Un nuovo inizio.. o un'altra fine?

di Vally98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** è tutto solo un incubo.. ***
Capitolo 2: *** un nuovo inizio ***
Capitolo 3: *** Tutto da capo ***



Capitolo 1
*** è tutto solo un incubo.. ***


Mi madre piangeva. Mio padre la consolava con gli abbracci più calorosi ch’io avessi mai visto.
Dopo quella telefonata tutta la famiglia era caduta in un baratro di confusione e tristezza. Ma ero io quella che stava peggio tra tutti, anche se non lo dimostravo. Avevo perso due persone nello stesso istante, ma me ne stavo zitta, nell’angolo, la schiena premuta tra i due muri, le braccia conserte, lo sguardo impenetrabile. Nessuno, e dico nessuno, in quel momento sarebbe stato in grado di decifrare i miei sentimenti.
Era un incubo, certo. Non poteva essere successo davvero. Non tutto insieme! Ma più i minuti passavano più mi dovevo smentire.
Mamma continuava a piangere, papà a stringerla forte, imitati a ruota dai miei cinque fratelli. Io ero la sola che si dimostrava fredda e distaccata, totalmente indifferente all’accaduto.
Già... ma dentro morivo, e nessuno l’avrebbe saputo, mai.
Deglutii un groppo amaro che mi incastrava la gola. Sospirai, girai i tacchi e con una tranquilla e normalissima camminata mi avviai verso la mia stanza, sbattendomi la porta al spalle.
Sapevo che tutti si erano voltati per vedermi sparire dietro l’uscio, senza però smettere di manifestare il loro dolore. Non mi serviva vedere per saperlo.
Mi avvicinai alla finestra, lentamente, con calma, il cuore che batteva a mille. Avevo lo sguardo fisso, vuoto, se qualcuno lo avesse incrociato ne sarebbe rimasto terrificato. Fui io stessa a incrociare i miei occhi riflessi sul vetro della finestra.
Poi guardai fuori: il giardino, i miei fiori, i miei alberi, la nostra panchina.
Strinsi forte gli occhi con una smorfia disgustata e addolorata. Mi costò molto vedere scomparire dietro le palpebre su quel punto del giardino che mi era tanto caro. Ormai contava anche meno di una semplice panchina del parco della città.
Mi voltai di scatto. Mi costrinsi a dare le spalle a quello spettacolo che mi faceva stare male, ancora più male di quanto non stessi già.
Fissai il mio letto quasi con odio, non so spiegarmi perché, poi mi ci buttai sopra, acciuffai il cuscino con un rapido scatto del braccio e me lo strinsi al petto. Ci affondai dentro il viso. Ero decisa a non cedere al pianto ed ero sicura che non l’avrei fatto. Cercai di cancellare il volto sconvolto di mia madre dalla mente, gli abbracci di mio padre e le lacrime dei miei fratelli. Cercai di dimenticare tutto... anche lui... poi inspirai profondamente per calmarmi, ma fu proprio quello il mio errore: fu il suo profumo a farmi scoppiare.
E piansi. Piansi. Piansi.

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Capitolo 2
*** un nuovo inizio ***


