Gli animi forti s'innalzano sopra la sorte.

di Leddy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00. Prologo ~ Primavera. ***
Capitolo 2: *** 01. Capitolo uno ~ Sorte. ***
Capitolo 3: *** 02. Capitolo due ~ Illuminarsi. ***
Capitolo 4: *** 03. Capitolo tre ~ Amici e nemici. ***
Capitolo 5: *** 04. Capitolo quattro ~ Maschera. ***



Capitolo 1
*** 00. Prologo ~ Primavera. ***












 

G  li animi forti s’innalzano
sopra la sorte
  .

 

(  Sessantatreesimi Hunger Games  )
 





00. Prologo – Primavera





Le primavere di Panem di solito erano clementi. Il sole splendente, la natura rigogliosa.
Il legno del Distretto 7 era più vigoroso, la frutta dell’11 più succosa e variegata.
Gli abitanti di Capitol City amavano tutto della primavera – dalle nuove collezioni d’abbigliamento agli eventi mondani. In quel periodo dell’anno sembravano rinascere, ciò si notava maggiormente quando cominciavano i saldi e i capelli o le parrucche delle signore si tingevano dei più svariati colori.
I trucchi per il corpo venivano venduti a centinaia, i tatuatori più esperti della Capitale accoglievano orde di clienti esigenti e pieni di aspettative.
Non c’era una sola persona con il viso rattristito o imbronciato. Era un tripudio di colori, una passerella d’alta moda in ogni viale.
E il sole, su, continuava a splendere, riscaldando gli umori e le pelli di quella gente troppo finta.
Ma, in altre terre, quella gioia non era condivisa.
La primavera, nei Distretti, annunciava l’inizio di nuovi Hunger Games. Era l’inizio delle paure, l’inizio di nuove speranze.
I più giovani pregavano di non essere sorteggiati, i più anziani pregavano per i loro figli. La popolazione era divisa in due grandi blocchi: gli eccitati, sgargianti capitolini e i comuni abitanti dei distretti.
Due mondi differenti, quasi lontani anni luce.
Separati, ma accomunati dai Giochi della Fame.
Era un ciclo: ogni anno si cominciava, si viveva, si moriva, si finiva.
La capitale gioiva, i Distretti soccombevano senza potersi sottrarre.
Un solo vincitore, una sola voce.
Poi la primavera finiva.






















Leddy’s Corner:
Ed eccoci giunti a cominciare una nuova impresa!
Allora, i tributi li hanno creati i lettori e spero di essere in grado di gestirli, perché sono veramente splendidi, uno migliore dell’altro.
Questo prologo “annuncia” la storia, perché è solo un’introduzione, ma spero che voi lo abbiate gradito lo stesso (:
Credo di riuscire a pubblicare le mietiture in questo week-end.
Le regole per le sponsorizzazioni le scriverò in seguito (ricordate che un tributo senza sponsor non durerà molto…); ci tengo inoltre a sottolineare che ogni morte sarà trattata con la giusta importanza, nessuno sarà sottovalutato e per ogni caduto scriverò una drabble/flashfic in una raccolta a parte.
Penso di aver detto tutto… Per qualsiasi dubbio, chiedete, sono qui per voi :D
A presto!



Leddy



 

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Capitolo 2
*** 01. Capitolo uno ~ Sorte. ***











G li animi forti s’innalzano
sopra la sorte
.

( Sessantatreesimi Hunger Games )






01. Capitolo uno – Sorte





Mietere il grano è un lavoro abbastanza complicato. Gli abitanti del Distretto 9, ad esempio, lo sanno bene. Quando il grano è maturo, si passano intere giornate a raccoglierlo, mentre il sole batte e rende tutto più faticoso.
I campi sono estesi, e a fine mietitura ognuno si sente più sollevato, oltre che spossato.
Tutti sono pervasi da quel senso di soddisfazione che nasce dal duro lavoro, dalla terra e dal sudore.
Ma si può mietere una persona? Si può raccogliere una cerchia ristretta di ragazzi per poi mandarli a macinare?
A Panem una mietitura è ben altro: si raccoglie ciò che non si è mai seminato, si sta comodi sul proprio divano mentre gli altri fanno il lavoro sporco.
E’ forse soddisfazione quel luccichio negli occhi dei privilegiati che brilla dinanzi al sangue versato?




Il sole batteva con insistenza e illuminava il Distretto 1 di una luce calda, anche se spettrale.
C’era una leggera nebbiolina di polvere, ma nessuno sembrava badarvi.
Tutti erano rannicchiati in piazza, ogni individuo inserito in un gruppo di persone della sua età. Sembrava quasi un’assemblea, una riunione cittadina, dove i ragazzi pendevano – anche se non letteralmente – dalle labbra di una figura posta in rilievo.
L’accompagnatrice capitolina, pertanto, era euforica e sgargiante; saltellava sul palco appositamente allestito per l’occasione come un uccellino pronto a spiccare il suo primo volo.
I discorsi e i filmati furono lunghi e noiosi, come ogni anno, e quando terminarono quasi nessuno ne prese atto.
Alcuni ragazzi scalpitavano per offrirsi volontari, altri sembravano indifferenti e altri ancora terrorizzati.
In quella folla, due tributi sarebbero stati sorteggiati a breve, pronti a combattere per la vittoria, la fama e l’onore – nella maggior parte dei casi, almeno.
Flyee, l’accompagnatrice, si avvicinò con un sorrisetto odioso alla boccia contenente i biglietti con i nomi femminili. Purtroppo per lei, però, non fece neanche in tempo a prenderne uno che notò una mano signorile e affusolata spiccare tra le ragazze quindicenni.
– Mi offro volontaria – annunciò sbrigativamente colei che aveva alzato il braccio. – Mi offro volontaria – ripeté tra sé Ibiza Velàsquez.
Alcune delle sue coetanee la guardarono sbigottite, le più grandi iniziarono a lamentarsi a gran voce. Si sentirono centinaia di “Toccava a me!” o “Era il mio ultimo anno, dannazione!” misti a urletti striduli e di disappunto.
Ma per Ibiza tutti i suoni si erano attutiti. Risultavano quasi ovattati.
E’ per Jade, si diceva la ragazza dai lungi e morbidi capelli castani, mentre s’incamminava verso il palco. Solo per Jade.
– Come ti chiami, cara? – domandò Flyee con un accento assolutamente fastidioso, battendo le mani.
– Ibiza Velàsquez – rispose lei con voce lieve. Prima che la capitolina potesse replicare, un urlo si levò dal lato femminile. – No!
Una ragazza molto simile d’aspetto a Ibiza si fece largo tra la folla a bracciate e persino i Pacificatori non poterono fare nulla per fermare quell’uragano di ragazzina.
Una sua coetanea dall’aspetto algido e serio tentò di bloccarla, ma fu tutto inutile. La sconosciuta le diede un pugno sul naso, levandosela di dosso.
Quando quella ragazza raggiunse i primi gradini, Ibiza si riscosse, ma l’altra quasi la investì, iniziando a scuoterla per le spalle. – Sei impazzita?! – urlò quella. – Ho cercato di proteggerti, stupida, stupida!
Gli occhi di entrambe si inumidirono percettibilmente, mentre la gente radunata assisteva senza proferire parola.
– Jade – sussurò piano Ibiza, con un sorriso mesto e forzato. – Ascoltami… sono io a voler proteggere te.
– Ti stai suicidando – strillò nuovamente la seconda, mentre lacrime di rabbia rigavano il suo volto giovane.
– Quanta tenerezza! – le interruppe Flyee. – Due sorelle separate dal fato crudele!
In teoria Ibiza e Jade non erano sorelle, bensì cugine, ma era come se lo fossero. Così unite da formare un intero. Indivisibili.
Mentre l’accompagnatrice blaterava frasi senza apparente senso alcuno, nessuno notò le forbici in mano a Ibiza.
Luccicarono per un attimo al sole, quando con un gesto netto ella si tagliò i capelli.
Le ciocche morbide e setose caddero piano, quasi con esasperazione, mentre Jade stringeva la mano alla sua sorellina. Quello era un gesto di ribellione, un gesto premeditato e anticonformista. Qualcuno trattenne il fiato, Jade fu fatta scendere dal palco, mentre in diretta tv tutti cominciarono a guardare il nuovo tributo con occhi diversi.

Dopo tutto quel trambusto, sorteggiare il tributo maschile fu più semplice.
Per la seconda volta, neanche i biglietti dell’altra boccia vennero toccati.
Un altro volontario.
Ma questa volta colui che si era offerto aveva l’aspetto del classico favorito senza scrupoli.
Alto, massiccio, affascinante.
Il ragazzo, appartenente alla fila dei diciottenni, salì piano i gradini, sotto lo sguardo ammirato di Flyee. – Puoi dirci il tuo nome, caro? – trillò quella, quindi.
– Yaacov Sherday – rispose lui con voce atona. Sembrava impassibile.
– Come mai ti sei offerto volontario? – domandò allora Flyee, curiosa.
Yaacov scrollò le spalle e le mostrò una piccola moneta di bronzo. – Testa – disse semplicemente. – E’ uscito testa.
– Quindi se fosse uscito croce non ti saresti offerto?
Il ragazzo la guardò per un secondo, forse valutando il suo quoziente intellettivo. – No, infatti – replicò, lo sguardo fisso dinanzi a sé.
A Flyee fece quasi paura, tant’è vero che lasciò perdere qualsiasi altra domanda gli fosse venuta in mente.
La donna dai capelli rosa si avvicinò per l’ultima volta al microfono con un gran sorriso.
Ibiza, con gli occhi ancora lucidi, aveva indirizzato lo sguardo alle sue amiche e involontariamente si passò una mano tra i capelli ora corti sino alle spalle; Yaacov, quasi con la determinazione di una macchina, rimase fermo ed enigmatico.
– Signore e signori, ecco a voi i tributi del Distretto 1!
La folla e gli spettatori televisivi applaudirono calorosamente.

*


Se possibile, nel Distretto 2 aleggiava un clima ancora più teso.
Quello era il distretto favorito in assoluto, quello più ricco e più vicino alla capitale.
Essere tributo ai sessantatreesimi Hunger Games avrebbe significato fama e ricchezza, fattori a cui i ragazzi ivi risiedenti ambivano sin dalla culla.
Persino gli accompagnatori, in genere odiosi e frivoli in tutti gli altri distretti, apparivano più seri e curati.
La capitolina di quell’anno era Halle, una donna tutto d’un pezzo trapunta di blu notte.
Aveva una voce calda e profonda, qualità che in parte tranquillizzavano quel piccolo spicchio di ragazzini ancora impauriti.
Ella prestò particolare attenzione al filmato sui Giorni Bui e mentre risuonava l’inno di Panem, si portò la mano all’altezza del cuore. Alcuni imitarono quel gesto.
Quando fu il momento di sorteggiare il tributo femminile, una figura minuta e dai capelli rossicci si fece avanti senza nemmeno alzare la mano.
Anche se già sul palco, solo allora disse con un sorriso di pura soddisfazione: – Mi offro.
Halle la guardò allibita per un istante, poi le diede il benvenuto. – Qual è il tuo nome?
– Hydra –
rispose lei, incrociando le braccia. – Hydra Devine.
Quella ragazza aveva una faccia incredibilmente furba e maliziosa; già dal tono della sua voce si capiva che doveva essere un’avversaria temibile quanto scaltra.
– E cosa ti ha spinto a voler essere un tributo dei sessantatreesimi Hunger Games? – chiese quindi Halle con sguardo indagatore, ma dal quale traspariva una punta di sincera curiosità.
– Sono forte – rispose semplicemente la ragazza. – E lo dimostrerò a tutti.
Il suo ghigno era leggermente inquietante, ma gli spettatori di Capitol City sembrarono gradirlo.
– Buon per te, mia cara – disse infine l’accompagnatrice. – Ora è giunto il momento di sorteggiare il nostro giovane uomo – e qui ammiccò verso i ragazzi disposti in file.
Halle non ebbe neanche il tempo di avvicinarsi alla grande boccia di vetro, che ben tre mani si alzarono all’unisono. Due dalla fila dei diciottenni, una da quella dei diciassettenni.
Per un momento tutto si congelò. Chi scegliere, ora?
La capitolina squadrò i tre volontari uno ad uno, poi il suo sguardo si posò sul minore. Era bello, incredibilmente bello. Viso attraente, fisico invidiabile.
Halle aveva fatto la sua decisione, dettata – più o meno – dall’istinto.
– Credo che il ragazzo lì davanti abbia alzato la mano per primo – annunciò convinta, mentre gli altri due risultarono decisamente contrariati.
Il prescelto si avviò sul palco, fissato con intensità sia dalla folla che da Hydra, la sua avversaria. Sembrava tranquillo, con le mani in tasca e gli angoli delle labbra leggermente incurvati verso l’altro, incapaci di nascondere completamente la sua soddisfazione.
I due volontari sembravano volersi aprire un varco tra la folla per protestare, ma furono fermati dai Pacificatori e si limitarono a borbottare parole incomprensibili.
– Allora, come ti chiami? – lo incitò Halle.
– Nathaniel Darko – ribatté lui calmo. – E prima che tu me lo possa chiedere, Halle, mi sono offerto perché so di poter vincere.
La donna non ebbe più niente da dire, se non con un grande sorriso: – Eccovi, signori e signore, i fortissimi tributi del Distretto 2!

*


Nel Distretto 3, a differenza dei primi, l’atmosfera era tra le più tetre.
I visi dei giovani possibili tributi erano tirati e spenti, anche se nei loro occhi regnava il fuoco della speranza. Alcuni di loro tenevano per tutta la durata della mietitura le dita incrociate, sino a renderle insensibili.
Indossavano tutti abiti smorti e senza colore, anche gli adulti che non erano intimamente interessati all’evento. I vincitori del Distretto 3 non erano stati molti, sei in sessantadue edizioni, e ogni anno era dura veder perdere ben due cittadini del proprio distretto e non vederli più tornare. Vedere le loro famiglie distrutte, essere costretti a guardare i loro volti straziati era angosciante persino per chi non aveva parenti o amici in gara.
L’ipocrisia dell’accompagnatrice di Capitol City, inoltre, era particolarmente snervante.
Mishenne era stridula, falsa, insopportabile.
Ogni anno chiunque si innervosiva solo a sentire i suoi preamboli senza senso e i suoi discorsi inutili.
Anche quella volta, la capitolina diede il meglio di sé. I suoi risolini isterici aleggiavano per tutto il distretto, non ricambiati dai suoi abitanti. Anche il sindaco restava impassibile dinanzi alla frivolezza di quella donna multicolore.
– Chi saranno i fortunati di quest’anno? – domandò al pubblico con un sorriso smagliante.
Quando si avvicinò ai biglietti delle ragazze, l’ala femminile della folla cominciò a tremare.
Mishenne ci mise volontariamente molto tempo a decidere la strisciolina di carta da prendere, per rendere l’atmosfera carica di tensione.
La cosa più odiosa era che ci provava gusto nel farlo.
All’improvviso, poi, ne afferrò una di scatto e se la rigirò un secondo tra le mani guantate. La aprì con desiderio, alla fine.
– Coral Flynchbell – disse, aspettando la nominata sul palco.
Una ragazzina – bambina – minuta e con le guance scavate si fece avanti a piccoli passi. Era evidente che tremava da capo a piedi, terrorizzata.
Coral buttò diversi sguardi verso i ragazzi quindicenni, cercando il sostegno di suo fratello Deak, impossibilitato a offrirsi al suo posto, essendo un maschio.
Poi accadde. Una voce decisa e giovanile vibrò tra la folla, precisamente tra le ragazze diciassettenni. – Mi offro volontaria come tributo!
Allora in molti si paralizzarono, riconoscendo in quella ragazza la giovane aiutante dell’orfanotrofio.
Coral e Deak erano orfani, proprio come lei, ed era chiaro che quest’ultima stava cercando di proteggerli.
La ragazza si fece avanti apparentemente senza timore, ma dentro di sé aveva paura. Corse da Coral e l’abbracciò, sussurrandole qualche parola di conforto. – Andrà tutto bene. Tu va’ da Deak e dagli altri. Io tornerò.
– Come ti chiami, tesoro? –
le chiese allora Mishenne, prendendola per mano per farle salire gli ultimi gradini.
– Lyla Miltak – rispose lei, sciogliendo la stretta di quella donna tanto viscida.
La capitolina non demorse, cercando di conquistarsi la simpatia di Lyla. – Coral è tua sorella?
– No. E’ una mia amica –
mentì sbrigativamente. Non poteva far sapere a tutta Panem dell’orfanotrofio. – E ho voluto proteggerla – aggiunse con sincerità.
– Che gesto coraggioso! – esclamò Mishenne, colpita e con gli occhi falsamente commossi. – Buona fortuna, quindi, Lyla Mirtuck.
– E’ Miltak –
la corresse Lyla, seccata.
L’accompagnatrice la ignorò, dedicandosi stavolta al futuro tributo maschile.
Purtroppo per lei, quella volta la tensione fu risparmiata, in quanto una mano era svettata tra la folla.
– Non ci credo! – urlò Mishenne, battendo le mani come una bambina davanti a un giocattolo. – Un altro volontario dal Distretto 3! Vieni, caro, vieni.
Il ragazzo, un tipo che sembrava allenato proprio per gli Hunger Games, la guardò con sufficienza e salì sul palco allestito.
– Allora, qual è il tuo nome?
Solo un attimo di esitazione. – Jesse. Jesse Chletter.
Mishenne lo fissò un attimo incredula, poi si batté una mano sulla fronte. – Giusto! Ricordo un Chletter… è stato estratto due anni fa, vero?
Jesse irrigidì la mascella e annuì senza espressione.
– Doveva essere tuo fratello. Povero caro, era arrivato tra gli ultimi quattro…
Un certo Ray o May o… Clay. Sì, era Clay.
Il ragazzo non rispose, piuttosto le lanciò uno sguardo accigliato.
– Ti sei offerto per lui? – continuò a chiedere Mishenne, incurante del disagio di Jesse.
– Sì – sbottò infine lui, senza aggiungere altro. Tornò a guardare fisso davanti a sé, un punto indecifrato sull’orizzonte.
Lyla lo guardò per un istante, poi si concentrò sui ragazzi dell’orfanotrofio ai piedi del palco, con i visi tristi. Fece loro un occhiolino, per tirarli su di morale, anche se la cosa era paradossale.
Mentre Mishenne continuava a sproloquiare, gli abitanti del distretto compresero che per una volta, quell’anno, avrebbero avuto dei tributi validi e determinati, pronti e vogliosi di tornare a casa. Lo capirono dai loro sguardi, dalle loro motivazioni.
Alcuni persino andarono a dormire sereni.

*


Nel Distretto 4, come ogni giorno, l’aria odorava di salsedine. Ma quello non era un giorno qualsiasi, bensì era il momento della mietitura.
La presenza del mare, per alcune persone, era motivo di conforto. Con il mare si sentivano a casa.
Prima della mietitura vera e propria, diversi ragazzi avevano passato il tempo sulle spiagge, con la testa altrove, tra le nuvole. Quello era uno dei distretti favoriti, certo, ma l’atmosfera che vi aleggiava era ben diversa da quella dell’1 e del 2.
I possibili tributi avevano più paura, anche se avevano deciso di offrirsi, perché sapevano che gli Hunger Games erano giochi sadici e senza scrupoli. La maggior parte non li vedeva come ragione di fama e ricchezza, ma come motivo di riscatto.
C’erano anche delle eccezioni, ovviamente.
Neanche lì, infatti, mancavano coloro che si erano allenati appositamente e per tutta la loro giovinezza per poi offrirsi come tributi.
La piazza cittadina, ad ogni modo, era traboccante di volti tesi e abbronzati. Ma proprio tra quei volti si nascondevano i prescelti di quella sessantatreesima edizione.
L’accompagnatrice, arrivata proprio poche ore prima direttamente da Capitol City, era una donna più anziana delle altre. Certo, il suo viso appariva sempre giovane e privo di rughe, ma c’era qualcosa nella sua figura che poteva essere definito saggio, e non stolto come spesso si diceva dei capitolini.
Si chiamava Pan ed era apprezzata da molti, poiché aveva mantenuto sempre un certo contegno durante la sua carriera di accompagnatrice.
Era vestita di un azzurro puro, che ricordava sia le acque sia il cielo del distretto a cui era più affezionata.
– Benvenuti a tutti, giovani aspiranti tributi. Possa la sorte essere sempre a vostro favore – disse con sincerità, quasi come una madre. Sui giornali spesso la si diffamava, oppure si raccontava che dava preziosissimi consigli ai suoi tributi – tant’è vero che negli ultimi anni c’era stato un picco di vincitori provenienti dal 4.
I convenevoli non durarono a lungo e Pan lanciò un ultimo sguardo di conforto verso la folla di ragazzi, prima di raggiungere la boccia contenente i nomi femminili.
Proprio quando non sembravano esserci volontari, una mano piccola e candida si alzò tra la fila delle ragazze diciassettenni.
La gente fece largo a una ragazza dal fisico smilzo. Era albina, così bianca da sembrare un fiocco di neve in mezzo alla pece. Non era neanche vestita di tutto punto per l’occasione: indossava dei jeans larghi e una felpa con il cappuccio.
Come spesso accadeva, molti la guardarono curiosi, altri con disprezzo, come se fosse una creatura aliena e nociva.
Ma lei non vi badò e salì sul palco, indossando la sua maschera.
– Come ti chiami? – le chiese Pan, mettendole una mano sulla spalla.
– Samantha Blanchette – la voce di lei era tranquilla, quasi spensierata, anche se quella era solo l’apparenza.
– Sai quali rischi stai correndo? – domandò l’accompagnatrice. Invece di chiederle perché si era offerta aveva preferito avvertirla, anche se comunque non poteva tornare più indietro.
Samantha inarcò le sopracciglia, come se fosse una cosa ovvia. – Certo, ma ho deciso di rischiare.
Si levò qualche applauso di incoraggiamento.
La ragazza guardava le file maschili e incrociò lo sguardo di suoi fratello gemello, Davon.
Scusami, gli disse, anche se solo con il pensiero. Lo faccio per Greta, per te, per me.
Poi spostò gli occhi su di Vane, il bel ragazzo dai capelli rossi. Non riuscì a reggere il suo sguardo e preferì concentrarsi sul tributo che stava per essere sorteggiato.
Pan prese dai bigliettini il primo che le capitò tra le mani, ed ebbe quasi paura di leggerlo. Poteva essere un dodicenne come l’anno prima, o un ragazzo con la veste del favorito cucita addosso.
Non restava che leggere quel semplice nome.
– Sennar Heeter.
In un primo momento ci fu il silenzio assoluto. Poi un ragazzo dalle spalle large e i ricci castani si avvicinò piano, mentre tra la folla riecheggiava l’urlo disperato di una ragazzina.
Sennar non proferì parola neanche sul palco, posando lo sguardo su Elle, la sua piccola sorellina.
Sarebbe sopravvissuta senza di lui?
Il ragazzo non ci volle pensare. Era accaduto l’impensabile. Era stato estratto proprio il suo ultimo anno.
Doveva vincere, per tornare da Elle, o sarebbe rimasta sola. Doveva vincere.
Pan lo osservò dispiaciuta, poi disse con sincera preoccupazione: – Buona fortuna, tributi del Distretto 4.
Samantha ghignò, Sennar cercò semplicemente di non dare tutto per spacciato.

*


Il cielo del Distretto 5 era nuvoloso. Quella zona era spesso soggetta al maltempo, ma gli abitanti vi erano abituati. Anzi, riuscivano persino a mandare avanti le centrali elettriche con i temporali. Non a caso, soltanto loro sapevano farlo.
Nella piazza cittadina, quel giorno le nuvole furono accolte con piacere. A volte i più giovani speravano addirittura che qualche tempesta impedisse alla mietitura di prendere luogo. Impossibile, comunque. L’accompagnatrice sarebbe venuta a prendere i tributi anche sotto la pioggia.
Era appena il terzo anno di Shanya, una tra le più giovani capitoline che prediligeva un abbigliamento verde prato, e in realtà era ancora molto inesperta. Tanto abituata a camminare sui tacchi, inciampava spesso sul suolo malamente asfaltato del distretto.
Eppure non era una che si faceva odiare; era semplicemente un po’ imbranata.
Quell’anno, dopo l’esperienza dei due precedenti, aveva portato con sé un ombrellino verde come la sua gonna. Lo teneva persino già aperto, per paura che i suoi preziosi abiti si bagnassero.
I discorsi durarono poco, per sfortuna o fortuna, e, poiché Shanya non vedeva l’ora di tornare a Capitol City, pescò immediatamente il biglietto contenente il nome della ragazza estratta.
– Skye Rothenberg – lesse con il profondo e strascicato accento della capitale.
Centinaia di ragazze sospirarono di sollievo, tranne una.
Skye non lo diede a vedere, ma una morsa le aveva stretto lo stomaco. Con aria di superiorità si avviò verso il palco, mandando sguardi a destra e a manca. Non doveva mostrarsi debole, doveva iniziare ad attirare sponsor già da quel momento. Era bella, bellissima, non sarebbe stato difficile.
Una volta accanto a Shanya, mostrò più sicurezza del dovuto, provando anche a sorridere.
Posso farcela, si disse con ottimismo, visto che non c’erano volontarie. E poi se avesse vinto avrebbe potuto aiutare il suo fratellino a guarire. Devo farcela… per Tyler.
Ammiccò verso le telecamere presenti ai lati della piazza, poi si avvicinò all’asta del microfono. – Aspettatevi una vincitrice dal Distretto 5, quest’anno – affermò decisa e Shanya balbettò giusto qualcosa per farla spostare.
Questa pescò sbrigativamente un altro foglietto dai nomi maschili, poiché stava cominciando a piovere. Una goccia cadde proprio sul nome prescelto, sbavando leggermente la maiuscola.
– Julian More? E’ giusto?
L’interpellato, proveniente dalla fila dei diciassettenni, sorrise amaramente e camminò a grandi falcate. La pioggia già stava bagnando il suo viso.
– Ci sono volontari? – chiese Shanya, anche se sapeva già la risposta. Erano rarissimi in quel distretto. In fondo non c’erano tanti ragazzi già pronti e allenati per gli Hunger Games.
I due tributi si guardarono per un attimo, consci che magari si sarebbero scannati a breve. Entrambi stavano mantenendo il sangue freddo, in quel momento. Ne andava della loro reputazione ma, soprattutto, delle loro vite, ora appese disperatamente ad un filo.
Proprio in quel momento erano diventate delle semplici marionette, gestite da un burattinaio sadico quanto senza scrupoli.
Julian fece l’occhiolino a sua sorella Lucy, ancora troppo piccola per essere nominata, in un gesto di incoraggiamento. Ce l’avrebbe messa tutta, o l’avrebbe lasciata nelle mani di quell’essere crudele che era suo padre.
Skye fece un respiro profondo e si sforzò di sorridere ancora.
– Ecco i tributi del Distretto 5! – esclamò Shanya con un pizzico di entusiasmo, prima che un fulmine si schiantasse a pochi metri da loro, facendola sobbalzare.

