Un cuore sotto contratto

di Brooke Davis24
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'osteria ***
Capitolo 3: *** La Vigilia ***
Capitolo 4: *** La figura in blu ***
Capitolo 5: *** Guai ***
Capitolo 6: *** Diritto alla felicità ***
Capitolo 7: *** Una rosa cremisi ***
Capitolo 8: *** Il viaggio ***
Capitolo 9: *** Il buon giorno si vede dal mattino ***
Capitolo 10: *** Pareggio dei conti ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Dicembre 1708. Pennsylvania.
Una quiete fiabesca ma solo apparente vigeva nella ridente città di Altoona. Un freddo pungente era sceso giù dai monti circa una settimana addietro, portando con sé  un gelido vento ed una coltre di neve spessa più di quanto non fosse stata negli ultimi anni, o, almeno, era così che i più vissuti tra gli abitanti ricordavano.
Quell’anno, molti mali si erano abbattuti sulla popolazione del luogo e, benché fossero riusciti a debellare buona parte delle burrascose disgrazie a cui erano stati sottoposti, un buon numero tra giovani uomini e donne aveva esalato l’ultimo respiro, lasciando dietro di sé lo strazio di un dolore che solo il tempo avrebbe potuto lenire. La tubercolosi si era insinuata nelle tranquille consuetudini giornaliere di Altoona, mietendo vittime che neppure le più strenue preghiere erano riuscite a salvare, ed il terrore e la disperazione che ne avevano seguito il passaggio avevano investito l’unico punto di riferimento su cui, da sempre, i cittadini avevano potuto contare.
Jordan Woods era un ricco mercante che aveva costruito con le proprie mani una fortuna di ottimali proporzioni, assicurandosi gli agii di una vita lontana tanto dall’ozio quanto dalla povertà. Era giunto in Pennsylvania parecchi anni addietro, segreto imbucato in un viaggio che, partendo dall’Inghilterra, aveva attraversato l’intero Atlantico, e, aiutato da una buona dose di fortuna, era sopravvissuto alla tempesta che aveva dimezzato gran parte dell’equipaggio della Victoria, la nave di un avido esploratore alla ricerca di tesori nascosti tra le foreste del Nuovo Mondo, abitate dai nativi. Denutrito e fortemente debilitato, quando le sue gambe tremanti avevano toccato terra, aveva fatto appena in tempo a trascinarsi in un angolo del porto che un numero imprecisato di persone tra uomini e donne, imbarcatisi abusivamente insieme a lui, erano stati brutalmente scaraventati tra le acque torbide di un mare tremebondo.
In seguito al suo arrivo, aveva viaggiato a lungo ed era pervenuto nei pressi di Altoona una mattina come un’altra, mentre il sole faceva capolino sull’orizzonte e gli usci delle prime case si aprivano e richiudevano oltre la schiena di decine di lavoratori. Era rimasto immediatamente affascinato dai ritmi cadenzati del villaggio, dal modo in cui, a dispetto dell’inferno che imperversava a non molte miglia da lì, la gente del posto viveva la propria vita con spirito gaio e frizzante, dimentica dell’avidità delle grandi colonie, prossime alla loro. Ed era stato in quel momento che aveva compreso di aver trovato terreno fertile per la sua buona volontà e, se la sua buona Stella fosse rimasta ancora al suo fianco, probabilmente anche per una discreta dose di felicità. A quel tempo, del resto, senza amici né famiglia, non avrebbe potuto contare su altri che se stesso e, del resto, la sua sorte non era stata poi così avversa.
A distanza di più di trent’anni, Jordan Woods poteva vantare il possesso di una grossa tenuta nella periferia della città, circondata da ettari ed ettari di terreno di sua proprietà su un versante e da una fitta boscaglia sull’altro. Nonostante le proprie ricchezze,tuttavia, era rimasto sensibile ai problemi della gente e, oltre ad aver dato lavoro ai tre quarti della popolazione di Altoona, si era premurato di trovare una soluzione, quando la tubercolosi aveva minacciato di uccidere anche l’ultimo abitante, rischiando il contagio a sua volta. Era per questo – E per molte altre ragioni! – che nessuno dei lavoratori rimasti al suo servizio aveva pensato di abbandonarlo, quando l’uomo aveva chiesto loro aiuto per rimettere in sesto porzioni di terra che non erano ancora state preparate al rigido inverno.
Da allora, erano trascorsi due duri mesi e altrettante novità si erano succedute nei dintorni del paesino. Prima  fra tutte, spiccava l’arrivo di un giovane, aitante forestiero che, nella prima settimana di Dicembre, aveva fatto il suo ingresso nella tenuta del signor Woods in cerca di un lavoro. Alto, spalle larghe, gambe muscolose ed espressione tagliente, aveva avuto tutto l’aspetto di un pirata ripulito, sicuro di sé e della sua possenza. Se non fosse stato per l’indiscutibile vantaggio che sarebbe potuto venir fuori dalla sua permanenza nel maniero, Jordan Woods sarebbe stato ben lieto di sbattergli portone e cancello in faccia, intimandogli di non farsi mai più rivedere. Eppure, aveva dovuto piegare la sua volontà al materiale bisogno di due braccia robuste e una mente sveglia e, sebbene non si fidasse ancora di lui, non era riuscito a pentirsi di quell’acquisto da quando, una ventina di giorni prima, Carter Matthews aveva fatto il proprio ingresso nella sua vita. Era un uomo di trent’anni zelante e molto più istruito di quel che sembrasse: aveva un’innata predisposizione per i calcoli, sapeva organizzare qualunque genere di lavoro in maniera impeccabile e, strano ma vero, riusciva a trovare un metodo in grado di migliorare qualunque cosa gli capitasse sotto mano, finché non raggiungeva la perfezione. Ed era, inoltre, instancabile: da che lo aveva assunto come suo lavoratore, non lo aveva mai scorto fermarsi per riprendere fiato o chiedergli del tempo per procedere con maggiore accortezza; aveva lavorato con lucidità e zelo e, per quanto gli dolesse in parte ammetterlo, Jordan Woods aveva cominciato a provare ammirazione nei suoi confronti, benché si guardasse dal concedergli piena fiducia o eccessiva confidenza. Dubitava dell’inattaccabile distanza che metteva tra il mondo e le proprie emozioni, del fatto che nulla, in tutto quel tempo, avesse scalfito l’alone d’impeccabile lavoratore e uomo col quale si era presentato, e desiderava osservare e, soprattutto, studiare quanto si celava al di là di un sorriso apparentemente gioviale ma carico di astuzia.
Ad ogni modo, Carter Matthews era ben lontano dai suoi pensieri, in quel momento. Era il giorno antecedente la vigilia di Natale e un profondo turbamento agitava il suo stato di uomo tendenzialmente quieto. Un mese prima all’incirca, aveva ricevuto una missiva da molto, molto lontano e le sue mani avevano tremato a lungo dopo averne letto il contenuto: non aveva provato paura, insoddisfazione o rabbia; ogni più piccola porzione del suo essere, piuttosto, era stata investita da un senso di gioia ed impazienza che aveva rischiato di portarlo sull’orlo di una crisi di pianto, nonostante poco si addicesse ad un animo fiero come il suo. La notizia che la sua amata nipote stesse ritornando da lui,dopo sei anni di assenza, lo riempiva di trepidazione. Era consapevole del fatto che, di lì a breve, avrebbe incontrato una donna di ormai ventidue anni, maturata, cresciuta, cambiata rispetto ai ricordi di cui la sua mente di cinquantenne sentimentale era stata invasa per tutto quel tempo, ma poco importava. Conosceva l’anima della fanciulla che aveva visto sorridere nei momenti più impensati e stupire per la sua forza e gentilezza, e non aveva il benché minimo dubbio rispetto al fatto che, al di là del visibile cambiamento, fosse rimasta la persona che aveva amato ed adorato come fosse sua figlia. E, a quel punto della sua vita, leggermente appesantito, con capelli e barba bianca e un incrementato sentimentalismo, non riusciva ad immaginare modo migliore per trascorrere il Natale.
«Ma quanto ci mette?» fece a voce alta, dando voce ai pensieri che si accumulavano nella sua mente e passeggiando, se possibile, in maniera ancor più nervosa per l’enorme salone, costeggiando il tavolo apparecchiato con la migliore argenteria lucidata accuratamente per l’occasione. Il timore che il maltempo avesse potuto portare la carrozza ad arenarsi o che qualche gruppo di manigoldi avesse approfittato dell’occasione per far preda di quanto potesse essere arraffato per le strade praticamente deserte lo tormentava da ore, al punto tale che una vena, grossa e bluastra, aveva cominciato a pulsare all’altezza della sua tempia, concedendogli anticipatamente una dolorosissima emicrania come presente natalizio.
Accostandosi ai tendaggi e facendosi leggermente spazio tra di essi con la mano, gettò uno sguardo nervoso oltre il vetro e i suoi occhi si posarono sull’oscurità di un cielo privo di stelle che non presagiva nient’altro che tempesta. Grossi nuvoloni erano scesi, quel dì, dalla alte montagne innevate alle spalle di Altoona, assicurandogli appena il tempo per terminare gli ultimi preparativi alla volta della stagione invernale: le scorte erano state stipate, gli animali condotti al sicuro e i lavoratori pagati per tempo per i loro servigi. Ancora una volta, la stima e la fiducia reciproca avevano portato la dimora del signor Woods a risplendere della sua mastodontica grazia e, con un sospiro, il proprietario dovette riconoscere che, quell’anno, se non fosse stato per il suo ultimo e più promettente ingaggio, la situazione non sarebbe stata altrettanto rosea. Inarcando le sopracciglia, Jordan Woods richiamò alla memoria l’immagine di un viso mascolino, giovane ma vissuto e, scuotendo il capo, si chiese se non fosse stato poco riconoscente nei suoi confronti. Era più che certo di non aver esagerato nel dimostrarsi guardingo, ma, forse per via del Natale, forse per via dell’arrivo della sua amatissima nipote, non poté fare a meno di spiacersi all’idea che, a differenza degli altri suoi uomini, Carter Matthews avrebbe trascorso le festività senza la compagnia di nessuno all’infuori di se stesso.
«Signor Woods?» si sentì chiamare e, quando volse il capo, incontrò lo sguardo incerto della domestica, Rosy. Le fece un cenno col capo, invitandola ad esporgli il problema. «C’è Carter Matthews che chiede di parlarvi un istante. Ha detto che non vi ruberà molto tempo…»
«Certo. Fatelo entrare!» la interruppe, prima che potesse profondersi in ulteriori, prolisse spiegazioni. Con una rapida riverenza, la vide sparire e, poco tempo dopo, scorse una figura molto più imponente accompagnarla ed immettersi nel salone, chiudendo la porta alle sue spalle con l’intento di evitare una dispersione di calore. «Ditemi pure, Mr. Matthews. Suppongo si tratti di qualcosa che ritenete impellente.» lo incalzò gentilmente, ma la sua voce risultò meno distesa e gioviale di quanto non si fosse imposto di far apparire.
«Mi scuso per l’inattesa udienza, ma ho saputo dalla servitù che aspettate l’arrivo di una carrozza e volevo farvi sapere che, qualora lo riteneste opportuno, sarei disponibile ad andare incontro alla vettura ed eventualmente soccorrerla.» disse e il signor Woods annuì sommessamente quasi senza rendersene conto. Quelle parole testimoniavano che, a dispetto dei suoi ottimistici tentativi di non scoraggiarsi rispetto al ritardo portato dalla nipote, i suoi timori non erano infondati, se un uomo della sagacia di Carter Matthews si era premurato a rendersi disponibile per qualunque evenienza. Lanciando una rapida occhiata verso il cancello esterno e scorgendolo appena tra le tenebre, sospirò con angoscia.
«Ho provato a mettere a tacere le voci che mi ronzavano per la testa, dicendomi che questo ritardo non era cosa da poco, ma vedo che non avevo tutti i torti ad essere turbato. Pensate sia accaduto qualcosa?» chiese consiglio e l’altro notò, per la prima volta, un atteggiamento diverso da parte del proprio datore di lavoro. Era nient’altro che un umile servo, sebbene venisse trattato con ogni riguardo, ma, da un certo periodo a quella parte, aveva notato un calo di diffidenza nei suoi confronti, non soltanto dal signor Woods ma anche dagli altri che lavoravano con lui. Quella richiesta di consiglio gli fornì la conferma che, dall’inizio, si era sperato di poter avere: stava cominciando ad entrare nelle grazie del padrone.
«Penso sia presto per dirlo, ma essere pronti non sarebbe sbagliato. Ciò che trasporta questa carrozza… Ritenete necessiti di protezione? Si tratta di qualcosa di prezioso?» domandò, nel tentativo di valutare la portata della situazione. Se si fosse trattato di denaro o gioielli, l’uomo avrebbe avuto un buon motivo per preoccuparsi. Carter, vivendo a contatto con la gente del posto più di quanto non facesse l’altro, aveva sentito parlare di predoni venuti dal mare dediti a razzie ed uccisioni e, per quanto sperasse di non dover vedere il signor Woods addolorato per una simile perdita, temette per un attimo che la risposta che di lì a breve gli sarebbe stata data avrebbe potuto rendere tangibili le sue titubanze.
«Oh, è qualcosa di infinitamente prezioso per me!» ribatté e, mentre si dirigeva verso il camino con l’intento di riempire due bicchieri di cognac, i suoi occhi risplendettero come da tempo non accadeva. «Sta arrivando la mia splendida nipote. Sono sei anni che non la vedo!» continuò, facendogli cenno di raggiungerlo ed accomodandosi sulla poltrona dinanzi al focolare. Aveva i nervi a pezzi, la tempia che pulsava ad un ritmo insopportabile e lo stomaco stretto in una ferrea morsa. Chiuse gli occhi un istante, mentre Carter prendeva posto dinanzi a lui, munendosi dell’abbeveraggio che gli era stato fornito, e tentò di ricordare qualche episodio passato. Sorrise nel frangente in cui la memoria portò a galla un elemento che, fino ad allora, aveva distrattamente trascurato: la testardaggine della ragazza. Se avesse dovuto contare le volte in cui si era fatto paonazzo per l’inattitudine di lei all’ascolto dei suoi comandi ed ordini, avrebbe di certo perso la cognizione del tempo e dello spazio.
«Dovete amarla molto…» fu tutto ciò che Carter riuscì ad aggiungere, prima di fissare lo sguardo sul liquido tra le sue mani e berne una lunga sorsata. Un forte, prepotente calore s’irradiò nel suo corpo, debellando gli ultimi resti del gelo che aveva penetrato le sue ossa nel tragitto fino al grande palazzo, e, guardandosi intorno, trovò l’atmosfera così accogliente e familiare che non sentì affatto la mancanza della sua solitaria casupola.
«Moltissimo. E’ la figlia che non ho mai avuto…» gli confessò e, nonostante si rendesse conto di aver oltrepassato il limite imposto tra datore di lavoro e sottoposto, specialmente se si trattava di un forestiero dall’aria di chi la sapeva lunga più del dovuto, si disse che quelle parole non avrebbero potuto avere poi grandi ritorsioni. «Ma credo che incontrerò una persona diversa, e questo un po’ mi spaventa. L’ho lasciata che era una ragazzina e la ritroverò donna.» disse, bevendo d’un fiato il restante contenuto del suo bicchiere. «Non riesco nemmeno ad immaginarla fisicamente… Scommetto che sarà ancora bella da togliere il fiato, ma mi chiedo se lo sia più che in passato.» proseguì, ma Carter non prestò molta attenzione alla descrizione che l’uomo ne stava facendo. Era così follemente perso nei sentimentalismi e amava a tal punto la giovane che, se anche fosse stata tozza e racchia, dubitava avrebbe visto i suoi reali difetti senza addolcirli. Tenne quel pensiero per sé, ma non poté impedirsi di sorridere.
«Come mai non la vedete da molto?» azzardò, non tanto per reale curiosità quanto per riempire il silenzio, consapevole del fatto che il liquore dovesse aver sciolto la lingua del signor Woods e che non desiderasse altro che parlare della giovane.
«E’ difficile da spiegare…» disse sommessamente, pensieroso. «Diciamo che non è semplice dirle di no e che l’opinione degli altri non conta molto, quando decide di fare qualcosa.» tentò di illustrare, ma seppe di non aver reso pienamente il concetto. Le sue parole lasciavano trapelare i dettagli di una fanciulla viziata, caparbia e irrispettosa dei sentimenti e delle idee altrui, un’immagine, ovvero, che poco o niente aveva a che vedere con la realtà. Carter, del resto, non avrebbe potuto saperlo e l’idea che si fece non si discostò affatto dall’impressione che quella descrizione gli diede. Quando ingollò l’ultimo sorso di liquore, si accorse dell’ovvietà della situazione, la stessa ovvietà che era sfuggita al comprendonio del quale si era spesso vantato: cosa vi era di più allucinogeno del semplice amore? Se anche la ragazza fosse stata tarchiata e non di bell’aspetto, questo avrebbe sminuito l’affetto che suo zio provava per lei? L’avrebbe, forse, deviato? No, di certo.
«Neppure la vostra?» osò e il suo volto si trasformò in una maschera di ferro, riproducendo l’espressione che aveva troneggiato sui suoi lineamenti per tutto quel tempo, l’espressione che, probabilmente, gli aveva attirato le inimicizie di buona parte della cittadina.
«Se avrete modo di conoscerla, signor Matthews…» e ammiccò nei suoi confronti con un cenno del capo. «Se avrete modo di conoscerla, comprenderete che le sue scelte non hanno a che fare con gli altri ma solo con se stessa. Che senso avrebbe tentare di ingabbiare il vento?!» fece e l’altro fu talmente colpito dalle sue parole che dovette ricredersi sull’impressione inizialmente avuta sull’uomo. Non era un semplice parvenu. Era, come lui, molto più di quanto non mostrasse agli altri. Al di là della gentilezza, della perspicacia, del fare rispettoso, c’era in lui qualcosa che riluceva fiocamente, ma in maniera abbastanza intensa da riscaldare le ceneri di un incendio ormai spento. Un tempo, la sua anima e tutto il suo essere dovevano aver conquistato più cuori, terre e mari di quante un marinaio avrebbe potuto soltanto sperare di vedere.
«Avete ragione e mi scuso. Non posso giudicare una persona che non conosco.» gli concesse e, senza ulteriori indugi o cerimonie, abbandonò la comodità della poltrona per dirigersi verso la porta da cui era entrato, non prima di essersi congedato con un rispettoso, invisibile inchino ed aver ricevuto risposta.
«Mr. Matthews, ci terrei a ringraziarvi!» lo raggiunse la voce del signor Woods, precedendo di qualche istante la sua uscita. Voltandosi, notò che era tornato a reggersi sulle gambe e che, con lo stesso sguardo fermo con cui impartiva un comando durante i lavori nei campi, intendeva trattenerlo ancora qualche istante. Tacendo, Carter accondiscese. «Lavorate per me da poco più di due settimane ed avete fatto sì che venisse recuperato il tempo perduto a causa dell’assenza di molti altri nei terreni. Vi siete sporcato le mani, non avete risparmiato le gocce del vostro sudore, né l’arguzia del vostro intelletto e vi devo molto.» proseguì, avanzando verso di lui e virando, infine, in direzione della finestra, oltre la quale lanciò uno sguardo sconfortato. Evidentemente, non c’era nessuna carrozza all’orizzonte. «Con sincera stima e gratitudine, perciò, vi auguro di trascorrere una buona serata.» lo congedò e, sorridendo lievemente, l’altro pose fine alla conversazione. Una strana sensazione cominciò ad agitarsi nel suo petto e, mentre percorreva all’inverso i corridoi che l’avevano condotto nel salone, scendendo rapidamente le scale, prestò appena attenzione all’aria pungente che si respirava nel palazzo.
Le luci erano soffuse, la quiete immota e ogni cosa pulita a dovere. Se non fosse stato al corrente del clima d’attesa che vigeva in casa, avrebbe sospettato che gli abitanti di essa fossero assopiti, ognuno nei rispettivi letti, e pregustò l’idea di poterne godere a sua volta, un giorno. Le ragioni per cui era pervenuto ad Altoona, il secondo giorno di Dicembre di quell’anno, erano perfettamente incise nella sua mente e non una sola ora trascorreva senza che il pensiero di quanto lo aspettava ravvivasse i suoi propositi. La sua meta era stata decisa molto tempo addietro, i suoi piani studiati a lungo e con infinita attenzione e il suo peregrinare ridotto allo stretto indispensabile: ogni sua mossa era stata calcolata con precisione maniacale e, ora che i frutti cominciavano ad intravedersi tra i folti rami di un albero robusto ma non insormontabile, Carter Matthews sentì le forze rinvigorire tanto le sue membra quanto il suo spirito, fiaccato dalle fatiche cui era stato sottoposto e dall’impressione di aver fatto male i propri conteggi.
Quando il grande portone scuro si richiuse alle sue spalle e i suoi polmoni inspirarono la gelida aria dicembrina, i suoi passi divennero sicuri più di quanto non fossero stati fino ad allora e il suo aspetto apparve più minaccioso, nella profonda coltre che s’infoltiva di momento in momento. Quasi si sorprese nel momento in cui, scese le scale esterne che immettevano dalla veranda al sentiero d’ingresso, scorse la sagoma distinta di una carrozza avanzare nella direzione che egli stesso stava abbandonando. Curioso, le passò accanto, ma non riuscì a vedere nulla di ciò che i suoi occhi avevano cercato. Solo molti minuti dopo, quando la sua figura altri non era che una sagoma spettrale al di là dei cancelli, qualcosa si mosse dall’interno dell’abitacolo: una figura avvolta in un pesante mantello nero discese da essa e, quasi scivolando sul pavimento innevato, senza fatica, salì i gradini uno dopo l’altro.
Una folata di vento spirò dal versante della foresta che costeggiava la tenuta e il mantello vibrò appena. Tutto quello che Carter scorse alla luce della luna fu una lunga ciocca di capelli che si librava nell’aria.

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Capitolo 2
*** L'osteria ***


2. L'osteria 


Vendetta. E’ il più primordiale tra gli impulsi, il più arcano sentimento, l’azione meno nobilitante di cui l’uomo si possa avvalere per ricambiare gli effetti di un torto subito, accrescendoli se possibile. Nulla ha a che vedere con il motto “occhio per occhio, dente per dente”, né con le ferite inferte dalla spada, dall’ascia, dalle mani, dall’orgoglio di un despota che non sopporta di vedere sminuito il proprio potere. La vendetta più crudele, la più diffusa, la più nociva ha i contorni dell’arte, di un’arte sopraffina che s’intreccia e diviene un tutt’uno con la scrittura, la pittura, il canto, l’agonismo, perfino con la guerra: il vendicatore intesse la trama che ha intenzione di seguire, tinteggia le pareti del suo volto dell’espressione più neutrale che gli è concessa, si serve della voce per impartire la stoccata iniziale, mira alla sopraffazione ed è disposto ad utilizzare qualunque arma per primeggiare. Non importa quanto tempo richiederà la sua azione, non importa quali danni causerà il suo attacco, né quanti e quanto spaventosi saranno gli spargimenti di sangue. Nella sua mente, il fine giustificherà i mezzi. E la mente dell’uomo è un arnese così infinitamente spaventoso da rendere la vendetta temibile al pari del più silenzioso tra i morbi.
Un’antica bettola di periferia, fiocamente illuminata all’interno da una scarsa decina di lampade a olio mal funzionanti, era l’unica testimonianza di movimento nelle zone, di notte, meno frequentate di Altoona. Lì dove le porte e finestre delle case erano sprangate, le famiglie munite di fucile e le giovani donne chiuse nelle loro stanze prima del tramonto, il ventitré di Dicembre aveva l’agrodolce sapore dell’alcool e l’amara fragranza di un trascorso da dimenticare o di un avvenire da fronteggiare. Le assi del pavimento della locanda scricchiolavano sotto gli stivali di coloro i quali, in cerca di fuga o semplicemente di compagnia, facevano il loro ingresso nell’osteria e si gettavano su una panca a ridosso di un muro, ordinando un otre di vino da bere in solitudine dinanzi a ciò che rimaneva di una consumata candela giallastra. L’aria non risuonava di risa gioviali, né del gergo colorito dei mozzi di passaggio o dei paesani meno istruiti; gli unici rumori di cui la stanza era compunta si ripetevano ritmicamente: il calice poggiato contro il tavolo, lo scorrere del vino, il tintinnare delle stoviglie ammassate nel lavabo, il deglutire di alcuni, il sommesso russare di altri.
Giovani, attempati, esili, corpulenti, in visita o residenti. La varietà di uomini presente nel locale era notevole e, sebbene tra essi figurasse qualche donna, addetta al piacere dei presenti di buonumore o alle pulizie, la maggior parte appariva così profondamente immersa nei propri affanni da curarsi a stento della presenza altrui. L’unico momento in cui l’attenzione unanime pareva rivolgersi verso un unico centro era all’entrata di un nuovo avventore: decine di paia di occhi, distratti dalla loro inerme occupazione, raggiungevano il fulcro del disturbo per, infine, tornare alla posizione precedente. Semplicemente, erano tante persone sole in un’unica, grande stanza.
E, tra gli occupanti dell’osteria, figurava una sagoma che, in effetti, poco o nulla aveva a che vedere con gli altri. Carter Matthews, bello, giovane e tenebroso, era solo di una solitudine diversa rispetto a quella che lo circondava: lui era solo per scelta. Non perché avesse perduto l’amore della sua vita, non perché la moglie lo avesse cacciato di casa, non perché la cantina languisse. Lui aveva preso volutamente la decisione di isolarsi, perché era quello di cui aveva bisogno.
Nella sua coscienza e nel suo cuore, infatti, si agitavano sentimenti così diversi tra di loro da rendergli il sollievo distante, persino dopo due otri di buon vino rosso. La sua mente, sebbene meno vigile del solito, era perfettamente sveglia e i suoi sensi all’erta come non mai; se si fosse presentata l’occasione, avrebbe potuto fronteggiare un attacco ed uscirne, addirittura, con una maggiore presenza di spirito di quanto non ne avrebbe avuta se fosse stato del tutto sobrio. Era stato abituato, nel corso del tempo, a sopportare ostacoli ben più temibili dell’alcool e, se proprio doveva dirla tutta, come per ogni uomo di quei tempi che si potesse rispettare, aveva fatto di quest’ultimo un ottimo amico e consigliere nei momenti in cui la compagnia di qualunque altro essere umano avrebbe potuto snervarlo più che aiutarlo.
La visita a casa del suo datore di lavoro, quella sera, non era stata la mossa più brillante che avesse programmato negli ultimi anni: aveva risvegliato nel suo animo il desiderio di riconquistare ciò che gli spettava e desiderava rivendicare, ma, al contempo, gli aveva svelato un aspetto del signor Woods per il quale provava profonda ammirazione, tanto da porre in contrasto ciò a cui aspirava da quanto cominciava a ritenere fosse più giusto. Aveva sul serio la certezza che le ragioni del suo agire fossero fondate o era stato, per la prima volta in vita sua, annebbiato dalla furia cieca che aveva preso possesso del suo animo?
La persona con cui si era confrontato in quelle settimane era ben lungi dall’apparire come gliel’avevano descritta ed ogni più piccola sfaccettatura del carattere di Jordan Woods richiamava in lui le memorie del suo vecchio padre, prima che il mare, che tanto aveva amato, lo inghiottisse senza restituirlo ai suoi cari. Stirando le gambe sotto al tavolo, Carter tentò di figurarsi una conversazione con costui, ma, prima ancora che la parodia di un reale colloquio avesse inizio nella sua mente, dovette fermarsi. Conosceva già le risposte che stava cercando, perché erano le stesse che, una volta scemata la rabbia, avevano fatto capolino tra i suoi pensieri: sebbene la proprietà del signor Woods fosse legata alla sua famiglia e ad ogni singola stanza della casa fosse collegato un ricordo della sua infanzia, Carter sapeva di non essere rimasto ad Altoona per la vendetta. Il suo proposito d’odio era stato sostituito dalla curiosità e la sua osservazione lo aveva portato a trarre conclusioni positive. La dimora prosperava ed era gestita da un uomo che meritava di essere definito tale. A lui, oramai, non rimaneva che fare ritorno a casa.
Un cigolio prepotente della porta ed una folata di vento gelido improvvisi portarono una ventata di realtà a coloro i quali, amareggiati o alticci, avevano perso la connessione col mondo esterno e, come da copione, la stragrande maggioranza dei presenti si volse a guardare l’identità dell’avventore. Ognuno di loro rimase deluso, tuttavia, quando alla vista si presentò una figura accuratamente ammantata, della quale non sarebbe stato possibile distinguere neppure il sesso, nonostante nessuno pensasse di poter aver a che fare con una donna. Le fanciulle del luogo non frequentavano quei posti, temendo un attentato alla loro virtù, e quelle che erano costrette a farlo, per mestiere o per diletto, non avevano ragione di coprirsi, tutt’altro.
Le assi scricchiolarono meno del previsto sotto l’incedere cadenzato dello sconosciuto, ma nessuno vi prestò attenzione all’infuori di Carter, che, in quell’inaspettato ingresso, aveva trovato una fuga alle sue martorianti elucubrazioni. Aguzzando la vista, tentò di comprendere qualcosa di più sulla sagoma che, nel frattempo, si era accomodata ad un tavolo non troppo decentrato e dovette ritenersi meno che soddisfatto, quando un soffio da parte dell’estraneo spense il mozzicone di candela che riusciva vagamente a rischiarare la zona attorno a lui.
Guardandosi intorno con fare guardingo, si accorse che, al di sopra dei boccali di birra schiumosa e dei calici di vino fresco, molte paia di occhi si erano discretamente fissate sull’oggetto del suo stesso interesse e, con un sorriso appena accennato, si rese conto di aver assorbito in parte la mentalità dei cittadini, in quelle due settimane. Non c’era nulla di strano nella presenza di un uomo – Perché tutti ritenevano si celasse il volto di un uomo al di là del cappuccio! – coperto da un mantello, che cercava riparo in un’osteria: i tempi erano tristi e il clima invernale profondamente rigido in Pennsylvania, tanto da giustificare una simile prudenza. La stranezza consisteva nel fatto che quella figura misteriosa si trovasse ad Altoona: da che si aveva memoria, mai nessuno aveva tentato di celare la propria identità nel paesino, né che si trattasse di forestieri né che si trattasse di futuri concittadini. Il fatto che qualcuno ritenesse di dover essere a tal punto prudente era un campanello di allarme che la maggior parte dei presenti aveva udito.
Una mano guantata di nero, presentandosi al di là del tessuto che aveva formato fino a quel momento una sorta di campana protettiva attorno al corpo dell’avventuriero, fece cenno alla cameriera di accomodarsi e, pur profondamente riluttante, la donna non se la sentì di declinare l’invito. Un’espressione terrorizzata, immediatamente seguita da un’altra di incredulità, prese pieno possesso del viso della cinquantenne, quando il cappuccio si avvicinò repentinamente al suo indirizzo, e la curiosità generale venne, se possibile, destata più che in precedenza. La bocca dell’inserviente fece per aprirsi, ma si richiuse senza emettere suono, quando l’indice della mano guantata si accostò al cappuccio, ancora calato sui lineamenti dello straniero, intimandole di tacere e, poco dopo, di farsi ancora più vicina.
I minuti che seguirono videro l’espressione dell’attempata cameriera farsi risoluta e Carter fu il solo a notare che una ruga profonda si era disegnata sulla sua fronte, testimoniando la sua preoccupazione. Qualcosa, tuttavia, gli suggerì che quel timore non fosse rivolto alla persona che le aveva parlato, bensì alla richiesta che doveva aver ricevuto. E, nel frangente in cui Maria – Era questo il nome dell’inserviente, nonché moglie del proprietario del locale! – tornò dabbasso, dopo una breve capatina al piano superiore, e rivolse un cenno affermativo alla figura ammantata, Carter poté giurare di aver intravisto un sogghigno tra le pieghe del cappuccio.
Trascorse all’incirca una buona mezz’ora, prima che qualcosa accadesse. Fino ad allora, la clientela era pressoché rimasta invariata, all’infuori di qualche conto saldato da parte di uno o due uomini intenzionati a cercare piacere altrove, e Carter non aveva distolto lo sguardo dal tavolo più buio e taciturno del locale. Più di una volta, quasi percependo l’insistenza della sua osservazione, aveva avuto l’impressione che due occhi taglienti stessero vigorosamente sfidando i suoi, ma la conferma non era mai pervenuta, perché nulla, oltre alla mano vestita di nero, era stata offerta alla mercé della sua curiosità.
Fu ad un certo punto che accadde l’imprevisto. Il peso di un uomo piuttosto mingherlino disturbò appena le assi della scala, il cui legno rimandò lo scroscio degli stivali di colui che la stava scendendo, e, per la prima volta da quando l’ultimo cliente della sera aveva fatto il suo ingresso nella bettola, Carter concentrò la propria attenzione su altro. Quello che vide non lo entusiasmò per niente: era un uomo dai lineamenti cavallini, dal sorriso viscido e dalla bocca sporgente, che, con inesistente grazia, stava sistemandosi la camicia nei pantaloni, quasi a voler ostentare quanto fosse accaduto al piano superiore fino a quel momento con una delle ragazze di turno. Gli occhi piccoli percorsero il locale e, quando costui fu giunto sull’ultimo gradino, Carter seppe dove fosse catalizzato l’interesse dell’altro.
«Bene, bene. Cos’abbiamo qui? Uno straniero in cerca di rogne?» commentò e perfino i più taciturni mutarono espressione a quelle parole, percependo la tensione che cresceva nell’aria. «Hey, tu! Dico a te col mantello!» proseguì con la stessa espressione vittoriosa e l’accento strascicato. Era figlio di europei morti durante una traversata in mare e, fino ad allora, si era distinto come canaglia e attaccabrighe. Non molti, ad Altoona, sarebbero stati disposti a prendere le sue difese, qualora si fosse presentata l’occasione per farlo. Il capo sotto al cappuccio si mosse in direzione dell’omino. «Non sai che non è buona educazione nascondere la propria identità alla gente del posto che ti ospita, feccia?» lo stuzzicò e Carter cercò istintivamente l’elsa del piccolo pugnale che teneva alla vita insieme alla pistola, ben nascosti dai lembi della giacca. Qualcosa gli diceva che, di quel passo, l’atmosfera si sarebbe fatta rovente.
La figura ammantata, per la prima volta da quand’era arrivata, fece per alzarsi e aggirò il tavolo con agilità impressionante, senza dar segno di voler abbandonare il campo di battaglia. Evidentemente, si dissero tutti, non era un tipo che amava lasciar espandere l’eco di un insulto immotivato, rivolto al suo indirizzo. La mano guantata, lesta, raggiunse il cappuccio e lo tirò giù, sollevando un coro di esclamazioni stupite. Era una donna!
«E tu non sai che non lascio mai aperti i conti in sospeso, Bartok?» ribatté una voce ilare, sarcastica, il cui quesito fu seguito da un Perdio! di sgomento da parte di un uomo che batté il pugno sul tavolo. Il colore defluì dalle guance smilze di colui che era stato, fino a qualche istante prima, uno spavaldo ciarliere.
«Tu..!» fu tutto quello che fuoriuscì dalle labbra sottili di Bartok.
«In carne ed ossa, mio caro! Ti sono mancata?» chiese ed un sorriso mefistofelico apparve su un volto di una bellezza sconvolgente. Lunghissimi capelli castani erano scivolati sulle spalle della giovane, non appena il cappuccio era stato tirato via, e, adesso che il mantello era stato abbandonato sulla superficie del tavolo al suo fianco, una corporatura snella, di donna più che formata, aveva fatto la sua apparizione agli occhi dei presenti. Fasciata in pantaloni mascolini, così attillati da essere davvero poco adatti ad una signora che si potesse rispettare a quei tempi, e coperta da una camiciola e da un gilet in pelle funzionale contro il freddo, se ne stava ritta in tutta la sua impudente bellezza come se nulla, in quella situazione, la sconvolgesse.
«Che tu sia maledetta, bastarda!» urlò e fece per precipitarsi contro di lei, ma la sua corsa dovette arrestarsi prima del previsto, quando la canna di una pistola parve volerlo sfidare a fare un solo altro passo in avanti.
«Vedo che hai mantenuto i tratti di quel tuo dolce carattere, Bartok, e che ti sei fatto di gran lunga più avvenente. Mi congratulo!» si fece beffe di lui e, mentre una buona decina di presenti affondavano le risa nel liquido dinanzi a loro, una vena prese a pulsare selvaggiamente sul collo dell’uomo dalla faccia cavallina. Col capo, la ragazza gli fece cenno di accomodarsi, ma l’altro non si mosse. «Seduto, ho detto!» ripeté e il suo tono fu più greve e minaccioso, mentre ogni traccia d’ilarità spariva dal suo viso. Bartok seguì l’ammonimento e i lineamenti di lei tornarono a distendersi. «Ora va meglio… Facciamo in modo che questo incontro non sfoci in tragedia.» disse e Carter colse una velata minaccia nel tono sarcasticamente dolciastro che la ragazza usò. C’era qualcosa di spietato in lei, qualcosa che acuiva l’arcana bellezza che tutto il suo essere rappresentava, e l’uomo non poté esimersi dall’ammettere quanto fascino stesse esercitando sul suo animo.
«Quando sei arrivata?» le chiese, leccandosi nervosamente l’angolo della bocca. «Il tuo padrone sa che sei qui, eh? E la ragazza paffuta?» provò a far leva su un tasto che, di colpo, le indurì lo sguardo. Un rumore familiare dimostrò che la ragazza aveva alzato il cane della pistola, pronta ad utilizzarla.
«Bada bene a come parli, verme, o giuro che, stavolta, le mie non saranno vane minacce. Intesi?» gli intimò e, nel farlo, avanzò fino a che la canna della pistola non premette contro il torace di Bartok e i suoi occhi non furono all’altezza di quelli di lui. L’uomo deglutì e una goccia di sudore, dalla fronte, scese a marcargli lo zigomo; silenziosamente annuì. «Quanto al mio padrone, non è di sua competenza quello che faccio nel lasso di tempo compreso tra il sorgere del sole e il tramonto.» rispose e, con lentezza estenuante, si allontanò da lui, fino ad accomodarsi sulla sedia vicina al tavolo che aveva occupato in quella mezz’ora. Attentamente abbassò il cane e depose l’arma sul tavolo, mantenendola comunque a portata di mano.
«E perché sei qui dopo tutto questo tempo, demonio?»
«Le ragioni sono tante, ma dovrebbe lusingarti sapere che sono venuta a cercare te per primo.» fece e lasciò che una lunga pausa seguisse le sue parole, senza, però, distogliere lo sguardo da quello dell’altro. Mirava ad esasperarlo e sembrava ci stesse riuscendo. «Per essere più precisi…» cominciò e si sporse in avanti, poggiando i gomiti sulle rispettive ginocchia e sostenendo il volto sulle mani intrecciate, che miravano verso l’alto. «… Volevo essere certa del fatto che non avessi dimenticato il nostro accordo!» gli spiegò, inclinando appena il capo con falsa innocenza.
Da che aveva messo piede ad Altoona, Carter non aveva trovato nulla in grado di interessarlo all’infuori dello scopo per cui vi si era recato. La cittadina gli era parsa così esasperante nella sua quiete da averlo portato ad immusonirsi più di quanto non appartenesse di norma al suo carattere testardo. Non ottenere quanto desiderava era, di per sé, faticoso da digerire, ma non trovare alcuna distrazione poteva avere effetti nocivi sulla sua poca pazienza. Quella ragazza, di cui non conosceva neppure il nome, era arrivata a diradare le fosche tinte della noia, pennellando il grigiore delle sue giornate di un rosso vivo come il sangue.
«Come potrei? Maledetto il giorno in cui ti ho incontrata, Sophie Chapman, e maledetta possa essere tu, donna infernale! Figlia del demonio! Sputo di Satana!» tuonò e la sua ira esplose in maniera tanto vigorosa che le ultime parole furono urlate con quanto fiato Bartok aveva nei polmoni. La risposta della giovane fu una risata gaia e frizzante, che conquistò i cuori di molti uomini presenti che di lei sapevano nulla o quasi. Poche erano, ad Altoona, le persone che conoscevano altro al di fuori del nome della donna e ancora meno quelle che vi avevano avuto a che fare.
«Ah, se ti sentisse il buon, vecchio padre William! Come sarebbe fiero di te!» lo schernì e, incurante dello scatto di Bartok, improvvisamente alzatosi, mantenne la posizione, sorridendo affabile.
«Devo ammettere…» fece lui dopo qualche minuto, nel tentativo di calmarsi «…che questi sei anni ti hanno giovato. Eri una piccoletta rachitica che giocava col fuoco e sei tornata pienamente donna.» le disse e i suoi occhi saettarono da una parte all’altra, soffermandosi sulle cosce snelle e salendo fin sulle labbra morbide e provocanti. Persino quel sorriso di scherno aveva un non so che di accattivante per un uomo i cui bassi istinti venivano sempre prima dell’orgoglio.
«Continuo a giocare col fuoco, se t’interessa saperlo, ma non è questo il caso!» lo corresse e Bartok, per la prima volta, lasciò cadere la provocazione e tentò una strategia diversa. Sophie Chapman aveva sempre avuto la capacità di fargli saltare i nervi fino alla perdita del controllo, ma si era trattato di confronti con una ragazzina arrogante, le cui minacce ben piantate avevano messo a dura prova il suo io maschilista. A distanza di tempo, pur in presenza della stessa, invariata presunzione, era una splendida donna a pararglisi dinanzi e un’idea losca stava cominciando a sorgere nei più oscuri meandri della sua mente.
«Potremmo parlarne in privato, Sophie. Ho affittato una stanza, al piano di sopra, e…» fu sul punto di concludere la frase, ma una risata argentina, squillante lo interruppe, e, mentre osservava la ragazza gettare il capo all’indietro e scuoterlo subito dopo con incredulità, due fuochi diversi arsero nel suo corpo: cocente lussuria e infimo desiderio di vendetta. Che i due elementi potessero essere ben conciliati fu un pensiero che lo affascinò tremendamente!
«Mi stai proponendo di salire in camera con te, Bartok? A che proposito? Ho proprio voglia di sentirmelo dire.» lo incoraggiò, poggiando la schiena alla sedia, e a stento si accorse dello sguardo di disapprovazione della locandiera.
«Sophie Chapman, cosa devono udire le mie orecchie? Sarà che non sei proprio migliorata in tutto questo tempo, giusto Cielo?» la rimbrottò Maria, le mani ai fianchi e un’espressione davvero poco accomodante sul viso. La ragazza, come improvvisamente tornata alla realtà, mosse il capo in direzione della voce che le aveva parlato e le regalò una smorfia impertinente.
«Nossignora! Credo che avrete modo di constatare un notevole peggioramento, secondo i vostri canoni.»
«Avresti avuto bisogno di una bella sculacciata da bambina, signorinella!» ribatté Maria alla provocazione e una risata sommessa venne fuori dalla bocca di Sophie.
«Nessuno vi ha mai impedito di tentare l’impresa, signora, me per prima, ma, se volete accomodarvi a distanza di anni, fate pure.» la stuzzicò e vide il volto battagliero della cinquantenne tinteggiarsi lievemente di rosso all’altezza degli zigomi. Carter ridacchiò e, come lui, molti tra i presenti fecero lo stesso. Il braccio di Maria scattò verso un mattarello e, battendo l’estremità libera sul palmo dell’altra mano, ridusse gli occhi a due fessure, mentre avanzava lentamente.
«Tu, tu non troverai mai un uomo in grado di sopportare quella tua linguaccia, a meno che non sia pazzo e cocciuto quanto te.»
«Se il Cielo mi assiste, sarà davvero come dite voi, signora mia.» commentò e il suo sguardo saettò rapido verso Bartok, lasciandogli intendere che, no, non avrebbe accettato la sua proposta e, no, non aveva dimenticato la loro conversazione.
«Se avessi avuto un padre, sarebbe morto di crepacuore, ne sei consapevole?» le domandò e parte della sua ira scemò via al cospetto di quei temerari occhi verdi, che le ricordavano il visino di una piccola furfante vicina al suo cuore più di quanto avesse creduto possibile, quando l’aveva conosciuta. Rivederla in tutto il suo splendore, donna ma ancora indomabile, era per lei fonte di emozione e frustrazione al contempo.
«Ecco perché i miei genitori se la sono data a gambe da che ero un fagotto!» rispose e lo fece con un’amabilità tale, nella voce, che il marito di Maria non seppe più resistere e si lasciò andare ad una fragorosa risata, tenendosi il ventre prominente per via dei sobbalzi.
«Lascia stare la ragazza, tesoro! Se fosse cambiata, non sarebbe stata la Sophie di sempre, suvvia.» le fece notare, mentre i suoi occhi ridenti si posavano sulla fanciulla che aveva visto crescere fino all’età di dodici anni e che, un giorno, d’improvviso, era stata mandata lontano da loro, rendendo le giornate meno briose e sorprendenti di quanto non fossero state fino ad allora. Il ricordo di una piccoletta dai lunghissimi capelli, che correva per le strade di Altoona e si rotolava nel fango, gli riscaldò il cuore e non seppe dirsi da quanto tempo non provasse un’emozione simile.«E tu, dolcezza, vieni a farmi un saluto come si deve!» le ordinò bonariamente.
Sophie si alzò e, oltrepassando Maria con una smorfia di chi la sapeva lunga, raggiunse l’altro con passo aggraziato. Carter la osservò abbracciarlo calorosamente e fare spallucce ai commenti sul suo abbigliamento, e i suoi occhi la percorsero avidamente con lo sguardo, soffermandosi laddove riteneva fosse indispensabile prestare uno studio più approfondito. E la giovane dovette accorgersene perché, ad un certo punto, tra le risate e le domande che la coppia aveva cominciato a rivolgerle, il suo sguardo raggiunse quello di Carter e vi si fissò con un’intensità tale che l’uomo ne uscì scottato, nel momento in cui l’altra distolse la propria attenzione. C’era qualcosa, in lei, che sentiva di dover scoprire, che desiderava scoprire, e fu quello lo scopo che si prefisse, quando la osservò uscire dal locale e chiudersi la porta alle spalle, fiera nel suo portamento e munita dello stesso incedere sicuro. 

