You've traveled across the sun.

di itslarryscomingout
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - 1 ***
Capitolo 2: *** - 2 ***
Capitolo 3: *** - 3 ***
Capitolo 4: *** - 4 ***
Capitolo 5: *** - 5 ***
Capitolo 6: *** - 6 ***
Capitolo 7: *** - 7 ***
Capitolo 8: *** - 8 ***
Capitolo 9: *** - 9 ***
Capitolo 10: *** - 10 ***



Capitolo 1
*** - 1 ***


Edward, che mi ha ispirata.
Tutta per te. 






Quella mattina faceva davvero caldo. Il sole era forte, intenso come non mai. C’era chi passeggiava, portando a spasso il proprio cane godendosi i raggi che battevano finalmente sulle regioni dello Yorkshire, mentre altri si erano rintanati in casa, accendendo tutti i tipi di condizionatori o fonti di fresco possibili. Ed aveva sbuffato per l’ennesima volta, passandosi una mano nei capelli umidi, sporchi per il troppo sudore.
“Accidenti!”, aveva sbottato in preda ad una crisi di nervi, lanciando la penna da qualche parte per terra. Riguardò con rabbia il foglio bianco, se non per qualche scarabocchio. Si era ritrovato senza accorgersene a scrivere una piccola ‘R’ che dalla rabbia aveva cancellato con forza e odio. E Ed si odiava, si odiava perché le aveva dato se stesso pur di vederla sorridere, aveva dato tutto per lei, ma … forse non era abbastanza. Si era alzato svogliatamente dalla sedia, scombinandosi ancora una volta i ciuffi dal color arancia. Aveva sbuffato e si era diretto scalzo nella cucina. Quella casa era enorme, fredda e spoglia senza di lei, senza i suoi sorrisi e senza i suoi occhi del colore del prato. Aveva aperto distrattamente il frigo, prendendo l’acqua, e infischiandosene delle buone maniere aveva direttamente tracannato dalla bottiglia. Se tendeva le orecchie poteva sentire ancora la sua risata riecheggiare tra le pareti, uccidendolo e colpendolo al petto. Aveva posato la bottiglia, passandosi poi il dorso della mano sulle labbra per asciugarsi qualche goccia d’acqua caduta. Si era diretto nella sua stanza dalle pareti di un viola chiaro, il suo colore preferito. Si gettò sul letto, noncurante, rotolandosi fino a finire a pancia in giù, e socchiuse gli occhi, lasciando che i ricordi di lei lo investissero letteralmente.


“Viola? Sul serio Ed?”, le aveva detto lei, inarcando un sopracciglio e guardandolo scettica.
Lui aveva schiuso le labbra, formando una ‘o’, e poi innocentemente “Si, perché? Non ti piacciono?” le aveva detto. 

Lei aveva solo roteato gli occhi, tuffandosi poi sul letto. 


Sorrise un po’, chiudendo gli occhi del tutto. Era bellissima, con i suoi grandi occhioni da cerbiatta, i suoi capelli sempre in ordine e del colore sole. Erano belli, luminosi, profumati, morbidi. Sorrideva sempre dolcemente, e strizzava gli occhi ogni volta che le toccava il naso, arricciandolo. Si rigirò, finendo a pancia in su, e lasciando che delle piccole lacrime di troppo scivolassero dagli occhi. Non ci fece caso. Semplicemente, aggrottando la fronte si era alzato, andando a recuperare il computer che teneva sotto al letto. Scostando un po’ l’aggeggio, aveva trovato una piccola piuma. Quella piuma. La prese insieme al computer, stendendosi poi sul letto, accendendo il macchinario che fece un sonoro ‘bip’. Si perse a guardare quella piuma, ricordando ancora una volta.


“Rose, ma che diavolo è quell’affare che hai in testa?!”, aveva detto lui divertito, mentre lei sorrideva guardandosi allo specchio.
“Guarda che bella, Ginger!”, aveva detto la ragazza, saltando sul posto e battendo le mani, felice. Lui l’aveva abbracciata, facendo una smorfia quando qualche pelo di quella strana piuma colorata gli era finita nell’occhio, e poi aveva sorriso, dandole un bacio sulla guancia.
“Si dai, è carina!”, aveva sorriso lui.


 
Aveva inserito la password che ancora si ostinava a non cambiare. Rosemary. Questo era il suo vero nome. A Ed piaceva da morire, così, dopo aver passato una serata con lei a giocare ad un gioco di società strano, l’aveva accompagnata a casa. Le aveva lasciato un piccolo bacio all’angolo della bocca e poi era andato via, felice di quello che stava costruendo con lei. Era ritornato a casa, e aveva deciso che il nome di quella ragazza sarebbe stato la sua password.
Aveva scosso la testa, sollevato dal fatto che almeno lo sfondo del desktop non fosse lei, ma soltanto la foto di un paesaggio. Si era collegato subito ad internet, andando su Twitter. Scosse la testa, mentre un altro ricordo s’impossessava delle sue meningi.



-Sei importante per me. Credo di amarti come non ho mai amato nessuno. Mi fai stare bene, ma non posso continuare così. Non riesco a nascondermi ancora. Non ci riesco. Non voglio continuare a vivere una relazione all’oscuro dal mondo. Voglio manifestare la mia felicità a tutti, ma … non sono pronta. Forse avrei dovuto fermare tutto prima che iniziasse davvero. Ti … ti voglio bene Ed. Sii felice. Fallo per me. Ti voglio bene, addio.
Rosemary. –
 

Si era firmata così. Un semplice Rosemary. Un ti voglio bene che Ed personalmente avrebbe voluto tramutare, e un addio senza neanche un saluto. Lei era andata via. Ed aveva provato a chiamarla. Ogni giorno ci aveva provato, fino a quando la vocina della segreteria aveva detto ‘Il numero da lei chiamato, è inesistente.’ Poi si era arreso. Lei era andata via, e con sé si era portata anche il cuore di Ed. 

 
Chiuse frustrato la pagina di Twitter, deciso a non accedere. Per una volta voleva allontanarsi dalla sua fama. Era quella che gliel’aveva portata via. Rose era andata via perché lui era stato troppo codardo da non riuscire a dire al mondo intero che c’era lei. Ma non per vergogna, ma semplicemente perché voleva avere una vita privata, lontana dai riflettori e dalle chiacchiere altrui. Decise di andare su Facebook. Sorrise un po’quando gli balenò un’idea per la testa. Entrò su una varietà di siti, creandosi poi una nuova e-mail e infine un nuovo contatto. 
Edward Cohen, questo era il suo nuovo nome. 
Sorrise, cominciando a mandare richieste a chiunque si trovasse davanti e nei suggerimenti. Talvolta si era ritrovato con nomi italiani davanti, ma facendo spallucce aveva continuato a inviare le richieste d’amicizia. In pochi secondi si era ritrovato con minimo dieci amici, e man mano che il tempo passava questi aumentavano.
“Fantastico!”, aveva mormorato dopo un’ora, quando ormai aveva circa cento amici. C’erano gli italiani, gli svedesi, gli americani … di tutto.
Aveva scorso la rotellina del mouse e controllato un po’ cosa succedeva in giro, poi, come se niente fosse aveva scritto uno stato: 
‘ L’inizio di una nuova vita. ’
Aveva sorriso e poi chiuso lo schermo, lasciando che il computer andasse in stand-bye. Il sole era calato e con lui la temperatura all’esterno, rendendola accettabile.
 







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Capitolo 2
*** - 2 ***


Edward, che continuava a chiedermi quando postassi.
E ai suoi ‘voglio leggere’, che continuavano a farmi tenerezza.♥
 
 
 
‘Ciao papà. Mi manchi tanto.’
‘Chissà perché ma sono sempre le persone migliori a volare via.’
‘Sono solo stanca di tutto questo. Mi manchi come l’aria.’
‘Perché mi hai lasciata da sola?’
‘Forse dovrei solo darci un taglio. Se la vita ti ha portato via da me, allora io verrò con te papà .’


Ed sentii il cuore battere più veloce rileggendo quelle parole.
Hannah Owen. Questo era il nome di quella ragazza. Ed aveva deciso di vedere un po’ le cose in giro e … aveva trovato tra gli amici questa Hannah. Era stato inizialmente attirato dall’immagine della ragazza. Aveva i capelli color nocciola, lunghi e mossi, gli occhi dalle varie sfaccettature verdi. Sorrideva genuinamente e aveva le guance leggermente rosse, con una leggera spruzzata di lentiggini.
Adorabile. Ed l’aveva trovata adorabile stretta nel suo maglioncino di lana - segno che era una foto scattata parecchio tempo prima – e carina nel suo sorridere felicemente, come se la vita fosse la cosa più bella che avesse. Aveva deciso di guardarle il profilo, cercare di scoprire qualcosa in più su di lei, ma tutto quello che si era ritrovato a leggere gli aveva solo distrutto il cuore.
Si passò una mano nei capelli scostandoli, mettendosi più comodo sul letto e avvicinandosi si più il computer a sé. Per una volta sentiva di non avercela fatta, di aver fallito. Non sapeva cosa fosse successo a quella ragazza ma poteva immaginarlo. Solo leggendo quegli stati poteva sentire il dolore, la frustrazione, la tristezza di lei. Avrebbe voluto scoprirlo, sapere cosa avesse, perché non riuscisse a sorridere. Voleva sapere come aiutarla, come fermarla. Quell’ultimo stato gli aveva mozzato il respiro. Lo aveva pubblicato solo qualche minuto prima che lo leggesse e sembrava quasi stesse tentando il … suicidio.
Ingoiò un groppo di saliva e cliccò sul rettangolo sotto lo stato.
“Ora o mai più”, disse sottovoce, guardando la tastiera e digitando velocemente le parole.


-Sicuramente non vorrebbe tutto questo.-
 


Semplice e coinciso. Rilesse nuovamente il commento e poi chiuse gli occhi inspirando, riaprendoli subito dopo e cliccando su ‘invio’. Aprì la finestra della chat, sentendo lo stomaco in subbuglio. La stava cercando.
E lei era lì, in linea. Aprì la finestra della sua chat con la mano tremolante indeciso se scriverle o meno. Avrebbe voluto che lei gli rispondesse, che gli facesse capire che aveva letto il suo commento. Nessuno sembrava accorgersi di quella piccola ragazza indifesa. Nessuno che le commentasse uno stato, nessuno che le dicesse ‘ehi, ci sono qui io’. Ed avrebbe voluto farlo, avrebbe voluto dirglielo, ma … non ci riusciva.

-Non mi avrebbe lasciata sola, allora.-

 

Ed sentii il cuore palpitare. L’aveva notato e gli aveva risposto. Sorrise impercettibilmente e riaprì la chat della ragazza, fissandola. Scosse poi la testa e digitò un piccolo ‘ciao’. Fece l’ennesimo piccolo sospiro e poi lo inviò. Poggiò la testa sui palmi delle mani e aspettò che rispondesse. Sotto la finestra della piccola chat uscì ‘visualizzato alle ore 04:58 p.m.’. Sentii il cuore salirgli in gola, così come l’ansia. Si passò una mano tra i ciuffi arancioni e cacciò dell’aria in uno sbuffo seccato. “Che caldo, mio Dio”, sospirò, alzandosi dal letto su cui era steso sfilandosi la maglia e gettandola da qualche parte. Chiuse accuratamente la porta in legno che portava sul balcone e che affacciava sul giardino nella parte del retro, e con un ‘click’, accese il condizionatore. Si risedette sul letto, avvicinandosi il computer alle gambe coperte da dei calzoncini beige, e si mordicchiò un’unghia notando che la ragazza lo aveva palesemente ignorato. Erano passati cinque minuti, ma quella sembrava non volergli minimamente parlare.

Edward 04:57 p.m. : ‘Ciao.’    
Edward 05:03 p.m. : ‘Piacere, sono Edward.’                  
Hannah 05:04 p.m. : ‘Ciao.’

Edward sorrise lievemente nel vedere la risposta della ragazza e fece un piccolo gridolino che soffocò nella gola. Si strofinò le mani sudate, asciugandosele poi sui calzoni e scrisse nuovamente.

Edward 05:04 p.m. : ‘Come stai?’
Hannah 05:06 p.m. : ‘Scusa, non vorrei sembrarti scortese o altro, ma … non ho voglia di parlare con nessuno ora. Tantomeno con gente che vuole conoscermi. Ci si sente, okay?’       
               
Ed si morse l’interno guancia, non sapendo cos’altro dire. Avrebbe voluto parlarle, avrebbe voluto dirle che non era sola, che … avrebbe voluto semplicemente farle capire che a lui importava di lei.


Edward 05:08 p.m. : ‘Non volevo disturbarti, scusa, ma … volevo solo dirti che … che qualsiasi cosa ti sia successa, tu non sei sola.’


Inviò il messaggio senza pensarci due volte e si sentì anche stupido. “Che cazzo ho combinato?” urlò, battendo una mano sul materasso dal nervosismo. Andò nella home e scrisse un nuovo stato.
‘Per la prima volta mi sento inutile. Non riesco ad aiutare qualcuno.’
Riguardò la chat aperta con la ragazza, constatando che lo aveva ignorato, e senza pensarci due volte chiuse la finestra del social network. Spense il computer in pochi gesti e si alzò furioso dal letto. Avrebbe voluto prendersi a schiaffi, a calci, martoriarsi e urlarsi da solo che era uno stupido. Avrebbe voluto fare qualcosa per quella piccola e innocente creatura che chiedeva aiuto a tutti, ma nessuno al di fuori di lui ci aveva provato. E sapere che qualcuno stava male gli faceva sentire le budella contorcersi nello stomaco.
“Stupido”, si disse ad alta voce mentre trafficava tra i vestiti delle biancheria estraendone dei boxer puliti e dei calzini. Non sapeva come sentirsi, se più stupido o più … inutile. Era la millesima volta che se lo ripeteva, ma non riusciva a smettere di pensarci. S’infilò sotto la doccia e aprì il getto d’acqua fredda che lo fece rabbrividire subito. “Cazzo”, imprecò chiudendo gli occhi e sentendo i capelli sulla testa afflosciarsi sotto il getto vaporoso e intenso. Rimase qualche minuto a regolare l’acqua e alla fine si abbandonò a quel tocco ormai piacevole. Si massaggiò la cute con un po’ di shampoo tra le dita e ripensò alle frasi della ragazza.
‘Chissà perché ma sono sempre le persone migliori a volare via.’, diceva uno dei suoi stati. Aprii gli occhi di scatto e sputacchiò un po’ d’acqua che gli era entrata per sbaglio in bocca, e si appoggiò ad una parete in vetro del box doccia.
‘Perché mi hai lasciata da sola?’, ne diceva un altro.
‘Ciao papà. Mi manchi tanto.’, diceva invece il penultimo.
Il papà. Aveva perso il papà. Si sciacquò velocemente dalla schiuma, pulendosi con noncuranza il corpo e andando poi verso la sua stanza con solo un asciugamano a coprirlo. Camminò per il parquet freddo in punta di piedi e si sedette sul letto appoggiando i gomiti sulle ginocchia e la testa sui palmi volgendo lo sguardo al pavimento. Aveva perso il papà, ecco cos’era successo.
“Come ho fatto a non capirlo prima?”, sussurrò alzandosi e asciugandosi velocemente indossando dei vestiti puliti.  
“Se la vita ti ha portato via da me, allora io verrò con te papà.”, sussurrò più a sé stesso che a qualcuno, facendo sbucare la testa fuori dalla t-shirt verde e bianca. Si era dato un’occhiata allo specchio, nascondendo i capelli sotto un berretto, e poi aveva preso le chiavi e il cellulare. Aveva dato un’occhiata in giro e nell’appartamento illuminato lievemente dalla luce solare, e poi uscì di casa, sentendo le parole della ragazza rimbombargli nelle orecchie e trafiggerlo come lame.
Quasi come se il dolore fosse diventato il suo.
 





