il mio requiem per te...

“Ehi, ma sei sicura che posso entrare? Voglio dire, non è che questi se ne accorgono subito, vero? Cioè, che non sono stato invitato, dico.”

La mia amica scosse la testa con insistenza, forse scocciata da tutte quelle proteste. Con malcelata irritazione si voltò di scatto, colpendomi in faccia col suo orribile foulard di Chanel, ed entrò nel teatro. Io mi fermai, indeciso. In quel momento desideravo solo non aver accettato di accompagnarla a quell'esclusivo concerto di musica classica, in cui, fra l'altro, si sarebbe esibita anche una famosa pianista di fama nazionale con un paio di notturni di Chopin. Francamente, della musica classica non avevo mai capito nulla, e nemmeno mi era mai interessata particolarmente. La reputavo noiosa e inconcludente, perfetta per tronfi damerini dell'alta società, ma non certo per uno come me. Però, a dire il vero, faceva piuttosto freddo lì fuori e ormai avevo dato la mia parola che l'avrei accompagnata. Sfortunatamente per me, suo fratello, che avrebbe dovuto accompagnarla al concerto, si era ammalato proprio quella mattina, e così ero stato incastrato io. Quindi, sospirando, entrai anch'io. Non feci fatica a trovarla, seduta nei posti che ci erano stati prenotati, ma mi sentii un pesce fuor d'acqua. Intorno a me c'erano solo signori di mezza età e anziani, i ragazzi erano pochissimi. Lei si aggiustò lo scialle che aveva sulle spalle, poi mi sorrise, sorniona.

“Fa freddo fuori, eh? E comunque non è una tragedia, la musica classica. Goditi la serata, non ti ho invitato per torturarti!”

“Si si, certo...”

In pochi minuti la sala si riempì di persone. Nonostante l'importanza dell'evento era stato scelto un piccolo teatro, per cui non si aveva quella sensazione di soffocamento tipica dei grandi eventi, ma cionondimeno avevo molto caldo, e mi sentivo scottare. Mi asciugai il sudore con un fazzoletto di stoffa e nel contempo mi maledii per essermi cacciato in quella situazione assurda. Lei, notando il mio nervosismo, ridacchiò piano. In quel momento sentivo di odiarla. Proprio mentre giungevo alla conclusione che per il mio bene era meglio uscire subito, le luci si spensero. Un signore grassottello sulla quarantina salì sul palco per annunciare i nomi dei compositori e dell'orchestra al completo. Poi si fece da parte, e il concerto iniziò. In completa onestà non ricordo granché della prima metà del concerto, ma d'altro canto non mi pare fosse stato terribile come temevo. Semplicemente lo trovai insipido. E' difficile da spiegare, ma credo che quei musicisti non suonassero con trasporto o non capissero la melodia. Qualcosa del genere. Ma più probabilmente sono semplicemente rimasto scioccato dall'esecuzione successiva a tal punto che il resto mi pare indegno della mia attenzione. Verso le dieci di sera, esattamente un'ora e quarantacinque minuti dopo l'inizio del concerto, l'uomo grassottello venne rimpiazzato da un tipo piuttosto magro, e il contrasto era così netto e marcato che mi sfuggì una risatina, subito seguita dagli sguardi di fuoco dei miei vicini di posto. Questi proclamò, con dovizia di elogi, quanto l'associazione fosse fiera di ospitare nel loro teatro una pianista di fama nazionale, quale era la successiva musicista, e altre stupidaggini di circostanza. E davvero rimasi incantato da lei, come tutti del resto. Non era solo incredibilmente bella, emanava un'aura di serenità inspiegabile e, quando iniziò a suonare, mi sembrò di sognare. Ad ogni nota ne seguiva un'altra in maniera così perfetta e sublime che anche il solo pensare ad esse come entità disgiunte perdette improvvisamente di significato. Accanto a me gli altri spettatori sembravano condividere la mia meraviglia, e nessuno osava parlare o rovinare la bellezza di quel momento. Ci si sforzava perfino di respirare in silenzio, pur di non turbare la quiete generale. Suonò quattro brani, in successione, senza un attimo di pausa. I primi tre, seppur fossero suonati in un'esecuzione a dir poco sublime anche davanti agli occhi di un profano, non avevano un decimo della carica emotiva dell'ultimo. Non ho mai trovato parole per descriverlo appieno, e tutti i miei tentativi di riprodurre su carta le mie sensazioni di quella sera non hanno prodotto risultati apprezzabili. Quello che posso dire è che al termine dell'esecuzione avevo le lacrime agli occhi. In ogni caso non ero l'unico. Tutti nella sala hanno potuto percepire quanto sentimento avesse messo in quel brano così particolare e nessuno era riuscito a rimanere indifferente alla melodia. Finito il concerto applaudimmo calorosamente, suggellando il successo della serata. La pianista chiese il microfono per dire qualche parola, prima del congedo.