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Capitolo 3
*** La Vigilia ***


3. La Vigilia
 
Il mattino successivo, un’aria pienamente natalizia aveva preso completo possesso della cittadina e della maggior parte dei suoi abitanti. Profumi di pietanze deliziose si spandevano nell’aria e i bambini, avvolti in notevoli strati di pesante vestiario, correvano a destra e a manca con i nasi arrossati, cantando canzoncine natalizie di indubbia origine locale. L’atmosfera che si respirava nella tenuta del signor Woods e dintorni era pressoché la medesima: le famiglie che lavoravano per l’uomo e avevano ricevuto come dono una modesta abitazione nei paraggi godevano del clima festivo e del piacere di un giorno d’intero riposo. Conoscevano bene Jordan Woods e la sua magnanimità e non si erano granché stupiti quando, mandandoli a chiamare, li aveva sollevati da qualunque impegno lavorativo nei campi, facendo pervenire a casa di ognuno di loro un cesto con qualche utile scorta di cibo. I domestici, sin dalle prime ore dell’alba, avevano dovuto lavorare con fare solerte, dato il previsto arrivo di alcuni amici di lunga data del padrone, alla cui presenza erano stati abituati nel corso degli anni, e la cucina aveva emanato odori così succulenti che in molti si erano chiesti quali sorprese avrebbe riservato loro la cuoca quell’anno.
Besede era una donna di colore dalla grande prestanza fisica, che si era guadagnata la simpatia del signor Woods tanti e tanti anni prima. Carattere deciso e fedele fino alla morte, non aveva smesso un solo attimo di servire la casa e i suoi abitanti fino allo stremo delle forze, mescolando i sapori della cucina occidentale a quelli del suo Paese natio, dal quale era stata strappata con forza. Sebbene l’affluenza di ospiti fosse notevole, durante le festività natalizie, e gli impegni altrettanto pressanti, Besede non aveva mai chiesto aiuto a nessuno, all’infuori delle persone delle quali aveva imparato a fidarsi col trascorrere degli anni, e quella volta non ci sarebbero state eccezioni. I preparativi per la cena della Vigilia erano cominciati diversi giorni prima e, con enorme stupore dei nuovi arrivati alla tenuta, la cuoca non aveva versato una sola goccia di sudore con l’avvicinarsi del pasto di spicco. I ritmi erano stati cadenzati, frutto di calcoli provati in passato e dimostratisi da sempre funzionanti, e le sue labbra non avevano smesso di fischiettare e canticchiare un solo istante.
Un sorriso ancora più smagliante del solito si era disegnato sulle sue labbra carnose e, più di una volta, la governante di casa Woods, Betty, era rimasta perplessa nell’osservarla ridacchiare e parlottare tra sé. Nessuno avrebbe potuto immaginare di quanta felicità fosse colmo il suo cuore e come ogni cosa, persino gli oggetti inanimati, le arridesse, donandole uno stato di beatitudine e gioia tale da essere contenuti a stento.
L’arrivo della nipote del signor Woods e di Sophie in particolar modo era stato il miglior regalo di Natale che si fosse mai potuta aspettare e aveva stretto così forte le ragazze, quando Betty e il maggiordomo le si erano fatti vicini per godersi lo spettacolo, che convincerla ad allentare la presa si era dimostrata un’impresa bella e buona. Erano trascorsi sei lunghi anni dall’ultima volta che aveva visto le due e, come la maggior parte dei domestici della dimora, aveva infinitamente sofferto quel distacco. Le avevano viste crescere e farsi diverse ogni giorno di più e la notizia della loro improvvisa, inspiegata partenza aveva lasciato una profonda, dolente ferita in ognuno, tanto che, a distanza di tempo, Betty, Joe il maggiordomo e Besede si erano resi conto di non aver provato più tanta emozione dal giorno della partenza delle fanciulle.
Due tocchi decisi alla porta che, dall’esterno, immetteva nella cucina attrassero l’attenzione della corpulenta donna e, quando costei si voltò per osservare l’ultimo arrivato varcare la soglia, il suo cuore vibrò di una fibrillazione nuova. Carter Matthews era l’uomo più bello che i suoi occhi arguti avessero mai visto e, benché fosse consapevole di avere presso a poco l’età della madre di lui, la sua avvenenza era un balsamo dei cui effetti non si sarebbe privata. Il suo sorriso smagliante era la ciliegina su una torta che, quell’anno, era stata guarnita alla perfezione. Inoltre, qualcosa, nel profondo del suo animo, le suggeriva che fosse una persona di gran lunga migliore di quanto non lasciasse trapelare e che molti sarebbero stati gli sconvolgimenti che la sua presenza avrebbe portato nei dintorni.
«Ah, buongiorno, mia bella signora!» la salutò e una profonda risata s’irradiò nella piccola, ordinata cucina, echeggiando a lungo prima che Besede si ricomponesse.
«Dongiovanni da strapazzo che non siete altro, Carter Matthews!» Gli andò incontro e accolse con serenità l’abbraccio affettuoso che l’uomo le regalò. Quando si fu sciolta dalla stretta di lui, le sue sopracciglia si inarcarono in una davvero poco velata espressione di apprezzamento, mentre lo osservava da capo a piedi. «Come mai siete così ben agghindato, zucchero?» gli chiese e il tono estremamente confidenziale che utilizzò fece sorridere Carter, lusingato per il complimento.
«Per voi, signora! L’invito a trascorrere con voi la cena della Vigilia richiedeva un certo impegno per ringraziarvi.» Le sue belle labbra si aprirono in una smorfia ancora più ampia e i suoi perfetti denti candidi spiccarono sulla carnagione lievemente ambrata. «Dite che sono presentabile?» domandò, allargando le braccia e offrendosi alla mercé degli occhi scuri di Besede.
Indossava uno tra gli abiti più belli che aveva portato con sé, quando aveva preso la decisione di recarsi ad Altoona per conoscere il proprietario di qualcosa che, un tempo, era appartenuto alla sua famiglia, e, sebbene non fosse di certo il migliore del suo reale corredo, gli donava particolarmente. Stretti pantaloni color verde petrolio gli fasciavano le gambe muscolose fino al ginocchio, laddove il tessuto incontrava la lucida pelle dello stivale nero, mentre un panciotto appena più scuro aderiva alla vita snella, risalendo sul petto ampio e mascolino ricoperto a sua volta da una camicia bianchissima, e una giacca completava il quadretto, presentando a Besede il ritratto di un adone per il quale molte ragazzette dei dintorni avevano già perso la testa, al di là dell’aspetto meno sontuoso dimostrato fino ad allora. Era bello da togliere il fiato.
«Siete bello come il sole, tesoro. Non vorrete mica far girare la testa a qualche fanciulla, parente del signor Woods?» s’insospettì e, d’istinto, aguzzò lo sguardo nel tentativo di comprendere le intenzioni dell’altro.
«L’unica signora per cui mi sono messo d’impegno, stamane, siete voi, Besede, e nessun altra, ve lo giuro!» Si portò la mano al cuore in un gesto solenne e s’inchinò, prendendole la mano tozza e portandola vicino alla labbra con fare galante. Se solo non avesse avuto trent’anni ma qualcuno in più, si disse la cuoca amaramente.
«Sarà meglio per voi.» lo minacciò giocosamente, voltandogli le spalle e dirigendosi verso il pentolone che aveva messo sul fuoco diverso tempo prima. Mentre Carter prendeva posto sulla panca e si sfilava la giacca, riponendola sul tavolo di legno dinanzi a lui, non poté non rimanere deliziato dal succulento profumo di cui le sue narici furono investite. Il suo stomaco, nutrito con pasti saltuari e piuttosto spartani da due settimane a quella parte, ritrovò l’appetito perduto e l’aumento vertiginoso della sua salivazione gli suggerì quanto il suo corpo sentisse la mancanza di un piatto come si deve.
China sullo stufato, Besede mescolò a lungo e con attenzione per evitare che, attaccandosi al fondo del calderone, il sapore della pietanza venisse irrimediabilmente compromesso. Intenta com’era, fu il cigolio della porta d’entrata a distoglierla ancora una volta, com’era accaduto giusto qualche minuto prima. Il naso e le guance colorate di un meraviglioso rosa in contrasto con la carnagione candida, Sophie fece il suo ingresso nella cucina con noncuranza e le sorrise, quando la osservò porre le mani ai fianchi e squadrarla con aria di rimprovero. Carter saltò quasi sul posto quando i suoi occhi si posarono su di lei e riconobbe la stessa fanciulla della locanda della notte prima. Cosa mai poteva averla portata lì?
«Cosa c’è che non va, stavolta?» chiese e il suo tono fu stanco ma divertito.
«C’è che dovresti essere tornata più di un’ora fa e indossare qualcosa di diverso, signorina!» Indossava gli stessi calzoni attillati che Carter aveva rimirato il giorno addietro, la stessa camiciola e gilet, e aveva i capelli acconciati tutti su un lato in una lunga, maestosa treccia che, Besede dovette ammetterlo, le donava estremamente.
«Cos’ha che non va il mio abbigliamento?» fece e, per la prima volta, la giovane parve accorgersi della presenza di una terza persona in cucina. Ritto in tutta la sua statura, Carter le rivolse un cenno del capo e un inchino, giocando volutamente sulla fermezza del proprio sguardo per godersi l’inaspettato colpo di fortuna. Aveva domandato a lungo informazioni su Sophie Chapman, quel giorno, ma tutti si erano mostrati più che reticenti a fargli qualsiasi sorta di confidenza; non aveva ancora conquistato la loro fiducia e questo avrebbe richiesto più tempo di quanto non ne fosse stato necessario con Besede. «Chi è lui?» domandò alla cuoca e il suo sguardo fu così sospettoso e ostile che Carter non poté fare a meno di sorridere lievemente, mentre si presentava.
«Carter Matthews, per servirvi!» ribatté galantemente, ma l’espressione di lei non si addolcì e, se possibile, il sorriso dell’uomo si fece più ampio e caloroso.
«Dubito che avrò bisogno dei vostri servigi.»
«Per Giove, Sophie! Ti sembra il modo di trattare un ospite?» Besede era incredula. L’aveva lasciata dodicenne impertinente e l’aveva ritrovata, dopo sei anni, donna ancora più testarda ed irritante. Gli occhi della giovane espressero la loro perplessità, mentre le sopracciglia si inarcavano vistosamente.
«Vuoi dire che sarà presente alla nostra cena?»
«Proprio così! Lavora per il signor Woods dagli inizi di Dicembre ed è una persona molto per bene, un caro, caro ragazzo.» le spiegò e il suo tono fu dolce e affettuoso, come se stesse parlando di un amico di vecchia data, di qualcuno che avesse estremamente a cuore. Sophie storse il naso.
«E io credo che tu ti sia fatta un po’ prendere la mano dalle fantasie erotiche, mia cara Besede, perché ne parli con troppo, davvero troppo trasporto.» l’accusò e la sua espressione mutò in un concentrato di pura impudenza e divertimento, mentre l’altra donna si faceva paonazza per l’offesa e cominciava a prendere aria per lanciare una serie di imprecazioni.
«Brutta screanzata, indisciplinata, irrispettosa furfante!» tuonò e Sophie rise così di gusto e di un suono così accattivante che Carter sentì il peso di quelle settimane trascorse senza una donna divenire un aggravio insostenibile all’altezza dei lombi.
La mano della giovane corse rapida sulla porta e la scostò, uscendo appena in tempo per evitare un mestolo di legno lanciatole con estrema foga dalla negra. L’uomo osservò la donna abbondante correrle appresso, ma scorse con altrettanta chiarezza il fisico snello della giovane issarsi su uno splendido esemplare purosangue e darsela a gambe lesta più del vento, mentre il cielo imbruniva sempre più.
«Torna subito qui! Dove stai andando? Piccola impostora!» le urlò dietro Besede, ma Sophie era troppo lontana per poter sentire quegli ultimi improperi. Quando la domestica si voltò per rientrare in casa, lo scalpiccio degli zoccoli del cavallo sul quale era fuggita era oramai il ricordo di una corsa nella sera e Carter Matthews era l’unica persona che potesse aiutarla.
*
Il clima freddo della Pennsylvania era una dolorosa spina nel fianco per coloro i quali erano abituati a temperature miti e alla costante presenza del sole nel cielo. I rigidi mesi invernali, nella suddetta regione, portavano con sé un gran quantitativo di neve, venti gelidi carichi di sussurri e piogge torrenziali, e molto di rado concedevano al grande Occhio giallo di fare lunghe apparizioni. Quel giorno, forse come presente in vista delle festività, la rara eccezione di essere riscaldati dall’alto era parsa una benedizione a molti e, sebbene non un centimetro di neve si fosse sciolto o la temperatura fatta più accettabile, gli abitanti di Altoona avevano accolto con piacere quella novità.
Persino la grande foresta che si estendeva poco più a nord della città sembrava avesse tratto giovamento dal tepore di quella mattina. Gli alberi, denudati del loro fogliame, apparivano spaventosamente spogli e, salvo per gli animali che ivi abitavano e per i migliori conoscitori dei sentieri boschivi, nessuno osava avventurarvisi di propria spontanea volontà. I nativi, con i quali la convivenza era divenuta pacifica col trascorrere del tempo, si erano spostati verso regioni più miti e, nonostante tutti attendessero il loro ritorno col sopraggiungere della bella stagione, c’era un non so che di maggiormente spaventoso nei tratti della foresta alla consapevolezza della loro momentanea assenza.
Più all’interno di quanto l’occhio permettesse di scorgere dai margini del bosco, una conca di discrete dimensioni, ricolma d’acqua, faceva bella mostra di sé e della propria superficie gelata. Attorno ad essa, in un fenomeno che nessuno tra quelli che fin lì si erano avventurati era mai riuscito a spiegarsi, una chiazza modestamente estesa di verde accoglieva la figura possente di un cavallo dal manto color della pece e la sagoma longilinea di una fanciulla dall’animo turbolento e combattivo, che ben si addiceva alla cavalcatura che aveva scelto.
Quando Sophie si trovava in groppa a Tuono, ne percepiva la tensione di ogni muscolo, la possenza delle gambe e dell’addome, il respiro caldo e la minacciosa fierezza che tutto il suo essere emanava. Al galoppo, ogni possibile distanza tra i due si annullava ed era come se la donna divenisse cavallo e il cavallo donna in un inscindibile miscuglio che gli uomini arrivati da poco nel Nuovo Mondo non si sarebbero potuti spiegare. Non era concepibile, per la mentalità razionale dei bianchi d’Occidente, quella che i nativi definivano fusione tra anime, ma la giovane donna non era così sorda ai richiami del suo spirito. C’era qualcosa di selvaggio in lei, qualcosa che in molti avrebbero ritenuto sbagliato e che, da bambina, le avevano fatto pesare fino a farla piangere tra le coperte del suo letto; qualcosa che, tuttavia, non aveva mai rinnegato.
Sophie sapeva di essere diversa, sapeva che doveva esistere, nel suo misterioso passato, una spiegazione a quello che aveva dentro e che, col tempo, aveva imparato a non reprimere, qualunque potessero essere le conseguenze. Lei non era figlia delle convenzioni sociali che vedevano nella donna perfetta un essere docile ed accondiscendente, sottomesso alla voce grossa di quell'uno o quell’altro uomo. Non sarebbe mai riuscita a vedersi zittita solo per timore di una ripercussione o mogia in un angolo in attesa che qualcuno le desse il permesso di mostrarsi. C’era un mondo così grande, al suo interno, che reclamava espressione da diradare ogni possibile obiezione della società. Sophie era come Tuono: non era fatta per essere domata, ma per essere capita e accettata così com’era.
Seduta su un masso con gli stivali abbondantemente affondati nella neve, guardò lo specchio d’acqua gelata dove, da piccina, si era tuffata innumerevoli volte, dopo una rincorsa di metri e metri, e sorrise a quel pensiero con una smorfia a metà tra l’amaro ed il caparbio. Ora che nessuno avrebbe più potuto farle pesare ciò che era, rimpianse di non averlo compreso prima, di aver versato lacrime amare per via del modo in cui era stata guardata. Non avere i genitori era sbagliato, parlare con la gente di colore era sbagliato, correre, inzaccherarsi nel fango, giocare alla guerra con i ragazzetti era sbagliato, rispondere a tono era sbagliato. Esisteva qualcosa nel mondo che, per una donna, non fosse compromettente? La risposta era giunta qualche tempo dopo la sua partenza, quando il suo cuore le aveva suggerito che, qualunque cosa avesse fatto, la gente l’avrebbe additata comunque per il solo gusto di farla sentire fuori posto, arrogandosi un diritto che nessuno avrebbe dovuto possedere su un essere umano. Come poteva un uomo giudicare l’anima di un altro e il modo in cui essa veniva espressa senza mai averne preso visione?
Il muso di Tuono batté contro la sua spalla in un gesto affettuoso e, con un sorriso amorevole, la ragazza si volse, poggiando la fronte contro quella dell’animale e carezzandogli il collo con dolcezza. Quando aprì gli occhi e il verde delle sue iridi si mescolò col nero intenso delle altre, il leggero aggravio che le si era depositato sul petto scomparve e Sophie ritrovò la quiete in una nuvola di fumo condensatasi tra loro.
Il cielo conservava ancora i contorni dell’azzurro, quando un rumore dal folto della foresta la spinse ad alzarsi e a catalizzare la propria attenzione nell’esatto punto in cui aveva sentito scricchiolare i rami caduti di un albero. Aguzzando lo sguardo, scorse una sagoma in sella ad una cavalcatura e, curiosa, si chiese chi fosse e come mai avesse scelto proprio quel luogo per trascorrere le ore antecedenti la Vigilia di Natale. Alzandosi dalla roccia su cui si era appollaiata e raggiungendo la macchia d’erba su cui Tuono era tornato, la sua mano percorse le lunghe chiome corvine dell’animale, intimandogli una calma che sentiva aver abbandonato l’animo del fido compagno.
Stentò a credere a quello che vide, quando la figura del bell’imbusto per cui Besede sembrava avesse perso la testa la raggiunse, mostrando apertamente di aver trovato ciò che stava cercando.
«Ecco il cavaliere senza macchia e senza paura!» fece sarcastica e i suoi occhi, ornati di folte ciglia scure, incrociarono lo sguardo impassibile dell’altro. Non provava simpatia per lui e questo era più che evidente.
«Besede mi ha chiesto di cercarvi e assicurarmi che non vi fosse accaduto nulla di male.» Smontò da cavallo con un unico, rapido movimento e lasciò pendere le briglie, senza preoccuparsi di una possibile fuga dell’animale. Lo sorprese non poco constatare che la cavalcatura di Sophie fosse priva di sella e che il cavallo dall’aspetto selvaggio si lasciasse guidare senza bisogno di essere indirizzato.
«Cortese da parte vostra. Ora, potete pure andare!» Le sue parole, la sua postura, il modo in cui lo guardava, tutto testimoniava quanto grande in lei fosse il desiderio di sfidarlo e Carter percepì così nitidamente quel richiamo da non potersi esimere dal rispondere.
«Ho vagamente notato» e si fermò volutamente per porre l’accento sul sarcasmo di cui erano impregnate le sue parole «che provate una certa repulsione nei miei confronti. Posso chiedervi il motivo?» domandò, mantenendo la posizione accanto al cavallo che l’aveva condotto a lei.
«Faccio fatica a rapportarmi con il vostro insistente modo di osservarmi senza il benché minimo riguardo alla decenza.» gli disse, ma parve chiaro che non avesse ancora terminato. «E mi riferisco sia al vostro comportamento alla locanda che al breve incontro in cucina!» proseguì e la sua irritazione crebbe, quando notò le labbra di lui incresparsi in un sorriso colpevole ma ben lontano dalla possibilità di rimpiangere il suo agire. «Oppure a questo preciso istante, aggiungerei.»
«Devo dedurne che provate poca simpatia per gli uomini?» fece con espressione meditabonda e, quando lei tacque in un invito a spiegarsi meglio, indugiò volutamente sulla bellezza di quel viso femminile dalle sopracciglia aggrottate e dal cipiglio minaccioso. Non aveva mai pensato che una donna di così sconvolgente bellezza potesse nascondere un animo così ardito e furente e si disse che, se mai fosse stata un uomo, sarebbe stato un pericoloso nemico in guerra. «Lo dico perché sono certo di non essere stato l’unico a dedicarvi uno studio interessato e perché conosco molti uomini che potrebbero rimirarvi non con maggiore ma con interesse eguale al mio.»
«Oh, io non ho detto che non provo simpatia per gli uomini, ma vi sto dicendo che non ne provo per voi.» Fu schietta nel suo giudizio, forse precipitosa, ma il suo carattere non era fatto di mezze misure: Sophie era bianco o nero, tutto o niente. Le sfumature, in certi casi, non facevano proprio per lei.
«Solo per il modo in cui vi guardo? Vi scombussola?» chiese e non usò a caso quel verbo. La sua era una frecciatina carica d’insinuazioni, lampante abbastanza da essere colta nell’immediato. E, infatti, la reazione della giovane rispose esattamente alle aspettative di cui era carica la sua domanda. Rise, rise di cuore e con esasperazione, come se quel colloquio le costasse uno spreco di tempo infinito, ma sapesse di non poterlo evitare.
«Non so quali donne frequentate voi abitualmente, signore, ma vi assicuro di non essere come loro. Perciò, no, non mi scombussolate affatto! Non mi piacete nemmeno!» disse e lo guardò negli occhi per fugare qualsiasi ulteriore dubbio. Era un uomo di estrema avvenenza, probabilmente il più aitante che avesse mai incontrato in tutta la sua vita, e c’era un non so che di spavaldo ed audace che l’incuriosiva, perché costituiva una sfida alla sua propensione ai conflitti, ma non voleva averci a che fare ed era fermamente convinta di ciò. Non riusciva a percepirne l’aurea, non riusciva a comprendere che genere di persona fosse, e tanto bastava a non farglielo piacere.
«Voi, invece, mi piacete parecchio.» ribatté serio e Sophie ammise di non essersi aspettata una così secca risposta. Gli uomini con cui aveva avuto a che fare, i damerini che l’avevano spesso corteggiata, non si erano limitati ad esprimere il loro interesse, ma avevano automaticamente supposto che lei ricambiasse sulla sola base della loro avvenenza. Quelle parole, invece, non nascondevano nessun messaggio all’infuori del loro lampante contenuto.
«Allora, secondo le parole che ha pronunciato ieri la locandiera, dovrete essere pazzo…» Le tornarono alla mente gli esasperati moniti di Maria sull’impossibilità di trovare un uomo a quelle condizioni, non con amarezza ma con profondo divertimento. Se anche fosse stato vero, non si sarebbe di certo crucciata della sua solitudine. Aveva tante altre persone nella sua vita da bastarle senza compromessi. Leggera, salì sul dorso di Tuono.
«O cocciuto…» le fece notare e le labbra di lei si aprirono in un sorriso di inconsapevole carica seduttiva. Sophie rise, si chinò in avanti, sussurrò qualcosa all’animale e, con la grazia di un essere indomito, volò via tra gli alberi della foresta.