*


Anche nel Distretto 6 le nuvole erano in grande quantità, ma ciò non sembrava influire in alcun modo sul comportamento o sull’umore degli abitanti.
Alcuni dicevano che i cittadini ivi risiedenti fossero per la maggior parte schivi e poco amichevoli, ma erano solo calunnie di poco conto. Per quanto le riguardava, infatti, la gente del 6 si riteneva moderna e disponibile con tutti, specialmente con gli abitanti di Capitol City, con i quali aveva spesso a che fare, essendo il distretto dei trasporti.
Lì fabbricavano i mezzi di tutta Panem e si mettevano ogni giorno in contatto con la capitale per trasportare tutti i prodotti degli altri distretti, i quali spesso non avevano vie di comunicazione avanzate come le loro.
Proprio lì venivano progettati e costruiti la maggior parte dei treni che avrebbero trasportato i nuovi tributi durante il loro viaggio verso Capitol City, ricchi di elementi lussuosi e componenti all’avanguardia.
In passato il Distretto 6 era uno dei favoriti, ma la spontanietà dei suoi abitanti fece sì che non avesse più questo titolo discriminatorio da un lato quanto prestigioso dall’altro.
La capitolina affidata alla sessantatreesima edizione si chiamava Gryhll e per quel suo primo incarico aveva scelto un completo d’oro pieno di – inutili – abbaglianti lustrini.
Aveva persino un piccolo chiuahua con sé, uno di quei tipici animali da compagnia che potevano permettersi solo le persone benestanti, essendo in via d’estinzione.
Una volta salita sul palchetto allestito e una volta mostrato il noioso filmato sui Giorni Bui, Gryhll si strofinò le mani, ansiosa di scoprire i prossimi concorrenti del Distretto 6.
– Vediamo un po’, vediamo un po’… – continuava a ripetere, mentre una delle sue mani guantate s’insinuava tra i bigliettini con i nomi femminili. Ne prese ben tre e, prima di scegliere quello ufficiale, cantò una vecchia canzoncina per poi prediligere quello in mezzo, il più stropicciato.
– Vediamo… ah! Bleika Vidal! – annunciò con voce squillante. – Bleika? Ci sei?
La folla di ragazzi, ma anche quella di spettatori, tremò e perse un battito.
Non Bleika. Non poteva essere lei…
Una ragazza magra e di statura non particolarmente elevata ci fece largo tra la gente, sino a raggiungere i primi gradini, cercando – e fallendo – di ostentare sicurezza.
Oh no. Erano queste le uniche parole che aveva in mente. Il suo timore, il suo incubo più grande si stava appena avverando. Si fece forza, cercando di non posare lo sguardo sui suoi amici e i suoi parenti. Non avrebbe sopportato di vedere la sofferenza nei loro occhi.
– Allora, Bleika, cosa mi dici? – chiese Gryhll, mettendole una mano sulla spalla. – Sconvolta, eh?
I presenti quasi avrebbero desiderato menarla, ma non era decisamente il caso.
– Io… – tentò di dire Bleika, scoprendosi con la voce bassa e roca. Inevitabilmente si ritrovò a guardare la sua famiglia. Jilium, suo fratello, la fissava con un’espressione colma di disperazione, pallido e straziato. – Io… cercherò di vincere.
– Fantastico! –
strillò Gryhll, provocando persino un’interferenza nel microfono. – Adesso veniamo al nostro lui! – continuò ammiccando verso i ragazzi.
La tensione salì a dismisura e quando l’accompagnatrice prese quella strisciolina di carta vergata in bella grafia, ogni persona trattenne il respiro. Nel Distretto 6 erano così, tutti si conoscevano bene e tenevano agli altri.
– Ecco, ci siamo – fece Gryhll. – … Adam Lawrence?
La prima cosa che si sentì furono le urla lontane di due bambine, sorelle del tributo appena eletto. Poi il silenzio.
Adam si fece avanti piano, con un’espressione mesta e rassegnata. Era il suo ultimo anno, avrebbe dovuto farcela. Invece la sorte gli aveva riservato un altro percorso, più impervio e complicato.
– Vieni qui, caro – lo incitò la capitolina, mentre ammirava i tratti del ragazzo. Indiscutibilmente bello, aveva un portamento elegante e fiero, anche se il suo viso angosciato in quel momento sembrava tradirlo.
Adam si accostò a Bleika, osservandola solo per un momento. Molto probabilmente, considerando che non c’erano volontari, avrebbe dovuto ucciderla a breve, questo era un dato di fatto.
– Vuoi dire qualcosa ai tuoi concittadini?
Il ragazzo esitò solo un istante. – Anch’io cercherò di tornare a casa. Lo farò, lo prometto.
Qualcuno cominciò a piangere i tributi del Distretto 6, non perché spacciati – affatto – ma perché solo uno di loro due sarebbe tornato sano e salvo.
Qualcuno, pur miscredente, pregò a lungo per loro.

*


Il Distretto 7 era caratterizzato spesso da tributi scorbutici o suscettibili – basti pensare che molti di loro morivano alla Cornucopia.
Questo derivava dal fatto che la zona in cui abitavano non aiutava affatto, come d’altronde il lavoro che essi svolgevano, in silenzio e senza fare più di due intime chiacchiere.
Quel luogo si trovava a nord degli antichi Stati Uniti, quasi al confine con il vecchio Canada ed era caratterizzato da fitti boschi e un clima tutt’altro che mite.
Le estati erano terribilmente calde, quanto gli inverni atrocemente freddi. Ma gli abitanti, ad ogni modo, vi erano abituati.
C’era una profonda differenza tra questi e i cittadini del Distretto 6, che geograficamente si trovavano più a sud. Erano i due esatti opposti.
Se i secondi erano aperti e moderni, i primi erano schietti, senza peli sulla lingua e molto legati alle proprie tradizioni. La maggior parte della popolazione riteneva gli Hunger Games dei giochi ignobili e senza scopo; per questo motivo erano pressocché assenti i classici ragazzi allenati appositamente per l’arena.
Il giorno della mietitura era sempre un giorno mesto per tutti. Al pari dei distretti meno favoriti, aveva avuto soltanto sette vincitori in sessantadue edizioni – tra cui solo tre ancora in vita.
Quel mattino c’era qualche nube ad oscurare l’orizzonte, ma nulla di più. In compenso, tirava un forte vento.
Jessie, l’accompagnatrice, mentre saliva sul palco, aveva intonato una vecchia canzone che le cantava sua nonna per scacciare la noia. Quei ragazzi erano tutti così monotoni!
Come ogni anno aveva indossato un completo nero che, secondo i suoi stilisti, la snelliva percettibilmente. A differenza delle sue colleghe, Jessie non era esattamente colei che si potesse definire piccola e minuta. Non si sa come, ad ogni modo, riusciva a camminare sui suoi tacchi da cento e più, pur mantenendosi in un equilibrio precario.
Osservò con sguardo critico tutti i possibili tributi, poi con noncuranza cominciò i discorsi che precedevano l’estrazione. Era una capitolina particolarmente menefreghista, Jessie, una di quelle che guardava gli Hunger Games per il suo reale scopo: punire i discendenti di coloro che si erano rivoltati alla capitale.
Non le dispiaceva poi così tanto vedere venitrè giovani mandati al macello, anzi, si divertiva e la trovava una cosa giusta e addirittura dignitosa.
Quando anche il filmato sui Giorni Bui terminò, si diresse con un sorriso a dir poco agghiacciante verso la boccia con i nomi femminili, in cui infilò una mano.
Dopo soltanto pochi secondi ne tirò fuori un bigliettino vergato in bella grafia. Lo lesse quasi con emozione. – Luna Woodey.
Sembrerebbe crudele dirlo, ma coloro che odiavano quella ragazzina ghignarono senza scrupoli. Luna era un po’ diversa dagli altri abitanti del suo distretto. Era ciò che si definiva l’eccezione che conferma la regola.
Luna salì sul palco tremando da capo a piedi, mentre qualche ragazza pettegola commentava negativamente il suo scialle azzurro e la sua sciarpa variopinta alzata fin sopra la bocca.
Alla domanda – Volontari? – il silenzio fu totale e solo allora Luna si rese conto di essere diventata un tributo. La sua vita era appesa a un filo da quel momento.
Si portò la mano all’orecchio sinistro, ricordandosi di avere ancora la matita dietro di esso. Poi si guardò le scarpe regalatele da sua nonna. Erano nere, ruvide come la corteccia di un albero, bellissime. Sarebbero state il suo portafortuna, senza di esse non poteva farcela.
L’ansia iniziò a salire, tanto che cominciò a battere ritmicamente un piede sul legno del palco. Guardò Charlie, il suo migliore amico, e notò con profondo dispiacere che aveva un viso completamente rattristito e deluso.
Decise che avrebbe provato a vincere. Per tornare da lui.
Sarebbe stata la prima vincitrice quattordicenne dal Distretto 7 e allora non l’avrebbero più ripudiata.
Si sforzò di sorridere, ma il suo tremulo labbro inferiore non nascondeva affatto il suo nervosismo.
Intanto, Jessie non le aveva neanche rivolto la parola, preferendo avvicinarsi ai biglietti maschili.
– Dunque… Josh Gilmour.
La voce dell’accompagnatrice risuonò per la piazza. Il ragazzo estratto si avvicinò lentamente ai primi gradini, passandosi una mano tra i riccissimi capelli scuri per dissimulare il nervosismo. Doveva apparire calmo, doveva estraniarsi da tutto e tutti.
La sua vita stava in quegli istanti prendendo una piega che mai avrebbe voluto conoscere.
Sentì i suoi fratelli piangere – non erano ancora pronti loro, a veder partire il fratellone – e cercò di concentrarsi su altro, o sarebbe crollato.
Lui li aveva sempre punzecchiati, ma forse neanche loro stessi sapevano quanto bene gli volesse.
Auguratemi buona fortuna, disse con un sorriso mesto, affiancandosi a Luna, che ancora non aveva smesso di tremare.
A differenza della ragazza, Jessie gli dedicò una maggiore attenzione. Per qualche assurdo motivo aveva sempre preferito i tributi di sesso maschile.
– Allora, Josh, come affronterai questi Hunger Games? – chiese con un’espressione obliqua.
Per un attimo Josh rimase interdetto, poi rispose con la sua solita voce bassa, calda, baritonale, che era in grado di tranquillizzare chiunque. – Farò del mio meglio per vincere.
Fu schietto, schivo, non lasciò troppi dettagli. Il tipo che sarebbe potuto interessare agli sponsor.
Jessie appoggiò una mano sulla sua spalla, Josh tentò in tutti i modi possibili di mantenere il controllo per non buttarla giù dal palco.
– Signore e signori, ecco a voi i tributi del Distretto 7! – e qui quasi inciampò sui suoi trampoli.
Gli spettatori televisivi applaudirono con calore, sempre più incuriositi dai concorrenti di quell’edizione.

*


Il mattino di quella mietitura fu annunciato da un forte vento dell’entroterra.
La folla si munì di sciarpe e cappelli per proteggersi, ma il freddo era presente nell’animo di chiunque. La pelle era riscaldata, lo spirito no.
Tutti in quel momento avevano cominciato a tremare e sperare contemporaneamente, facendosi forza.
Era dura. Il tempo non sembrava neanche scorrere.
Tutto era fermo nella piazza cittadina, mentre Ilyan, l’accompagnatrice color argento, parlava senza pause. Era conosciuta come una delle capitoline più logorroiche, e gli abitanti del Distretto 8 dovevano subire ogni anno questo difetto caratteriale.
Due tra quella marea di ragazzi infreddoliti e impauriti sarebbero stati sorteggiati a breve e non sarebbero più potuti tornare indietro. Sembrava una realtà lontana, ma in edizione in edizione quella gente era costretta a vedersi portare via due brave persone, magari anche con un passato difficile alle spalle. Solo quattro erano stati i vincitori, di cui l’ultima l’affascinante Cecelia. Ad ogni modo era difficile trovare tributi valenti e preparati come lei, ma la speranza era l’ultima a morire. Così la pensavano tutti. Era il loro unico appiglio.
– Un attimo di attenzione, ora! – disse Ilyan battendo un dito sul microfono. – E’ arrivato il momento di sorteggiare la nostra giovane donna! – la sua voce si alzò di diverse ottave sulle ultime due parole. – Prima le signore, come sempre…
La sua mano fasciata da un guanto pieno di brillantini si immerse tra i biglietti femminili e prese con grazia uno di quelli che stavano sul fondo.
La capitolina si schiarì la voce. – Makaira Win. Makaira? Che nome strano, non l’ho mai sentito!
In quegli istanti Makaira non riuscì a fare di meglio: sorridere, ridere quasi. Era giunto il suo momento. Avrebbe preferito aspettare un altro paio di anni, ma andava bene così. Doveva vendicare sua sorella Camilla, la favorita nata nel distretto sbagliato.
Si scostò dalla fila delle quattordicenni e raggiunse il palco, mentre il vento scompigliava la sua cascata di capelli neri come l’ebano.
– Aspetta, ma abbiamo già avuto una Win, due anni fa! – esclamò Ilyan, ricordandosi di Camilla. – Me la ricordo bene… una dei favoriti morta a causa di un terremoto con il suo gruppo. Era forte.
Makaira non rispose. Camilla poteva vincere.
– Che sorte crudele per la tua famiglia, Mak. Posso chiamarti Mak?
– No –
disse lei, gelida. – Solo lei mi chiamava così. E poi non c’è niente di crudele in tutto ciò. Sono stata estratta per vincere, non per perdere. La sorte sarà dalla mia parte.
Sorrise, di nuovo, mentre la folla la guardava con inquietudine. Le avevano sempre disprezzate, forse perché erano troppo diverse da quella massa di nullafacenti.
Ma lei era Makaira, la ragazza dei coltelli. Non poteva fallire.
– Fantastico! – strillò Ilyan. – Ora però veniamo al nostro giovane cavaliere!
La sua mano stavolta si tuffò tra la boccia dei nomi maschili. Giocò un po’ con i biglietti in superficie, poi ne prese uno sul bordo.
Lo scartò con immensa curiosità. – Everett Hughes.
Everett, nelle ultime file, inspirò lentamente. Se lo aspettava, dopotutto aveva trentacinque nomine.
S’incamminò con malcelato nervosismo, ma non era poi così terrorizzato. Suo padre, uno dei vincitori, gli aveva insegnato qualcosa.
Nonostante nessuno potesse sentire quel suono soave, il campanellino di sua madre tintinnò nelle sue tasche. Sarebbe stato il suo portafortuna, uno dei pochi oggetti rimasti dopo la sua morte prematura.
– Allora, caro Everett, ti senti pronto? – Ilyan non riusciva a frenare la sua parlantina.
Gli occhi color smeraldo del ragazzo ebbero un guizzo, poi rispose con sincerità. – Abbastanza.
Era così lui: onesto, senza fronzoli. Neanche tanto loquace come la sua accompagnatrice.
– Sono felice per te! – trillò Ilyan con un sorriso a trentaquattro denti, mettendogli una mano sulla spalla. – Ed ecco a voi, quindi, i tributi del Distretto 8!
La folla applaudì.

*


Il Distretto 9 era situato più a est rispetto agli altri. Era uno dei più vasti, insieme all’11. Lì i campi di grano erano sconfinati e da un hovercraft li si poteva osservare a perdita d’occhio.
Erano di una bellezza genuina, come i loro coltivatori, dorati e luminosi.
Gli abitanti erano di una spontanietà unica e calzante. Si conoscevano tutti, nessuno si sentiva mai solo.
Questo aiutava soprattutto nelle mietiture, quando per ogni tributo estratto si levavano fitti applausi e grida di incitamento quanto di incoraggiamento.
Purtroppo, essendo uno dei distretti più poveri, raramente quegli stessi ragazzi che venivano incoraggiati tornavano a casa. La maggior parte moriva alla Cornucopia, gli altri arrivavano a stento tra gli ultimi dieci.
Il totale di vincitori ammontava semplicemente a tre. Era scoraggiante per chiunque, ma i tributi del Distretto 9 non si arrendevano mai senza combattere. Erano fatti così. Prendevano la vita per come veniva.
Ogni mietitura la affrontavano uniti, facendosi forza l’un l’altro.
Quella sessantatreesima edizione venne annunciata da un sole pallido e poco caldo. La piazza cittadina non era traboccante di gente indaffarata come ogni giorno, ma di ragazzi immobili che sudavano freddo, a differenza della loro accompagnatrice, Dwille.
Ragazza giovanissima, quasi sfiorava l’età da tributo. Quell’anno era vestita di un rosso scarlatto che, al pari del sangue, brillava di per sé.
Era conosciuta come una delle capitoline più vanitose e in mostra di Panem, sempre sui giornali di gossip e di alta moda – se così si poteva chiamare. Il cappello squamato che aveva scelto di abbinare al completo non era decisamente di buon gusto, se paragonato ai semplici e sobri vestiti della folla riversata in piazza.
– E ora veniamo ai nostri tributi! – disse cercando di apparire ammaliante dopo il filmato sui Giorni Bui. La verità era che odiava essere l’accompagnatrice di uno dei distretti più poveri. Meritava di meglio, lei.
La sua mano si immerse nei biglietti con i nomi delle ragazze e giocherellò con essi per qualche minuto, sotto gli sguardi esasperati della gente ai piedi del palco.
Poi ne estrasse uno solo. – June Morick.
Una bambina magra e dal viso un po’ pallido fece i primi passi, ma una voce sottile e vellutata si levò accanto a lei. – Mi offro volontaria! Mi offro volontaria!
La ragazzina che aveva parlato, anche lei dodicenne, prese la mano di June e la portò di nuovo al suo posto, mentre saliva sul palco e l’altra la guardava spaesata.
June sarebbe morta subito se non si fosse offerta lei. Certo, era piccola, ma avrebbe potuto farcela. Dopotutto suo fratello Brick, che era stato uno dei tre vincitori, otto anni prima, le aveva insegnato un’infinità di trucchetti e strategie.
Prima o poi mi sarei offerta comunque, pensò in quell’istante.
– Ma abbiamo una giovane volontaria! Non è mai capitato da queste parti, giusto? – disse Dwille con un sorriso. – Come ti chiami?
– Lorelei Uk –
rispose la ragazzina. Non era molto loquace. Al parlare preferiva osservare. Era un piccolo falco, Lorelei.
– Ti sei offerta per la tua amica?
Lei annuì, senza aggiungere altro. L’accompagnatrice le accarezzò la chioma bionda e boccolosa in un gesto misto a incoraggiamento e compassione.
Lorelei già la odiava, quasi. Cercò con lo sguardo il maggiore dei suoi sette fratelli, Brick, che ricambiava con un espressione sconcertata. Di certo non voleva che la sua sorellina si offrisse a dodici anni.
Mi dispiace, ma dovevo.
I suoi pensieri vennero interrotti nuovamente da Dwille, che si accingeva a eleggere il prossimo, giovane tributo.
Tuffò nuovamente la sua mano, ma questa volta tra i bigliettini maschili.
– Vediamo… – disse, prendendone uno. – Greg Hale.
La folla rabbrividì, nonostante fosse aprile inoltrato. Non Greg. Non lui.
Dalla fila dei diciottenni, un ragazzo sulla sedia a rotelle avanzò lentamente, il volto tirato e angosciato.
Quando arrivò ai primi gradini, ci furono diversi momenti di imbarazzo: non riusciva neanche a salire.
Allora, tra le ultime file dei ragazzi, qualcuno urlò a gran voce: – Mi offro volontario come tributo!
Gli spettatori rabbrividirono una seconda volta, notando chi aveva parlato.
Era un bel ragazzo, Alec, con un viso attraente e un fisico ben piazzato grazie alle dure e lunghe giornate di lavoro. Chiunque gli voleva bene, lui era l’amico di tutti.
Ma in special modo di Greg, il ragazzo che in questo momento stava salvando da un destino atroce.
Salì sul palco cercando di mantenere il controllo. Odiava il fatto che non avessero mai eliminato il suo migliore amico dalle mietiture, pur avendo una malattia grave come la sua. In quel momento avrebbe voluto gridare la sua rabbia al mondo intero, ma la sua indole tranquilla lo bloccò.
– Magnifico, magnifico! Un altro volontario dal Distretto 9! Quasi sono commossa – squittì Dwille. – Che gesto coraggioso… Come ti chiami?
– Alec Lewis –
rispose lui laconicamente, guardando però la sua sorellina di nove anni ai lati della folla. La piccola lo guardava senza capire realmente ciò che stava per accadere.
Dwille cominciò a sproloquiare su quanto fosse stata nobile la sua azione, ma era palese che lo faceva per conquistarsi le simpatie del pubblico e del ragazzo, che inoltre aveva quasi la sua stessa età.
Il tempo riprese a scorrere più velocemente, mentre dinanzi ai due nuovi tributi si aprivano infinite, pericolose porte.

*


L’aria della prateria era secca e si appiccicava sulla pelle.
In quella zona centrale dei vecchi Stati Uniti sorgeva il Distretto 10, quello dell’allevamento. In quel periodo della primavera il caldo cominciava a farsi sentire, anche se in quella mietitura il cielo era pressocché nuvoloso.
Nella piazza cittadina aleggiava una cappa d’aria pesante, ma non solo a causa della temperatura – sicuramente maggiore ai venticinque gradi. I giovani, infatti, erano per la gran parte terrorizzati e l’ansia di essere estratti era quasi palpabile, concreta.
Anche il Distretto 10 non era messo bene in quanto a edizioni vinte. In sessantadue anni, solo quattro tributi erano riusciti a tornare indietro.
Un dato del genere era desolante per chiunque.
L’accompagnatrice di quell’anno si chiamava Aaryn e, a differenza delle capitoline precedenti, era persino un po’ timida e silenziosa, per cui i discorsi prima dell’estrazione durarono veramente poco. Così poco che i possibili tributi non ebbero neanche il tempo di rendersene conto.
Aaryn si dedicò, come negli altri distretti, prima alle ragazze.
Una mano fasciata dal vellutato guanto arancione si immerse nei biglietti delle giovani donne. Li mescolò per un momento, poi ne pescò uno e uno soltanto.
– Karité Oyzis.
La prima cosa che venne da pensare ad Aaryn fu semplicemente: che nome strano!
Una ragazza minuta dal vestitino bianco e candido si fece avanti dalla fila delle sedicenni, con lo sguardo vitreo, vuoto.
Karité era sconvolta. Non poteva essere stata nominata ora, non ora che i suoi incubi si stavano calmando. Non ora che le sue fobie si stavano assopendo.
Salì sul palco lentamente, fissando Aaryn senza realmente guardarla. Tutto ciò che percepiva di lei era una sfocata macchia color arancio.
Devo essere forte, si disse, ma la sua paura era talmente grande che sentiva il cuore in gola, come se l’avesse appena ingoiato e fosse rimasto bloccato nell’esofago.
Non era perfetta, Karité, anzi, era l’esatto opposto.
Tutti nel distretto la consideravano pazza. La chiamavano la ragazza visionaria, quella che vedeva sangue e morte dappertutto.
Ma loro non capivano. Loro non avevano visto i propri parenti morire trucidati senza motivo alcuno nella stessa piazza in cui ora vedevano i tributi estratti. Non avevano visto il loro sangue, non avevano sentito le loro urla.
Per chissà quale motivo, Karité riuscì a non tapparsi le orecchie con i palmi delle mani. Stava rivivendo quel momento, sentiva grida strazianti, vicine a lei eppure lontane.
Tutto era ovattato.
Falli tacere, pensava la ragazza, esasperata. Falli tacere!
In qualche modo le urla cessarono improvvisamente, facendole pesare tutto il silenzio che era sceso sulla piazza. La gente la fissava, immobile.
Aaryn non le rivolse la parola, ma si dedicò a estrarre il tributo maschile.
Prima che potesse prendere un nuovo biglietto, però, qualcuno tra le ultime file alzò la mano. – Mi offro volontario.
L’accompagnatrice lo fissò, stupita e incredula. Non vedeva volontari provenienti dai distretti più poveri da un po’.
Prima che potesse realizzare l’accaduto, il ragazzo era già vicino a lei, con i pugni serrati.
– Qual è il tuo nome? – chiese, guardando verso l’alto. Insomma, lei era veramente bassa rispetto a lui, anche con i suoi tacchi.
– Zefren. Zefren Leris – rispose lui tranquillo.
– E perché ti sei offerto? – venne ad Aaryn di domandare. Era pur sempre il primo volontario della sua carriera. Forse, pensò indirettamente, l’avrebbero promossa.
– Per mio fratello Thanatos – ribatté lui, con la stessa calma di sempre. Non si alterava mai, Zefren. Era pacato, educato, gentile. – Anche lui si è offerto volonario due anni fa.
Aaryn ricordò. Ecco chi era l’ultimo volontario del Distretto 10, Thanatos Leris, offertosi per cercare di salvare la sua ragazza. Erano morti entrambi il terzo giorno.
Zefren, prima della sua ultima mietitura, l’aveva odiato con tutto il cuore, avendolo lui sconfitto in amore. Poi si era sentito in colpa. Non meritava una fine così, Thanatos. Era una brava persona, un ragazzo d’oro.
In qualche modo, voleva vendicarlo.
Puntò i suoi occhi smeraldini – gli stessi di suo fratello – dritto dinanzi a sé, senza neanche fare caso a Karité che per l’ansia si stropicciava la gonna bianca. Cacciò tutti i suoni fuori dalla sua testa.
Prese un respiro profondo.
Era giunto il momento. Vincere o morire.
– Signori e signore, i tributi del Distretto 10!

*


L’aria di campagna era genuina. Il più delle volte faceva bene al cuore, allo spirito e alla mente.
L’ambiente profumava di terra, frutta e fiori. In qualche modo rilassava persino i visitatori della capitale.
Ma in quel giorno c’era poco da essere rilassati.
Era la sessantatreesima mietitura, il massimo simbolo di sottomissione.
Il Distretto 11 era uno dei più poveri in assoluto, anche se il più vasto. Sconfinati campi e territori coltivati lo adornavano, ma la zona abitata era veramente ridotta.
Spesso gli abitanti – per spostarsi da una parte all’altra – facevano utilizzo di carri e vecchi pulmini arrugginiti.
Quelle vetture erano un’offesa al Distretto 6, ma, chiaramente, quella povera gente non poteva chiedere nulla di meglio.
Come si potrebbe pensare, i ragazzi in età da tributo, ogni singolo anno, non erano esattamente entusiasti all’idea di poter essere mandati al macello in un’arena mortale.
Purtroppo per loro, non avevano neanche il tempo di allenarsi per un’eventuale sorteggio, perché le giornate di lavoro erano lunghe ed estenuanti.
La maggior parte della popolazione si alzava all’alba e tornava a casa al tramonto, sfinita e vogliosa di andare a riposarsi.
L’avvento della primavera, poi, era particolarmente odiato dai cittadini dell’11. I turni di lavoro quasi si triplicavano, dovendo raccogliere più prodotti.
Quel giorno, comunque, avevano faticato soltanto fino a mezzogiorno, essendo la mietitura stabilita per le tredici e trenta.
Nella piazza in cui era stato allestito il palco, quella marea di ragazzi sembrava parzialmente tirata a lucido, ma rimaneva comunque una folla di persone ossute e sottopeso – per la maggior parte, almeno.
Valeex era la storica capitolina del distretto e come ogni anno vestiva da capo a piedi di un color cioccolato brillante. Gli abitanti la prendevano sempre in giro, poiché, per smorzare la tensione, affermavano che somigliava ad una racchia ricoperta di escrementi.
Era decisamente l’accompagnatrice con meno gusto e più indecorosa di tutte. Aveva una risata sguaiata e fastidiosa, e il suo accento era particolarmente marcato.
– Vediamo un po’ chi saranno i fortunati di quest’anno! – urlò vicinissima al microfono, che vibrò per l’impatto.
La gente ai piedi del palco rispose al suo entusiasmo con sguardi assolutamente di fuoco.
Valeex prese dalla boccia di vetro femminile il biglietto più in alto. Qualcuno diceva che quelli più in superficie appartenessero alle dodicenni, motivo della sua scelta.
La capitolina adorava i bambini, anche se poi spesso doveva vederli morire.
– Haylee Johnson! – cinguettò infine.
Ci aveva visto giusto: una ragazzina della prima fila dalla pelle scura si avvicinò tremando, ma qualcuno si era avvicinata per bloccarla.
– Mi offro io – disse quella, mulinando in un gesto involontario i capelli biondi – vera particolarità per il suo distretto – su una spalla.
– Meraviglioso! Sublime! Una volontaria! – gridò Valeex, aiutandola a salire. – Come ti chiami? Quanti anni hai? Perché ti sei offerta? – domandò a raffica.
Per poco non mi chiede anche se sono maschio o femmina, pensò la ragazza scuotendo la testa.
– Mi chiamo America Wilson, ho quattordici anni e mi sono offerta per vincere, ovviamente – rispose America. – Mio padre era uno dei vincitori, mi ha insegnato qualcosa.
Valeex fece qualche altro gridolino stridulo, poi le chiese: – E quella ragazzina, Haylee, la conoscevi?
– In realtà sì, ma non è una mia parente –
ribatté America. Si era offerta più per se stessa che per Haylee, a dire il vero.
– Che gesto coraggioso, mia cara. Meriti un applauso!
Il pubblico rispose all’incitazione, anche quello televisivo.
Tutto quello che aveva detto era vero. America era in grado di vincere. Ragionava quasi come una favorita, lei. Sarebbe tornata indietro, gloriosa.
– Ma ora bando alle ciance! Veniamo al nostro tributo maschio – continuò Valeex sempre cinguettando.
A piccoli passetti, facendo schioccare i tacchi sul legno del palco, giunse alla boccia con i nomi maschili, immergendo la sua mano guantata nel mare di biglietti vergati in bella grafia.
Ne pescò uno sempre sul bordo, sperando stavolta che nessun ragazzo più grande si offrisse.
Tossicchiò. – Vladimir Pochka.
Ci aveva visto giusto anche quella volta. Un ragazzino dai riccioli biondo scuro e la pelle abbronzata avanzò dalla fila dei tredicenni, dopo aver infilato in tasca un foglietto passatogli dal suo amico.
Vladimir cercò di sembrare il più disinvolto possibile, mandando sorrisi a destra e a manca, come se volesse tranquillizzare la folla e, in special modo, suo fratello Ivan. Pregò con tutto il cuore che non si offrisse volontario al suo posto, perché lui doveva badare alla piccola Dana.
Nel distretto era risaputo il suo comportamento gioviale e divertente. Anche i ragazzi più grandi che lavoravano con lui lo vedevano come una piccola mascotte.
Non volle deludere nessuno: sorrideva apertamente anche una volta accanto a Valeex, che gli carezzò il capo con dolcezza.
Vladi aveva paura, certo, ma per il momento doveva rimanere lo stesso di sempre, senza farsi sopraffare dal terrore e dal pensiero di una possibile morte imminente.
E mentre sorrideva, studiava le persone accanto a sé, America in modo particolare. Era la sua abilità più grande, probabilmente. Dai modi di fare schietti della ragazza poté capire che non era veramente dura di scorza come sembrava all’apparenza.
Però bisognava starle attenti. Era forte. Lo percepiva dal suo sguardo determinato.
– Vuoi dirci qualcosa, Vladimir? – gli chiese Valeex con un’espressione fintamente comprensiva. Come poteva comprendere davvero, lei?
Il ragazzino scosse la testa. – Va bene così. Proverò a tornare a casa a tutti i costi.
Sorrise ancora, mentre vedeva il pubblico annuire e applaudire.
– Bene, benissimo! Ecco a voi i tributi del Distretto 11!