“Buonasera. Forse alcuni di voi avranno notato che è stato eseguito un brano in più, questa sera.”

Io trasalii, e lessi con più attenzione il programma della serata. Effettivamente lei avrebbe dovuto suonare solo tre brani, notai.

“Volevo dirvi che ho composto la mia ultima esecuzione meno di una settimana fa, e voi siete i primi a sentirla. Spero vi sia piaciuta, perché l'ho composta in memoria di un mio caro amico, scomparso di recente. Questo era il mio requiem per lui. Grazie.”

Applaudimmo tutti, sconcertati, e persino il direttore d'orchestra parve irritato. Probabilmente, ragionai, lei non aveva comunicato a nessuno la sua intenzione di suonare quel brano. La mia amica mi toccò appena la spalla, dicendomi:

“Allora? Ti sei addormentato? Forza, dobbiamo andare! Potremmo andare a bere da qualche parte, in fondo non è poi così tardi...”

Uscimmo, e andammo in un bar interrato del centro. Io ordinai un Tom Collins, lei un Martini. Eravamo tutti e due pensierosi, e poco inclini alla conversazione. Dopo qualche minuto di silenzio, lei commentò:

“Sai, non avevo mai sentito un brano simile. Mi ha colpita. Mi piacerebbe riascoltarlo, un giorno.”

Io non dissi nulla, ma in segreto compresi che quel giorno avevo potuto sentire qualcosa di speciale. Non un bel brano suonato da una famosa pianista ma qualcosa di più intimo e fragile. Sapere che lei l'aveva composto per onorare la memoria di un suo amico in un certo senso mi rendeva partecipe del suo cordoglio. Certo, era solo una sensazione, naturalmente. Eppure faticava a svanire, ritornava a tratti come un ticchettio fastidioso. La musica ha questo potere, a volte. D'un tratto pensai che siamo tutti collegati, e che ognuno di noi è al centro di un meraviglioso arazzo intessuto dei nostri ricordi e delle nostre emozioni. Ogni esperienza e persona conosciuta o amata è un filo che noi possiamo custodire gelosamente o condividere con gli altri. Ed è una nostra scelta, credo.

“Sai, io credo che non fosse in grado di custodire da sola il ricordo del suo amico, tutto qui. Forse attraverso la musica è riuscita a trasmettere a tutti le sue emozioni, non credi?”

La mia amica si mise a ridere.

“Sembri un poeta!”

Io, imbarazzato, finii il mio drink in silenzio.

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Nota dell'autore:

Ancora grazie se avete letto anche questo capitolo. Come avevo anticipato, questo è un capitolo totalmente auto conclusivo e slegato dagli altri due. Mi stuzzicava l'idea di unire ogni racconto nello stesso modo in cui ho legato i primi due, ma avevo l'urgenza di cambiare temi e personaggi. Il prossimo racconto sarà incentrato sulla storia della pianista di questo capitolo, credo. Alla prossima.

UncleObli

 

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Capitolo 4
*** Soffia un vento gentile. ***


Soffia un vento gentile

“Onestamente devo dire che credo sia uno dei tuoi lavori migliori, Mara.”

Io sbatto le palpebre più e più volte per accertarmi di aver capito bene le parole del mio manager. Certo, non mi aspettavo che il mio ultimo pezzo fosse un fiasco totale, ma da qui a definirlo addirittura il mio lavoro migliore...

“Davvero? Mi sorprendi, e non poco. Credevo fosse, come dire, troppo lugubre per i tuoi gusti. Però sono felice che ti piaccia. Ho davvero messo tutta me stessa in quel pezzo.”

Il mio manager, Simone, alza un sopracciglio, scettico.

“Mi pare ovvio che sia lugubre. Santo cielo, è un requiem, è ovvio che sia lugubre, ma questo non toglie davvero nulla alla genialità del pezzo. Sul serio.” mi dice, puntandomi contro la forchetta.

Passata la sorpresa, ricomincio a mangiare con gusto. Nel ristorante dove abbiamo deciso di fermarci siamo rimasti solo noi, e questo mi rilassa. Avere troppa gente intorno mentre mangio non mi è mai piaciuto.

“Secondo te che dovrei farci?”

Simone sorride.