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Capitolo 4
*** La figura in blu ***


4. La figura in blu

L’oscurità era calata rapidamente dopo il breve colloquio tra i due e un enorme velo nero si era impossessato del cielo, combattendo e sconfiggendo le sgargianti sfumature rimaste dell’azzurro di quella giornata. Nonostante tutto, non una nuvola aveva fatto capolino in alto, non un brontolio aveva sconvolto la quiete delle ultime ore, e il manto d’oblio aveva cominciato ad arricchirsi di tante piccole stelle che, come bruciature sulla sua superficie, ne avevano arricchito le fattezze. Al pari di mille e più lanterne, avevano l’aspetto di bambine capricciose che, per quanto amassero scorazzare nell’immensità della volta celeste, non avrebbero mai abbandonato la luna, simile ad una mamma chioccia preoccupata per la sorte delle sue splendide pargole.
Quella sera, Sophie non aveva partecipato alla cena che aveva coinvolto Besede, Joe, Betty e gli altri della servitù e Carter ne era rimasto sorpreso al punto da chiedersi se la sua presenza non le fosse stata sgradita tanto da spingerla a trovare una scappatoia. Rassicurandolo, la cuoca aveva respinto le sue tacite riflessioni, spiegandogli come la nipote del signor Woods, Catherine, avesse insistito per averla a cena con sé e aggiungendo che, sebbene con una punta di rammarico, non aveva potuto recriminare nulla in proposito alla giovane diciottenne.
Esisteva un legame profondo tra le due ragazze, una connessione che non aveva nulla a che vedere col sangue, con le parentele, con la convenienza. Si erano conosciute da che avevano cominciato a muovere i primi passi e, nemmeno a dirlo, Sophie era stata così travolgente nei suoi modi di fare che Catherine non era riuscita a sottrarsi a nessuna proposta, a nessun gioco, a nessuna marachella. Besede le aveva viste tenersi per mano, sorridersi, addormentarsi, abbracciarsi, lontane da qualsiasi invidia o competizione. Sebbene l’una  avesse sempre avuto ogni cosa e l’altra fosse stata sprovvista persino delle più elementari, Sophie non si era mai crucciata della propria condizione, né aveva permesso che la loro differenza fosse un ostacolo al loro rapporto.
La cuoca aveva parlato a lungo della giovane impudente, quella sera, e calde lacrime avevano indugiato sul ciglio dei suoi occhi al ricordo del giorno in cui l’aveva trovata, avvolta in una pesante coperta, dolcemente addormentata all’ombra di una quercia. L’aveva presa con sé come il dono più bello che la vita potesse fare a qualunque essere umano e, insieme agli altri inservienti, aveva tentato di crescerla ed educarla dandole quanto in suo potere. Erano stati la sua famiglia, le fondamenta su cui reggersi, le persone cui fare affidamento, eppure, a volte, ognuno di loro pensava di non aver fatto abbastanza. Aleggiava, nei cuori di quelle amorevoli persone, l’impressione di guardare Sophie e vedere una meravigliosa ragazza immensamente sola.
Se avessero dovuto contare le occasioni in cui era stata discriminata per l’assenza di genitori, se si fossero dovuti soffermare sulle volte in cui le malelingue del paesino l’avevano descritta come una selvaggia, impedendole di giocare con i loro figli e rispedendola a casa con le ciglia bagnate di pianto, avrebbero attizzato le braci di un fuoco che sapevano sarebbe potuto divampare con forza distruttiva da un momento all’altro.
Un giorno, ricordò Joe, aveva scorto dal portone d’ingresso la piccola figura dai lunghissimi capelli castani seduta su un tronco appena oltre il margine della foresta, indaffarata in un’occupazione che non era stato in grado di distinguere da quella distanza. Quando l’aveva raggiunta, il suo cuore si era contratto con foga ancor prima di sapere cosa fosse accaduto; era bastata la vista di quei grandi occhi verdi arrossati e delle guance rigate di lacrime a straziare ogni cellula del suo corpo. Sedutosi al suo fianco, l’aveva osservata a lungo smussare la punta di un bastone per mezzo di una pietra, finché non l’aveva scagliata lontana con un verso di rabbia, mettendosi le mani ai fianchi. Tutti mi rimproverano e si divertono a dire che non ho una madre e un padre perché sono troppo cattiva!, gli aveva raccontato e, in pochi istanti, il suo cuore ferito di bambina aveva lasciato che pesanti stille salate le bruciassero il viso. Ma loro non potevano sapere che sarei stata cattiva, perché ero piccola, giusto?, gli aveva domandato e Joe si era sentito così pieno di rancore come mai prima d’allora. Nonostante tutto, la sua voce era stata calda e gentile quando le aveva sussurrato che la ragione di quelle sciocchezze fossero l’invidia e l’ignoranza e che non avrebbe dovuto prestarvi ascolto. Lui, Besede, Betty, Catherine non erano forse la sua famiglia?
Quando, tirando su col naso, Besede aveva tentato di cambiare argomento, Carter aveva visto nel profondo dei suoi occhi un’infinita angoscia, un desolante senso di colpa ma altrettanto incondizionato amore, e, inaspettatamente, ne era stato colpito. E i suoi pensieri avevano spesso indugiato, tra una portata ed un’altra, tra un bicchiere di vino e una battuta, sull’immagine spavalda di una bellissima donna che si era ben piantata nella sua mente.
Era stato solo un’ora dopo lo scoccare della mezzanotte che, salutando e ringraziando i presenti, l’uomo aveva varcato la soglia della cucina e si era acceso un sigaro. Schiamazzi e risate provenienti dai piani alti erano parsi soffocati, segno di come la stanchezza avesse cominciato a fare il suo effetto, e, pur tendendo l’orecchio con attenzione, Carter non aveva udito più il rumore della musica o lo scalpiccio delle scarpe signorili intente in balli eleganti o scatenati. Gettando un ultimo sguardo alle ampie finestre della dimora, aveva preso la direzione di casa propria, quella vera che aveva lasciato quasi un mese prima, domandandosi quanto calorosa dovesse ivi essere l’atmosfera e non nascondendo un briciolo di rimpianto all’idea di aver amareggiato l’animo della madre: sentiva la sua mancanza e non si sarebbe goduta appieno le festività senza di lui.
Il ritmo dei suoi passi era lento come lo erano le sue emozioni ed i suoi pensieri. Lasciarsi sopraffare dai sentimentalismi era una debolezza che non si concedeva spesso e, consapevole della decisione presa, si disse che rimuginare non sarebbe servito a nulla. Storse vagamente il naso, riflettendo sulle condizioni della casupola presa per sé in quelle settimane: si trovava a non più di due miglia di distanza dal cancello che indicava l’ingresso alle proprietà del signor Woods e non possedeva nulla che potesse essere piacevole alla permanenza; un letto di fortuna, un tavolo e delle sedie sgangherate, dei tegami in pessime condizioni, un camino che si reggeva a stento in piedi, il tutto compreso in una casa dalle pareti in legno di dubbia resistenza, erano tutto quello che aveva deciso di concedersi. Non aveva voluto dare nell’occhio, né dimostrarsi completamente dipendente dal suo datore di lavoro e, con quella scelta, aveva centrato l’obiettivo.
Aspirando una grossa boccata di fumo, in quell’unica concessione per il suo Natale, oltrepassò il punto d’entrata ai terreni di Jordan Woods e proseguì, imperterrito, per la sua strada. Un soffio gelido agitò i rami caduti sul pavimento di neve e, sostenendo il sigaro tra i denti, Carter alzò il bavero della giacca nel tentativo di proteggere alla bell’e meglio la sua gola. Fu un breve, brevissimo istante di fortuna quello che gli permise di voltarsi appena e scorgere i contorni di una sagoma appollaiata sulla grossa radice di un albero, posto lungo il ciglio del grande sentiero che stava percorrendo. La persona che se ne stava lì, al buio, doveva averlo scorto molto tempo prima, rifletté.
Un fascio di luna penetrava tra gli arbusti alle spalle della figura in questione, infrangendosi a pochissima distanza da essa, e l’uomo notò che, se solo si fosse spostata di qualche centimetro, ne sarebbe stata investita in pieno. Evidentemente, non voleva risultare tanto visibile. Avvicinandosi con cautela, Carter rimase a dir poco stupito quando il suoi occhi incontrarono quelli che, solo qualche ora prima, l’avevano guardato con ostilità ed ostinazione al contempo.
«Non riesco ad evitare la vostra presenza nemmeno mettendomi d’impegno!»
Sophie Chapman lo guardò con un sorriso mellifluo. Indossava un abito blu con scollo omerale, lungo sulle braccia, stretto sul busto in un corpetto privo di inutili fronzoli, che si allargava all’altezza della vita fino al pavimento. Privo dell’inusitato gonfiore che imponeva la moda di quel tempo, scendeva dolcemente a formare una sorta di modesta campana e, sebbene altri strati di tessuto l’accrescessero in volume più per il freddo che per altro, aveva un non so che di diverso rispetto a quanto ci si aspettasse dalle donne di quel secolo. I capelli, raccolti solo nella parte superiore, le cadevano lungo le spalle, la schiena e il petto, mentre la punta era stata arricciata quel tanto che bastava a conferirle un aspetto ricercato senza ostentazioni. Carter la osservò a lungo e in silenzio, saggiando la portata della bellezza che aveva dinanzi, e non si preoccupò di quanto inopportuno potesse apparire. Trascorsero diversi minuti, prima che si decidesse a parlare.
«Evidentemente, il mio impegno nel trovarvi è maggiore del vostro nello sfuggirmi.» La sua voce fu una calda carezza nel freddo dicembrino e Sophie ebbe per la prima volta dimostrazione della reale portata dello sguardo interessato di un uomo maturo. «Come mai non siete con gli altri e vi trovate qui?» domandò, avanzando ancora fino a trovarsi a pochi passi da lei. Una fragranza di pulito e femmineo lo avvolse e, per l’ennesima volta, si accorse quanto sensibile fosse l’animo degli uomini alla presenza dell’altro sesso, quanto la sola vista di una bella donna scaldasse più del migliore liquore in circolazione.
«Ero soggetta ad attenzioni sgradite quanto le vostre.» Dwain Spencer, figlio del conte Francis Spencer, era stato ben più che garbato ed insistente nelle sue moine. Era stato a dir poco soffocante!
«Ho un rivale, quindi?» fece con ilarità e vide gli occhi di lei brillare di malizia.
«Non è ancora arrivato l’uomo in grado di interessarmi, seppur vagamente, e voi siete ben lontano dal poterne avere le fattezze.»
«E, ditemi, cos’ha fatto questo giovane per meritarsi la vostra fuga come ricompensa al suo interessamento?» la pungolò, sedendosi al suo fianco. L’abito che Sophie indossava, per quanto a più strati e di tessuto resistente, non era bastante a proteggerla dal freddo e Carter non poté fare a meno di convenire con Besede: a volte, era screanzata eccome. Lentamente, cominciò a sciogliere i bottoni della giacca, aspirando una boccata di fumo con noncuranza per non dare troppo nell’occhio e non sollevare le premature proteste dell’altra.
«Avete mai visto una barca da vicino? L’esterno, intendo…» indagò e, pur perplesso, l’uomo annuì, raggiungendo gli occhi grandi di lei con i propri e scrutandola nella penombra. «Ecco, era un po’ come quegli animali che si attaccano al fondo della barca e non vogliono saperne di scollarsi.» gli spiegò e il suo tono tradì un’impertinenza mista ad esasperazione tali che Carter prese il sigaro tra le mani, arrestando momentaneamente la sua occupazione, e si concesse una lunga, sentita risata. Nel momento in cui l’ilarità scemò e la cercò nuovamente nel buio, il suo sguardo si fece insinuante, carico di sfida.
«A dimostrazione del fatto che, la scorsa volta, avessi ragione. Non sono l’unico a rimirarvi con molto interesse. Potete odiarci tutti per questo?!» fece e fu più un quesito retorico, di quelli che non richiedevano risposta, piuttosto che una reale domanda. La vide arricciare il naso piccolo e grazioso e alzarsi per fronteggiarlo come il più coraggioso ed orgoglioso avversario, deciso a difendere la propria dignità.
«Posso eccome, signore. Chi ha detto che le donne devono necessariamente sorbirsi i vostri attenti studi o le vostre inutili accortezze?» disse e, nel farlo, indicò con un gesto la sua giacca, lasciandogli intendere di aver compreso quale fossero le sue intenzioni molto prima che egli le palesasse.
«Dovremmo trattarvi come uomini, ordunque?» le chiese e poggiò confidenzialmente una mano sulla vita di lei. Decisa e affatto scombussolata, Sophie gli agguantò il polso e lo allontanò da sé con fermezza.
«Perché no? Avete tutti questa strana, insopportabile idea che le donne debbano essere protette da ogni cosa, quando, in realtà, siete voi ad aver bisogno di sentirvi a tal punto indispensabili da non poterne fare a meno.» rispose, posizionando entrambe le mani ai rispettivi fianchi. Un alito di vento soffiò verso sinistra, muovendole i capelli e appena il vestito, e Carter si beò di quella visione come un ammalato delle cure alle sue pene.
«Posso assicurarvi che molte donne gradiscono questo genere di attenzioni. A dire il vero, nessuna di quelle che conosco troverebbe apprezzabile la vostra idea di lasciarvi tutte quante al vostro destino.» Si scostò dal tronco, sul quale si era sostenuto fino ad allora, quel tanto che bastava per assumere una posizione eretta e farsi più vicino alla giovane che aveva di fronte. Sophie alzò la testa per mantenere il contatto visivo e l’altro sorrise più ampiamente nel constatare quel piccolo dettaglio: capitava di rado che una persona dell’altro sesso non sfuggisse allo sguardo del proprio interlocutore, specialmente se quest’ultimo si esibiva in un atteggiamento lampante circa il proprio interessamento. Il bianco dei denti spiccò sulla pelle ambrata. «Sono curioso di sapere da dove vengono queste vostre idee.»
«Da me, signore.» asserì secca e non la sfiorò neppure vagamente il timore che fosse in compagnia di un uomo forte e robusto, in una zona decisamente solitaria dei dintorni, e che costui  avrebbe potuto approfittare di lei, se solo l’avesse voluto. «E le vostre da dove vengono, oltre che dalla consuetudine a comportarsi come la società comanda, signore?» indagò e il suo tono fu così duro da risultare quasi insultante. Una luce baluginò nelle iridi verdi di lei e i contorni di un sorriso soddisfatto le inarcarono le labbra morbide.
Fu a quel punto che la sua spavalderia subì un attentato, quasi come se la natura stesse mettendo alla prova la fermezza delle sue convinzioni, schierandosi momentaneamente dalla parte di Carter Matthews. Una folata di vento più forte del previsto planò su di loro e fu un caso di enorme sfortuna quello che vide Sophie muovere un passo all’indietro sulla neve, nello stesso istante in cui la furia dell’aria si abbatteva sulla strada. Il suo equilibrio, poco saldo a causa delle scarpe, del rivestimento scivoloso e freddo del suolo e dell’inaspettata spinta ricevuta, venne completamente a mancare e la giovane comprese quale sarebbe stato il suo destino prima ancora che il suo corpo toccasse terra. Fu per quella ragione – E per i motivi che aveva audacemente asserito giusto pochi istanti prima! – che si sbilanciò ulteriormente all’indietro quando Carter tentò di agguantarla e cadde sul pavimento con un sonoro tonfo. Rabbrividì al contatto con la neve, in modo particolare quando non riuscì a proteggere la pelle nuda delle spalle, ma strinse i denti e si proibì di lamentarsi. Tutto ciò che l’uomo poté fare in quel frangente fu osservarla, mentre si alzava con la rapidità di un felino e lo osservava senza il benché minimo imbarazzo. Aveva incontrato donne le cui guance si erano imporporate davvero per molto meno!
«Vi rendete conto che avreste potuto evitare questa caduta, se vi foste lasciata aiutare, piccola orgogliosa che non siete altro?» la ammonì, ma i suoi occhi e tutto il suo volto brillavano di divertimento.
«E voi riuscite a capacitarvi del fatto che mi sono rialzata e sono perfettamente illesa, anche senza il vostro aiuto, sciocco pomposo?!» ribatté, incrociando le braccia all’altezza del petto con espressione saccente. Non avrebbe mai ammesso che riusciva a muovere a stento le dita delle mani, sebbene fosse facilmente deducibile dal loro colorito violaceo, e ringraziò l’oscurità per quel salvataggio. L’unica cosa cui la sua mente riuscisse a pensare erano le coperte che l’aspettavano a casa.
«Gelerete, voi e la vostra linguaccia!» Il tono di voce fu caldo più del sole d’estate e Sophie ebbe l’impressione che, pur a un metro di distanza, il suo interlocutore fosse in grado di toccarla e raggiungerla, in qualche modo.  Nel buio attorno a loro, distinse appena la forma degli occhi e delle labbra ridenti, mentre Carter aspirava un’altra boccata di fumo.
«Vi piacerebbe!»
«Sophie! Sophie!!!» la chiamò improvvisamente una voce ed entrambi sussultarono. Erano stati così immersi in quel loro siparietto da non aspettarsi alcuna intrusione. La voce di Joe, chiara e altisonante, pronunciò il nome della ragazza ancora e ancora prima che ella si decidesse a rispondere.
«Sono qui, Joe!» A distanza, l’uomo aguzzò la vista e, quando scorse vagamente i contorni di una sagoma muliebre, sospirò di sollievo e si fiondò verso di lei, ponendole un pesante mantello attorno alle spalle.
«Ma cosa ti è saltato in mente, Sophie?! Sono tutti allarmati per la tua assenza. Perché sei andata via?!» le domandò e, con energia, cominciò a massaggiarle le mani, scuotendo la testa con esasperazione. «Hai le mani come due pezzi di ghiaccio.» commentò e, preoccupato com’era, non scorse la figura mascolina poggiatasi al tronco dell’albero. La giovane, con sguardo fermo, gli intimò di tacere e Carter aggrottò la fronte, chiedendosi per quale ragione volesse mantenere tutta quella segretezza.
«Ho tentato di farglielo capire, ma non ha voluto darmi ascolto.» fece ed ignorò bellamente l’occhiata fiammeggiante che l’altra gli rivolse. Joe, colpito da quella voce, dovette cercare per diversi minuti nella sua mente, prima di comprendere a chi appartenesse quella voce, e, quando ne pronunciò il nome, apparve sgomento.
«Mr. Matthews? Siete voi?»
«Proprio io!» confermò e comprese le ragioni del monito di Sophie solo quando un pesante silenzio calò tra loro, un silenzio carico di sospetto e preoccupazione.
«E’ qui solo da pochi minuti, Joe. E io sono andata via dalla festa perché non sopportavo più quel damerino, il figlio del conte Spencer. A sapere che avrei incontrato un altro fastidiosissimo uomo con la fissa di proteggere le donne, sarei tornata in camera mia!» spiegò e l'omino parve rasserenarsi, perché Carter percepì la tensione nell’aria allentarsi e quasi scomparire. Accostandosi al duo con una mole imponente rispetto alle figure mingherline che aveva dinanzi, guardò dapprima la donna e poco dopo il maggiordomo, beccandosi un’occhiata truce dall’una e un’espressione a metà tra il sospettoso e il dispiaciuto dall’altro.
«Volete che vi accompagni a casa?» domandò con zelo e infinita cortesia, ma sia lui che Sophie sapevano quale fosse l’intento di tanta premura.
«Per carità! Ne ho avuto abbastanza di voi.» rispose lei e troncò di netto la conversazione, prendendo Joe per il polso e portandolo con sé.
Tornando a seguire la strada che l'avrebbe condotto alla casupola in cui dimorava, col sigaro ancora acceso, Carter godette del pensiero di una calda figura in blu stretta tra le sue braccia, vivace ma pronta ad accogliere le sue attenzioni con trasporto. Quel pensiero lo accompagnò finché non sprofondò in un sonno intenso non più del suo rinnovato desiderio.

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Capitolo 5
*** Guai ***


 
5. Guai
Erano trascorse presso a poco due settimane dal giorno di Natale e l’ultimo dell’anno aveva portato via quel che rimaneva dell’eccitato clima dicembrino. L’attesa spasmodica dei festeggiamenti, della compagnia degli amici e famigliari, dei regali e dello stare insieme si erano attenuati e, pian piano, un po’ per volta, ogni cosa era tornata al suo posto. Le donne avevano smesso di affaccendarsi ore ed ore in cucina nel tentativo di compiacere i propri cari, gli uomini erano tornati a lavoro di buona lena, il paesino aveva ripreso a risuonare del solito, non eccessivamente caotico brusio che da sempre lo aveva caratterizzato e le bestie rimaste avevano potuto tirare un respiro di sollievo, almeno per il momento.
Anche la dimora del signor Woods aveva cominciato a godere di una rinnovata pace e a bearsi dell’agognata tranquillità di tutti i giorni: il periodo festivo era stato così ricco di impegni e preparativi quotidiani che il signore della tenuta, la nipote e la servitù tutta gioirono del silenzio presente in casa e dei ritmi meno frenetici. Gli amici del padrone, benché fossero persone gentili e a modo, appartenevano ad una classe abituata ad un alto tenore di vita, nella quale gli sconti non erano ben visti: il cibo doveva essere sublime, le lenzuola fresche di bucato ogni dì, i domestici pronti a fornirgli ciò di cui avevano bisogno e l’intrattenimento mai banale.
Come ogni anno, Jordan Woods non aveva deluso le loro aspettative e, inutile a dirsi, neppure quelle degli inservienti. Con l’avvicinarsi del Natale, era cresciuta nei loro animi la consapevolezza che avrebbero dovuto sgobbare più che in qualsiasi altro periodo dell’anno e, pur sentendosi in dovere di adempiere ai rispettivi compiti con serietà e zelo, non avevano potuto nascondere parte dell’invidia che provavano verso i signori dei piani alti: sarebbe piaciuto anche a loro stare in panciolle fino a mezzodì, cavalcare, leggere o fare qualunque altra cosa permettesse di svagarsi senza soffrire la morsa della fatica. Sarebbe risultato penoso per chiunque notare la differenza sussistente tra la condotta degli uni e degli altri, ma la povertà è spesso una situazione di disequilibrio e quel caso non faceva eccezione alcuna.
Ad ogni modo, oltre alle risa, alle danze, ai giochi, agli appetiti saziati, quelle feste avevano rivelato tante piccole novità che avevano colto impreparati diverse persone. Una in particolare continuava a far bisbigliare: la corte del giovane figlio del conte Spencer si era fatta asfissiante più di un’enorme nuvola di fumo derivante da un incendio di grandi proporzioni e sembrava che il ragazzo puntasse ben più in alto di quanto ci si potesse aspettare; Sophie aveva sentito il signor Woods borbottare qualcosa di vagamente riconducibile ad un possibile matrimonio tra lei e il damerino poco più che ventenne, invaghito della sua bellezza, e poco era mancato che urlasse a tutti gli invitati non il suo disappunto ma la sua cieca furia.
Erano stati necessari l’intervento di Joe, i consigli di Besede e le preghiere di Catherine affinché non facesse sciocchezze per dissuaderla dall’idea di rivelargli che non avrebbe mai accondisceso ad una sua proposta, nemmeno se una simile unione le avesse assicurato un regale tenore di vita fino alla fine dei suoi giorni e la possibilità di spendere e spandere per le colonie della Pennsylvania. Una sera, la sua collera era stata così acuta che aveva cominciato a raccattare le sue cose in una piccola valigia con l’intento di recarsi presso il porto più vicino e salpare sulla prima nave disponibile per chissà dove.
L’aveva ferita l’idea che il signor Woods, il conte Spencer ed il figlio stessero tramando alle sue spalle, concordi su un’unione per la quale non avevano nemmeno chiesto la sua approvazione, dando per scontati i suoi sentimenti e le sue preferenze come non rilevassero ai fini del piano progettato. Per l’ennesima volta, le era parso che le venisse palesato senza troppi rigiri quanto in poco conto venisse tenuta l’opinione di una donna e la sua disapprovazione aveva sfiorato i contorni dell’odio, in alcuni momenti. Come osavano permettere ad una simile idea di germogliare? Quale scherzo di assai cattivo gusto era quello che la vedeva attorniata da un garbuglio di aspettative il cui centro focale era lei?
Si sentiva la protagonista di uno spettacolo al teatro delle marionette: ognuno cercava di farle fare quello che più preferiva e, infischiandosene di una qualsiasi opposizione, prevedeva di muoverla da una parte all’altra del palco, mettendo a tacere qualunque lamentela. Sebbene le sue membra non fossero legate a nessun filo e il suo temperamento tempestoso non si fosse quietato un solo istante per far valere la sua posizione, Sophie non riusciva a scacciare dalla mente la consapevolezza di essere impotente ai loro occhi. Avrebbe potuto essere dolce e garbata, spiegandogli che non desiderava andare incontro a quel destino, ma avrebbero considerato le sue riserve come testimonianza del suo buon cuore e della sua modestia. Avrebbe potuto urlare e strepitare e, allora, avrebbero visto una pazza in lei. Sarebbe potuta salire in groppa a Tuono e fuggire via, ma l’avrebbero cercata in lungo ed in largo, pensando ad un rapimento. Qualunque fosse stato il suo atteggiamento, sapeva che non l’avrebbero ascoltata, né compresa, né giustificata. Era una donna e, ai loro occhi, l’unica sua reazione, dinanzi alla proposta di matrimonio di un giovanotto ricco e di belle speranze, sarebbe dovuta essere d’entusiasmo. Nulla più.
Non riusciva a capacitarsi, a maggior ragione, del comportamento di Jordan Woods. Possibile che fosse cambiato tanto in quei sei anni? L’uomo con cui aveva avuto a che fare sin da bambina, l’adorato zio di Catherine per cui la nipote avrebbe fatto qualunque cosa, persino sposare una persona a lei poco gradita, le aveva insegnato a fidarsi delle persone, a non diffidare a priori di chi possedeva più di lei con la convinzione che l’unico intento possibile fosse quello di nuocerle, a parlare e spiegare le sue ragioni per chiarire le incomprensioni e, in virtù del bene che Catherine le aveva voluto sin dall’inizio, le aveva fornito un’istruzione degna del fior fiore dell’aristocrazia inglese. Era stata la sua erudizione in merito a permetterle di comportarsi come una perfetta gentildonna ai pranzi e alle cene cui era stata invitata e tanta grazia, unita ad una bellezza sconvolgente e ad un temperamento così ardito e affascinante, aveva fatto il resto, provocandole l’impiccio di una corte sgradita.
L’iniziale galanteria del giovane si era ben presto trasformata in spasmodica ostentazione mirata a colpirla, gli sguardi d’apprezzamento in lunghe osservazioni in grado di metterla a disagio, le gaie conversazioni in sproloqui su promesse che Sophie non avrebbe mai voluto sentire e il garbato modo di offrirle il braccio o chiederle una danza un’occasione in più per stringerla con veemenza e rinnovare il suo oppressivo ardimento. All’infuori delle prime, blande reazioni che l’avevano vista compiaciuta dai cortesi complimenti di un conte ma ferma nel respingerli, l’atteggiamento della ragazza era cambiato profondamente col trascorrere del tempo: era diventata sfuggente, caustica, riluttante anche al solo pensiero di averlo intorno, ed aveva preso ad ignorarlo con cotanta convinzione che la soddisfazione arrecatale dal dispiacere di lui era stato un balsamo per i suoi nervi.
Questo, almeno, prima che il suo piano le si ritorcesse contro. Le distanze che aveva volutamente messo tra sé e Dwain sembrava avessero instillato ancora più a fondo in lui il desiderio di dichiararla di sua proprietà e, benché si fosse negata per lunghi giorni, adducendo le scuse più assurde e rimanendo lontana dalla dimora fino a tarda sera, Francis Spencer e il figlio sembravano più che persuasi a portare a termine lo scopo che si erano prefissati, ritardando la partenza per concludere l’affare in breve. Il conte era un uomo affabile e alla mano ed era rimasto indiscutibilmente colpito da Sophie sin dalla prima sera: non gl’importava che fosse di misere origini, che non avesse una dote e che molti membri della nobiltà avrebbero potuto ciarlare sulla stoltezza dimostrata nell’accogliere un’orfanella cresciuta dai domestici nella propria famiglia. A lui la giovane piaceva e desiderava che Dwain fosse felice! Il resto non era di suo interesse.
A tutto questo, si era aggiunta un’altra voce che Sophie si era quasi rifiutata di accettare per vera, finché la conferma non era venuta dalle labbra di una persona di cui si fidava come di se stessa e persino più. Catherine le aveva segretamente rivelato che Carter Matthews, quel pomposo ficcanaso, si era recato, qualche tempo dopo l’avvento del nuovo anno, presso lo zio di lei con l’intenzione di renderlo partecipe di una verità fino ad allora taciuta. Per quello che Jordan Woods le aveva raccontato tra un borbottio ed una meditazione, sembrava che il trentenne avesse rivelato di non essere mai stato un indigente in cerca di una collocazione lavorativa; si era presentato, quindi, come il figlio di Marcus e Penelope Matthews, i vecchi proprietari di quella che, da circa trent’anni, il signor Woods considerava la sua casa e che aveva migliorato e riportato alle antiche glorie col sudore del suo lavoro e di uomini a lui fidati. Lo aveva reso partecipe delle vicende travagliate che avevano visto i due coniugi prendere le distanze dalla tenuta insieme ai figli e alla servitù e, senza mezzi termini, aveva confessato che un proposito di vendetta avesse guidato la sua cavalcatura sino a lì, il giorno in cui aveva chiesto e ottenuto l’impiego da contadino per le terre del maniero.
Lo zio di Catherine era rimasto meditabondo e la sua espressione era parsa corrucciata, mentre l’altro aveva proseguito con voce rassicurante, giurando sul suo onore di aver mutato pensiero subito dopo il suo arrivo. La ragione per cui era rimasto, non lo aveva nascosto, era dipesa, in parte, dal desiderio di riavere uno dei luoghi a lui più cari e che tanto gli ricordavano la sua beata infanzia e, per altro verso, dal volersi assicurare che quella stessa proprietà prosperasse e non appartenesse ad un avido bagordo. Prima di congedarsi e lasciare Jordan Woods alle sue riflessioni, si era scusato per la finzione e le menzogne, si era complimentato e dichiarato onorato di saperlo signore della sua vecchia casa e, cosa tanto importante quanto strana, lo aveva pregato di mantenere il riserbo circa quella storia, permettendogli di rimanere qualche altro tempo al suo servizio sotto le sembianze dell’umile servo.
Erano trascorsi almeno una decina di giorni da quel colloquio e nulla era mutato rispetto alla considerazione che, tanto in città quanto nei confini di casa Woods, si aveva del bell’imbusto dal carattere silenzioso e dalle membra instancabili. Anzi, Catherine aveva aggiunto che suo zio si era dimostrato di gran lunga più cordiale nei confronti dell’uomo, facendo sì che anche la diffidenza di molti altri lavoratori rispetto al forestiero si attenuasse.
«Buonasera, madmoiselle!» proruppe una voce all’improvviso e Sophie, immersa nelle sue riflessioni alla misera luce del focolare della cucina, sobbalzò vistosamente, spalancando gli occhi e indurendo l’espressione nel timore di essere stata scovata da Dwain Spencer. Un sospiro di sollievo le rilassò i muscoli, quando i suoi occhi scorsero i lineamenti di Carter Matthews affacciarsi attraverso la soglia, e il pensiero di non aver usato il chiavistello, in un atto di imperdonabile negligenza, la portò a corrucciare la fronte. «Sembrate parecchio nervosa, o sbaglio?» le domandò, mentre faceva il suo ingresso nella stanza in tutta la sua statuaria e possente bellezza e si liberava della giacca con atteggiamento confidenziale. Era evidente che si recasse spesso in cucina col benestare di Besede, pensò Sophie e, istintivamente, arricciò il naso.
«Non mi aspettavo un’incursione a così tarda ora, signore, nulla di più.» Rigirandosi la tazza tra le mani, lo osservò accostarsi alla panca prossima al tavolo e prendere posto esattamente dinanzi a lei. «Cosa ci fate qui?» indagò e la sua voce fu velatamente sospettosa.
«Sono assente da qualche giorno e pensavo che Besede avrebbe gradito un saluto.» le spiegò con fare spiccio, dedicandosi, poi, ad un’occupazione che, da un certo periodo a quella parte, si era dimostrata la più gradita tra tante. La sua attenzione si volse completamente verso il centro catalizzatore del suo interesse e vi rimase più del dovuto. Sophie aveva le guance arrossate dal calore del fuoco nel camino, i capelli lunghissimi e ondulati raccolti su una spalla e gli occhi smeraldini frangiati di lunghe ciglia scure, ricurve verso l’alto. Una strana, imprevista ondata di piacere investì Carter e l’uomo lasciò che i suoi occhi si dissetassero della bellezza cui, nelle settimane trascorse, la sua memoria non aveva saputo rendere giustizia. Gli mozzava il fiato ogni sacrosanta volta!
«Avete finito o è previsto che continuiate ancora per molto?» fece irritata e l’altro ridacchiò, poggiando le braccia sul tavolo di assi di legno e puntando il proprio sguardo dritto in quello di lei.
«Dovete scusarmi, signora, ma quasi dimenticavo l’effetto che avete su di me.» disse e Sophie colse la nota di vibrante sarcasmo nella sua voce avvolgente. Placida, portò il bicchiere alle labbra, bevve un piccolo sorso e ristette nella posizione originaria.
«Spiegatemi cosa ci trovate di tanto divertente nell’uscirvene con queste frasi, signore» E si interruppe un istante con calcolata lentezza. «perché io proprio non riesco ad afferrarlo.»
«Divertente, dolcezza? Potrei provarvi ora e subito quali sono gli effetti che la vostra vicinanza mi provoca. Persino pensarvi è più doloroso di quel che credete!» le rivelò e il sorriso lascivo che indugiò sulle sue labbra per più di un istante lasciò intendere con chiarezza quanto impudiche potessero essere le sue fantasie. Una ventata d’imbarazzo le salì alle guance, ma la sua espressione rimase impassibile e, tacitamente, ringraziò il camino per averle fornito una scappatoia al rossore che, altrimenti, avrebbe destato più che un sospetto. Maligna, incurvò la bocca verso l’alto.
«Siete un uomo tanto sensibile, ebbene?» chiese e la sua allusione alla mollezza di spirito arrivò dritta a Carter, che, per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, sentì scalfito il proprio orgoglio.
«Al fascino femminile, estremamente. Tenete pur conto che, da quando sono qui, non è stato semplice trovare una compagnia per le notti più fredde.» rispose, ma la sua lingua sparò un colpo a vuoto. Sophie sapeva molto di più di quello che Carter potesse immaginare e, forse, più di quanto fosse lecito ad una ragazza della sua età non ancora maritata.
«Siete stato costretto a fare da voi, deduco.» disse e mosse la mano in un gesto indicativo del petto di lui. L’uomo inarcò le sopracciglia e mostrò i candidi denti in una smorfia che avrebbe potuto mozzare il fiato alla più reticente delle fanciulle. Sophie ricambiò con espressione innocente e il sorriso più angelico che fosse mai stato visto sulla faccia della Terra.
«E questo da dove viene? Da voi, come i pensieri sulla completa autonomia delle donne?» indagò e riuscì a malapena a trattenersi dal renderle pan per focaccia. Se fossero stati più in confidenza, avrebbe ribattuto in maniera differente, ma, a quelle condizioni, non poteva valicare troppo presto un limite che non era certo di voler oltrepassare. Riteneva fosse la creatura più appetibile, incantevole ed insopportabilmente cocciuta che avesse mai incontrato in vita sua e, indipendentemente dalla giovane età, lo affascinava come nessun altra donna era riuscita a fare; al contempo, tuttavia, non era ancora in grado di determinare se il gioco valesse la candela.
«Un po’ di qui e un po’ di là. Chi può dirlo con certezza?!»
«Vi piace giocare col fuoco, Sophie. Potreste scottarvi, non ve l’hanno mai insegnato?» l’ammonì bonariamente e Carter si stupì quando vide il volto di lei cambiare espressione. Non poteva sapere che, ridestandosi dai più oscuri anfratti del suo animo, si agitò nella giovane il timore di attrarre su di sé le attenzioni di una persona che aborriva quasi quanto Dwain Spencer. E proprio in quell’istante, quando la sua mente si atteggiava a previdente organo, le sue orecchie carpirono il suono di una voce che riaccese in lei le più sconvolgenti emozioni. Sbattendo le mani sul tavolo e alzandosi di scatto, inspirò a fondo nel tentativo di placarsi, ma la rabbia e lo sdegno erano troppo impetuosi perché riuscisse a domarli. Il liquido all’interno della tazza oscillò pericolosamente, fuoriuscendo in parte dall’orlo.
«Giuro che, stavolta, abbiamo oltrepassato il limite.» bisbigliò e la sua voce suonò così furente che, alzandosi a sua volta, Carter si chiese cosa diavolo fosse accaduto, se le sue parole potessero davvero aver provocato una simile reazione. Sophie gli passò accanto con l’incedere di un guerriero avido del sangue del nemico e fu l’istinto che lo spinse a tendere il braccio e ad agguantarla per il polso, tirandosela contro.
«Che sta succedendo?» inquisì e, quando ella si voltò a guardarlo da una così esigua distanza, con gli occhi fiammeggianti di un ardore battagliero come pochi altri ne aveva visti, il trentenne tentennò sui propri buoni propositi di dimostrarsi un perfetto gentiluomo. In quelle settimane, aveva così spasmodicamente rivolto i suoi pensieri verso di lei, sebbene lo ritenesse deleterio, e i suoi bisogni d’uomo si erano così accresciuti al punto da rendere in quel momento ardua l’impresa di non soggiacere ai suoi più bassi istinti.
«Quell’insopportabile, eccitato damerino da strapazzo non si è ancora arreso. Giuro di tirargli il collo con le mie mani e di metterlo a brodo come un pollo!» sbraitò a voce mediamente bassa e, nonostante la collera che le lesse negli occhi ed il desiderio di domandarle qualcosa in più, Carter non riuscì ad impedirsi di scoppiare in una fragorosa risata. Fu la mano piccola e affusolata di lei a interrompere la sua ilarità e ad attizzare un fuoco che stava tentando di domare con tutto se stesso, con ogni stratagemma possibile, perfino l’ilarità: nel tentativo di zittirlo, Sophie gli aveva chiuso la bocca, premendogli le dita contro le labbra, ma dovette repentinamente notare lo scintillio preoccupante di quegli occhi scuri e roventi, perché ritirò altrettanto subitaneamente l’arto. «Siete un guaio, signore! Volete che si sveglino tutti?Ascoltate, piuttosto…» lo invitò nel tentativo di togliersi di dosso la violenta sensazione di aver agito troppo confidenzialmente con un uomo di cui non conosceva nulla. Per quello che ne sapeva, al di là del fatto che provenisse da una famiglia evidentemente molto ricca, poteva essere un bruto, un furfante o un libertino e, pur certa che avrebbe combattuto fino all’ultimo respiro nel caso in cui l’avesse fatta sentire in pericolo, non poteva negare di essergli inferiore in quanto a forza. L’unico modo in cui avrebbe potuto batterlo era l’astuzia!
«Cos’è?» le chiese, ben lungi dall’idea di allentare la presa sul polso sottile della ragazza, ma altrettanto incuriosito dallo strano lamento che le sue orecchie stavano udendo. Sophie si fece di nuovo paonazza e le parole uscirono dalle sue labbra con tale impeto che, tra la sorpresa e lo stordimento per la femminilità che solleticava i suoi nervi, Carter impiegò qualche istante per recepire il messaggio.
«E’ quell’idiota che mi perseguita dalla Vigilia. Lui, suo padre e il signor Woods si sono messi in testa di combinare un matrimonio, ma dovranno passare sul mio cadavere piuttosto.»
«Matrimonio?» fu tutto ciò che riuscì a dire, osservando i tratti del suo viso.
«Già! E’ la cosa più abominevole che abbia mai sentito, persino più di questa sottospecie di serenata. Ma non durerà a lungo, nossignore!» esplose e, con uno scatto secco del braccio, si liberò dalla stretta dell’altro e corse in direzione dell’uscita. Armeggiò col chiavistello, prese una sbarra di ferro posta accanto all’entrata e, spingendo la porta, fu sul punto di oltrepassarla; ma la terra venne a mancarle sotto i piedi, i movimenti del suo corpo cessarono e, in un rapido, inaspettato frangente, fu di nuovo in cucina. Dovette lottare contro se stessa per impedirsi di muovere all’indietro la spranga e fracassare la scatola cranica della persona che l’aveva presa per la vita e bloccata, prima che potesse realizzare il suo proposito. Rigirandosi fulminea tra le braccia di Carter Matthews, Sophie gli sbatté l’asta contro il petto una, due, tre volte e, poi, ancora finché non lo vide crollare sulla poltrona di Besede e boccheggiare nel tentativo di inspirare.
«Cosa vi è mai saltato in mente, brutto idiota?» Quasi urlò, pur essendosi ripromessa di far piano, e le sue mani tremarono sull’oggetto che stringeva in maniera convulsa, mentre il desiderio di proseguire sulla scia della violenza tendeva tutti i suoi nervi. «Tenete quelle luride zampacce al vostro posto, signore. Sono stata chiara?!» Nei suoi occhi, Carter vide scintillare il baluginio delle fiamme del camino a testimonianza di quanto prorompente fosse ciò che si agitava in lei, e, ignorando il dolore al petto, scattò e agguantò la sbarra; la presa di lei, però, era ferrea e, benché avesse la certezza di poter vincere quel gioco di forze con un solo strattone, l’uomo decise di optare per una scelta differente: con due passi lunghi e decisi, la spinse ad indietreggiare finché non l’ebbe costretta contro il muro.
«Signora, avete davvero bisogno di po’ di disciplina.» bisbigliò e il suo tono fu cupo e rabbioso.
«Oh, e vorreste accomodarvi?! La fila è lunga!» La voce di Sophie suonò aspra, ben lontana dall’essere intimorita. La frustrazione e la rabbia che aveva accumulato in quelle settimane sarebbero state bastanti a spingerla incoscientemente contro un’orda di pirati ubriaconi, senza tener conto delle possibili conseguenze. Ed era pur vero che il trentenne avesse fatto la mossa sbagliata nel momento sbagliato: dopo giorni di corteggiamento serrato, la sola sensazione di essere sfiorata da un uomo e mossa come una bambola si era dimostrata sufficiente ad inasprirla più del normale.
«Se fossi vostro marito, vi prenderei e sculaccerei fino a rendervi doloroso persino sedervi.» disse e le sue parole la ferirono così profondamente nell’orgoglio che Sophie perse in maniera definitiva il controllo. Da animo inquieto e passionale qual era, agì per vendetta e furia e il risultato fu che Carter si sentì planare un colpo ben assestato su uno degli arti inferiori e, prima ancora che avesse il tempo di lamentarsi, le ginocchia gli cedettero sotto i colpi del lungo ferro e un secchio d’acqua gelata gli venne rovesciato addosso.
«Sculacciatevi da solo, brutto nobile dei miei stivali!» urlò, del tutto fuori di sé, e pestò il piede contro il pavimento.
Quello che accadde dopo fu un trambusto di proporzioni gigantesche, data l’ora. Con una sorta di basso, rabbioso ringhio, Carter si alzò, intenzionato a fargliela pagare, ma Sophie comprese il suo intento con largo anticipo e, alla domanda lontana di Besede che chiedeva cosa diavolo stesse succedendo nella sua cucina, trovò la scappatoia migliore cui potesse aspirare. Era abbastanza scaltra da sapere che, se fosse uscita all’esterno, si sarebbe dovuta lanciare in una corsa a perdifiato, dalla quale non aveva la certezza che sarebbe uscita vincitrice; e, se fosse rimasta lì, avrebbe avuto ben poche occasioni di opporsi alla sua forza mascolina. L’unica cosa che le rimase fu fiondarsi oltre una delle porte della stanza e raggiungere la camera da letto della negra, che, per sua fortuna, aveva acceso una candela, rendendole più semplice la ricerca. Sentiva i passi decisi e furibondi del suo inseguitore dietro di lei e, quando raggiunse la meta e sprangò l’entrata con una sedia, dovette apparire sconvolta, perché la cuoca la guardò con tanto d’occhi.
«Aprite immediatamente!!!» tuonò l’uomo, al di là dell’uscio, e Besede si dimostrò ancora più sorpresa quando riconobbe il timbro del suo protetto. Il cuore di Sophie perse un battito, mentre tentava di regolarizzare il ritmo del suo respiro, e, ad ogni colpo inferto alla superficie lignea della porta, il suo sgomento, la sua rabbia e, in minima parte, il suo timore crescevano alternativamente.
«Che diamine succede, Sophie?»
Il rumore del legno fracassato fece sobbalzare entrambe e le due donne videro l’imponente figura di Carter Matthews avanzare con decisione nella stanza. La più giovane fu rapida nell’afferrare un candelabro di vecchia manifattura dal mobile alla sua sinistra, un oggetto che ricordava fosse estremamente caro alla negra. Poco male!, si disse, Un po’ di sangue non può essere una così grossa tragedia!
«Dolcezza, che sta succedendo? Siete forse impazzito?» La cuoca, lasciando passare rapidamente lo sguardo dall’una all’altro, non seppe riconoscere il motivo di quell’acredine, ma, per prevenzione, si interpose tra i due, consapevole del fatto che Sophie fosse una bella gatta da pelare e certa che il cipiglio dell’uomo non promettesse nulla di buono. Fu solo a quella ravvicinata distanza che Besede si accorse del vestiario zuppo dell’altro e trattenne a stento un grido di sgomento, cominciando a comprendere cosa ci fosse di mezzo. «E’ stata Sophie?» chiese e, per placare gli animi, lo spinse a spostare l’attenzione su di lei con un gesto della mano.
«E chi altri?! Siete un demonio, donna!!!» fece Carter e, istintivamente, mosse un passo verso di lei, ma si trovò bloccato dalla corporatura importante della negra, che lo spinse indietro.
«E voi siete un eunuco con la testa piena di fuliggine!» ribatté, ribollendo di rabbia. Besede non avrebbe saputo dire chi dei due fosse meno in sé in quel momento, ma le parole di Sophie furono così insultanti che ella stessa trasalì. Dare dello sciocco impotente ad un uomo del genere? Ma come le era saltato in mente?
Il tempo di quella riflessione bastò affinché Carter riuscisse ad oltrepassarla. La cuoca si slanciò per fermarlo in avanti nello stesso momento in cui la ragazza muoveva il candelabro dinanzi a sé con l’intento di colpire Carter e fu una fortuna che la mano di lui le agguantasse immantinente il polso, perché salvò l’altra da una pesante botta in testa. Con uno strattone, il trentenne l’attirò verso il suo corpo e, quando Sophie cozzò contro il suo petto e i loro volti furono ad un palmo di distanza tra loro, nel suo animo si agitò una sensazione concomitante alla rabbia ma di natura diversa. Un tonfo gli segnalò che l’arma usata da Sophie era caduta sul pavimento e le accentuate rughe sulla fronte candida e solitamente liscia di lei lo ammonirono di aver stretto la presa più del dovuto.
«Oh, Signore! Smettetela! Basta!» Besede si catapultò tra i due, prima che Carter riuscisse ad allentare la pressione delle dita sull’arto della giovane, ed entrambi furono spinti ai capi opposti della stanza, ma non smisero di guardarsi. Era una sfida che non erano disposti a perdere, alimentata dall’affronto che ambedue sentivano di aver ricevuto dall’altro, ma le circostanze non erano le migliori per continuare la guerra. Saggio, l’uomo fu il primo a battere la ritirata e ad imboccare la strada verso la soglia, oltre la quale sia Betty che Joe guardavano sconcertati la scena. Prima di varcarla, tuttavia, si voltò a guardarla un ultimo istante.
«Non è finita, donna!» le promise.
«Puoi scommetterci!» giurò lei.