- Eccoci – mia madre cercò di sorridere. Vedevo quanto le costava.
Mio padre scese in tutta fretta dalla macchina, sbatté la portiera con forse troppa forza, abbastanza da fare tremare tutta l’auto.
Spalancò il bagagliaio e tirò fuori le valigie, mentre noi rimanevamo immobili, a guardarci l’un l’altro. Nessuno aveva voglia di affrontare tutto questo. Nessuno si sarebbe mai aspettato che la nostra realtà sarebbe cambiata così in fretta, di botto, e così tanto.
Insomma... che posto era quello!? Non l’avevo mai visto eppure ora sarebbe stata la mia casa. Ma per quanto? Non lo sapevo. Praticamente non sapevo nulla. Ma non mi serviva. Da quando il mondo mi era crollato addosso mi ero chiusa in me stessa, non parlavo, mangiavo appena, non guardavo negli occhi nessuno. Due tra le persone più importanti della mia vita mi avevano lasciata sola. Non era facile affrontarlo.
Vivevo ancora tra i ricordi, tra le lacrime che ormai rigavano perennemente il mio viso. E con la piccola e quasi insignificante speranza che tutto potesse aggiustarsi.
Avrei dovuto pensare che era meglio starmene da sola, isolata dal mondo, e in fondo era quello che stavo facendo, che era meglio lasciarli andare, non rimpiangere coloro che avevo perso e serbarne solo un buon ricordo, senza vivere solo di esso.
Ma era difficile, troppo. Non accettavo nulla di quello che mi era successo anche se da sempre sapevo che questi miei grandi timori si sarebbero avverati e sarebbero diventati la  mia realtà.
I miei fratelli iniziarono a scendere dalla macchina, più simile a un pullmino che a un auto, per poterci contenere tutti: prima William, il più grande, Malcolm, più piccolo di me, Veronica, la minore tra noi, Charlotte, nata poco dopo di Malcolm.
Io scesi per ultima. Appena mi trovai all’aria aperta venni invasa dal pungente odore di fattoria.
Arricciai il naso disgustata. Mi guardai attorno: recinti con mucche, maiali, galline, cavalli, cani e pecore dominavano tutto il cortile.
Sgranai gli occhi inorridita: quella sarebbe stata la mia casa. Sospirai cercando di restare calma.
La mia famiglia era abituata a tutt’altro: avevamo una casa enorme, lussuosa, dove ognuno aveva la sua stanza, il suo bagno; il giardino era sempre in ordine, l’erbetta fine e verde smeraldo non superava mai i tre centimetri d’altezza. Era il lusso e l’eleganza che caratterizzava la mia casa.
Questo era completamente un'altra realtà. Non ero ancora pronta ad affrontare un simile cambiamento.
Lanciai uno sguardo pieno d’odio ad una povera mucca intenta a ruminare un vecchio pasto.
Poi, mentre anche mia madre usciva dall’auto mi avviai verso la casa che troneggiava in prossimità del cortile. Era un edificio imponente, enorme, dall’intonaco giallo sbiadito, e si estendeva a perdita d’occhio.
Era più grande di casa mia, però era un’abitazione di campagna, rurale, e iniziai sin da subito a disprezzarla. Non aveva nemmeno la metà dell’eleganza di dove avevo vissuto dalla nascita. Questo posto già l’odiavo.
Davanti a me c’erano tantissime porte... dovevo solo scegliere in quale entrare.
Decisi di tirare diritto. Mi trovai davanti una porticina stretta, verniciata di bianco, anche se il colore cadeva a brandelli, lasciando intravedere il metallo arrugginito che stava sotto.
Abbassai la maniglia un po’ esitante. Non ero nemmeno sicura si sarebbe aperta.
Invece sì: lentamente si spalancò, scricchiolando e combattendo contro la ruggine che bloccava i cardini.
Ficcai la testa all’interno dell’edificio. Era tutto buio, non riuscivo a distinguere nulla. Non sapevo se avanzare qualche passo e arrischiarmi ad entrare, oppure attendere che qualcun altro mi precedesse.
No, ero partita in quarta senza rivolgere la parola a nessuno non potevo aspettare che gli altri mi raggiungessero... entrai.
Non avevo paura, mi sentivo solo oppressa da quelle oscure tenebre che mi circondavano. Procedevo lentamente, passo dopo passo, tastando l’aria attorno a me per assicurarmi di non andare a sbattere contro niente.