“Mi pare ovvio. Credo che questo possa essere il momento giusto per un salto di qualità. Sin dal tuo debutto sei sempre stata conosciuta nell'ambiente come una pianista dotata, particolarmente dotata, in effetti, ma mai più di questo. Le tue uniche composizioni personali, permettimi di parlare francamente, non mi hanno mai entusiasmato, e se è per questo nemmeno la critica. Almeno finora. Chiederò al direttore dell'orchestra di aggiungere il Requiem al programma di sabato.”

Strabuzzo gli occhi, sconvolta.

“Ma sei pazzo? Ci saranno centinaia di persone sabato, e molti pezzi grossi della critica. Un'altra stroncatura sarebbe davvero la fine della mia carriera! E poi mancano solo cinque giorni al concerto, non possono certo cambiare il programma con così poco preavviso.”

Lui alza le spalle e beve un sorso del vino bianco da lui ordinato insieme al pesce. Poi si pulisce lentamente le labbra con il tovagliolo. Io intanto finisco l'arrosto. Conosco Simone ormai da tre anni e so che quando evita di rispondermi è perché sta cercando le parole adatte. Per questo non gli metto fretta, anche se sarei curiosa di sapere cosa ha in mente. Per me quell'uomo è sempre stato un mistero. Personalmente lo giudico troppo cinico, troppo sornione e decisamente troppo teatrale nei gesti. Però finora è sempre stato dalla mia parte. Mi ha aiutato a debuttare quando chiunque altro mi avrebbe data per spacciata, senza riconoscere il talento che ero certa di avere. Anche se non lo capisco appieno e a volte le sue manovre mi sembrano incomprensibili, so che vuole solo il mio bene. Finalmente, dopo aver finito almeno metà del calice a piccoli sorsi, mi risponde.

“No, non sono pazzo. So meglio di chiunque altro che un altro errore ti sarebbe fatale. Però penso che questa sia l'occasione giusta: fintantoché la critica ancora non ti ha inquadrata puoi aspirare a fare carriera come compositrice, ma se si abituano a vederti come pianista non riuscirai mai a sfondare. E poi ho fiducia in te. Questo pezzo è il migliore della tua carriera, te l'ho detto. Inoltre il direttore dell'orchestra, qui in città, è un amico. Sono sicuro che non mi negherebbe questo favore. Almeno pensaci, no? Non sei obbligata. In fin dei conti la vita va avanti anche se resti una semplice pianista. D'accordo? Rilassati. Sei molto stressata di recente. Certo, con quello che è successo direi che è il minimo.”

Io annuisco, in silenzio. Terminiamo di mangiare, poi, con discrezione, chiediamo il conto. Ci salutiamo sul marciapiede, con un sorriso forzato sulle labbra. Prima di separarci, Simone mi afferra con rudezza la spalla e mi dice, quasi in imbarazzo:

“Senti...non mi sono mai fatto gli affari tuoi e non ne ho intenzione nemmeno ora, ma credo che un cambiamento ti farebbe bene, e questa possibilità, se ben sfruttata, potrebbe cambiarti la vita. Non rifiutarla solo perché non ti senti ancora pronta. Ti richiamerò stasera, d'accordo?”

Senza rispondere me ne vado, vagamente irritata. Sono indecisa. Da un lato non me la sento di esibirmi con un pezzo così personale in un'occasione mondana. Ho scritto quel pezzo in memoria di un caro amico, scomparso di recente. Dall'altro, però, affidare tutte le mie possibilità al pezzo scritto in onore del mio amico è una prospettiva infinitamente dolce. A frenarmi è più che altro la sensazione di imperfezione che mi trasmette il brano. Avrei voluto perfezionarlo, renderlo degno del ricordo che ho di lui prima di presentarlo. Sospiro, e svolto a destra per prendere la via che mi avrebbe portata in centro. Sovrappensiero, mi scontro con una donna sconosciuta, che cade a terra con un gemito di dolore e di sorpresa insieme. Mortificata, cerco di aiutarla, ma mi blocco, stupita. La ragazza a terra sembra appena uscita da un ospedale, ha un braccio ingessato ed evidentemente utilizza una stampella per camminare, adesso a terra.

“Ma cos'è, cieca? Mi dia una mano, dannazione!” sbotta la ragazza, irritata. Io mi affretto ad aiutarla, sempre più in colpa. La sollevo in piedi e le raccolgo la stampella, che le porgo con mano tremante. Lei praticamente me la strappa di mano.

“Grazie, eh. Buona giornata.”