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Capitolo 6
*** Diritto alla felicità ***


6. Diritto alla felicità

Se le minacce avessero sempre una realizzazione materiale, i tre quarti della popolazione mondiale non esisterebbe, sarebbe deturpata o vivrebbe in una condizione di perpetuo affanno. C’è qualcosa di estremamente strano, addirittura di volubile nell’uomo: è disposto a giurare su ciò che gli è più caro di mettere in atto la peggiore vendetta e può, con altrettanta semplicità, lasciar scemare quel proposito. E’ come un secchio pieno d’acqua che, se scosso, perde la sua quiete, il suo equilibrio e  buona parte di ciò che contiene; ma è sufficiente il trascorrere di qualche istante perché tutto torni esattamente quasi come prima.
Ad onor del vero, l’uomo segue un meccanismo più complesso: è, sì, uno scrigno, ma uno scrigno di emozioni. Non di acqua, non di fango, non di cibo. E le emozioni sono diverse da qualsiasi fluido sussistente sulla Terra. Posseggono un miscuglio di indefinibile magia in grado di mutare il carattere di un individuo da un istante ad un altro, facendogli assumere le colorazioni più disparate. Rosso per la rabbia, verde per la gelosia, viola per l’ansia, giallo per la gioia, azzurro per la serenità. E, in questo caleidoscopico spettro di sensazioni, frammenti, disegni e sfumature, non è semplice prevedere la mossa del proprio avversario.
Ciò che Carter Matthews aveva promesso a Sophie era stato di restituirle il torto subito per rinfrancare il proprio orgoglio dai colpi riservatigli dall’impertinente, irrispettosa avventatezza della ragazza che più al mondo aveva osato sfidarlo; eppure, a distanza di settimane, nulla si era abbattuto su di lei. Le sue giornate avevano seguito l’usuale corso cui erano avvezze e l’umore della giovane non era stato condizionato dalla pronuncia di una simile minaccia. Il suo temperamento coraggioso e indomabile non le aveva permesso di temere le conseguenze delle sue azioni e, benché Besede l’avesse messa in guardia sulla possibilità di un inaspettato agguato ai suoi danni, ella aveva vissuto le sue mattine, i suoi pomeriggi e le sue notti con il proposito di fare del suo meglio per svolgere i propri compiti e tenersi il più lontano possibile dalla tenuta Woods.
A dispetto delle sue aspettative, infatti, non un briciolo di arrendevolezza aveva fatto capolino nell’animo dei due conti, che avevano accolto il gentile invito del loro amico di vecchia data a non farsi problemi circa la loro permanenza come un lasciapassare per il prolungato soggiorno. Quando Sophie ne era venuta a conoscenza attraverso Catherine, non aveva saputo distinguere quale emozione prevalesse nel suo animo: se l’ira o lo sgomento. Possibile che quelle persone, così ricche e beneducate, non avessero il minimo riguardo per la cortesia? Che non trovassero oltraggioso usufruire esageratamente dell’ospitalità del signor Woods? E che, soprattutto, non riuscissero a cogliere ed accettare il lampante messaggio che aveva inviato loro con la sua assenza?
Era stato a quel punto che si era verificato l’impensabile. Una mattina di metà Gennaio, Besede aveva trovato sul tavolo della cucina un foglio con poche parole scritte sopra, che recavano la firma di Sophie: ˝Non posso più rimanere. Mi dispiace˝. Le gambe della donna avevano ceduto e, come una marionetta cui vengano tagliati i fili che la reggono, si era afflosciata sulla poltrona più vicina; un lamento si era sprigionato dai recessi più nascosti della sua anima e si era tradotto in un pianto forsennato che aveva svegliato buona parte dei domestici, il padrone di casa e la nipote di lui. Non erano state le spiegazioni della cuoca a delucidare cosa fosse accaduto, perché ella non era stata in grado di proferirne alcuna per ore; persino molto tempo dopo il tramonto, le sue labbra erano rimaste serrate, i suoi occhi persi nel vuoto e la cucina spenta. Betty, Joe e molti altri tra gli inservienti più datati avevano avuto l’impressione di star rivivendo lo strazio che, circa sei anni prima, aveva investito tutti loro e, in particolar modo, Besede, quando la fanciulla era andata via.
A nulla erano servite le squadre di ricerca che Jordan Woods aveva inviato per i territori e le città limitrofe su disperato invito di Catherine: nessuna traccia era stata rinvenuta di Sophie, nessuno l’aveva vista, nessuno sapeva dove fosse o come ritrovarla. Per quanto si fosse impegnato nel prestare il suo servizio in quelle lunghe, faticose ore di estenuante galoppo, neppure Carter Matthews aveva avuto maggior successo e, quando si erano tutti ritrovati nell’enorme salone della dimora, lo stesso aveva constatato di non aver avuto migliori risultati degli altri. La giovane era sparita nel nulla e, se anche fosse stata aiutata da qualcuno, evidentemente era stata così brava da assicurarsene l’assoluta fedeltà.
Da quel giorno, l’atmosfera era rimasta tesa e pesante a lungo e nessuno aveva più udito Besede canticchiare, visto Joe sorridere o Betty tirar fuori il metro per prendere le misure di Sophie e confezionarle un abito; ma erano stati il signor Woods e la nipote a risentire maggiormente di quella sparizione. Sebbene nessuno facesse fatica a comprendere il perché dell’afflizione di Catherine, lo stesso non si poteva dire per lo zio di lei: aveva sempre dimostrato una grande simpatia per la bella morettina e le aveva fornito molti più agii di quanto chiunque altro avrebbe potuto fare; eppure la sua tristezza e la sua preoccupazione erano parse andare molto al di là del semplice affetto dovuto alla trovatella cui aveva salvato la vita.
Nessuno era stato più lo stesso da quella mattina e Jordan Woods era parso continuamente in attesa di una persona le cui tracce erano svanite nel nulla.
*
Era trascorso poco più di un anno da quando Sophie Chapman aveva abbandonato, in una fredda notte di Gennaio, le confortevoli mura della tenuta Woods, portando con sé qualche capo d’abbigliamento e il suo mantello invernale. La primavera aveva iniziato a mostrare i primi segni della sua bellezza e, in trattative con la rigida stagione pronta al letargo, si accingeva a manifestarsi in tutto il suo splendore. Gli alberi, rimasti a lungo spogli, erano ricoperti di boccioli non ancora apertisi alla vita, una ridente erba color verde acceso ricopriva il suolo della foresta e di molti altri terreni, ed un incantevole, timido sole riluceva in un cristallino cielo azzurro.
C’era qualcosa di estremamente piacevole nell’aria. Tutto sapeva di buono e fresco, le persone propendevano molto di più a dispensare calorosi sorrisi e gli animali stessi godevano delle lunghe passeggiate nei recinti o fuori da essi. L’inverno appena trascorso si era dimostrato uno dei più rigidi da che gli abitanti della Pennsylvania avevano memoria ed era facilmente comprensibile il perché di quella gaiezza generale. Perfino i contadini abbandonavano le loro case con maggiore leggerezza d’animo e si dirigevano verso i campi con un rinnovato vigore: la terra profumava di buono e pareva chiedergli di modellarla affinché potesse essere produttiva; gli sforzi delle loro braccia erano ricompensati dall’aspetto vivido e lussureggiante della vita ed il cinguettare degli uccelli era un ottimo accompagnamento al lavoro che, con zelo, si proponevano di portare a compimento. Al di là del sudore versato, dei dolori alle gambe e dei crampi allo stomaco dettati dalla fame, tornare a casa era un piacere e, salvo qualche rara occasione, erano pronti a salutare con un sorriso il resto della famiglia, raccontando con orgoglio della loro giornata.
La Natura tutta risplendeva, rideva e si atteggiava, civettuola, a gran dama, mostrando le proprie rigogliose grazie con impudicizia, spargendo i suoi profumi nell’aria e danzando qui e lì con passo flautato. Le sue gonne di foglie frusciavano nel fresco vento di quel tiepido Marzo, attraendo lo sguardo incantato di uomini e donne, e nessuna creatura umana tentava di oscurarne l’eterna bellezza. Qualcosa di arcano, di inspiegabile si annidava in Lei e, qualunque forma assumesse, riusciva nell’impresa di meravigliare i presenti, tanto col gelo quanto col tepore di un mattino soleggiato.
In quel lungo, interminabile anno, molte cose erano accadute presso la dimora di Jordan Woods e non tutte avrebbero potuto essere considerate positive; anzi, la maggior parte di esse era stata fonte di profondo affanno per l’uomo: la sparizione di Sophie, per quanto tragica in se stessa, aveva portato con sé pericolosi strascichi ed elementi di disturbo che avevano colpito alcune tra le persone a lei stessa più care. La notizia della sua fuga aveva , infatti, allarmato a dismisura il giovane conte Spencer, che aveva sguinzagliato decine e decine di uomini alla ricerca della donna, fulcro dei suoi desideri e delle sue smanie. A nulla erano serviti, tuttavia, i suoi piani più minuziosi, né la disposizione di pattuglie sui sentieri e per le città principali, allorché le sue conclusioni più brillanti non avevano portato al ritrovamento della giovane.
A quel punto, allora, un dubbio infido era sorto nella sua mente e, supponendo di essere stato in qualche modo gabbato dall’amico del padre, aveva lasciato che lo stesso fallace morbo attecchisse nella mente del suo vecchio, fino a schiavizzarne i pensieri. Con fare oltraggioso ed indisponente, avevano minacciato Jordan Woods di far ricadere su di lui pesanti sciagure, se non avesse vuotato il sacco, e, dinanzi alla sorpresa dipintasi sul volto dell’altro, avevano reso più duro e credibile il loro attacco. Il loro orgoglio nobiliare, ferito da una malata idea che nulla aveva a che vedere con la realtà, aveva avuto perfino la meglio sul sentimento d’affetto che, da una vita, aveva legato Dwain Spencer al proprietario della bella tenuta sita nei pressi di Altoona, e la ferita che quella consapevolezza aveva provocato nell’animo del signor Woods si era palesata in tutta la sua sanguinolenta profondità.
Col ruggito di un leone che intenda proteggere il proprio territorio ed il proprio branco, li aveva cacciati dalla tenuta allorché avevano osato promettere di far ricadere le loro ire su Catherine, rendendole la vita molto meno piacevole di quanto lo zio avesse prospettato. E quelle parole non erano volate via, portate lontano dal vento, ma avevano ottenuto materiale applicazione: circa sei mesi dopo la sparizione di Sophie, la nipote del signor Woods aveva conosciuto un giovane di modesta famiglia e se n’era perdutamente innamorata, come mai era accaduto prima d’allora; il ragazzo, Jack, armato dei migliori propositi e di buon cuore, l’aveva ricambiata con lo stesso, identico impeto passionale e le aveva giurato sul suo onore che, se avesse ricevuto il benestare dello zio di lei, sarebbe stata sua moglie e l’avrebbe resa felice nei limiti delle sue possibilità.
Benché Jordan Woods si fosse dimostrato più che ben disposto nei confronti della suddetta unione e avesse dato la sua benedizione ad entrambi, la situazione era precipitata ben presto, quando, in sella al suo cavallo, Jack era stato assalito e quasi ucciso da due banditi vestiti di nero che si erano rivelati al servizio del conte Spencer. Una lettera aveva seguito l’aggressione e il signor Woods l’aveva stracciata rabbiosamente. Il suo cuore si era frantumato in migliaia di cocci, quando aveva dovuto rendere Catherine partecipe della verità e ancor di più nel momento in cui l’aveva vista piangere e disperarsi per la sua sorte: per il bene dell’amato, lo aveva implorato di non farsi più vedere, di starle alla larga e di dimostrarle il suo affetto accondiscendendo alle sue richieste, ma era stata dura ed avevano faticato per nascondere la riprovazione del ragazzo agli occhi esterni.
A nove mesi di distanza dal loro incontro e a più di un anno dalla fuga di Sophie, Catherine e lo zio avevano concordato che l’unico modo per uscire da quel limbo fosse chiedere consiglio ad una delle ultime persone cui avrebbero potuto pensare di fare affidamento: Carter Matthews. L’uomo, a poca distanza dal tragico evento che aveva segnato tanto gli inservienti quanto i proprietari, aveva comunicato al signor Woods la decisione di tornare presso la propria famiglia e grande era stata la sorpresa generale, quando si era diffusa la notizia che colui che aveva lavorato i campi, mangiato con i domestici e vissuto in una misera baracca fosse, in realtà, una persona di alto lignaggio. Perfino Besede, che pareva essere toccata dalle emozioni quel tanto che bastava a non essere paragonata ad un burattino, si era infiammata a quella scoperta e tutto il suo animo era parso ravvivarsi di una luce nuova.
La decisione di Catherine e Jordan Woods era stata seguita da un rapido scambio epistolare con Carter ed il trio aveva concordato di incontrarsi per discutere più approfonditamente dell’argomento. Ma nulla era stato semplice, perché, al di là dell’influenza e della forte personalità dell’aitante trentenne, era necessario muoversi con prudenza. Qualunque mossa, se troppo azzardata, avrebbe potuto mettere a repentaglio la vita di Jack e, nelle innumerevoli cene trascorse presso la tenuta Woods, nessuna via d’uscita era parsa più plausibile e meno rischiosa di tutte le altre, con infinito rammarico tanto della fanciulla quanto dei due uomini.
Era sera inoltrata e, già da un pezzo, una sconfortata Catherine aveva fatto ingresso nelle sue stanze. Il signor Woods indugiava presso il tavolo del soggiorno con un bicchiere di brandy tra le mani e osservava stancamente il bel viso mascolino di Carter, immerso in profonde riflessioni. Pur avendo consumato un eccellente pasto, nessuno dei due sembrava soddisfatto ed entrambi erano ancora alla ricerca di qualcosa che sapevano non avrebbero trovato nel cibo. Jordan Woods era arrivato alla conclusione che Carter Matthews fosse un gran brav’uomo molto tempo prima e, benché si conoscessero soltanto da un anno e mezzo, nutriva nei suoi confronti un’estrema, incondizionata fiducia; l’istinto gli diceva di non disperare e di fare completo affidamento alla persona cui aveva chiesto aiuto ed i fatti supportavano le sue aspettative: da che era arrivato ad Altoona, il trentenne aveva tentato in lungo e in largo di trovare una scappatoia che permettesse a Catherine di coronare il suo sogno d’amore senza inutili e dolorosi spargimenti di sangue e, nonostante fossero ancora lontani dall’avere una soluzione a portata di mano, l’assidua presenza ed impegno dell’altro confortavano il cuore del proprietario della casa come mai avrebbe potuto pensare.
Improvvisamente, un rumore di passi echeggiò nel corridoio oltre la porta del soggiorno ed ambedue si volsero in quella direzione. Avrebbero benissimo potuto ignorarne l’esistenza, se non fosse stato che il rumore di stivali, la leggerezza dell’incedere e lo scalpiccio di scarpette signorili costituissero davvero un ambiguo quadro per quell’ora della notte. Le undici erano passate da un pezzo, oramai, e nessuna visita era attesa presso la tenuta. Che la soluzione che, a lungo, avevano cercato li avesse, invece, trovati da sé?
Una voce femminile, ridotta ad un bisbiglio, pronunciò qualche parola e, pochi istanti dopo, apparve Betty oltre la soglia col viso arrossato, gli occhi bagnati di lacrime ed il fiato corto per l’affanno. Istintivamente, Carter posò il bicchiere e si alzò in tutta la sua statura, pronto ad intervenire qualunque cosa fosse accaduta, ma Jordan Woods non lo imitò: le gambe gli si fecero cedevoli e dovette ingollare il contenuto rimasto nel bicchiere per darsi un po’ di coraggio. Aveva una strana sensazione.
«S-Signore, c’è…» La donnina s’interruppe, coprendosi il volto con le mani per nascondere l’avanzata del pianto, e non riuscì a darsi il contegno necessario per ricomporsi. La porta cigolò alle sue spalle e, una volta spalancatasi, un’altra sagoma apparve agli occhi dei due.
Sophie Chapman, il fantasma che tutti, compresi gli abitanti di Altoona, avevano cercato ma mai trovato, si mostrò in tutta la sua selvaggia, accresciuta bellezza. Indossava pantaloni dello stesso taglio attillato e mascolino che era stata solita vestire un anno e mezzo prima, una camicia di uno strano tessuto che altrettanto provocatoriamente aderiva alle sue forme ed un paio di stivali neri fin sotto il ginocchio; i lunghissimi capelli erano lisci e ricadevano dolcemente sulle spalle e lungo tutta la schiena, sfiorandole con impertinenza il ventre e i fianchi. Le guance erano teneramente arrossate e le labbra color ciliegia piegate in un sorriso imperscrutabile.
«Buona sera, signori!» li salutò e si chiuse la porta alle spalle, subito dopo aver intimato alla cameriera di non fare troppo fracasso, di ricomporsi un istante e di tornare alla propria occupazione, qualunque essa fosse. Sicura di sé, avanzò finché non raggiunse l’estremità del tavolo più prossima all’entrata, opposta a quella occupata dal due all’altro capo della stanza. Carter la osservò poggiare i palmi delle mani aperte sulla superficie di legno levigata e dovette ripetersi più volte di non aver nemmeno consumato un quarto del suo brandy per persuadersi che quella non fosse una visione.
«S-Sophie, mia cara!» balbettò Jordan Woods, riempiendosi gli occhi di quella che, se anche fosse stata frutto dell’alcool e della sua immaginazione, era la visione più bella da molto tempo a quella parte. «Voi siete..?»
«Tornata, sissignore!» concluse al posto dell’uomo e la smorfia che imperava sul suo viso assunse le connotazioni della dolcezza, mentre pronunciava quelle parole. Il suo sguardo, per un attimo, incrociò quello di Carter e costui quasi la sentì rimbeccarlo per la sfacciata osservazione cui la stava sottoponendo, quando la vide storcere il naso. Un accattivante sorriso apparve sulla bocca del trentenne e, nel momento in cui si sedette, percepì riaccendersi, nel suo io, fuochi che si erano sopiti diverso tempo addietro.
«Perché?» le chiese flebilmente il signor Woods e Sophie tornò a guardarlo con lo stesso affettuoso calore che era solita riservare ad un numero molto esiguo di persone.
«Perché era tempo che io tornassi.» La sua voce fu un balsamo per gli affanni che avevano compresso il cuore dell’altro e la ragazza lo osservò chiudere gli occhi e sciogliere, con un sospiro, il nodo che fino ad allora gli aveva avviluppato ed indebolito l’animo. Lentamente, raggiunse il posto alla sinistra di lui e si sedette proprio di fronte a Carter, non prestandovi, tuttavia, attenzione.
«Dove siete stata?» fece l’uomo con voce debole e Sophie strinse con le dita affusolate quelle callose dell’altro, comprendendo cosa si celasse dietro quella domanda: la richiesta di delucidazioni.
«Con i nativi, signore. Li ho raggiunti e mi sono spostata con loro come parte del villaggio. Mi hanno accolta calorosamente, mi hanno insegnato più di quanto potessi immaginare, ma sia io che loro sapevamo che sarei tornata quando fosse arrivato il momento più opportuno, così come, un anno e mezzo fa, sapevo di non poter restare.»
Carter la studiò a lungo e gli risultò sorprendente constatare quanto infinitamente maggiore fosse la bellezza di lei. Le sue movenze, la sua voce, il suo sguardo avevano acquisito una pacata saggezza che in nulla contrastava con l’essere battagliero di cui la sapeva capace; era come se le due parti di cui era composta l’anima di Sophie si fossero equilibrate ed avessero trovato il perfetto punto di incontro per compensarsi. E l’uomo si trovò a desiderarla con un ardore neppure vagamente paragonabile a quello passato: in tutti quei mesi, aveva cercato in ogni donna che avesse conosciuto la stessa spavalderia, la stessa vivacità, la stessa impudenza, la stessa incantevole bellezza di Sophie, ma erano state ricerche vane, perché nessuna aveva retto il confronto neppure con la sfocata immagine che la sua memoria aveva conservato di lei. A quel punto, si sentì spasimare per il desiderio di averla e una parte di lui comprese cosa avesse portato Dwain Spencer ad incaparbirsi fino a quel punto.
«Non potevo sposarlo, signore. Non volevo e non voglio. Le mie posizioni rimangono fermamente le stesse e perdonatemi, ma sarò costretta ad andarmene ancora, se fosse nei vostri progetti l’idea di darmi in moglie a quell’uomo.» chiarì con voce seria, ma, quando l’altro aprì gli occhi e la guardò dritto nei suoi, qualcosa ammorbidì la rigidità delle sue scelte negli anfratti più remoti del suo io.
«Vorrei non aver cacciato né te né Cath in un simile pasticcio, Sophie.»
«Che intendete dire?» Un allarme prese a rimbombare nella sua testa ed ogni muscolo del suo corpo di contrasse, mentre attendeva la risposta. Cos’era accaduto in tutto quel tempo?
«I conti Spencer non hanno allentato la presa. Pensano che, dietro la tua fuga, ci sia il mio zampino e, qualche settimana dopo la tua scomparsa, hanno minacciato di vendicarsi su Catherine.» Una lunga pausa seguì quelle parole e i minuti continuarono a trascorrere interminabili. Sophie scostò la propria mano da quella di Jordan Woods e, quando lo guardò con maggiore insistenza e non riuscì a trovarne lo sguardo, perso in chissà quale congettura, dovette cedere e rivolgere la propria attenzione alla sola, altra persona presente in quella stanza. Fermi, i suoi occhi mantennero l’insistenza di quelli di Carter.
«Le hanno impedito il matrimonio con un bravo ragazzo, minacciando di ucciderlo brutalmente, a meno che voi non foste riapparsa. Sono trascorsi nove mesi circa da allora…»
Sophie aveva distolto lo sguardo molto tempo prima che l’uomo finisse di spiegarle le ragioni dei guai dei due Woods ed il suo cuore aveva cominciato a palpitare con una tale frenesia che aveva dovuto poggiare la schiena contro la sedia e serrare le mani intorno ai braccioli per impedirsi di comportarsi in maniera sconsiderata. Quando, più di un anno addietro, si era lasciata alle spalle Altoona in groppa a Tuono, il suo unico intento era stato quello di sottrarsi ad una sorte cui non sarebbe mai potuta soggiacere; l’idea di trascorrere la vita intera accanto ad un uomo che deplorava e le cui smanie oltrepassavano qualunque soglia del buonsenso le era stata insopportabile, al punto tale che non aveva trovato altra scelta all’infuori della fuga. Mai e poi mai avrebbe immaginato che la salvaguardia delle sua felicità avrebbe potuto comportare l’infelicità della persona cui teneva di più al mondo.
«Non esiste altra soluzione all’infuori del matrimonio con lui?» domandò e le parve di sentire già la risposta dell’uno o dell’altro condannarla ad una miseria perpetua. Avrebbe dovuto scegliere tra il sacrificio della sua vita e quella di Catherine: in entrambi i casi, ne sarebbe uscita fuori sconfitta.
«Abbiamo tentato ogni sorta di piano,» L’uomo alla sua destra si poggiò altrettanto stancamente contro lo schienale dell’alta sedia e scosse il capo, massaggiandosi le tempie con le dita come se, da quei circoletti, dipendesse la sua capacità di raziocinio. «ma non abbiamo trovato nulla che non fosse troppo azzardato e poco credibile.»
«Una ci sarebbe, a dire il vero…» proruppe d’improvviso Carter e tanto Sophie quanto il signor Woods gli indirizzarono uno sguardo, rispettivamente, perplesso e sgomento.
L’espressione del trentenne rimase impassibile, mentre incideva le iridi verdi della giovane con le proprie e ne saggiava la forza, ed una strana sensazione, a metà tra il tripudio e la cautela, si agitò al suo interno: nel momento stesso in cui Sophie aveva varcato la soglia, un’idea pressante aveva cominciato a modellarsi nella sua mente e, col trascorrere dei minuti, aveva acquisito sfumature così nitide e sensate da risultare perfettamente coincidenti con i propositi di salvezza di Catherine e con le sue aspettative.
«Quale? Di che si tratta?» lo incalzò il signor Woods, facendosi avanti sulla sedia.
«Se si dimostrasse che Sophie è sposata ad un altro uomo per cui voi non nutrite particolare simpatia, il conte Spencer non potrebbe avanzare nessuna accusa contro di voi e la sua ira si abbatterebbe non più su Catherine quanto sull’uomo che gli ha sottratto ciò che desiderava di più al mondo.» spiegò ed un sorriso appena percettibile inclinò le sue labbra, lasciando intendere a Sophie quale fosse il suo intento e cosa stesse proponendo di fare. Assottigliando lo sguardo, la giovane fece segno di no con la testa in maniera così discreta che Jordan Woods, troppo immerso nel tentativo di comprendere la fattibilità di quel piano, non riuscì a scorgerla; Carter sorrise più ampiamente.
«Ma Sophie non è sposata e con chi…» fece per dire, ma le parole gli morirono in gola, quando la ragazza sbatté con violenza le mani sul tavolo e si alzò di scatto, puntando gli occhi in quelli del trentenne e sibilando tre parole.
«Con voi, scommetto!» Lo stesso impeto di un anno e mezzo prima, quello che l’aveva da sempre  contraddistinta, divampò e il trentenne godette di quella visione come un uomo gioisce delle sventure del suo peggior nemico. Jordan Woods scosse il capo, nel tentativo di scrollarsi di dosso la sensazione di confusione che quelle novità gli avevano scaraventato addosso.
«Ma come?» chiese timidamente l’uomo.
«Io ho lasciato casa vostra non più di una decina di giorni dopo la fuga di Sophie. Voi avete scoperto che altri non sono che il figlio dei vecchi proprietari della dimora e che ero intenzionato a riprendermela, forse con l’inganno. Sono arrivato da qualche settimana e la mia partenza ed il mio ritorno combaciano con quelli di Sophie. Non dovrebbe essere troppo complicato persuaderli che il motivo per cui sono tornato sia quello di approfittare del vostro disagio con gli Spencer per riprendermi ciò che ritengo mi spetti di diritto.» disse ed il suo discorso fu talmente lineare e persuasivo che la giovane per prima stentò a trovarvi una pecca. Se davvero, come lui diceva, i momenti del suo allontanamento e della sua attuale visita coincidevano agli stessi in cui lei aveva fatto i bagagli ed era, poi, ritornata, la soluzione si faceva ben più plausibile di quanto si fosse immaginata.
Con un lamento spazientito, si allontanò dalla tavola e si diresse verso le grandi finestre della stanza, scostandole quel tanto che bastava a scorgere l’esterno della dimora. I mesi trascorsi lontana da lì erano stati alcuni tra i più sereni e gioiosi della sua intera esistenza e l’idea di essere ad un passo dal precipitare in un abisso di tribolazione ed affanno le rendeva amaro il pensiero di aver ascoltato il suo cuore, quando le aveva suggerito che esistessero molte buone ragioni per ripercorrere gli stessi viottoli all’inverso. Gli unici due sentieri che si prospettavano dinanzi a lei, segnando il percorso del suo avvenire, la vedevano sposata a due individui per cui non aveva nutrito che disappunto e contrarietà e, per quanto riconoscesse di non poter attribuire a Carter Matthews la stessa meschinità del conte, era persuasa che la sua vita accanto al trentenne non le avrebbe riservato la felicità in cui aveva sperato di incorrere.
«Ma perché avreste dovuto sposarla?» inquisì Jordan Woods, lasciando correre lo sguardo dalla schiena della fanciulla che adorava al volto dell’uomo che avrebbe potuto salvare Catherine.
«Signor Woods,» Un sorriso ammiccante gli si dipinse sulle labbra e la sua voce divenne calda. «Sophie è una donna d’incredibile bellezza. Non crederete che il conte Spencer sia stato l’unico a notarlo.» Un’allusione neppure vagamente velata trasparì dalle sue parole e una luce parve accendersi nella mente dell’altro.
«E sareste davvero disposto a sposarla?» Una sorta di incredulità infantile si dipinse in quegli occhi azzurri come il cielo, mentre attendeva la risposta di Carter, e Sophie trattenne a stento l’impulso di urlare come, ovviamente, quello sciocco, burbero fantoccio fosse disposto a prenderla in moglie. Non aveva dimenticato la promessa che, più di un anno prima, le era stata fatta nella stanza di Besede ed era certa che ogni cosa, in quel teatrino organizzato a regola d’arte, mirasse al raggiungimento dello scopo che si era prefissato. A distanza di tempo, rimpianse di non aver sporcato di sangue il candelabro della negra: se anche non l’avesse ucciso, sarebbe riuscita a soddisfare parte della furia cieca che galoppava per il suo animo in quel frangente e a rendere meno incalzante il tiro mancino che Carter Matthews le stava giocando.
«Siete stato un uomo infinitamente buono con me, signor Woods, e avete continuato ad esserlo anche dopo aver saputo dei miei originari intenti. Avete accondisceso alla mia richiesta di riserbo e mi avete salutato, al mio congedo, con gentilezza e senza recriminazioni. Inoltre, è merito vostro se quella che un tempo era la mia dimora continua a prosperare ed è un punto di riferimento per gli abitanti di Altoona. E’ il minimo che possa fare per voi!» rispose con lentezza, assaporando ogni singola parola pronunciata, e, pur desiderando infinitamente osservare l’espressione di Sophie, tanto bastò l’idea di quale potesse essere. Intendeva realmente ciò che aveva detto ed era grato all’uomo che sedeva al suo fianco in una maniera che sarebbe stata difficile spiegare a parole; ma le ragioni sottese al suo gesto erano altre ed innumerevoli e si sommavano a quelle di gratitudine con importanza non inferiore.
«Cosa ne pensi, Sophie? Non devi…» iniziò Jordan Woods e, così come aveva cominciato, dovette interrompersi.
«Non sarò realmente vostra moglie!» Dura, la sua voce tagliò l’aria e raggiunse i due uomini, che, quasi contemporaneamente, si voltarono al suo indirizzo. Mentre Sophie tornava a rivolgere loro lo sguardo, Carter si alzò e la guardò con curiosità estrema. «Non ho intenzione di essere davvero vostra moglie. Mi presenterete come tale, mi esibirete se lo vorrete, ma non dormiremo insieme, mai.» Calcò l’accento sull’ultima parola ed il suo messaggio arrivò in maniera così diretta che il più anziano dei tre arrossì vistosamente e cominciò a tossire, imbarazzato. «Il nostro è un contratto e nulla di più!»
«Se sono delle condizioni quelle che volete porre, ho le mie, signora: vi comporterete da moglie amorevole dinanzi ai miei famigliari ed amici, e verrete a vivere con me, lontano da qui.» Quelle ultime parole furono come un fulmine durante una notte di tempesta: rimarcarono l’insopportabile aspetto che il suo futuro si accingeva ad assumere e, per quanto tenace fosse la sua espressione, Sophie sentì un profondo senso di sconforto assalirla e fiaccare il suo animo battagliero. Ciò a cui stava andando incontro era di gran lunga peggiore di qualunque cosa avesse mai dovuto affrontare in tutta la sua vita. Stava per legarsi per la vita ad uno sconosciuto per il quale non nutriva alcuna simpatia e le cui uniche intenzioni avevano a che vedere con la vendetta; le aveva già tolto, in men che non si dica, la libertà, l’affetto delle persone a lei più care e la possibilità di essere se stessa in pubblico. Cos’altro avrebbe dovuto sopportare?
«Sophie, ascoltami, non devi farlo, capisci? Troveremo un’altra soluzione!» Alzatosi dalla propria postazione, il signor Woods aveva raggiunto la ragazza e si era posto dinanzi a lei, prendendole le mani tra le sue. Il modo in cui la guardò fu sincero, affezionato e carico di preoccupazione, al punto tale che Sophie mancò un battito e percepì le sue pulsazioni accelerare.
«In tutto questo tempo, quale altra soluzione avete trovato?!» Il sorriso che le colorò le labbra fu dolce e comprensivo e, sebbene in lei si agitasse il più cruento tumulto, continuò a comportarsi con pragmatica arrendevolezza.  «Non preoccupatevi per me, signore. Ho sempre saputo che sarebbe finita in questo modo…» S’interruppe un istante, intimandosi di trovare il coraggio di dar voce a quello che, fino ad allora, era rimasto un pensiero. Sfilando le mani dalla presa dell’altro, si diresse verso la porta e, quando ebbe oltrepassato la figura di Carter Matthews, dovette impiegare tutta la forza d’animo che le era rimasta in corpo per non serrare i pugni e dargli dimostrazione della sua profonda indignazione. Sul ciglio della porta, si voltò a guardare Jordan Woods. «Chi potrebbe rivendicare il mio diritto alla felicità, se non ho nessuno?!» Quando i suoi occhi si spostarono, infine, sul più giovane dei due, erano freddi e distanti più di quanto non fossero mai stati, ma non spenti. «Preparate quel che dovete affinché sia tutto finito nel più breve tempo possibile. Sarò vostra moglie, se questo permetterà a Catherine di sposare quel ragazzo ed essere felice.»
I suoi passi risuonarono rapidi nel corridoio, quando si lasciò alle spalle la porta semiaperta del soggiorno, e le sue parole echeggiarono nella mente del signore della tenuta ancora e ancora quella notte, privandolo del riposo.
˝Chi potrebbe rivendicare il mio diritto alla felicità, se non ho nessuno?!˝ fu la stessa frase cui Carter pensò prima di assopirsi.
 