 

 

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Capitolo 3
*** - 3 ***


Edward, a cui mi piace dedicare questo piccolo angolino sul lato destro.
A tutte le sue continue minacce per farmi continuare,
e a quello che mi ha promesso di leggere.
 ♥
 
 

 
 
Aveva delle profonde occhiaie a contornargli gli occhi, mentre le guance erano rossastre e ruvide. Da quanto non si faceva una barba? Tre giorni? Quattro? Una settimana? Non lo sapeva neanche lui, ma non gl’importava poi così tanto. Quella pausa dalle prove in studio gli stava facendo piacere, anche se quando stava a casa non faceva altro che pensare a dei discorsi per parlare con quella ragazza, quell’Hannah. Aveva tentato di tutto.
‘Ciao, piacere, sono Edward.’
No, no, niente da fare.
‘Ciao, come stai?’
No, banale.
‘Ciao, ho letto altre dieci volte i tuoi stati, e volevo sapere cosa c’è che non va .’
No, no, e ancora no.
Si passò una mano nei capelli –azione che ormai compiva abitualmente come un tic- e sbuffò chiudendo gli occhi. Aveva fatto passare un giorno intero da quando aveva scritto quel messaggio a quella ragazza dandosi dello stupido, eppure non riusciva a non pensarci. Sentiva sempre le mani sudargli incessantemente quando aveva il telefono in mano perché voleva sapere se gli aveva risposto, ma poi si diceva ‘Non dovresti assillarla Ed’, e allora posava il cellulare e tornava a guardare la tv con nonchalance. Quando invece entrava in camera, vedeva il computer socchiuso sul letto disfatto, con le lenzuola ormai da cambiare, si grattava una tempia pensando a cosa dovesse fare e poi facendo spallucce e sentendo un vuoto nello stomaco, tornava in un’altra stanza. Aveva cercato anche di distrarsi, ‘Devo scrivere qualcosa di geniale’, aveva detto. Ma poi si rinchiudeva in quella stanza, e si chiedeva quali fossero le parole giuste da usare per quella canzone. 
“Vaffanculo”, sbottò in preda ad una crisi di nervi. Prese le chiavi dal piccolo posacenere nell’entrata della casa, e si chiuse la porta alle spalle che fece un tonfo sordo. Scese velocemente i tre scalini dell’ingresso e continuò a camminare lungo il marciapiede a testa bassa. Non si era neanche messo un cappello, degli occhiali o qualsiasi cosa avesse potuto nasconderlo da occhi indiscreti, ma ‘non m’importa’ si disse mentalmente alzando lo sguardo e posando gli occhi sulla strada. Era nuvoloso il tempo e forse avrebbe anche piovuto, ma poi non gl’interessava così tanto, si sarebbe riparato in qualche caffetteria al massimo. Camminò per un po’, sollevato dal fatto che nessuno lo avesse riconosciuto, di tanto in tanto fermandosi per far passare le automobili. C’era tanta gente, la maggior parte erano turisti –infondo era agosto, era anche comprensibile- e c’era chi parlava a telefono, chi chiacchierava con qualcuno fermo in un angolo del marciapiede, chi portava il proprio cane a spasso, magari con i propri figli. E Ed si sentiva estraneo a tutto quello. Avrebbe voluto un po’ di silenzio, un po’ di pace da tutto quel trambusto. Attraversò la strada, guardando se ci fossero auto, e appurato che non ce ne fossero continuò a camminare fino all’altra sponda della strada, dirigendosi ad un parco poco lontano da casa sua. Era piccolo, a malapena c’era una fontanella al centro dello spiazzo circolare, ma fin da piccolo gli era sempre piaciuto quel posto, anzi gli era dispiaciuto quando lo avevano chiuso per abbattere gli alberi. Li avevano dimezzati di molto, i lavori però non continuavano più da anni e pian piano l’erba e i pochi alberi rimasti erano cresciuti. Si avvicinò al cancello arrugginito e sporco di terreno. Vi passò delicatamente una mano sopra, come per non fargli del male, e si guardò intorno, cercando di vedere se c’era  qualcuno. Aspettò circa cinque minuti stando fermo lì, girandosi di tanto in tanto quando le persone lo guardavano aggrottando le sopracciglia, e lui incrociava le dita sperando che non lo avessero riconosciuto. Pensò anche di aver sentito urlare un ‘Ehi, ma quello non è ...?’, ma poi l’urlo era cessato e lui si era rigirato vedendo che non c’era nessuno. Si passò una mano sulla fronte e guardò il cancello trovando un punto d’appoggio per il piede, così, goffamente si aggrappò al cancello e lo scavalcò, atterrando dall’altro lato, nell’erba fresca e alta. Camminò sentendo i fili verdi toccargli le gambe e fargli un po’ di prurito, ma presto raggiunse il suo posto, il suo albero. Era un quercia gigante, piena di foglie grandi e verdi. I rami s’intrecciavano tra di loro, formando forme strane e buffe o ‘disegni’, come diceva lui. Si guardò intorno e alla fine fece spallucce sedendosi a terra tra l’erba umida e il terriccio che molto probabilmente gli aveva già sporcato i calzoni, ma non se ne curò più di tanto. Appoggiò la schiena sul tronco dell’albero e osservò il cielo. Le nuvole erano grigie, bianche, rosa. Batuffoli immensi dalle molteplici dimensioni e colori. A Ed piaceva guardare il cielo, in particolare quando era azzurro, limpido, pulito, ricco di nuvole bianche. Chiuse gli occhi rilassandosi quando l’aria fresca gli sferzò le guance dandogli una sensazione di sollievo istantaneo. Rimase in quella posizione per un tempo indefinito, fino a quando una vibrazione non lo distrasse da quella calma apparente. Schiuse gli occhi, osservando la fontanella davanti a sé da cui scorreva ancora un po’ d’acqua. Si portò una mano alla tasca, estraendone l’IPhone bianco ultima generazione e sbloccò lo schermo con un gesto veloce, notando che era una notifica da Facebook. Sgranò leggermente gli occhi e si issò dal tronco, incrociando le gambe e appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Aprì il messaggio e sorrise lievemente quando vide il mittente.

Hannah ore 04:09 p.m. : ‘Ciao.. Ehm.. scusa per l’altra volta. Grazie.’

Sorrise a trentadue denti e si poggiò una mano sulla fronte tirandosi qualche ciuffo rosso, scompigliandosi ancora di più i capelli per quanto fosse possibile e si morse il labbro pensando ad una risposta.

Edward ore 04:11 p.m. : ‘Ciao (: ’

Rispose semplicemente, alzandosi da terra e pulendosi malamente il pantalone sporco e dirigendosi verso il cancelletto. Lo scavalcò senza problemi e si affrettò a tornare a casa mentre qualche goccia scendeva bagnando la strada. Sorrise quando la ragazza gli rispose.

Hannah ore 04:15  p.m. : ‘ (: ’

E sorrise anche lui a quella piccola faccina sorridente, sentendo che infondo, nonostante la pioggia, ci fosse un forte sole a colpire il suo cuore.






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Capitolo 4
*** - 4 ***


A Edward, che per San Valentino 
mi ha mandato la foto di due cioccolatini e mi ha detto:
'Uno è mio e uno è tuo. <3'  





La ragazza immerse solo la punta del dito appurando che l’acqua fosse calda abbastanza. Chiuse il rubinetto che ancora cacciava acqua e poi entrò nell’acqua limpida, sentendo la pelle bruciare e contrarsi notando la differenza di temperatura. Chiuse gli occhi e si rilassò nel sentire i muscoli dilatarsi. Si immerse fino al collo e bagnò anche i capelli, mentre nell’aria si diffondeva odore di ciliegia proveniente dal bagnoschiuma dalla confezione orribilmente rosa. Vide alcune immagini passarle davanti agli occhi e si morse le labbra a sangue sentendo cadere dagli occhi delle piccole e impercettibili lacrime che scesero lungo gli zigomi fino a scontrarsi con la superficie dell’acqua e confondersi con essa. Spalancò gli occhi e se li sciacquò, poi prese lo shampoo e se ne versò una generosa quantità sulla mano fino a quando non cominciò ad insaponarsi i capelli, accarezzandosi piano la cute. Sentii il cellulare messo pericolosamente sul bordo della vasca vibrare, e si sciacquò le mani maledicendo mentalmente chiunque fosse e se le asciugò con un asciugamano messa su una sedia in legno lì vicino e prese il cellulare, guardando che era una notifica da Facebook.
“Dovrei imparare a chiuderlo questo coso.” Mormorò, aprendo la chat.
Ma poi sorrise un po’ nel vedere il nome di Edward. Si erano conosciuti circa un mese prima, quando lei stava nel peggio della sua vita. Non che ora stesse meglio, anzi, molto probabilmente sarebbe dovuta andare da un possibile psicologo, ma alla fin fine non le dispiaceva parlare con quel tipo.

Edward 08:23 p.m. : “Ciao H :)”

H. Ormai il suo nome intero era stato ribattezzato con H. Sorrise un po’ e poi, stando attenta a non far cadere l’aggeggio nell’acqua, digitò velocemente una risposta.

Hannah 08:25 p.m. : “Hola.”

Non era mai stata brava nelle conversazioni, spesso era persino acida e scorbutica, però non era colpa sua. Di persona era sicuramente diversa, ma lì di mettere faccine sorridenti non ce la faceva. Non la rispecchiavano. Non erano lei. Erano così… false? Si, le sembravano la cosa più falsa del mondo, quasi come se dopo quella faccina sarebbe successo qualcosa di brutto. Quindi evitava semplicemente di farle quando la sua giornata cominciava male. Solo in casi rari si permetteva di fare uno strappo alla regola.

Edward 08:27 p.m. : “Come stai?”
Hannah 08:28 p.m. : “Al solito. Te?”
Edward 08:29 p.m. : “Se non mettiamo in conto che stavo cadendo per le scale direi bene.”

La ragazza rise e si batté una mano in fronte, sporcandosi di shampoo, fece una smorfia e digitò la scritta con una sola mano.

Hannah 08:31 p.m. : “Finisco un attimo di lavarmi, non scrivere sennò il cellulare mi cade nella vasca. Ti contatto io :) x”

Fece una smorfia ma alla fine decise di mettercela la faccina. Posò il cellulare, mettendolo però sulla schiena, e s’immerse nell’acqua fino a scomparirvi dentro, sciacquandosi così i capelli ancora schiumosi.

Dall’altra parte Ed arrossì con un sorriso. Si alzò distrattamente dalla scrivania e si diresse in cucina. Il tempo stava peggiorando di giorno in giorno, pioveva sempre, c’era il vento e ogni tanto era anche costretto a mettersi le maniche lunghe, però non era poi una novità che succedesse. Anzi, la settimana di sole che c’era stata era anche troppo e ormai l’estate era anche agli sgoccioli. Aprì il frigo privo di cibo e fece una smorfia. Si grattò la pancia scoperta e si avvicinò alla dispensa aprendo qualche anta, ma no, c’era pasta, farina, zucchero, sale… e niente cibo. Sbuffò e scalzo ritornò nella stanza, controllò la chat al computer e notò che di Hannah non c’era traccia. Sorrise pensando un po’ a lei. Forse alla fine era riuscito ad avvicinarla. Era passato un mese da quando aveva provato a parlarle e lei finalmente sembrava sopportarlo anche. Ogni tanto rispondeva male, altre faceva battute orribili a cui lui rideva comunque, altre volte semplicemente lo ignorava, ma comunque parlavano, che cosa poteva chiedere di meglio? Non aveva chiesto nulla della sua vita e sicuramente lei non gliene avrebbe mai parlato, ma cercava di non pensarci perché sennò avrebbe rischiato di rovinare tutto ciò che aveva costruito. Indossò distrattamente un pantalone e una maglietta, mise dei calzini neri –per giunta bucati- e s’infilò le scarpe consumate, da lavare. Prese il cellulare, chiavi, portafoglio e inforcati degli occhiali da sole e un cappello di lana, uscì di casa. Con le mani in tasca si diresse al primo supermercato –quello più vicino era a circa cinquecento metri da lì- e scansò la gente che camminava. Ultimamente nessuno faceva caso a lui, tanto che si chiese se la gente li usasse davvero gli occhi, ma poi si diceva mentalmente che non era poi chissà chi e che non aveva nessun motivo di preoccuparsi se la gente lo riconoscesse o no. Camminò a passo svelto, guardando per terra e le scarpe che talmente erano sporche si confondevano con l’asfalto scuro, e alzò la testa solo quando la porta automatica si aprì. C’era tanta gente, il chiacchiericcio di sottofondo molto fastidioso, le casse colme di gente.
“Oddio, che incubo.” Si disse, prendendo poi un carrello. Lo trascinò per il primo reparto che conteneva frutta e verdura e vi passò davanti con disinteresse. Continuò fino a raggiungere il bancone della salumeria e notando che davanti a lui c’erano minimo dieci persone, scosse la testa passando avanti. Niente salumi, niente formaggio! Troppa gente. Camminò per il reparto con i freezer e prese una busta di latte, continuò a camminare e prese degli yogurt. Poi la vibrazione del cellulare lo distrasse, facendogli cadere anche un vasetto con yogurt alla fragola, rompendosi. Spalancò la bocca, guardandosi intorno, e notando che nessuno lo guardava, lo spinse un po’ allontanandosi. Sospirò e poi recuperò il cellulare dalla tasca.

Hannah 09:03 p.m. : “Ora profumo. Chi è ora quella che puzza? Tzè.”

Sorrise leggendo il messaggio e pensò a quando lei gli raccontò che aveva sudato così tanto che puzzava. Lui ne aveva approfittato per prenderla un po’ in giro.

Edward 09:04 p.m. : “Io invece ho appena finito di rompere un vasetto di yogurt alla fragola, che ora si è praticamente spiaccicato al pavimento. Grazie, per avermi spaventato con la vibrazione!”
Hannah 09:04 p.m. : “Che sfigato, haha. Ti sta bene, così impari!”

Spinse il carrello e continuò a camminare fino ad arrivare nel reparto pieno di cioccolata. Sorrise e passando lentamente, prese tutto ciò che aveva un nome carino.

Edward 09:07 p.m. : “A meno che non guardino le registrazioni e mi vedano mentre spingo il barattolino sotto il frigo. E’ possibile ricevere una denuncia? ;)”

Rise e poi, guardò una barretta al cioccolato bianco e la buttò nel carrello.

Hannah 09:09 p.m. : “Uhm.. non so. In tal caso fammelo sapere, avrò un modo per ricattarti ;)”
Edward 09:10 p.m. : “Sarà fatto, haha.”
Hannah 09:10 p.m. : “Ad ogni modo, che devi comprare?”
Edward 09:11 p.m. : “In realtà sto nel reparto cioccolata. Tutto ciò che ha un nome carino si trova nel mio carrello!”
Hannah 09:11 p.m. : “Oh, wow.”
Edward 09:12 p.m. : “H, tutto ciò che ha a che fare con la cioccolata è ‘wow’.”

Prese una confezione di cereali al miele –che oltretutto non aveva mai provato- e continuò a prendere schifezze, tra cui patatine, coca cola e birra. Guardò il carrello pieno solo di schifezze e si disse che forse per quella sera sarebbe potuto anche andare avanti in quel modo poco sano. Fece spallucce e si avvicinò alle casse. Ne trovò una in cui c’erano solo due persone e come un bambino ci si catapultò.

Hannah 09:12 p.m. : “Ti odio, mi stai facendo venire voglia di cioccolata. Casa mia è vuota, praticamente.”
Edward 09:16 p.m. : “Invidiami allora. Ho comprato solo quella.”