*


Il Distretto 12, al pari del precedente, era desolato e povero.
Tutto in quella zona era grigio e cupo, anche perché le polveri e il carbone stesso erano ovunque. Per strada, nelle case, anche sui palazzi più agiati.
Come da copione, anche il cielo era di un grigio smorto e poco invitante. Uno di quei cieli che normalmente spingerebbe chiunque a restare chiuso in casa per tutta la giornata, magari ad oziare.
Gli abitandi del 12, e in special modo i ragazzi, non potevano permettersi di stare senza far niente, però.
Il lavoro era poco e poco retributivo e i cittadini dovevano iniziare a guadagnarsi da vivere sin da piccoli, pur andando il pomeriggio a scuola sino ai quattordici anni.
Ogni mietitura era accolta con tristezza, ad ogni modo, perché, in fatto di vincitori, quello era il distretto più critico. Haymitch Abernathy aveva vinto la seconda edizione della memoria e prima di lui una donna di cui si era anche dimenticato il nome, morta poco dopo la sua vittoria.
Due. Un numero scarsissimo, se confrontato con i distretti favoriti. Scarso e triste, anche.
Una quantità che demoralizzava qualunque persona in età da tributo – e non.
Quello era il primo anno di Effie Trinket, la colorata accompagnatrice di Capitol City. Su quel palchetto spoglio e privo di armonia, aveva un viso imbronciato e schizzinoso.
Effie odiava aver avuto in affidamento il distretto più remoto di tutti. Era un affronto alla sua persona.
Rivolgeva continui sguardi di dissenso al sindaco Undersee e allo stesso Haymitch, che sonnecchiava su una sedia accanto allo schermo principale.
Dopo i soliti convenevoli e dopo l’emblematico filmato sui Giorni Bui, fu il momento di estrarre i nuovi tributi per quella sessantatreesima edizione.
– Prima le signore – annunciò, sculettando sino ai biglietti delle ragazze. Tossicchiò, prima di aprire l’unico foglietto che aveva tra le mani. – Evelyn Gray.
Una ragazza dal volto pallido, i corti capelli neri e gli occhi dai riflessi dorati salì i gradini del palco con un’espressione enigmatica. Sembrava determinata, le iridi dallo strano colore che mandavano bagliori infuocati.
Fece un piccolo sorriso. – Salve – disse poi.
– Vuoi dire qualcosa, Evelyn? – chiese Effie, con il cappello color pesca che le danzava sulla parrucca lattescente.
– Voglio vendicare la mia migliore amica, Tellie, morta tre anni fa alla Cornucopia. Io vincerò, Effie – rispose con semplicità.
– Lo spero! – ribatté l’accompagnatrice, riponendo tutte le sue speranze in quella ragazzina. Magari se lei avesse vinto sarebbe stata promossa in un distretto più decente. Sapeva che Pan, la capitolina del 4, era già abbastanza avanti con l’età… Lei invece era giovane e bella, meritava quel posto più di chiunque altro.
Gli amici di Evelyn e suo fratello maggiore Jae, nel frattempo, applaudirono con calore, cercando di incoraggiarla.
Vincerò, si ripeteva, concentrata. Vincerò, sì.
– Ora sorteggiamo il nostro giovane uomo! – continuò Effie, leggermente più entusiasta di prima. Evelyn le piaceva.
Prese dalla boccia maschile la prima strisciolina di carta che le capitò tra le mani.
– Richard McIntyre – lesse a gran voce, sperando con tutto il cuore che non fosse il solito dodicenne pronto a morire dopo pochi secondi dall’inizio.
Un ragazzo alto e biondo si fece avanti dalla fila dei diciassettenni, con le mani in tasca. Richard sbuffò appena nel salire sul palco, poi si affiancò ad Effie con una specie di sorriso.
Fece velocemente dei calcoli mentali. Se avesse vinto quegli Hunger Games, avrebbe potuto trovare un medico che curasse Ygraine, la sua sorellina; se invece fosse morto sarebbe stato sicuramente un peso in meno per suo padre, e lui si sarebbe potuto dedicare completamente alla figlia gravemente malata.
Osservò la folla, notando il suo gruppo di teppistelli ed Edward, il suo migliore amico, che lo fissava con dispiacere. Erano gli unici ad averlo accompagnato.
Andiamo, Ed. Sai che posso farcela. Io non perdo mai.
– E tu vuoi dirci qualcosa, Richard? – gli domandò Effie porgendogli il microfono.
– No. Solo che ho intenzione di tornare tutto intero, cazzo!
Effie, sentendo quella colorita imprecazione del ragazzo, si portò una mano al cuore. I giovani di oggi sono proprio ingestibili, pensava, tornano ad ammiccare alle telecamere.
Richard tornò a ghignare, passandosi una mano tra i capelli ribelli. Evelyn dondolava le braccia, guardando dritto avanti a sé.
Sembravano forti. Erano forti.
– Signori e signore, ecco a voi i tributi del Distretto 12! – concluse l’accompagnatrice.



[…] Ma si può mietere una persona? Si può raccogliere una cerchia ristretta di ragazzi per poi mandarli a macinare? […]
Questa è Panem: Hunger Games, sangue, trofei di poca importanza.
E la sorte è il burattinaio di tutto questo.






Gli spiriti meschini sono soggiogati dalla sorte, ma gli animi forti s'innalzano sopra di essa.
(Washington Irving)























Leddy’s Corner:
Et voilat! Sono in ritardo D: Dovevo pubblicarlo sabato, cavoli.
Credetemi, questo capitolo è stato un parto. Conta circa ventidue pagine di Word ed è sicuramente la cosa più lunga che abbia mai scritto xD Spero non sia troppo noioso!
Prima cosa: vi prego di dirmi se ho trattato bene tutti i vostri tributi o se ho preso fischi per fiaschi, rendendo tutto ciò una cosa orribile. Ditemelo se vanno bene ç_ç
Secoda cosa: spero di aver trattato tutti in egual modo; se così non fosse, vi prego di farmelo notare.
Comunque sia, ci ho messo l'anima, credetemi. Come metterò l'anima (e il cuore) nei prossimi capitoli.
Se ci fate caso, ho dato particolare importanza al clima e all'ambiente geografico, perché ho cercato proprio di immedesimarmi (e di farvi immedesimare) negli abitanti di Panem. Poi, sempre se ve ne siete accorti, ho trattato con una certa accortenza ache tutte le accompagnatrici (e ho incluso anche Effie, visto? :D), per renderle tangibili e realistiche.
Se non ci sono riuscita, mi scuso a priori!

Poi. Se tutto va bene, la sfilata dovrebbe arrivare entro domenica - no, non esagero xD, le mietiture sono state molto più lunghe da scrivere, e un pezzo del capitolo 2 è già pronto.

Un'altra cosa molto importante: purtroppo, causa scarsissimo tempo a disposizione, non potrò sempre rispondere alle recensioni. Se vi sorge qualche dubbio che vi preme, mandatemi un messaggio, grazie. Mi dispiace :(

Ora, parlando dei vostri tributi, che ne pensate? Questo è il momento di cominciare a scegliervi le alleanze! Anche se questa è solo la prima impressione, ricordate, e ci sono ancora una marea di cose da raccontare, iniziate a segnarvi i vostri preferiti, così in seguito potrete contattare i rispettivi mentori per stringere le alleanze.
Ora metto qui la lista completa di mentori e tributi:


1 – Yaacov Sherday (Peeta97) | Ibiza Velàsquez (Martichan97)
2 – Nathaniel Darko (Soficoifiocchi) | Hydra Devine (everdeen)
3 – Jesse Chletter (Coral 97) | Lyla Miltak (JennyMatt)
4 – Sennar Heeter (Hey There Delilah) | Samantha Blanchette (Aki_Neko_Keehl)
5 – Julian More (Sylphs) | Skye Rothenberg (_IWantAnIceCram_)
6 – Adam Lawrence (_lu) | Bleika Vidal (alessa7)
7 – Josh Gilmour (Matthea) | Luna Woodey (LizTheStrange)
8 – Everett Hughes (Ems_JM) | Makaira Win (darkangel98)
9 – Alec Lewis (Martezia) | Lorelei Uk (AriiiC_)
10 – Zefren Leris (Keily_Neko) | Karité Oyzis (Ivola)
11 – Vladimir Pochka (Shinya_387) | America Wilson (Eri Odair)
12 – Richard McIntyre (_ L a l a) | Evelyn Gray (Alice Potter)


Per il sistema degli sponsor dovete aspettare il prossimo capitolo, ma è bene che sappiate tre cose importantissime:
1) Chiunque può essere un sponsor, anche il mentore di un tributo, ma è importante che non sponsorizzi la propria creatura. Potete farlo con i tributi che più vi sono piaciuti, o per aiutare i vostri alleati.
2) Si sponsorizza solo e soltanto una volta nell'arena, non prima.
3) Per sponsorizzare dovete farlo contattandomi privatamente, e non nelle recensioni. Lì potete limitarvi a esternare i vostri preferiti.

Il resto ve lo spiego meglio nella sfilata, come già detto.

Beh, ora non voglio rendere questo capitolo ancora più infinito di quanto non lo sia già, indi per cui, concludo qui.
Un bacio enorme e a presto!
(E possa la fortuna essere sempre a vostro favore ;D)




Leddy




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Capitolo 3
*** 02. Capitolo due ~ Illuminarsi. ***












 

G  li animi forti s’innalzano
sopra la sorte
  .

 

(  Sessantatreesimi Hunger Games  )
 





02. Capitolo due – Illuminarsi






Morin ed Eya avevano deciso di alzarsi presto quella mattina. In questo modo avrebbero avuto più tempo per prepararsi e sarebbero arrivati prima all’Anfiteatro cittadino. Non importava che avessero i posti migliori in tutta la platea o che la loro balconata avesse un’entrata apposita; avevano deciso di non volersi perdere neanche un minuto della sfilata dei carri.
Pranzarono silenziosamente e si vestirono con la giusta attenzione. Erano pur sempre i figli gemelli di una delle più importanti famiglie della capitale.
Dopo aver passato più strati di trucco sulla pelle, erano pronti ed eleganti; Eya era completamente abbigliata di un bellissimo azzurro pastello, Morin di un rosso cremisi.
Con compostezza lasciarono la loro dimora per dirigersi all’evento.
Chiacchierarono di continuo, facendo supposizioni sui possibili abiti dei distretti e facendo piccole scommesse malandrine.
– Se il Distretto 7 vestirà di nuovo i suoi tributi da alberi dovrai girare nudo per strada – disse Eya ridendo. Erano così, loro due. Spontenei, pur vivendo nella capitale.
– Oh, secondo me quest’anno faranno qualcosa di molto originale, invece – le rispose il gemello. – Però se ho ragione io dovrai darmi almeno trenta denari.
– Affare fatto!
I due, ancora gioviali e sorridenti, presero posto sulla balconata d’onore, posta in maniera da vedere perfettamente i tributi sfilare davanti a loro.
Erano ancora in atto i preparativi: in quel momento stavano accendendo gli schermi posti più in alto, mentre alcuni addetti ai lavori sistemavano le luci.
– Sarà un’edizione fantastica, me lo sento! – annunciò Eya battendo le mani fasciate dai guanti di seta. 
– Sicuro! Cicero Feestage ci ha bombardato il cervello su quanto sarà fantastica l’arena o su quanto sarà innovativa.
– Io non ho dubbi –
ribatté la sorella, eccitata,– che sarà un anno pieno di sorprese. 
Pian piano l’Anfiteatro si riempì di spettatori e possibili sponsor impazienti, già pronti a segnarsi i nomi dei tributi che più li avrebbero colpiti.
Alcuni sottovalutavano l’importanza di quel momento, ma ciò era sbagliato. La prima impressione dei ragazzi era quella che più rimaneva incisa nella mente.
I tributi si stavano giocando il tutto per tutto, che lo sapessero o meno.
Quando i presentatori annunciarono la partenza dei carri, la folla esplose in un boato.
Morin ed Eya trattennero il fiato dinanzi a tanta magnificenza.

Il carro del Distretto 1 entrò in scena, trainato da cavalli completamente bianchi.
Gli animali erano ricoperti di polverina dorata e le briglie brillavano di luce propria.
Ma l’attenzione non era focalizzata affatto sui destrieri, bensì sui due ragazzi dietro di essi.
La prima cosa dei loro abiti che colpì di più la popolazione fu il colore: oro puro. Sembrava che avessero fuso dei lingotti su di loro, rendendoli ammalianti come solo dei preziosi gioielli potrebbero essere.
Ibiza indossava un corpetto fatto interamente di collane che si snodavano anche sulle sue braccia, facendo pendere i ciondoli più particolari; la gonna era svasata, con uno spacco vertiginoso sulla gamba sinistra, anch’essa d’oro. L’abito, così signorile e pregiato, esaltava la fisicità della ragazza, che era sì magra, ma anche molto allenata. I suoi capelli color noce, anche se ora corti sino alle spalle, erano stati legati in una piccola crocchia all’altezza della nuca, arricchita da fermagli preziosi
Ibiza sembrava felice, o cercava di esserlo. Sorrideva davanti alle telecamere, mandava saluti al pubblico e accettava i fiori che le venivano lanciati, radiosa come il sole. Eppure aveva qualcosa di estraneo alla classica favorita del Distretto 1. Era diversa, spontanea. Vera particolarità, considerata la sua provenienza.
Come se fosse il suo esatto opposto, Yaacov apparì freddo come il ghiaccio. La sua figura pareva emanare un gelo senza pari, come se dentro di lui non stesse neanche facendo parte della sfilata. Non aveva cambiato espressione nemmeno dalla mietitura.
Una macchina da morte, un flagello.
Indossava, come la sua compagna, una giacca luminosa che mandava bagliori sul suo volto altrimenti ombroso e dai tratti marcati, ma ugualmente affascinanti. Portava i capelli scuri tirati indietro con un gel, mentre teneva la mascella serrata.
Il pubblico lo acclamò ugualmente. Era temuto, Yaacov, questo non poteva negarlo nessuno.
– Guarda, Morin! Quel ragazzo è una vera forza! Ha una concentrazione assurda, sembra su un altro mondo – disse Eya al gemello, indicando il tributo maschile del primo Distretto.
– In effetti… Ma trovo che lei sia più carina – e qui un piccolo sorriso gli adornò il viso giovanile. – Il suo abito è proprio bello.
– Devo chiedere a mamma di farmene confezionare uno uguale, è stupendo, con tutte quelle collane… –
continuò la ragazza vestita d’azzurro, ma fu interrotta dal fratello.
– Eya, guarda il carro del Distretto 2!
I tributi del secondo distretto erano forse ancora più solenni dei primi. I cavalli che trainavano il carro erano neri come la pece, sobri e scalpitanti.
Il Distretto 2 quell’anno aveva deciso di rappresentare i propri tributi con l’austerità e il fascino della civiltà romana.
Hydra era raggiante: indossava abiti che rappresentavano la dea Minerva, con una lunga veste di seta bianca legata in vita da una cintura di cuoio. Aveva persino gli stessi calzari della dea, dei sandali di cuoio che lasciavano gran parte dei piedi scoperti e che si allacciavano alle caviglie. Sulle spalle portava un secondo drappo di seta rosso e sul capo aveva poggiata una piccola coroncina d’oro. I suoi capelli erano stati lasciati sciolti, al vento, e ciò le conferiva davvero un’aria divina.
Come alla mietitura, sorrideva con malizia, cercando di conquistarsi le simpatie degli spettatori, televisivi e non, e magari di ingraziarsi gli sponsor.
Sfilò con disinvolutra, mostrandosi forte e temibile.
Per Nathaniel, invece, avevano prediletto una veste da gladiatore in cuoio, con tanto di gonnellino, calzari, elmetto e armi. Sul braccio destro portava un grande scudo con su inciso un leone, mentre la spada gli pendeva dal fianco sinistro.
Sulle spalle indossava quella che doveva essere la riproduzione della criniera di un leone, come simbolo di forza e vittoria, riprendendo il motivo dello scudo.
Era ammaliante, Nathaniel, come pochi tributi sapevano essere. Esattamente come alla mietitura, appariva tranquillo e affascinante, con gli agoli delle labbra sollevati verso l’alto. Poteva dirsi fiero di se stesso. Un vero leone, come volevano che apparisse.
– Wow – fu l’unica cosa che riuscì a dire Eya. – Sono… spettacolari.
– Altroché –
confermò Morin. – Quest’anno gli stilisti si sono proprio dati da fare, con il Distretto 2.
– Lei è divina. Lui è molto bello, ha proprio il portamento di un guerriero.
– Non vedo l’ora di vedere che combineranno nell’arena… –
sogghignò il ragazzo, mentre il carro del Distretto 3 entrava in scena.
Dei cavalli color argento scortavano i tributi nell’Anfiteatro. Erano così brillanti che per un attimo ebbero maggior attenzione dei tributi stessi, quando improvvisamente i due s’illuminarono.
Entrambi indossavano delle tute nere sintetiche – nulla di veramente particolare – e in  un primo momento gli spettatori parvero delusi. Poi sul loro petto apparve un piccolo schermo elettronico. Erano il distretto della tecnologia, loro, non sarebbero mai stati banali, dopotutto.
La piccola televisione sul loro addome trasmetteva delle immagini inedite provenienti da tutta Panem e rappresentavano una gioia e una leggerezza praticamente inesistenti.
Jesse, infatti, non era propriamente entusiasta del suo costume. Quelle foto erano fasulle, per lui, irreali. Riprendevano dei bambini che giocavano in un prato, lo sposalizio di due giovani, degli operai sereni e con il sorriso sulle labbra.
Niente che potesse esserci nel Distretto 3. I prati non c’erano, i matrimoni venivano celebrati velocemente nel Palazzo di Giustizia e i lavoratori delle fabbriche erano tutt’altro che felici e contenti.
Stupidaggini.
Apparve molto schivo alle telecamere, non si degnò neanche di salutare il pubblico. Guardava altrove, verso il cielo già puntellato di stelle. Magari suo fratello Clay lo stava guardando. Si chiese se fosse fiero di lui.
Lyla ogni tanto lo osservava di sottecchi. Non lo capiva, lei, quel ragazzo. Sembrava costantemente distante.
Aveva cercato anche il contatto fisico, sfiorandogli una spalla, ma lui si era scostato. Non si erano neanche mai rivolti la parola.
Decisamente era da evitare un’alleanza con lui.
La ragazza sospirò, poi cercò di sorridere, sperando che i bambini dell’orfanotrofio la stessero guardando.
– Adoro questi costumi – stava dicendo intanto Morin ad Eya. – Mai visti prima.
– Sì, ma preferisco quelli dell’1 e del 2 –
ribatté la gemella, mordicchiandosi un’unghia.
Lui sospirò, ricordandosi che la sorella non amava in particolar modo le componenti elettroniche, né aveva mai giocato a un videogame.
Il carro del Distretto 4 arrivò in grande stile, trainato da cavalli rivestiti da una polvere azzurrina, che ricordava tanto il mare.
Gli spettatori trattennero il fiato.
Samantha era candida come un fiore. L’avevano abbigliata talmente bene che quasi risplendeva di luce propria. I suoi capelli bianchi e soffici erano stati resi mossi e pettinati con un gel azzurro e avevano lasciato scoperti gli occhi felini.
Il suo sopracciglio destro era adornato da una cicatrice piccola e bianca come la sua stessa pelle, ma non l’avevano risaltata in alcun modo, lasciandola così com’era.
Samantha non lo ammetteva mai, ma odiava essere guardata negli occhi. Senza la sua frangia, dietro cui scrutava il mondo, si sentiva fin troppo esposta e vulnerabile.
Ad ogni modo fece buon viso a cattivo gioco, ammaliando il pubblico con i suoi sorrisi sprezzanti.
Il suo costume fu uno dei più acclamati. Sembrava fatto d’acqua. Le scendeva sino ai piedi e, probabilmente grazie a un gioco di luci, riprendeva il moto di una cascata.
Nel complesso sembrava una creatura marina, Samantha, soprattutto anche a causa della presenza di Sennar accanto a sé.
Il ragazzo rimase tranquillo dinanzi alle telecamere, ma non poté fare a meno di notare quanto lo stessero applaudendo. Le ragazzine arrossivano al suo passaggio, gridando il suo nome come se fosse una divinità.
Era vagamente imbarazzato, Sennar, ma cercò di non farlo notare.
L’unica cosa che indossava era una rete allacciata all’altezza delle cosce, che copriva ovviamente le parti intime, ma allo stesso tempo lasciava campo libero all’immaginazione del pubblico femminile.
Sennar non si era mai allenato per gli Hunger Games, ma le lunghe e intense giornate di lavoro gli avevano conferito un fisico atletico e definito, oltre a delle gambe muscolose e scattanti.
In mano aveva un tridente, come se fosse la riproduzione del padrone dei mari, Poseidone.
Il suo viso era stato praticamente messo a nuovo: gli avevano rasato quella giovane barba incolta che gli cresceva sul mento e avevano preferito far risaltare i capelli ricci.
Si limitò a guardare senza fare nulla di particolare, ma non se ne pentì. Si stava mostrando per ciò che era, non trovava alcun bisogno di apparire falso o ipocrita.
– Dio. Lui è… – annunciò Eya al fratello, osservando il ragazzo. – Anzi, che cosa non è?
Morin ridacchiò. – Preferisco lei, comunque. Il costume dell’altro non è molto originale…
– Taci, Morin! –
ribatté la gemella fintamente offesa. – Guarda, piuttosto, stanno arrivando i tributi del 5.
Il pubblico rimase allibito. Era difficile trovare dei bravi stilisti per quel distretto, ma era palese che quell’anno avevano senza dubbio alzato il livello di professionalità.
Il carro era cosparso di lampadine che si accendevano ad intermittenza, facendo risaltare le vesti dei due ragazzi.
Entrambi indossavano un costume fatto interamente dalla riproduzione di vari pannelli solari. L’abito di Skye era lungo sino alle ginocchia e lasciava scoperte le sue lunghe e toniche gambe. Le maniche erano fatte di fili elettrici e sempre questi erano stati utilizzati per intrecciarle i capelli.
Con le mani sui fianchi e lo sguardo penetrante, mostrava il miglior lato di sé, cercando di conquistare pubblico e sponsor.
Skye era bella, forse come nessun altro. Ne era a conoscenza e per vincere avrebbe sfruttato questa dote a suo vantaggio, come aveva fatto sempre nella vita.
Io posso vincere, si ripeteva, afferrando i fiori che le mandavano, sorridendo ammaliante e mandando baci a chi protendeva le mani verso di lei gridando il suo nome.
Ignorava abbastanza esplicitamente Julian che però ogni tanto la guardava con curiosità. Ancora non l’aveva capita, quella ragazza.
Lui odiava le persone arroganti o con secondi fini e Skye in qualche modo non gliela contava giusta. Aveva qualcosa nel suo sguardo di incredibilmente determinato, ma anche di ambiguo. Non era sicuro di potersi fidare di lei, ma aveva intenzione di parlarle, essendo la sua compagna di distretto.
La sua giacca di pannelli solari mandava bagliori tra la folla, ma Julian si mantenne distaccato, anche se molti rimasero affascinati dai suoi occhi verdazzurri, attenti come quelli di una creatura della notte.
– La ragazza è bellissima – affermò Morin senza fiato. – L’hai vista, Eya?
La gemella non rispose. – Non è niente di che – ribatté con malcelata invidia. – Preferisco lui. Ha degli occhi magnifici!
– Certo –
ridacchiò l’altro davanti alla sfrontatezza della sorella. – Comunque i vestiti sono carini, sicuramente meglio degli anni passati.
– Già –
rispose Eya, aggiustandosi un boccolo color acquamarina. – Ricordi quando li vestirono da lampadina?
Morin rise di gusto. – E chi se lo scorda più? Erano praticamente ridicoli!
– Infatti sono morti –
continuò l’altra con leggerezza. – Non avevano tanti sponsor.
– A proposito –
disse il fratello. – Dobbiamo ricordarci i nomi di quelli che vogliamo sponsorizzare.
– A fine sfilata decideremo, sto ancora aspettando quelli del 7 per vederti sfilare nudo per strada.
Morin scosse la testa e non ribatté, preferendo concentrarsi sul prossimo carro.
Anche il Distretto 6, il più delle volte, era tutt’altro che originale. I tributi indossavano quasi sempre divise da macchinisti o da meccanici, che rendevano il numero di sponsor praticamente iniquo.
E invece quell’anno c’era stato un incremento di stilisti migliori e più competenti.
I cavalli di quel carro erano magnifici: erano dipinti come se fossero delle motociclette da corsa, con tanto di numeri sui fianchi e finte ruote attaccate alle loro zampre.
I tributi, come si potrebbe immaginare, indossavano delle tute da motociclisti, elastiche e scarlatte. Entrambi sotto braccio portavano un casco e ai piedi degli stivaletti di gomma.
I capelli di Bleika erano liberi al vento, in tutta la loro lunghezza. Non l’avevano truccata in modo eccessivo, ma le avevano soltanto applicato una linea di eyeliner e un po’ di mascara, rendendo i suoi occhi azzurri di un’intensità unica.
Era un po’ impacciata, a dire il vero, ma l’aggettivo migliore per descriverla era decisamente libera. Sembrava pronta a spiccare il volo da un momento all’altro.
I suoi tratti fanciulleschi, che nascondevano la sua vera età di diciassette anni, le davano un tocco di spontanietà, rendendola una bambina cresciuta troppo in fretta.
Bleika aveva sempre avuto paura degli Hunger Games, sin dalla sua prima mietitura, a dodici anni, e cercava di affrontarli con serenità, anche se con scarsi risultati. Ma ora che era stata estratta doveva mettere tutte le carte in tavola e rischiare tutto.
La folla gridava il suo nome, le lanciavano fiori come se fosse una diva dello spettacolo.
Si sentì amata, anche se ciò le provocò una strana sensazione.
Anche Adam, accanto a lei, aveva un ottimo aspetto. Il suo portamento era fiero ed elegante e ciò esaltava la sua figura slanciata e dai tratti aggraziati.
Lui era più timido di Bleika, ma quando imparava a conoscere bene una persona e si affezionava ad essa le dedicava tutto il suo affetto. Tendenzialmente cercava di proteggere le persone più piccole di lui, soprattutto perché gli ricordavano le sue sorelline. Guardando la sua compagna di distretto, aveva immediatamente pensato che lei fosse una di quelle persone.
Spero solo di non doverla uccidere, pensò il quel momento.
Indirizzò lo sguardo allo schermo più grande. Era inquadrato il suo volto, fresco e giovanile, e solo allora si rese conto di essere guardato in diretta da tutta Panem.
Pensando a Keira e Cinthia, provò a sorridere. Sorrise per la sua famiglia, per i suoi amici. Sorrise un po’ anche per se stesso, in fondo.
– Carini loro! – osservò Eya, sporgendosi un po’ dalla balconata. – Adoro le tute da motociclisti. Sono sexy.
– Piacciono anche a me –
concordò Morin. – Sono due dei miei preferiti finora.
I gemelli non ebbero nient’altro da dire, essendo curiosissimi a causa della scommessa nei riguardi del Distretto 7.
Il carro successivo era trainato da destrieri color cioccolato. Avevano una criniera nera come l’ebano e degli zoccoli lucidati a dovere, ma erano essenzialmente semplici, come i ragazzi che trasportavano.
Josh indossava una tenuta da boscaiolo, con tanto di ascia allacciata alle scapole. Aveva una semplice camicia a quadri leggermente sbottonata e dei jeans strappati sulle ginocchia. I suoi abiti erano anche lievemente sporchi di terreno.
Fu proprio la semplicità del ragazzo a colpire il pubblico. Josh era di una bellezza insolita, che andava quasi capita. Ogni tanto si passava la mano tra i folti capelli ricci per dissimulare il nervosismo crescente.
Non era affatto adatto alle telecamere e inoltre si riteneva poco fotogenico.
Non era nei suoi interessi, comunque, mostrarsi come una persona che non era. Lui era Josh. E Josh era quello silenzioso, sulle sue e che passava inosservato.
Va bene così, si diceva. Non ebbe paura di risultare brusco o antipatico, ma rimase con lo sguardo dritto davanti a sé, osservando un punto impreciso sull’orizzonte.
Accanto a lui, Luna aveva un altro costume. Era quasi vicino all’essere un albero, ma era più aggraziato e sensato.
Era un leggero abito fatto interamente di foglie varie e ramoscelli. Le arrivava alle ginocchia e lasciava scoperte le gambe esili e i piedi nudi.
Tra i suoi lunghi capelli castani era ripreso il motivo dell’abito, per cui era stato aggiunto anche qualche fiore.
Luna aveva gli occhi strabuzzati. S’era innamorata di Capitol City, dei colori vivaci che nel suo distretto non erano neanche contemplati. Adorava tutte quelle sfumature di verde, rosso e blu. Ce n’erano così tante che non pensava neanche potessero esistere.
Se solo avesse avuto le stesse tinte che indossavano i capitolini, avrebbe ridipinto la sua casa daccapo, a partire dai suoi disegni che pendevano alle pareti della sua cameretta.
Agli occhi del pubblico, apparve una ragazzina dolce e curiosa. Molti la acclamarono, facendo il tifo per lei.
Luna si guardava intorno spaesata e al contempo vogliosa di conoscere altro di quello splendido paesaggio. Cominciò a sorridere, come una bambina davanti a un giocattolo.
– Lei è un albero! – trillò Eya contenta, intanto. – Lei è un albero! – ripeté, prendendo in giro suo fratello.
Tecnicamente ribatté Morin, – non è un albero. E poi lui è vestito da boscaiolo, quindi siamo pari.
Eya sbuffò. – Volevo vedere la faccia dei passanti mentre giravi nudo per la città.
– E io volevo i miei trenta denari, ma sono più ragionevole di te! –
disse il gemello.
– Solo perché non vuoi ammettere di aver perso… Comunque i vestiti erano carini, ma niente di speciale.
– A me sono piaciuti…
Non finirono neanche di battibeccare che il carro del Distretto 8 fece il suo ingresso, applaudito da tutta la folla.
Quelli furono decisamente i tributi più colorati. Entrambi indossavano abiti che richiamavano le antiche tradizioni indiane, con tanto di veli, turbanti e gioielli preziosi a ornare tutto il corpo. Il costume di Makaira era di una tonalità viola scuro, che si abbinava perfettamente alla sua pelle abbronzata. Portava un top molto scollato, specialmente sulla schiena, dove era possibile intravedere il tatuaggio di cui parlava tanto con orgoglio. Little career born in the wrong district.
Era riferito a sua sorella e, a differenza della gente del suo distretto, Makaira era fierissima di lei. Avrebbe intrapreso i suoi stessi passi, così da poter essere in luce dinanzi agli sponsor. E poi era forte, era la ragazza dei coltelli.
Le avevano persino detto che il suo nome significava proprio coltello, spada in greco.
Lei era sempre stata affascinata da quella lingua che annunciava il suo nome. Avrebbe voluto tanto studiarla, ma se ne erano perse le conoscenze. E poi non poteva permettersi il lusso di un maestro privato.
Makaira sorrideva alla gente, maliziosa. Apparve temibile e tutti la osservarono con rispetto e ammirazione, pur avendo solo quattordici anni.
Anche Everett accanto a lei cercò di apparire socievole e aperto, salutando con la mano e tentando di sembrare sereno e rilassato. Difficile, comunque.
Everett era sempre stato un po’ impacciato, anche se aveva un animo forte.
Era anche un bel ragazzo, soprattutto per i suoi guizzanti occhi smeraldini, e nel suo distretto riscuoteva persino un certo successo nel mondo femminile, soltanto che spesso si sottovalutava. E invece era al pari di tutti gli altri, con una personalità gioviale e anche un po’ testarda.
Era arduo riuscire a capire il suo carattere, ma quando si affezionava a una persona dava il meglio di sé.
Guardami, papà, proverò a vincere, si diceva in quel momento, osservato e acclamato da tutto il pubblico.
– Questi sì che sono dei bei costumi – fece Eya, stupita dell’originalità degli stilisti.
– Stanno cercando di richiamare alla memoria il mondo antico, in qualche modo – disse Morin, avendo studiato le usanze dei popoli che abitavano il mondo prima di Panem. – La cosa è interessante.
– Molto –
ribatté la gemella, emozionata e con gli occhi luminosi.
– Oh, guarda quelli del 9!
Il carro del distretto successivo era, non a caso, trainato da cavalli color grano, semplici e poco decorati.
Gli stilisti avevano cercato di rappresentare tutta l’essenzialità dei tributi, truccandoli poco e vestendoli delicatamente.
Lorelei era una ragazzina bellissima e per l’occasione le avevano lasciato sciolti i lunghi capelli boccolosi luminosi come il sole d’estate. Indossava un corpetto semplice di stoffa bianca, con scollo a cuore, ma la vera particolarità del suo costume era l’ampia gonna. Fatta interamente di spighe di grano, volteggiava insieme a lei ad ogni minimo movimento.
Il più piccolo dei tributi di quell’edizione colse l’occasione al volo per farsi acclamare dagli sponsor e cominciò a piroettare con un grande sorriso stampato sul volto delicato.
Lorelei non amava parlare molto e quindi in quella situazione fu avvantaggiata. Non c’erano bisogno delle parole. E il piccolo falco del Distretto 9 fu applaudito con calore.
Apparve una ragazzina – una bambina, quasi – spensierata e allegra, anche se lei era tutt’altro. La cicatrice causatale da suo padre con un coltellino le bruciava ancora, come se volesse far ricordare sempre la sua presenza.
Lor gli voleva bene, prima che la percuotesse selvaggiamente quella sera di fine maggio. Gli voleva bene davvero, prima che abbandonasse la sua famiglia senza alcun motivo.
Alec la conosceva anche prima della mietitura, essendo il ‘medico del grano’, come lo chiamavano in giro. Aveva assistito sua madre mentre lei metteva i punti alla piccola e allora tra loro si era creato una sorta di patto. Si rispettavano a vicenda.
Io non faccio del male a te e tu non fai del male a me.
Il ragazzo indossava un abito quasi ancora più sobrio di quello della dodicenne. Un semplice costume da spaventapasseri, con tanto di piedi scalzi e cappello di paglia.
Non era nulla di particolare, ma gli spettatori lo apprezzarono, essendo stati commossi dal suo bellissimo gesto per salvare l’amico sulla sedia a rotelle.
Alec si fece coraggio e prese a sorridere. Se Greg ora fosse qui sarebbe spacciato, si disse.
Guardò nelle telecamere e gli mandò un saluto, muovendo soltanto le labbra nel dire “Augurami buona fortuna”. Sperò con tutto il cuore che Greg leggesse quel messaggio labiale.  
– Loro sono teneri – disse Eya con un’espressione pietosa. Il gemello fece una smorfia. – Lui è bello e coraggioso… se non sbaglio si chiama Alec. Ha anche un bel nome!
– No, non sbagli –
puntualizzò Morin. – Ma evita questi sentimentalismi, solo uno di tutti loro potrà tornare a casa.
– Uff, grazie per avermelo ricordato… Voglio sponsorizzarli, allora! –
affermò la ragazza dai capelli blu con convinzione.
– Eya, aspetta di vedere gli altri, almeno… oh, ecco quelli del 10.
Anche quel carro fu uno dei più applauditi.
Entrambi i tributi indossavano un costume molto particolare e ricercato: raffiguravano un minotauro.
Avevano il corpo trapunto di una semplice tuta in pelle rossiccia, sul capo portavano le corna e al naso un cerchio tra le narici.
Zefren sembrava tranquillo e pacato come al solito. Guardava davanti a sé senza distogliere lo sguardo. Era concentrato, come voleva apparire.
Non era scoraggiato dal fatto che proveniva da uno dei distretti più poveri, anzi, sentiva di essere uguale agli altri. Aveva un fisico slanciato e scolpito, Zefren, a causa di tutte le dure e lunghe giornate di lavoro nel ranch nel quale svolgeva il ruolo di tuttofare, soprattutto quando si trattava di manzioni che richiedevano uno sforzo fisico maggiore.
Le sue spalle erano larghe e le gambe muscolose. Accanto a lui, Karité sembrava sparire.
Si passò velocemente una mano tra i capelli castani, pensando a ciò che stava per accadere. Solo tre giorni. Solo tre giorni e poi sarebbe entrato nell’arena.
Era ansioso ed eccitato al contempo.
Pensò alla sua ex, Amber, e a suo fratello Thanatos. Erano morti entrambi nella stessa edizione, cercando di proteggersi a vicenda. Lui non avrebbe commesso lo stesso errore, non si sarebbe affezionato a nessuno. O la sua doppia personalità sarebbe emersa senza restrizioni.
Karité, a differenza del suo compagno che ostentava almeno un po’ di sicurezza, si guardava intorno spaesata e non sapeva cosa fare, se sorridere e ammiccare o rimanere impassibile. Non riusciva a fare nulla, se non apparire fragile e agitata.
Sentiva una presenza incombere alle sue spalle, ma non riusciva a spiegarsi cosa fosse. Era una brutta sensazione.
Cercò con lo sguardo tra la folla, individuando diverse persone vestite di rosso.
Di rosso no, vi prego…, sussurrò a se stessa, socchiudendo gli occhi per un attimo.
Quando li riaprì non poté fare a meno di rabbrividire.
Sulla balconata d’onore si stanziava l’Uomo Rosso, colui che aveva assistito al supplizio dei suoi genitori ridendo e schernendola. Suo fratello le aveva detto spesso di esserselo immaginata, ma lei lo considerava una presenza terribile e tangibile.
Lo vedeva tutte le volte che riviveva la scena della morte dei suoi parenti, in piazza.
Avrebbe voluto urlare, ma si trattenne e si aggrappò lievemente al braccio di Zefren.
La sua presenza in qualche modo la confortava.
Lui si voltò un secondo verso di lei, con un’espressione interrogativa alla quale Karité non rispose, poi tornò a guardare fisso verso un punto impreciso dell’Anfiteatro.
– Perché quella ragazza mi fissava terrorizzata? –  chiese Morin alla gemella, tastandosi il corpo per capire se in lui ci fosse qualcosa di strano. – Cos’ho che non va?
In genere Eya l’avrebbe preso in giro, ma quella volta era inquietata come il fratello. –  Non lo so, Morin. Era strana… Non darle retta, sarà una povera pazza.
L’altro annuì senza espressione, mentre si scompigliava i capelli ricci e rossi.
Lui non sapeva che Karité era terrorizzata da quel colore.
– Comunque, parlando dei costumi, erano belli –  disse Eya. – Ma gli animali non mi piacciono. E neanche i pazzi.
Morin annuì, tornando a guardare la sfilata mentre arrivava il carro successivo.
Anche per il Distretto 11 si era deciso di ricorrere alla semplicità, mostrando il ciclo del raccolto.
America indossava un lungo e sensuale vestito verde prato che risaltava le sue forme non troppo sviluppate. Portava i capelli biondi raccolti e uno strano copricapo fatto di frutti, tra cui spiccavano mele rosse come il sangue, interi grappi d’uva e fragole succose.
Rappresentava il raccolto nel suo massimo splendore e lei recitava bene la sua parte.
Sorrideva dolcemente, mostrando la parte più innocente di sé.
America appariva fragile e sensibile, all’inzio, ma conoscendola veniva fuori un lato di lei vagamente egoista e cattivo, in qualche modo.
Era la classica tipa adatta agli Hunger Games, che prima conquista orde di sponsor con la dolcezza, poi diventa una bestia furiosa nell’arena.
Mandava baci a destra e a manca, raccogliendo i fiori che le lanciavano con zelo. Qualcuno già gridava il suo nome. Qualcuno già acclamava l’angelo del Distretto 11.
E mentre America salutava felice, Vladimir accanto a lei cercava di fare altrettando, mostrandosi spontaneo e curioso. Al contrario della sua compagna, indossava un costume che rappresentava il raccolto più povero. Aveva in mano una cesta vuota e i suoi abiti erano completamente sporchi di terreno.
I due creavano un contrasto veramente piacevole e non sembravanno affatto impauriti dai giochi imminenti.
Vladi, il ragazzino dalle origini russe, osservava con scrupolo chiunque, ma in special modo la sua compagna. Non gliela contava giusta, le sembrava troppo innocente per essere vera. Nessuno è un angelo come vorrebbe far credere.
Agitando entrambe le mani e suscitando tenerezza nel pubblico salutava nelle telecamere, rivolgendosi particolarmente al suo migliore amico e coetaneo Vlandislav, a suo fratello Ivan e alla piccola sorellina Dana. Voleva a tutti loro tanto bene che già ne sentiva la mancanza, ma era normale.
Cercherò a tutti i costi di tornare a casa, lo giuro, si disse con determinazione.
–  Oh, anche loro sono tenerissimi! –  esclamò Eya sporgendosi nuovamente dalla balconata. – In genere il Distretto 11 non mi piace, ma quest’anno è tutto diverso…
– Concordo –  
ribatté Morin incrociando le braccia. – Dovremo aspettarci tante soprese da quest’edizione.
– Già, i tributi mi sembrano tutti, chi più e chi meno, forti e motivati –
concluse la ragazza. – Guarda, l’ultimo carro!
All’inizio, i tributi del Distretto 12 apparvero insignificanti e uguali a tutti quelli precedenti. Trainati da cavalli neri e anche un po’ denutriti, erano interamente ricoperti di carbone, dalla testa ai piedi. Non erano nudi, ma indossavano soltanto un body che lasciava gli arti scoperti.
Il pubblico in un primo momento parve deluso, poi esplose in un boato quando i due ragazzi presero a brillare. La polvere che sembrava carbone era in realtà colorata e prese a brillare di mille colori, come se fossero le scintille del fuoco.
La folla applaudì con calore anche loro, allora.
Richard era particolarmente affascinante ricoperto di polverina. Il suo viso mandava bagliori luminosi e lui si limitò ad ammiccare verso le ragazze poco lontane dal carro, che gridavano il suo nome al suo passaggio.
Girò su se stesso, allargando le braccia in un gesto che poteva significare soltanto “Guardatemi, avanti!”. E gli spettatori lo fecero; ammirarono i suoi tratti mascolini con desiderio e si ricordarono della sua sfacciataggine durante la mietitura.
Mandava sorrisetti sardonici a tutti, come per sfidarli a contraddire il suo fascino inequivocabile.
Evelyn accanto a lui sospirò, alzando gli occhi al cielo. Gli sfiorò un braccio. – La smetti di pavoneggiarti?
Richard la guardò come se stesse dicendo un’ingiuria. – Ma anche no, dolcezza.
Nessuno poté sentire il loro brevissimo dialogo, essendo sprovvisti di microfoni, ma molti ne capirono il senso e risero.
Evelyn rinunciò a dirgli qualsiasi altra cosa e tornò a sorridere davanti alle telecamere.
Sorrideva per suo fratello Jae, per l’amica che stava cercando di vendicare, Tellie.
Forse era pronta come nessun altro al mondo. Era determinata, soprattutto, ambiziosa.
Non vedeva l’ora di cominciare a giocare per mettere tutte le sue carte in tavola e dimostrare a tutta Panem chi fosse Evelyn Gray.
I suoi occhi dai riflessi dorati ebbero un guizzo e brillarono insieme alla polverina sparsa sul suo corpo agile e minuto.
Lei era una freccia: centrava subito l’obiettivo, scattante.
Sarebbe stato un grande errore sottovalutarla.
– Wow – sussurrò Morin. – Dico solo questo: wow. Mai visto niente del genere.
Eya annuì, d’accordo con lui. – All’inizio sembrava che fossero i soliti sfigati pronti a morire alla Cornucopia, ma… sono diversi.
– In senso buono! –  
disse il gemello.
– In senso buono, sì. Lei mi piace. E’ incantevole e aggraziata. Invece Richard è quello che è, insomma! – ribatté la sorella ridendo.
– Davvero non so chi sponsorizzare – fece Morin. – Non ne ho la minima idea.
Fu così che la sfilata terminò, mentre tutti i carri dei tributi si riunivano davanti al Presidente Snow, che augurò loro felici Hunger Games come ogni anno.
Mentre l’Anfiteatro veniva fatto sgomberare, i cittadini di Capitol City rimasero a riflettere tutta la notte, festeggiando e bevendo come nelle occasioni speciali.
Ognuno pensò a lungo chi poter sponsorizzare, ma più o meno la maggioranza decise di aspettare le interviste e i punteggi degli strateghi.
Sembrava un anno diverso, un anno in cui tutti giocavano ad armi pari.
Un anno di novità e di innovazione.
Ma pur sempre un altro anno di Hunger Games.