 

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Capitolo 7
*** Una rosa cremisi ***


Mi scuso per il ritardo e per gli eventuali errori, ma, sebbene avessi molta voglia di scrivere, gli impegni me l'hanno impedito e ho tentato di recuperare stanotte. Spero non sia troppo osceno! 
Buona lettura.


7.

La notizia del matrimonio della giovane Sophie con l’avvenente Carter Matthews si era rapidamente diffusa presso la tenuta Woods e, sebbene soltanto in pochi fossero a conoscenza della verità, lo scalpore destato tra gli inservienti era stato tale da rendere l’argomento oggetto di discussione non appena si iniziava una qualunque conversazione. La maggior parte della servitù era stata informata dal padrone che la giovane era diventata moglie dell’uomo al tempo della sua fuga, ma Besede, Betty, Joe e alcuni altri fidati sapevano come stessero andando le cose e avevano tentato in tutti i modi di mantenere il più stretto riserbo a riguardo, limitandosi a nulla di più che qualche cenno rispetto a qualunque tentativo di approfondire l’argomento.
I tre, in modo particolare, si erano impegnati ad evitare che la ragazza fosse scorta prima del tempo e che, in qualche modo, i sospetti su quella relazione venissero alimentati. Benché fosse rischioso, infatti, nessuno era riuscito a dissuadere Betty dal proposito di confezionare l’abito matrimoniale e, con assai scarso entusiasmo ma immensa cautela, Sophie si era recata ogni sera nella cucina di casa Woods per consentirle di prenderle le misure e accostarle al corpo uno svariato numero di tessuti. Tutti si chiedevano con quanta foga la cameriera avrebbe dovuto lavorare per rispettare i tempi previsti e l’opinione unanime riteneva che tre giorni fossero ben pochi per riuscire a dar vita ad un abito che fosse degno di essere chiamato tale.
A dispetto della diffidenza generale, Betty aveva lavorato alacremente e non si era lasciata scoraggiare o corrompere da chi l’aveva supplicata di lasciar perdere – Prima fra tutti la futura sposa! – o chi le aveva offerto un aiuto nell’intento di sbirciare la sua opera. Ad onor del vero, l’unico elemento di disturbo alla sua caparbietà era stata l’assoluta apatia di Sophie e le espressioni cupe che, di tanto in tanto, le aveva scorto sul viso. Non era certa che sposare Carter Matthews fosse un bene per la giovane e, in parte, condivideva la diffidenza nei confronti dell’uomo, ma era altrettanto consapevole che nulla avrebbe dissuaso la sua adorata protetta dal sacrificarsi per il bene di Catherine.
Erano trascorsi tre giorni dalla notte in cui ogni cosa era stata pattuita nel soggiorno della dimora e, per coloro i quali erano stati resi partecipi dell’evento, erano trascorse ore febbrili di preparativi e meditazioni. All’infuori di Besede, che si era dimostrata a dir poco entusiasta all’idea di quel matrimonio, non si poteva dire che il trentenne avesse riscosso grande successo tra i domestici più affezionati alla fanciulla. Joe, Betty, Wyatt lo stalliere, Brian il magazziniere e alcuni altri leggevano nella tristezza di Sophie i risultati della loro impotenza: per quanto lo desiderassero strenuamente, non avrebbero potuto interferire in nessun modo, assicurandole la felicità che meritava, né tentare di portare la ragazza alla ragione. Aveva preso la sua decisione ed era più che decisa a portarla avanti!
In tutto quel trambusto e in quell’agitazione, la figura di Carter Matthews non era stata avvistata nei paraggi tanto dei piani alti quanto dei piani bassi. Nessuno avrebbe saputo dire se stesse rispettando le tradizioni, mantenendosi volutamente lontano dalla donna che stava per sposare onde respingere qualunque cattiva influenza, o se avesse dovuto sbrigare delle faccende relative all’imminente unione. Che si trattasse dell’una o dell’altra supposizione, a Sophie poco importava, perché era ben contenta di non averlo attorno e di potersi godere, per quanto possibile fosse, gli ultimi giorni in compagnia delle persone cui avrebbe dovuto dire addio.
Il pensiero che più l’angosciava era collegato all’ipotesi che nulla di tutto ciò funzionasse, che, al di là del suo sacrificio, Francis Spencer non credesse ad una parola del signor Woods e riversasse le sue ire sull’innamorato di Catherine. La notte stessa del suo ritorno, dopo essersi frettolosamente allontanata dal soggiorno per non dover subire le occhiatine soddisfatte del trentenne, una preoccupazione era subentrata nella sua mente e, a tarda ora, si era insinuata nelle stanze dello zio dell’amica per strappargli di bocca la promessa che ella non avrebbe mai saputo nulla della sua scelta, che il suo sacrificio sarebbe rimasto nascosto all’unica persona che, forse, avrebbe dovuto saperlo. Conoscendola, si sarebbe opposta, sentita in colpa e avrebbe tribolato all’idea di averla costretta a quel gesto estremo pur di saperla felice; ma, soprattutto, non voleva che tornasse a rivolgerle la parola per qualcosa che andava al di là del volerle essere ancora amica.
A dispetto dei suoi ripetuti tentativi di avere un colloquio con lei, nonostante fosse rimasta per lungo tempo dietro la sua porta col rischio di farsi cogliere in flagrante e mandare a monte tutto il piano, Catherine non aveva voluto saperne. Il fatto che Sophie se ne fosse andata, dopo tutto quello che avevano passato insieme, senza scriverle nemmeno due righe l’aveva sconvolta e ferita, e le notti insonni trascorse a preoccuparsi per la sua sorte l’avevano sfinita e invelenita più di quanto si ci sarebbe potuto aspettare. Si era sentita tradita dalla persona di cui si fidava maggiormente, respinta da colei sulla quale aveva sempre fatto affidamento e, ancora di più, si era sentita sola come mai era stata nella sua vita, come mai da quando si erano conosciute. A nulla erano valse le scuse di Sophie o le intercessioni del signor Woods, perché Catherine era rimasta ferma nelle sue posizioni.
Seduta nella sagrestia della piccola chiesa presso la quale Carter li aveva indirizzati, la giovane si lisciò l’abito con noncuranza ed un sorriso malvagio le increspò le labbra in una smorfia deliziosa. Convivevano in lei due mondi diversi ed opposti che, per quanto si respingessero a vicenda, non riuscivano a spezzare il legame che impediva loro di prendere strade lontane e mai coincidenti; una metà del suo cuore ardeva del desiderio di rivalsa e l’altra teneva gli occhi bassi, avvolta in un manto tenebroso. E  Sophie era vittima ed artefice di quel conflitto come lo è una strega di un incantesimo d’amore: la pozione avrebbe potuto assicurarle la devozione della persona per cui il suo cuore spasimava, ma sarebbe stata in grado di far tacere la vocina che le ricordava la finzione di quel sentimento?
Il pastore aveva ascoltato attentamente le sue parole, quando, pochi minuti addietro, lo aveva pregato di tener conto di una sua umile richiesta e, se possibile, di accettarla, ed era parso così ammirato dalla ragazza che Sophie aveva ottenuto quanto desiderava con più facilità di quanto si fosse aspettata. Voleva che Carter Matthews avesse un assaggio di quanto ben lungi dall’arrendevolezza si trovasse, di quanto fosse disposta a lottare con le unghia e con i denti al fine di rendergli pan per focaccia, e giurò sul Dio in cui credeva e su coloro che l’avrebbero vista sposarsi quel giorno che gli avrebbe reso ogni ingiustizia cui la stava sottoponendo, che avrebbe sofferto, spasimato e desiderato di non aver scambiato nessun voto coniugale con lei con la stessa disperata convinzione di un condannato al patibolo.
Il cigolio della porta la distolse dai suoi propositi di vendetta e, piano, la sua fronte e le sue labbra si distesero. Gli occhi verdi di Joe, così diversi dai suoi, la osservarono mentre si alzava e sottoponeva al suo sguardo e colsero di lei tutto ciò che un uomo innamorato avrebbe potuto scorgere, al di là delle apparenze: benché la sua bellezza togliesse il fiato e la sua bocca si atteggiasse a ridente, quando le loro mani si toccarono, Joe la sentì tremare in tutto il suo essere e istintivamente strinse la presa sulle dita affusolate che giacevano tra le sue. Entrambi sapevano come quel momento, in un’altra vita, con un’altra donna, in un’altra storia, avrebbe dovuto essere diverso, più lieto, meno gravoso, ma, allo stesso modo, convennero che, nella sua imperfezione, la perfezione di quell’istante rasentava i limiti dell’assolutezza.
Joe non era il padre di Sophie, nelle sue vene scorreva un sangue diverso e nessuno dei diritti che gli erano stati concessi spettavano alla sua persona; nessun altro uomo, tuttavia, l’amava allo stesso modo, con quel delicato trasporto che di rado aveva visto la luce del giorno e del quale ella sapeva molto di più di quanto non le fosse stato rivelato. Le braccia gracili di lui non l’avevano mai stretta o cullata, le sue dita callose non l’avevano mai sfiorata con una carezza, né le sue labbra avevano schioccato un bacio sulla sua epidermide; ma Sophie aveva visto i suoi occhi sussurrarle le nenie più soavi, avvolgerla nel calore di un’affezione che l’uomo non avrebbe saputo comunicarle, amarla come se da un suo sorriso dipendesse la vita intera dell’altro. Avrebbe avuto senso domandare di più?
«So che non dovrei essere io a…» cominciò, ma la giovane lo interruppe con un cenno della mano e l’uomo tacque, chinando il capo verso il basso. Temeva che la sua voce tradisse l’emozione che provava dentro e che parte del suo dispiacere le rovinasse uno dei giorni più belli della vita.
«Non potrebbe esserci nessun altro, Joe, neanche se esistesse.» lo rassicurò e, teneramente, sistemò il suo braccio sotto quello di lui, mentre con la mano libera si calava il velo sul viso.
Ad ogni passo che compirono nel lungo corridoio, riecheggiò nella sua mente un monito che l’invitava a tornare indietro, a fuggire, a non oltrepassare la porta che l’avrebbe condotta alla sua rovina, ma Sophie non vi diede ascolto. Più forte era la voce del cuore che le intimava di salvare Catherine e fare in modo che almeno una tra loro due potesse essere felice e coronare i suoi sogni; non la sfiorò nemmeno lontanamente il pensiero che, da quando si conoscevano, fosse stata proprio lei a non aver avuto nulla tanto da perdere quanto da guadagnare.
Una luce accecante li investì una volta entrati nella parte della chiesa dedicata al culto e, all’infuori dei singhiozzi trattenuti di Besede e Betty, la ragazza non udì nient’altro all’infuori dei suoi passi che percorrevano la navata. Carter la osservò sfilare con la grazia di un angelo, avvolta in un abito di pizzo color avorio che, adornato da una fascia rosa antico al di sotto del seno, scendeva morbido fino in terra, e senza quasi accorgersene la sua postura si fece più rigida e la fermezza dei suoi pensieri parve assuefatta da quella visione. Si era riproposto di mantenere un contegno deciso tanto in chiesa quanto al di fuori di essa, ma non aveva tenuto conto di diversi elementi nel partorire un simile pensiero.
Decisi e dolci, gli archi cominciarono a suonare ed una melodia quasi divina imbevette le mura del piccolo, rustico edificio in pietra scelto per l’occasione. L’interno, illuminato dalla luce di alcune torce e candele, era avvolto nella penombra e, sebbene fosse spoglio e i partecipanti alla cerimonia altrettanto esigui, nessuno parve notare la mediocrità degli addobbi floreali. C’era qualcosa di maestoso nella figuretta che, accompagnata dalla voce quasi divina di una suora che cantava amorevoli parole in latino, avanzava tra i banchi della chiesa e l’atmosfera, per un istante, si fece così suggestiva che nessuno dei presenti ebbe materiale percezione della situazione vissuta: nella solitaria intimità dei loro cuori, ognuno di essi convenne che, se mai gli angeli avessero avuto sembianze umane, non sarebbero stati dissimili da quello che avevano davanti.
In un religioso silenzio carico di rispetto ed ammirazione, lo sposo, il prete e gli invitati tacquero e Sophie proseguì il suo cammino con minor fermezza d’animo. I suoi occhi non avevano abbandonato il pavimento per un solo istante e, tacitamente, si beò della protezione offertale dal velo in pizzo ricamato, lo stesso che, molti e molti anni prima, aveva indossato per le sue nozze la trisavola di Betty e, insieme a lei, tutte le discendenti. Non era pronta all’idea di osservare la mestizia, l’aspettativa ed il dispiacere dei loro volti, né era certa che il suo ardimentoso temperamento non sarebbe venuto meno alla vista dell’espressione vittoriosa dell’uomo che stava per sposare con la consapevolezza che avrebbe dovuto vivergli accanto e privarsi della libertà d’una scelta di cuore.
Non era una persona sentimentale, non amava i piagnistei, le dichiarazioni d’amore melense, l’idea di donarsi ad un altro in maniera incondizionata, ma non aveva mai rinnegato l’idea di poter contare, un giorno non troppo lontano, sull’affetto di qualcuno che si fosse dimostrato pronto ad accettarla, se non per amore, almeno per trasporto. Non era l’idea di rimanere da sola per il resto dei suoi giorni a spaventarla, poiché, in fondo, aveva sempre saputo di non appartenere a nessuno che non fosse se stessa: chiunque l’avesse messa al mondo doveva aver ben ritenuto che fosse meglio disfarsi di un simile fardello, prima che fosse troppo tardi, e, benché quell’idea la tormentasse e le facesse dolere il petto, era essa stessa la ragione per cui era diventata la persona che era, per non dipendere da nessuno, per non lasciarsi ferire, per non soffrire l’evenienza di un distacco ulteriore.
Come qualunque creatura abbandonata e tralasciata lungo la via, Sophie non aveva mai completamente debellato la sensazione di inappropriatezza che la sopraffaceva di tanto in tanto, l’impressione di poter risultare un aggravio di insostenibile pesantezza per le spalle di chiunque ne fosse stato dotato. E, spesso, al cospetto di un’allegra famigliola riunita attorno ad una tavola, imbandita o povera che fosse, aveva provato al tempo stesso una grande invidia ed una grande vergogna: l’una per non aver mai goduto della piacevolezza di un clima simile, l’altra per aver permesso ad un livore così torbido di toccarla. Sapeva, aveva sempre saputo che quella battaglia non avrebbe mai smesso di impazzare nel suo intimo.
Con un sospiro silenzioso, poggiò la propria mano su quella che Carter le tese e lasciò che le dita calde di lui si stringessero attorno a quelle gelide dalla sua. Aggraziata, aggirò l’ostacolo costituito dallo sgabello e affiancò l’uomo, chinando il capo non appena la voce del pastore annunciò l’inizio della celebrazione nuziale. Un improvviso gravame si stanziò nel suo torace e, prima che potesse liberarsene, una serie di calde lacrime venne giù dai suoi occhi, librandosi nel vuoto in un salto coraggioso; la sua vista parve offuscarsi, mentre calava le palpebre sugli occhi e lasciava che le guance le si rigassero di un dolore fino ad allora inespresso.
In quegli istanti, alcuni tra i momenti che più l’avevano segnata scorsero come un fiume in piena dinanzi alla sua mente e si rivide, in breve tempo, bambina, fanciulla, donna. Un sorriso stentato sorse sulle sue labbra e, nel tentativo di reprimere un singhiozzo, si soffermò sul giorno in cui aveva incontrato Tuono per la prima volta, sul sentimento che li legava, sul tempo che avevano trascorso insieme, ma l’esperimento fallì miseramente e dovette portare una mano al di sotto del velo e premerla all’altezza del cuore per impedirsi di crollare. Serrando labbra e denti, si scusò  per avergli provocato così innumerevoli affanni, lo carezzò, cullò e, infine, rasserenò; di frangente in frangente, il suo animo ritrovò quella parvenza di quiete che si era imposto e, cancellati i segni del pianto dal viso, tese la mano sinistra a Carter perché la inanellasse, imitandolo poco dopo.
Non una traccia rimase sul viso a testimonianza del suo tormento, quando il velo venne issato e le sue iridi incontrarono quelle scure dell’altro. Pur puntando fermamente in quegli occhi con lo scopo di non tradire la sua reale debolezza, Sophie non lo guardò nemmeno e, perciò, non poté cogliere la tenera, vivida ammirazione con cui lo sguardo dell’uomo sfiorò ogni suo lineamento. Quella stessa ammirazione, tuttavia, venne ben presto rimpiazzata dallo stupore e, mentre una smorfia fintamente timida increspava la bocca della giovane, Carter rivolse la propria attenzione al pastore, che, in tutta risposta, ammiccò con benevola confidenza all’indirizzo della novella sposa.
«Come avete detto, prego?» chiese conferma il trentenne e la foschia che aveva ottenebrato la sua capacità di raziocinio nel corso della celebrazione parve diradarsi ancor prima di ricevere una risposta.
«Potete baciare sulla fronte vostra moglie, ragazzo!» ripeté l’uomo canuto con un sorriso soddisfatto. Quando gli occhi di Carter tornarono sulla donna e scorse in quelli chiari di lei la più dolce delle soddisfazioni, comprese quale fosse la ragione di quella stranezza e per quale ragione gli fosse stata negata l’opportunità di prendersi il bacio sul quale aveva lungamente fantasticato in tutti quei giorni, assaporandone il gusto col solo ausilio della mente. Doveva aver persuaso il prete ad evitare qualunque effusione in pubblico e, facendo leva su una pudicizia che nulla aveva a che vedere con ciò di cui la sapeva capace, fatto breccia nel cuore dell’anziano.
«Non volete baciarmi, signore?» lo stuzzicò lei e, con falsa modestia, gli mostrò i denti candidi in un sorriso tra i più innocenti che avesse mai visto. Dannazione!, si disse e dovette riconoscerne la bravura, ignorando volutamente gli sghignazzi di una Besede a metà tra l’angosciato ed il divertito. Pur malvolentieri, avanzò di un passo e fece per posare le sue labbra sulla fronte di lei, non prima, però, di averle fatto una solenne promessa col solo ausilio del silenzio: qualunque fossero i suoi piani, quel bacio gli era dovuto e se lo sarebbe preso, che lei volesse o meno, anche a costo di affrontarne la furia.
Un applauso si levò dai presenti, quando, con uno schiocco sonoro, la bocca di Carter sancì materialmente il loro legame, e Sophie fu lesta ad allontanarsi da lui. Con insistenza, la osservò farsi vicina al pastore, carezzargli la guancia rugosa e stringergli le braccia attorno con una dolcezza tale che quasi dubitò si trattasse della stessa ragazza schiva e tendenzialmente acida con cui aveva trattato. Un amico di vecchia data, testimone insieme al suo avvocato della regolarità delle nozze, gli venne incontro con aria baldanzosa e, stringendogli la mano con vigore, sorrise radioso.
«Fratello, ora ho capito per quale ragione sei stato così misterioso sulla ragazza: nemmeno se ci avessi provato, saresti riuscito a renderle giustizia. E’ un incanto!» gli disse Fred, battendogli una pacca sulla spalla e seguendo con lo sguardo l’indirizzo verso cui era rivolta l’attenzione dell’altro. Silenziosamente, entrambi si soffermarono sull’affascinante donna che vestiva un abito da sposa tra i più belli che fossero mai stati confezionati, la ammirarono e stettero a lungo a rimirarla, mentre evitava senza troppe cerimonie le manifestazioni d’affetto dei presenti. «E’ una bella gatta da pelare, Carter. Ti darà un gran filo da torcere!»
«Non ho intenzione di dargliela vinta.» tagliò corto e la sua mascella vibrò di risentimento, strappando una risatina a Fred, che, in tutta risposta, diede di gomito e lo infastidì più del dovuto.
«Non ti è andata giù la storia del bacio, eh?» domandò, ma entrambi sapevano quale fosse la risposta a quel quesito.
Carter Matthews era uno tra gli uomini più orgogliosi e testardi che si potessero conoscere a quell’epoca; tale caparbietà, benché non avesse nulla a che vedere con l’ostentazione e l’altezzosa eccentricità di cui i nobili erano capaci, gli era spesso costata l’attribuzione di aggettivi che lo descrivevano come una persona dura, intrattabile e addirittura capricciosa. Chi lo conosceva realmente, tuttavia, non poteva ignorare come, al di là di tanta cocciutaggine, si nascondessero lealtà, audacia, generosità e bontà e Fred sapeva dell’amico il buono ed il cattivo e aveva imparato ad accettarlo così com’era, elogiandone i tratti positivi e disapprovandone apertamente quelli negativi. Era per questo loro conoscersi bene a vicenda che litigavano di rado: l’uno sapeva quando fosse il caso di evitare la reciproca compagnia, l’altro quando non intromettersi in questioni su cui non era richiesto un suo parere.
«Non mi va giù che cominci ad usare dei trucchetti per venir meno agli accordi.» fece Carter seccamente, ma la risposta suonò incompleta e, in quanto tale, poco credibile persino alle sue orecchie. Aveva ardentemente bramato di impossessarsi di quella bocca dal momento in cui Sophie aveva acconsentito a diventare sua moglie e, al di là delle ragioni alla base della loro unione, si sentiva nel pieno diritto di pretendere quel bacio.
«Non puoi recriminarle qualcosa che non puoi provare, amico mio.» gli fece notare Fred e Carter sorrise della schietta veridicità di quel ragionamento che tanto apparteneva al modo di fare dell’altro. Da che si conoscevano, la sua era stata una filosofia spicciola e concreta, priva di quegli inutili ghirigori e rigiri di cui la imbellettavano sovente le persone del loro rango; ed era per questa semplicità – E per il fatto che gli era sempre stato fedele! – che Carter aveva imparato a trarre grandi pregi dalla sua compagnia e dai suoi consigli.
«Posso farti le mie congratulazioni, zucchero?» gli chiese Besede, una volta avvicinatasi col suo passo ondeggiante, e l’uomo gli concesse un sorriso ampio, annuendo e accogliendone piacevolmente la stretta calorosa con lo stesso trasporto che era solito riservare a chi conquistava la sua simpatia. «Quando partirete?» inquisì ancora la negra, stavolta con un tono assai meno gioviale e con una nota di preoccupazione nella voce. Quasi le si spezzò il cuore, quando Carter le rispose.
«Tra poco, signora mia. Giusto il tempo dei saluti e ci metteremo in viaggio…» Sebbene la sua espressione fosse rimasta impassibile nella sua fermezza, il trentenne dovette ammettere di mal sopportare quella sensazione di sconforto che pareva emanasse dalla persona intera di Besede.
«Ma potrete fare visita alla signora Matthews quando vorrete, ovviamente.» intervenne improvvisamente Fred e Carter gli fu grato per quella salvifica intromissione, che distrasse appena la domestica dall’afflizione che le colmava l’animo. «Perdonate la mia maleducazione, signora. Sono Frederich Ludlow, amico di famiglia dei Matthews e di vecchia data del qui presente.» aggiunse, prendendole la mano ed esibendosi in un galante baciamano che fece colorare le guance di Besede di roseo compiacimento. In fondo, si disse la donna, se le persone al servizio del suo beneamato fossero state premurose e buone quanto lo era lui, Sophie sarebbe stata felice e rispettata in un modo che pochi altri avrebbero potuto assicurarle. «Potrei scortarvi all’esterno?» le domandò e, quasi senza aspettarne la risposta, se la mise sottobraccio, conducendola attraverso la navata con una cadenza che ben si adattava alla fisicità dell’altra.
Carter, dal canto suo, rimase ad osservare il duo per qualche istante con aria divertita, sicché portò il proprio sguardo sulla moglie: alla sua mente tornò la sensazione di freddo che lo aveva pervaso non appena le sue dita si erano strette attorno a quelle gelide di lei e al tremore quasi impercettibile che le aveva scosse, prima che ella ritirasse la mano e gli impedisse di stringerla per infonderle calore e coraggio. I suoi propositi di vendetta avevano trovato completo soddisfacimento quel dì e, con essi, persino le sue smanie sulla figura che aveva tormentato i suoi desideri per più di un anno; eppure un insolito sentimento di tenerezza era germogliato nel suo animo al pensiero di quale grande sacrificio fosse stata disposta a compiere Sophie per il futuro di una persona che, probabilmente, non l’avrebbe mai saputo e apprezzato.
Quando il suo avvocato lo raggiunse, augurandogli ogni bene e assicurandogli di essersi occupato di tutto il necessario affinché la loro unione fosse legale, la sua attenzione fu ben poca e si scusò per la poca cortesia, ma dovette liquidarlo. Sophie aveva silenziosamente imboccato la navata e raggiunto il portone d’ingresso e Carter era più che intenzionato ad impedirle di architettare qualunque altro piano ai suoi danni. Stringendo la mano dell’esile omino e promettendogli un colloquio più approfondito per l’indomani pomeriggio, raggiunse rapidamente l’esterno e scese gli scalini d’ingresso alla ricerca della figuretta in bianco. Non dovette cercare molto, tuttavia, e la scorse poco più in là della carrozza, nei pressi della quale sostavano Besede, Betty, Joe, Wyatt e altri insieme a Fred.
Una folata di vento più invernale che primaverile attraversò la boscaglia che circondava la chiesa, facendo rabbrividire i presenti, tutti eccetto Sophie. Pur con le spalle scoperte e con un vestito che, nella sua delicata eleganza, non l’avrebbe protetta dalla rigidità di quel soffio, ella stentò a percepirne le reali fattezze; i suoi occhi verdi parvero incatenarsi alle sagome che, al limite della radura, attendevano immote un avvenimento qualunque che permettesse loro di farsi avanti. Un uomo mulatto, vestito di pelli, teneva la mano di un bambino dai lineamenti così diversi da quelli dei coloni che la sua bellezza stupì coloro i quali lo videro per la prima volta. Checché il rapporto con i nativi si fosse fatto confidenziale, costoro evitavano che i piccoli del villaggio entrassero in contatto con le brutture di quel mondo che, per quanto affascinante, li spaventava più della furia delle loro divinità.
Sophie condusse le mani all’altezza del pettine sistemato tra i capelli e, con esso, tolse il velo, poggiandolo su una roccia a lei vicina. Lentamente, prese ad avanzare in direzione del duo, la folta chioma mossa dal vento, e l’aggravio di cui aveva patito il peso opprimente tornò a farsi sentire in tutta la propria presenza. Il cuore prese a batterle al ritmo di un’inquietudine che, oramai, conosceva e con la quale temette di dover tornare a convivere, e, per la prima volta dopo anni, si morse la lingua per le sciocchezze che aveva detto e pensato: non era sempre stata sola, non si era sempre sentita di troppo. In quell’ultimo anno, i nativi erano stati la sua famiglia molto di più di quanto Catherine e gli altri non fossero mai stati in quei lunghi diciannove anni.
L’avevano accolta con gentilezza e si erano stretti attorno a lei, quando li aveva resi partecipi delle ragioni che l’avevano costretta a fuggire; avevano condiviso il loro cibo, le loro vesti, i loro insegnamenti, le loro esperienze con lei, benché non fosse stata che un’estranea, e le avevano trasmesso il valore di una fratellanza e di un rispetto che nessun altro uomo bianco avrebbe mai compreso. Le avevano concesso di intraprendere una via di conoscenza alternativa, le avevano fornito l’accesso a ciò che aveva ignorato fino ad allora senza mai ridere della sua ignoranza. Le avevano spiegato e mostrato l’anima del fuoco, dell’acqua, della terra, degli alberi, degli animali, del cielo e le avevano rivelato il valore della riconoscenza e della compassione, nel tentativo di farle vedere ciò che non le era giunto palesemente.
Lo Spirito del Villaggio, un’anziana donna che aveva la padronanza delle più arcane magie, le aveva confessato, un giorno, di aver previsto il suo arrivo e di aver conversato con la sua anima molto tempo prima che le tribolazioni la portassero a cercare il loro aiuto; le aveva raccontato di aver visto, in lei, molto più di quanto ella stessa non conoscesse di sé  e di essersi ripromessa di renderla edotta di ciò che, in germe, il suo cuore già sapeva. Quella diversità per cui l’avevano additata, quelle stranezze per cui si era sentita sbagliata e che l’avevano portata a versare lacrime amare non avevano i contorni dell’errore ma della bellezza, di una bellezza che la cecità del mondo in cui viveva non era il grado di percepire. Nessuna erba, nessun arma, nessuna medicina sarebbe mai riuscita a guarire l’ottenebramento del cuore delle persone che popolavano la sua triste realtà.
Ad un paio di metri di distanza dall’uomo e dal bambino che i suoi occhi e il suo animo avevano riconosciuto prima che apparissero alla vista, Sophie si arrestò e sorrise nel constatare che, alle spalle dei due, era presente il villaggio intero. Il muscolo nel suo petto prese a contrarsi con maggiore vigore e, quando il piccolo mulatto avanzò verso di lei, mancò poco che si piegasse su se stessa, inerme. Muovendosi piano, invece, si piegò sulle ginocchia e attese che la raggiungesse; gli sorrise con gentilezza, nel momento in cui osservò le sopracciglia di lui contratte nell’usuale espressione turbata, e il suo cuore perse un battito o due nel vedere quelle rughe d’espressione sciogliersi in un enorme, genuino sorriso e le guance ambrate colorarsi, mentre le piccole mani le porgevano una rosa cremisi come il sangue.
Le dita candide della ragazza sfiorarono la guancia paffuta del bambino con una delicatezza tale da muovergli l’animo e il suo stesso intimo vibrò, quando le braccia del piccolo si strinsero attorno al suo collo per un fugace momento e la sua piccola bocca sfiorò le labbra vermiglie di lei con un bacio innocente, prima di fuggire al riparo dal suo sguardo dietro le gambe del padre. Sophie rimase immobile qualche istante, osservando mestamente la rosa che giaceva sul sentiero sterrato, e, quando infine la raccolse, ne percepì la fragilità come se le appartenesse. Il vento, lo stesso di poco prima, le mosse ancora i capelli ma non più di quanto quel gesto le avesse mosso l’anima.
Alzandosi, attese qualche istante e sorrise, quando lo Spirito del Villaggio, con la sua andatura claudicante, le si fece incontro. In quegli occhi grigi e battaglieri con cui aveva riscoperto nozioni che non aveva neppure saputo di possedere in sé, rivide i tormenti di una vita di lotte e rinunce che non sempre le avevano concesso il dono della felicità, e, istintivamente, Sophie si chiese se le sarebbe spettato lo stesso destino, se le dita della sua mano prevedessero per lei un cammino irto che, soltanto molto più in là con gli anni, si sarebbe spianato dinanzi ai suoi occhi. Immobile, ristette nella medesima posizione, quando la donna le avvolse attorno alle spalle un mantello rosso all’esterno e blu all’interno o viceversa, a seconda del modo in cui l’avrebbe usato. C’era qualcosa di selvaggio e, al contempo, pregiato nel taglio quanto nel tessuto e la giovane lo sentì suo prima ancora di averlo tastato con le mani.
«Qualunque cosa accada, qualunque cosa gli altri dicano di te, non smettere mai di essere te stessa. E che lo Spirito della Terra ti protegga sempre, figlia mia!» le disse, carezzandole la guancia con la mano rugosa. Nelle iridi verdi della donna più bella che avesse mai visto in tutte le sue vite, lo Spirito del Villaggio vide una miriade di sentimenti contrastanti tra loro ma non la paura: c’erano malinconia, rabbia, tristezza, tenerezza, desiderio di rivalsa, tenacia, forza, ma non timore, non arrendevolezza, non subordinazione. Rimirò divampare, in quell’animo, un fuoco che nulla avrebbe spento e, sebbene voltarle le spalle e tornare alla vita di tutti i giorni fosse doloroso, ne fu rincuorata.
Sophie osservò i nativi indietreggiare, a poco a poco, nel folto della foresta e, a sua volta, s’incamminò verso la vita che l’aspettava. Ignorò gli sguardi di chi avrebbe voluto sapere, di chi avrebbe voluto capire e strinse tra le dita il gambo della rosa, le cui spine la punsero fino a ferirle la carne e a farla sanguinare; ella sorrise, consapevole che quel dolore fosse l’esatta testimonianza del suo essere viva, della sua capacità di sentire e percepire, e comprese cosa si celasse al di là di quel dono. Benché la bellezza del fiore contrastasse con l’asperità del suo gambo, ciò non aveva impedito al bambino di protendersi e coglierlo; lo stesso sarebbe accaduto con lei a tempo debito, con la persona giusta, con l’ardimento sufficiente.
Docile, lasciò che Joe le avvolgesse le dita lese attorno ad un fazzoletto bianco e permise ai presenti di salutarla un’ultima volta. Quando il rituale fu terminato e molte lacrime furono versate da buona parte dei domestici, Sophie si resse alla mano del marito e, senza troppe cerimonie, prese posto all’interno della carrozza. In quell’esatto frangente, ebbe l’impressione che una parte di lei fosse rimasta fuori dall’abitacolo, che avesse seguito i nativi e avesse deciso di rimanere nei pressi di Altoona, ma non se ne crucciò, né tentò di costringerla divenire parte di quel viaggio.
Carter salì qualche istante dopo, seguito dal giovane uomo con cui Sophie aveva visto ciarlare Besede, ed entrambi sedettero nel divanetto di rimpetto al suo. Il primo batté un colpo sul tetto della vettura, urlando un ordine secco, e, poco dopo, la carrozza partì. L’ultima cosa che gli occhi di Sophie videro fu il signor Woods scendere dalla sua cavalcatura e guardarli sfrecciar via senza poter fare nulla per fermarli: era arrivato tardi persino per un ultimo saluto.
 