Sorrise imbambolato e solo quando sentì una signora dietro spingerlo bruscamente si accorse che era il suo turno. Si scusò mortificato e cominciò a imbustare tutto velocemente, porgendo poi i soldi richiesti dalla cassiera.
“Grazie ed arrivederci.” Disse poi la cassiera senza neanche guardarlo. Ed prese le due buste colme e poi uscì, mentre un forte vento lo colpì. Si strinse nelle spalle e camminò velocemente verso casa, raggiungendola in meno di dieci minuti. Gettò le buste sul tavolo, accese la luce e il televisore. Posò il cellulare sul tavolo e poi svuotò le buste sul tavolo, sorridendo nel vedere quintali di cioccolata.

Edward 09:37 p.m. : “Mi duole mangiare tutta questa cioccolata da solo.”
Hannah 09:39 p.m. : “Fottiti.”

Rise a gran voce e poi, prendendo qualcosa a casaccio dal tavolo, se ne andò in camera.
Forse creare quel contatto non era stata un’idea così malvagia. 







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Capitolo 5
*** - 5 ***


A Edward, che guarda le tette della ragazza nella mia 
icon di twitter e che mi ha chiamata 'babbana'.






 

“Lasciami in pace! Vai via!”urlò la ragazza a gran voce sbattendo la porta in faccia alla madre. Cominciò a respirare affannosamente e chiuse gli occhi quando li sentì riempirsi di una patina trasparente. Poggiò le mani ai lati della porta, chinando in avanti il capo, lasciando che i capelli nocciola le cadessero ai lati del volto. Era stanca, di tutto. Si girò, poggiando la schiena sul legno bianco e scivolando su di esso fino al pavimento. Si odiava. Odiava quella casa ricca di ricordi. Odiava la sua stanza ormai priva di vita. Odiava sua madre che continuava a bere. Odiava il vento, la pioggia, il sole, le nuvole e Londra in generale. Non sopportava più tutto quello. Il suo corpo venne scosso da violenti singhiozzi e in pochi e brevi istanti si ritrovò il viso completamente bagnato. Si passò una mano tra i capelli stringendoli un po’e tirandosi anche qualche ciocca che le rimase orribilmente impigliata alle dita. Già, ultimamente lo stress le faceva perdere troppi capelli; o forse erano semplicemente le sue mani che ormai tiravano troppo forte il cuoio capelluto. Si alzò da terra, poggiandosi poi sul letto stancamente. Erano solo le dieci del mattino, ma lei non aveva fame da giorni. Spesso mangiava solo perché le veniva imposto, ma più di quel tanto non faceva perché poi le si chiudeva lo stomaco e era costretta a correre in bagno per vomitare tutto. Fece una smorfia e si pulì le lacrime sulla federa del cuscino. Da quanto non cambiava quelle lenzuola? Ormai la sua stanza era un disastro. Il letto non veniva cambiato e rifatto da giorni, i libri e i vari quaderni ridotti a brandelli dalle sue stesse mani erano in un angolo della stanza sul pavimento, le mensole erano ormai ricoperte da un sottile strato di polvere e la luce e l’aria pulita non entravano lì da qualche giorno. Sentì sua madre urlare dalla cucina, dirle qualcosa, minacciarla forse, ma non se ne importò neanche. Suo papà … già, se ci fosse stato suo papà sarebbe stato tutto diverso. Soffocò un singhiozzo sul pugno chiuso della mano e strinse gli occhi che ormai le facevano pure male. Si morse il labbro a sangue fino a sentirne il sapore metallico sulla punta della lingua. Si alzò dal letto, mentre la testa le cominciava a dolere, e inciampò su una scarpa lì per terra. Soffocò un grido di frustrazione nella gola stringendo forte i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi delle mani e poi si rialzò lentamente, guardando attentamente se sul pavimento ci fosse qualcos’altro che l’avrebbe potuta far ricadere facendole rischiare l’osso del collo. Si asciugò le lacrime e accese la piccola lampada sulla scrivania illuminando la stanza piccolina e il computer portatile spento ma con lo schermo aperto. Pigiò il pulsante, facendolo diventare blu, mentre man mano lo schermo cominciò a prendere colore. Era esausta. Non faceva più nulla, ma era sempre e costantemente stanca. Odiava tutto, tutti e soprattutto se stessa. Era colpa sua per tutto, o almeno così pensava. Sua madre non faceva che ordinarle cosa fare, e poi beveva, beveva tanto e troppo. Hannah represse un conato di vomito e per distrarsi guardò il computer che finalmente si era acceso. Lo schermo raffigurava una sua foto, una delle ultime fatte insieme al suo papà. Sentì il cuore appesantirsi di botto, il respiro mozzarsi di nuovo e le lacrime scendergli sulle guance come se niente fossero. Abbassò la testa, piangendo di nuovo. Poi, sempre con le lacrime agli occhi, si alzò e si diresse in cucina, dove c’era sua mamma seduta su una sedia a guardare il vuoto. Le finestre e le porte erano aperte, mostrando un lieve sole, ma quello non servì a farla stare meglio. Aprì il frigo, prendendo una bottiglia d’acqua e un bicchiere di vetro dal mobile.
“Perché mi hai sbattuto la porta in faccia, eh?”
Urlò improvvisamente la madre della ragazza, girandola e spingendola con una spalla contro il mobile dietro di lei. La giovane fece una smorfia, ma non rispose. Lo aveva fatto di nuovo. Era solo mattina ma lo aveva fatto di nuovo: aveva bevuto. Riusciva a sentire la puzza di vodka provenire dalla madre e represse un altro conato.
“Sto parlando con te, Hannah! Non osare neanche a non portarmi rispetto!”
Continuò la donna, dandole poi uno schiaffo. Il bicchiere che la ragazza stringeva tra le mani piccole cadde sul suolo, schiantandosi e rompendosi in mille pezzettini pericolosi. Poggiò lo sguardo su sua madre e nera di rabbia la spinse.
“Smettila! Smettila di dirmi cosa devo o non devo fare! Sei mia madre, ma ti ricordo che ho diciotto fottuti anni! Mi fai solo pena!” urlò, dandole un altro spintone facendola scontrare contro il tavolo. Avrebbe voluto abbracciarla, non spingerla, ma proprio non ce la faceva. Le mancava la sua vecchia mamma, quel mostro non era lei.
“Ti ho detto di lasciarmi in pace, porca puttana! E guardati lì”-disse indicandola con un cenno lieve del capo- “sei ubriaca marcia e pretendi anche che ti ascolti. Smettila!”
Concluse in un altro urlo, mentre nuove lacrime scesero sulle sue guance. Senza più soffermarsi a guardare la madre andò via, sentendo anche qualche pezzetto di vetro scheggiarle i piedi nudi, ma non se ne importò. Fece cadere anche la bottiglia d’acqua sul pavimento e tornò nella sua camera. Si sedette sulla sedia in pelle nera della sua scrivania e risvegliò il computer andato in stand bye. Aprì una nuova pagina internet, senza soffermarsi a guardare lo sfondo e singhiozzando entrò su Facebook. Aveva eliminato tutti i suoi amici e non aveva permesso a nessuno di loro di rintracciarla, ma a lei stava bene così.
‘Sono stufa di tutto.’
Scrisse in uno stato che pubblicò senza pensarci minimamente.
Ormai Facebook era diventato un diario segreto, sia perché in tutti i suoi amici non c’erano più, sia perché lì sapeva di potersi sfogare. Non amava mettersi in mostra, anzi era una persona parecchio taciturna alle volte e odiava dare spettacolo. Si morse la lingua e si alzò allontanando sgarbatamente dalla sedia, uscì dalla stanza, sentendo sua madre piangere e senza pensarci due volte si diresse in cucina e l’abbracciò da dietro. Sentì il corpo della donna irrigidirsi e la sua mano toccarle le dita lievemente, ma poi senza dire altro andò via e si diresse in bagno. Chiuse la porta a chiave e si poggiò al lavandino.
“Basta.”
Soffiò lievemente, aprendo l’acqua fredda. Si guardò allo specchio e vide due occhiaie incorniciarle il volto stanco. Le lentiggini sembravano aver preso colore o forse semplicemente la sua pelle era troppo bianca e le faceva risaltare. Gli occhi gonfi, rossi e spenti erano irriconoscibili. I capelli lunghi erano una massa informe. Spostò gli occhi sul mobile vicino a lei e aprendolo vi estrasse un codino rosa. Arricciò lievemente il naso, pensando che quel colore fosse orribile e si legò i capelli in una crocchia da cui scendevano alcuni ciuffetti troppo corti per stare nella molla. Prese un lungo respiro e concentrandosi sul rumore dell’acqua che scorreva forte nel lavandino, si chinò fino a lavarsi la faccia e il collo. Socchiuse gli occhi sentendosi già meglio. Si osservò per bene e facendo una smorfia chiuse l’acqua. Si asciugò le mani e la faccia e poi, mordendosi il labbro afferrò la lametta poggiata sul mobiletto, vicino al sapone. Scoprì la lama che alla luce sembrò ancor più lucida e tagliente e senza pensarci la poggiò sul polso chiudendo gli occhi. Stava per segnare il primo taglio, quando una vibrazione la distrasse e la fece impaurire procurandole invece un taglietto sul palmo. Guardò il sangue fuoriuscire e spalancando gli occhi si rese conto di quello che stava per fare, così lanciò la lametta sul vetro di fronte a lei, da dove poi rimbalzò fino a cadere nel lavandino umido.
“Mio Dio, che sto facendo?”
Si disse ad alta voce, arretrando di qualche passo scuotendo la testa guardando il vetro lievemente graffiato. Si guardò le dita, che si stavano sporcando leggermente e si sentì un mostro. Stava … stava per farsi del male. Quel pensiero la fece correre verso il water per vomitare cibo che in realtà aveva ingerito solo nei suoi sogni. 



‘Cause maybe you’re loveable
Maybe you’re my snowflake
And your eyes turn from green to gray

 

Il rosso si passò una mano tra i capelli e sorrise un po’. In tutto quel tempo l’unica cosa che era riuscita a scrivere era quella, ma ‘meglio di niente’ si disse.
Posò la penna sul tavolo, aggiustandosi con la punta delle dita la montatura nera degli occhiali e si alzò, stiracchiando le ossa che schioccarono subito facendolo sentire meglio. Scostò un po’ la tenda e appurò che piovigginava. Sbuffò, ritornando a sedersi. Con una mano si allungò fino a prendere la chitarra da terra e afferrò il plettro con l’altra. Guardò le corde e poi con movimenti delicati cominciò a suonare, facendone uscire una melodia. Riosservò le tre righe e poi, socchiudendo le labbra, cercò una melodia adatta. Provò e provò più volte la prima, la seconda e la terza frase, e soffermandosi su di questa sorrise un po’pensando a … pensando ad Hannah. Sembrava stupido ma quella frase gli ricordava quella ragazzina conosciuta sul web. Da un lato si vergognava a dire che aveva praticamente guardato e riguardato le sue foto, ma alla fine pensò che non c’era niente di male. O si? Fece spallucce e afferrò il cellulare, accedendo a Facebook. Guardò i vari post sulla bacheca ridendo a qualche link e talvolta cliccando qualche ‘mi piace’ a qualche foto particolarmente bella dei paesaggi e poi si morse l’interno guancia leggendo lo stato della ragazzina. Gli piaceva chiamarla così, lo trovava carino, anche se poi da come era riuscito a capire non avevano poi chissà quanti anni di differenza. Lo lesse aggrottando la fronte e poi aprì la chat.

Edward ore 10:34 a.m. : “ H (: ”

Scrisse, inviando subito, posando poi il cellulare tornando a suonare. Osservò ogni tanto lo schermo, aspettando una risposta che non arrivò.

La ragazza si tolse velocemente i vestiti, cliccando play sulla playlist del cellulare e aprendo l’acqua per farla diventare tiepida. Mentre aspettava guardò la notifica che si ritrovò in chat e la aprì. Era Edward. Fece un piccolo sorriso.

Hannah ore 10:47 a.m. : “Solo una cosa: Grazie.”
Edward ore 10:49 a.m. : “Per cosa?”
Hannah ore 10:49 a.m. : “Un giorno te lo spiegherò forse, ma non ora.”

Poi posò il cellulare e entrò in doccia sentendo i muscoli rilassarsi e sorrise ancora un po’ perché da quando quel misterioso ragazzo era entrato nella sua vita alcune cose avevano assunto un colore diverso. Poi chiuse gli occhi, certa che un giorno gli avrebbe spiegato che era solo grazie al suo messaggio se non aveva fatto una sciocchezza.
Dall’altra parte, Sheeran sorrise soltanto, riportando la sua attenzione sul foglio finalmente scritto con qualcosa che non fossero delle ‘R’ e con la consapevolezza che qualcuno lo ringraziava col cuore. 





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Capitolo 6
*** - 6 ***


A Edward che da un po' di tempo sento di meno.
E in generale più lontano di quanto
già i kilometri non siano. 


 

Hannah si spostò col dorso della mano un ciuffo ribelle che le era scappato dalla coda e poi riposò la sua attenzione sulla ciotola piena di liquido biancastro. Canticchiò un motivetto a bassa voce facendo schioccare sui denti note disconnesse mentre con la mano sinistra afferrava delle gocce di cioccolato e le buttava insieme al composto. Riguardò la ricetta sulla rivista che teneva aperta sul tavolo e facendo una smorfia versò con un cucchiaio un po’ di impasto in una teglia facendolo compattare come fosse una pallina. Riempì tutta la teglia e poi aprì il forno dietro di lei, mettendovela dentro. Accese il fuoco ad una temperatura di circa 180° e poi prese tutto ciò che c’era sulla tavola e lo gettò nel lavabo. Alzò gli occhi al cielo quando notò la tavola praticamente tutta sporca, così come il pavimento.
“Che schifo!” urlò, e battendo forte i piedi sul pavimento –era buffa, sembrava una bambina- si protese con uno strofinaccio per pulire quel disastro. Continuò a cantare lo stesso motivetto di prima –forse lo aveva sentito in una pubblicità di YouTube- e pulì tutto il cioccolato e l’impasto sciolto sul tavolo. Si riavvicinò al lavandino, aprì l’acqua sciacquando il pannospugna usato e incrostato di cibo dolce, ma si accasciò leggermente sul mobile quando venne investita da un ricordo che le annebbiò il cuore, gli occhi che pian piano si inumidirono, la pelle che rabbrividì, ma non il cervello che la riportò indietro a otto anni prima.


“Hannah, stai ferma!” urlò ridendo la madre della ragazzina. Era il suo compleanno, faceva dieci anni ed era emozionatissima. Le sue amichette Kate e Janet sarebbero venute durante il pomeriggio per festeggiare insieme a lei.
“Dieci anni sono importanti mamma” aveva detto la bambina solo qualche ora prima mentre stava ritornando a casa con sua madre che era andata a prenderla dopo scuola. “Sai, è un numero pari il dieci, è la metà di cinque. E poi c’è uno zero nella cifra e solo per questo è importante il doppio!” aveva concluso, soddisfatta. La donna aveva alzato gli occhi al cielo, ma poi “Si dai, forse due amichette potremmo anche farle venire” aveva detto alla bambina, sorridendole. Lei batté le mani soddisfatta ringraziando la mamma.
La madre aveva fermato l’auto e la bambina, senza pensarci troppo era scesa urlando entrando in casa dove aveva letteralmente gettato per terra lo zainetto leggero.
“Vengono Kate e Janette! Vengono Kate e Janette!” e la madre era scoppiata a ridere, chiudendo la porta con un tonfo.