Anche i piedi sembravano massaggiare l’aria prima di posarsi al suolo. Volevo essere certa di non rompere niente, di non farmi male e non cadere.
Con la mano destra sfiorai qualcosa, all’altezza delle anche. Passai le dita sulla superficie dell’oggetto. Era morbido, pareva vellutato. Continuai ad avanzare, lasciando che la mano scivolasse rapida sulla superficie soffice. Cos’era? Un divano? Sembrava di sì.
Continuai sui miei passi, quando la mano mi cadde a penzoloni, senza più lo schienale su cui strisciare.
Decisi di togliermi le scarpe, per prendere più confidenza col terreno e percepirne qualsiasi mutamento.
Era freddo... forse di pietra. Mi fece rabbrividire. Nel mio inconscio speravo vivamente che non ci fossero scarafaggi o topi: toccarli coi piedi nudi sarebbe stato ripugnante, anche se in quel momento non pensavo a questa possibilità.
Provai a girare verso destra, proprio verso il divano. Tastai il bracciolo, e questo fu la conferma dell’entità dell’oggetto.
Proseguii di quattro o cinque passi in avanti, con un po’ di ansia, visto che le mie mani che si agitavano nell’aria fendevano solo il vuoto. Il fatto di non sentire niente sulla mia pelle mi faceva uno strano effetto... non sapere dove andavo, cosa avevo davanti, cosa dietro o di lato era un po’ inquietante.
Cercando di non pensarci avanzai ancora di un paio di metri... poi improvvisamente cacciai un urlo sbattendo contro qualcosa... Sentii la mia fronte schiantarsi contro un oggetto morbido, sbalzare all’indietro, mentre atterrita gridavo come un ossesso.
Si accese improvvisamente la luce, io ero pronta a scattare indietro verso l’uscita, quando quasi per caso puntai gli occhi su un visetto spaventato. Il mio cuore continuò a scalpitare, impazzito, ma i miei piedi rimanevano inchiodati a terra.
Era un viso dolce, quello. Apparteneva ad una ragazza giovane, la pelle color madreperla, liscia e morbida come la seta, che nella sua perfezione mi ricordava quella di un neonato. Aveva l’innocenza della gioventù scolpita in faccia. I suoi lineamenti erano così morbidi e armonici che pareva quasi una statua di marmo. I suoi occhi verdi smeraldo luccicavano, la fronte era corrucciata in un misto di spavento e perplessità. Indossava una divisa, molto particolare, costituita da un lungo abito come non ne avevo mai visti, se non in vecchi film, coperto da un grembiule di pizzo bianco, stretto in vita da un cinturino, che poi copriva l’abito per tutto il busto fino al petto, dove con altri due laccetti si assicurava dietro al collo. Il vestito era molto colorato, decorato di tinte vivaci, anche se nell’insieme la ragazze appariva piuttosto misteriosa, più che allegra come i colori che indossava.
- Buongiorno – disse con un inchino. Solo allora notai che reggeva in mano uno scopettino per la polvere: era una domestica.
Non risposi, titubante e sorpresa per quell’accoglienza. Mi resi conto che “indossavo” ancora un’espressione atterrita e stralunata, che disorientava la ragazza. Così sorrisi, sforzandomi di sembrare serena e tranquilla.
- Chi sei? – chiesi allora, visto che quella non accennava a muoversi né a parlare.
- Il mio nome è Sara. Lavoro qui come domestica, signorina – disse cantilenando come fosse un disco registrato.
Rimasi a fissarla per un attimo, e mi resi conto quanto fosse bella.
- Quanti anni hai? – domandai ancora, con il mio solito sguardo indagatore e diffidente.
- Diciassette signorina –
Aveva solo un anno in più di me.
- Perché mi chiami signorina? – domandai ancora, sempre più insistente.
- Ho l’obbligo di farlo, signorina – abbassò lo sguardo, lei, iniziò a fissarsi i piedi. Si vedeva lontano un miglio che era timida e si sentiva terribilmente a disagio.
- Beh, non lo fare più – ribattei secca, poi mi avventurai in un corridoi etto stretto e lungo, uscendo di scena. Mentre lo percorrevo, però mi sentivo ancora gli occhi della ragazza puntati addosso.
 