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Capitolo 8
*** Il viaggio ***


8. Il viaggio
 
Dal momento stesso in cui la carrozza aveva iniziato la sua marcia, non per un istante il suo incedere era stato fermato. Talvolta sobbalzando, talvolta con pacatezza, avevano attraversato sentieri battuti, viuzze nascoste tra i boschi, strade larghe e trafficate, ed il viaggio aveva seguito il suo corso senza alcuna interruzione. Il tempo, del resto, era stato giocondo e, sebbene il sole fosse stato nascosto per buona parte dell’iter da nuvole non altrettanto benevole, erano riusciti ad evitare lo smacco di una tempesta nel bel mezzo del nulla. Qualcosa aveva suggerito a Sophie che l’intento del marito fosse quello di scongiurare qualunque sosta e raggiungere il prima possibile la destinazione che si era prefissato, supponendo che fosse la casa di lui, e pareva che ogni elemento della natura volesse agevolarne gli obiettivi.
Benché il suo animo fosse stato tutt’altro che disposto alla conversazione, la ragazza aveva sorprendentemente trovato un amabile interlocutore in Fred, l’amico di vecchia data del marito: era un uomo dai capelli rossicci e dall’espressione ridente, poco più giovane di Carter ma non da meno quanto a fascino. Non possedeva, di certo, lo stesso taglio virile del viso o la stessa imponente figura, ma la dolcezza che emanava dalla sua persona e la tenerezza del suo sorriso gli permisero di conquistarsi la simpatia di Sophie molto prima di quanto non avesse fatto l’uomo che si era costretta a sposare.
Durante quelle lunghe, interminabili ore, Fred le aveva raccontato aneddoti divertenti sulla sua vita e sulle sue conquiste amorose, le aveva svelato alcuni dei segreti più strani appresi durante le notti di passione con le donne più svariate e le aveva posto domande su domande riguardo i suoi trascorsi. Il vivo interesse degli occhi nocciola di lui l’aveva spronata a non trattenersi più del dovuto e, sebbene avesse omesso alcune informazioni qui e lì e le sue risposte non avessero brillato in sincerità, aveva saputo mantenere viva la conversazione, gettandosi completamente in quel passatempo in grado di distrarla dalla scomoda presenza del marito.
Nonostante non avesse quasi pronunciato parola, infatti, e ogni tentativo di Fred di introdurlo nella conversazione fosse miseramente fallito, non era trascorso un solo istante senza che Sophie avesse percepito gravare su di sé l’insistente sguardo di Carter. Si era sentita studiata, controllata, denudata e tutta la sua persona aveva vibrato d’indignazione per la posizione in cui era stata messa da un simile comportamento; a nulla erano valse, tuttavia, le occhiate di fuoco che gli aveva indirizzato, perché, se possibile, l’attenzione del marito era divenuta ancora più insistente e, in diverse occasioni, aveva scorto sulla sua bocca l’ombra di un sorriso soddisfatto, quasi già sapesse quanto nervosismo e rabbia fosse in grado di suscitarle.
Era trascorsa poco meno di un’ora da quando avevano interrotto brevemente la marcia per lasciare Fred in un albergo di una cittadina lontana all’incirca sei ore da Altoona e Sophie aveva cominciato a sentire il peso della stanchezza come non era accaduto dall’inizio del viaggio. Dal momento in cui la presenza dell’amico del marito aveva avuto la capacità di rendere piacevole perfino una traversata tanto faticosa, la sua assenza era stata in grado di produrre effetti altrettanto notevoli, rendendole quell’ulteriore tratto di strada spossante più di quanto non fossero stati quelli antecedenti. In quei cinquanta minuti buoni, il suo sguardo era stato rivolto, imperterrito, al di là della tendina che copriva il vetro della porta della carrozza, i suoi lineamenti erano si erano fatti tesi e, al di sotto del mantello, le sue mani erano rimaste così a lungo strette in un pugno che, nel momento in cui aveva allentato la presa, la giovane aveva percepito i muscoli delle braccia dolerle come avesse faticato tutto il giorno nelle più degradanti attività manuali.
Alzando il cappuccio sul capo per nascondersi, nei limiti del possibile, alla vista del marito, le sue spalle si rilassarono e le palpebre cominciarono ad abbassarsi con minore frequenza ma a rimanere chiuse più a lungo, fin quando il verde degli occhi di lei non venne completamente celato al mondo esterno. La testa cominciò a ciondolare e, quasi senza accorgersene, si ritirò ancor di più contro la parete della carrozza e lì appoggiò la fronte, lasciandosi andare al riposo.
Carter accorse qualche frangente dopo il suo assopimento: prendendo posto accanto a lei, le passò le braccia attorno alle spalle e l’accostò a sé nella speranza di renderle più confortevole il sonno. Nell’incoscienza, la mano di Sophie scivolò sulla coscia di lui e, benché casuale, l’uomo non rimase immune a quel gesto. Tutto il suo essere era imbevuto del più cocente desiderio nei confronti della giovane moglie ed il sangue nelle vene ribolliva come a contatto con una violenta fonte di calore. In tutte quelle ore di viaggio, la sua mente non aveva smesso di arrovellarsi nel tentativo di trovare una soluzione a quello che si presentava come un doloroso calvario, ma non una via d’uscita gli era parsa plausibile. L’accordo che avevano preso era, sì, privo di qualunque forma d’ufficialità, ma venire meno alla parola data non rientrava nelle sue abitudini, nemmeno nei casi in cui avrebbe benissimo potuto farlo senza che ci fossero ritorsioni. Per l’ennesima volta da quando la lascivia mista al desiderio di rivalsa l’avevano portato a macchinare quel piano, si chiese se non avesse arrecato più danni che non guadagni a se stesso.
«Che diavolo state facendo?» esordì improvvisamente Sophie e Carter, così immerso nelle sue riflessioni, fu colto di sorpresa. I suoi occhi incontrarono quelli verdi della moglie e, leggendovi contrarietà e furore, sorrise di un’espressione incredibilmente affascinante al loro indirizzo.
«Mi prendo cura di mia moglie!» rispose semplicemente e, nel farlo, strinse la presa attorno alle spalle di lei, quasi a voler sottolineare l’evidenza della sua posizione.
«Pensavo di essere stata abbastanza chiara, quando ho parlato di matrimonio di solo nome.» gli fece notare con voce dura e le sue sopracciglia si avvicinarono, quando corrugò la fronte con fare spazientito.
«E io mi sento pienamente nel diritto di comportarmi in questo modo e anche in molti altri, visto che vi piace così tanto servirvi di sporchi trucchetti, signora mia.» la incalzò e il suo tono, stavolta, fu più basso, rabbioso e minaccioso e il suo viso s’incupì tutto.
«Di che state parlando?»
«Del vostro scherzetto in chiesa, tesoro.» le spiegò e Sophie stentò quasi a nascondere il sorriso che minacciava d’incresparle le labbra. Una sensazione di piacevole godimento si irradiò nel suo corpo e il suo animo gongolò interamente per il tiro mancino che aveva giocato a Carter e per risultato ottenuto.
«Voi mi avete incastrata con questo matrimonio.»
«No, io vi ho offerto una soluzione al problema e voi avete accettato.» ribatté e, per quanto infastidito fosse, ammirò la spudoratezza con cui gli si rivolgeva, quasi non temesse le conseguenze delle sue azioni ma, piuttosto, fosse disposta ad affrontarle di petto.
«Vorrei correggervi: voi avete offerto una soluzione al problema di Catherine e non mi avete lasciato via di scampo alternativa; quindi, a quel punto, mi sono vista costretta ad accettare.» s’interruppe un istante come se volesse lasciargli il tempo di assorbire l’informazione; poi, continuò. «Non pensate che, adesso, sia tutto più aderente alla realtà?» domandò e, nel farlo, inclinò appena il capo in quell’espressione impudente che, a dispetto di quanto le lasciasse intendere, a lui tanto piaceva.
«Dipende dai punti di vista, signora. Avreste potuto non accettare, o sbaglio?» Lei alzò gli occhi al cielo e interruppe il contatto visivo per qualche istante, prima di tornare a guardarlo con fermezza.
«Oh, vi sbagliate eccome!» Un sobbalzo della carrozza fece saltare entrambi sul sedile e scivolare il cappuccio di lei, ma Sophie non parve notare nulla di tutto ciò, perché la sua espressione rimase decisa e il suo sguardo continuò ad incastrare quello di Carter. «Vi sbagliate di grosso, perché, se solo ci fosse stata un’altra possibilità, una soluzione anche solo vagamente diversa…» Alzò la mano a mostrargli il segno della loro unione. «… questo anello non sarebbe mai stato in questo posto. Mai!»
«Allora,» cominciò e, nel farlo, si avvicinò all’orecchio di lei come a volerle sussurrare un segreto. «mi congratulo con me stesso, signora!» concluse, lasciandole un rapido bacio sulla porzione di pelle antistante l’orecchio, ma, quando tornò a guardarla, su quel viso che mille volte aveva sperato di rivedere nei mesi in cui era sparita dalla circolazione, scorse non fastidio, bensì divertimento.
«Non avete idea di cosa vi aspetta, signore. Non ne avete proprio idea!»
*
In seguito a quello scambio di battute, Sophie aveva preso posto nel sedile di rimpetto a quello che aveva occupato per l’intera durata del viaggio e, indipendentemente dal fatto che quella nuova prospettiva da cui vedere il paesaggio esterno le piacesse meno della precedente, preferì di gran lunga quella condizione che non essergli seduta accanto. La conversazione aveva acceso gli animi di entrambi e, per un fortunato caso del Destino, cancellato ogni parvenza di stanchezza che Sophie aveva accusato fino ad allora: il suo sguardo era vigile ed il suo io quasi divertito, privo della malinconia provata in quegli ultimi giorni e che neppure per un secondo l’aveva abbandonata nel corso dei preparativi. Un sorriso indecifrabile colorava le sue labbra e, alla luce rosata del tramonto, conferiva alla sua espressione una sfumatura di calore che, di rado, sembrava le appartenesse.
E Carter sorrise a sua volta, colmo di un sentimento che non aveva nulla a che vedere con quelli provati dalla moglie: si sentiva soddisfatto. Testardo ed orgoglioso com’era, ottenere ciò che più stuzzicava il suo interesse era una delle condizioni che maggiormente lo rinvigoriva tanto nel corpo quanto nello spirito. Era stato cresciuto nell’idea che ogni cosa, persino la più misera, dovesse essere conquistata e che solo il duro lavoro potesse ripagare le fantasie più ardite. Suo padre, suo nonno e i suoi trisavoli prima di lui erano stati conosciuti ed elogiati come uomini di grande tempra morale, di ineguagliabile giustizia ed infaticabili nei lavori manuali, tanto che la sua famiglia godeva di un rispetto inusitato non soltanto tra gli alti ranghi ma, soprattutto, tra la gente comune che di loro sapeva più di quanto non si potesse pensare.
I Matthews erano alcune tra le persone più corrette che si fossero mai viste in Pennsylvania e, dati i tempi che correvano, non era cosa da poco. Quando alcuni tra gli avi di Carter avevano deciso di prendere parte alle spedizioni verso il Nuovo Mondo, non avevano neppure vagamente immaginato cosa li aspettasse: si erano ritrovati in balia di una terra selvaggia, ben lungi dall’essere facilmente conquistata o addomesticata, e abitata perlopiù da popolazioni che mai avevano avuto contatti con il cosiddetto mondo civilizzato. Nonostante l’atteggiamento della maggior parte dei colonizzatori si fosse dimostrato volto alla conquista indiscriminata, i Matthews non avevano preso parte, né idealmente né materialmente, a nessuna di quelle scorrerie ed erano riusciti ad insediarsi nel territorio che, molto tempo più tardi, era stato riconosciuto come il più congeniale alla loro permanenza.
Carter Matthews non era da meno rispetto alla sua stirpe. Era un uomo ben fatto, avvezzo alle fatiche e lontano dai vizi di cui la gente del suo rango era vittima; come molti altri giovani, si era fatto il nome di grande amatore e di scapolo incallito, a tal punto che la sua famiglia, esclusa sua madre, aveva da tempo abbandonato l’idea di saperlo sistemato e con una famiglia a carico. Quando era giunta a destinazione la lettera che portava la notizia del matrimonio con una giovane conosciuta presso la vecchia tenuta che, anni prima, era stata di loro proprietà, una grande confusione ed un grande scompiglio si erano agitati in casa. La vedova Matthews aveva convocato i figli già maritati e chiesto loro quale fosse il modo migliore di comportarsi: ognuno di essi aveva convenuto che, per quanto grande fosse il desiderio di partecipare a quelle nozze e conoscere la ragazza, fosse giusto rispettare il volere di Carter e attenersi al suo desiderio di presentare la moglie alla famiglia in un secondo momento per ragioni che, come aveva sottolineato nella missiva, avrebbe comunicato loro a tempo debito.
Facile a dirsi, la madre di Carter aveva faticato ad attenersi a quella scelta e ancora più difficile era stato abituarsi all’idea che non fosse stata voluta alla cerimonia: suo figlio, che amava con tutta se stessa, era andato via mesi e mesi prima col proposito di vendetta che ardeva nella mente ed era ritornato, qualche tempo dopo, con animo ben più subordinato ma sollevato, rassicurandoli sul fatto che la villa prosperasse e fosse nelle mani di un buon uomo. Eppure non era rimasto a lungo, perché i doveri lo avevano richiamato a casa propria, e ciò aveva alimentato la delusione e la tristezza per la lontananza dall’altro cui era stata costretta a sottostare quell’anno. Molti erano gli interrogativi che, a quel punto, si agitavano in lei, ma a nessuno di essi era riuscita a trovare risposta.
Nonostante conoscesse il tormento della madre e ne fosse sinceramente spiaciuto, Carter aveva appositamente evitato di sbilanciarsi sulla questione inerente il matrimonio per via epistolare, ritenendo fosse più saggio attendere un momento più propizio, ed era ancora persuaso di aver preso la scelta migliore. Il pensiero delle presentazioni alla propria, numerosa famiglia gli attraversò ancora la mente e, con curiosità, si chiese come si sarebbe comportata la giovane moglie al cospetto di un eventuale, assai probabile interrogatorio materno.
Non conosceva abbastanza Sophie da poterlo supporre con certezza, ma qualcosa nel modo in cui si era approcciata a Fred gli suggerì che sarebbe stata in grado di cavarsela egregiamente anche in un’occasione meno rilassata. Con un sorriso divertito, ripensò all’impudenza con cui la giovane aveva risposto, a suo tempo, a Besede e a quanto lo avesse innervosito qualche sera dopo nella stessa cucina, portandolo a covare nel suo intimo un proposito di vendetta che era sopravvissuto per circa un anno. E, tuttavia, provava per la ragazza una simpatia ed una stima che raramente aveva nutrito nei confronti di una donna di quell’età: non c’era traccia di timore nel suo carattere, non aveva atteggiamenti frivoli o svenevoli, non era stata educata alla sottomissione. Sophie era una storia a parte.
Lentamente, la carrozza cominciò a rallentare e, al di fuori della vettura, Carter riconobbe le sue proprietà; quando, pochi istanti dopo, udì il cocchiere intimare ai cavalli di arrestarsi, con espressione incuorata l’uomo scese dal veicolo per dare sollievo alle proprie gambe: avevano viaggiato per buona parte della mattinata e per quasi tutto il pomeriggio e, a causa di ciò, uno spiacevole torpore aveva soggiogato i suoi arti inferiori nelle ultime fasi del ritorno. A quell’ora della sera, una tenue luce si issava ancora da sopra gli alberi, ma il sole era già sulla linea dell’orizzonte, pronto a riposarsi. Alzando le braccia verso l’alto, l’uomo allungò i muscoli e tutto il suo corpo gioì di quella miracolosa concessione.
«Oh, che sollievo avervi qui! Temevamo vi fosse accaduto qualcosa!» gli si fece incontro Greta, una delle donne più argute e cocciute che avesse mai conosciuto, la stessa che si occupava di gestire la servitù affinché ogni cosa fosse al suo posto, la stessa che lo aveva visto crescere e divenire quello che era.
«Il tempo che impiego ad arrivare qui da quella parte della Pennsylvania è sempre lo stesso, Greta. Dovreste saperlo, oramai!» la canzonò giocosamente, ammiccando nei suoi riguardi con la piena consapevolezza che, al di là dell’effettivo desiderio di saperlo in salute e al sicuro, nell’animo dell’altra si agitasse la più acuta curiosità di conoscere la donna che aveva sposato.
«Perdonatemi, se ho a cuore il vostro benessere!» ribatté prontamente e Carter ridacchiò sommessamente, spostandosi dietro di lei e mettendole due grandi mani sulle spalle leggermente incurvate dal tempo e dalla fatica.
«Quindi, non siete interessata neppure un po’ a conoscere la signora Matthews?» Si chinò su di lei, accostandosi al suo orecchio, ma pronunciò la domanda con tono abbastanza alto da farsi sentire dalla schiera di domestici posti dinanzi l’ingresso della casa. Alcuni di essi soffocarono le risate in una tosse assai poco credibile, altri non si premurarono di avere quell’accortezza, altri ancora, troppo intenti a sbirciare dentro la vettura, prestarono scarsa attenzione a quello scambio di battute.
«Ero sinceramente preoccupata per voi, signore, e anche per vostra moglie, se è questo che intendete.» Con aria di sufficienza, simulò un’espressione indispettita nell’attesa che l’altro le rispondesse.
«Ovviamente, signora mia, non intendevo nulla di diverso.» le rispose con velata ironia. A quel punto, benché divertito dalla situazione, ritenne fosse arrivato il momento di soddisfare la loro curiosità e, senza indugi, raggiunse la carrozza e si sporse al suo interno. I suoi occhi incontrarono quelli imperscrutabili di Sophie e rise quando, porgendole la mano per aiutarla a scendere, ella la scostò con la propria, rifiutando la sua dimostrazione di galanteria. Carter scosse il capo e il suo sguardo brillò di soddisfazione. «Gli accordi prevedono che vi comportiate da moglie amorevole dinanzi agli altri, amor mio. Ricordate?»
«Come posso atteggiarmi a sposa stucchevole se non provo nemmeno una vaga simpatia per voi?» gli fece notare e Carter fu divertito dal disgusto che l’altra sembrava provasse all’idea di una donna innamorata. Il timore che la risposta del marito potesse metterla alle strette si fece ben presto pressante per Sophie e dovette dare ragione al presentimento avuto, quando ne ebbe la certezza pochi frangenti dopo.
«E’ un problema vostro, mia cara, come sarà un problema mio sopportare il fatto che non potrò godere della vostra compagnia a letto.» S’interruppe per pochi secondi, così da lasciare che le sue parole facessero l’effetto desiderato. Poi, proseguì. «Se voi venite meno alla vostra parte dell’accordo, farò piacevolmente altrettanto.» A quel punto, le porse di nuovo la mano. «Mi permetterete di aiutarvi?»
Profondamente contrariata, Sophie cedette e, pur malvolentieri, si arrese all’idea di dover interpretare un ruolo che non avrebbe saputo bene come gestire, né da cosa prendere spunto senza che la ripugnanza dell’altro le rendesse arduo il compito. Scesi i gradini che permettevano l’ingresso alla vettura, fu accolta da un clima assai meno mite di quello che aveva lasciato ad Altoona e, ancora di più, di quello di cui aveva goduto dentro la carrozza, ma finse indifferenza, sebbene l’intero suo corpo urlasse disappunto.
A disagio, i suoi occhi scorsero le sagome di una decina e più di uomini e donne intenti ad osservarla ed il suo cipiglio divenne, da spaesato, aggressivo, probabilmente in maniera esagerata perché Carter le si accostò all’orecchio e le fece notare di essere decisamente troppo sulla difensiva. A quel punto, consapevole di non poter fare altro, finse una distensione che non le apparteneva e sorrise all’indirizzo dei presenti in una maniera così dolce che ognuno di essi parve dimenticare l’espressione rabbiosa che ella aveva rivolto loro giusto qualche istante prima.
«Signori e signore,» fece con atteggiamento volutamente esagerato e tutti risero. «vi presento mia moglie, Sophie Matthews. Giusto per non lasciarvi ingannare dal suo bel faccino, ha un gran brutto carattere e può essere una spina nel fianco della peggior specie.»
«Avete un carattere così dolce, amorevole e delizioso che tenterò di migliorarmi seguendo il vostro esempio. Ho sempre sperato di trovare un uomo come voi, per niente burbero, cocciuto e tendenzialmente smanioso di avere tutto quello che gli si nega.» rispose prontamente lei, esibendosi nel sorriso più angelico che le fu possibile riprodurre e battendo le ciglia rapidamente con fare fintamente civettuolo. Al contrario della maggior parte della servitù, che tentò di dissimulare il proprio acuto divertimento nei modi più svariati, Greta non vide motivo per trattenersi e scoppiò in una fragorosa risata.
«Vedo che la signora vi ha inquadrato per bene, eh?» fece, dando manforte alla neo-padrona di casa, che le sorrise di rimando di una sincera simpatia.
«E vedo che voi continuate a non tener conto dei miei moniti, Greta…» la rimbeccò Carter con un cipiglio meno baldanzoso di quello precedente.
«Il giorno in cui mi caccerete dalla servitù, signore, avrete perso una persona fedele e devota. Vi conosco da che eravate uno scricciolo e so che sapete essere più che intrattabile. Volete forse negarlo?» indagò la donna e Carter osservò l’espressione genuinamente divertita della moglie, imprimendo nella sua mente quell’ulteriore testimonianza della bellezza fuori dal comune di cui era dotata. Quella stessa bellezza gli scaldò il cuore e una parte del suo corpo cominciò ad accusare l’evenienza di una notte separati, seguita da tante altre dello stesso stampo. «Oh, vi gelerete così, dolcezza! Volete seguirmi dentro?» Greta interruppe le riflessioni di lui, portandolo bruscamente alla realtà e facendogli notare che Sophie non indossasse nulla di adatto alle ancor più rigide temperature di Altoona. Benché fosse primavera, infatti, l’aria era ancora frizzante ed un vento gelido spirava dalle alte montagne che, in lontananza, sovrastavano le proprietà sottostanti, compresa quella di Carter. Lasciando un bacio sulla mano della moglie e liberandola con riluttanza dalla sua stretta, la osservò incamminarsi insieme alla domestica verso casa ed immaginò i fianchi danzanti di lei sotto il mantello che copriva ai suoi occhi quella vista.
Saggiamente, decise che doveva berci su.
*
Quella sera, nulla andò come Carter aveva previsto: non c’era stata nessuna cena, nessuna apparizione mozzafiato della moglie in uno degli abiti che aveva comprato per lei, nessuna scaramuccia, nessuna possibilità di metterla alle strette e prendersi, se non un’intera notte da trascorrere insieme, almeno il bacio che gli spettava. Il suo bicchiere di brandy si era riempito e svuotato almeno tre volte, prima che Greta decidesse di allontanarlo dalla sua portata, lanciandogli un’occhiataccia in piena regola ed intimandogli di andare a controllare a che punto fosse la signora, piuttosto di comportarsi come ˝uno di quegli schifosi topo di fogna che erano i pirati˝.
E Carter ne aveva ascoltato il suggerimento ardito, pur con un cipiglio contrariato, affrontando la rampa di scale che lo avrebbe condotto al piano superiore con la testa leggera ma col passo decisamente pesante. Quando le sue nocche avevano bussato a più riprese sulla superficie solida della porta, lo aveva insospettito il silenzio proveniente dall’interno della camera e, col rischio di beccarsi una sfuriata da parte di Sophie, aveva fatto il suo ingresso nella stanza. Ciò che lo aveva accolto si era dimostrato più piacevole di quanto non si fosse aspettato e, nel chiudere l’uscio alle sue spalle, l’uomo aveva passato stancamente una mano sul viso tirato.
Aveva osservato la giovane sposa addormentata tra i guanciali del letto con cui era stata addobbata la stanza, il volto disteso come se nessun sogno potesse essere in grado di turbare il suo riposo ed ogni singola fibra del suo essere stesse assorbendo le energie di cui avrebbe avuto bisogno per affrontare il giorno seguente. Blande fiamme avevano lambito il tizzone posto ad ardere all’interno del camino, riscaldando la stanza quel tanto che bastava a scongiurare il freddo esterno che, col calar della notte, era solito attaccare bruscamente le mura nel tentativo d’infiltrarsi tra le fessure di porte e finestre e raffreddare la dimora. Raggiungendo una delle poltrone poste dinanzi al comignolo, vi si era accomodato e i suoi occhi avevano sfiorato ancora i bei lineamenti della moglie come, da quell’osservazione, dipendesse l’alleviamento dei suoi affanni.
Il respiro di lei era stato profondo e cadenzato e, benché una parte di lui si struggesse per il desiderio di averla, l’alcool aveva lenito la sua frustrazione e reso abbastanza appetibile l’idea di abbandonarsi alla medesima occupazione. L’intero suo corpo aveva bramato il contatto con quello dell’altra, bruciando di una passione che,  a quel ritmo, l’avrebbe consumato, ma la prospettiva di tornare nella fredda solitudine della sua camera gli era apparsa persino più spaventosa dell’evenienza di mettere a freno le sue voglie. Nel momento in cui aveva accettato le condizioni di Sophie, conoscendone la risolutezza, aveva cominciato a fare i conti con ciò che l’avrebbe aspettato e, sebbene averla accanto rendesse la sua condizione assai meno sopportabile, era stato certo di potersi dire preparato al sentiero irto che l’aspettava.
Sorprendente era stato, invece, scoprire in lei una piacevole compagnia: gli piaceva tenerla sott’occhio, averla intorno persino quando sembrava che fronteggiare un orco potesse renderla più felice di quanto non accadesse in presenza del marito; lo incuriosivano la sua sfacciataggine, la sua indipendenza, la sua temerarietà ed il contrasto evidente con lo spirito di sacrificio che aveva dimostrato per amore di Catherine. E lo affascinava rendersi conto di quanto poco consapevole ella fosse della sua avvenenza, constatare che non vedesse in sé l’incantevole fanciulla che ogni uomo avrebbe desiderato come compagna per la notte, fonte di una bellezza da cui abbeverarsi col rischio di dipendenza.
Una parte di lui avrebbe voluto conoscerla, scoprire cosa si celasse al di là delle molteplici forme che le aveva visto assumere, ma un’altra parte gli suggeriva di mantenere le distanze, di imporre la propria supremazia prima che fosse troppo tardi e si rivelasse ai suoi occhi la reale portata di ciò che aveva fatto. Non era certo della correttezza della loro unione e, nei giorni antecedenti la celebrazione delle nozze, aveva a lungo rimuginato sul modo in cui si erano evolute le circostanze, chiedendosi se le sue smanie di vendetta e possesso non avessero annebbiato le sue capacità di raziocinio. Sarebbe mai potuto venire fuori qualcosa di buono da quel matrimonio? Oppure avrebbe dovuto affrontare la durezza dell’errore commesso e pentirsene amaramente per il resto dei suoi giorni?
Alzandosi, si era servito dell’attizzatoio per separare tra loro ciò che era rimasto dei ciocchi, li aveva ricoperti di cenere e, in seguito ad un alacre lavoro durato appena qualche minuto, aveva riposto l’arnese sul chiodo appeso alla parete e sistemato a dovere il parascintille. Senza pensarci su ulteriormente, aveva cominciato a sciogliere i nodi della camicia – Il solo indumento alla cui comodità si era abbandonato, una volta arrivato a destinazione! – e l’aveva gettato su una poltrona. In men che non si dica, la sua figura era stata privata di qualsivoglia copertura di tessuto e, quando si era introdotto tra le coperte, nello spazio lasciato libero da Sophie, l’alcool gli aveva reso goffi i movimenti. Incurante delle possibili conseguenze al risveglio dell’altra, le si era accostato e l’aveva stretta, ma il suo gesto si era ben presto dimostrato troppo avventato giacché, al di là del leggero annebbiamento causatogli dal brandy, i suoi sensi erano stati all’erta come non mai. Per questa ragione, pur malvolentieri, si era costretto lontano da lei, occupando la parte fredda del letto e maledicendosi per aver accettato delle condizioni tanto sciocche.
L’ultima cosa che aveva percepito prima di assopirsi era stata una cocente pressione all’altezza dei lombi. Infine, il buio aveva preso il sopravvento.