Durante il pomeriggio, Hannah stava correndo per la cucina con un cucchiaio sporco nella mano e il muso colorato di marrone per via della cioccolata che aveva rubato dalla torta, mentre rideva per la madre che continuava a inseguirla.
“Fermati Hannah!” rise nuovamente la donna, stoppando la sua corsa. La bambina si fermò a sua volta ridendo forte insieme alla madre e si bloccò solo quando si sentì sollevare di qualche centimetro da terra da delle braccia forti. Era mingherlina per la sua età, pelle e ossa, quasi sembrava avesse sei - sette anni in tutto. Così il papà se la portò in braccio facilmente, scompigliandole i capelli. La bimba fece una smorfia, buttando a terra il cucchiaio sporco e mettendo poi le braccia al collo del padre, esultante.
“Auguri principessa!”, disse l’uomo sistemandole un codino sfatto. Lei arricciò il naso e poi gli diede un bacino sulla guancia ridendo quando gliela vide sporca di cioccolata come il suo muso.
“Che buffo che sei, papà!”, aveva detto indicandolo, mentre la mamma soffocava una risatina.
“Che mi hai combinato piccola peste? Cioccolato? Andiamo a pulirci dai!”, così si era avvicinato al lavandino e, aprendo l’acqua, aveva pulito la sua guancia e il musetto di sua figlia.
“Grazie papà!”


Sbatté velocemente le palpebre sentendo le lacrime staccarsi dalle ciglia lunghe e rotolare giù fino al mento. Tirò col naso, sentendo i sensi ristabilirsi e si riscosse solo quando sentì la mano farle male. La guardò e si accorse di essersela dimenticata sotto l’acqua fredda facendola congelare completamente. Si morse il labbro e senza preoccuparsi della mano addormentata continuò a pulire. Ricordava tutto come se l’avesse vissuto solo qualche ora prima. Invece erano passati giorni, ore, minuti, secondi, centesimi e millesimi di tempo. Continuò a lavare distratta i piatti, pensando a tutto tranne che a quello che stava facendo, ma si riscosse solo quando sentì il cellulare vibrarle nella tasca del pantaloncino che indossava come pigiama. Chiuse l’acqua e si asciugò le mani sulla maglia, incurante.

Edward ore 06:38 p.m. : “Credo di aver rotto il lavandino …”
Hannah ore 06:40 p.m. : “Non sai fare niente se non rompi qualcosa?”

Il ragazzo dall’altra parte strinse il cellulare e guardò il disastro che c’era a terra.

Edward ore 06:43 p.m. : “Oh Dio, questa volta ho bisogno di una barca.”
Hannah ore 06:44 p.m. : “Non entrerai mai in casa mia se distruggi i lavandini.”

La ragazza rise e si stese sul divano nella sua cucina, aspettando una risposta. Aveva pensato molte volte che quell’Edward fosse strano. E idiota. E stronzo -pensò a quando le aveva praticamente sbattuto in faccia che stava mangiando cioccolata da solo. E lei per la cioccolata ci moriva!-. Però era divertente per lei prenderlo in giro per le sue sventure. Avrebbe voluto essere una mosca per gironzolare in casa sua e osservarlo. Non sapeva molto su di lui, ma francamente non gl’importava così tanto. Sembrava egoista sotto un certo punto di vista, ma la verità era che i suoi problemi e sua madre la stavano soffocando. Voleva solo qualcuno con cui parlare. Se non fosse stato per quel minimo rapporto che aveva instaurato con quel ragazzo, sinceramente avrebbe anche cancellato il suo contatto Facebook. Odiava i suoi “amici”. Odiava parlarci. Odiava sua madre. Odiava quella casa. Odiava tutto … tranne quel ragazzo.

Edward ore 06:45 p.m. : “Simpatica come un dito in … in un occhio, si.”

Sospirò, passandosi una mano sui capelli coperti da un cappellino di lana, riportando di nuovo lo sguardo sull’acqua distesa sul pavimento.
“Oddio. Ora che faccio?” parlò tra sé e sé mettendo il cellulare in tasca. Lo sentì vibrare e fece appena in tempo ad aggrapparsi prima di scivolare e cadere a terra rompendosi il collo.

Hannah ore 06:47 p.m. : “Lo so :* ”
Edward ore 06:48 p.m. : “Sono serio. Qui è tutto bagnato. Che devo fare?”
Hannah ore 06:50 p.m. : “Uhm … Pulire forse?!”
Edward ore 06:52 p.m. : “Sai, non c’ero arrivato. Peccato che qui continua ad uscire acqua.”
Hannah ore 06:55 p.m. : “Metti qualcosa a terra e chiama un idraulico dato che sei incapace di aggiustare il lavandino.”

Il ragazzo sbuffò e poi pensandoci si morse un labbro. Avrebbe dovuto trovare un idraulico ma … lui non poteva chiamare. Avrebbe spifferato la sua abitazione. E poi? Ai paparazzi chi avrebbe badato? Lui comunque doveva sempre uscire cautamente da casa. Forse non era molto attento, dato che alle volte scendeva senza curarsi di nulla, ma alle volte voleva riprovare ad essere “normale”. Non che non gli piacessero tutte quelle attenzioni, ma … voleva che almeno la sua vita privata rimanesse tale, soprattutto da quando … da quando con Rose era andata uno schifo. Era l’unica ragazza che avesse mai amato davvero. Le altre erano state solo un passatempo. Non che non le avesse amate o trattate bene, ma … in effetti nessuna di loro era Rose, ecco. Scosse la testa e riguardò lo schermo.

Edward ore 07:01 p.m. : “Ho provato ma … nessuno può venire. Mi toccherà costruire una zattera per sopravvivere.”

Rise per la sua stessa bugia, sentendo un pezzetto di lui diventare nero. Bugie su bugie.

Hannah ore 07:04 p.m. : “Manda un S.O.S. se stai affogando, mando qualcuno a salvarti!”

La ragazza rise per quella sua orribile battuta e si alzò di scatto dal divano quando sentì il fornetto ticchettare troppo velocemente.
“I biscotti, oddio, i biscotti!” urlò, girando la rotellina per spegnere il forno. Aprì subito l’anta da cui uscì del fumo grigiastro e tossì, spostandolo con la mano. Una puzza di bruciato si espanse per la stanza e quasi ebbe l’istinto di vomitare il nulla.
“Accidenti! Che schifo!”
Sbraitò, battendo un piede sul pavimento.

Hannah ore 07:13 p.m. : “Sai, ci ho ripensato per quanto riguarda l’S.O.S. Spero che tu affoghi, perché è solo colpa tua se ho bruciato i biscotti.”

Scrisse, arrabbiata. Ci teneva a quei biscotti e aveva fame. Sua madre non c’era, molto probabilmente era chiusa in qualche locale … a bere. Storse il naso sentendo gli occhi inumidirsi e diede un calcio all’anta del fornetto. Pensare a sua madre le faceva quell’effetto orribile. Prese il cellulare e si chiuse in bagno, cadendo sul pavimento singhiozzando. Odiava quella donna, la odiava da morire. Le stava rovinando la vita.

Edward ore 07:15 p.m. : “Su H, non prendertela per dei biscotti. Pensa che almeno tu puoi buttare tutto nella pattumiera. Io … io devo spaccarmi la schiena per pulire. :c ”
 “Vaffanculo. Lasciami in pace.”

E dopo quell’orribile risposta lanciò il telefono sulla parete di fronte. Quello si aprì in tanti pezzi con uno schiocco sonoro e con esso il cuore di Hannah che singhiozzò più forte. Si accasciò sul pavimento, poggiò la testa a terra e si strinse le mani al petto che le faceva male. Sentiva un peso e l’umiliazione salire alle stelle. I suoi vicini di casa sicuramente sapevano delle urla che si scambiava con la madre –infondo quella casa stava cadendo a pezzi, le pareti erano instabili e “fini”, tutti avrebbero potuto sentire- e la mancanza di un padre nella sua vita stava diventando opprimente. Lei stava diventando un mostro. Non parlava con nessuno se non con quel ragazzo. Si alzò in piedi e si guardò allo specchio. I capelli erano scombinati, pieni di nodi. La faccia era sconvolta, le occhiaie contornavano terribilmente gli occhi. Il corpo era magro, piccolino, sempre più fine. Faceva schifo.
Si guardò intorno e questa volta aprì i cassetti con più decisione. Uno cadde a terra, sul suo piede. Urlò dal dolore e si ritrasse indietro inciampando ulteriormente. Si mantenne vicino alla vasca e sorrise quasi da psicopatica quando trovò ciò che cercava. Era per terra, vicino un giornaletto mai letto, chissà come ci era arrivato lì  dentro.
La prese in mano. La lama luccicante, tagliente, pulita, terribilmente nuova. Chiuse gli occhi, sedendosi a gambe incrociate sugli oggetti fuoriusciti.
Rimase ad osservarla per forse dieci - quindici minuti, poi si tolse il braccialettino che gli aveva regalato suo padre tempo prima e avvicinò la lama al polso.
“Niente Edward. Niente mamma. Niente papà. Niente Kate. Niente Janette. Niente Claire. Niente.”
Pronunciò ad occhi chiusi. Spostò lievemente la lama, quel tanto per farsi un piccolo taglietto.
E aveva pensato a suo padre che non c’era più.
“Scusa papà.” Disse aprendo gli occhi lasciando che due lacrime le scendessero sulle guance.
“Scusa mamma.” Continuò, sentendo il cuore impazzito. Spostò ancora un po’ la lametta sul polso. Aveva pensato a lei quando aveva tracciato quel piccolo taglietto. Aveva pensato al mostro che quella donna era diventato, alla mamma che ormai non era più. E poi aveva pensato a se stessa. Lei stava diventando come lei: Un mostro. Non pensava più a nessuno, nemmeno a Claire che ogni giorno bussava alla sua porta, chiamandola a gran voce. Tutti sapevano che lei era chiusa in casa, ma alla fine, dopo massimo mezz’ora, andavano via. Aveva rifiutato tutti, continuava a rifiutare tutti.
“Scusa Edward.” Disse alla fine, tracciando l’ultimo taglietto. Lo aveva deluso, se lo sentiva. Lo aveva preso a parole senza motivo. Lo aveva deluso maggiormente perché si era fatta ora del male. La prima volta che ci aveva provato, due settimane prima, si era fermata grazie a lui che le aveva risposto. Ma in quel momento lei aveva lanciato il cellulare all’aria, aveva cercato di distruggerlo completamente, eliminarlo.
“Sc-scusa Ed.” Ripeté, abbassando gli occhi sul polso. Aveva dei piccoli graffietti lievi, ma gli facevano schifo. Lanciò la lametta nel gabinetto, sentendo l’acqua schioccare quando l’oggetto vi cadde dentro. Si stese per terra e pianse ancora e ancora.
E dentro di lei cominciò a nascere la convinzione di essere quella sbagliata.

Ed continuò ad asciugare il pavimento alla bell’e meglio. Era passata ormai mezzora da quando Hannah gli aveva dato quella risposta. Inizialmente non aveva capito se stesse scherzando, ma poi dopo avergli mandato i primi ‘Che succede?’ ‘Perché fai così?’ e ‘Che ho detto?’, si era arreso e aveva continuato a pulire il pavimento, affermando a se stesso che si, Hannah era forse la ragazza più strana con cui avesse mai avuto a che fare, inconsapevole di quello che dall’altra parte della città, a kilometri da lì, stava succedendo. 


 

 


 

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Capitolo 7
*** - 7 ***


A Edward e al
‘Dici che non m’importa, ma a me importa.
Solo che non so come dimostrartelo.’

 

 
Si fermò un secondo, strinse leggermente le palpebre e poi  ripeté l’accordo.
Risultò nuovamente delicato, soave. Sputò la penna che teneva tra i denti e si alzò con ancora la chitarra appesa al collo. Si grattò la pancia sollevandosi malamente la maglia e si diresse a piedi scalzi nella cucina aprendo poi il frigo e prendendone una birra. Sbatté l’anta e poi stappò la bottiglia con una forchetta che aveva trovato sul bancone e fece un lungo sorso.  Era stufo di quella casa, soprattutto perché era troppo sporca. E in disordine. Ed era troppo solo lì dentro.
Era troppo grande per una sola persona, o almeno, ultimamente la vedeva così.
Si girò urtando una sedia con la chitarra e ruttando se ne fregò e si diresse di nuovo nella sua stanza.
Vi entrò e storse in naso nel sentire un cattivo odore che non aveva notato prima, così, poggiando rumorosamente la bottiglia sulla scrivania aprì la piccola finestra che si affacciava sulla strada. Entrò una lieve luce naturale e notò con un sorriso che il cielo sembrava una tazza di caffè. L’aria profumava di pulito e le nuvole, di un bianco quasi sporco, erano intrise nell’arancione chiaro come marshmallow abbrustoliti.
Inspirò rumorosamente dal naso e poi buttò fuori l’aria dalla bocca, in uno sbuffo, ritornando poi alla sua scrivania. Riprese tra le mani il foglio un po’ troppo stropicciato e scritto ovunque. Mentalmente si disse che avrebbe dovuto scrivere note e parole su due fogli diversi, ma facendo spallucce per i suoi stessi pensieri, raccolse la penna da terra e ricalcò la scritta in alto che citava ‘Rose, Rosemary’.
Sorrise un po’ al ricordo, una lama invisibile a toccargli il cuore dal quale scesero goccioline di sangue. E la sua testa si chiese sul serio come la gente facesse a non vedere quell’alone sporco che ogni volta sembrava ungergli le magliette pulite, ma poi si diceva da solo che era pazzo, folle, troppo innamorato per essere pronto a indossare un nuovo cuore. E poi appunto, “sembrava” sporcargli le magliette.


Could you make me a cup of tea
To open my eyes in the right way


Ripeté in testa quelle parole e poi, grattandosi un occhio si sistemò la chitarra in grembo e osservò attentamente le corde. Le pizzicò delicatamente come se non volesse far loro del male e poi schiuse la bocca, provando quella parte.
Provò e riprovò e ad un certo punto gli sembrarono sul serio orecchiabili.
Tentò di rifarlo, ma la vibrazione del cellulare lo distrasse. Lo prese, notando che era un promemoria che si era messo per evitare di dimenticare che nel pomeriggio doveva andare in studio a provare.
“Cazzo!” urlò alzandosi velocemente dalla sedia quasi buttandola a terra, posando poi la chitarra sul letto malamente fatto. Corse davanti allo specchio e si osservò con una smorfia. I capelli non gli erano mai sembrati così disordinati, aveva una macchiolina sulla manica e i piedi scalzi non erano il meglio. Sbuffò, cercando una maglia dall’armadio –stranamente ordinato- e senza pensarci troppo prese una felpa verde e dei calzini in un cassetto sottostante. Si sedette sul letto e si cambiò velocemente, infilando anche gli scarponcini. Corse in bagno a darsi una sciacquata e poi recuperò la sua chitarra nella stanza e uscì di casa, correndo negli studi.

Aveva trovato gente per strada, alcuni lo avevano riconosciuto e gli avevano chiesto un autografo e lui l’aveva accontentati  con una firmetta striminzita e disordinata. Altri gli avevano chiesto una foto e lui fingendo un sorriso aveva lasciato che i flash lo accecassero, ma poi era corso chiedendo scusa e si era infiltrato nello studio di registrazione. Lì aveva salutato Mark, affannato.
“Scusa Mark, ho avuto un problema.”
E gli avrebbe volentieri detto che se ne era dimenticato, ma poi aveva fatto spallucce ed era entrato in sala. Lì aveva aperto la sua amata chitarra e si era seduto su una sedia.
“Aspetta, devo accordarla.”
E lo aveva fatto come al suo solito. La testa altrove però. Si era alzato scuotendo la testa e aveva il via a Mark. ‘Who you are’ doveva registrare. E non si sentiva pronto. Aveva lo stomaco contratto, quasi come se volesse costringerlo a fare una smorfia di dolore. Ma rimase impassibile, anzi, fece un cenno a Mark, indossò le cuffie, si avvicinò al microfono e posando lo sguardo sulle corde tese e il plettro, cominciò a suonare delicatamente.
 