E i tributi brillarono quella sera. S’illuminarono di luce propria, attirando pareri e attenzioni.
E un tributo, nel cuore di tutti, brillava, brilla e brillerà per sempre.
 

























Leddy’s Corner:
Ehilà! Direte voi “Guarda chi si vede…” e… avete ragione, ovviamente. Avevo promesso il capitolo per domenica e invece eccomi in ritardo come al solito di giovedì sera.
*inspira* Altro capitolo, altro parto. Vi prego, vi scongiuro, ditemi cosa ne pensate >.< Io la trovo una schifezza assoluta e senza senso, ma se non dovesse essere così vi prego di farmelo notare. Che ne dite? Vi sono piaciuti i costumi? Ho trattato bene i vostri tributi oppure o preso lucciole per lanterne?
Queste note sono più brevi di quelle della mietitura, ma ho deciso che il sistema degli sponsor lo spiegherò per bene nel prossimo capitolo, che sarà il Centro Addestramento. Finalmente vedrete i vostri tributi muoversi e interagire tra loro :D
Ovviamente ditemi delle alleanze. Se ne avete già pensata qualcuna o siete in alto mare xD Basta che mi dite se il vostro tributo vuole lavorare da solo o in compagnia.
Mostratemi tutti i vostri dubbi in un messaggio privato, se ne avete :)
Purtroppo, come già annunciato nello scorso capitolo, non potrò sempre rispondere alle recensioni, ma ringrazio infinitamente e di cuore tutti quelli che hanno commentato. Mi avete commossa, sul serio. Non so come ringraziarvi, vi adoro!

Poooi. Se cercate la lista completa dei tributi e mentori la trovate nel capitolo 1 ^^
Credo di non avere nient’altro da dire, se non che mi scuso con alcuni mentori se Morin ed Eya hanno commentato male i costumi dei loro tributi. Non a tutti possono piacere certi abiti, quindi ho mostrato il loro lato più umano.
Ecco, ho davvero finito (strano, eh?). Ma ci vediamo presto… non vi do una data precisa, ma temo oltre la settimana prossima.
Detto questo, un bacio e a presto! 



Leddy



 

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Capitolo 4
*** 03. Capitolo tre ~ Amici e nemici. ***












 

G  li animi forti s’innalzano
sopra la sorte
  .

 

(  Sessantatreesimi Hunger Games  )
 





03. Capitolo tre – Amici e nemici






Come scegliersi gli amici? Solo in base alle simpatie o ai fattori comuni? Sbagliato.
Un amico va scelto con cura, perché sarà quello che ti sarà accanto per sempre, nella buona o nella cattiva sorte. Non giudicare dai comportamenti, non essere precipitoso.
Coloro che tramano contro di te a proprio vantaggio saranno i tuoi più grandi nemici, che tu lo voglia o meno.



Fuori era una bella giornata. C’erano poche nuvole soffici all’orizzonte e il sole primaverile riscaldava e illuminava la pelle e i volti dei capitolini.
C’era chi si dedicava alle compere, chi ad andare a trovare qualche parente e anche chi rimaneva nella propria casa a guardare la televisione.
Ma in uno spicchio della città, poco lontano dall’Anfiteatro, esattamente dove sorgeva il Centro Addestramento, ventiquattro ragazzi erano ignari delle quotidiane faccende degli abitanti di Capitol.
In quell’edificio non potevano guardare il cielo, né potevano assaporare la libertà.
Dovevano allenarsi, studiare e imparare, o sarebbero stati spacciati.
Gli Hunger Games, tutti lo sapevano, erano crudeli. Non ammettevano deboli o incapaci.
E solo uno avrebbe trionfato, il vincitore.
Quei ventiquattro ragazzi si stavano preparando per diventarlo. O sarebbero morti.
Lyla ci aveva riflettuto a lungo. Ne aveva concluso che doveva tentare, per tornare a casa dai ragazzi dell’orfanotrofio. Non poteva lasciarsi andare, non faceva parte del suo carattere.
Pensava, mentre accanto a una postazione armeggiava con dei cavi elettrici. Era il primo giorno di Addestramento, e Atala, il capo-addestratore, aveva detto a tutti loro di orientarsi un po’.
C’era chi si era subito fiondato sulle armi, senza neanche provare a sfiorare le postazioni di sopravvivenza e c’era anche chi si guardava intorno spaesato e goffo.
Lyla stava cercando di giostrarsi. Non avrebbe tralasciato la difesa personale, ma neanche il noioso addestratore che sproloquiava sui vegetali, anche se controvoglia.
Ogni tanto buttava uno sguardo diffidente agli strateghi che li osservavano da un vetro posto in alto. Probabilmente stavano già prendendo appunti su di loro.
Preferì concentrarsi sulla sua opera, o sarebbe uscita fuori di testa.
Dovrebbe andar bene, si disse soppesando la lancia che aveva tra le mani. Non avrebbe mostrato le sue capacità, però, no. Aveva deciso di tenersele per la sessione privata.
Si alzò dalla postazione, allacciandosi una scarpa. Accanto a lei passavano volti e nomi ancora sconosciuti, ma che forse avrebbe cominciato a temere presto.
Nessuno era riuscito a colpirla, finora, eppure sapeva di doversi trovare un alleato. Era restia a parlare con chiunque, ma sapeva che almeno un’alleanza era necessaria. Tanto poi l’avrebbe abbandonata solo dopo qualche giorno.
Stava anche pensando di unirsi ai Favoriti, ma solo per avere le spalle coperte durante il bagno di sangue della Cornucopia.
Decise di fare un giro per la sala. Passò davanti a un muro scivoloso, a un acquario e alla postazione delle armi, ma urtò erroneamente la spalla di un ragazzo massiccio e decisamente più forzuto di lei.
Quello si voltò, infastidito.
– Scusa – disse Lyla, osservando il ragazzo. Le pareva che fosse quello del Distretto 10.
Zefren, dopo aver soppesato un secondo lo sguardo su di lei, la lasciò perdere, voltandosi di nuovo verso i coltelli.
Lei s’indispettì. – Ti ho chiesto scusa, spero non te la sia presa.
L’altro scrollò le spalle. – Nulla, ma sta’ più attenta.
La ragazza rimase un breve secondo a guardarlo nei suoi occhi verdi come il prato. Zefren, ad esempio, l’aveva colpita, non sapeva neanche perché.
Forse per quel che di velato nella sua espressione distante e a istanti malinconica.
Gli porse la mano, anche se vagamente riluttante. – Io sono Lyla, comunque.
Promise a se stessa di non affezionarsi mai a nessuno di quei tributi, o difficilmente sarebbe ritornata a casa, dai ragazzi dell’orfanotrofio. A tratti si chiedeva se la stessero pensando o facendo il tifo per lei.
Magnifico, riesco a relazionarmi più con i bambini che con quelli della mia età, si disse ironica.
Zefren, dal canto suo, parve studiarla per un momento, poi strinse la sua mano malvolentieri. Non voleva degli alleati, almeno non ancora. Almeno nonragazze.
Non aveva nulla contro di lei, ma le sue passate delusioni l’avevano portato a provare diffidenza verso l’intero mondo femminile.
– Zefren.
– Però, come sei loquace –
lo schernì Lyla. Da che pulpito.
Il ragazzo le lanciò un’occhiata in tralice. – E allora?
Lei rise. – Andiamo, stavo scherzando. Sai usare i coltelli? – chiese per fare conversazione. Non voleva tirargli le parole da bocca con un cucchiaino.
– Sto imparando – ammise lui. – Ma non sono un granché.
– Fa’ vedere – 
lo incitò lei.
Zefren lanciò immediatamente un coltello verso un manichino, centrandogli un braccio.
– Non male – affermò Lyla. – Ma se quel manichino fosse stato un favorito saresti già morto, senz’offesa.
Lei era decisamente una ragazza pratica, una di quelle che andava subito al sodo. Detestava mentire o essere falsa, in qualsiasi contesto.
Zefren sbuffò, senza farsi vedere da lei. Per qualche strano motivo la presenza di quella ragazza non lo infastidiva più di tanto. Non tanto da non ritenerla una possibile alleata, almeno. Sembrava in gamba. – E tu cosa sai fare?
Lyla esitò un istante. – Provengo dal distretto della tecnologia, me la cavo con cavi e componenti elettroniche, insomma. Posso costruire delle trappole.
– E hai intenzione di unirti ai Favoriti?
Lei non si aspettava quella domanda, ma fu sincera ugualmente. – In realtà non lo so, ma tu mi sei più simpatico.
Quel ragazzo le ispirava fiducia.
Zefren mostrò la parvenza di un sorriso.

Intanto, i futuri Favoriti si stavano concentrando sulle armi più che mai.
Nathaniel in particolare, accanto alla postazione delle spade, menava fendenti precisi ed efficienti contro un manichino che praticamente cadeva a brandelli.
Aveva un’espressione impassibile sul viso, ma quando decise di fare una pausa un piccolo sorriso soddisfatto gli ornò le labbra carnose e leggermente inusuali per un ragazzo.
Le stesse labbra che ogni ragazza del suo distretto avrebbe voluto baciare.
Si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore, poi si voltò verso la sua sinistra, sentendosi osservato.
– Risparmia la tua forza bruta per l’arena, Eracle.
Nathaniel fissò leggermente stupito la ragazza che aveva parlato. La osservò con sufficienza. – Voglio dimostrare a tutti che sono forte – disse poi, guardandola negli occhi.
Che vuole questa?, si chiese tra sé e sé.
Hydra non si scompose, rimanendo appollaiata a gambe incrociate su un armadio per gli archi. – Non vorrei che il mio compagno di distretto si facesse male, sai?
Nate alzò gli occhi al cielo. – Certo. E tu perché hai deciso di non fare nulla standotene seduta lassù?
L’altra scrollò le spalle, sorridendo enigmatica. Aveva qualcosa di furbo, si poteva leggerglielo nello sguardo.  – Non ho bisogno di uno stupido Centro Addestramento per vincere.
– Ah, però, vedo che sei molto sicura di te –
ribatté lui con un piccolo ghigno. Le si avvicinò, arrivando fin sotto l’armadio. – Male, Hydra Devine, molto male.
Hydra alzò un sopracciglio, scettica e sardonica.  
– Se ricordo bene, fu Eracle a uccidere il drago. O sbaglio? – aggiunse retoricamente. Amava sentirsi superiore alle persone in quel modo. Gli riusciva bene, dopotutto. Anche perché lui era superiore, non c’erano dubbi.
La ragazza non rispose, ma sogghignò lievemente. – Ti auguro buona fortuna, allora, Eraclefece una pausa. – Te ne servirà molta per abbattere tutte le mie teste.*
Con un balzo scese dall’armadio, passandogli accanto e raggiungendo un’altra postazione.
Era davvero strana, quella ragazzina, si ritrovò a pensare. Per avere quindici anni sembrava molto perspicace… e pericolosa.
Non era affatto come le gallinelle che gli correvano dietro a cui era abituato.
Era interessante, in qualche modo.
Un vero drago.
Nathaniel stava tentando di comprenderla, ma depose immediatamente le armi. Era un rompicapo, un assurdo enigma che gli era capitato sulla strada.
Poco male.
L’avrebbe risolto lo stesso, che lei lo volesse o meno.

Josh si guardava intorno. Vedeva tributi che s’impegnavano ovunque.
Lui invece non era affatto invogliato dalle infinite postazioni che probabilmente l’avrebbero aiutato a sopravvivere, ma se ne stava in un angolo ad esaminare il grande acquario contenente pesci di varie specie.
Lui non ne aveva mai visti, provenendo dal Distretto 7, perciò era rimasto ipnotizzato da quella danza subaquea.
Si ridestò. Non era il caso rimanere senza fare nulla, ne andava della sua vita.
Scelse con attenzione la sua seguente postazione, preferendo una piccola lezione pratica con un kit di pronto soccorso.
C’era un addestratore che medicava un volontario esterno, a cui stava mettendo dei punti sul braccio.
– Mettete prima dello spry antidolorifico se la ferita è molto profonda, è anche quello che disinfetta.
Josh non aveva paura del sangue, per cui cercò di osservare, ma non capì quando nell’arena ci sarebbe mai potuto essere un kit tanto attrezzato come quello. Sarebbe stato sicuramente da chiedere agli sponsor.
Non sarebbe mai andato alla Cornucopia a prenderlo. Non ne era in grado, se paragonato a Yaacov o a Nathaniel, che oltre a essere dei Favoriti avevano l’aria di essere ragazzi senza pietà, specialmente il primo.
Josh lo osservò da lontano, notando la sua maniacale attenzione nello scegliere e lucidare le sue armi prima di attaccare.
Il tributo del Distretto 1 aveva un che di inquietante. Non sapeva spiegarsi bene cosa, ma preferiva tenersi alla larga da lui per evitare ripercussioni.
Sembrava una macchina, un essere senza sentimenti.
In quel momento, con una lancia, stava torturando un manichino che, se fosse stato vivo, avrebbe urlato dal dolore.
Yaacov era impassibile. Colpiva e colpiva con una calma glaciale.
Sembrava spietato, disumano.
Ma chi era lui per giudicare, d’altronde, se non un semplice ragazzo che guardava dall’esterno? Nessuno.
Josh aveva imparato, nel corso della sua breve vita, a non giudicare mai, perché non si sa mai cosa si prova quando non si è nei panni del giudice. A lui probabilmente avrebbe dato fastidio, per cui si limitò a non farlo.
Non conosceva la sua storia – e dallo sguardo vuoto e spento di Yaacov si poteva comprendere che ce ne fosse una abbastanza dura alle spalle – né l’aveva conosciuto di persona.
Non fare agli altri quello che non vorresti facessero a te.
Quei proverbi gli erano sempre tornati utili, ma dubitava che nell’arena qualcuno ne avrebbe seguito la malcelata saggezza.
L’unica regola dell’arena era semplicemente: uccidi o muori.
Niente di più chiaro, probabilmente, persino per il Favorito dell’1.