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Capitolo 9
*** Il buon giorno si vede dal mattino ***


Mi scuso con chi mi ha letto dall'inizio ed è rimasto eventualmente deluso dall'assenza di un continuo. Lo studio, le vacanze e i miei soliti momenti di sconforto da "Non sono capace di far nulla. Che scrivo a fare?!" mi hanno impedito di completare il capitolo che avevo iniziato. Ad ogni modo, eccolo qui. Spero vi piaccia!
Buona lettura! =)



9. Il buon giorno si vede dal mattino

La notte dell’arrivo di Sophie in casa del marito aveva piovuto, aveva piovuto forte, come se il cielo si fosse improvvisamente aperto ed il suo contenuto si fosse riversato sul mondo per punirlo dei suoi peccati e, al contempo, alleggerirlo delle sue frustrazioni. Fulmini e saette si erano rincorsi tra le nuvole gonfie d’acqua e, di tanto in tanto, l’urlo rabbioso di un tuono ne aveva chiamato i nomi, nel tentativo di placarne l’euforia e mettere fine alle loro birichinate, un po’ come un vecchio insegnante che mal sopporta le scorrerie e la disattenzione dei propri scolari.
Il croscio della pioggia che si abbatteva contro le grandi vetrate aveva vagamente turbato la psiche di Sophie e strani scenari erano venuti fuori dai suoi sogni: aveva lottato contro creature dalle terribili sembianze, corso a perdifiato per i sentieri di una foresta impregnata di magia oscura e combattuto contro lo scorrere del tempo che le aveva reso quasi impossibile sfuggire ai mostri che la popolavano. Nessuno era venuto in suo soccorso, non un uomo, non un’altra donna, non il Cielo con le sue divinità. Nel vento freddo delle sue fantasie notturne, aveva gemuto, singhiozzato, trattenuto il fiato con la consapevolezza che nessuna mano avrebbe afferrato la sua per accompagnarla in quel viaggio; e la stessa sensazione aveva dominato il suo animo quando, finalmente, aveva aperto gli occhi.
Si era guardata intorno e non aveva riconosciuto un solo oggetto che le fosse familiare. Così com’ella era estranea a quella casa, lo stesso edificio pareva volerle mostrare la sua diffidenza con i piccoli dettagli che gli appartenevano e che Sophie non conosceva. Il letto in cui aveva dormito, le coperte che l’avevano protetta dal freddo, le mura che l’avevano preservata dai venti delle montagne le erano apparsi così scostanti e all’erta che, a sua volta, non aveva potuto far altro che rimanere in guardia. Aveva temuto di vederli prendere vita e osteggiare la sua permanenza con ogni loro forza, un po’ come le radici degli alberi che, nei suoi sogni, avevano tentato di afferrarle le caviglie e sbatterla al suolo.
Non era facile per lei fare i conti con quella nuova vita senza lasciarsi andare alla disperazione più assoluta: aveva sposato un uomo che non amava e, per amore di una persona che non voleva più nemmeno parlarle, aveva acconsentito ad allontanarsi dagli unici luoghi che le fossero mai stati cari, dalla sola famiglia che avesse mai avuto. A lungo, durante il viaggio interminabile che aveva reso Altoona e i suoi abitanti un doloroso ricordo, si era chiesta come avrebbe potuto confrontarsi con quella nuova realtà, da quale fonte avrebbe potuto attingere per sopportare ciò che si era imposta, se davvero il suo sacrificio fosse stato giusto nei confronti di una se stessa che non aveva mai avuto nulla. Era stato corretto costringersi ad una vita di fandonie accanto ad un individuo che avrebbe potuto essere persino peggiore delle sue aspettative?
Con le tempie che le pulsavano, era scivolata via dal letto e, accostatasi al baule che aveva portato con sé, ne aveva estratto gli abiti meno dimessi che possedeva, gli stessi a cui era tanto affezionata e che poco si confacevano ai dettami di quel tempo per una donna, maritata o meno che fosse: un pantalone, un maglione ed un gilet dotato della pelliccia d’orso più resistente che ci fosse. Quando i vestiti si erano adattati amabilmente alle forme del suo corpo e Sophie aveva rimirato il risultato allo specchio, aveva sorriso al suo riflesso con fare malandrino e aveva tentato di infondersi un coraggio che sapeva di possedere. Aveva affrontato, da che era nata, molto più di quanto avesse mai rivelato e quella non era che una prova, una sfida ulteriore per il suo animo combattivo.
Spesso le era capitato di immaginarsi in un campo di battaglia, tra le brutture e gli affanni della guerra, e, benché temerario, il suo cuore si era contratto all’idea della sofferenza di cui dovevano essere imbevute tutte quelle armi, tutti quegli individui. Terreni battuti per creare un teatro di atrocità e tragedie, dove figli di famiglie, giovani con promesse spose e gente sola perdeva la vita senza avere tempo di dirvi addio. A volte, si chiedeva cosa provassero quegli uomini nel percepire la vita scivolare via dai loro corpi, se rimanessero costretti in quell’involucro freddo disarcionato da un cavallo e ferito a morte dal nemico, se provassero tristezza o rimpianto, se sentissero già la mancanza delle persone che amavano o di quelle che avevano amato.
Ed era così che si sentiva in quel momento, un po’ come quei veterani che la guerra l’avevano nel sangue, che conoscevano le migliori strategie e avevano servito comandanti valorosi e codardi con lo stesso impeto passionale e con la stessa fedeltà. Lunghi giorni d’incertezza l’aspettavano, giorni in cui avrebbe dovuto mimetizzare le sue titubanze al pari di un soldato tra i cespugli prossimi a un campo nemico, giorni in cui i suoi modi affettati nulla avrebbero avuto a che vedere con la sagacia di cui era capace, perché, quando non si sentiva stabile, non riusciva a tirare fuori che il peggio di sé.
A differenza di quei combattenti, però, non aveva paura. Non temeva per la propria incolumità, per il proprio futuro, per la propria felicità. Aveva appreso, tempo addietro, come quella condizione di estasi cui tutti anelavano non fosse che una conquista di cui godere sul momento, senza troppe aspettative, senza sperare di trattenerla più a lungo del previsto. E lei l’aveva provata più volte, tanto intensamente da esserne stata pervasa: le era capitato di sentirsi felice durante una cavalcata, durante la lettura di un libro, quando il sole le aveva accarezzato il viso, nel bel mezzo del sonno, in una danza improvvisata, chiacchierando con Catherine, gustando uno dei piatti di Besede, ascoltando i racconti di Betty, aiutando Wyatt, rotolandosi in un prato, suonando il pianoforte…
Per Sophie, la felicità non era pretenziosa, non aveva bisogno di grandi palchi su cui esibirsi. Era come un attore novello che, egoisticamente, recita per se stesso e, senza rendersene conto, si dà al pubblico in tutta la sua fragilità, provando su un canovaccio visto e rivisto ma mai passato. Era come un vecchio destriero dalle gambe non più robuste che si abbandona ad una corsa sui pascoli per inseguire il vento e accondiscendere solo e soltanto al proprio istinto, lontano dal pensiero di dover fare ritorno in un vecchio recinto o  in una piccola stalla.
La felicità era fatta di piccoli, infinitamente delicati momenti che nulla avevano a che vedere con l’esasperazione di un risultato finalmente raggiunto, con l’incedere baldanzoso di un uomo che ha rovinato un suo simile, con il tintinnio di un sacco di monete. Quel sentimento aveva più i contorni della disperazione, dell’acredine, della solitudine, dell’impotenza: cosa può esserci di felice nel constatare quanti passaggi di un percorso ci si è lasciati alle spalle per ottenere qualcosa, senza essersi goduti il viaggio? Cosa c’è di felice nello sconforto di un altro uomo? Cos’ha di felice la fredda consistenza del metallo?
Ritta dinanzi alla grande vetrata di cui era munita la sua stanza, Sophie guardò lontano, al di là dei picchi delle montagne, e il cielo plumbeo non la rincuorò, piuttosto le trasmise uno strano senso di torpore. Osservò, sotto di lei, i primi lavoratori affaticarsi ognuno nelle mansioni più disparate e le domestiche spazzare e lavare e sistemare; contrariata, ripensò al fare servile con cui Greta le si era rivolta e le gote le si colorarono di vergogna: l’aver sposato un rampollo di chissà quale famiglia nobiliare non cambiava ciò che era e sarebbe sempre stata, un’orfanella senza possedimenti che avrebbero potuto rendere più alta la sua condizione. La imbarazzava e infastidiva l’essere trattata come una signora, perché non le apparteneva l’idea di essere considerata ciò che non era come se un matrimonio potesse cambiare l’essenza della sua personalità.
Voltandosi verso il letto, fece per accostarsi alle coperte nel tentativo di sistemarle, ma, perplessa, si costrinse ad arrestarsi, quando scorse accidentalmente un piccolo cumulo di vestiti sulla poltrona più prossima al camino. I suoi passi la condussero all’oggetto della sua osservazione e, nel momento in cui visionò l’abbigliamento e fu certa del fatto che si trattasse di indumenti maschili, un brivido le corse lungo la schiena, tanto che, quasi scottata, scagliò la camicia contro il focolare assopito e si voltò meccanicamente verso il letto: quando, un’ora prima all’incirca, aveva abbandonato il calore del letto per prepararsi alla giornata, l’aveva stupita constatare che anche l’altra metà del materasso fosse disfatta come se, quella notte, si fosse girata e rigirata a lungo in preda ad una strana inquietudine. Eppure, sin da bambina, Sophie era stata conosciuta per la tranquillità del suo sonno e, assai di rado, le era capitato di svegliarsi in una posizione diversa da quella in cui si era addormentata.
Un’ipotesi fin troppo plausibile cominciò a farsi spazio nella sua mente con la stessa prepotenza dell’indignazione e della rabbia che ribollivano nel suo petto e, prima che potesse ripensarci, spalancò la porta della propria camera e si avviò per il corridoio del primo piano, certa della propria meta. La sera prima, difatti, quando Greta l’aveva condotta nel locale che era stato preparato per le sue necessità, le aveva sommariamente indicato quali fossero le stanze vacanti e quale quella occupata dal padrone di casa; il giorno precedente, non avrebbe mai immaginato che vi avrebbe fatto ingresso di sua spontanea volontà e tanto presto, con una predisposizione d’animo che rasentava i limiti del furore, ma non fu un problema ricredersi.
Aprendo l’uscio con accortezza, s’insinuò tra le quattro mura e, nella quasi totale oscurità che ivi regnava, riuscì a distinguere il letto in ferro battuto e la sagoma che vi riposava. Con la discrezione che gli stivali di cuoio le concessero, raggiunse il grande armadio addossato alla parete di destra e, facendone schiudere le ante, raccolse tra le braccia tutti gli indumenti che riuscì a reggere. In un percorso che compì a più riprese, depositò il contenuto del mobile sul suo letto e, quando il lavoro fu terminato, si disse, soddisfatta, che quello stupido cialtrone si sarebbe amaramente pentito di aver osato tanto la notte scorsa, approfittando della sua incoscienza.
Non ci pensò su più di un istante e, spalancando la finestra della sua stanza, gettò tutti i vestiti di Carter giù per il primo piano, incurante dell’espressione attonita di una giovane cameriera che, scopa alla mano, riusciva a stento a credere ai suoi occhi. Ridacchiando soddisfatta, tornò sui suoi passi e, afferrando saldamente il secchio carico d’acqua che Greta aveva lasciato in camera, compì per l’ultima volta il percorso che la separava dalla camera padronale; senza preoccuparsi di chiudere la porta, depositò il catino sul tappeto ai piedi del letto, si accostò al bordo di questo e, con un unico strattone, privò la figura dormiente delle coperte. Poco importava che fosse nudo come un verme, che non avesse mai visto un uomo ben fatto senza l’ombra di un indumento a coprirne il pudore, perché la soddisfazione che avrebbe tratto da quella bravata avrebbe reso il rossore sulle sue gote lo stendardo della sua vittoria.
Dei passi incerti risuonarono per il corridoio e, disturbato dal freddo, Carter cominciò a muoversi nervosamente alla ricerca di qualcosa che ponesse fine a quella condizione; sicura di doversi sbrigare, prima che qualcosa interrompesse l’idillio e ponesse fine al piano che aveva progettato per rivendicare il rispetto del contratto che avevano stipulato, tornò al secchio e, issandolo fino all’altezza del ventre, pose una mano sul fondo e l’altra sul bordo per rendere più agevole il rovesciamento dell’acqua.
«Ma cosa..?» fece la voce di Greta alle sue spalle con una nota di panico nella voce, mentre un urlo si rannicchiava alla base della sua gola, pronto a venire fuori per avvertire il giovane uomo steso sul letto. Tuttavia, non fece in tempo!
In un insieme di sentimenti contrastanti e che, nonostante tutto, correvano fianco a fianco nella stessa direzione, Sophie fece scattare le braccia e, nel movimento, il contenuto gelido del catino si abbatté sulla figura di Carter, seguito, in ritardo, dal grido di sgomento dell’anziana donna. L’uomo trasalì, boccheggiò ed imprecò nel tentativo di comprendere cosa fosse accaduto, ma le sue sinapsi erano ancora troppo lente perché il suo cervello gli consentisse di trarre le somme lì su due piedi, fradicio e sconvolto com’era.
«Ben vi sta, brutto idiota zoticone!» La voce vibrante d’ira della giovane moglie pervenne alle sue orecchie molto più nitidamente di quanto non si fosse aspettato e, quando mise a fuoco la situazione, non fu difficile individuare, se non la ragione, almeno la colpevole di tutto quel macello.
«Dannazione, donna!»urlò e, rapido, si alzò dal letto, passandosi una mano sugli occhi affinché la vista gli fosse meno impedita. Con uno scatto, fece per agguantarla, ma quel demonio dalle sembianze femminili fu più lesta e, trascinandosi dietro le coperte, oltrepassò la soglia della camera e si precipitò giù per le scale; intenzionato a farle pagare quell’infelice trovata, tentò di seguirla e sarebbe anche riuscito a prenderla, se Greta non si fosse interposta tra lui e il corridoio. «Che diavolo vuoi? Spostati!» tuonò, ma si pentì quasi subito del poco riguardo alla cortesia delle sue parole. «Scusatemi, scusatemi, ho perso la testa!» la precedette e, sebbene l’espressione dell’altra fosse a dir poco contrariata, seppe di averne evitato il rancore grazie a quella tempestiva correzione.
«Se volete inseguirla, mettetevi almeno addosso questi!» Gli porse un paio di pantaloni bordeaux che non metteva da diverso tempo e Carter si chiese perché mai li avesse tra le mani. «Non credo abbiate avuto modo di notarlo, ma il contenuto del vostro armadio, al momento attuale, si trova nel giardino di casa.» lo informò e tentò di usare la massima cautela nello spiegargli la situazione. La sua prudenza, tuttavia, servì a ben poco, quando l’altro realizzò il significato delle sue parole, e il modo in cui le strappò i pantaloni di mano, divenne paonazzo e s’infilò rapidamente l’indumento le suggerì che non sarebbe stata una mattinata affatto tranquilla.
 Qualunque fosse stata la ragione che aveva scatenato le ire della giovane, Greta doveva ammettere che da tempo non vedeva qualcuno dare una bella lezione al proprietario di casa e, intimamente, si compiacque del risultato ottenuto dalla ragazza. Sembrava avesse studiato tutto alla perfezione, perché, all’infuori del lenzuolo che copriva il materasso e delle tende, non era rimasto un solo pezzo di stoffa in grado di offrire una copertura all’intimo dell’uomo, e, probabilmente se non fosse stato per lei, avrebbe dovuto cercare in lungo e in largo prima di trovare qualcosa che gli calzasse anche solo vagamente. Per allora, Sophie sarebbe stata bella che lontana!
Seguendolo nei limiti delle sue possibilità, la donna lo vide balzare giù per i gradini come una bestia assetata di sangue e, per un istante, temette le sorti della fanciulla: sebbene avesse un temperamento all’apparenza più che spavaldo, dubitava che avrebbe avuto la meglio in un corpo a corpo e non desiderava doversi intromettere negli affari di moglie e marito. Aveva già evitato qualsivoglia sorta di domanda sulla decisione di sistemare gli effetti personali di lei in una camera a parte, ma non intervenire nel caso in cui la situazione fosse degenerata le appariva più che mai insopportabile.
«Fermatevi, codarda!» le urlò dietro Carter, che, a petto nudo e scalzo, a dispetto della rabbia che stava provando, non poté fare a meno di soffrire la rigida temperatura esterna, reso ancor più sensibile ad essa dall’acqua che ancora impregnava i suoi capelli e buona parte di tutto il suo corpo. Il cielo era terso e, nonostante in lontananza si addensassero cupe, pesanti nuvole, ciò rendeva il freddo più facile a percepirsi e meno piacevole a sopportarsi. Incurante del rossore della giovane domestica che tutta intenta fingeva di spazzare, ristette a pochi metri dal portone d’ingresso alla dimora e osservò l’esile folletto pestifero che era sua moglie fermarsi e voltarsi a guardarlo.
«Ah, sarei io la codarda? O siete voi il bugiardo che viene meno agli accordi, intrufolandosi nel mio letto nel bel mezzo della notte, signore?» chiese sarcasticamente e, per la prima volta da quando era stato costretto a quel drastico risveglio, comprese la motivazione alla base di quella sfuriata. La voce di lei, vibrante di sdegno, echeggiò più volte e, pur non potendolo dire con certezza assoluta, notò il rossore delle guance accenderle il viso della selvaggia bellezza di un’amazzone.
«Mi sono perfettamente attenuto ai patti, signora. Abbiamo stabilito che non avremmo mai dormito nello stesso letto o nella stessa stanza. Sono lieto d’informarvi che non l’ho fatto…» disse e Sophie comprese, ancor prima che proseguisse, che l’inizio di quella frase avesse un’implicazione ulteriore, volta a stuzzicarla. «E lungi da me l’intenzione di venire meno alla parola data in futuro: io vorrei fare ben altro con voi in quel letto!» concluse e ben poco si curò del fatto che buona parte delle persone alle sue dipendenze stessero ascoltando quella conversazione, venendo a conoscenza delle reali fattezze della loro unione. In quel momento, l’unica cosa che desiderava era metterle le mani addosso e farle pagar caro il prezzo della sua insolenza.
«Se la mettiamo così, signore,» E, ancora una volta, insistette volutamente su quella parola come a volerlo schernire rispetto alla reale considerazione che aveva di lui. «vorrei ricordarvi che ho giurato di essere vostra moglie finché morte non ci separi, ma che nessuno ha precisato che siffatta morte non potesse essere in qualche modo provocata. Intendete?!» Le mani ai fianchi, arricciò il naso in quella maniera dispettosa che tanto lo infastidiva, mentre, tra i presenti, si levava un riso generale e il giardiniere nascondeva il volto nel cappello logoro, onde evitare che il padrone scorgesse sulle sue labbra la presenza di un sorriso molto più che divertito.
«Vorreste farmi del male?» le chiese e, benché la sua mente fosse ancora intenta a macchinare un piano per acciuffarla, non poté impedirsi di sorridere. Nessuno aveva mai osato rispondergli così a tono all’infuori di sua madre, ma era certo del fatto che, vedendolo così fuori di sé, persino lei avrebbe avuto qualche riserva sui modi con cui approcciarglisi. Lo stesso, di certo, non si poteva dire di Sophie!
«Se con ciò intendete passarvi sopra con cavalli e calesse, assolutamente sì.»
«Non vi sembra» Piano, mosse un passo in avanti e vide i muscoli di lei tendersi, a dimostrazione del fatto che non fosse una sprovveduta e sapesse bene come muoversi in simili situazioni. «di provare davvero poco affetto per l’uomo che avete sposato?»
«Come se vi avessi scelto per affetto o simpatia o che altro!» ribatté lei e, rapida, mosse due passi all’indietro, ristabilendo la distanza originaria. Detestava le situazioni d’attesa, quelle in cui gli avversari tendevano a studiarsi per comprendere dove fosse meglio attaccare; ma, in quel caso, Sophie avrebbe soltanto dovuto correre ed evitare che la prendesse e fare la preda proprio non le piaceva.
«Sapete che vi prenderò, non è vero?»
«Dovete riuscirci, prima!» sentenziò e, decisa, pose fine alla conversazione.
Con uno scatto rapido, si gettò verso sinistra e, senza curarsi di quanta distanza li separasse, cominciò a correre con quanta forza aveva nelle gambe. Agile come un felino, scansò e saltò gli ostacoli accidentalmente posti sul suo cammino e mai, neppure una volta guardò indietro o tenne conto del rumore dei passi dell’uomo: avrebbe potuto essere ad un soffio da lei, ma questo non le avrebbe impedito di spingersi fino al limite delle sue possibilità per impedirle di prenderla. Fu per quella ragione che, scorta a poca distanza la foresta, accelerò ulteriormente l’andatura e, sebbene già quasi volasse, riuscì ad allungare le distanze con Carter.
Per quanto forte e vigoroso fosse e per quanto le sue riserve d’energia potessero contare su una capienza che probabilmente Sophie non possedeva, il trentenne non poteva vantare né la stessa agilità, né la stessa velocità, né la stessa attitudine alla corsa. Nel tentativo di starle dietro, ebbe l’impressione che ogni singolo elemento della natura stesse partecipando a quell’inseguimento, rendendole più agevole il proposito di seminarlo: i sentieri parvero farsi meno impervi, il vento sembrò spingerla e alleggerirle la fuga, gli alberi scostarsi dal suo cammino e la terra supportarla ad ogni passo.
«Dannazione!» Uscì come un rantolo dalla sua bocca e le sue gambe si mossero con più rapidità e forza, riducendo la distanza che lo separava da Sophie. Corse, corse fino a sentire i muscoli delle gambe dolere per il troppo sforzo, fino che il fiato non gli si fece corto e i polmoni bruciarono nel suo petto; in un ultimo, disperato tentativo, chiese al suo corpo di sopportare quell’ulteriore prova e si spinse ai limiti della sopportazione umana.
Ad ogni passo, ad ogni spasimo, il folto della foresta si faceva più misterioso e Carter ebbe l’impressione che la ragazza divenisse immune alla fatica, che il suo incedere apparisse rilassato e i suoi nervi soddisfatti. Fu una sorpresa e, al contempo, un sollievo scorgerla fermarsi per un istante e quasi sentì la vittoria in pugno, prima che le braccia di lei si allungassero verso l’alto e sparisse tra i rami di un albero dalla corteccia ruvida e spessa. Col petto in fiamme, lo raggiunse e issò il viso verso le fronde nel tentativo di scorgere la figura della persona cui intendeva dare una bella lezione, ma rimase deluso: non solo non la vide, ma fu certo del fatto che, in un modo o nell’altro, dovesse avergli giocato un bello scherzo e che fosse ben lontana dal luogo in cui l’aveva condotto. In più punti, difatti, rami nodosi e resistenti s'incontravano ed intersecavano a formare sentieri aerei paralleli, che avrebbero facilmente permetto ad una persona agile e leggera di muoversi con tutta la liberà necessaria senza essere vista. Battendo il pugno contro l’arbusto, imprecò tra un respiro ed un altro e si diede dell’idiota per essere caduto in quella trappola, uscendo sconfitto dall’ennesimo confronto con l’altra.
«State fermo, signore!» Di scatto, Carter si volse in cerca della persona che lo aveva più volte minacciato da che si conoscevano, a volte sottilmente, a volte senza fronzoli e giri di parole. Rimase perplesso quando scorse Sophie, a qualche metro da lui, addossata ad un albero con arco alla mano, pronta a scoccare una freccia. «Non sono solita fuggire come una codarda, a dispetto di quello che possiate pensare. Mi piace affrontare il nemico e risolvere la questione una volta per tutte.»
«E cos’avete fatto finora, dolcezza?» le chiese cauto, con la consapevolezza che avrebbe dovuto muoversi con attenzione per evitare che la situazione degenerasse. Avrebbe potuto con certezza affermare che non le avrebbe torto nemmeno un capello, se l’avesse agguantata, ma non era altrettanto certo delle reazioni di Sophie e dubitava che si sarebbe creata uno scrupolo di qualsiasi tipo se si fosse sentita minacciata.
«Ristabilivo le distanze. Sarò anche impulsiva, ma non così sciocca. So bene che avreste la meglio in un corpo a corpo; mi prendo soltanto un piccolo vantaggio che riequilibri la situazione.» spiegò e Carter scorse il solito, impertinente divertimento nel modo in cui gli si rivolgeva. Lodevole!, ammise lui e istintivamente compì un passo in avanti e, poi, un alto ancora, e un altro, e un altro, in una successione che mise a dura prova i nervi di lei. Un sibilo minaccioso, vicino all’orecchio più di quanto si fosse mai potuto aspettare, lo indusse a fermarsi a metà del percorso: Sophie aveva scoccato la prima freccia come monito e ne aveva già inforcata un’altra. «Non ci sarà un altro avvertimento…»
«Mi uccidereste sul serio?» domandò e il sorriso sghembo che apparve sulle sue labbra fu più insultante della frase in sé. Ma Sophie era di una pasta ben diversa e ci sarebbe voluto molto di più per offenderla di quanto, solitamente, gli permetteva di avere la meglio con qualunque altra donna.
«Oh, come siete sciocco! Certo che no… Non adesso, almeno!» fece, ma conferì alla frase un vago senso di sospensione. «Ciò non toglie che potrei ferirvi brutalmente e trarne un grande giovamento, non credete?» chiese e, pur da lontano, l’uomo seppe che non scherzava, che l’avrebbe trafitto realmente uno, due, tre volte con la consapevolezza di colpire punti che, al di là di un lancinante dolore fisico, non l’avrebbero condotto alla morte.
«Non vi sembra di aver già fatto abbastanza per oggi? Il mio guardaroba, la mia stanza, le cameriere e il mio stesso fisico hanno risentito della vostra bravata. Non sarebbe ora di abbassare la cresta, bambina viziata che non siete altro?!» la incalzò, ribollendo di rabbia al ricordo di tutto quello che, in una manciata di minuti, aveva subito senza possibilità di rivalsa, almeno fino a quel momento.
«Devo ricordarvi che vi siete intrufolato nella mia stanza e nel mio letto, stanotte?» ribatté e tutto il suo essere s’infiammò al solo pensiero delle mani di lui che frugavano il suo corpo, avvantaggiato dalla profondità del sonno di cui era caduta in balia. Un lieve rossore le colorò gli zigomi.
«Oh, fate pure, dolcezza! E’ un ricordo talmente piacevole che…»
Un’altra freccia, più vicina della precedente, volò al suo indirizzo e, se i suoi sensi non fossero stati all’erta e i suoi riflessi pronti, ci avrebbe rimesso buona parte dell’orecchio. Colto di sorpresa, la guardò con fare interrogativo e, mentre il vento le muoveva i lunghi capelli oltre la schiena, i suoi occhi incontrarono quelli verdi, tenaci e sicuri di Sophie, il cui braccio si tese per l’ennesima volta nell’attesa dell’occasione successiva per far fuoco.
«Avreste potuto prendermi…» disse, serio.
«Avrei voluto prendervi.» rispose ed il silenzio che seguì le sue parole, tanto affettate quanto sincere, lo convinse ad optare per una strategia diversa. Dovevano trovare un compromesso o non soltanto uno dei due ne sarebbe uscito fuori con qualcosa di rotto ma, soprattutto, avrebbero compromesso la durata di quel matrimonio e l’incolumità di chi stava loro intorno.
«Facciamo così: datemi un bacio e non se ne parla più!» le propose con noncuranza e Sophie tentò di capire se si stesse prendendo gioco di lei o se intendesse realmente sottoporre alla sua attenzione una simile proposta. D’istinto, inarcò le sopracciglia.
«State scherzando, vero? Che razza di modo di risolvere un problema è?» chiese e l’accenno di un sorriso incredulo fece capolino sulle sue labbra arrossate dal freddo.
«Un modo molto dolce, milady. Se mi permetteste di mostrarvelo, potreste capire.» disse e il suo tono di voce fu così insinuante che la risata sommessa di lei apparve più che appropriata e ricca di sottintesi a sua volta.
«Credete davvero che non abbia mai baciato un uomo, signore?» inquisì e la sua espressione divenne così scaltra e saccente che Carter stesso fece fatica a dubitare che fosse come aveva immaginato. Come spiegare, altrimenti, l’assenza di pudore mostrata quel mattino, quando lo aveva privato delle coperte e, consapevole della sua nudità, si era fermata ad inveirgli contro? Possibile che non fosse la ragazza virtuosa che immaginava di aver sposato? Del resto, non la conosceva affatto. «Suppongo di dovervi dare una delusione, allora.» proseguì e ogni più piccola parte del suo animo godette della titubanza nei modi dell’altro. Forse, avrebbe dovuto aggiungere che non era stata che una ragazzina quando, in Italia, aveva scambiato il suo primo bacio con un ragazzetto tanto inesperienze quanto lei e che l’esperienza non si era più ripetuta, ma gli effetti delle sue parole non sarebbero stati gli stessi. A stento, trattenne una risata soddisfatta.
«Non credo abbiate capito, Sophie…» le disse d’un tratto, riacquistando tutta l’arroganza di cui lo sapeva capace, e il sorriso sulle sue labbra si fece più ampio ed impertinente. «Chiunque abbiate baciato non ero io e tanto basta a farmi dire che dovreste provare l’esperienza.»
«Avete un’alta opinione di voi, non c’è che dire.» Avrebbe voluto dire tante altre cose, schernirlo e spingerlo a guardare le cose da una prospettiva diversa da quella di tutte le donne che lo avevano idolatrato, ma la sua coscienza le suggerì di tacere. Sebbene i libri le avessero fornito una gran cultura a riguardo e per quanto realistici fossero stati i racconti di alcune sue conoscenti dedite all’Arte dell’Amore, dubitava che avrebbe potuto batterlo in un campo in cui aveva l’impressione l’uomo fosse di gran lunga più preparato di lei.
«Signor Matthews!» fece una voce terza rispetto a loro ed entrambi si voltarono all’indirizzo di Greta, paonazza in viso e col petto gonfio come di chi avrebbe voluto trovarsi in ben altra situazione. Gli occhi della donna percorsero il padrone di casa con occhio critico, soffermandosi sulla scompostezza del suo vestiario, consistente in un solo pantalone, e le sue labbra si contrassero più volte come a voler dire qualcosa che sapeva sarebbe stata sconveniente. «Credo sia il caso di fare ritorno alla dimora. Lui chiede di voi, avete presente?» lo rimbeccò e Carter parve tornare improvvisamente alla realtà, strappato con violenza dalla pantomima che lo aveva completamente assorbito fino a quel momento. Assumendo un’aria seria e a dir poco furibonda, si rivolse alla governante.
«Occupati della signora e fa’ che torni a casa. E’ più probabile che segua te!» fece.
Poi, con passi decisi, percorse all’inverso i sentieri che l’avevano condotto lì.
 

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Capitolo 10
*** Pareggio dei conti ***


Per l'ennesima volta, mi scuso per il ritardo ed eventuali errori ed incongruenze, ma ho scritto il capitolo nel bel mezzo di due esami, presa dalla voglia di buttare giù i pensieri, e non ho ancora avuto modo di rileggerlo con calma. Spero vi piaccia comunque. =)
Buona lettura!