I stare at my reflection in the mirror…
Why am I doing this to myself?

 
Fece una smorfia di disgusto.  Guardò nuovamente quel corpo smunto, troppo piccolo e pallido, le braccia dietro la schiena a coprire quello schifo che aveva combinato. Represse un conato di vomito, e si privò della biancheria, avendo un’intera visione delle sue imperfezioni.
‘Che schifo ’ , pallida, di un bianco simile al latte.
‘Che schifo’, non c’era volume.
‘Che schifo’, le guance erano incavate, come se fossero state scavate sul viso.
‘Che schifo’, gli occhi spenti, somiglianti più ad un grigio che ad un verde brillante.
Allungò le mani sui fianchi, esponendo i polsi in avanti, verso il vetro. Non riuscì subito ad abbassare lo sguardo, bensì  lo fece gradualmente, osservando tutto, ancora.
“Masochista” sussurrò alla sua stessa immagine.
‘Che schifo’, riusciva a vedere le costole.
‘Che schifo’ , scorse i piccoli lividi.
E posò lo sguardo sui polsi, piccoli, segnati, rivoltanti. Le gambe le si fecero molli, sentì quasi la vista annebbiarsi e le forze abbandonarla solo a quella visione, ma si mantenne al lavandino davanti a lei. Ma poi spalancò gli occhi e fece appena in tempo ad inginocchiarsi davanti al water e vomitare. Portò una mano tremante a tenerle i capelli in alto e si sentì quasi meglio al pensiero di non avere il suo riflesso davanti agli occhi. Si sarebbe presa a pugni, a calci, a cazzotti se solo avesse potuto. Che diavolo stava facendo? Si rialzò, tirò lo sciacquone e poi ignorando lo specchio si buttò in doccia, sotto l’acqua bollente che la distrasse per un po’ di tempo.
 
Don’t lose it all in the blur of the stars!
Seeing is deceiving, dreaming is believing,
It’s okay not to be okay…
 
Scosse la testa quando sbagliò una nota, fermando poi le corde. Stava pensando ad altro.
“And in the winter I’ll hold you in a cold place” sussurrò, come perso nelle nuvole.
“Tutto okay, Ed?”
“Eh?”
Si riscosse dai suoi pensieri, alzando la testa su Mark che lo guardava attraverso il vetro.
“Tutto okay, ho detto” ripeté l’uomo, manco stesse parlando con un bradipo.
“Ehm … no Mark, scusa, non mi sento molto bene. Posso … posso tornare un altro giorno?”
Quello fece una smorfia e “E va bene … però la prossima volta finisci.”
“Si,si, certo!” e raccolse distrattamente la sua roba, riponendo la chitarra nella custodia e correndo via da lì dentro salutando distrattamente Mark. Entrò in macchina, e mise subito in moto. Le ruote girarono subito sul pavimento liscio con furia alzando un po’ di polvere e pietruzze, e sgommando sfrecciò verso casa. Il cuore stranamente troppo gonfio, lo stomaco ad annunciargli una strana sensazione. Rischiò di fare un incidente contro un’altra auto, ma con un piccolo urletto, riuscì a evitarlo.
Era una frana.

Si stese sulle coperte bagnandole con i capelli. Aveva freddo, ma le gambe le sembravano di piombo, non sapeva come muoversi. Soffocò un singhiozzo nella manica dell’accappatoio e chiuse gli occhi sperando di confondere le lacrime con i capelli umidi e la pelle fresca. Ma fu più forte di lei: afferrò il cellulare, attenta a non scoprire il corpo, e aprì la pagina di Facebook, nella conversazione. Una settimana. Aveva fatto passare una settimana e con essa tutto era peggiorato. Inizialmente pensava fosse stato solo uno sbaglio, un errore per la confusione. Ma poi aveva  visto che lacerare la pelle era quasi … divertente? No, non era divertente, era solo appagante.  Così lo aveva fatto con più frequenza, escluso il martedì, il giovedì e il venerdì. Però, era andata sempre più in fondo, come se volesse entrare fin dentro, nel profondo.
Ma in quel momento, presa dalla paura, si accorse che faceva schifo. A se stessa, alla mamma, al papà che molto probabilmente la vedeva da lassù. 

Hannah ore 08:48 p.m. : “Ho bisogno di te.”

E chiuse gli occhi, li sigillò quasi come a non volerli aprire più, aspettando una risposta, un qualcosa a cui appigliarsi.
Sentì quasi l’orologio ticchettargli nelle orecchie rumorosamente, forse fin troppo. Lo avrebbe felicemente spaccato, ma stette ferma in posizione fetale, le ginocchia strette al petto, i singhiozzi a scuoterla ogni tanto.
Tic tac, tic tac, tic tac. 08.54.
Cominciò a dondolare su se stessa.
Tic tac, tic tac, tic tac. 08.57.
Si girò dall’altra parte, un lieve mal di testa alle porte.
Tic tac, tic tac, tic tac. 09.02.
Si fece leva sulle gambe molli come gelatina e si diresse al cassetto, prendendo della biancheria pulita indossandola.
Tic tac, tic tac, tic tac. 09.13.
Sei sola, Hannah’, le mormorò sadicamente una vocina all’orecchio. Lei si rigirò nel letto leggermente caldo e umido, ignorandola.
Tic tac, tic tac, tic tac. 09.17.
‘Te lo meriti’. Ancora, fastidiosa. Una lacrima a scivolare sulla pelle liscia.
Tic tac, tic tac, tic tac. 09.23.
Una vibrazione.
‘Non sei sola’.

Edward ore 09.23 p.m. : “Sono qui, tranquilla. Scusa l’attesa.”
Hannah ore 09.24 p.m. : “Ho bisogno di te. Perché sei lontano?”
Edward ore 09.25 p.m. : “Ti sto pensando, non basta?”
Hannah ore 09.27 p.m. : “No. Non mi basta se ciò significa che non sei qui.”
Edward ore 09.28 p.m. : “Che vuoi che faccia?”
Hannah ore 09.31 p.m. : “Sai come materializzarti qui? Ho bisogno di te.”
Edward ore 09.32 p.m. : “Scusa …”
Hannah ore 09.33 p.m. : “Scusa? Per cosa?”
Edward ore 09.35 p.m. : “Non posso essere lì, ora.”
Hannah ore 09.37 p.m. :“…”
Edward ore 09.39 p.m. : “ …H?”
Hannah ore 09.39 p.m. : “Si, Ed?”
Edward ore 09.41 p.m. : “ … Posso avere il tuo numero?”

Si mordicchiò le labbra e sentì il cuore battere veloce quando dei numeri da parte della ragazza arrivarono in chat. Sbatté velocemente le palpebre, incredulo. Le digitò sul suo iPhone salvando poi il numero come ‘H <3’ e, tirando un lungo sospiro, fece partire la chiamata.

“Si?”

E per lo shock fu costretto a sedersi sul letto della sua stanza.
Una voce fioca, roca leggermente, aveva risposto dall’altro capo del telefono.
Hannah gli aveva risposto.
 

 
 

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Capitolo 8
*** - 8 ***


A Edward e alle cose che gli piacciono.
E anche alle sue stelline, che mi hanno dato 
l'idea per questo capitolo. 




Poggiò i piedi sul pavimento fresco, rabbrividendo leggermente. Schiuse gli occhi, staccando le ciglia incollate tra di loro. Rilasciò un gemito di fastidio quando la luce solare la investì. Si alzò, stiracchiandosi e dirigendosi verso il bagno. Aprì l’acqua, unendo le mani a coppa se le portò al viso sciacquandosi e sentendo il sollievo scioglierle un nodo invisibile allo stomaco.
“Hanny?”
“Uhm… ?”
Si asciugò la faccia, andando in cucina dove trovò la mamma sul divano.
“Vuoi il caffè? E’ sul mobiletto, lì.”
La ragazza sorrise alla donna e prese tra le mani la tazzina ancora fumante. Lasciò che le dita si riscaldassero e poi bevve tutto d’un sorso, storcendo il naso alla bevanda amara.
“Hanny, vai a fare la spesa se ti scrivo la lista?”
“Okay.”
Si diresse di nuovo nella sua stanza, aprì la finestra e inspirò l’aria pulita che la investì. Si girò a guardare il letto e sbuffò nel vederla disordinata. Prese un codino dalla scrivania, tra un mucchio di libri e si legò i capelli in una crocchia disordinata da cui scapparono alcuni ciuffetti. Si guardò in giro e prese da terra la sua maglia preferita. Era una t-shirt grigia, più grande di tre taglie, con una stampa di qualche band poco conosciuta in giro. Sorrise nel metterla, inspirando un po’ l’odore non suo che emanava. Aprì un cassetto e vi prese degli shorts consumati. Li mise velocemente e poi, senza neanche attaccare i lacci, indossò le sue converse rosse e un po’ scollate.
Le piacevano così tanto.
Aggiustò velocemente il letto con le lenzuola decisamente da cambiare, e in cuor suo si sentii meglio. Sua madre non beveva da un po’ di giorni, era un buon segno, no?
Prese altri vestiti sparsi per la stanza e senza neanche dividerli secondo un ordine preciso li gettò nel cesto del bucato sporco.
Uscì, tornando dalla mamma.
“La lista è lì sul tavolo. Stai attenta.”
La prese, infilandola in tasca insieme al cellulare e, lasciato un bacio sulla guancia della donna, uscì.
Il sole la investì. Si parò gli occhi con una mano, sorridendo.
Sorrideva da un po’. O almeno, sorrideva da tre giorni con esattezza.
Dopo un’ultima litigata, la mamma non era più uscita a bere. Non si era più ubriacata. Non le aveva più urlato contro. E lei si sentiva meglio.

Raggiunse il supermercato più vicino e vi entrò. Il contrasto con l’esterno la fece rabbrividire malamente ma si strinse nelle spalle e prese un cestino con le rotelline e rumorosamente si diresse tra gli scaffali.

-Latte
-Burro
-Uova
-Cioccolata
-Prosciutto
-Bacon

Si avvicinò alla salumeria, approfittando del fatto che non c’era nessuno e in pochi minuti prese il prosciutto. Girovagò nel piccolo negozietto e alla fine recuperò tutto ciò che serviva, prendendo però del cioccolato in più.
Sorrise e collegò la cioccolata ad Edward. Controllò il cellulare, ma di lui nessuna traccia. Si disse mentalmente che lo avrebbe contattato dopo, così pagò e uscì.

Decise di allungare la strada, era da un po’ che non usciva. I rumori le sembrarono più forti del dovuto, forse troppo, ma cercò di non farci troppo caso. Avrebbe voluto mettere le cuffie e ascoltare qualcosa, ma le aveva dimenticate.
Continuò a camminare, guardando di tanto in tanto le scarpe o calciando dei sassolini. Sentì un uccellino cinguettare e quasi si pentì di essere mancata lì per tanto tempo. Da quanto non lasciava casa per tanto tempo? Le era capitato di uscire, ma non per più  di un’ora.
Passò davanti un negozio di fiori. Li guardò meravigliata. Lì, dove c’era il fioraio, la strada era più profumata e colorata. Sembrava quasi che neanche lo smog provocato dalle auto in costante movimento potesse rovinarli.
Le passò un’idea per la mente. Sentì il cuore batterle veloce al solo pensiero, così si precipitò all’interno.
“Buongiorno” disse timida, stando attenta a non urtare i vasi con la busta colma.
“Buongiorno signorina.”
“Vorrei un mazzo di tulipani, per favore.”
“Ma certo.”
Si incantò a guardare meravigliata ciò che il signore, alquanto magro ma anziano, creava.
Mise sette tulipani gialli –Hannah li contò- e alcuni fiorellini piccolini, bianchi, simili alle margherite, chiudendo il tutto in una carta viola.
“Ecco a lei.”
Sorrise l’uomo, porgendole il mazzo. Lei sorrise, prese i fiori, pagò e uscì.
“Quanto siete belli.”
E parlò con i fiori, camminando verso la meta.

Il cimitero non era mai stato bello. Le mura erano grigie come il cancello d’ingresso e la gente lì non sapeva neanche cosa fosse il rispetto. Sapeva a memoria la stradina che doveva compiere. Quasi corse per arrivarci. Sentì la ghiaia sotto i piedi stridere e la gente guardarla, ma non se ne curò. Arrivò velocemente. Si fermò a guardare il pezzo di marmo e si sedette a terra, sul terriccio, lì dove anche le formiche sembravano odiar camminare.
“Ciao papà.”
Disse la ragazza, pulendo con due dita la fotografia leggermente impolverata.

“Guarda cosa ti ho portato.”
Posò il mazzo di fiori davanti la fotografia.
“Ti piacciono? Sicuramente si, sono i tuoi preferiti d'altronde.”
Non parlò per un po’, rimase semplicemente a guardare quella fotografia che ormai sembrava fin troppo vecchia.
E neanche se ne accorse quando una lacrima le scese dall’occhio attraversando lo zigomo e raggiungendo la guancia. Sorrise un po’, infelice.
“Mi manchi papà.”
La voce rotta, troppo.
 
And you should never cut your hair
‘Cause I love the way you flick it off your shoulder
And you will never know
Just how beautiful you are to me

Se lo ripeté in testa, quasi non si accorse dell’auto davanti. Frenò di colpo, spalancando gli occhi.
“Oh, porca miseria!”
Urlò, mentre nell’abitacolo dell’auto continuò a espandersi ‘Count on me’ di Bruno Mars. Con uno scatto spense la radio, prese il cellulare e scrisse nelle bozze ciò che gli era venuto in mente, senza badar troppo alle auto che dietro strombazzavano come impazzite.
Poi finalmente si decise a partire.
Sorrise.


“Hai visto che maglia ho messo, Pa’?”
Sorrise ancora, passandosi una mano sul volto umido.
“E’ la tua. E anche la mia preferita. Mi piace da morire, anche se non so chi sono questi tipi.”
Ridacchiò. Poggiò la testa sulle mani e i gomiti sulle gambe incrociate.
“Ah, sai, ho conosciuto un ragazzo.”
Ebbe l’impulso di stendersi a terra, ma non lo fece. Prese il cellulare dalla tasca, aprendo Facebook.
“L’ho conosciuto su Facebook e tu odiavi quel social network. Però lui è l’unica persona che sopporto. Odio quando Claire viene a casa e bussa alla porta. Dannazione! Sa che non le aprirò la porta. Mi fa schifo vedere la gente guardarmi con compassione. Io… non la voglio.”
Aprì la finestra della chat, aspettando che caricasse.

Hannah ore 12.31 p.m. : “Buongiorno!”

“E’ carino. Ma non nel senso ‘Oh, si, carino’.”
Ridacchiò.
“Oh, insomma, hai capito? E’ carino nel senso ‘E’ sul serio carino’. Non so come sia fatto, so solo che ha una bella voce a telefono. Di certo non sarà come dal vivo quello che ho sentito, però mi ha telefonata. Nessuno lo aveva mai fatto per me.”
Sorrise un po’.
“Mi ha chiamata perché io avevo bisogno di lui. Si chiama Edward. E’ un tipo strano. Non so, non conosco molto di lui. Però lui mi ascolta sempre quando ne ho bisogno. E ci ho parlato a telefono solo lunedì scorso.”
Si sentì meglio solo a pensarci.
“Ti ho delusa papà?”
Un silenzio calò. Una folata di vento le scompigliò ancora di più i capelli già sfatti.
“So che mi hai vista mentre lo facevo. Lo so che è sbagliato, ma per favore, non odiarmi.”
E singhiozzò questa volta. Sapeva di aver deluso il padre, lo sentiva nel petto, giù, oltre i polmoni, il pancreas e i bronchi. Lo sentiva nel cuore, su tutto il corpo, perfino fino alle punte dei capelli che si portava sempre dietro l’orecchio destro.