Evelyn, nel frattempo, aveva appena individuato la sua postazione preferita, quella degli archi. Eccitata, senza neanche dare un semplice sguardo alle altre armi o alle tecniche di sopravvivenza, aveva subito preso una faretra piena di frecce e un arco, che in quel momento stava testando su alcuni bersagli fissi.
Due centri perfetti, un tiro un po’ andato male e un altro centro.
Si sentiva abbastanza soddisfatta, ma avrebbe preferito fare di meglio, come concentrarsi sulla successione di più freccie consecutive e sui bersagli mobili.
Dopo l’ennesimo centro, sbuffò. Si guardò intorno, notando che molti tributi erano spaesati o distratti dalle tecniche più futili.
La ragazza del 10 se ne stava ferma in un angolo a fissare il vuoto; quella del 7 saltellava in giro.
Che stupide. Non aspettano altro che morire alla Cornucopia, si disse, roteando gli occhi. E poi si lamentano anche.
Per Evelyn gli Hunger Games erano tutta una questione di preparazione e di furbizia, soprattutto. Non erano ammessi né gli agnellini dal cuore d’oro, né gli stolti che pensavano di poter vincere con un semplice schiocco delle dita.
Scrollò le spalle e decise di fare un giro per la sala, pur continuando a tenere il suo adorato arco in mano e la faretra in spalla.
Passò davanti alla postazione delle katane – gli avevano rivelato in passato che si trattava di antiche spade giapponesi lunghe e sottili –, con cui la ragazza dell’1 si stava allenando; passò l’istruttore di mimetizzazione, alle prese con il piccolo falco del 9 – che, travestita da cespuglio, a malapena si riconosceva – e, ancora, accanto alla postazione delle erbe mediche, molto meno frequentata.
Un piccolo sorriso le adornò le labbra, pensando bene che sarebbe stata molto più furba degli altri se non l’avesse tralasciata, ma poi, di colpo, provò una tristezza infinita.
Tellie era quella esperta di botanica. Era eccezionale, ma era stata uccisa.
Fatta fuori brutalmente da un Favorito alla Cornucopia.

– Tel, ricordati di me – le aveva sussurrato durante l’incontro al Palazzo di Giustizia. – Non voglio che tu muoia.
– Non morirò, Eve, te lo prometto. Potremmo tornare a giocare nei boschi e mangiare le bacche insieme come prima, non preoccuparti –
diceva la dodicenne Tellie, mentre le lacrime rigavano il suo viso un po’ denutrito e la sua voce era scossa dai singhiozzi.
– Solo le bacche buone, però – mormorò Evelyn con una risatina, ma piangendo come la migliore amica.
– Certo, altrimenti quando tornerò ti ritroverò un po’ morta – la situazione era molto triste, ma entrambe smisero di versare lacrime amare e cominciarono a chiacchierare come se fosse un giorno qualunque, finché un Pacificatore non portò Evelyn fuori dalla stanza.
– Ci vediamo presto – sussurrò la bambina.
Ci vediamo presto…

Evelyn si rabbuiò, e posò l’arco sulla prima panca che le si parò davanti. Non si erano riviste. Tellie era spacciata sin dall’inizio, doveva saperlo.
Si sedette laconicamente accanto all’istruttore che, speranzoso, cominciò a spiegare le proprietà benefiche di alcune piante.
Le mostrò una bacca rossa come il sangue.
– Vedi questa non è… –
– … una bacca benefica, lo so. E’ un Morso della notte –
concluse lei al posto dell’uomo, che rimase allibito. Stava per ribattere, quando un’altra ragazza si avvicinò di soppiatto.
– Come hai imparato queste cose? Credevo che i Morsi della notte crescessero solo nel mio distretto. Li usiamo per avvelenare gli animali nocivi, sai? – disse quella, con un tono interessato.
Evelyn la scrutò dal basso della sua panca. Era il piccolo-grande angelo del Distretto 11.
– America, giusto? – chiese con un sopracciglio alzato.
– Giusto – rispose lei con un piccolo sorriso soddisfatto. Le era sempre piaciuto che la gente si ricordasse di lei. – E tu devi essere Evelyn.
– Affermativo –
disse la bruna. – E, per rispondere alla tua domanda, l’ho studiato a scuola.
Non poteva dirle la verità, che aveva imparato a riconoscerle nei suoi amati boschi perché gli animali si tenevano lontani da esse.
– Studiate queste cose? – domandò America stupita, sedendosi accanto a lei. – Insomma, noi non abbiamo mica delle scuole così.
– Più o meno –
rispose l’altra laconica.
– Ho visto che sai usare l’arco – fece la bionda, realmente interessata.
Evelyn non capiva dove volesse andare a parare. Lei non voleva alleati, non se prima o poi sarebbero morti lasciandola nella solitudine più profonda. Non se avrebbero fatto la fine di Tellie.
Annuì.
– Beh, anch’io. Guarda qua – affermò, andando a recuperare l’arco. La quattordicenne incoccò una freccia, fece un respiro profondo e la scoccò, facendola passare accanto all’orecchio di Josh Gilmour e colpendo un bersaglio dall’altra parte della sala.
Il ragazzo, sentendosi chiamato in causa, si voltò accigliato e fissò le due ragazze con sguardo infuriato.
– Volevate ammazzarmi? – fece, avvicinandosi a loro.
America ridacchiò. – Certo che no. C’è ancora tempo per quello, riccio.
Josh rimase allibito da quell’affermazione. – Guardati le spalle, biondina, durante i giochi. Potresti ritrovarti una freccia nell’orecchio.
L’altra non batté ciglio. – Che paura, Distretto 7!
Il ragazzo inspirò profondamente per evitare di saltarle addosso. – Ricorda le tue parole, poi vedremo chi avrà la meglio.
America ghignò lievemente. – Ci conto, eh! – Quando Josh se ne fu andato, la bionda si voltò verso Evelyn. – Che te n’è parso del tiro?
La ragazza del 12 guardò le diverse possibilità. Farsela nemica. Farsela alleata.
Le strinse la mano. – Niente male, davvero.

Sennar si stava esasperando. Essere rinchiuso in quel posto non lo aiutava.
Si era un po’ esercitato con le armi che già sapeva usare – il tridente e la lancia –, ma l’aveva usate come riscaldamento perché non voleva dare sfoggio di sé, specialmente davanti agli altri Favoriti che lo osservavano con aria di sufficienza.
Che vadano al diavolo, si disse, passandosi una mano tra i capelli che gli ricoprivano il viso leggermente imperlato di sudore.
Non sapeva neanche se si sarebbe unito a loro.
C’era Yaacov che incuteva una certa dose di timore, Ibiza che sembrava concentrata ma un po’ fuori luogo, Hydra che camminava in giro senza neanche sfiorare le postazioni, Nathaniel che con la spada faceva a brandelli un altro manichino, e infine la sua compagna di distretto, Samantha, che tentennava dinanzi a una trappola fatta di reti da pesca.
Le si avvicinò furtivo, sperando che lei non lo notasse.
E invece Samantha si voltò di scatto nella sua direzione, trovandoselo a pochi passi di distanza. – Che vuoi? – chiese sbrigativa. – Sono impegnata, non vedi?
Sennar la scrutò per un secondo dal suo capezzale. La frangia sfilzata e albina le copriva gli occhi, per cui non riuscì a decifrare il suo sguardo felino.
Sospirò. – Non è così che si fa un pungo di scimmia.**
– Piantala. Sono fatti miei, se non ti dispiace – replicò la ragazza acidamente. – Tu non sapresti fare di meglio con questi lacci – aggiunse, con una punta di sarcasmo, senza riuscire a trattenersi.
Gli angoli delle labbra di Sennar si incurvarono all’insù. Le prese i lacci da mano senza che lei potesse opporsi.
– Vediamo, allora – fece Samantha ironica, incrociando le braccia al petto.
Con una naturalezza disarmante, il ragazzo eseguì in pochi istanti il nodo tanto discusso.
– Ecco – disse lui, facendo penzolare quell’insieme di lacci intricati davanti al suo viso.
L’altra non poté ribattere, ma sbottò senza cerimonie: – Proveniamo dallo stesso distretto, ma io non sono la pescatrice modello che tutti si aspettano, bel fusto.
E questo non è neanche il mio vero volto. E’ solo una maschera, aggiunse col pensiero, mentre il compagno si voltava verso una fonte di rumore.
A pochi metri da loro, una dei tributi aveva fatto cadere la maggior parte delle lance a terra, provocando un baccano incredibile.
Era stata Karité.
Molti si voltarono verso di lei, altri la lasciarono perdere.
La ragazza del 10 si era portata automaticamente le braccia al petto in un gesto di difesa e fissava tutti con tanto d’occhi.
Aveva occhi grandi, Karité, luminosi ed espressivi come quelli di un cerbiatto alla scoperta del mondo.
A Sennar ricordò terribilmente sua sorella Elle, in quel momento. Indifesa. Spacciata, quasi.
– Sta’ più attenta, ragazzina – la rimproverò Atala con uno sguardo severo.
– Mi dispiace – sussurrò l’altra, così piano che nessuno poté sentirla. Si guardò intorno cercando con lo sguardo qualcuno di familiare, qualcuno che la facesse sentire a casa. Ma trovò solo occhiate perplesse, per lo più rivolte a lei.
Per un momento incontrò gli occhi di Sennar, blu come due zaffiri, o come il mare in bonaccia. Ne fu colpita, tanto da cominciare a credere finalmente di aver visto il mare per la prima volta nella sua vita.
Erano limpidi, puri, come il cielo poco prima che faccia sera.
In cuor suo sapeva – o sperava di aver trovato qualcuno che la facesse sentire meno sola, qualcuno che non la considerasse una pazza visionaria come tutti.
Fire le aveva sempre detto che loro padre aveva occhi molto simili a quelli.
Se ne sentì sollevata, e sorrise placidamente prima di ritirarsi in un angolino sperduto lontana da persone indiscrete.

– Mi stai dicendo che non sai usare neanche un’arma? – chiese il ragazzo con una piccola risatina. – E non sai neanche fare a botte?
Lorelei fissava Richard dal basso verso l’altro. Le si era avvicinato mentre si vestiva da cespuglio, con il suo solito atteggiamento strafottente e le mani in tasca, come se non avesse nulla di più importante da fare.
La ragazzina del 9 inarcò le sopracciglia. – Non parlarmi come se fossi una bambina, idiota.
L’altro non sembrò minimamente scalfito da quell’insulto gratuito. Piuttosto, le sue labbra si curvarono in un ghigno. – E’ tutto ciò che sai fare, piccola?
Lor non lo calcolò, riprendendo ad ornare le sue braccia di foglie e ramoscelli vari.
Richard, che non demordeva facilmente, le mise una mano sulla spalla, in un ironico gesto di conforto. – Come ti capisco, anche io a dodici anni ero così ingenuo.
Bugia, si disse tra sé. Panem mi ha rubato l’ingenuità molto prima.
La dodicenne sbattè un momento le ciglia e inspirò, tentando ancora una volta di non considerarlo. Non voleva avere a che fare con quel tipo.
– Andiamo, ce l’avrai la lingua, no?
Lorelei si voltò verso di lui, con un’occhiataccia ammonitrice. – Smettila, Distretto 12. Lasciami in pace.
Richard alzò le mani in segno di resa. – Scusami. Hai ragione, non dovrei importunare delle giovani donzelle senza speranza.
Fu allora che l’altra esplose, puntando un dito accusatore verso di lui. – …Coglione!
Stà. Zitto. –
Fece una piccola pausa ad effetto. – Ché sarai tu il primo a morire.
Il ragazzo scosse la testa ridendo. – Woah! Mi piaci così, ragazzina! Non farti fottere dai più grandi, ok?
Stavolta fu Lorelei a sorridere di soddisfazione. – Lo terrò a mente – disse. – Basta solo che non mi fai da madrina, sarebbe davvero…
– Davvero? –
la incitò Richard.
– Controproducente – puntualizzò.
Il biondo affievolì la sua espressione arrogante, pur mantenendo sempre il suo atteggiamento. Lorelei era un’interessante, possibile alleata. Sembrava in gamba, nonostante quello che avesse detto lui in precedenza.
– Diciamo che hai capito come va la vita – fece. – Gli altri dovrebbero stare alla larga da te.
– Per fortuna l’hai capito –
ribatté Lorelei. – Ora lasciami ai miei esercizi, anche se temo che dovremmo rivederci presto.
– Andiamo, so che stai già aspettando quel momento, biondina –
replicò Richard, ammiccando.
– Ma anche no – disse la ragazzina facendo spallucce.
Il ragazzo le ammiccò un’ultima volta, prima di girarsi e dirigersi alla postazione dei coltelli.
Lorelei pensava che Richard fosse estremamente strano per essere capitato agli Hunger Games. Era proprio quel tipo di persona con cui Capitol detestava avere a che fare. Sperò davvero che non venisse penalizzato per questo, dopotutto lui era un tributo come tutti gli altri.
In fondo – ma molto in fondo – le stava simpatico.
– Distretto 12! – lo chiamò.
Richard si voltò verso la sua voce.
– Non farti troppo male con quei coltelli! Non vorrei doverti fare da balia.
La risata dell’altro, nonostante si trovassero a diversi metri di distanza, riecheggiò cristallina.

Quattro tributi, estraniandosi dagli altri, stavano seguendo con attenzione la lezione di arrampicata su pareti scivolose. L’addestratore, un tipo alto e magrissimo che pareva quasi un elfo, si era assicurato a una corda e faceva vedere ai ragazzi come proseguire. La parete, costellata di prese per mani e piedi, era stata inumidita con del fango.
– Non credete che sia facile – disse loro. – Un piccolo errore e potreste essere morti.
– Grazie per avercelo ricordato –
commentò Bleika ironica. Accanto a lei, Julian sorrise mestamente a quella replica.
L’addestratore la ignorò, prendendo a scalare la parete fangosa.
– Ho una domanda – annunciò Julian, facendo un passo avanti. – Non avremo di certo delle corde nell’arena, come faremo?
Evidentemente l’istruttore non sapeva rispondere a quella domanda, perché balbetto frasi sconnesse e senza senso. Quando scese, baldanzoso e rosso in viso, disse: – Ora provate voi.
Diede a tutti e quattro delle corde e dei caschi che ricordavano molto quelli dei minatori, gialli e saldi.
Ognuno di loro di stabilì su una parte della parete, un po’ distanziati.
Quella che sembrava avere più difficoltà era Luna, perché era sempre stata abituata ad arrampicarsi sugli alberi, non sul fango. E poi le sue scarpette consumate la facevano scivolare spesso.
Adam, accanto a lei, la guardava preoccupato. – Vuoi una mano?
Luna in un primo momento scosse la testa, poi, quando scivolò di nuovo, si accostò al ragazzo del 6, che le mise una mano intorno alla vita per aiutarla.
– Ecco, vedi, devi solo essere un po’ più prudente, come ha detto l’istruttore.
La ragazzina si sentì rincuorata da quell’aiuto. Dalle sue parti era raro che un suo compagno la sostenesse in quel modo.
Ma lei non poteva sapere che Adam la sentiva vicinissima a sua sorella Keira, perché le due erano molto simili, anche fisicamente.
Lui era protettivo, gentile e altruista, anche se un po’ sulle sue. Le ispirava fiducia come nessuno aveva fatto fino a quel momento.
Luna aveva provato a studiare un po’ tutti i tributi da lontano e quelli che le stavano più simpatici erano Julian, Bleika e Adam stesso, per questo si era unita a loro. Quest’ultimo in particolare era diverso da chiunque altro. Aveva un’aura benigna, speciale. L’aveva capito dai suoi occhi grigi come il ghiaccio e un po’ spenti come le nuvole poco prima della pioggia.
Luna, a pelle, si fidava di quegli occhi, ne era sicura.
Julian, dal canto suo, era concentrato al massimo perché raramente nel suo distretto aveva provato ad arrampicarsi.
Gli riusciva abbastanza difficile, a dire il vero, ma tentava in tutti i modi di non scivolare e cadere.
Nonostante la corda a cui era legato, infatti, aveva il terrore di precipitare.
Bleika, che sembrava davvero a suo agio grazie al suo corpo flessibile e agile, gli si accostò con un gran sorriso. – Non vuoi morire prima di entrare nell’arena, vero?
Julian scosse la testa, cercando di non guardarla per evitare di scivolare. – Direi di no.
– Ottimo –
ribatté lei, genuina. – Ma scommetto anche che non vuoi morire affatto.
La cosa era paradossale, ma entrambi scoppiarono a ridere, rischiando anche più volte di capitolare.
– No, assolutamente no – rispose Julian con sincerità. – Anche se l’idea di uccidere mi disgusta.
La ragazza tornò seria, guardando verso l’alto, la parte superiore della parete. – Abbiamo una cosa in comune, allora, a quanto pare.
Anche Julian si rabbuiò. – Non capisco come una persona possa desiderare di volerlo fare.
Bleika non rispose, pensosa.
– Prendi quelli del 2, ad esempio. Non vedono l’ora di farci a fettine – aggiunse il ragazzo.
– Pare di sì – ribatté l’altra, voltandosi un momento verso Hydra, che bighellonava in giro. – Ma non m’importa.
Julian assunse un’espressione interrogativa. – Non… t’importa?
– Capitol non mi cambierà. Gli Hunger Games non mi cambieranno –
confessò Bleika, decisa. – E se dovrò uccidere qualcuno di disarmato e indifeso, beh, sappi che non lo farò affatto.
Il ragazzo rifletté su quelle parole per qualche minuto. – Non puoi permetterti di ragionare così.
Lei lo guardò delusa, credendo che non avesse compreso il suo discorso. – Invece posso. E’ il mio modo di ragionare, non posso farci nulla.
Julian la fissò intensamente negli occhi, rimanendo profondamente colpito dal loro color del cielo e dall’incredibile voglia di libertà che sprigionavano.
Bleika era una rondine chiusa in gabbia. Ma si sarebbe liberata presto, spiccando un volo senza fine.
– Hai ragione – concluse lui. – Ma dovrai usare altre armi per difenderti.
– Già –
replicò Bleika. – Le mie armi.
E molto probabilmente non si riferiva a delle lame o a delle pallottole, ma alla sua forza interiore e alla sua morale.
Quando l’arrampicata fu finita, nessuno si era fatto male.
I quattro si guardarono a vicenda. Avevano trovato dei possibili alleati e ne erano coscienti.
Forse sarebbero stati meno soli in quella solitudine passiva che erano i Giochi della Fame.

Skye era rimasta alla postazione dei coltelli per un’ora abbondante. Li sapeva già usare parzialmente, ma aveva preferito esercitarsi di più con quelli che con la balestra, visto che questa era l’arma che conosceva meglio.
Su diversi tiri, pur avendo calibrato il peso e la distanza, ne aveva centrati solo tre, il che per lei era inconcepibile.
Ma, dopotutto, era solo il primo giorno al Centro Addestramento. Poteva sempre migliorare.
Decise di fare una pausa. Bevve un po’ d’acqua da una bottiglina che aveva fornito lo staff ad ogni tributo.
Guardando il resto dei ragazzi nella grande sala, capì che non aveva bisogno di nessun alleato per sopravvivere. Era in gamba, poteva farcela da sola.
E poi nella sua vita aveva imparato che a meno persone ci si affezionava, meno si aveva l’ansia e la paura di perderle. Un sollievo per lei, insomma.
Doveva già badare a suo fratello Tyler, così magari, vincendo, avrebbe potuto trovare la cura a quella misteriosa malattia che gli aveva afflitto i polmoni.
E poi gliel’aveva promesso. Aveva promesso che sarebbe tornata sana e salva da lui.
Si legò i lunghi capelli color mogano in una coda alta, per essere più pratica. Prima che potesse ricominciare con i coltelli, però, una voce dietro di lei la fermò.
– Non è così che s’impugnano – aveva detto Everett Hughes leggermente imbarazzato.
Skye si voltò verso di lui stizzita ma, quando incrociò il suo sguardo smeraldino non potè non rilassarsi. – E come dovrei impugnarlo, scusa?
Everett si passò una mano tra i capelli. – Beh, devi essere meno rigida e più sciolta.
– A quanto pare ne sai più di me in materia, Distretto 8 –
disse con falsa modestia. – Perché non mi fai vedere?
Skye non voleva un alleato. Skye voleva una marionetta, una persona che facesse il lavoro sporco per lei.
Detestava a volte essere così fredda, calcolatrice e manipolatrice, ma ne andava della sua vita. E di quella di Tyler.
Everett, vagamente sollevato, le si avvicinò e prese uno dei coltelli, soppesandolo per un secondo. Con agilità malcelata lo lanciò, colpendo un punto poco lontano dal cuore del manichino.
– Niente male, Distretto 8 – disse con poca sincerità. – Dovresti insegnarmi.
Il ragazzo prese bene la proposta, aiutandola nelle seguenti due ore, dove Skye apprese qualche tecnica in più.
E mentre i due si esercitavano, qualcuno li osservava da lontano e in silenzio.
Alec era alto e di fisico ben piazzato, ma aveva un’abilità non comune a tutti: il silenzio. Quando camminava a stento ci si accorgeva della sua presenza, motivo per cui Skye ed Everett non si erano accorti di niente.
Il ragazzo del 9, pur essendo piuttosto riservato, era rimasto colpito dai due tributi, anche perché sembravano entrambi disponibili e meno scontrosi degli altri.
Pur riluttante, si accostò ad Everett, che si voltò verso di lui con un’espressione interrogativa. Alec era anche più robusto di lui, non vedeva come potesse essere interessato a un’alleanza vista la sua corporatura esile e poco allenata.
– La postazione dei coltelli sembra una delle più frequentate – disse sforzandosi di sorridere. La verità era che non c’era niente di divertente o ironico in quella situazione. Tre ragazzi che provano a stringere alleanza per evitare di morire subito.
Skye alzò un sopracciglio, Everett annuì passivamente. – Forse sono l’arma più semplice da usare.
– Non credo –
affermò Alec. – Io ad esempio sono pessimo in queste cose. Non ho una buona mira.
– Quella si acquista con il tempo –
replicò il ragazzo dell’8, rincuorato che qualcun altro volesse fare amicizia con lui. – Stavo giusto spiegando a Skye come…
– Ora devo allenarmi –
lo liquidò la ragazza con un’espressione di superiorità. – Tanti saluti.
Alec rimase deluso dal suo comportamento, tanto che riprese a parlare con Everett evitando di calcolarla. Era strana, Skye. Senza scrupoli.
O forse era solo quello che voleva far credere a tutti.

– Fatemi stare con voi – disse Makaira convinta. – Non ve ne pentirete.
Nathaniel e Hydra soffermarono lo sguardo su di lei. – E perché dovremmo? – chiese la ragazza con una risatina.
La ragazza dell’8 non ci pensò neanche due volte. Si voltò verso un manichino e tirò tutti e tre il coltelli che aveva in mano, centrandogli la fronte. Si girò nuovamente. – Perché potrei essere un’avversaria pericolosa.
I due ragazzi del Distretto 2 ghignarono, ma si limitarono a non rispondere.
– Beh? – fece Makaira, stizzita.
– Benvenuta tra i Favoriti, allora – disse Hydra, pur mantenendo la sua espressione sardonica. Potresti tornarci utile, si disse la rossa tra sé.
Mentre la bruna si allontanava con un piccolo sorriso soddisfatto, qualcuno le prese il polso, facendola voltare di scatto.
– Sei tu Makaira Win?
La ragazza fissò Jesse Chletter dalla testa ai piedi. Obiettivamente un bel ragazzo, le sue spalle larghe e il fisico muscoloso potevano incutere timore.
– Già, sono io – rispose incrociando le braccia. Il suo era un invito a proseguire.
Makaira aveva dei grossi sospetti sul perché l’avesse bloccata nel bel mezzo della sala.
– E’ tutto quello che volevo sapere – fece Jesse, lanciandogli uno sguardo infuocato. Quello che brillava nei suoi occhi era odio puro. Stava per andarsene, ma fu l’altra a bloccarlo stavolta.
– Ne sei sicuro, Chletter? Non vuoi sapere di più?
Jesse non provò neanche ad ignorarla. Gli iniziarono a prudere le mani. – Sono sicurissimo, piccola stupida favorita.
Makaira inarcò le sopracciglia. – Io sarei stupida? – chiese, cominciando poi a ridere come se avesse appena ascoltato una barzelletta.
Il ragazzo le prese di nuovo il polso. – Sì, tu e quella stronzetta di tua sorella.
Lei smise di ridere, tornando seria. Non sopportava quando offendevano Camilla. Era una persona speciale, non meritava di morire.
– Offendi di nuovo mia sorella e sarai morto prima di entrare nell’arena – fece, puntandogli un dito contro.
Jesse non si scompose affatto. – Ne dubito. E poi tu farai la sua stessa fine, contaci.
Makaira non poté resistere olte. Gli saltò letteralmente addosso, cacciando un coltellino da una lasca e puntandoglielo alla gola. Jesse si dimenò, finché la quattordicenne non cadde a terra, per poi rialzarsi di nuovo e menargli un calcio che non andò a fondo.
– Smettila. Sei solo una bambina – disse il ragazzo con un piccolo ghigno. – Una stupida bambina viziata.
Makaira urlò di rabbia, riprendendo ad attaccare con una furia, finché non fu tirata via da Atala in persona, che si era accorta del trambusto.
Entrambi furono rimproverati severamente per la loro condotta infantile, ma la ragazza non aveva occhi e orecchi che per Jesse. Lo fissava come se lo stesse uccidendo con lo sguardo.
Ti ammazzerò, Chletter. Ti ammazzerò come Camilla ha fatto con tuo fratello.
Anche l’altro sembrava furioso e voglioso di vendetta. Non aveva pensieri che per Clay. Vendicherò mio fratello, stupida favorita nata nel distretto sbagliato.
Sembrava un odio destinato a perdurare, quello che si era creato tra i due.

Ibiza, dopo essersi allenata con la katana e il giavellotto, se ne stava seduta su una panca a riprendere fiato e per bere un sorso d’acqua.
Si guardò intorno per scegliere la sua prossima postazione, stavolta preferendo concentrarsi sulle cose che non sapeva fare. Che erano poche, tra l’altro.
Non era stata addestrata per nulla, in fondo, nonostante si fosse offerta unicamente per la cugina Jade. Non per orgoglio. Non per la fama – che aveva già in grande quantità – né per il denaro.
Nel Distretto era conosciuta come la figlia dello spagnolo, una ragazzina che prometteva bene ma che non avrebbe mai concluso niente di importante nella vita, se non sposarsi con un altro ragazzo ricco del distretto, per poi dar vita a una progenie di uguale prestigio.
Ma Ibiza non era destinata a quello. Ibiza era destinata ad aiutare le persone, anche quelle meno fortunate, a farle rallegrare e donare un sorriso a chi non poteva permetterselo.
Ibiza era una persona buona, che non meritava un destino del genere, già prescritto.
A soli tre anni era stata buttata nell’Istituto della Guerra, per prepararsi sin dalla tenera età per gli Hunger Games, anche quelli previsti dalla sua prosperosa famiglia.
Non aveva mai fatto nessuna scelta da sola, aveva sempre dovuto sottostare agli ordini degli altri, ma ormai vi era abituata. Voleva solo tornare a casa da Jade. E da Chiyo e Rommel, le sue migliori amiche. A qualunque costo.
Si avvicinò all’istruttore di mimetizzazione.
– Scusi – gli disse, nonostante quello fosse di poco più grande di lei. – Ho bisogno d’aiuto.
L’addestratore si fece tutt’orecchi.
– Vede… so nascondermi, ma il mio problema è che sono troppo rumorosa… mi può aiutare?
Il suo interlocutore fece un mezzo sorriso. – Pare che tu abbia lo stesso problema di quel ragazzino – fece indicando qualcuno poco più in là, alle prese con pitture e ramoscelli vari.
Le sembrò che fosse Vladimir, il tributo del Distretto 11, il più giovane dei maschi.
Gli si accostò, osservandolo di sottecchi. Le pareva simpatico, con quei riccioli biondi e le lentiggini che davano un tocco di innocenza al suo volto abbronzato.
Vladimir, avendola sentita arrivare, si voltò verso di lei con gli occhi sorridenti. La verità era che non vedeva l’ora di parlare con qualcuno. Odiava stare da solo.
– Ciao – la salutò gioviale, come se non stesse aspettando altro che parlare con lei. – Anche tu con la mimetizzazione?
Ibiza annuì energicamente. – Ho bisogno di perfezionarmi – gli disse.
– Credevo che quelli dell’1 fossero sempre perfetti – ammise Vladi con sincerità, senza peli sulla lingua.
La ragazza scorllò le spalle. – Nessuno è perfetto, tantomeno io.
Il ragazzino la osservò per qualche secondo, spostando i suoi occhi verde scuro sul volto ispanico dell’altra. Non sembrava affatto la classica favorita. Se se la fosse fatta amica magari si sarebbero potuti proteggere a vicenda.
– A chi lo dici, sapessi quanto rumore faccio solo quando respiro – disse allora con un sorriso genuino.
Ibiza rispose al sorriso in egual modo. – Siamo in due, quindi. Sto praticamente cercando di parlare a bassa voce.
Vladimir ridacchiò. Gli stava decisamente simpatica. – Proviamo a mimetizzarci insieme allora, ti va?
La ragazza sembrò felice di aver conosciuto qualcuno di così disponibile e aperto – a differenza, per esempio, del suo compagno di distretto.
– Certo… spero solo di non attentare alla tua vita.
Entrambi risero e, allegramente, si strinsero la mano.
Forse da quei giochi sarebbe nato qualcosa di buono, dopotutto.
 