E se ne va per la sua strada, con passo zoppicante. Io la inseguo, e le chiedo, per riparare:

“La prego di scusarmi. Posso fare qualcosa per aiutarla? Sa, vedo che non è molto in forma e quindi pensavo...”

La ragazza mi fulmina con lo sguardo.

“La ringrazio, ma no. Devo andare in un posto, e ho una certa fretta.”

“Se non si offende potrei offrirle un taxi come risarcimento, mi sembra il minimo. La prego non faccia complimenti.”

“Innanzitutto la smetta di darmi del Lei, non sono mica così vecchia. Avremo più o meno la stessa età, no? E per quanto riguarda la sua offerta...non posso dire che non mi farebbe comodo. Ma preferisco andare a piedi, grazie.”

Poi, per la prima volta, mi guarda bene in faccia, e aggrotta le sopracciglia. Sembra riconoscermi. Ed in effetti non mi stupisco. Fra gli appassionati di musica classica il mio nome è piuttosto famoso. Infatti la ragazza mi chiede, piuttosto sorpresa:

“Mi scusi, ma lei è per caso Mara, la pianista? Se non sbaglio è qui in città per il concerto di sabato, vero?”

Io annuisco.

“Si, sono io. Molto piacere. Lei sa, voglio dire, tu sai il mio nome ma io non credo di conoscerti. Come ti chiami?”

“Diana, piacere. Se potessi mollare la stampella e contemporaneamente stringerti la mano lo farei volentieri. Purtroppo mi è un po' difficile. Beh, piacere di averti conosciuto allora. Verrò al tuo concerto, sabato.”

Così dicendo si volta, e fa per andarsene. Io, esattamente come poco prima Simone ha fatto con me, le afferro la spalla, ma con delicatezza, per non farle male. Mi sento una stupida, ma in ogni caso le domando:

“Mi fa piacere. Senti, io non ho nulla da fare, potrei almeno accompagnarti in taxi fin dove devi andare, così, tanto per passare il tempo. Ti secca?”

Diana mi guarda attentamente, come sospettosa. Certo, una richiesta del genere è piuttosto inconsueta, ma la verità è che mi sento in colpa. A prima vista mi è sembrata una ragazza un po' sgarbata e sulle sue, ma osservandola attentamente si capisce che è più fragile di quello che vuole far credere. E poi è vero che non ho assolutamente nulla da fare. Diciamo pure che sono curiosa, forse quest'espressione riassume meglio il mio stato d'animo attuale. Cado dalle nuvole quando lei sospira vistosamente, come infastidita, e alzando le spalle mi fa segno di seguirla. Per il primo tratto di strada nemmeno ci parliamo. Semplicemente la seguo. Lei cammina adagio, cauta in ogni movimento. La stampella produce dei suoni ritmici e fastidiosi quando colpisce il terreno. Non sembra intenzionata a chiamare un taxi, come le avevo proposto. Credo per orgoglio, ma non ne sono certa: per me Diana è un mistero. Dopo una ventina di minuti arriviamo in un piccolo cimitero appena fuori dalla città, in un posto un po' fuori mano. Mi sento improvvisamente di troppo, anche se, naturalmente, è tardi per levare le tende.

“Ehi, Diana, sei sicura che posso seguirti, se devi andare a pregare per un tuo parente?”

“Guarda che questo è un tuo problema, non mio. E poi non è per niente un parente, quindi non c'è problema. Solo aspetta un attimo qui, vado a prendere un fiore dalla signora lì in fondo.”

Io resto in silenzio, ma mi domando perché mi abbia permesso di seguirla fin lì se poi preferisce andare a comprare i fiori da sola. Forse per lei acquistare un fiore per il defunto ha un significato speciale, come un rituale. La attendo, poi mi ricordo che, essendo ingessata, non potrebbe mai portare la pianta scelta con sé, quindi, dandomi nel contempo dell'imbecille, la rincorro, rituale o non rituale. Arrivo giusto in tempo. Diana mi guarda imbarazzata quando le raccolgo le camelie da terra, ma non commenta. E' evidente che nemmeno lei aveva colto il problema. “Grazie” mi dice. Io le sorrido dolcemente. La situazione sembra essersi ammorbidita e adesso camminiamo con molta più naturalezza. La tomba che voleva visitare non era per niente lontana, per fortuna. Diana sembra veramente stremata e dolorante. Appoggio i fiori a terra, accanto alla foto del defunto, un bel ragazzo biondo di forse sedici, diciassette anni. La lascio pregare in pace, senza disturbarla.

“Non serve che fai quella faccia di circostanza. Nemmeno lo conoscevo.”