Edward ore 13.08 p.m. : “ ‘giorno H! (: ”

“Ora vado Pa’. Scusa se sono mancata tanto tempo, ma non ce la facevo. Mamma deve cucinare. Ciao eroe, ti voglio bene.”
Mandò un bacio volante alla foto, si spolverò gli shorts sporchi, prese in mano le buste e ritornò a casa. L’umore decisamente indefinito.

Il sole era calato da un po’. Continuò a muovere leggermente la testa a ritmo di musica, accedendo a Facebook.
Non controllò neanche l’home –piena di stupidaggini, dopotutto- che entrò in chat, cliccando sulla scritta ‘Edward Cohen’.

Hannah ore 08.37 p.m. : “ Marmotta!”

Attese una risposta e nell’attesa cambiò canzone e immagine del profilo. Era nuova, se l’era scattata il pomeriggio. Faceva una faccia buffa –decisamente stupida- e dopo tanto tempo sembrava aver preso colore. Si sentì meglio quando la cambiò. Quella precedente le sembrava fin troppo vecchia.

Edward ore 08.43 p.m. : “Che hai fumato?”
Hannah ore 08.48 p.m. : “Perché?”
Edward ore 08.51 p.m. : “Marmotta? Sei seria?”
Hannah ore 08.56 p.m. : “Mi sembrava carino come soprannome …”

“A Edward Cohen piace la tua immagine del profilo”

Rise.
Edward ore 08.58 p.m. : “L’immagine del profilo fa vedere quanto tu sia normale, uhm.”
Hannah ore 09.03 p.m. : “Cos’ha che non va?”
Edward ore 09.04 p.m. : “Nulla. Mi piace, è carina.”

Si strinse i capelli rossi tra le ciocche. Gli sudarono le mani. Scrivere canzoni era una cosa, dire direttamente le cose era un’altra. Quasi si prese a parole perché a disegnare faceva schifo, altrimenti le avrebbe fatto un ritratto da spedirle.

Hannah ore 09.14 p.m. : “Marmotta… ?”
Edward ore 09.15 p.m. : “Si, H?”
Hannah ore 09.18 p.m. : “Hai credito?”
Edward ore 09.23 p.m. : “Si, perché?”
Hannah ore 09.24 p.m. : “ … così.”
Edward ore 09.27 p.m. : “Vuoi che ti chiami?”
Hannah ore 09.28 p.m. : “…Sono a letto, aspetto che il cellulare squilli.”

Lui rise, chiudendo lo schermo del computer facendolo andare in stand bye.
Prese il cellulare e, cercato il numero in rubrica mandò la chiamata.

“Marmotta.”
Ed era una constatazione.
“Ciao, H.”
“Ehi, ciao.”
Sorrise nervosa, girandosi dall’altra lato, fissando fuori.
“Che fai?”
“Sto cercando di togliermi la maglia senza far cadere il cellulare.”
E rise, lei con lui, però arrossendo.
Non aveva mai parlato con un ragazzo a telefono. Quasi le sembrava assurdo, anche se si conoscevano da circa tre mesi. E loro, avevano anche bruciato le tappe.
“Ti piace il nomignolo ‘Marmotta’?”
“Uhm…”
“Che significa ‘uhm’?!”
Sbottò lei, ridendo. Lui soffocò un’altra risata.
Perché rideva sempre quando la sentiva parlare. Le sembrava così indifesa solo dalla voce.
Mingherlina, parecchio.
“Sarebbe una specie di si, credo.”
“E che altro ti piace?”
Chiese curiosa lei, girandosi a guardare il soffitto bianco.
“In che senso?”
Lei rimase zitta. Neanche lei molto probabilmente sapeva cosa intendeva. Ma poi si fece la domanda da sola. ‘Cosa ti piace, Hannah?’
“Per esempio a me piace l’odore di bruciato. La coca cola che poi mi fa fare l’aria in pancia. Mi piace il profumo dei fiori, mi ricordano l’estate, e io amo l’estate. Mi piace il sole che col tempo colora la pelle, mi piacciono gli abbracci, le coccole, lo stile vintage  e le maglie enormi.”
Prese un lungo respiro, pensando cos’altro le piacesse.
“Mi piacciono le labbra carnose e i sorrisi dolci, dove si vedono anche le gengive. Mi piacciono i bimbi che ridono, la frutta, il cioccolato, i biscotti e le scarpe consumate che si differenziano da quelle nuove.”
E si fermò, lasciando che un silenzio piacevole calasse tra i due. Lui d’altro canto rimase muto, aspettando che lei continuasse, ascoltandola un po’ incantato.
“E che altro ti piace?”
Fu un semplice sussurro.
“Mi piace… mi piace… mi piace la musica al piano, il teatro e le stelle.”
“Le stelle?”
“Si, le stelle.”
E lui, d’altro canto, alzò lo sguardo al soffitto, incontrando le stelline che aveva attaccato con … Rose.
“I-io … Io ho delle stelline attaccate al soffitto.”
“Sul serio?”
“Si.”
E le osservò, come non faceva da tempo.
“Voglio vederle.”
“Le vedrai.”
“Mhh… okay.”
Sbadigliò, sentendo il sonno alle porte.
“Marmotta?”
“Dimmi, H.”
“Cosa piace a te?”
“Il sorriso di Rose.”
Cadde un silenzio. Era la prima cosa che gli era venuta in mente.
Lei dall’altro lato rimase muta, sbalordita, forse un po’ già gelosa di questa Rose che neanche aveva mai visto.
“Chi è Rose?”
“Solo una ragazza …. Di … della mia scuola!”
Disse frettoloso, sperando che lei non indagasse. Lui non andava a scuola … non più.
“Uhm… e che altro ti piace?”
Lui ci pensò un po’, rispose ancora.
“Mi piace il tramonto. Mi piacciono le vecchiette che danno consigli utili o gli amici che mi ascoltano. Mi piacciono i maglioncini e le camicie, che anche se indosso poco, mi danno l’aria da perfetto inglese. Mi piace il thé allo zenzero. E mi piacciono le mie Vans rotte e nere, e le converse grigie con cui ho girato un po’ di posti. Mi piacciono i libri e le margherite. Ma solo quelle, perché gli altri fiori mi ricordano i cimiteri. Mi piace il tennis e la musica classica, anche se l’ascolto poco. Mi piacciono le chitarre, e mi … mi piace cantare.”
Lei rimase sbigottita. Sorrise.
“Cantare?”
“Si.”
Gli cominciarono a sudare le mani, si passò una mano tra i ciuffi rossi.
“Cantami qualcosa.”
Lui rimase zitto, immobile.
Non poteva cantare. Già parlando con lei, si sentiva a disagio. E se cantando avesse scoperto la verità?
“Cosa?”
“Quello che vuoi.”
Si schiarì la gola, agitato. Il cuore gli batté veloce in petto.
“When you were here before. Couldn’t look you in the eye.”
Lo stomaco gli si contorse, le budella quasi gli uscirono dalla gola.
‘Non stai per vincere un premio, devi cantare solo a questa ragazza!’ si disse.
Saltò parte dei pezzi, sperando che il distacco non si notasse e che non rovinasse la canzone.
“But I’m a creep, I’m a weirdo. What the hell I’m doing here? I don’t bel…”
E si fermò, incapace di continuare.
Lei rimase con il cellulare stretto tra le mani. Chiuse gli occhi. Era … incredibile ciò che stava ascoltando.
“Non … basta. Non posso continuare.”
Lei aprì gli occhi, sentendo la magia crollare, spegnersi.
“P-perché?”
“Scusa.”
Lei non rispose. Anzi, si alzò e spense la luce sulla scrivania.
“Ho sonno” mormorò, ristendendosi con gli occhi chiusi.
“Buonanotte, H.”
Lei non disse nulla, sperò solo che lui non staccasse. Rimasero qualche minuto in silenzio, si percepivano solo i respiri di lui che in cuor suo si dispiacque per lei. Ma… non poteva rischiare.
“Marmotta?”
“Uhm…?”
“La tua voce. Mi piace anche quella.”
Lui sorrise evidentemente felice. Sentì il petto scoppiargli per la dolcezza di quelle parole e poi un ‘tu, tu, tu’ si espanse nel suo orecchio, fermando la conversazione.   




 




Scusate il ritardo. 
Love u. x

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Capitolo 9
*** - 9 ***


A Edward, che beve(va) una birra
che ricordava il mio nome.

 





Non si sa perché, ma certe volte si ci sveglia con la malsana voglia di fare ciò che non si ha mai fatto. Battere le barriere, i limiti, le paure e cercare di fare passi avanti per raggiungere un sogno, un obiettivo, una parola o un gesto. Nessuno sa perché, ma ti alzi e non fai che dirti ‘Provaci. Fallo. Cos’hai da perdere?’
E Hannah questo se l’era detto e ridetto più di una volta. Ci aveva pensato secondi, minuti, ore e attimi fino ad avere il mal di testa talmente forte da farle sembrare di essere in una vita non sua.
“Esco” aveva mormorato a nessuno in particolare chiudendo la porta con forza dietro le sue spalle. Non lo seppe, ma forse quello fu il suo semplice tentativo di chiudere anche i problemi, le ansie, i dubbi, le paure in quella casa fin troppo spoglia e malandata.
Si era messa il cappuccio in testa, perché faceva freddo. Quel giorno molto probabilmente avrebbe piovuto e la gente l’avrebbe spintonata di qua e di là cercando di trovare un portone, la macchina o semplicemente un passaggio da qualcuno che da bravo si era portato l’ombrello da casa. Ma era okay.
Infilò le cuffie attaccate al suo cellulare nelle orecchie e pian piano s’incamminò chissà dove. Non accese neanche la musica. Voleva solo ovattare i rumori che ormai invadevano i suoi timpani in modo fin troppo burbero e doloroso. Inutile dire che non si sentiva mai pronta a quella vita. Era come essere un peso, per tutto e tutti. Perché nessuno ormai la sopportava più. Dopo tre mesi anche Claire si era stufata di bussare alla sua porta nel tentativo di consolarla. Ma era okay comunque.
Lei non aveva bisogno della compassione delle persone, né delle attenzioni soffocanti e stupide della gente. Ormai era diventata un flusso di apatia con le gambe. Era buffo descriversi da soli così, ma a lei veniva da ridere. E rideva, da sola, con la gente che la guardava in modo strano o che bisbigliava commenti insensati alle sue orecchie. Ma anche quello era okay.
 
Alzò il viso dalle scarpe succinte e scucite sul lato e guardò le persone che camminavano nella direzione opposta alla sua. Erano tutti così indaffarati a fare la spesa, correre, parlare di lavoro, che nessuno in realtà si godeva quella vita in modo tranquillo. Nessuno rideva, nessuno parlava di cibo, nessuno si teneva per mano, nessuno viveva seriamente. Tutti troppo impegnati a fare qualcosa. Tutti troppo impegnati per accorgersi di lei.
Scansò una signora vestita di tutto punto e svoltò a destra. Una folata di vento la fece rabbrividire e pensò che quello non era veramente luglio. Che estate era mai quella?
Ad ogni modo continuò a camminare a passo deciso. 
Dove sto andando?
Parole, gesti, profumi, colori.
Tutti sfumati, senza senso, senza emozione, senza vita.
Questa città mi soffoca.
Strinse gli occhi in una fessura rallentando il passo e fermandosi a guardare i vestiti nelle vetrine. Erano bellissimi su quei manichini. Sorrise un po’, sentendo l’adrenalina scorrerle nelle vene. Si tolse le cuffie dalle orecchie e le posò nella tasca del pantalone.
Che cosa ne sto facendo della mia vita?
Ed entrò, attirata da un vestito decisamente non adatto a lei. Era corto, bianco, con uno scollo a cuore. Sì avvicinò al vestito, toccandolo esitante. Era così distante dai suoi soliti gusti.
“Posso provarlo?” disse allora ad una commessa, girandosi. La ragazza annuii, avvicinandosi a lei e chiedendole la taglia. “La più piccola che avete” mormorò, quasi vergognandosi. Perché non mangiava come prima? Il suo corpo era troppo, troppo magro. E notare che quella ragazza la guardasse quasi con invidia, le faceva ribrezzo. Prese velocemente il vestito, sussurrando un ‘grazie’ con poco fiato dirigendosi automaticamente nel camerino.
Perché m’invidi? Io mi faccio schifo così.
Non aveva la borsa, i soldi li teneva nascosti nella custodia del cellulare, così posò soltanto quello sul puff scolorito e impolverato. Difronte a lei lo specchio. Si guardò per un attimo, facendo una smorfia, così si girò, evitando l’immagine. Si tolse velocemente i vestiti arricciando il naso quando i piedi nudi toccarono il pavimento sporco. Afferrò l’abito bianco e lo guardò con astio.
“Ti odio, vestito inanimato” borbottò, infilandolo. Quasi inciampò e rise lievemente, mantenendosi alla parete. Si aggiustò la stoffa che le scendeva morbida sul corpo e chiuse gli occhi, tirando un lungo respiro.
Sarai bellissima.
Spalancò gli occhi, girandosi. Si guardò inizialmente solo i piedi, risalendo poi pian piano con gli occhi sul corpo evitando di correre. Si perlustrò più volte il corpo, guardandosi con occhio critico.
Sei bruttissima.
Si girò di lato guardando come sembrasse. Distese le labbra in un sorrisino notando che sembrava più piena, meno magra.
“Faccio schifo” rise di nuovo. Alzò gli occhi al cielo, pensando che stava diventando pazza. La gente avrebbe pagato per essere come lei, invece lei si odiava. Odiava toccare le ossa e vedere il viso pallido, privo di vita se non per quelle piccole lentiggini sul naso e sulle guance. Se lo sfilò velocemente, quasi come se il tessuto le stesse bruciando la pelle e indossò i suoi vestiti, sentendosi meglio all’istante.
 
“Lo prendo” disse al ragazzo che stava dietro la cassa e che la guardava masticando a bocca aperta una gomma. Picchiettò le unghie sul bancone, aspettando che le facesse lo scontrino. Pagò e uscì di corsa senza neanche rispondere al ‘buona giornata’ e si ritrovò sulla strada. Sentì una gocciolina colarle sullo zigomo e se la ripulì guardando il cielo, senza neanche capire se era una lacrima o solo le nuvole che improvvisamente troppo piene volevano far scatenare un temporale.
Fece spallucce e continuò a camminare su quella strada, rimettendosi il cappuccio sulla testa. Le rimanevano alcuni spiccioli, così decise di prendersi un frappè alla nocciola dal primo Starbucks che trovò sulla strada e, buttando maleducatamente lo scontrino a terra, bevve piano mentre le prime gocce di pioggia le bagnavano la felpa.
Anche il cielo piange, forse si sente solo, pensò.
Mezzora dopo era ormai fradicia e si era anche tolta il cappuccio dalla testa. Le piaceva la pioggia, era rilassante. Si morse il labbro stringendosi di più le gambe al petto. Aveva freddo, e quello in realtà non le era mai piaciuto. Però era okay.
Socchiuse gli occhi perché l’acqua che le colava dalle ciglia era diventata fastidiosa e posò lo sguardo sulla strada difronte a sé. Era deserta. Nessun’automobile, nessuna persona, nessun colore in particolare. Solo rumore e pensieri affollati in una nuvola invisibile che le colpiva le orecchie.
Si alzò, felice che la busta del vestito fosse impermeabile, e pian piano, piede dietro l’altro, ritornò a casa. Lì dove le pareti erano troppo strette, i profumi troppo lontani e i sogni troppo distrutti solo per vivere.
 