Come scegliersi gli amici? […] Bastano le parole e i sorrisi?
Basta un saluto, un cenno, una risata?
Probabilmente no. Non bastano, mai. A differenza della guerra e dell’amore, in amicizia non tutto è lecito.
























* La famosa leggenda secondo la quale Ercole (Eracle per i Greci) uccise l’Idra, l’imponente drago dalle infinite teste.
**Un tipo di nodo marinaio






Leddy’s Corner:
Salve, giovani donzelli e donzelle. Indovinate? Sono in ritardo!
Che bello!
*passa una balla di fieno*
Bene, scusatemi. Avevo promesso che avrei postato per Lunedì e invece non l’ho fatto. Perdonatemi, ho avuto una montagna di cose da fare  in questi giorni prefestivi ç_ç
Veniamo al capitolo. E’ una schifezza assurda, vero? Ecco, l’avevo immaginato.
Questo è il battesimo del fuoco, quello in cui tra i vostri personaggi tutto comincia.
Spero sempre di averli trattati tutti bene, è il dubbio che mi preme maggiormente.
Comunque, spero che Ari non me ne voglia, ma avevo intenzione di creare un gruppo su facebook come lei, perché ha avuto un’idea geniale *-*, in cui discutere della storia.
Se siete d’accordo basta che me lo fate sapere via messaggio con il link della vostra pagina facebook, così vi aggiungo.
Sarà il posto in cui potrò postare tutte le schede, le foto e le informazioni per le sponsorizzazioni, che ho deciso di pubblicare a tutti nel capitolo della Cornucopia.
E magari vi rivelerò anche qualche spoiler!
Accettate, così potrete conoscere bene tutti gli altri personaggi e delirare un po’ con noi :3
Ora vado, che ho un sonno cane. A presto, e fatemi sapere se volete aderire al gruppo!



Leddy



 

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Capitolo 5
*** 04. Capitolo quattro ~ Maschera. ***












 

G  li animi forti s’innalzano
sopra la sorte
  .

 

(  Sessantatreesimi Hunger Games  )
 





04. Capitolo quattro – Maschera






Ci sono delle volte in cui mentire è inevitabile, altre in cui ci fa star male e altre ancora in cui l’indifferenza verso il dire delle bugie è palese.
Mentire equivale a indossare una maschera: nessuno riesce a vedere il tuo vero volto, la verità.
Tutti i tributi indossano una maschera.
Quello che nell’arena sarà costretto a diventare un arciere a casa era un giovane figlio; quello che nell’arena sarà costretto a diventare un assassino a casa era un giovane fratello; quello che nell’arena sarà costretto a fingere a casa era un giovane fidanzato.
E gli impazienti capitolini, sui loro comodi divani, si divertono guardando quest’intricato gioco di maschere, mentre i tributi rischiano qualsiasi cosa pur di uscirne vivi.



La saletta degli strateghi era posta in alto, in modo che questi avessero potuto osservare con attenzione ogni tributo che passava sotto il loro esame, anche se ciò in realtà non avveniva. Preferivano di gran lunga bere del vino e chiacchierare tra di loro, mentre un maiale arrosto veniva servito su un ampio vassoio d’argento, contornato da verdure prelibate e frutta secca. In genere veniva portato da alcuni senza-voce che prestavano servizio al Centro Addestramento.
Cicero Feestage, il brillante e panciuto Capo-stratega dai cappotti maculati, si aspettava di tutto. Aveva già osservato in precedenza tutti i tributi, sia alle mietiture che durante l’allenamento a Capitol e aveva notato con piacere insieme ai suoi colleghi che il livello di quell’anno era molto alto. Per la maggior parte sembravano in gamba, disposti a tutto,  nonostante ci fossero anche quelli impauriti o rassegnati al proprio destino.
Voglioso d’iniziare, ordinò al suo secondo, Ionas Lightwood*, di aprire le danze con lo scalpitante Distretto 1.
Tutti gli strateghi si misero in posizione – dopotutto cominciavano a rilassarsi soltanto dopo aver esaminato i primi quattro ragazzi, i cosiddetti Favoriti.
Ionas chiamò il primo nome. – Yaacov Sherday.
Il ragazzo dai capelli corvini entrò con la sua solita espressione impassibile, dirigendosi senza preamboli verso la postazione delle spade.
Con abilità – come se fosse nato soltanto per quello – ne prese due e cominciò a rotearle in aria, finché non si scagliò verso dei poveri manichini sulla sinistra.
Menò dei fendenti tanto precisi da rasentare la perfezione, colpendo i punti vitali e abbattendo i bersagli con rapidità disarmante.
Era calmo, Yaacov, non lasciava trasparire nessuna emozione.
Non era arrabbiato, o compiaciuto. Neanche lontanamente preoccupato o nervoso.
Cicero e Ionas si stupivano ogni volta, come la prima volta, della sua freddezza senza pari.
Il ragazzo era una vera macchina da morte, il moderno Attila, un flagello, che era capace di torturare e infliggere dolore con facilità estrema.
Gli strateghi pensarono che i tributi avrebbero dovuto avere molta paura di lui e che se avessero preferito la sopravvivenza ad una morte atroce gli sarebbero dovuti stare alla larga, addirittura a chilometri di distanza.
Solo poche gocce di sudore gli imperlavano il viso dai tratti un po’ marcati, ma per il resto ostentava una concentrazione micidiale.
Dopo aver fatto letteralmente a pezzi una decina di manichini, si spostò verso i coltelli.
Cicero s’incuriosì di questa sua scelta, visto che chiaramente aveva maggiore potenziale con le armi che richiedevano uno scontro diretto, per cui rimase a guardare.
Anche in quel frangente fu impeccabile. Tirò coltelli da quasi dieci metri di distanza, colpendo i bersagli al cuore o al cranio.
Tutti i presenti erano impressionati.
Yaacov non aveva ancora finito: la sua ultima arma era la lancia.
Con questa ridusse a brandelli uno degli ultimi manichini a sua disposizione, ragion per cui gli strateghi si alzarono in piedi e lo applaudirono. Era il genere di tributo che più preferivano. Letale.
Il ragazzo non si scompose, non dando peso neanche alle acclamazioni, e dopo un veloce inchino si voltò e uscì.
Cicero si rivolse a Ionas. – Che voto gli diamo?
Il secondo rimase a riflettere per qualche secondo e meditò sulle possibili scelte. Dava voti ai tributi da oltre quarant’anni, non avrebbe mai dato un giudizio sbagliato. – Direi 11, Cicero.
Le parole erano da pari, ma un Capostratega esigeva sempre rispetto da chiunque.
– Perché non 12, Ionas?
– Credo che non ci abbia offerto nulla di nuovo e poi il suo atteggiamento non è dei migliori: non ha neanche reagito all’applauso. Però ha rasentato l’eccellenza.
– Quindi credi che lo dovremmo penalizzare di un punto? –
chiese Cicero pensoso, accarezzandosi il mento. – Ma sì, dopotutto ci offrirà molto più spettacolo nell’arena. Vada per 11.
Ionas segnò il voto su un taccuino, mentre chiamava al microfono il tributo femmina del Distretto 1: – Ibiza Velàsquez.

Gli strateghi erano molto incuriositi anche dalla quindicenne dalle origini iberiche e si aspettavano grandi cose da lei.
Tutto tranne quello, però.
Ibiza entrò sorridendo. Poteva sembrare strano, ma era radiosa, esattamente come una figura eterea. Voleva infondere buonumore tra i suoi esaminatori, cosa che le riuscì con facilità.
Era la prima tra le ragazze a mettersi alla prova e ciò le conferiva una punta d’orgoglio: avrebbe avuto la maggior parte dell’attenzione su di sé. Quale motivo migliore, allora, per effettuare la prova più estrema della sua breve vita?
All’inzio nessuno se ne accorse, ma aveva un sottile flauto di legno nella mano destra. Prima di usarlo, però, fece una richiesta che scioccò la maggior parte dei presenti. – Avrei una domanda, se non vi dispiace. Sarebbe possibile concedermi la presenza di dodici condannati a morte?
Ionas scosse la testa. Di sicuro nessuno, lì, voleva accontentare i capricci di una ragazzina. Era anche una Favorita, certo, ma…
– Che le siano concessi – disse Cicero lapidario, fissando Ibiza intensamente. – Voglio metterla alla prova.
Si levò un mormorio di dissenzo che si spense solo quando il Capostratega pronunciò queste esatte parole: – Non fatemelo ripetere di nuovo. Che le siano concessi.
Ibiza sorrise e ringraziò.
Uno degli strateghi – un certo Paul – uscì da una porticina sul lato e, dopo alcuni minuti, tornò con ben dodici senza voce. Non erano esattamente condannati a morte, ma questo la ragazza non poteva saperlo. Di certo non si sarebbe intromessa negli affari di Capitol.
Gli uomini, che variavano sia d’aspetto che d’età – probabilmente il più anziano doveva avere sui sessant’anni, mentre il più giovane era sulla quindicina – si guardavano intorno terrorizzati. Non avevano minimamente idea dell’inferno che li stava aspettando a braccia aperte.
Ibiza li fece disporre uno accanto all’altro e li distanziò con precisione. Doveva andare tutto secondo i suoi calcoli.
Si mise ad alcuni metri da loro e prese il suo flauto. Cominciò una dolce melodia, una di quelle adatte alle ninnananne o alle canzoni d’amore.
La melodia crebbe e crebbe, finché il primo senza-voce della fila cominciò a urlare istericamente. La ragazza non vi badò e continuò a suonare, mentre il presunto condannato a morte si contorceva sul pavimento e i suoi compagni lo guardavano in preda al panico.
Dopo alcuni istanti le urla del primo cessarono. Gli si era spaccato il cranio.
Gli strateghi si alzarono tutti in piedi per guardare meglio, con espressioni stupefatte.
Ibiza si voltò verso il secondo senza-voce. Premendo il secondo tasto del suo flauto, l’uomo iniziò a riempirsi di disgustose e orride pustole nere che lo facevano soffrire come se fosse stato punto da mille vespe contemporaneamente.
Anche lui cominciò a gridare, così forte da far rizzare i peli delle braccia alla ragazza che, però, continuava a suonare senza fermarsi.
Pur di smettere di soffrire, il secondo presunto condannato a morte corse per la sala con le sue ultime forze e prese una delle lance date in dotazione con cui si trafisse lo stomaco.
La terza cavia soffrì un po’ di meno. Ibiza, voltandosi verso di essa, premette il terzo tasto. L’uomo prese a tossire violentemente, facendosi sempre più pallido. Poi si accasciò a terra, soffocato.
Il quarto senza-voce tremava percettibilmente. Alla ragazza dispiaceva doverlo uccidere, ma tanto, si diceva, sarebbe comunque dovuto morire a breve.
Pertanto, si voltò verso di lui continuando a suonare la sua melodia infernale. All’inizio l’uomo non ebbe alcuna reazione, ma poi, quasi come se fosse mosso da una forza esterna, si diresse verso la postazione dei coltelli, dove ne prese uno e con questo si aprì il petto.
Gli strateghi, dall’alto della loro collocazione, erano sempre più sbalorditi, quasi inquietati.
Anche la sesta e la settima vittima morirono misteriosamente. Ad entrambi si aprì un fiore di sangue sulla gola che li fece stramazzare al suolo.
Ibiza continuava, seppur lievemente disgustata da se stessa.
Premendo il settimo tasto, la cavia corrispondente prese lentamente fuoco. E mentre la musica veniva sovrastata dalle incredibili urla dell’uomo, questi si contorceva in posizione disumane, finché la sua carne fu talmente bruciata dalle fiamme da porre fine alle sue sofferenze.
Dopo la settima vittima, la ragazza dell’1 premette in rapida successione l’ottavo, il nono e il decimo tasto, che provocò una paralisi ai condannati che aveva di fronte. Dopodiché, un taglio uscito da chissà dove aprì la loro vena femorale, uccidendoli tra gemiti terrorizzati.
Premendo l'undicesimo tasto, un piccolo forellino comparì come per magia sul collo della cavia, facendola precipitare in un breve attacco isterico e causandole la morte mentre quella recitava delle preghiere supplichevoli.
E, infine, sotto ormai la più completa incredulità degli spettatori, premendo il dodicesimo tasto, il cuore dell’ultimo senza-voce – il quindicenne, che probabilmente si aspettava di peggio, visto che aveva cominciato a piangere sommessamente –  semplicemente si fermerò, facendolo precipitare in un dolce quanto mortale sonno.
Dunque Ibiza interruppe la melodia.
Il silenzio allora fu tombale. Tutti erano troppo presi ad osservare il pandemonio a terra piuttosto che a notare le sue labbra sporche di tracce sanguigne o le sue unghie incrostate di sangue secco.
Uscì sempre con uno smagliante sorriso sulle labbra, dileguandosi il più in fretta possibile. Ci era riuscita. Aveva dato prova di sé.
Da quel momento dipendeva soltanto dal giudizio che le avrebbero conferito di strateghi.
Cicero, Ionas e gli altri si guardarono stupefatti, senza essere in grado di riuscire a proferire parola.
– 12 – disse semplicemente il Capostratega. – Segna 12, Ionas.
Nessuno ebbe nulla da obiettare**.

– Nathaniel Darko – annunciò Ionas dopo aver fatto sgomberare il pavimento dai corpi dei dodici morti. Erano ancora presenti tracce di sangue e di cenere un po’ ovunque, ma tutti assentirono che nessuno dei seguenti tributi vi avrebbe badato.
Nathaniel, infatti, non calcolò minimamente la confusione e si diresse con decisione verso le spade in bella mostra sulla sinistra.
Si sentiva pronto quanto mai prima d’ora. Dopotutto mettersi alla prova gli era sempre riuscito bene. Nathaniel non sbagliava mai.
Soppesò una delle spade più pesanti e con movimenti a dir poco fluidi la portò con entrambe le mani sopra la testa. Poi si scaraventò verso dei manichini poco distanti, impugnando saldamente l’arma.
Cominciò a combattere come un vero guerriero – o gladiatore, che dir si voglia –, tant’è vero che Cicero lo associò, come aveva fatto la sua compagna di distretto alcuni giorni prima, ad Eracle, il leggendario eroe della mitologia greca.
Il Capostratega pensò con un ghigno soddisfatto che fosse perfetto per l’arena che aveva ideato.
Nathaniel iniziò a mozzare le teste dei manichini, facendole volare una per una in aria. Ionas contò quindici teste, compiaciuto.
Di certo se quei bersagli fossero stati vivi non avrebbero avuto alcuno scampo.
Era questo che gli strateghi amavano dei Favoriti: la loro inumana spietatezza. Quasi riuscivano a dare spettacolo anche solo restando fermi, con i loro corpi allenati e i visi curati e dall’espressione soddisfatta.
Non a caso, riuscivano sempre a guadagnare orde urlanti di sponsor.
Dopo appena soli cinque minuti di sessione, il ragazzo cambiò postazione, calpestando persino i manichini che erano caduti a terra, ai suoi piedi.
Lanciò un paio di coltelli, che andarono entrambi a segno.
Infine, prese una lancia e, distanziandosi dal bersaglio che si era prefissato, la lanciò, colpendolo in pieno petto.
Nate si volse verso la saletta degli strateghi. Fece loro un occhiolino, sorridendo, tanto che l’unica stratega donna – Sandra – annunciò subito di volergli assegnare il punteggio più alto.
Il tributo lasciò l’ambiente con orgoglio, tra modesti applausi soddisfatti.  
– Allora – disse Sandra, accavallando le gambe. – Per me merita 12, come la ragazzina di prima.
Paul, seduto accanto a lei, scosse la testa. – A Yaacov abbiamo dato 11 perché non ha fatto nulla di nuovo, ricordi? Perché dovremmo premiare lui?
La donna s’indispettì, ma non ribatté. Dopotutto il collega aveva ragione.
– Io dico 10 – fece il Capostratega, accarezzandosi il mento – gesto molto usuale per lui, d’altronde.
Il vociare della discussione s’interruppe.
– Stavo per dire la stessa cosa, Cicero – disse Ionas. – Purtroppo per lui, è venuto subito dopo Ibiza.
– Esattamente – assentì l’altro. – Segna 10.
Sia Sandra che Paul pensarono che fosse un’ingiustizia.
Ma, dopotutto, da quando gli strateghi erano giusti?

– Adesso è il turno di… – Ionas sfogliò velocemente il suo taccuino, – …Hydra Devine.
La ragazza, dopo soli pochi istanti, entrò con la sua solita espressione maliziosa.
Aveva le sopracciglia inarcate, in un vago gesto di superiorità.
Si guardò brevemente intorno, decidendo l’arma da scegliere, che fu la sua adorata cerbottana caricata con aghi intrisi in un potente veleno.
La prese con decisione, dopodiché, portandosela alle labbra, cominciò a correre in tondo.
In quel giro mortare – era talmente veloce che i suoi capelli rossicci si libravano nell’aria – lanciò gli aghi, che si abbatterono in massa su dei manichini in dotazione.
Molti di questi caddero per l’impatto, altri persero qualche arto.
Continuò per circa cinque minuti, del cui totale ne restavano altri dieci, finché, gettata la cerbottana in un angolino, si arrampicò su una parete, vicino alla saletta degli strateghi, che la osservavano ammirati.
La ragazza fece loro un occhiolino, poi saltò, rotolando sino ad un cespuglio anonimo, dove si nascose.
Gli strateghi non avevano assistito a tutta la scena, in quanto si erano voltati per fare qualche commento compiaciuto. Nel voltarsi nuovamente verso il tributo, però, furono stupiti di trovare il nulla.
Era scomparsa. Quasi si era dissolta.
Hydra non aveva calcolato che gli strateghi non si accorgessero del suo nascondiglio, quindi prese la palla al balzo, facendogli credere di essersene andata.
Cicero cercò in giro con lo sguardo. Non aveva sentito la porta chiudersi, quindi non se n’era andata. Ma dove diavolo…?
I restanti dieci minuti passarono velocemente, mentre i presenti si prodigavano per trovare la quindicenne tra gli attrezzi della grande sala.
– Dov’è finita? – chiese Paul stizzito. – Il tempo è scaduto!
Hydra, accovacciata sotto il cespuglio, sorrise nell’udire le parole degli strateghi. Aveva colto nel segno.
Ionas controllò l’orologio. – In effetti è vero – disse, avvicinandosi al microfono. – Hydra, i quindici minuti a tua disposizione sono scaduti. Sei pregata di uscire.
La ragazza pensò che fosse giunto il momento di mostrarsi.
Quando uscì proprio sotto i loro occhi con un balzo, la maggior parte degli strateghi si spaventò.
– Grazie per la vostra attenzione – fece, con gli occhi luminosi, dopodiché uscì lasciando a bocca aperta i presenti.
– Quella ragazza è sfacciata – disse Sandra alzando gli occhi al cielo. – Non saprei proprio che voto darle.
I suoi colleghi concordarono.
– Per la sua prova 11, ma per l’atteggiamento le diamo 10 –  concluse Cicero.
– Ma è lo stesso voto che abbiamo dato a Nathaniel, lei merita di meno! – protestò Sandra indignata.
Ionas scosse la testa e, quando la discussione si fu conclusa, segnò 10 sul suo taccuino.

Dopo pochi istanti, Jesse Chletter entrò nella sala con sguardo cupo. Si sarebbe giocato il tutto per tutto in quel momento, sotto il giudizio degli strateghi.
Avrebbe rappresentato il suo distretto e, non meno importante, affinato il già labile confine tra la vita e la morte.
Era pronto.
– Jesse Chletter, Distretto 3 – si annunciò, calcando il tono sul proprio luogo di provenienza. Sperò con tutto il cuore che quegli stolti si ricordassero di suo fratello Clay.
Vide Cicero Feestage incrociare le braccia, disposto a osservarlo, mentre i suoi colleghi si dedicavano ad altro. A loro importava solo dei distretti favoriti, d’altronde.
Sarebbe stato al gioco, non avrebbe dato soddisfazione a nessuno, menché meno a Capitol City.
Jesse non era un burattino. E neanche una pedina o un ornamento.
Jesse era libero, arrabbiato.
L’avrebbe dimostrato a tutti.
Iniziò una breve corsa intorno a dei manichini, che non sfiorò nemmeno. Mentre le sue gambe robuste si muovevano, veloci e resistenti, i suoi occhi fissavano l’arco posto in un angolo vicino a delle faretre piene di frecce. Lo desiderava, tanto da sentirsi prudere le mani, ma non l’avrebbe toccato neanche di striscio.
Dopotutto quella era la sua strategia: far credere di essere debole, quando invece non lo era affatto. Jesse ne era ben consapevole, e per questo avrebbe ingannato tutti, strateghi compresi. Nell’arena sarebbe diventato una bomba ad orologeria, pronta a scoppiare e provocare una potente esplosione.
Saltò qualche ostacolo con nonchalance, calibrando la forza dei suoi polpacci per non cadere.
Poi, dopo una decina di minuti, si diresse verso la zona delle piante, a destra.
Prese alcune foglie con cura, le sciacquò e le mangiò, anche se non avevano un bell’aspetto. Con Clay aveva imparato che quelle con l’aspetto più invitante erano da evitare perché decisamente letali.
Fece lo stesso accurato lavoro con delle radici grigiastre.
Prima che potessero annunciare la fine del tempo, Jesse salutò gli strateghi con un sarcastico – E’ stato un piacere –, abbandonando l’ambiente per uscire dalla stessa porta da cui era entrato.
Cicero scosse la testa e Ionas lo imitò.
– Non è stato un granché – decretò Sandra osservandosi le lunghe unghie laccate di rosso.
– Già. Non ha fatto niente di speciale – assentì il Capostratega.
– Mi aspettavo di meglio – aggiunse Ionas. – Il fisico ce l’ha… probabilmente non vuole un voto troppo alto per evitare l’attenzione dei Favoriti.
I pochi che lo stavano ascoltando annuirono all’unisono.
– Accontentiamolo, allora – fece Cicero accarezzandosi la barba del mento. – 4.

– Lyla Miltak –
chiamò Ionas leggendo il nome della ragazza sul suo taccuino.
Lyla entrò cercando di sembrare tranquilla, cosa che non era affatto. Aveva paura di sbagliare o di rovinare tutto il suo lavoro.
Aveva i lunghi capelli castano noce raccolti in una coda bassa, come al suo solito. Preferiva legarseli in quel modo quando non aveva un cappuccio sotto il quale nascondersi. Dopotutto le bastava tenerli ordinati e pace.
Non era vanitosa, quindi figurarsi se ci teneva a curare ossessivamente il proprio aspetto esteriore.
Senza indugiare, andò verso la postazione delle lance, dove ne prese una; immediatamente dopo si fiondò verso le componenti elettroniche.
Non voleva sprecare il tempo a sua disposizione, per cui cominciò a lavorare velocemente, muovendo le mani su piccoli oggetti in silicio dei quali probabilmente neanche gli strategh stessi conoscevano l’utilizzo.
In fondo lei veniva dal distretto della tecnologia, cos’altro avrebbe potuto fare se non modificare un’arma a proprio piacimento? Eppure li avrebbe stupiti.
Li avrebbe stupiti per quello che avrebbe fatto dopo.
La modifica della lancia impiegò la maggior parte del quarto d’ora che le era concesso, ma durante l’addestramento si era esercitata proprio per evitare sprechi di tempo inutili.
Dopo averla soppesata per un secondo e dopo aver tristemente notato che gli strateghi avevano smesso di guardarla già da un bel pezzo, camminò fino ad alcuni manichini vicini.
Non degnò loro neanche un po’ di attenzione, che li graffiò uno ad uno con la lancia. All’inizio non accadde niente, ma all’improvviso, quando mancavano giusto una manciata di secondi alla fine della prova, questi presero fuoco di botto, come se fossero stati incendiati dall’interno.
Le fiamme divamparono, alte, portando con sé della puzza di stoffa bruciata – ovvero quella che era la pelle dei bersagli.
Tutti i presenti, animati da una curiosità e uno stupore immensi, si voltarono di scatto verso l’incendio, ammirandone le direttive.
Li ho colpiti, pensò Lyla in quel momento con un sorriso gioioso e soddisfatto. Si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore. Ce l’ho fatta! Deak sarà contento!
– Il tempo è scaduto – disse Ionas dall’altoparlante, indicando a un paio di senza-voce di spegnere le fiamme con alcuni secchi d’acqua.
La ragazza fece un veloce inchino e uscì a testa alta, orgogliosa di se stessa, e con un ampio sorriso stampato sul volto.
Gli strateghi cominciarono a consultarsi.
– Ma prima di provocare l’incendio… – cominciò Sandra, – … cos’ha fatto?
– Ha modificato la lancia –
rispose l’aiuto-stratega. – Ho controllato io.
– Ah –
fece la donna. – Allora per me merita 7.
– Per me 8 –
disse Paul soddisfatto. – Molto meglio del suo compagno, quel Chletter.
– Già, almeno si è impegnata.
Cicero rimase a riflettere per qualche istante. – Segna 9, Ionas.
– 9?! –
esclamarono gli altri due in contemporanea.
– Esatto – replicò il Capostratega. – Credo che i Favoriti lo apprezzeranno – disse ironico. Il suo obiettivo risultò evidente a tutti, allora. Mettere la ragazza contro i Favoriti per dare più spettacolo. Nonostante il voto se lo meritasse appieno, gli strateghi le avrebbero dato la possibilità di utilizzarlo come un’arma a doppio taglio.
Proprio come la sua lancia.
– E 9 sia, allora – concluse Ionas.

E dopo il fuoco, venne l’acqua.
Il distretto 4, quello del mare e della pesca.
– Sennar Heeter – annunciò Ionas, sempre leggendo sul suo fidato taccuino.
Il ragazzo entrò con lo sguardo color del mare vacuo, spento. Fissava dritto un punto indefinibile dinanzi a sé, con i pugni chiusi.
Odiava essere osservato in quel modo, odiava dover sottostare agli ordini di Capitol City.
Odiava se stesso, in quel momento, perché avrebbe volentieri preso a calci tutto.
– Sono pronto – si disse, più a se stesso che agli strateghi che lo fissavano impazienti.
La prima cosa che toccò fu una rete grezza, come quelle che intrecciava ogni giorno al porto.
Passò una mano sulle corde che la componevano e poi cominciò il suo lavoro: la lavorò per circa dieci minuti, costruendo una trappola pericolosa e mortale.
Era un ablissimo intrecciatore, Sennar, glielo dicevano spesso anche i colleghi di suo padre. Sua sorella lo chiamava adorabilmente “una vecchio lupo di mare”, al che il ragazzo solitamente sorrideva alzando gli occhi al cielo.
Elle era diventata la sua unica ragione di vita. Sarebbe tornato a casa per lei, o l’avrebbe lasciata da sola. E, d’altronde, come avrebbe potuto un’undicenne procurarsi da vivere senza l’aiuto di nessuno?
Lui l’aveva fatto, certo, con le sue sole forze quando anche suo padre era morto, ma Elle era diversa. Aveva bisogno di qualcuno, o sarebbe diventata un essere brusco e taciturno come lui.
La ragazzina non meritava un simile destino.
Dopo aver costruito la rete, Sennar prese di peso un manichino qualsiasi e lo gettò con forza nella trappola, che si chiuse attorno ad esso come un bozzolo.
Poi si dotò di una lancia e, con una rabbia che neanche lui sapeva di possedere, iniziò a colpire furiosamente il bersagio catturato, frantumandogli l’addome e le gambe con la punta di ferro smussato.
La sua espressione era concentrata, ma lasciava trasparire tutta la collera verso il mondo in cui era cresciuto troppo in fretta.
Sennar era diventato un adulto ancor prima che lo diventasse un adolescente qualsiasi, e gli Hunger Games confermavano questa tesi.
Sennar era un ragazzo arrabbiato. Con chiunque, in quel momento.
Ma più di tutti con se stesso.
– Il tempo è scaduto – disse Ionas dall’altoparlante.
Il tributo si ridestò, osservando i brandelli del manichino ai suoi piedi. Non si volle domandare quale sarebbe stata la sua reazione se la vittima fosse stata una persona in carne ed ossa. Con un cenno del capo si congedò e uscì esattamente da dove era entrato.
– A me è piaciuto – disse Sandra una volta che il ragazzo se ne fu andato. – Ha dimostrato forza, rabbia e capacità. Io gli darei 10.
– Io 9 –
le fece eco Paul, con cui non di solito non si trovava d’accordo. – Bravo, sì, ma non come Yaacov o Nathaniel.
– Concordo –
disse Cicero sbrigativo, voglioso di andare avanti con le sessioni. – 9 è un buon voto, per lui.
Ionas, senza aggiungere obiezioni, segnò il voto sul taccuino.