“Cosa?”

“Niente.”

Sorpresa, non posso fare a meno di insistere, anche se mi rendo conto di essere forse invadente. Però una ragazza ferita che va a visitare la tomba di un ragazzo più giovane che nemmeno conosce deve essere una storia che vale la pena di essere raccontata.

“Beh, devi ammettere che è abbastanza singolare, no? Se non vuoi parlarne non c'è problema, in fondo nemmeno ti conosco...”

“No, non è questo, tranquilla. E' che è...curioso. Mi pare molto naturale averti qui con me adesso, anche se non dovrebbe essere così. Se mi vedi ridotta così è perché sono stata pestata a sangue da mio marito. Sono finita in coma e lui era nello stesso reparto, ma non credo sia giusto parlarti del perché. Non ne ho il diritto. In ogni caso poco dopo essere stata dimessa ho sentito che è morto. E così eccomi qua. Davvero, nient'altro.”

Il racconto nel suo complesso fila, ma non credo sia tutto qui. Non so spiegarlo bene, ma credo sia la verità e allo stesso tempo una sottile menzogna. Certe volte chi mente è in grado di dire la verità celando accuratamente gli elementi della storia che non è opportuno sottolineare, come un trucco di prestigio: l'attenzione di chi guarda è catturata dal trucco messo in scena, e pochi si accorgono dell'inganno in atto. In ogni caso non commento.

“Sai, non so se ti può interessare, ma di recente anch'io ho perso un amico molto caro. In questo ti capisco piuttosto bene. Vuoi che ti lasci qui, da sola?”

Lei annuisce.

“Mara, ti andrebbe se ci rivedessimo? Mi sembri una brava persona, e vorrei conoscerti meglio. Potremmo bere qualcosa per ricordare il tuo amico, che ne dici? Cioè, se ti va...”

“Certo, che ne dici di fare sabato, dopo il concerto, nel locale vicino al teatro?”

“Va benissimo. Grazie, di tutto.”

Io non dico niente, ed esco dal cimitero con calma. Il vento mi scompiglia i capelli, e porta un piccolo foulard grigio ai miei piedi, forse dimenticato o perduto da qualcuno chissà quando. Lo raccolgo, e lo pulisco con calma dalle foglie secche e i fili d'erba rimasti impigliati. Chiudo gli occhi e rimango lì, immobile, assaporando quel piccolo momento di pace mentre intorno a me il vento sembra giocare e accarezzarmi con le sue mani impalpabili.

---

Nota dell'autore:

Salve a tutti! Mi scuso tantissimo per aver saltato così tanti appuntamenti. Probabilmente la stragrande maggioranza di voi nemmeno si ricorda dove eravamo rimasti, ma forse è meglio così. Tendo a dimenticare che questi racconti dovrebbero essere autoconclusivi. Come promesso la storia è incentrata sulla pianista dello scorso capitolo, e temporalmente siamo qualche giorno prima del concerto del precedente capitolo. Però questo racconto fornisce anche un collegamento con i primi capitoli, quelli incentrati sull'ospedale. Mi piace l'idea che siano tutto connessi. Il fatto che io pubblichi questo capitolo prima del prossimo appuntamento è il mio modo di chiedervi scusa per l'attesa. Un grazie speciale a chi ha recensito, ossia Joelle e Will_Power. Le vostre parole mi hanno fatto veramente piacere. Alla prossima!

 

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Capitolo 5
*** Ricordi di una domenica qualunque. ***


Ricordi di una domenica qualunque.

Dear heart, wish you were

here to warm this night...

 

Come ogni mattina vengo immancabilmente svegliato dal cinguettare degli uccelli. Vivendo vicino ad un parco probabilmente è inevitabile, ma fanno davvero un rumore assordante. Certo, come sveglia non è male, e sicuramente la maggior parte della gente è abituata a svegliarsi in modo molto più brusco, ma comunque non riesco mai a trattenere un sospiro irritato. Mi stiracchio, ancora avvolto dal piacevole tepore delle coltri e riluttante ad abbandonarle. Sento una voce che mi chiama dal piano di sotto, ma decido di ignorarla, almeno per il momento. La sveglia sul comodino segna le otto e mezza di una domenica qualunque. Resto incantato a guardare le cifre digitali dei secondi scandire con precisione il lento scorrere del tempo. Lui irrompe rumorosamente in camera da letto, una smorfia di disappunto sul volto. Sembra arrabbiato, ma so bene che sta fingendo.