“Sono a casa” mormorò a voce alta lasciando le scarpette di tela –fin troppo bagnate- all’entrata. La mamma non le rispose nemmeno. Stava cucinando il pranzo. O almeno così diceva il profumo di carne che le fece storcere il naso.
“Tesoro, dove sei stata?” Disse la donna una volta che Hannah entrò nella cucina. Lei non rispose, semplicemente prese il telecomando e accese la tv. Che le importava di dove era andata?
Cambiò canale, mettendo quello di musica. Sorrise quando passò una canzone familiare. La donna le mise il piatto con due hamburger davanti e lei sentì lo stomaco stringersi solo a guardarlo. Cominciò a tagliare in piccoli pezzettini la carne, muovendo la testa a ritmo.
“Oh baby, give me one more chance” canticchiò a bassa voce, posando il coltello. Mangiò un pezzo di carne e poi alzò la testa con una smorfia quando la musica si arrestò di colpo. Guardò il televisore, trovandolo spento.
“Hai intenzione di non parlarmi più?” borbottò la donna richiamando la sua attenzione, lanciando la forchetta nel piatto, causando un’orribile rumore. La ragazza non rispose, continuò solo a mangiare in silenzio giocando con il cibo incastrato nella forchetta.
“E perché sei bagnata?”
“Forse perché ha piovuto?” rispose ironica la ragazza, alzando gli occhi al cielo, masticando piano. La sedia ormai troppo scivolosa per farla rimanere seduta in modo stabile e tranquillo.
La donna allora si arrese e mangiò, in silenzio. Hannah si sentì solo meglio.
E mangiò entrambi gli hamburger con gusto.
Da quanto non mangiavo così?
Strinse gli occhi, sentendosi piena. Prese il piatto e lo posò nel lavello, rintanandosi nella sua stanza.
 
Aprì lentamente gli occhi, sentendosi in un altro mondo.
Li richiuse, sperando di riaddormentarsi ma ormai il cervello era troppo sveglio per permetterle qualche altra ora di sonno. Si girò, aggiustandosi i capelli sulla fronte. Non le servì neanche abituarsi alla luce, perché era praticamente buio fuori. Si alzò, sbadigliando e guardando l’orologio digitale sul comodino.
Erano le otto passate, cavolo! Si diresse in bagno chiudendosi dietro la porta a chiave. Si tolse i vestiti ed entrò nella doccia. Aprii l’acqua fredda e respirò a fatica, ma non si mosse. Anzi, lasciò che il corpo le facesse venire degli spasmi per il freddo prima di regolare l’acqua. Si lavò lentamente i capelli e poi il corpo. Non si soffermò più sui polsi guariti e chiusi. Puliti, come nuovi e pronti ad accogliere una nuova storia, una nuova sofferenza. Si sciacquò e poi uscì, infilandosi velocemente l’accappatoio. Tamponò i capelli lunghi e mossi con un asciugamano, asciugandosi. Ritornò nella sua camera, pronta a vestirsi. Indossò la biancheria e poi tirò fuori il vestito dalla busta.
“Io non piaccio a te e tu non piaci a me, ma per stasera dobbiamo adeguarci, mh?” Disse, infilandolo. Sospirò quando lo infilò e rientrò in bagno prendendo il phon nel mobile asciugando velocemente i capelli. A guardarli ricordavano un campo di grano.
Sono pazza, pensò.

Prese la borsetta a tracolla, guardandosi i piedi.
Sbuffò afferrando il cellulare, le chiavi e dei soldi.
“Ma’, esco.”
Balbettò, uscendo e traballando su quei trampoli che aveva come scarpe. Chiamò con il gesto della mano un taxi e uscì, mentre l’aria fredda le investì le gambe nude.
“Posso farcela, no?”
E quasi non ci credette neanche quando chiese all’autista di portarla al ‘Cable’, poco distante da casa sua.
Il viaggio durò fin troppo poco, ma fu affollato da troppe domande senza una risposta effettiva.
‘Perché sono qui?’
‘Cosa volevo fare?’
‘Il trucco mi fa lacrimare gli occhi.’
‘Ho paura.’
Formulò quell’ultimo pensiero e scese dall’auto, pagando il tassista. La musica house le arrivò alle orecchie ovattata, così camminò spedita verso l’entrata, facendo lo slalom tra le persone per passare. Pagò l’ingresso, mostrò la carta d’identità che le dava la maggiore età, ed entrò, sentendo l’ansia salirle nell’avere troppa gente addosso. Spintonò le persone e si diresse verso il bancone.
Voglio bere, voglio vedere cosa prova mia mamma, pensò.
“Un cola e Malibu” gracchiò quando il barman si avvicinò a lei. Quello le sorrise posando lo sguardo sul suo petto in mostra, così lei girò il viso che si era arrossato.
“Ti odio ancora di più, ora” borbottò, ma nessuno la sentì, se non le sue stesse orecchie. Prese il bicchiere che il ragazzo le aveva portato e guardandolo un attimo, pensò di essere diventata pazza. Stava bevendo ed era lì con l’idea di volersi ubriacare. Mandò un’occhiata al ragazzo dietro al bancone e tracannò tutto senza neanche pensarci di più.
In poco l’alcool le raggiunse la gola, facendogliela bruciare. Arricciò il naso e alzò gli occhi diventati lucidi al soffittò, lì dove luci colorate le investirono le pupille, facendole girare la testa. Posò il bicchiere e si mantenne al bancone. Con un gesto richiamò il ragazzo.
“Senti… Voglio ubriacarmi” borbottò aggiustandosi la borsa sulla spalla. “Dammi qualcosa di forte.”
“Woh, vacci piano” ridacchiò quello, prendendo però una bottiglia orribilmente rosa. Versò il liquido in un bicchiere e poi, giratolo, mise una cannuccia e glielo porse.
“Beh, buona sbronza” disse lui. Lei alzò il bicchiere come cenno di ringraziamento e senza soffermarsi sull’odore o sul contenuto, tracannò.
Questo era… Era sul serio più forte. Fece una smorfia e scosse la testa, sentendo la gola bruciare in modo orribile. Guardò il bicchiere notando che era vuoto, così lo poggiò sul marmo, guardandolo.
“Cos’era? Faceva schifo!” urlò quasi, ridacchiando.
“Ehy, bambolina, ti avevo avvertito di andarci piano” disse quello facendo spallucce, servendo poi altre persone.
“Ci vediamo dopo. Prepara qualcos’altro di forte, eh!”
E sgusciò via, tra la gente.
 
Un’ora dopo era già abbastanza brilla. Sentiva la testa leggera, il cuore piccolo e indistruttibile, i piedi ormai abituati a quelle scarpe alte. Forse cinque o sei ragazzi le avevano palpato il culo e uno aveva anche cercato di baciarla, ma lei gli aveva dato una gomitata ed era andata via, ballando sola, con qualcuno, con le luci.
Partì un remix di una canzone che l’alcool le faceva sfuggire, e allora, ridendo come un’idiota cominciò a ballare. Mosse la testa in modo irregolare, per niente in ritmo, ma si sentii libera. Girò, inciampando quasi, tranne per il fatto che si ritrovò un ragazzo dietro che l’aiutò a stare su, dritta.
“Scusa” cantilenò lei, però ballando. “Ti va di ballare con me per farmi perdonare?” continuò con un sorriso, avvicinandosi a lui. Quello rise e l’accontentò.
 
Due canzoni dopo e un tacco rotto, Hannah stava baciando quel tipo.
Quando sentì la mano del ragazzo toccarle la gamba sembrò risvegliarsi da quel coma, così lo spinse.
“E levati” disse maleducata, allontanandosi traballante.
Si riavvicinò al bancone e il ragazzo che l’aveva servita prima le sorrise.
“Allora? La mia bevanda forte?”
“Sicura di essere dell’età giusta per bere?” ridacchiò quello.
“Non sarei qui altrimenti. E ad ogni modo sta’ zitto, idiota” rise lei, aggiustandosi i capelli. Aveva caldo, ma non importava. Era stanca, ma non importava.  Era ubriaca, ma non importava nemmeno quello.
“Alla salute!” rise, bevendo. Cola e Jack Daniel’s.
Quella fu l’unica bevanda che bevve piano, poi, dopo aver sentito il liquido pesarle e farle contrarre lo stomaco dal dolore e i piedi per l’intensità, decise di andare in bagno.
Spintonò la gente, dando spallate a parecchie persone. Riprese la borsa e il cappotto all’ingresso, indossandoli. Si avvicinò al bagno e lo trovò magicamente libero, tranne per qualche ragazza che si stava aggiustando il trucco o fumando una sigaretta. Storse il naso e a testa bassa entrò in una cella. Buttò la borsa a terra, ridendo come un’idiota. Poi la riprese ed estrasse il cellulare, premendo due volte il tasto verde. Incastrò il telefonino nell’incavo del collo piegando la testa, mentre con le mani si abbassava le mutande.
Tu, tu, tu.
“Andiamo, rispondi” borbottò, impaziente.
 
“Mh? Pronto?” biascicò una voce al di là dell’apparecchio. La ragazza corrugò la fronte.
“Marmotta!” però urlò.
“Hannah?”
“No, tua sorella” rise lei. Tutto le sembrava divertente. Tutto le sembrava senza senso.
“Hannah… Che…”
“Ma lo sai che sto facendo?” lo interruppe, la voce alterata. Ormai era ubriaca a tutti gli effetti.
“Cosa?”
“La pipì” urlò, allungando la ‘i’ finale. Rise di nuovo. “Dai, ridi. Non è divertente il fatto che ti stia chiamando mentre piscio?”
“Hannah, dove sei?”
“In bagno, sciocchino. Dove si fa la pipì secondo te?” disse lei, mentre il telefono le cadde atterra. “Oddio” rise ancora. Perché rideva? Neanche lei lo sapeva.
Il ragazzo si alzò, accendendo l’abat jour sul comodino. Strinse gli occhi e sbadigliò, cercando di capire cos’era stato quel rumore.
“Hannah, dove cazzo sei?”
“In discoteca” singhiozzò lei, in una risata dopo essersi aggiustata e aver preso il cellulare. Uscì dal bagno senza neanche tirare lo sciacquone e andò fuori, mentre l’aria fresca la fece sentire meglio.
“Che ci fai lì? Sei sola?”
“Chi vuoi che ci sia con me? Il Papa? La Madonna? Charlie de ‘La fabbrica di cioccolato’?”
Lui sospirò, alzandosi.
“Perché mi hai chiamato? Stavo dormendo.”
“Dormivi? Sul serio? Dai Ed, non ti facevo così pigro!”
“Sono le due di notte, H. Le persone normali, quelle che non vanno in discoteca, dormono a quest’ora.”
“Oh” disse lei. Non si sentiva neanche in colpa per averlo svegliato. Anzi, le sembrava così ovvio averlo fatto.  Cominciò a camminare, stringendo gli occhi per cercare di focalizzare la strada.
“Ora torno a casa” poi continuò, con voce tirata, camminando zoppa. La scarpa le si era rotta completamente, così si fermò.
“E le scarpe mi fanno male, una si è pure rotta. Era di mia mamma!” disse, facendo una smorfia. “E sai cosa?”
“Cosa?”
Lei si morse il labbro, trattenendo una risata.
“La cacca rosa!” però urlò, scoppiando in una fragorosa risata.
Dall’altra parte il ragazzo si batté una mano in fronte. “Quanto sei scema” disse, però ridendo con lei. Non l’aveva mai sentita ridere in quel modo. Era… Dolce. Aveva la voce cristallina, un po’ roca per la sbronza. Se la immaginò, cercando di focalizzare davanti agli occhi la ragazza.
Chiuse gli occhi, immaginandola. Vide davanti a sé una ragazzina. Sembrava una bambina, ma lui ci vedeva in lei Hannah. Gli occhioni verdi un po’ lucidi, le gote rosse, le lentiggini un po’ più evidenti del normale, le labbra rosse, gonfie e piene. Una camminata un po’ ondulata, sbiascicata, nella quale i capelli le sarebbero svolazzati ovunque come le sue ciglia lunghe.
“Ora butto le scarpe. Anzi, le porto così a mia mamma. Voglio che mi sgridi e che mi dica quanto faccia schifo come figlia” rise, senza emozione. Si sentì anche attraverso il cellulare che rendeva le voci meccaniche.
“Tu… Non fai schifo come figlia.”
Lei non rispose, solo prese le scarpe da terra e camminò sentendo l’asfalto fresco e ruvido sotto i piedi. Qualche sassolino le graffiò la pianta e i talloni, ma lei ignorò tutto. Rimase in silenzio, sospirando.
“Che stai facendo?” disse poi ad un certo punto, scorgendo poco più lontano casa sua. Anche all’andata sarebbe potuta andare a piedi, ma le scarpe glielo avevano impedito. Erano troppo alte.
“Sto aspettando che tu parli. E tu?”
“Sto camminando in mezzo alla strada.”
Silenzio tombale, panico, occhi sbarrati, orecchie ben aperte.
“Hannah. Cosa cazzo fai?”
“Voglio ballare, perché?”
“Non stare in mezzo alla strada”
Lei lo ignorò e con le scarpe ancora strette tra le mani cominciò a volteggiare, chiudendo gli occhi. Le strade deserte, tranne per qualche automobile che andava via.
“Tu di che colore hai la pelle?” disse, piegando la testa e incrociando i piedi.
“Io rosa, tu?”
“Oh, davvero?” disse sorpresa, fermando quella stupida danza per camminare normale. “Anche io. Però la vorrei verde.” Sorrise.
“Perché verde?” l’accontentò lui, stendendosi spegnendo la luce. Era ubriaca e sapeva che doveva assecondarla. Anche se aveva paura e sentiva il sangue scorrergli troppo veloce nelle vene.
“Perché è bello. Mi ricorda i prati, i fiori e la libertà. E’ il colore della speranza e quello che io vorrei avere nei capelli, sempre. Tu non vorresti cambiare il colore della tua pelle?”
“No. Perché dovrei?”
“E comunque ti svelo un segreto:  Le zanzare… Hanno le zampe!” urlò, ridendo di nuovo. Lui rise con lei, trovando la sua risata fin troppo contagiosa.
Tra una risata e l’altra lei si ritrovò fuori la porta, così “Oh, sono a casa!” disse, quasi sorpresa. Prese le chiavi e con un po’ di fatica le inserì nella toppa.
“La porta si muove!” disse in un broncio.
“O tu sei troppo ubriaca.” Lei rise. Ancora.
Alla fine l’aprì e il legno cigolò sui cardini. Buttò le scarpe –quello che ne rimaneva- a terra e si diresse nella sua camera.
“Hannah, dove sei stata?” disse una voce assonnata e stanca, velata di preoccupazione. La ragazza si girò e la guardò, sorrise senza coinvolgere gli occhi e “Vaffanculo Ma’!” disse, chiudendosi nella sua camera con un tonfo.
Il ragazzo dall’altro lato ascoltò in silenzio, sentendosi di troppo. Che succedeva?
“Vuoi sapere un altro piccolo segreto?”
“E’ bello?”
Lei restò zitta, immobilizzandosi.
“Non lo so. Ma cosa importa? Fa ridere, però.”
“Allora racconta.”
“Stasera ho ballato con non so quanta gente, e c’era uno che mi ha toccato il culo. E allora sai io che gli ho detto?”
Lui sentì un moto di rabbia e gelosia sprofondargli nel petto, così strinse forte la maglia del pigiama.
“Cosa?”
“Niente! Non gli ho detto niente!” rise.
Lui no, ma lei neanche ci fece caso.
“E sai la cosa buffa di tutto questo?” sbiascicò, ridendo ancora, buttandosi sul letto.
“Quale?”
“Che ho un vestito che mi fa schifo. L’ho comprato stamattina nonostante questo! ” Rise, forte e sguaiatamente.
“E sai che altro?” La risata si affievolì lasciando spazio a dei singhiozzi. “Mi faccio schifo io.”
E pianse, mentre lui l’ascoltava impotente, sgualcendosi la maglia con le mani e torturandosi a sangue il labbro.
“E faccio schifo a mia mamma. Al ragazzo che stasera ho baciato, al cibo, al mondo, alla vita e a tutti. Ma che importa? A nessuno.”
Pianse, lasciando che il trucco le rovinasse le guance e gliele sporcasse di nero. Lasciò che le paure, le incertezze e le consapevolezze la schiacciassero.
Lui perse un battito. Una terribile gelosia gli invase il petto insieme alla rabbia.
“A me. A me importa!”
Disse velocemente, alzandosi a sedere tirandosi poi le ciocche dei capelli con le dita.
“Sul serio?”
“Sì, e a me non fai schifo.”
Un sussurro, un brivido, una voce, una certezza, un pianto troncato e stanco.
“Secondo me eri bellissima con quel vestito. Anche se non ti ho visto.”
“Mi canti qualcosa?”
Lui rimase in silenzio, immaginandola sola, sul letto, a piangere e con lui come unica salvezza.
E poi cantò, fermandosi solo quando sentì i sospiri di lei indicargli che dormiva.
“Secondo me sì, eri proprio bella stasera.”
E staccò.
 