Fu quindi il turno del tributo femminile.
– Samantha Blanchette – chiamò Ionas dall’altoparlante come con i tributi precedenti.
La ragazza, entrando, sbuffò sonoramente.
Aveva le mani nella tasca di un’ampia felpa verde che aveva sotituito a quella della tuta, inutile e incolore a suo parere.
In realtà non era sua, ma di Sennar, perché indumenti del genere non potevano trovarsi nell’armadio di una ragazza perbene a Capitol City. Le stava, quindi, molto larga. Però era il suo stile.
Non c’era voluto molto per convincere Sennar, ad ogni modo, che al suo – Heeter, mi presteresti una felpa? – aveva risposto con un cenno affermativo del capo e con una scrollata di spalle. – Prendi quello che ti pare, preferisco tenermi i miei vestiti – aveva detto.
Per Samantha quell’indumento era la cosa che la potesse far sentire più vicina a casa. Quasi immaginava la sua sorellina Greta che le correva incontro e cominciava a farle il solletico. Fece un sorriso amaro a questo pensiero.
Se non avesse vinto, l’incolumità della bambina sarebbe stata messa davvero a rischio da suo padre, che l’aveva obbligata a offrirsi.
La sua espressione cambiò di botto pensando a lui.
Quell’essere spregevole.
Poi scosse la testa, preferendo concentrarsi sulla prova, anche se non aveva alcuna voglia di compiacere quegli stupidi strateghi che la osservavano di sottecchi, mentre per intrattenersi mangiavano interi vassoi di pietanze prelibate.
Non aveva idea di cosa fare, in realtà. Dopo qualche minuto passato a gironzolare tra gli attrezzi della sala, si accorse infastidita che nessuno le stava più prestando attenzione.
Certo, non aveva neanche salutato e si era mostrata annoiata, ma ciò non significava che non avessero dovuto calcolarla minimamente.
Si bloccò, schiarendosi la voce per richiamare l’attenzione. Nessuno le rispose, se non il vociare fitto che permeava la saletta degli strateghi. Notò che era appena arrivata una fontana di cioccolato fondente, trasportata sulle spalle di due senza-voce.
Tossicchiò, ma nessuno parve intenzionato a guardare la sua prova, troppo preso dal dessert.
– Egregi signori – disse, marcando il suo tono sprezzante di cattivo sarcasmo. – Sareste così gentili da degnarmi un po’ di fottuta attenzione?
Le risposero nuovamente le chiacchiere futili degli strateghi.
Aguzzò lo sguardo verso un uomo alto e allampanato che sembrava ridere di lei sotto i baffi. Senza pensare a nulla che non fosse l’espressione beffarda di quello stratega, fece una breve corsa e con un balzo si arrampicò sul muro, arrivando sino alla saletta stessa.
I presenti si zittirono, nel vederla saltare addosso a Paul con un coltello di piccole dimensioni puntatogli nell’occhio.
– Che hai da ridere? – gli chiese con un soffio, la frangia albina che le copriva gli occhi accesi di rabbia.
– Sicurezza! – sbraitò l’uomo con i denti digrignati. Immediatamente due guardie robuste e forzute l’alzarono di peso e Samantha stavolta ritené prudente – per quanto le era possibile – evitare di reagire in modo sconsiderato.
– Che cosa avevi intenzione di fare, ragazzina? – gli chiese quello alla sua destra.
– Stava ridendo di me – disse, riferendosi allo stratega e strattonando lievemente il braccio, chiuso in una presa ferrea.
Quando la riportarono giù attraverso una scala di sicurezza e la lasciarono libera, Samantha si rese conto di essere stata congedata ma, prima che la potessero cacciare con la forza, afferrò una balestra e fece un tiro preciso vestro un bersaglio posto sulla parete opposta a lei.
La freccia gli centrò lo spazio in mezzo agli occhi.
– Tempo! – disse Ionas. La ragazza buttò la balestra in un angolo e uscì esattamente com’era entrata: con un sonoro sbuffo.
– Che disastro – fece Sandra con un sospiro. – Non merita neanche di essere valutata, quella ragazza.
– Invece io credo che con lei potremmo divertirci –
ribatté Cicero ridendo. – E’ impulsiva, mi piace. Nell’arena ci riserverà sicuramente tantissime sorprese.
Nessuno riusciva a proferire parola quando il Capostratega parlava in quel modo, assorto nei suoi pensieri ingegnosi.
– Ma ha tentato di uccidermi! – protestò lo stesso Paul, adirato.
– Ionas – disse Cicero ingnorando l’ultimo intervento del collega. – Segnale un bell’8.

– Julian More – chiamò Ionas.
Il ragazzo entrò dalla porta principale con sguardo determinato, nonostante fosse anche un po’ nervoso per la prova imminente.
Fece un respriro profondo prima di cominciare.
Il suo cuore batteva lento e quasi ne riusciva a percepire ogni battito, vista l’agitazione.
Chiuse gli occhi verd’azzurri e li riaprì.
Deciso, andò verso la postazione delle spade, scegliendo quella più adatta alla sua altezza e più simile a quelle che usava di solito durante il suo allenamento privato.
Prima di uccidere qualche manichino, però, fece una cosa alquanto insolita che incuriosì gli strateghi dapprima annoiati o impegnati in conversazioni futili tra colleghi.
Sparse sulla lama della benzina e con un accendino dato in dotazione la incendiò, lasciando libera l’impugnatura per non scottarsi, nonostante il calore del fuoco sul ferro gli facesse comunque sudare copiosamente le mani che tenevano salda la presa.
– Che sta facendo? – domandò Paul stupefatto, affacciandosi dalla saletta per vedere meglio.
Julian, concentrato, si diresse verso le sue prossime vittime: i manichini.
Con la sua spada infuocata ne decapitò uno, ma poiché aveva calibrato la forza per far sì che non prendesse fuoco, il corpo cadde a terra senza essere in fiamme.
Ci furono mormorii di incredulità.
Il tributo del 5 decapitò con la stessa, terribile e misteriosa tecnica altri nove manichini, arrivando ad un totale di dieci teste tagliate finite sul pavimento, poco lontane dai suoi piedi.
Soddisfatto, il ragazzo spense le lama della spada immergendola in un catino d’acqua.
Qualche scintilla gli aveva scottato le dita, ma a parte quello, tutti erano usciti indenni dalle fiamme.
C’è ancora altro tempo, pensò Julian guardandosi intorno. Un’idea lo colse all’improvviso: poteva ancora dimostrare qualcosa.
Un altro manichino isolato aveva catturato la sua attenzione. Si scricchiolò le dita e preparò i muscoli. Se non ci fosse riuscito probabilmente avrebbe calato l’interesse nei suoi confronti da parte degli strateghi; stava rischiando grosso.
Posso farcela, si disse per farsi forza. A Julian non mancava mai.
Afferrò il busto del manichino da dietro e gli staccò le braccia, poi si dedicò alla testa che finì sul pavimento esattamente come le altre. Stava usando solamente la forza nelle sue mani, il che colpì molto gli stratehghi, che avevano rinunciato ad ogni pietanza che i senza-voce stavano servendo per godersi lo spettacolo.
Le gambe del manichino, esattamente come gli altri arti, furono smembrate con egual vigore.
Julian ebbe il tempo di ansimare giusto un secondo prima che Ionas annunciasse lo scadere del tempo.
Uscì dalla sala con orgoglio.
Un altro passo in più per tornare a casa da Lucy.
– Che voto gli diamo? – domandò Cicero ai suoi colleghi. Stranamente, era la prima volta che lo chiedeva. Dopotutto era lui che prendeva le decisioni e non sempre aveva bisogno di sentire il parere degli altri, che fosse rilevante o meno non aveva importanza.
Qualcuno tentennò. – Secondo me 9 – propose Arian, un uomo sulla trentina dai capelli verdi e ondulati. – Se lo merita.
– Concordo –
assentì Paul. – Come alla ragazza del 3.
– Per me anche 10 –
disse Sandra, accavallando le gambe. – I ragazzi di quest’edizione sono incredibilmente affascinanti.
Arian alzò gli occhi al cielo. Nessuno lo sapeva, ma quella era solo una facciata: Arian era segretamente innamorato di Sandra, la bella donna dai capelli rossi come le fiamme.
– Io mi terrei più basso, Cicero – fece Ionas. – Non voglio che i distretti non favoriti si illudano di poter ottenere tutto ciò che vogliono.
– E’ quello che stavo pensando anch’io –
dichiarò il Capostratega. – Mi anticipi sempre, Ionas. Ricordami che devo offrirti da bere.
L’altro sorrise. – Sarà un piacere.
– Comunque, segna 8.
Qualcuno alle sue spalle brontolò. – Non ascolta mai quello che diciamo noi.
– Silenzio! –
esclamò Cicero, vagamente irritato. – Non mi rimangio mai la parola. Ionas, chiama il prossimo tributo.

Il Distretto 5 aveva ancora un altro asso nella manica da giocare.
– Skye Rothenberg – annunciò l’aiuto-stratega leggendo sul taccuino.
La bella ragazza dai boccoli bruni e il viso armonioso si presentò con un sorriso apparentemente benevolo e colmo di sicurezza.
– Buonasera – salutò cordialmente con un cenno della testa.
– Prego – le disse Ionas, indicando l’intera sala con un gesto eloquente della mano.
Skye inspirò: era pronta.
Prese velocemente una balestra. Aveva il tempo contato, non poteva prendersi attimi di relax.
Incoccò un dardo e, dopo aver preso la mira, centrò un bersaglio al cuore da venti metri di distanza.
Ripetè l’operazione altre due volte, con il risultato di altri due centri perfetti.
Dalle sue labbra fiorì un piccolo e soddisfatto sorriso.
Era indecisa se tentare un tiro con i coltelli o meno. Ci rimuginò su giusto un attimo, poi scelse di rischiare.
Si diresse verso la postazione, prendendo una lama e mirando alla parete opposta, verso un bersaglio di modeste dimensioni.
Qualcosa all’ultimo secondo però la distrasse. Dalla saletta degli strateghi intravide un ragazzino sciupato e mingherlino – probabilmente un giovane senza-voce – che somigliava incredibilmente a suo fratello Tyler.
Tyler…
Purtroppo per lei, non si rese conto di aver già tirato. Il bersaglio fu colpito solo di striscio.
Skye perse un battito, sia per il centro decisamente mancato, sia per quel bambino che l’aveva riportata bruscamente tra le calde mura di casa.
Un brivido la scosse da capo a piedi. Non sapeva se avrebbe mai rivisto suo fratello.
Non sapeva se l’avrebbe abbracciato ancora o coccolato davanti al camino durante le fredde serate di gennaio, se l’avrebbe ancora sentito ridere e raccontarle qualche sciocca barzelletta.
Skye evitò di pensarci. Per lei Tyler era tutto, ma in quel momento doveva concentrarsi o le possibilità di rincontrarlo si sarebbero ridotte ancora più drasticamente.
Poteva dimostrare ancora dell’altro.
Era agile, veloce, sinuosa. Dopo quell’istante di tentennamento, decise di rischiare il tutto per tutto.
Con una breve corsa andò nella direzione della parete d’arrampicata. Senza esitazioni scalò abilmente la zona apposita, dimostrando in parti eguali grazia e agilità.
Mentre scendeva con alcuni balzi eleganti, riflettè se era il caso di costruire o no una delle sue trappole meccaniche.
Preferì tenerselo per l’arena, avrebbe avuto un vantaggio su chi non se lo aspettava.
Inoltre, era scaduto il tempo.
– Grazie per l’attenzione – disse agli strateghi, voltando i tacchi e maledicendosi silenziosamente per il tiro andato a male.
Non tutti i presenti, comunque, erano rimasti a guardare la ragazza dopo la falla nella prova. Gli unici che avevano continuato a osservare la sessione erano stati Cicero, Ionas e Arian.
– Che ne pensate? –  domandò il Capostratega ai due colleghi.
– Non male… ma neanche bene –  fece Arian, sorseggiando la sua coppa di liquore.
– In termini di voti?
– 7 sarebbe appropriato –
disse Ionas.
– Precisamente – concordò l’altro. – Discreto.
– Se quel coltello avesse centrato il bersaglio avrebbe potuto prendere anche un 8… –
continuò Cicero riflettendo.
– Un voto alto solo per omaggiare la sua bellezza! – gridò Paul ridendo, seduto con altri colleghi. Probabilmente si erano ubriacati durante la prova.
E siamo solo al Distretto 5, pensò Ionas contrariato scuotendo la testa. Tributi o meno, il banchetto sarebbe continuato a lungo, anche dopo l’orario di chiusura del Centro.
Sandra arricciò le labbra. – Non è mica un granché… io l’ho trovata scialba.
La discussione si prolungò per qualche altro minuto.
– Allora? – domandò l’aiuto-stratega, con la penna pronta in mano. – Segno 7?
– Vada per 7, non abbiamo concluso niente di meglio.
Il voto fu segnato sul taccuino accanto al nome di Skye.  

Il Distretto 6 aprì le danze con il tributo maschile qualche minuto dopo.
– Adam Lawrence – annunciò Ionas autoritario.
Adam entrò con passo svelto. Desiderava togliersi quel peso il più in fretta possibile. Non era rilassato all’idea che una quindicina di strateghi l’avrebbero dovuto presto giudicare.
Nella sua vita aveva conosciuto molte persone che l’adulavano solo per il suo elegante aspetto fisico, che lo omaggiavano o si complimentavano per questioni futili.
Lui odiava questo tipo di gente. Odiava i falsi, gli impostori e gli ipocriti.
Durante l’adolescenza aveva creduto che nessuno lo apprezzasse realmente per ciò che era, eccetto la sua famiglia. Poi però aveva imparato a conoscere meglio Marcus, il suo migliore amico, e poi aveva incontrato Nike e Klaus, i figli di un ex-vincitore del suo distretto. Loro erano riusciti ad andare al di là dell’apparenza e lui li adorava per questo. Non sapeva cosa avrebbe fatto senza di loro.
Rincuorato vagamente dal pensiero dei suoi amici, si fiondò deciso verso la postazione delle lance.
Durante l’allenamento aveva imparato ad utilizzarle davvero bene.
Si posizionò a qualche metro di distanza da alcuni manichini. Tirò tre lance, perforando il torace a tre bersagli.
La punta smussata li aveva trapassati da parte a parte, nonostante non li avesse presi in pieno.
Non ancora soddisfatto, Adam si procurò qualche coltello e, a due alla volta, li lanciò nel cranio delle vittime, che per l’impatto stramazzarono al suolo, come se avessero avuto vita propria.
Il ragazzo si concesse solo un veloce sorriso prima di continuare la prova. C’erano ancora cinque minuti a disposizione.
Si alzò le maniche e si scricchiolò le dita e, con la sola forza delle braccia, spaccò il collo ai manichini che, se fossero stati umani, si sarebbero spenti velocemente con qualche gemito terrorizzato.
Adam non ci volle pensare: non sapeva come si sarebbe sentito ad uccidere, se avrebbe provato rimorso o disgusto verso se stesso o se avrebbe trovato nel sangue la sua pace.
Quel pensiero lo terrorizzò, per cui preferì congedarsi con uno sbrigativo cenno del capo. Si sarebbe tenuto le sue trappole magnetiche come asso nella manica.
Uscì sospirando.
Mancava poco all’inzio dei giochi veri e propri.
– Altro ragazzo affascinante – commentò Sandra versandosi del liquore, seguita a ruota da altri due colleghi. – Merita lo stesso voto di quello di prima.
– Quello di prima aveva un nome, Sandra –
sbuffò Arian passandosi una mano nei capelli.
– Non importa – ribatté la donna velocemente.
– Beh, effettivamente ha fatto una buona prova – disse Ionas, rivolgendosi direttamente a Cicero che si stava servendo il dessert.
– Sono d’accordo, merita 8 anche lui – assentì il Capostratega. – Oggi mi sento benevolo, ma dal prossimo tributo vediamo di non calcare troppo la mano.
Ionas non replicò, limitandosi a segnare il voto sul taccuino.

– Bleika Vidal – chiamò l’aiuto-stratega attraverso l’interfono.
Il tributo femminile del Distretto 6 entrò qualche istante dopo, concentrata.
Bleika si guardò intorno curiosa. Quell’ambiente era simile al Centro in cui aveva trascorso il tempo negli ultimi tre giorni e per qualche assurdo motivo le risultò familiare.
Ormai aveva imparato a riconoscere ogni suono e ogni profumo di quel luogo, quasi ne era rimasta colpita.
Prima di cominciare, si sciolse la lunga treccia che le aveva fatto la sua accompagnatrice, Gryhll, dicendole che le donava. Adorava quella pettinatura, ma in quel momento aveva bisogno del suo portafortuna, il nastrino di raso color del cielo – esattemente lo stesso dei suoi occhi – per allacciarlo attorno al polso.
Per qualche strana ragione le conferiva sicurezza, la faceva sentire vicina a casa sua, vicina a suo fratello Jilium, vicina ai suoi amici.
L’aveva trovato anni addietro, quando aveva solo cinque anni, sui binari del treno. Appena l’aveva visto se n’era innamorata e non aveva esitato un solo minuto per raccoglierlo. Si fiondò sulle rotaie senza pensarci, proprio quando da lontano si sentiva il fischio del treno in corsa. Solo il pronto intervento di suo fratello la salvò da una morte atroce. Quando risalì illesa sulla piattaforma, aveva quel delicato nastro azzurro tra le mani.
Da allora non se n’era più separata.
Legato il nastrino attorno al polso, quindi, fece un respiro profondo e fu pronta per cominciare la sessione.
La prima cosa che fece fu allineare ben dieci manichini uno accanto all’altro, proprio di fronte a lei, dopodiché si allontanò velocemente sino alla postazione degli archi, dove ne afferrò uno.
Lo impugnò saldamente e, dopo essersi procurata una faretra con esattamente dieci frecce, si mise in posizione.
Calcolò la distanza, incoccò la prima freccia, prese la mira e inspirò. Poi scoccò.
Centro perfetto.
Bleika aspettò prima di cantar vittoria. Contò fino a tre e incoccò una nuova freccia.
Altro manichino, altro centro.
La freccia si era conficcata proprio tra gli occhi.
Terzo tiro, disse tra sé. Uno… due… tre.
Un altro bersaglio era stato centrato in pieno. E anche il successivo, e quello dopo ancora.
Alla fine, tutti e dieci i manichini erano stati colpiti con un centro perfetto.
La ragazza sorrise, ma non aveva ancora terminato la sua prova.
Piena di adrenalina, posò l’arco sul pavimento e iniziò a correre per la sala, con i lunghi capelli scuri che le fluttuavano dietro.
Bleika era un fulmine, più di chiunque altro e correre era la sua passione, non avrebbe mai fallito proprio in quel campo.
Mantenendo la velocità costante, iniziò a saltare degli ostacoli, finché Ionas non chiamò il tempo.
La ragazza terminò l’ultimo salto con una veloce capriola.
– Arrivederci! – salutò con il fiatone, allegra. Ci aveva messo tutta se stessa e sperò con tutto il cuore che l’avrebbero premiata per quello.
Purtroppo per lei, però, gli strateghi avevano preferito fare ben altro, piuttosto che guardare la sua sessione. C’era chi si era ubriacato, chi aveva continuato a mangiare come se niente fosse, e chi ancora era uscito dalla sala per andare alla toilette.
Ionas era stato l’unico a rimanere concentrato e non si era fatto distrarre da nessuno.
– Allora, Ionas, com’è andata la ragazzina? – chiese Cicero già un po’ più brillo, mettendogli una mano sulla spalla.
– Bene – rispose, indicandogli i manichini trafitti dalle frecce. – Molto bene. Se posso permettermi, le darei un 9.
– 9?! –
domandò retoricamente il Capostratega ridendo, come se fosse una cosa assurda e fuori dal mondo. – Non esageriamo. Assegnale un 7 più che generoso.
– Come vuoi, Cicero –
replicò Ionas leggermente contrariato. Non osava mai contraddire il suo superiore, ma detestava arrivare a quel punto delle sessioni, dove tutti se ne infischiavano dei tributi.
Ora, anche per lui, arrivava la parte più difficile.
E 7 sia, si disse con un sospiro.
  
– E’ il turno di… – controllò Ionas. – Josh Gilmour.
Il ragazzo entrò con le mani in tasca, mentre cercava di concentrarsi. Ormai doveva mettersi in gioco, e tanto valeva la pena giocare, secondo lui. Aveva, comunque, ideato una strategia per non farsi prendere di mira dai Favoriti.
Non importava il fatto che con un voto basso avrebbe abbassato il numero dei possibili sponsor, si sarebbe rifatto durante l’intervista.
Certo, chiacchierare tranquillamente con qualcuno non era il suo forte, ma ci avrebbe provato. Non si sarebbe di sicuro arreso al primo ostacolo.
Josh odiava gli Hunger Games e, consecutivamente, odiava Capitol City, ma per salvare la propria pelle sarebbe dovuto scendere a compromessi: avrebbe dovuto stare al gioco, compiacerli e far credere loro di avere il coltello dalla parte del manico.
Non che fosse il contrario, comunque.
Per quanto duro fosse ammetterlo, Josh era solo una misera pedina.
Giochi o meno, era sotto il controllo della capitale, ne era ben consapevole.
Però, per quanto gli era possibile, avrebbe messo loro i bastoni tra le ruote, perché non era di certo uno stupido.
Con calma glaciale si posizionò accanto ad alcuni aggeggi elettronici e iniziò ad armeggiarli, senza neanche conoscere il loro vero utilizzo. Dopotutto il suo obiettivo era prendere un voto scarso.
Fabbricò una sottospecie di arma-trappola. Due casse piene di cavi separate da un lungo filo di rame.
Premette un pulsante. Non accadde nulla.
Quando però venne a contatto con la gamba di un manichino, l’aggeggio esplose, riempiendo di fuliggine il viso di Josh, che per poco non si mise a ridere.
Sembrava la scena di un film comico dell’era precedente a Panem.
Finse di essere mortificato e, passandosi una mano sul volto per pulirsi, salutò con la mano gli strateghi in un gesto ironico. Si accorse persino che quasi nessuno l’aveva guardato.
Ancora meglio, si disse uscendo dalla sala soddisfatto.
Ionas stava aspettando che Cicero gli rivelasse il voto adatto al tributo, ma il Capostratega stava bevendo allegramente con Jack e Hack, i due colleghi gemelli propensi all’acool.
– Cicero? – lo chiamò ugualmente, voglioso di passare al prossimo tributo. – Che voto devo mettere a Gilmour?
– Cosa? –
domandò di rimando l’altro, come se fosse stato svegliato bruscamente da un bellissimo sogno. – Ah, sì… Non lo so. 4 o 5, decidi tu.
Ionas scosse la testa. 4 o 5?
Ci riflettè un istante, poi decise di premiare il ragazzo e di non renderlo particolarmente svantaggiato.
Segnò 5 sul taccuino e si apprestò a chiamare il tributo femminile del Distretto 7.

– Luna Woodey – disse tramite interfono.
La ragazzina entrò in sala avvolta in una grande sciarpa colorata come l’arcobaleno. Era una delle poche cose che aveva portato da casa, insieme alle scarpette nere regalatele dalla nonna e un blocco da disegno.
Non le piacevano molto gli abiti che le avevano messo a disposizione; erano tutti troppo appariscenti o eccentrici.
Lei si sentiva bene solo con i suoi vestiti. Davvero non sapeva come avrebbe fatto senza, nell’arena. Non si sarebbe sentita protetta o a casa neanche per un istante.
Quell’aspetto dei giochi era quello che le faceva più paura: se non ti senti a casa ti senti perduto e non riesci più ad orientarti.
Fece un giro per la sala, fischiettando una vecchia canzoncina che era solita cantare con Charlie nei boschi.
La tranquillizzava pensare a lui; dopotutto era l’unico amico che aveva.
Alzò lo sguardo verso la saletta degli strateghi, da cui proveniva un intenso vociare, probabilmente non diretto a lei.
Si sentivano risate, brindisi e quant’altro.
Forse si stanno divertendo, pensò facendo spallucce. Avrebbe voluto essere felice come loro in quel momento, ma non ci riusciva.
Si appollaiò su un finto tronco d’albero poco lontano, con le gambe incrociate e il mento appoggiato su una mano.
Continuò a canticchiare e a osservare gli strateghi, curiosa.
C’era un grande tavolo al centro della saletta, ricolmo di ogni pietanza, molte delle quali aveva avuto modo di vedere e assaggiare per la prima volta durante quei giorni di permanenza nella capitale.
Attorno al tavolo, tre uomini ridevano di alcune battute e continuavano a fare brindisi per ogni sciocchezza. Sentì persino un – Alla fantastica arena di quest’anno! – e un – Al nostro Capostratega!
Nulla comunque che riguardasse i tributi.
Poco più in là c’era un uomo che beveva in disparte, alto e allampananto con degli occhiali rotondi che quasi gli pendevano dal naso adunco. Sembrava divertirsi lo stesso comunque, nelle spire dell’alcool.
Alla sua destra un avvenente uomo dai capelli verde smeraldo ondulati stava battibeccando con una bellissima donna dai capelli color delle fiamme. Sembravano due fidanzati che amavano bisticciare.
L’amore non è bello se non è litigarello, pensò con un sorriso, ricordandosi di quello che le diceva sua nonna da piccola a proposito di suo nonno. Lui era un po’ burbero, lei molto dolce, ma si amavano davvero tanto.
Luna sperava di diventare come sua nonna, un giorno. Felice.
Ancora più in disparte c’era un uomo non troppo eccentrico, con un taccuino in mano e una penna. Era l’unico che sembrava prestarle attenzione.
La osservava intedetto, domandandosi forse perché non stesse facendo nulla.
Luna non aveva una risposta. Osservare – e capire – le persone era la cosa che sapeva fare meglio, dopotutto.
Di quell’uomo, capì che era profondamente infelice. Non sapeva perché, ma c’era qualcosa nel suo sguardo di… rimpianto.
– Tempo – chiamò questi, controllando l’orologio. I quindici minuti erano scaduti.
Luna scese dal tronco con un piccolo balzo e si arrotolò ancora di più la sciarpa attorno al collo.
Uscì dalla sala saltellando.
Ionas non sapeva cosa pensare di quella ragazzina. Era strana, ma con i suoi occhi verdi e grandi era riuscito a guardare dentro di lui. Le ricordava un po’ sua figlia, Lahri.
Lahri non c’era più e forse molto presto non ci sarebbe stata più neanche Luna.
Gli si strinse il cuore a quel pensiero, ma per prassi doveva sottomettersi al giudizio di Cicero.
– Bah… se non ha fatto nulla di speciale tutto quello che si merita è un 2.
Ionas non voleva metterle quel terribile voto, ma fu costretto con grande risentimento a segnarlo sul taccuino.
Scusami, ragazzina.