 

“Allora? Non mi hai sentito, prima? Sarà almeno la terza volta che ti chiamo! Dai, alzati. Non ho mica preparato la colazione per poi vederti ancora a letto quando finalmente è pronta.”

 

Io borbotto qualcosa di incomprensibile a mezza voce. Poi biascico un “ancora cinque minuti” e mi ributto sotto le coperte, stavolta tirando il lenzuolo a coprirmi anche il capo. Lui sospira, rassegnato. Lo sento scendere le scale lentamente, pestando i piedi, probabilmente per convincermi ad alzarmi. Dopo qualche minuto mi decido finalmente ad alzarmi, mi vesto e vado in bagno a lavarmi la faccia. Poi scendo anch'io le scale e lo raggiungo in sala da pranzo. Sbigottito, vedo che ha preparato per davvero una colazione con i fiocchi. Croissant, cappuccino, pane tostato e marmellata. Lui mi guarda con espressione di superiorità, sicuro di avermi strabiliato. Con voce canzonatoria mi dice:

 

“Sorpreso? Il pane tostato si è freddato. Colpa tua che sei voluto restare a letto. E non pensare che te ne prepari uno di caldo, razza di ingrato che non sei altro.”

 

“Sicuro di stare bene?” ribatto, “Non ti avevo mai visto addirittura alzarti prima per preparare una colazione degna di questo nome...programmi per la giornata?”

 

Mi siedo al tavolo, e inizio a spalmare la marmellata sul pane tostato. Lui per il momento non dice nulla, ma un lieve sorriso gli aleggia sulle labbra. Non insisto, ma capisco che ha qualcosa in mente, e inizio ad incuriosirmi. Dopo aver divorato due fette di pane tostato passo al cappuccino, nel quale intingo anche il croissant. Finito tutto, mi rilasso, soddisfatto. Lui si alza, e con passo felpato esce dalla sala da pranzo, senza dire nulla. Io accendo la televisione, anche se privo di particolare interesse. Di recente le notizie del mondo mi sembrano prive di importanza. Non che voglia vivere separato dalla società, semplicemente mi sento in una fase positiva, in cui mi basta ciò che ho per essere felice. Ogni intromissione esterna è priva di significato, quindi scelgo di ignorarla. Dopo qualche minuto spengo anche la televisione, e mi limito a godermi la mattinata. Dalla finestra vicino al lavabo, lasciata aperta, entra una corrente d'aria fresca che muove giocosa le tende color crema della sala da pranzo. L'estate sta per cedere il passo all'autunno, ma fortunatamente oggi è una giornata ancora piuttosto mite, forse l'ultimo sussurro di un estate ormai al capolinea. Lo raggiungo in salotto. Mi stava aspettando, naturalmente. Nelle mani tiene un piccolo pacchetto goffamente incartato. Mi sorride imbarazzato, come esitante. Non posso fare a meno di ridacchiare: quell'espressione buffa gli dona molto. Consegnandomi il pacchetto mi dice, visibilmente sulle spine:

 

“Ecco, ti ho fatto un regalo, spero ti piaccia. Buon compleanno.”

 

Accetto il pacchetto, contento. Temevo se ne fosse dimenticato, ma avevo capito che mi sbagliavo già da prima, quando avevo visto che si era addirittura dato la pena di preparare la colazione, cosa che, pigro com'è, non fa mai. Lo scarto velocemente. E' un cd di Henry Mancini, quello con la mia canzone preferita, Dear Heart.

 

“Grazie...”

 

“Di nulla. Quella canzone ti piace un sacco, no? La ascolti sempre sull' Ipod. A me fa proprio schifo però. Troppo mielosa. Comunque ho pensato che ti avrebbe fatto piacere avere il cd. Non sai che faticaccia ho fatto per trovarlo, l'ho cercato praticamente ovunque! Alla fine l'ho preso in quel negozio di dischi usati in centro, perché era l'unico che poteva procurarmelo in tempo utile...”

 

Io rido.

 

“Avresti anche potuto ordinarlo su Internet, eh. Non mi sembra difficile.”

 

“Sai che sono negato per quella roba, non prendermi in giro!”

 

Mi piace da morire quando fa quell'espressione imbronciata, come un bambino. Lo ringrazio del regalo scompigliandogli la zazzera bionda. Lui sorride, ancora con quell'espressione che tanto amo. Poi lo abbraccio con affetto. Sa come rendermi felice, come sempre. Non credo che per testimoniare affetto o amore servano grandi cose, regali costosi o gesti plateali. Francamente, detesto le persone che ostentano il proprio interesse. Mi ha sempre dato la sensazione di essere una truffa, innocua, beninteso, ma truffa cionondimeno. Per questo motivo apprezzo ancora di più i suoi piccoli gesti e i suoi regali imbarazzati. Perché sono veri, sinceri.