 





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Capitolo 10
*** - 10 ***


A Edward,
che gioca a tennis e 'sembra il fratello di Nadal'. 




“Sì Johnny, sono pronto  aspetta un attimo.”
Arricciò il naso, infilandosi la scarpetta. Gli stavano larghe e aveva dovuto stringere i lacci fino schiacciare il piede in una morsa fastidiosa.
“Ed, muoviti!”
“Cazzo, un attimo” sussurrò. Si passò una mano tra i capelli già sudati e appiccicosi tenuti fermi da una fascetta di cotone. Prese in mano la racchetta schiacciando i polpastrelli sulla gomma ruvida del manico, poi lasciò intrecciare la pupilla nelle corde, osservando il loro assurdo intreccio. Avrebbe potuto scrivere di quegli assurdi legamenti per ore, perché gli ricordavano le montagne, il mare, le stelle, la vita, gli amici e l’amore.
“Edward!” urlò di nuovo Johnny, battendo però il pugno sulla porta bianca.
Scosse la testa, risvegliandosi da quel coma.
“Sei un rompicoglioni” aprì la porta, spingendo con la spalla il suo amico. Poi rise per i pensieri che aveva fatto sulla racchetta.
Devo fumare una canna , pensò solo, entrando nel campetto.
Il cielo nuvoloso, dei tuoni a infastidirlo, il vento a sferzare le guance screpolate, il terreno fangoso sotto scarpette fin troppo rumorose.
 
“Sfigata!” una risata cristallina subito dopo quelle parole. Capelli biondi al vento e luminosi rispetto al campetto verde bottiglia. Le ragazza girò su se stessa, guardando in alto, verso il cielo. Era nuvoloso, ma qualche spruzzo di sole illuminava le pareti dell’edificio.
“Stronzo!”
“A chi?” aveva soffiato poi nell’orecchio di lei, abbracciandola da dietro. Automaticamente la racchetta era caduta  a terra, colpendo le loro scarpe.
“Tu!”
Una piccola risata da parte di lui e una carezza tra i capelli spumosi e lucenti.

“Non sono io quello che non sa giocare a tennis, cara Rose.”
Un morso sul braccio, un urlo, risate leggere come pioggerellina nell’aria.
 
Deglutii, muovendo le gambe per riscaldarsi.
“Ti straccio.”
Lui rise, socchiudendo gli occhi, “Sogna, sogna” e poi si era messo a correre per raggiungere la pallina che era arrivata con forza nel suo lato di  campo.
L’aveva colpita forte, come a voler lanciar via il ricordo che aveva scavato nella memoria.  Si piegò sulle gambe, colpendo di nuovo la pallina in rovescio. Aveva preso solo un respiro, prima che la vedesse rotolare fino alla rete.
“Uno per me!”
“Ah, sta’ zitto Johnny.”
E aveva rilanciato, disinteressato a tutto.
Se prima aveva voglia di giocare con uno dei suoi grandi amici, in quel momento tutto il desiderio di prima era sparito, lasciando spazio allo sconforto di una partita nulla.
 
 
 
Guardò la strada, soffermandosi a guardare la quercia imponente che se solo si alzava in piedi riusciva a toccare. Era alta, robusta, con le foglie di un verde brillante e umido per la rugiada.
Si morse il labbro, grattandosi il collo con un dito. Essere come quella quercia le sarebbe piaciuto. Posò gli occhi sul bianco del foglio che portava in grembo, lo strinse forte quasi fino a farlo stropicciare, poi lo lasciò, rigirandosi la matita tra le dita.
Scrivere pezzi della propria vita, disegnarli, catturarli su un tessuto colorato o colorarlo con il grigio della sua mina, le sarebbe piaciuto tanto. Perché i disegni si possono modificare e colorare e cancellare e riscrivere milioni di volte ancora, rendendoli perfetti ogni schizzo in più. Perché il foglio assorbe tutto, resta zitto e ama la mina, la consuma e si consuma per la forza che viene usata nel disegnarci sopra, ma non ti ferma, ti fa continuare anche quando gli strati sono finiti e tu non hai più spazio dove scrivere,
 se non dove ci sono dei piccoli fori.
Però quel foglio continua ad amarti anche mentre tu lo consumi e lo usi fino a disintegrarlo. Oppure puoi conservarlo in un cassetto, piegarlo o lasciarlo intatto e quando ne sentirai la mancanza potrai riprenderlo e riguardarlo, amarlo ancora una volta solo a guardarlo, percepirne le emozioni che ci hai messo nel farlo, e rimetterlo al suo posto per evitare che l’aria possa anche solo sciuparlo.
Tracciò una linea perfetta, dritta, senza incertezze.  Arricciò il naso, riposando lo sguardo sulla quercia, sul tramonto che dorava le foglie come in un bagno di sugo e cielo, come se quelle foglie gli appartenessero di diritto.
Non sono tue quelle foglie.
Occhi scattanti, mani veloci, palmi sudati, punte consumate per l’intensità delle linee e delle curve.
Lasciami disegnare sulla tua vita.
Rumori neanche lontanamente udibili, persone troppo indaffarate, un giardino troppo solo.
Voglio disegnare, voglio farlo come una volta. Lo faccio per te papà, perché tu sapevi farlo.
 
La casa silenziosa, buia e luminosa allo stesso tempo. Finestre chiuse, porte delle stanze spalancate.
“Mamma?” silenzio, rumori e paura.
“Mammina?” voci sussurrate, mai sentite, conosciute.
La piccola continuò a camminare piano, stringendo tra le dita la gonnellina del suo vestitino a fiori che la madre le aveva costretto a indossare. Salii le scale, respirando affannosamente.
“Papino?” mormorò, guardandosi intorno.
Poi urlò chiudendo gli occhi tentando di scappare via. Il piede le scivolò indietro e si protese  per cadere verso le scale ma due braccia forti la sollevarono portandosela addosso.

“Buh!”
Automaticamente rise, affondando le mani nei capelli ricciolini dell’uomo.

“Papino!”
“Principessa” sorrise l’uomo, accarezzandole i capelli castani simili ai suoi. La portò nel suo studio, poggiandola a terra. Si stava facendo grande e pesava ormai.
“Che stai facendo al buio?” una voce troppo bambina per i suoi nove anni. Spalancò gli occhi, perché al buio era difficile stare dietro suo padre. Poi una piccola luce si accese. L’uomo seduto sulla sua grande sedia di pelle nera, le mani macchiate di nero, il viso stanco e soddisfatto.
“Vuoi vedere una cosa?”
Si mosse soltanto, arrivando vicino a lui. Sul tavolo fatto con legno di pino un foglio grande, il ritratto incompleto di una donna. Una mano vicino alle labbra dall’incarnato ancora indefinito, un occhio da cerbiatta, i capelli adagiati delicatamente sulle spalle.
“Chi è quella donna?”
“La mamma. Ti piace?”

 
Una lacrima calda sul foglio, le dita paralizzate, il vento a scuotere i capelli legati.
Hannah alzò gli occhi al cielo, poggiando la schiena sul muro dietro di lei. Rise, asciugandosi la lacrima.
“Sai che quel disegno era proprio bello? Chissà quanto bello sarebbe stato se lo avessi finito. Sei un burlone pa’.”
Rise all’aria che l’accarezzava come fosse terreno. Parlò con il cielo, con le piante, con suo papà e con nessuno. Ma lo fece comunque, perché nulla importava davvero.
Il dolore dimenticato per un po’, racchiuso in una scatola troppo piccola per contenerlo tutto, ma pur sempre lontano da quel corpo troppo fragile.
 
And I think you hate the smell of smoke
You always try to get me to stop
But you drink as much as me
And I get drunk a lot
 
Una pallina gli colpì la testa, facendolo barcollare. Chiuse gli occhi, portando automaticamente la mano sulla fronte.
“Ah!”
“Ed?! Stai bene?”
Alzò gli occhi, incontrando quelli grigi di Johnny velati da una patina di preoccupazione. Scosse la testa buttando la racchetta a terra. Quello gli mise una mano sulla spalla, ma lui aprì solo le labbra, incapace di parlare veramente.
“Io… Io de-…  Devo andare.”
Lo guardò interrogativo, ma non se ne curò. Si girò, tastando forte con i piedi il terriccio, sentendolo scricchiolare come legno. Corrugò la fronte, ripetendo le parole che aveva trovato.
“Ma Ed, abbiamo appena iniziato a giocare!”
Lo ignorò del tutto. Doveva assolutamente scrivere ciò che aveva appena formulato, perché altrimenti avrebbe dimenticato le parole. Quasi inciampò quando rientrò nello spogliatoio, ma si mantenne allo stipite della porta. Storse il naso e prese velocemente il cellulare dal suo borsone. Digitò ciò che si era ripetuto in un messaggio, salvandolo poi nelle bozze.
Sarebbe potuto ritornare dal suo amico così non lo avrebbe neanche deluso, ma tanto che c’era ritornò a casa, già stanco pur non avendo fatto nulla.
 
 
 
Camminò frettolosamente, quasi tremando. Era…  Euforica.
Si guardava intorno circospetta, attenta che nessuno la vedesse, ma alla fine nessuno la notava seriamente. La tuta le cadeva oltre le scarpette strusciando contro le strade sporche. Aumentò il passo, contenta che fosse già arrivata. Si strinse nelle braccia entrando nella tabaccheria, si guardò un attimo intorno, avvicinandosi poi al bancone.
“Un pacchetto di Malboro da dieci”
 L’uomo la guardò, inarcando un sopracciglio.
“Sono maggiorenne!”
O quasi, pensò.
“Okay, non è che non mi fido, ma ho bisogno di vedere la carta d’identità ragazzina.”
Boccheggiò un attimo.
“Ma… Non ce l’ho con me.”
“E’ la legge, non posso impedirlo.”
Lei sbuffò, passandosi una mano tra i capelli.
“La prego, non può fare un’eccezione? Giuro che le terrò in tasca fino a quando non raggiungerò casa mia!”
Si morse il labbro, guardandolo in modo di fargli tenerezza.
“La prego… Tanto lo so che non le dispiace incassare altri soldi. Resterà tra noi.”
L’uomo la guardò esitante, poi scosse la testa.
“Ma che rimanga tra noi, sia chiaro. Possono denunciarmi per questo” le porse il pacchetto.
Lei sorrise riconoscente, dandogli i soldi necessari.
“Grazie mille, signore.”
E poi uscii velocemente guardandosi intorno. Fece qualche passo, poi estrasse il pacchetto. Lo scartò velocemente sentendosi subito meglio. Per un attimo aveva pensato che non sarebbe riuscita a convincerlo e che sarebbe dovuta andar via a mani vuote, ma ora, la sigaretta tra le mani era come un calmante.
Sorrise, prendendo l’accendino dalla tasca sinistra. Quello lo aveva portato, almeno.
Avvicinò il filtro alle labbra, poi aspirò accendendo la sigaretta.
Aveva fumato già qualche volta. In realtà lo aveva fatto per due anni, tra i quattordici e i quindici. Inizialmente era solo per moda, per piacere a Derek. Poi quando lui le aveva provato a mettere una mano nei jeans, era scappata via spaventata. Continuò per vizio, poi, certa che qualcuno l’avrebbe scoperta, aveva smesso.
Socchiuse gli occhi, soffiando piano il fumo.  Si rilassò all’istante.
Non fumava da tanto, farlo le sembrava quasi irreale e perfetto.
Lasciò che il fumo le annebbiasse i sensi e piano camminò, ritornando a casa solo dopo qualche ora e a metà pacchetto finito.
 
Mesaggio daMarmotta <3
 ‘Ho bisogno di una doccia. Puzzo.’
 
Messaggio da:  H<3
‘Sì, lo credo anche io, hahah. Lo sento fino qui.’
 
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‘Gne gne. Spiritosa.’
 
Messaggio da:H<3
‘;)’
 
Messaggio da:Marmotta<3
‘Come stai?’
 
Messaggio da:H<3
‘Sì, bene. Tu?’
 
Messaggio da:Marmotta<3
‘Tutto okay, dai.’
 
Messaggio da:H<3
‘Penso di dovermi fare una doccia anche io, HAHAH. Son puzzolente, in effetti.’
 
Messaggio da: Marmotta<3
‘Lavatiii.’
 
Messaggio da:H<3
‘Ti andrei bene anche puzzolente?’
 
Messaggio da:Marmotta<3
‘Si <3’
 
Messaggio da:H<3
‘Aw. Ma ti immagini se ti abbracciassi ora, tutta sudata e… Bleah.’
 
Messaggio da:Marmotta<3
‘Sì, certo che ti abbraccio <3’
 
Messaggio da:H<3
‘Anche io lo farei.’
 
Messaggio da:Marmotta<3
‘Davvero?’
 
Messaggio da:H<3
‘Sì. E poi trovo una doccia e ti ci butto dentro. HAHAH.’
 
Messaggio da:Marmotta<3
‘E poi ci laviamo insieme, HAHAH.’
 
Messaggio da:H<3
‘Sì, perché puzziamo!’
 
Messaggio da:Marmotta<3
‘Io lavo te e tu lavi me. No, okay, questo è un po’ perverso.’
 
Messaggio da:H<3
‘Porco, HAHAH.’
 
Messaggio da:Marmotta<3
‘Mica hai i traumi? HAHAH.’
 
Messaggio da:H<3
‘No, certo che no. HAHAH.’
 
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‘Brava u.u’
 
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‘Sei uno zozzo con la Z maiuscola.’
 
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‘Da piccolo dicevo sosso. HAHAH.’
 
Messaggio da:H<3
‘Sosso, io vado a lavarmi. Non so te.’
 
Messaggio da:Marmotta<3
‘Vado anche io. Tra un po’ esco con alcuni amici!’
 
Messaggio da:H<3
‘Divertiti!’
 
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‘Se potessi ti porterei con me.’
 
Messaggio da:H<3
‘Io sono pronta, devo solo truccarmi. ;)’
 
Messaggio da:Marmotta<3
‘Va bene, ci vediamo in piazza. ;)’
 
Messaggio da:H<3
‘A dopo. Buona serata!’
 
Messaggio da:Marmotta<3
‘Ciao H. :)’
 
 
Il ragazzo rise: Erano proprio stupidi.
Lasciò il telefono sulla scrivania e poi si andò a lavare. A breve Tom sarebbe passato a prenderlo.
La ragazza invece scrollò le spalle, andò a lavarsi e poi tornò nella sua stanza, felice di aver lasciato tutti i brutti pensieri lontani da lei, forse nell’orizzonte che aveva disegnato sul suo foglio d’album. 







Partorire capitoli così, non fa bene alla mia salute.

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