10. Pareggio dei conti

Dal momento in cui lo aveva visto abbandonare la radura a passo spedito, Sophie non aveva più incontrato suo marito. Le domestiche l’avevano informata che era usanza del padrone allontanarsi di casa per intervalli di tempo più o meno vari e che, in quell’occasione, aveva rovistato tra il mucchio di biancheria sparsa per il giardino, estratto un completo distinto e, mandando a chiamare la carrozza, era partito con un cipiglio oscuro come poche altre volte ne aveva avuti. Le informazioni che era riuscita  a cavar loro di bocca non erano state in grado si placare la sua curiosità e, benché scalpitasse all’idea di comprendere cosa avesse inteso Greta con quella frase pronunciata nella foresta, era consapevole che interrogarla non le avrebbe fornito nessun risultato.
La servitù pareva schierata su un unico fronte e, pur non avendo rivolto ulteriori domande, la giovane aveva compreso che qualunque cosa le sarebbe stata detta di lì in poi non avrebbe messo in pericolo l’eventuale segreto di Carter. Per questa ragione e per il suo modo d’essere, si era impedita di arrovellarsi ancora sulla questione e, a distanza di quasi cinque giorni dal parapiglia che l’aveva vista diretta protagonista, poteva dirsi assolutamente lieta dell’assenza del marito a tal punto che non avrebbe saputo rimpiangere l’idea di averlo in giro per tutto il tempo e da aborrire l’evenienza che l’idillio si potesse infrangere di lì a breve.
Nonostante l’evidente diffidenza che i domestici nutrivano per lei, Sophie non aveva dato loro modo di lamentarsi ed era stata così silente e discreta che spesso li aveva sentiti chiedersi dove fosse finita e come mai passasse così poco tempo in casa. Ridendo, aveva immaginato che nelle loro menti la moglie ideale avrebbe dovuto trascorrere ore e ore a filare, rammendare, farsi graziosa e attendere con grossi sospiri il momento in cui il beneamato avrebbe fatto ritorno al loro nido; a quel punto, sempre secondo le loro aspettative, avrebbero dovuto giacere insieme nella camera padronale e sperare che il seme di lui attecchisse nel suo ventre per dar vita ad una sana e robusta prole, della cui bellezza non dubitavano affatto.
Se l’opinione che avevano in merito al suo carattere era piuttosto vaga, infatti, altrettanto non poteva dirsi dell’ammirazione che nutrivano per la sua figura. Greta stessa le aveva confidato che la servitù era rimasta fortemente compiaciuta dal suo fascino e che la voce sulla sua beltà si era sparsa a macchia d’olio per il vicinato, rendendola più conosciuta di quanto non avesse voluto. Certo, aveva aggiunto,dovreste mettere su un po’ di peso ma siete la donna più incantevole che si sia mai vista da queste parti!, e Sophie si era ben guardata dall’approfondire l’argomento, liquidando la conversazione con un breve sorriso e un ringraziamento spiccio. Non amava i complimenti, né le eventuali aspettative su una futura progenie che avrebbe dovuto necessariamente disattendere.
In quegli ultimi giorni, tuttavia, qualcosa era cambiato in lei e di riflesso il comportamento degli altri era mutato a sua volta. Stanca di recitare la parte del fantasma parassita e di starsene con le mani in mano dall’alba al tramonto, una mattina si era recata presso le scuderie con indosso i suoi abiti da lavoro e, ignorando le espressioni sgomente dello stalliere e del nipote, più giovane di lei di appena due anni, aveva chiesto di poterli affiancare nella cura dei cavalli, svolgendo le usuali mansioni che spettavano ad un garzone qualunque. Impossibilitati ad opporsi alla richiesta della nuova signora, cui avrebbero dovuto lo stesso rispetto di padron Matthews, l’avevano osservata, dapprima, con curiosità e reticenza e, in un secondo momento, con stupore ed ammirazione: come aveva promesso il giorno in cui si era presentata al loro cospetto, aveva lavorato alacremente e si era occupata delle bestie e dei loro giacigli senza mai lamentarsi per la fatica.
Aveva spalato il letame, lo aveva trasportato nel luogo in cui veniva ammassato per essere usato come concime, aveva strigliato gli animali, pulito i loro zoccoli e persino medicato le loro ferite; ma ciò che più li aveva stupiti era il modo in cui ogni singolo cavallo pareva rispondere al richiamo di lei con infinita sottomissione. E la loro disperazione si era trasformata in sgomento quando un giorno, di ritorno dall’abbeveratoio, avevano trovato la stalla vacante e la loro forsennata corsa alla ricerca dei destrieri li aveva condotti nella prateria lì vicino. In groppa ad uno di essi, Sophie aveva lasciato che corressero, brucassero l’erba e semplicemente godessero dell’aria fresca e del tiepido sole di quella mattina senza l’impiccio di selle o briglie.
Da quell’istante, nonno e nipote avevano sviluppato per lei un’ammirazione tale da rasentare i limiti dell’idolatria. Osservarla galoppare, ridere, sussurrare agli animali comandi che ognuno di essi aveva eseguito senza obiezioni e ricondurli alle scuderie con solo ausilio di un cenno li aveva impressionati e sconcertati. Com’era possibile? Che diavoleria era mai quella? Ma, soprattutto, dove il padrone aveva trovato una donna simile e come aveva potuto essere tanto sciocco da staccarsi da lei subito dopo il matrimonio?
Morsicando la mela che aveva colto dall’albero sotto casa, Guilbert sedette su uno sgabello in legno e poggiò la schiena contro la trave in legno posta alle sue spalle, mentre con lo sguardo raggiungeva la figura longilinea che sempre più spesso gli accadeva di cercare. Masticò svogliatamente e parte del succo del frutto scese in un rivolo dall’angolo della sua bocca; asciugandolo col dorso della mano, sospirò e calcò il cappello sugli occhi come a volersi nascondere per riflettere in solitudine. Erano due giorni che desiderava rivolgerle la parola e altrettanti che desisteva ancor prima di aver tentato l’impresa. Era una donna così bella da renderlo timoroso e così taciturna da fiaccare le sue speranze su una buona riuscita; non avrebbe voluto dirle nulla di particolare, solo scambiare quattro chiacchiere e capire se, al di là di tanta dedizione al lavoro, fosse dolce come immaginava o impertinente come si diceva in giro.
Con un lieve colpetto alla tesa del cappello logoro, si ripeté che non avrebbe concluso nulla di quel passo e che sarebbe stato meglio approfittare finché il marito di lei era fuori casa, poiché dubitava che, venuto a conoscenza dell’occupazione cui si era dedicata durante la sua assenza, le avrebbe permesso di affaticarsi in mansioni sì umili. Guilbert stesso, se avesse avuto una ragazza o una moglie tanto bella, non avrebbe voluto saperla in mezzo al puzzo di letame e al sudore dei cavalli, ma avrebbe preferito saperla al caldo ad affaccendarsi in qualunque cosa la potesse rendere felice. Afferrando il fagotto che gli avrebbe fornito la scusa per avvicinarla, si alzò dallo sgabello e, pur titubante, avanzò verso Sophie, tutta intenta a lucidare il manto di un cavallo giovane e robusto.
«S-scusatemi…» fece e si maledisse per l’incertezza della voce, ma il coraggio gli venne del tutto meno quando gli occhi verdi di lei si posarono sul suo viso. Quasi gli mancò il fiato per proseguire per quant’era bella! «Non volevo disturbarvi. E’ solo che è ora di pranzo e ho notato che non vi fermate mai per un boccone. Vi va di dividere il mio pasto?» le chiese in un impeto che non seppe fermare e se ne pentì quasi subito. Sperare che la signora della casa si abbassasse a tanto era troppo persino per il più stupido del villaggio: come aveva potuto anche solo avanzare la richiesta?
«Non vi disturba avere meno cibo a disposizione?» rispose lei, sorprendendolo, e Guilbert stentò a credere alle sue orecchie.
«Certo che no. Mia nonna ne mette sempre più che in abbondanza.» Le sorrise e la gentilezza che Sophie scorse sul viso sporco di quel giovane le parve la cosa più bella che avesse visto da che era arrivata in quel luogo. Non il mobilio, non i tendaggi, non l’opulenza dei possedimenti. Quella smorfia sghemba su di un viso macchiato dalle polveri e dalla fatica.
«Accetto volentieri la vostra offerta, signore.» Le sue labbra si aprirono di rimando in un sorriso più sicuro e accattivante e, mentre poggiava la spazzola sul muro divisorio tra i dormitori di due cavalli, benedisse chiunque le aveva mandato quel giovane, permettendole di scambiare una parola con un altro essere umano che non camminasse a quattro zampe.
«Venite! Andiamo all’abbeveratoio.» le suggerì e l’attese finché non ebbe finito di mettere apposto gli ultimi arnesi.
Il tragitto fino alla meta fu tranquillo e silenzioso e, benché la temperatura esterna fosse molto più rigida che non nelle scuderie, Sophie non rimpianse la ventata d’aria fresca che la investì, schiarendole le idee e rendendole meno cupi i pensieri. Detestava quella casa, detestava quella vita, detestava che Besede, Betty, Joe e tutte le persone che aveva imparato a conoscere non fossero con lei, facendola sentire di famiglia; detestava il clima tirato che si respirava tra quelle mura, l’atteggiamento reverenziale con cui le si rivolgevano tutti e i sussurri che si lasciava alle spalle ogni qualvolta abbandonava una stanza.
L’idea che fosse soltanto all’inizio di un percorso che si presupponeva ancora lungo, d’altro canto, non le giovava e il più delle volte si ritrovava a macchinare il piano più adatto per darsela a gambe non appena i conti Spencer fossero stati a conoscenza del suo matrimonio. A quel punto, in un modo o nell’altro, si sarebbero dovuti arrendere o, nella peggiore delle ipotesi, avrebbero riversato la propria insoddisfazione su Carter Matthews, dimentichi della povera Catherine e dell’infelicità che le avevano volutamente causato. Poco importava che il più probabile bersaglio delle angherie dei due nobili altri non sarebbe stato che suo marito! Per quel che le interessava, avrebbero potuto rovinarlo e trascinarlo sul lastrico: ne sarebbe stata più che lieta.
Immergendo le braccia sotto il flusso di acqua gelata, non si accorse nemmeno della foga con la quale stava sciacquando la pelle, dando sfogo alle sue frustrazioni, e doveva essersi parecchio immusonita perché Guilbert la osservò intento per un po’; infine, le mise coraggiosamente una mano sulla spalla e la riportò alla realtà, strappandole, dapprima, un’espressione confusa ed, infine, un sorriso tremulo.
«Va tutto bene?» le chiese e, mentre la osservava sedersi sul bordo della grande vasca in pietra, cominciò a sciogliere il nodo del suo fagotto, rivelandone il contenuto: pane, formaggi, salumi e qualche frutto facevano bella mostra dinanzi ai loro occhi e Sophie dovette ammettere a se stessa di essere molto più affamata di quanto non avesse sperato.
«Potresti darmi del tu, Guilbert?» fece lei e il ragazzo la guardò a metà tra il perplesso ed il titubante. Non era cosa da tutti i giorni sentirsi fare una richiesta simile da una signora e una parte di lui temette che si trattasse di una trappola, volta a determinare il suo insuccesso. Prima che potesse ribattere in qualunque modo, tuttavia, Sophie lo precedette. «So che potrebbe sembrarti strano, ma non ne posso più di riverenze, etichette e timoroso rispetto. Fino a qualche giorno fa, non ero che l’orfanella del paese cresciuta dai domestici e non sopporto che mi si tratti da signora, perché non lo sono.» gli spiegò e lo fece con un calore tale che l’altro comprese parte della sua frustrazione e, probabilmente, la ragione che stava alla base del suo essere sovente così guardinga e distaccata. Con un saltello, sedette a sua volta e, spezzando il pane, gliene porse una metà, invitandola a servirsi senza troppe cerimonie; lei lo ringraziò con un cenno del capo.
«E non sei felice di questo?» domandò e il sorriso che Sophie gli rivolse nell’appurare l’accoglimento che la sua richiesta aveva ricevuto gli scaldò il cuore.
«Mi crederesti se ti dicessi che, in tutto questo tempo, sei la prima persona che non mi guarda come fossi un mostro?» Guilbert la guardò stupito e, addentando a sua volta un pezzo di formaggio, meditò a lungo prima di risponderle.
«Penso che ti temano e ti trovino strana, ma dubito che credano tu sia un mostro.» S’interruppe per un attimo come a voler ben ponderare la portata delle sue parole, onde evitare qualunque grossolano errore. Per quanto sfocato nella sua mente fosse il ricordo del padre e delle lezioni che gli aveva impartito, non aveva mai dimenticato il giorno in cui gli aveva detto che, al di là della forma corretta, avrebbe dovuto curarsi più del contenuto delle sue frasi che non del loro aspetto. «Anzi, molti hanno delle alte aspettative su di te!»
«Che vorresti dire?» Era sorpresa! Di tutte le risposte che si sarebbe potuta aspettare, quella era decisamente l’unica che non aveva considerato e che faticava a comprendere.
«Tutti hanno parlato molto del modo in cui hai tenuto testa al signor Matthews e nessuno aveva mai osato farlo prima, soprattutto una donna.» Ridacchiò al pensiero della vicenda che gli era stata raccontata ed un briciolo di curiosità lo spinse a rivolgerle un quesito forse troppo avventato. «A proposito, è vero che lo hai infradiciato con un secchio d’acqua e che hai nascosto tutti i suoi vestiti?»
«Per l’esattezza, li ho buttati giù in giardino, i vestiti.» lo corresse ed entrambi ridacchiarono, lasciandosi andare a delle confidenze piacevoli quanto inaspettate. C’era tra loro una strana connessione, un legame che Sophie aveva percepito prima ancora che il giovane osasse farsi avanti e dare materiale attuazione ai suoi pensieri: lo Spirito del Villaggio, qualche tempo prima, le aveva insegnato a guardarsi intorno allo scopo di scorgere col cuore ciò che gli occhi non erano in grado di vedere; e la ragazza aveva appreso l’esistenza di colori nuovi e diversi, di auree e aloni che appartenevano ad ogni individuo e si mescolavano tra loro, quand’era destino che le vite di due persone s’intrecciassero, o rimanevano equidistanti l’uno dall’altra, quando i rispettivi cammini non erano destinati ad incrociarsi. Guilbert sarebbe stato prezioso per lei, lo sentiva. Non sapeva ancora come, quando e perché, ma sarebbe divenuto importante e, allo stesso modo, Sophie lo sarebbe stata per lui.
«Comunque, è questo che intendo.» Fece una pausa, lunga quel tanto che bastava a mandare giù un altro boccone. «Tu non puoi saperlo, ma il signor Matthews ha avuto molte donne e ne sono state viste parecchie in casa. Erano donne molto belle, raffinate, ricche, eleganti e tutte follemente innamorate di lui. Bastava uno sguardo, un sorriso, un gesto galante per mandarle in brodo di giuggiole. L’ho visto con i miei occhi!» Le sorrise di rimando, cogliendo sul suo volto un’espressione a metà tra lo sdegnato e l’incredulo. Pur non conoscendola, Guilbert non fece fatica ad immaginare quali fossero i suoi pensieri e quanto degradante potesse apparire ai suoi occhi la scena che le aveva appena descritto. «E nessuna di loro ha mai osato contraddirlo o affrontarlo o sottrarsi vagamente alle sue attenzioni. Tu sei stata la prima, la prima in assoluto e credo che tanto la servitù quanto padron Matthews non fossero abituati all’idea di una donna in carne ed ossa in grado di respingerlo e rendergli pan per focaccia. Credo li abbia storditi e confusi un po’!» disse e, quando Sophie fece per interromperlo, scosse il capo, intimandole di attendere ancora. Poteva scorgere nei suoi occhi il fuoco della giovinezza e dell’intrepidezza divampare in lunghe lingue di fuoco che tendevano verso l’alto le loro spire. C’erano in lei passione, vigore, coraggio e indignazione e seppe che ella fosse ben lungi dall’essere come se l’era figurata. «E la storia del contratto li rende guardinghi. Anche se può essere testardo e irragionevole a volte, il signor Matthews è un gran brav’uomo e siamo tutti affezionati e devoti a lui. Penso che sia diffuso il timore che tu possa volerne approfittare e che lo abbia stordito con la tua bellezza e…» fu sul punto di dire, ma non ebbe modo di continuare, perché Sophie saltò giù dal bordo dell’abbeveratoio e col viso in fiamme lo osservò dabbasso, dando l’impressione di un’arma pronta a colpire l’avversario.
«Ma con chi si credono di avere a che fare?! Sarò un’orfana senza un soldo, ma, se ci fosse stata una sola soluzione per ovviare il problema che non fosse stata il matrimonio, mi ci sarei buttata a capofitto. Sposarlo è la condanna più dura che potessi infliggere a me stessa!» Quasi urlò nel renderlo partecipe dei suoi sentimenti e Guilbert provò un’infinita tenerezza per lei. Spinto da un impulso che avrebbe dovuto reprimere, scese a sua volta dalla postazione che aveva occupato sino ad allora e le si fece vicino fino ad abbracciarla. D’istinto, la sentì irrigidirsi e ritrarsi come scottata dalla confidenzialità di quel contatto; poi, poco alla volta, i muscoli di lei si distesero e, con un sospiro, poggiò la guancia sulla sua spalla, reggendo su di essa il contenuto di migliaia di congetture.
«Adesso, non sei più sola. Di qualunque cosa tu abbia bisogno, ci sarò io.»
*
Un fuoco allegro e scoppiettante faceva da sottofondo all’atmosfera pacifica della cucina di casa Matthews, accompagnando il devoto impegno di Greta nell’ultimo lavoro a maglia e la lettura intenta della novella sposa. Accostate al focolare, le donne sostavano in una condizione di completa quiete l’una accanto all’altra e, se non fosse stato per l’espressione contrariata della più giovane delle due, la si sarebbe potuta descrivere come la perfetta conclusione di una faticosa giornata primaverile. Molte cose erano cambiate in quelle ultime settimane e, sebbene faticasse ancora a comprenderne gli umori, imperscrutabile com’era, la governante non avrebbe saputo dire quanto rapidamente la ragazza avesse conquistato le sue simpatie da che aveva cominciato a mostrarsi per quello che era realmente e ad abbandonare l’aria da ospite diffidente e passeggero.
In un lasso di tempo piuttosto breve, infatti, la taciturna e sfuggente Sophie Matthews era sparita, soppiantata dalla dirompente, impertinente, selvaggia personalità di Sophie Chapman. Altri sei giorni erano trascorsi dal fatidico momento in cui, in compagnia di Guilbert, la giovane si era lasciata andare ad un racconto liberatorio delle motivazioni che l’avevano portata ad accettare quell’unione e degli eventi pregressi che l’avevano resa l’oggetto delle mire di vendetta di Carter, e molte cose erano cambiate d’allora. Pur non avendo la certezza che il giuramento di silenzio dell’altro sarebbe stato mantenuto, le sue sensazioni positive e i messaggi altrettanto rincuoranti che l’aura di lui le avevano inviato erano stati sufficienti ad abbattere le sue titubanze tanto da spingerla a confessarsi come da tempo non le accadeva; e ognuno di quei minuti trascorsi in compagnia dello stalliere le avevano giovato più di quanto fosse stata disposta ad ammettere.
Improvviso ed inatteso, il cambiamento della giovane e bella moglie del signor Matthews aveva sconcertato i domestici e, benché a lungo si fossero interrogati sulle ragioni di tale metamorfosi, nessuna conclusione tratta era parsa più plausibile della precedente. L’apparizione del suo io indomito, che tanto li aveva ammutoliti la mattina successiva al matrimonio, aveva smesso di essere un lontano, vago ricordo e la ragazza aveva assunto le sembianze di una persona che faticavano a gestire. Al di là del vestiario povero e poco femminile, erano state le richieste di lei a condurli verso un cammino tutto in salita: dapprima con calma, aveva chiesto loro di rivolgerlesi senza nessuna imbellettatura signorile e di chiamarla per nome come fosse una di loro, e, quando nessun ascolto era stato prestato al suo invito, ferma e caparbia si era rifiutata di considerare o interloquire con chiunque non avesse accolto le sue parole per vere. E, così, pur riluttanti, si erano visti costretti ad accondiscendere, riscoprendo in lei una piacevole compagnia e una volenterosa apprendista, di qualunque lavoretto si fosse trattato.
Per quanto avessero tentato di mantenere un rapporto ridotto allo stretto indispensabile e per quanto grande fosse l’imbarazzo dovuto alle condizioni di confidenzialità che avevano dovuto accettare, Sophie si era conquistata la simpatia tanto delle donne quanto degli uomini e, a poco a poco, le mura innalzate dalla reticenza avevano cominciato a sbriciolarsi. Certo, il timore che fosse un’impostora non era svanito dalle loro menti e, benché fossero divenuti sentitamente più cordiali e fiduciosi, una parte di loro continuava a mantenersi guardinga. C’era nei modi di lei qualcosa cui non erano abituati, perché non avevano mai avuto modo di approcciarvisi, e ne erano spaventati e affascinati al contempo.
Sophie era tutto quello che la società avrebbe rifiutato e tentato di correggere, era l’emblema della ribellione che i loro avi avevano sempre ripudiato e rappresentava quanto di più lontano si sarebbero potuti aspettare dal padrone di casa: per anni, erano stati abituati a ricevere le più docili e subordinate signore ed ogni loro speranza di un accasamento era stata comunque disattesa, per quanto alcune di esse fossero parse gradite all’uomo; non l’eleganza, non la formosità, non la bellezza o l’essere altolocate erano parse bastare a soddisfare le pretese del trentenne e tutti, persino la famiglia di lui, avevano iniziato a disperare ed aborrire a loro volta l’idea che trovasse moglie.
Per questa ragione, quando era stata recapitata loro la lettera di Carter sull’imminente celebrazione e sulla necessità che ogni cosa fosse predisposta per il loro arrivo, in molti avevano stentato a credere che potesse trattarsi della realtà e non di uno scherzo di cattivo gusto. Per giorni, sottoposti ed inservienti si erano interrogati su cosa fosse accaduto, sulla natura di quel legame così improvviso e, nel momento in cui le spiegazioni erano pervenute con la figura dell’avvocato di famiglia, nessuno aveva saputo trattenersi dall’emettere un’esclamazione di sconcerto. Un contratto!, aveva urlato Greta nel bel mezzo di una crisi di rabbia, Quel ragazzo non ha tutti gli ingranaggi che girano nel verso giusto. Che trovata è mai questa?!, aveva domandato, ma le sue richieste non avevano trovato nessun soddisfacimento.
E, a distanza di quasi un mese da quel momento, non avrebbe saputo se dirsi contenta o meno di aver scoperto cosa si celasse al di sotto di tutta quella vicenda: le fondamenta di quell’unione erano date dall’insopportazione, dalla vendetta, dal sacrificio, nulla che fosse vagamente somigliante ad un sentimento di tenerezza, il quale, se possibile, pareva lontano anni luce dal poter affiorare tanto nell’animo dell'uno quanto nell'animo dell'altra. Nonostante conoscesse le ragioni dell’assenza di Carter e non potesse far altro che comprenderle, difatti, qualcosa le suggeriva che quell’inspiegabile prolungamento avesse a che fare con la morettina che le sedeva accanto e che era motivo di inquietudine per il padrone di casa. Se Sophie era un tormento per l'uomo e se l'assenza di costui rappresentava ragione di sollievo per la giovane, come sarebbe mai potuto sopravvivere quel legame? Come avrebbe potuto trovare un senso, una collocazione, un equilibrio?
Quando, qualche ora prima, Carter era tornato a casa in tutta segretezza e, pur notando la sua contrarietà, l’aveva pregata di non rendere la signora Matthews edotta del suo rientro, Greta aveva definitivamente perso la pazienza e si era giurata di non arrovellarsi ulteriormente su quel rapporto che rapporto non era, per il bene della sua salute mentale. Come previsto, tuttavia, i suoi propositi erano durati ben poco e, rimboccandosi le maniche, aveva tentato di indirizzare Sophie verso un terreno più fertile, proponendole di indossare un abbigliamento più femminile e di lasciarsi acconciare quei meravigliosi capelli con qualche nastro nella speranza di stuzzicare, se non la tenerezza, almeno la passione di lui. Erano valse a ben poco tanto le sue preghiere quanto i suoi rimproveri, però, perché non era riuscita ad ottenere dall’altra niente di più che la promessa di starsene buona in casa per la sera e di dedicarsi ad uno di quei libri che, in passato, aveva visto leggere alle donne di Carter con aria sognante.
«Greta, mi spieghi cos’è questa roba?» chiese d’improvviso la ragazza e, istintivamente, la domestica alzò gli occhi al Cielo, pregando che il buon Dio l’assistesse in quell’ingrato compito. Erano minuti che la sentiva borbottare e lamentarsi a voce sommessa, e più di una volta l’aveva scorta chiudere il libro, sconcertata, per poi costringersi a riprendere la lettura.
«Cosa c’è che non va, adesso?» Con un gesto stizzito, posò il lavoro ai ferri sul grembo e, voltando il capo in sua direzione, le dedicò la propria attenzione. La luce del fuoco le illuminava i lineamenti delicati e riverberi rossastri le coloravano i capelli di sfumature più chiare, rendendola bella come poche altre giovani avesse mai visto in tutta la sua vita. Se solo non avesse avuto quell’espressione birbante..!
«Ma tu hai idea di quale abominio sia contenuto in questi…» Si fermò un istante, portando lo sguardo sulla copertina del volume con espressione sdegnata, come stesse ponderando la portata delle parole che era sul punto di pronunciare. «… libri, diciamo?»
«Non ne ho mai letto uno, ma ho pensato potessero piacerti, perché le altre donne di tuo marito ne sembravano rapite.» le spiegò, inspirando ed espirando con quanta più lentezza fu in grado di imporsi, nella speranza che quella conversazione non proseguisse sulla scia che si era disegnata dinanzi ai suoi occhi. In quelle tre settimane, aveva avuto modo di conversare e scontrarsi con Sophie più di quanto non avesse mai fatto in una vita intera con suo marito, il che era tutto dire.
«Prima di tutto, sai quanto mi dia fastidio che tu lo chiami in quel modo.» fece, alzandosi e guardandola dall’alto della sua statura con cipiglio serio, a tratti minaccioso, e Greta sentì un’ondata di collera montarle in corpo, facendole fischiare le orecchie. Era agli sgoccioli! «Seconda cosa, lascia che ti legga qualcosa per farti capire di che si tratta.» propose con aria a metà tra il divertito e l’esasperato, mentre la governante inalava grosse boccate d’aria nel tentativo di evitare che le esplodessero le coronarie. Fintamente concentrata, la vide sfogliare a lungo il libro e percorrere più passi di esso con gli occhi alla ricerca del brano che cercava; quando, infine, l’ebbe trovato, si schiarì la gola con aria solenne e, non prima di essersi esibita in una smorfia nauseata a sottolineare lo sdegno che provava, cominciò a leggere.
“Josephine guardò l’uomo in alta uniforme sorriderle con calore e le sue gote si tinsero di rosso compiacimento, mentre uno strano tremore, imponendosi sul suo corpo senza concederle tregua, le scuoteva il cuore e la mente.”  Si fermò un attimo, quel tanto che bastava a trattenere una risata; infine, assunse un’espressione drammatica e, portandosi la mano all’altezza delle tempie, proseguì in quella sua recita.“Oh, se l’avesse guardata ancora una volta con simile ardore! Oh, se le sue labbra le avessero regalato di nuovo il dolce ricordo di quell’espressione! Era l’uomo che amava con tutta se stessa, l’uomo che occupava le sue veglie ed i suoi sogni, l’uomo il cui calore bramava come la più impudica tra le fanciulle. Un’ulteriore ondata di calore divampò in lei alla consapevolezza dei suoi pensieri e, se fosse stato possibile, il suo volto già rubizzo si sarebbe tinto di una sfumatura d’imbarazzo mista a passione…” Allontanò il braccio dalla posizione tragica che lo aveva portato ad assumere e, scorrendo ancora avanti, non poté cogliere immantinente il sorriso divertito che aleggiava sulla bocca di Greta, che attendeva con ansia di vederla continuare in quel teatrino comico che aveva scacciato via i suoi malumori. “Claude, con gentili carezze, sfiorò le invitanti curve del suo corpo…”
«Oh Cielo, Sophie!» esclamò la donna, incredula e piena di vergogna alla consapevolezza di cosa stessero per sentire le tue orecchie. «Fermati e abbi pietà per una povera vecchia!» la supplicò e, benché una parte del suo io desiderasse godere ancora dello spettacolo offertole dall’irriverenza della ragazza, il suo senso del pudore prevalse, costringendola ad avanzare la richiesta di porre fine a quella situazione.
«Oh no, mia cara! Mi hai costretta a leggere questo scempio e ne subirai le conseguenze.» ribatté e l’altra quasi non crebbe alle sue orecchie. Possibile che non provasse imbarazzo nell’esporre ad alta voce il contenuto di quelle righe?
“Docile, si lasciò adagiare sui morbidi guanciali del letto patronale e, all’istante, il suo odore femmineo si mescolò al profumo virile di cui sapevano le lenzuola che, a lungo, aveva sperato l’accogliessero. Frenetico, galoppante…” Lesse e, con la mano libera, mimò il movimento degli zoccoli di un cavallo, strappando una risata isterica ad una Greta dal volto in fiamme. “… il suo cuore tamburellava contro il petto, ma non ebbe paura neppure per un istante. Ogni contrazione era un richiamo all’amore dell’altro, ogni rintocco una dichiarazione di devozione, ogni sospiro uno scorcio del sentimento che l’animava da che i suoi occhi l’avevano scorto per la prima volta. E, quando il petto di lui premette contro il suo seno turgido, alimentato dalla passione che per mesi era rimasta sopita e che finalmente era venuta alla luce, e i loro intimi si unirono…”
«Oh, sta’ zitta, dannata!» strillò la donna, costringendo Sophie ad alzare lo sguardo. Quando la vide, il volto nascosto dietro il lavoro a maglia e le spalle che si alzavano e abbassavano freneticamente al ritmo di un cocente disagio, la giovane non seppe trattenersi e si lasciò andare ad una risata sommessa, che la costrinse a chiudere il libro e a premersi le mani sul ventre. In men che non si dica, un cuscino, dapprima, e, poi, quel che rimaneva del maglione ai ferri incompleto vennero lanciati al suo indirizzo, colpendola rispettivamente alla spalla e su un fianco. «Non hai un briciolo di pudicizia, tu? Una donna perbene non dovrebbe… Non dovrebbe…» fu sul punto di dire, ma s’interruppe per assenza di coraggio. In tutta la sua vita, mai le era capitato di affrontare a voce alta simili argomenti e mai aveva provato una vergogna più grande di quanta non ne stesse sentendo in quel momento.
«Cosa, Greta? Non dovrebbe leggere certe cose? No, perché vorrei ricordarti chi mi ha suggerito di “mettermi buona e comportarmi da signora, invece di passare le ore a spalare letame e strigliare bestie”.» le fece il verso e dovette scansarsi per evitare la scarpa volante che la donna le aveva lanciato, indispettita come non aveva ancora avuto occasione di vederla.
«Screanzata, manigolda, irriverente orfanella!» cominciò a dirle, alzandosi dalla poltrona e afferrando il mestolo in legno poggiato sul mobile accanto al camino. Memore delle bravate che aveva combinato a suo tempo presso la dimora Woods e delle imprecazioni di Besede, Sophie sorrise ampiamente e fu sul punto di darsela a gambe verso la sua camera, quando i suoi occhi scorsero la sagoma di un uomo che la costrinse a rimanere impalata sul posto, l’espressione sorpresa, gli arti sospesi pronti al movimento.
Con una spalla poggiata allo stipite della porta, le braccia incrociate al petto e un largo, compiaciuto sorriso sulle labbra, suo marito la osservò a lungo e attentamente come avesse più volte immaginato quel frangente e, a distanza di tempo, lo stesse assaporando appieno, soddisfatto del risultato ottenuto. L’assenza di quasi un mese che lo aveva costretto lontano da casa propria era stata più lunga di quanto non si fosse aspettato e, per l’ennesima volta, benché spesso la sua mente fosse corsa alla figura longilinea che da più di un anno e mezzo occupava tutte le sue fantasie, i suoi ricordi non erano stati in grado di renderle giustizia nemmeno vagamente. I capelli lunghi fino alla vita e scuri scendevano morbidi sul suo corpo e, appoggiandosi dovunque trovassero sostegno, incorniciavano un volto pallido dalle labbra cremisi e dai grandi, espressivi occhi verdi, gli stessi che in quel momento si erano piantati nei suoi a metà tra l’incredulo e il guardingo.
«Buonasera, dolcezza. Mi siete mancata!» la salutò e la sua voce fermò la governante ad un passo dal colpire la ragazza sul didietro. Portando lo sguardo su Greta, scorse sul suo viso la stessa sorpresa, ma si trattò di un istante fugace e, ben presto, quella stessa incredulità si trasformò in disappunto e rimprovero. Bonariamente, sorrise al suo indirizzo. «E’ così che vi prendete cura di mia moglie, signora?» la stuzzicò e, quando tornò alla figuretta della moglie, trovò in lei la donna spavalda del siparietto, munita della stessa espressione da furfante.
«Vostra moglie sta seriamente attentando alla mia salute, signore, un po’ come fate voi. Sarà forse vero che Dio vi ha fatti e, infine, accoppiati?» ribatté e Carter rise della sua esasperazione, ripercorrendo con la mente la scenetta cui aveva assistito negli ultimi dieci minuti e che gli aveva mostrato un aspetto della giovane moglie che ancora non conosceva, un aspetto ironico e pungente, piacevole nel suo essere privo del solito atteggiamento sarcastico e difensivo.
«Sai proprio essere offensiva, Greta, lo sai?» Sophie la guardò seria, con l’aria di chi ha poco gradito una considerazione superficiale ma insidiosa, e la domestica scorse fastidio sui suoi lineamenti e tensione in ogni più piccola porzione del suo volto. Se i suoi piani per suscitare in lei un sentimento muliebre le erano parsi ardui, a quel punto ebbe l’impressione che non avrebbero mai trovato accoglimento.
«Greta, mi fareste il piacere di lasciarmi da solo con mia moglie?» le domandò l’uomo e, più silente e sottomessa di quanto non fosse stata in quegli ultimi tempi, la governante abbandonò la cucina, chiudendosi la porta alle spalle con la speranza che il colloquio tra i due fosse fonte di un risvolto positivo per tutta quella storia.
Una volta rimasto in compagnia di Sophie, Carter percorse la distanza che lo separava da lei e, quando la ebbe raggiunta, le si fece vicino nel tentativo di provare i suoi nervi. Impassibile, la giovane donna lo osservò senza battere ciglio e, persino quando si sarebbe aspettato che indietreggiasse almeno di un passo, lo sorprese, mantenendo imperterrita la posizione. Come da settimane non accadeva, i suoi muscoli, improvvisamente in tensione, si fecero scattanti e una pressione cocente lo percorse dal basso verso l’alto, reagendo anche di fronte all’assenza di impulsi di lei che, come una maschera di cera, l’osservava rabbiosa. Seducente, le sorrise.
«Siete adirata con me?» le chiese e la sua mano si issò fino a raggiungerle la guancia, che carezzò con il dorso delle dita in un gesto lento e carico di indugi.
«Avete altri viaggi in programma?» La sua voce risuonò neutra e i suoi occhi non abbandonarono per un solo istante quelli di lui. Avrebbe voluto scostarsi, avrebbe voluto chiudersi in camera e tirare pugni contro il cuscino, avrebbe voluto addormentarsi stringendo al cuore la speranza di non trovarlo al risveglio.
«No, signora mia. Non ho intenzione di allontanarmi da voi per il resto della vita.» fece, premendo volutamente un tasto che sapeva le arrecasse fastidio più di qualsiasi altra cosa. La mascella di lei vibrò di risentimento e Carter la carezzò con delicato trasporto.
«Così non può andare!» sussurrò, abbassando lo sguardo e puntandolo sul petto di lui senza, in realtà, osservarlo sul serio. Poco alla volta, assunse un’espressione meditabonda e l’uomo, pur malvolentieri, si vide costretto ad abbandonare la sua occupazione e a lasciar cadere la mano lungo il fianco, tenendosi pronto a qualunque eventuale attacco. Da lei, poteva aspettarsi di tutto! «Dobbiamo trovare una soluzione.» sentenziò e, nel farlo, gli voltò le spalle e cominciò a passeggiare avanti e indietro dinanzi al focolare. Una ruga profonda le increspò la fronte e con un sorriso compiaciuto Carter la vide assumere un atteggiamento che apparteneva a lui stesso. Forse, come diceva Greta, si somigliavano più di quanto non fossero disposti ad ammettere.
«Non ho intenzione di liberarvi dai voti nuziali, tesoro.» puntualizzò, accomodandosi su una delle poltrone e godendosi lo spettacolo della moglie che, dopo avergli scoccato un’occhiata di fuoco, tornava a perdersi nelle sue intente elucubrazioni. Passarono lunghi momenti, prima che si fermasse e tornasse ad osservarlo.
«Dobbiamo stipulare una tregua o io rischio di farvi del male e fuggire sulla prima nave pronta a salpare al molo.» Carter ridacchiò, consapevole che quelle frasi esprimessero una verità quanto mai radicata nella realtà. Non dubitava del fatto che potesse nuocergli più di quanto qualunque altra donna avesse fatto fino ad allora, né riteneva che la sua fosse una cattiva idea: se non avessero trovato un accordo, Sophie avrebbe potuto prestare fede alle sue minacce e lui avrebbe potuto soggiacere ai suoi più biechi istinti, preso dal sentimento di rivalsa che spesso aveva la meglio su di un uomo collerico quale sapeva di essere.
«Penso sia un’ottima proposta. Vi ascolto!»
«Io sarò vostra moglie in pubblico, mi sforzerò sul serio di dare una simile impressione quando lo riterrete necessario, ma non voglio che mi mettiate nella posizione di dover venire meno alla mia parola.» fece e, sebbene avesse ancora molte cose da dire, dovette arrestarsi, ascoltando l’intervento dell’altro.
«Sophie, avete idea di quali siano i doveri di una moglie, persino in pubblico? Sapete cosa significa?» le chiese e, sentendola tacere, si alzò, pronto a proseguire. «Significa che, se io ho voglia di baciarvi, sono nel pieno diritto di farlo; significa che, se vi chiedessi di appartarvi in un angolo di qualunque giardino con me e dare l’impressione di due innamorati in preda alla passione, sarei nei pieno diritto di farlo; significa che, se si creasse la necessità, voi dovreste dormire nel mio stesso letto.» disse e la scorse irrigidirsi ad ogni singola frase. La bocca di lei si schiuse con l’intento di ribattere, ma non fece in tempo, perché lui la incalzò di nuovo. «Significa che, se io mi avvicino a voi» e avanzò fino a fronteggiarla «e vi metto una mano sul fianco,» e le sue dita si poggiarono laddove era richiesta la loro presenza da quelle parole «voi dovete accettarlo di buon grado senza irrigidirvi come state facendo adesso. E fingere questo è ben diverso dalla scenetta che avete improvvisato qualche minuto fa!» Nei suoi occhi castani, le fiamme del camino lambirono le sfumature delle sue emozioni e diruppero, divenendo un tutt’uno con l’incendio che stava divampando al suo interno.
«Saprò gestirlo! Se rispetterete la vostra parte dell’accordo e instaureremo la tregua di cui vi parlavo, smetterò di pensarvi come un mirino per le mie frecce.» Insinuante, accennò a un sorriso nella speranza di smorzare i toni, ma seppe di non aver raggiunto l’obiettivo quando, con uno strattone, Carter l’avvicinò a sé e fu costretta a spingerlo via bruscamente, facendolo arretrare di qualche passo.
«Come potete parlare di rispetto e accordi, con quale coraggio osate intimarmi di stare alle vostre condizioni, quando siete venuta meno al contratto il primo giorno della sua validità?» Sophie si morse la lingua, conscia del lampante riferimento di lui, e si chiese se non avesse sbagliato quel giorno ad agire in quel modo, se, presa dalla rabbia e dalla frustrazione che le avevano impedito di ragionare lucidamente, non avesse arrecato a se stessa più danni che guadagni. Se fosse stata più lungimirante, avrebbe compreso che quell’omissione le sarebbe costata cara e che, in un modo o nell’altro, avrebbe dovuto rimediare e pareggiare i conti.
«Perché diavolo vi siete incaparbito su quel bacio?» fece, rabbiosa, e la sua voce tuonò più alta di quanto non avesse voluto. All’inferno i domestici che dormivano, all’inferno Greta che avrebbe sentito ogni cosa! Non ne poteva più di sentirsi recriminare quella mancanza. Nel tentativo di concentrarsi su qualcosa che non fosse la faccia da schiaffi di suo marito, prese in mano il libro sulla cui trama si era tanto accanita e, soppesandone la portata, si chiese se potesse essere abbastanza pesante da far svenire quell’insopportabile spaccone, qualora glielo avesse lanciato.
«Perché sono abituato a riscuotere tutto ciò che mi è stato promesso e mi spetta.»
«Bene.» urlò lei e, incurante del ringhio che era venuto fuori dalla sua gola, gettò il libro in terra con tutte le sue forze. «Se è questo ciò per cui mi tormentate, e sia!»
Tre lunghi passi furono tutto ciò che le servì per colmare lo spazio che la separava da Carter, mentre, quasi caricandolo come una bestia imbizzarrita, lo raggiungeva e poneva fine agli indugi. I suoi movimenti, rapidi e inaspettati, lo colsero di sorpresa e a stento si accorse del braccio di lei che si agganciava automaticamente dietro la sua nuca, del corpo di lei che aderiva al suo e delle labbra morbide che, decise, raggiungevano la sua bocca e vi si posavano sopra. Bastò la frazione di un secondo, tuttavia, perché realizzasse l’accaduto e l’intera sua sagoma reagisse di conseguenza alle sollecitazioni ricevute. Avvolgendole la vita con un arto, se la spinse contro e, frenetico, la fece indietreggiare fino ad incastrarla contro la parente. Ardenti, le sue labbra incatenarono quelle di Sophie nella morsa più irruente cui fossero mai state costrette e, quando lei fece per ritrarsi, il suo volto fu pronto a raggiungerla prima che avesse il tempo di realizzare l’accaduto; ma la giovane non fuggì, né tentò l’impresa, consapevole che le aspettative di Carter andassero ben al di là del superficiale contatto che aveva inizialmente instaurato tra loro.
Calda, la lingua di lui le schiuse la bocca, bramando un contatto che per tutti quei mesi si era limitato a riprodurre nella sua mente, e i suoi sensi lo resero consapevole del fatto che, per quanto accurate e dettagliate fossero state le sue fantasie, non avrebbero saputo rendere gli effetti che quell’istante stava riproducendo sul suo corpo. Impetuoso, scese più a fondo che poté, cercando e assaporando tutto quello per il quale si era fermamente battuto nei mesi passati, e la sua passione crebbe al ritmo delle pronte risposte di Sophie. Avvolto nelle fiamme del suo stesso ardore, la mano libera di lui scese a carezzarle le natiche morbide, perfettamente fasciate dal pantalone di taglio mascolino che le aveva visto indossare la prima volta alla taverna e molte di quelle successive, e, proseguendo lungo la coscia, se la issò contro il fianco, mentre premeva il corpo dell’altra contro la parete.
A più riprese, la sua bocca si aprì e si chiuse sull’altra, più o meno allo stesso modo in cui la sua lingua fu braccata e stuzzicata dalla rispettiva compagna; fu, perciò, un’impresa notevole portarlo alla realtà e spingerlo a farsi bastare quanto si era preso fino a quel momento, al punto tale che, dopo una serie di tentativi a vuoto, la ragazza dovette ricorrere alle maniere pesanti: liberando la coscia dalla presa dell’uomo e ignorando deliberatamente le carezze lascive con le quali indugiò lungo la sua schiena, si servì di un movimento repentino ma ben calibrato. Approfittando del fatto che avesse divaricato le gambe nell’intento di caricarsi Sophie sulla vita, il ginocchio della giovane raggiunse l’esatto punto di unione tra gli arti inferiori di Carter e spinse a fondo più che poté, mozzandogli il respiro e costringendolo a fermarsi. Distratto e surclassato dal dolore, colpito in un punto reso estremamente sensibile dagli ultimi eventi, l’uomo indietreggiò e senza poterlo impedire concesse alla moglie lo spazio di cui aveva bisogno per fuggire.
Reggendosi al muro, chiuse gli occhi e strinse i pugni, e ringraziò Iddio per il senso di assuefazione che stava dando tregua al dolore esplosogli nel bassoventre; in tutta la sua vita, difficilmente gli era capitato di provare un'agonia simile e, nonostante il suo corpo desiderasse correre dietro la figuretta che rapidamente si era precipitata verso le scale, chiudendosi dietro la porta di una stanza, seppe che non sarebbe stato comunque abbastanza rapido, che non avrebbe potuto raggiungerla se non a costo di sfondare l’uscio e allarmare l’intera servitù. Imprecando, tirò un pugno contro il mobile lì vicino e maledisse Sophie e il giorno in cui l’aveva incontrata: lontano da lei, in quell’ultimo mese, era stato in grado di bandire, se non perennemente almeno per buona parte del tempo, il pensiero di lei dalla mente; eppure, erano bastati pochi istanti per sconvolgere nuovamente l’intero suo sistema di priorità. Come avrebbe potuto imporsi il divieto di soffermarsi sulla donna con la consapevolezza di doverle vivere accanto giorno per giorno e con il cocente ricordo di quel bacio scolpito nella mente?
Un’ora più tardi, seduto dinanzi alle ceneri sopite dello stesso camino, con un bicchiere di brandy tra le mani, comprese che la sensazione di dolore sparso all’altezza dei lombi non avesse nulla a che vedere con il colpo che gli era stato inferto.

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