 

“Allora? Che facciamo oggi?”

 

“Ehi, è il tuo compleanno, mica il mio. Una volta tanto potresti anche scegliere tu, sai.”

 

“Guarda che scelgo sempre io. Comunque potremmo andare a guardare un film, o magari fare un giro al mare. Anche in questa stagione non è niente male.”

 

Lui sembra entusiasta alla prospettiva di andare al mare. Si illumina subito e annuisce vivacemente. Prepariamo in fretta un minimo di cibarie per il pranzo, dei panini e un insalata di riso, e poi partiamo. Come al solito guido io. Guidare mi piace. Lui invece lo detesta, o almeno così dice. Secondo me invece è solo che adora farsi scarrozzare. In ogni caso non mi secca affatto, è un accordo che funziona. Accendo la radio quando devo immettermi in autostrada, diretto verso ovest. Il viaggio non è lungo, ma nemmeno si può dire che il mare sia a due passi da casa nostra. Sulla stazione dove di solito resto sintonizzato danno un vecchio pezzo di David Bowie, Letter to Hermione. Canticchio il motivo a bassa voce, come mormorando. Improvvisamente lui cambia stazione.

 

“Che guastafeste. Una volta tanto che danno un brano che mi piace...”

 

“Guarda che è una lagna. E' il tuo compleanno, cerchiamo di essere un tantinello più allegri, ti va? Pensi che si possa ancora fare il bagno?”

 

Io lo guardo allibito.

 

“Ma sei matto? Siamo in settembre inoltrato, è ovvio che non si può più fare il bagno in questa stagione. E poi, con il vento che c'è, penso che il mare sia parecchio mosso. Ma scusa, tu ti sei portato il costume da bagno?”

 

“Beh no. Ma non ho ancora rinunciato all'ultimo sprazzo d'estate, sai. E comunque se l'acqua non è troppo fredda io lo faccio lo stesso.”

 

Scuoto la testa, incredulo. Quando ci si mette sa proprio essere cocciuto. Il viaggio prosegue tranquillo, e parliamo del più e del meno: di dove andremo in vacanza quest'anno, dell'ultimo film di Sorrentino, This must be the place, che abbiamo guardato ieri in DVD e che ci ha un po' delusi...cose così, senza importanza. Dopo circa mezz'ora di viaggio esco dall'autostrada e mi immetto in una strada provinciale piuttosto malridotta. Abbasso il finestrino sinistro e respiro a pieni polmoni l'aria fresca che già odora di salsedine. E' un odore agrodolce, che mi ricorda l'infanzia, quando ogni estate io e lui andavamo al mare insieme con i miei genitori o i suoi. Effettivamente non è cambiato molto da allora. Dopo un'altra decina di minuti finalmente arriviamo a destinazione, un piccolo paese sulla costa. In alta stagione è sempre pieno di vita, e le sue piccole stradine sono piene zeppe di turisti, tanto che a volte è persino difficile camminare senza urtare qualcuno. Oggi invece tutto sembra spento e grigio, i negozi per turisti hanno già chiuso i battenti e la maggior parte dei residenti estivi è tornata in città dove trascorrerà l'inverno. Ci dirigiamo vero la spiaggia scherzando allegramente. Anche lì non c'è anima viva. Mettiamo gli asciugamani sulla sabbia e ci sdraiamo al sole.

 

“Qui si sta proprio bene”, commenta lui soddisfatto. “Mi sa che adesso mi metto a dormire.”

 

“E tu passeresti il mio compleanno a dormire? Che ne so, potremmo giocare a carte, passeggiare in riva al mare o magari fare il bagno, visto che il mare mi sembra più calmo e caldo del previsto.”

 

Lui sorride, contento. Velocemente si alza in piedi, si spoglia e ridendo mi dice:

 

“Te l'avevo detto che poi ti veniva voglia di fare il bagno. Che diamine di gita al mare sarebbe, senza? Dai forza, ho proprio voglia di fare una nuotata!”