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Capitolo 3
*** Tutto da capo ***


Salii una rampa di scale e arrivai al secondo piano. Guardandomi attorno mi resi conto di quanto quell’edificio fosse enorme. Ai miei occhi però quello che vedevo appariva come un labirinto, e sul momento decisi di non avventurarmici dentro. Così continuai a salire altre scale, fino al terzo piano, che non appariva, però diverso da quello precedente. Tirai un sospiro e salii ancora, sempre meno convinta dell’esistenza di un ultimo piano.
Invece al quinto piano le cose sembrarono cambiare: non mi trovai più davanti il labirinto di corridoi e stanze come nei piani inferiori. Questa era una stanza unica, enorme.
Rimasi a bocca aperta e iniziai a guardarmi attorno ammaliata: il tetto spiovente cadeva obliquo da un lato, tanto che quando incontrava la parete lo spazio era troppo piccolo persino per stare in piedi; la parete esattamente opposta era tappezzata di specchi. Ce n’erano all’incirca una dozzina. Furono proprio quelli a incantarmi sopra ogni cosa.
Rimasi a fissare la mia immagine come ipnotizzata, ma guardando oltre la superficie riflettente, oltre la mia immagine riflessa, oltre i miei capelli spettinati. Iniziai a vedere gli ultimi avvenimenti della mia vita, come un film, quegli avvenimenti che mi avevano distrutta, che avevano lasciato un terribile vuoto dentro di me.
Quando in quello specchio tornai a vedere il mio riflesso e ripresi il contatto con la realtà mi resi conto che avevo passato parecchio tempo lì immobile. Quanto non seppi definirlo.
Iniziavo però a sentire le voci dei miei genitori che venivano dai piani inferiori, quelle dei miei fratelli tutti eccitati per la maestosità della casa che correvano per le stanze del terzo e del quarto piano.
La stanza era tutta vuota, per il resto. Aveva un pavimento in parquet pallido che brillava come fosse nuovo di zecca.
Solo allora però notai che lungo tutte le pareti correvano due sbarre di legno, parallele, una sull’altra, divise da mezza decina di centimetri.
Mi accorsi di avere la bocca spalancata, il cuore che batteva forte e capii: quella era una stanza da ballo. Da piccola avevo fatto danza classica, per dieci anni. A tredici avevo smesso perché mi ero resa conto di non essere abbastanza femminile per quello sport, ma avevo iniziato a coltivare la passione per l’hip hop, un ballo decisamente più aggressivo e scatenato. Era perfetto per me.
Iniziai a vedermi, in ogni angolo della sala, in tutù e calzamaglia, con lo chignon, le scarpette di tela, mentre volteggiavo percorrendo la diagonale della sala, esibendomi in eleganti piroette e salti, o eseguendo esercizi alla sbarra, dai pliet ai demi-pliet ai granbatman, o ancora al centro della sala, durante gli esercizi di riscaldamento e stretching, ricordando anche quanto eseguivo dei piquet o dei padeburet, o gli jetè...
Sentii di avere gli occhi lucidi. In fondo la danza mi mancava terribilmente. Ormai però ero cambiata e sapevo che non avrei mai indossato un tutù. Però era così triste ricordare quella passione di bambina, quello sport che aveva occupato molto del mio tempo. Era triste pensare che avevo abbandonato tutto, essermi resa conto dopo dieci anni che quello sport non faceva per me.
Tutto quello che desideravo in quel momento era avere a portata di mano un paio di scarpette, per poterle indossare un’ultima volta, per poter provare ancora quella sensazione di volteggiare sul parquet, con la tua immagine riflessa nello specchio che ti segue in tutto ciò che fai.
Avanzai qualche passo verso gli specchi, fino a quando fui così vicina che vedevo il mio fato condensarsi sulla mia immagine riflessa, in candide nuvolette biancastre opache.
Avevo lo sguardo malinconico, era la prima volta che ripensavo seriamente alla danza da quando mi ero ritirata.
Allungai un braccio sopra la testa, piegando il busto verso destra, lo sguardo che seguiva la direzione della mano, come in una posizione di stretching. Sentii il cuore prendere a battere forte. Mi sollevai sulle punte, tendendo bene le gambe. Sentivo la forza dei miei polpacci, tirai indentro la pancia e il sedere, come mi avevano da sempre insegnato di fare.
Chiusi gli occhi. Sentivo ogni parte del mio corpo allungarsi, una sensazione che non provavo da così tanto tempo... rimasi così, immobile, per minuti interminabili che parevano secoli.
Poi piegai la gamba dietro, a triangolo, puntando il piede per terra;  stesi entrambe le gambe, aprendo di lato quella destra, senza piegare il ginocchio, e chiudendo la gamba sinistra davanti alla destra, eseguendo così un padeburet.
Mi fissai allo specchio, immobile in quella posizione, come pietrificata. Ero perfetta, esattamente come quattro anni prima, come se non avessi mai smesso di danzare, come se la danza classica fosse fatta ancora per me.
- Ti manca, vero? – una voce alle mie spalle mi fece sussultare.
Mi voltai di scatto, il cuore che ancora batteva forte.
- Che cosa? – distinsi la sagoma di mio fratello sulla soglia.
- La danza – disse in tono solenne, avanzando lentamente verso di me.
Non risposi. Mi voltai lentamente verso lo specchio, continuando ad osservare il mio fratellone William tramite il suo riflesso.
Non disse nulla finché non fu dietro di me. Anche lui prese ad osservarmi dallo specchio.
- Riprovaci – sussurrò.
- A ballare? No, non posso –
- Non puoi? –
- Non posso –
Sembrò pensarci su.
- Non vuoi – disse in conclusione.
- Può darsi – mi voltai fissandolo finalmente negli occhi – non è più il mio genere –
- Prova con un altro –
Mi morsi il labbro: - Non so da dove iniziare –
- Senti Marika: non ho mai conosciuto nessuno più adatto al ballo di te – sorrisi – se è la tua passione coltivala –
Annuii, poi ritornai a fissare la mia immagine nello specchio. Sapevo che William stava facendo lo stesso.
- Approfittane ora che stiamo ricominciando da zero continuò.
Incrociai i suoi occhi riflessi.
- Non dire a nessuno di questa stanza per favore – mi resi conto di quanto la richiesta suonasse strana.
- Perché scusa? –
- Ti prego –
Si limitò ad annuire e lo adorai per questo.

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