 

Senza aspettarmi corre verso il mare e si tuffa in acqua. Rabbrividisco. Mi spoglio anch'io e mi assicuro di piegare sia i miei vestiti che i suoi in modo che il vento non li porti via. Visto che non abbiamo né costume né biancheria di ricambio sarebbe piuttosto imbarazzante dover andare nudi in paese per comprare dei nuovi vestiti. Per una sorta di pudore controllo che non ci sia nessuno nei paraggi, prima di andare verso la riva. Tasto con il piede la temperatura dell'acqua. E' abbastanza fredda, ma niente di insopportabile. Entro cautamente in acqua, un poco alla volta, fino ad immergermi completamente. Ho la pelle d'oca, ma so che una volta iniziato a nuotare mi abituerò presto. Lo cerco con gli occhi, e lo vedo nuotare con vigore un po' più avanti. Con calma lo raggiungo. L'acqua mi arriva allo sterno

 

“Freddo? Io invece sto benissimo” dice, battendo io denti.

 

“Ma se stai tremando come una foglia! Bella giornata o no l'acqua non è più così calda come qualche settimana fa, c'è poco da fare. Beh, almeno ci siamo tolti la voglia. Dai, facciamo una nuotata al largo.”

 

Lui annuisce e insieme nuotiamo a stile qualche decina di metri dalla costa. Lui è sempre stato bravo a nuotare, mentre io sono abbastanza negato. Se alle medie non mi avesse insegnato lui a galleggiare probabilmente avrei ancora adesso il terrore dell'acqua. Di comune accordo ritorniamo presto a riva, e cerchiamo di asciugarci sugli asciugamani. Mi rimetto in fretta e furia almeno la biancheria intima. Stiamo insieme ormai da qualche anno, ma nonostante tutto provo ancora una certa vergogna a restare nudo di fronte a lui. Notando il mio imbarazzo, e senza la minima intenzione di coprirsi a sua volta, ridacchia piano.

“Guarda che non c'è nessuno qui, non serve che tu sia così imbarazzato. Mica ti vergognerai di restare senza vestiti con me vicino? Non mi sembrava fosse un problema, ieri sera...” sussurra lui, malizioso.

 

Io arrossisco.

 

“Scemo...”

 

Scoppiamo entrambi a ridere. Restiamo distesi a prendere il sole per un po', ciascuno perso nei propri pensieri. Verso mezzogiorno mangiamo i pochi viveri che ci siamo portati, più che altro per fare uno spuntino. Il cielo si è annuvolato e inizia a soffiare una brezza insidiosa che ci costringe a rivestirci. Le nubi ad oriente sembrano quasi promettere pioggia, e mi indispettisco al pensiero che solo qualche ora prima il sole splendeva alto nel cielo senza nemmeno un ombra ad occultare i suoi tiepidi raggi. Circa alle tre del pomeriggio decidiamo di tornare a casa. Durante il viaggio di ritorno praticamente non spiccichiamo parola, cosa per noi rarissima. Però sento che fra di noi aleggia un'atmosfera distesa, carica di significato. La musica in sottofondo non fa che acuire questa sensazione piacevole. Arriviamo a casa inaspettatamente provati: anche senza fare nulla il mare stanca, distende i nervi e aiuta ad eliminare lo stress di tutti i giorni. A turno andiamo a fare la doccia, poi ci buttiamo a letto e guardiamo un film che avevamo noleggiato il giorno prima. Lui sembra particolarmente stanco, tanto che a metà film si accoccola al mio fianco e si addormenta poggiandomi la testa sul petto. Per un po' lo guardo dormire, e gli accarezzo delicatamente la schiena, avendo però cura di non svegliarlo. Sbadiglio, e improvvisamente il sonno mi assale, inaspettato. Il sole morente di una domenica qualunque sembra benedire con il suo abbraccio discreto il nostro sonno, e per questo mi addormento profondamente, coccolato dal suo respiro.


And dear heart, I want you to know

I'll leave your arms never more...

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Nota dell'autore:

Salve a tutti! Immagino sareste rimasti sorpresi nel constatare il cambio di rotta che ho dato a questa storia con l'introduzione di questo capitolo. Probabilmente avevate già capito che i due ragazzi del primo capitolo, gli stessi di questo capitolo, beninteso, stavano insieme. Però ho voluto chiarire questo particolare, perchè credo fosse importante risolvere almeno questo punto. Per il resto il ritardo della pubblicazione è dovuto più che altro alla mancanza di ispirazione e soprattutto all'imbarazzo dovuto alla pubblicazione di questo importante capitolo. Non ero sicuro fosse la scelta migliore, ma adesso mi sono deciso. Spero vogliate seguirmi ancora in questo percorso, magari facendomi sapere cosa ne pensate. Dal momento che questo capitolo è in sostanza il prequel dell'intera serie di racconti ho ritenuto interessante ambientarlo sul finire dell'estate, molto più consona al clima del racconto in questione. Grazie e alla prossima!

UncleObli

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