Fu quindi il turno del Distretto 8.
Ionas, prima di chiamare il nome del tributo, inspirò profondamente. Non voleva ripetere affatto la scena precedente.
– Everett Hughes.
Everett non voleva darlo a vedere, ma era abbastanza nervoso. La sessione gli aveva messo una strana ansia addosso.
Sentiva come se stesse ripercorrendo esattamente gli stessi, identici passi di suo padre.
Lui però aveva vinto. Non aveva mai voluto dirgli come, ma aveva vinto.
Everett non ne era sicuro, ma sospettava che Lowell avesse qualche segreto che non aveva mai voluto rivelargli.
Sua madre una volta, quando era molto piccolo, prima di morire si era fatta sfuggire che prima di vincere suo padre aveva ucciso un dodicenne.
Forse era per quello che, prima di conoscerla, aveva sperperato tutto il denaro vinto in cose futili, per sotterrare il dolore e il rimorso.
Quando erano rimasti soli, Everett era stato costretto ad andare a lavorare in fabbrica, perché suo padre, disperato, non era più in ottime forze.
Era diventato un adulto a soli quattordici anni, quando un comune adolescente dovrebbe essere nel pieno della spensieratezza.
Per fortuna, però, aveva incontrato delle persone capaci di comprenderlo: Alisha e Blaze. Senza di loro le sue giornate sarebbero state completamente vuote, monotone, incolori.
Dopotutto c’era un motivo se erano i suoi migliori amici.
Con un sorriso se li immaginò mentre facevano il tifo per lui, il che gli diede la forza per affrontare quest’ennesima prova.
Sono pronto, si disse, avviandosi verso la postazione che aveva imparato a considerare come quella più familiare: gli aghi.
Durante le giornate di allenamento con suo padre aveva imparato a utilizzarli alla perfezione, in qualsiasi modo gli fosse possibile. Erano la sua arma.
Prima di lanciarne qualcuno verso un manichino a qualche metro di distanza, sollevò il viso in direzione degli strateghi.
L’unico che lo stava osservando era l’uomo che l’aveva chiamato per interfono. Degli altri si sentivano soltanto le fitte chiacchiere.
Everett ripose tutte le sue speranze in quello stratega. Non sapeva perché, ma gli ispirava fiducia.
Prese cinque aghi per mano. Fece un respiro e con uno scatto li lanciò tutti e dieci verso il manichino, a cui perforarono il petto violentemente.
Non ancora soddisfatto, decise di mostrare un’altra sua specialità: la mimetizzazione.
Anche quella l’aveva imparata con suo padre.
Nella postazione apposita, cominciò a coprirsi di terriccio ed erbe varie, fino ad assomigliare ad un cespuglio rado. Quando si unì ad altri cespugli, il risultato sembrò perfetto.
– Tempo scaduto – dichiarò Ionas, al che Everett abbandonò la sala abbastanza  contento.
– Cicero, che te n’è parso? – domandò quindi l’aiuto-stratega con dell’ironia velata. Era chiaro che il Capostratega non avesse seguito neanche un minuto della sessione.
– Dagli la sufficienza, ne ho già abbastanza di questi tributi… ci serve altro liquore! – E qui Jack e Hack cominciarono a ridacchiare, brilli come non mai.
A dir poco esasperato, Ionas segnò un 6 accanto al nome di Everett.

– Makaira Win – fu il successivo nome.
Makaira sentiva l’adrenalina scorrere nel suo corpo. Era pronta, pronta come non mai.
E, non di meno, non vedeva l’ora di entrare nell’arena.
Il destino le stava dando l’opportunità di vendicare sua sorella Camilla, morta tra gli ultimi quattro due anni prima in uno stupido incidente.
Makaira odiava i terremoti, da quel giorno, e odiava gli strateghi che l’avevano provocato. Erando subdoli, meschini e senza scrupoli.
Difficilmente sarebbe riuscita a digerire uno dei suoi giudici, ma era costretta a fare buon viso a cattivo gioco.
Poteva tenere la sua furia da parte, almeno per compiacere gli sponsor.
Aveva sentito dire dalla sua accompagnatrice, Ilyan, che orde di capitolini stavano già facendo le file giorno e notte dinanzi alle sale per le scommesse, affamati di Hunger Games.
Gli daremo tutto ciò che vogliono, pensò serena ma spietata.
Senza riflettere un altro secondo, si fiondò sulla postazione dei coltelli. C’erano centinaia di lame: seghettate, corte, affilate, lunghe, flessibili, dal manico intagliato…
Davvero non seppe quale scegliere. I coltelli erano i suoi migliori amici e per un attimo rimase quasi incantata dalla vastità dei modelli.
Ne prese un paio a caso, visto che la scelta era decisamente ampia. Se li caricò in una cintura apposita, insieme ad altri di diverso genere. I suoi preferiti erano quelli ricurvi.
Iniziò a correre per la sala, lanciandone in giro due alla volta. Molti centravano i bersagli, altri le pareti o i tronchi degli alberi.
Makaira era una belva, non sembrava neanche lei, quando maneggiava i coltelli.
Per tutta la sua prova lanciò quelle lame, in corsa, finché alla fine non ebbe il fiatone.
Era soddisfatta, ad ogni modo. Il distretto sarebbe stato fiero di lei se avesse preso un punteggio alto, nonostante nessuno dei suoi concittadini l’avesse mai apprezzata.
Esattamente come Camilla, l’avrebbero considerata “una favorita nata nel distretto sbagliato”. E lo era, lo era davvero.
Quasi sentì bruciare come un marchio il tatuaggio che aveva sulla spalla.
Oh, sì, sarò una spietata favorita, si disse. E vincerò, per vendicare mia sorella.
Alzò lo sguardo color della pece sugli strateghi. Per un attimo la sua sicurezza vacillò.
Nessuno l’aveva osservata, eccetto l’uomo che l’aveva chiamata per interfono.
Lo fissò negli occhi e questi ne fu quasi spaventato.
Con gli occhi quasi lo minacciò di morte se non le avesse messo un voto decente.
Lanciò un ultimo coltello verso un quadro della saletta, ma nessuno ci fece caso, continuando a ridere e a bere.
– Tempo – disse Ionas quasi timoroso.
Makaira grugnì e buttò la cintura dei coltelli a terra, mentre si allontanò quasi calpestando il pavimento.
Ionas si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore. Quella ragazzina era inquietante, l’aveva sempre pensato. Troppo strana per appartenere al Distretto 8.
Ricordava vagamente la storia di sua sorella e poté intuire che tutto il suo odio era stato coltivato per vendicarla. Magari prima di veder morire la persona per lei più importante al mondo era diversa, timida e silenziosa.
– Che voto le metto? – chiese ai colleghi, ma nessuno gli rispose.
Tossicchiò, ma il risultato fu uguale.
– Che voto le metto? – ripeté, stizzito.
Solo Arian lo calcolò, stavolta, distogliendosi per un attimo dalla discussione accesa con Sandra. – 6, come al suo compagno.
– E perché? –
domandò.
– Mettiglielo e basta, Lightwood! – sbraitò Sandra, prima di prendere il viso di Arian tra le mani e baciarlo con passione.
L’altro, sbalordito, sembrò la persona più felice del mondo.
Ionas si mise una mano sul volto. Mancavano ancora quattro distretti.
Con risentimento – lo sguardo di Makaira gli aveva davvero fatto paura – segnò 6 sul taccuino.

Il Distretto 9 fu annunciato con il tributo maschile.
– Alec Lewis.
Il ragazzo che entrò in sala aveva decisamente un fisico ben piazzato, con spalle larghe e petto ampio, braccia possenti e gambe muscolose di chi corre o cammina tutto il giorno per i campi di grano.
Alec era in combutta con se stesso: aveva paura, ma era anche carico, pronto.
Detestava quella situazione, ma non aveva altra scelta che combattere fino alla fine.
Se Greg fosse stato al suo posto, probabilmente sarebbe stato spacciato sin dall’inizio. L’unico luogo in cui sarebbe stato avvantaggiato era il palco delle interviste. A differenza sua, Greg aveva un’ottima parlantina e riusciva ad addolcire chiunque, anche senza fare per forza riferimento alla sua sedia a rotelle.
Alec ricordava ancora come la malattia si era portato via le sue gambe, all’inizio scattanti e robuste come le proprie.
Quando erano ancora bambini, amavano giocare con alcuni coetanei a guardia e ladri sulle colline, durante le pause mattutine. Il sole li riscaldava, il vento quasi li faceva volare.
Correvano come matti sino a rotolare sull’erba e scoppiare a ridere. Erano stati probabilmente i momenti più belli della loro vita, perché poi tutto era degenerato.
Erano rimasti migliori amici, ma i doveri della vita se li erano portati verso l’età adulta ancor prima che se ne accorgessero.
Alec, oltre a lavorare ogni giorno nei campi, voleva diventare un medico.
Sogno impossibile, gli dicevano in molti, sua madre compresa, che era una semplice erborista. Quel mestiera era il massimo a cui poteva aspirare un ragazzo come lui, residiente in uno dei distretti più poveri.
Aiutare le persone lo faceva sentire bene, in qualsiasi caso, e lo faceva senza neanche chiedere favori o per sentirsi adulare.
Pensava che in qualche modo era un metodo per contrastare la supremazia di Capitol City. Alec medicava le persone frustate dai Pacificatori, curava i bambini con il raffreddore, aiutava gli anziani che non riuscivano ad attraversare la strada. Senza secondi fini.
Aveva imparato molto, e tutto da solo, soprattutto grazie all’eperienza.
In giro lo chiamavano “il medico del grano”, appellativo che si era conquistato con orgoglio.
Dopo aver riflettuto su cosa potesse fare alla sessione, aveva deciso di dedicarsi alle falci, che normalmente utilizzava ogni giorno per falciare il grano.
Dimostrare le sue abilità curative non sarebbe servito a molto e poi preferiva rischiare, almeno in quel frangente. Di solito non era una persona precipitosa, impulsiva o fiera. Semplicemente faceva tutto quello che doveva fare.
Prese una falce dalla postazione, impugnandola saldamente.
Si avvicinò ad alcuni manichini inermi. E, mirando alle loro teste, cominciò a tranciarle una ad una, con colpi secchi e precisi che recidevano il capo dal resto del corpo violentemente.
Ionas, rassegnatosi ormai all’idea di essere il solo a seguire le ultime sessioni, contò diciassette teste.
Alec, alla fine dei quindici minuti, ansimava, ma era abbastanza soddisfatto.
– Tempo scaduto – disse lo stratega, guardando l’orologio da polso.
Il ragazzo lo salutò educatamente e uscì con un mesto sorriso.
A nulla valsero i tentativi di Ionas per smuovere gli altri colleghi dai loro intenti e convincerli ad aiutarlo.
– Cicero, questo tributo ha falciato le teste di diciassette manichini – disse all’ubriaco Capostratega che, nonostante fosse più che brillo, continuava a ingurgiatre bicchieri di liquore.
Cicero gli rispose con una risata. – Che bravo ragazzo! – esclamò gioviale. – 8! Un 8 è più che assicurato – E poi continuò a chiacchierare con Jack e Hack.
Ionas, felice che quel ragazzo fosse stato risparmiato dalla furia dei voti bassi, segnò 8 accanto al suo nome sul taccuino.

– Lorelei Uk – chiamò Ionas. Gli pareva che fosse l’unica dodicenne in gara quell’anno.
La ragazzina dai capelli color del grano entrò titubante nella sala, ma comunque con sguardo determinato.
Era vogliosa di mettersi in gioco, ma anche abbastanza nervosa.
Aveva deciso la sua strategia in precedenza: si sarebbe mimetizzata in modo discreto, per non ottenere un voto altissimo. Così tutti l’avrebbero creduta più ingenua del dovuto.
Grosso errore, pensò con un sorriso. Non si sottovalutano mai le persone. Persino i tuoi più grandi amici potrebbero tradirti quando meno te lo aspetti.
Lorelei l’aveva testato sulla sua pelle, quando suo padre, dopo averla selvaggiamente picchiata, se n’era andato.
Suo padre, Stan, l’uomo che sarebbe dovuto starle accanto per sempre.
Ogni volta che gli rivolgeva il pensiero, le prudevano le mani dalla rabbia. Avrebbe voluto ucciderlo, tant’era grande l’odio che provava.
Lorelei non era più una bambina; forse non lo era mai stata. Era stata privata della sua innocenza molto tempo addietro, ancor prima che si potesse rendere davvero conto quanto crudele fosse il mondo.
Era arrabbiata con tutti, certo, e sembrava che l’odio fosse l’unico sentimento che riuscisse a provare senza autodistruggersi. Eppure, il suo cuoricino raggrinzito era triste.
Lorelei non piangeva mai. Non l’aveva più fatto, dopo che Stan era scappato.
Il suo animo, però, piangeva per lei. Perché era tutto troppo, dannatamente difficile.
Era difficile guardare sua madre singhiozzare ogni sera accanto al camino; era difficile guardare i suoi fratelli rimpiangere e ripudiare al contempo la presenza del padre; era difficile guardare Brick negli occhi sapendo che per vincere aveva dovuto ammazzare delle persone; era difficile ascoltare tutte le parole di conforto di June e vederla rincorrere impossibili sogni ad occhi aperti.
Lorelei stessa era difficile, o quasi impossibile.
Ma quella sessione non lo era. E neanche l’arena, se messa a confronto con tutti i guai che aveva passato e con tutti i sorrisi falsi a cui era stata costretta a credere.
L’avrebbe affrontata con dignità, come si addiceva ad una piccola guerriera come lei.
O meglio, come a un piccolo falco reale.
– Salve – disse più ironicamente che gentilmente. Notò che la maggior parte degli strateghi non si era neanche accorta della sua presenza. Poco male.
Giunse velocemente alla postazione di mimetismo.
Avrebbe tanto voluto ricreare tutto quello che aveva fatto durante quei tre giorni di addestramento, ma si trattenne.
Le sue vere capacità, che non si limitavano al travestirsi da cespuglio, sarebbero affiorate pian piano durante i Giochi veri e propri.
Prese della pittura marrone e con un grosso pennello cominciò a tingersi la pelle candida, non curandosi neanche di tenere i vestiti immacolati.
Voleva imitare un albero, ma, appositamente, sbagliò colore e aggiunse del blu sul volto e del rosso sulle mani.
Infine, si ornò le braccia e le gambe di ramoscelli e foglie varie, trovate in giro per la postazione.
Guardò il risultato e ne fu compiaciuta. Un – quasi – totale disastro.
– Ho finito – disse. E, ancor prima che fosse scaduto il tempo, se ne andò lasciando sbigottiti i pochi che la stavano guardando. – Arrivederci.
Ionas non riusciva neanche a esprimere un giudizio su di lei. La sua prova era durata solo cinque minuti!
Per fortuna un senza-voce aveva osservato la sessione con lui, dal suo angolino e con un vassoio d’argento in mano.
Gli venne in mente una malsana idea. – Tu che voto le daresti?
L’uomo andò in panico, sentendosi paradossalmente chiamato in causa. Scosse la testa con gli occhi sbarrati dall’imbarazzo.
Ionas si passò una mano sul volto, già stanco di tutto ciò.
Riflettè come avrebbe riflettuto Cicero, perché era l’unica cosa che poteva fare in quel momento, visto che il Capostratega era momentaneamente assente, essendosi diretto ai bagni.
Probabilmente starà vomitando anche l’anima, disse disgustato. Rispettava il suo superiore, ma proprio non capiva perché cadesse così in basso durante le sessioni.
Riluttante, segnò 5 sul taccuino accanto al nome di Lorelei.
Forse i suoi colleghi le avrebbero assegnato anche un 4, ma non potevano di certo sapere che la ragazzina era andata così male.
Resterà tra me e te, le disse con il pensiero, anche se poi si diede dello stupido perché si rese conto che Lorelei non avrebbe mai saputo del suo gesto benevolo, in qualsiasi caso.
 
– Zefren Leris – disse Ionas tramite interfono, chiamando un altro scalpitante tributo.
Zefren aveva la testa altrove. O meglio, dappertutto meno che concentrata sulla sessione. Aveva già deciso cosa fare in precedenza, ma la sua determinazione era calata quando aveva cominciato a pensare a Thanatos.
Non ricordava bene che punteggio avesse preso suo fratello alla prova con gli strateghi – ricordava forse un 5 –, ma quello che importava era che Thanatos non era più tornato, nonostante gli sponsor che si erano fatti addolcire dalla sua triste storia con Amber, per giunta tributo femminile di quell’anno.
Amber era stata uccisa da un Favorito, dopo che Thanatos aveva cercato di proteggerla con il suo corpo.
Zefren si rendeva ben conto che gli sponsor servissero a poco: il problema principale dell’arena era cercare di non farsi ammazzare dagli altri tributi.
Non immaginava in che modo il fratello avesse dato prova di sé durante la sessione, ma aveva una mezza idea che verteva sui coltelli.
Anche per quello Zefren aveva deciso di usare quell’arma. Si era offerto per riscattare l’anima di Thanatos, in qualsiasi modo gli fosse possibile.
Ricordava ancora bene le ultime parole che si erano scambiati…

– Mi raccomando, cercate di morire mano nella mano alla Cornucopia – aveva detto Zefren a suo fratello, riferendosi anche ad Amber.
Thanatos lo aveva guardato con occhi afflitti dal dolore. – Zef, lo sai che mi dispiace… ma io sono innamorato di Amber. Mi sono offerto per proteggerla.
Zefren aveva stretto i pugni in una morsa ferrea. – E ora questo tuo stupido amore ti porterà nella tomba!
– Stupido?! –
urlò l’altro ragazzo, frustrato. – Anche tu sei ancora innamorato di lei!
– Sciocchezze! –
gridò Zefren di rimando. E, senza neanche salutarlo e ancor prima che un Pacificatore lo venisse a chiamare, se ne andò sbattendo la porta del Palazzo di Giustizia.

Zefren aveva rimpianto quell’addio per sempre.
In quel momento era solo accecato dalla rabbia e non era stato neanche in grado di salutare suo fratello. Non se lo sarebbe mai perdonato.
Certo, entrambi erano realmente innamorati di Amber, ma l’amore o l’odio non giustificavano nulla.
Distratto dai suoi pensieri, non notò che nessuno stratega lo stava osservando, eccetto Ionas, che aveva preso a cuore la sorte dei tributi di quell’anno.
Andò con calma verso la postazione dei coltelli e, mirando un manichino non troppo lontano, cominciò a lanciarli due alla volta.
I primi colpirono le mani, i secondi l’addome e i terzi gli occhi.
Continuò con lo stesso ritmo su altri bersagli e, nonostante qualche tiro andasse a vuoto, alla fine della sessione era abbastanza soddisfatto di se stesso. Dopotutto non desiderava neanche un voto eccellente.
Abbandonò la sala persino prima che il tempo fosse definitivamente scaduto.
Ionas si accarezzò il mento, pensoso.
Non aveva idea di che voto potesse meritare il ragazzo del Distretto 10.
Forse un 7, o magari un 6…
Girò il volto verso i suoi colleghi, ancora occupati in altre faccende.
Qualcuno lo chiamò toccandogli una spalla. Voltandosi, riconobbe lo stesso senza-voce di qualche istante prima.
L’uomo con le dita indicò un sei.
Ionas annuì e segnò quel voto. Almeno finalmente aveva trovato un alleato in quell’assurda situazione.

Fu poi il turno del tributo femminile del Distretto 10.
– Karité Oyzis.
La ragazza che entrò in sala aveva sedici anni, un’altezza nella media e un corpo sottile come un giunco. Teneva inoltre i capelli rossicci in una treccia arrotolata all’altezza della nuca. Probabilmente, se sciolti, dovevano essere veramente lunghi, sino ai fianchi e più.
Aveva un atteggiamento titubante e camminava guardandosi intorno con i suoi occhi grandi e lucidi come quelli di un cerbiatto.
Con fare timoroso si avvicinò quanto più possibile alla saletta degli strateghi e con tristezza notò che erano completamente distratti da altre cose.
Ionas, insieme al senza-voce, era l’unico che l’osservava con l’intenzione di giudicarla.
Karité si rivolse direttamente a lui. – Avrei bisogno di un favore.
La sua voce era sottile e bassa, ma lo stratega pensò che fosse dovuto solo alla timidezza e al nervosismo. Non poteva di certo conoscere la storia della ragazza, d’altronde.
Con stupore ricordò di non averla mai sentita parlare prima, per cui con un cenno del capo la pregò di continuare.
Karité si guardò ancora intorno, come se sentisse di essere spiata da qualcuno. – Mi servirebbe un animale.
Ionas corrucciò lo sguardo. – Che tipo di animale?
– Un animale di piccola taglia, per la prova.
Lo stratega riflettè sulla sua richiesta. Ad Ibiza avevano concesso i condannati a morte, ma se un tributo di un distretto povero l’avesse chiesto al Capostratega, questi avrebbe rifiutato di sicuro.
Secondo Cicero, nessun tributo poteva dare più spettacolo di un Favorito, infatti.
Ionas, però, che era d’animo buono, volle metterla alla pari della ragazza del primo distretto. Pertanto, chiese al senza-voce di portargli uno dei conigli che avrebbero dovuto cucinare a breve.
Karité quasi sembrò sollevata, poi però prese a torcersi le mani.
Qualche minuto dopo, il senza-voce tornò con un coniglio ingabbiato di medie dimensioni.
Lo portò sino accanto a lei, scendendo da una scala di sicurezza.
Karité lo liberò e lo mise a terra, accanto ai propri piedi. Se prima il coniglio sembrava spaventato, alla presenza della ragazza appariva tranquillo.
Prese ad accarezzarlo lentamente, accucciandoglisi vicino. Alle carezze la bestiola rispondeva con entusiasmo, rilassata.
– Andrà tutto bene – gli diceva Karité, passando le sue mani affusolate sulla testolina pelosa. – Andrà tutto bene – ripeté, addolcendo il tono.
Senza che il coniglietto se ne accorgesse, da una tasca prese un piccolo coltellino affilato e con l’altra mano continò ad accarezzarlo.
– Andrà tutto… – disse nuovamente, piantandogli con un gesto repentino ed eppure delicato la lama nella gola. – …bene.
Il fiotto di sangue che spruzzò macchiò le mani di Karité, che rabbrividì e inspirò, ricordandosi di cosa quel colore sarebbe stato capace di sprigionare in lei.
Cercò di controllarsi. Con le mani macchiate, si avvicinò ad una parete e con le dita rosse scrisse delle lettere sull’intonaco.
Ionas la osservava esterrefatto. – N… – lesse. – A… H… E… Che significa?
La ragazza non rispose, tornando accanto alla bestiola morta.
Con lo stesso coltellino che aveva usato prima iniziò a scuoiare il coniglio, mentre alcune lacrime facevano capolino sul suo viso.
Karité non avrebbe voluto farlo, ma se l’era imposto.
Dopo alcuni minuti la pelle dell’animaletto finì in un angolino, dimenticata. Avrebbe potuto confezionare qualcosa con quella, ma preferì tralasciarla per guadagnare tempo.
Aveva ancora all’incirca tre minuti, non poteva perdere attimi preziosi.
Accese velocemente un fuoco, sfregando due pietre con la giusta velocità. E, infine, appeso il coniglio ad un’asta, iniziò a cuocerlo.
– Tempo scaduto – fu poi costretto a chiamare Ionas.
Nonostante il coniglio fosse ancora mezzo crudo, Karité spense il fuoco e, con le mani ancora sporché di sangue uscì dalla sala.
Gli strateghi non potevano saperlo, ma appena fu fuori la ragazza pianse a lungo, disgustata da se stessa. Non sarebbe mai stata in grado di uccidere, nell’arena.
Probabilmente avrebbe fatto la fine di quel coniglietto, ucciso con l’inganno.
Ionas era stupefatto. Karité era stata capace di riassumere tutto quello che era necessario saper fare nell’arena. Procurarsi del cibo, sopravvivere. Ingannare.
Aveva notato le lacrime della ragazza e capì che doveva essere in combutta con se stessa. Eppure non si spiegava le lettere sul muro… N, A, H, E. Dovevano essere le iniziali di qualcuno per lei importante. O qualche messaggio criptato.
Scosse la testa, e segnò 7 sul taccuino.
Per una volta aveva le idee chiare. Il senza-voce, accanto a lui, annuì.
Arian si avvicinò, curioso a causa del sangue che aveva notato sul pavimento e a cause dell’odore di carne e fumo.
– Dov’è Sandra? – gli chiese ironico Ionas.
– Oh, è andata a fumarsi una sigaretta – ripose l’altro. – Piuttosto, che ha fatto ‘sta ragazzina di tanto macabro?
– Ha scuoiato un coniglio e l’ha cucinato –
ribatté il secondo stratega.
– Ah! – esclamò l’uomo dai capelli verdi. – Che tributa ingegnosa! E quanto le hai messo?
– 7 –
disse Ionas, senza aggiungere altro.
– Magnifico, Ios!
Ionas si passò una mano sul volto, esasperato.

Il nome successivo fu: – Vladimir Pochka.
Vladimir, o meglio Vladi, era un ragazzino sempre allegro e che difficilmente metteva il broncio per qualche stupido motivo. Sin dalla mietitura si era dimostrato coraggioso e sorridente, cercando di non cadere nello sconforto.
Lo faceva per farsi forza, perché per lui era inconcepibile avvilirsi o abbattersi facilmente.
Anche quando entrò in sala aveva un gioviale sorriso stampato sul volto abbronzato, dovuto alle intere giornate di sole passate nei campi.
Era un’abilità naturale, quella che aveva. Sorridere. Quasi contagiosa.
Ionas, nel vederlo, provò un moto d’affetto.
Vladi era dotato di tratti ancora infantili e il suo modo di porsi lo rendeva simpatico a molti. I capitolini, ad esempio, che erano da sempre propensi a sponsorizzare o i più piccoli o i super-favoriti, l’avevano adorato sin dal primo istante.
Forse, da un lato, lui ne era persino consapevole e cercava di sfruttare questa sua dote per tornare a casa, dal suo fratellone Ivan, dalla pestifera sorellina Dana e dal migliore amico Vlandislav.
Vladi sentiva la mancanza di tutti loro. Detestava la solitudine e il silenzio, per questo stava cercando di studiare gli altri tributi per scegliersi almeno un alleato.
Ibiza, ad esempio, l’aveva colpito da subito. Era dolce, solare, simpatica.
Completamente l’opposto della classica ragazza del Distretto 1.
Si erano trovati bene già dall’allenamento, quando avevano provato a mimetizzarsi insieme, riuscendoci solo in parte. Anzi, avevano concluso quella giornata con una bella risata.
Inoltre, custodiva gelosamente nella tasca della tuta un foglietto che gli aveva donato Vlandislav alla mietitura con tutte le firme dei suoi amici.
Gli ricordava casa, i campi, il sole e la spensieratezza. Sarebbe stato il suo portafortuna, il suo tesoro più prezioso nell’arena.
Si avvicinò alla saletta degli strateghi, che salutò animatamente con la mano.
Dopodiché, cominciò ufficialmente la sua sessione.
Dalla postazione degli archi ne prese uno alla sua portata, né troppo grande, né troppo flessibile. Con esso, si munì di due frecce.
Mirando a un manichino abbastanza distante, ne incoccò una e la lanciò volutamente troppo in altro e, mentre questa compiva un giro in aria, scoccò anche l’altra.
Entrambe si piantarono nella testa del bersaglio contemporaneamente.
Bramoso di approvazione, si voltò verso gli strateghi. Con grande disappunto notò che solo uno l’aveva guardato.
Infastidito, si portò due dita alla bocca e fischiò, cercando di richiamare l’attenzione di tutti. Fortunatamente, altri due strateghi si voltarono verso di lui, più un senza-voce dall’aria interessata.
Era sicuramente meglio di nulla, visto che la maggior parte dei presenti era troppo attratta dal banchetto e dall’alcool per giudicare la sua prova.
Vladi si accontentò e ripeté l’operazione con l’arco, ottenendo qualche commento di assenso.
Infine, si spostò in direzione di un altro manichino e fece qualcosa di simile con i coltelli, solo centrandogli il petto.
Sorrise soddisfatto, salutò educatamente e uscì più rilassato, stringendo il foglietto che aveva in tasca.
A Ionas quella prova era piaciuta. Trovava quel ragazzino gradevolmente impertinente.
Si voltò verso Arian e Seen, gli altri due colleghi che al fischio si erano voltati.
– Che ne pensate? – domandò loro, entusiasta.
– Prova carina, ma gli altri tributi hanno fatto di meglio – rispose l’impassibile Seen, incrociando le braccia.
– Concordo – assentì Arian. – Per me merita 6.
Ionas cambiò subito espressione, deluso che quei due avessero una considerazione così bassa di Vladimir. – Perché non 7, come alla ragazza di prima? – provò.
– 6 anche secondo me – rispose Seen. – Dopotutto viene pur sempre dal Distretto 11.
Ionas, vagamente dispiaciuto, fu costretto a segnare 6 sul taccuino.
Purtroppo la maggioranza vince sempre, pensò rassegnato.

– America Wilson – chiamò allora Ionas, annunciando il tributo femminile del Distretto 11.
America, con i suoi lunghi capelli biondi – vera particolarità per il suo distretto – e gli occhi grigioazzurri, sembrava davvero un angelo. Uno di quelli che raccontano le religioni, che con le ali spiccano il volo pronti per solcare i cieli e far regnare la pace.
Ma America, oltre all’aspetto, non aveva nulla di angelico. Era una ragazza pratica, anche leggermente acida.
Non si faceva problemi a dire quello che pensava, né a raggiungere i propri scopi a qualsiasi costo.
Lo scopo di quel momento era vincere gli Hunger Games. Per tornare a casa da Lucas, dalla madre Tiffany e per rendere orgogliosa l’anima di suo padre, deceduto vincitore.
Non si era offerta per nulla, dopotutto. America era ben cosciente che ogni cosa avesse un prezzo, e ciò valeva anche per il suo gesto.
Al Palazzo di Giustizia il fratellino Lucas, piangendo, le aveva detto di essere stata una stupida. Le era molto affezionato, e per niente al mondo avrebbe voluto vederla morire.
– Stupida, stupida! – Quelle parole disperate le rimbombavano ancora in testa, come un’eco. L’aveva abbracciata a lungo e le aveva fatto promettere di ritornare.
Anche per lui avrebbe vinto, o la sua promessa sarebbe stata vana.
America manteneva sempre le promesse, nonostante a volte costassero caro.
Devo vincere, si diceva per farsi forza. La stoffa ce l’ho, d’altronde. E, Lucas, ti dimostrerò che non sono una stupida, che i Wilson possono avere ancora un vincitore.
Era abbastanza sicura di se stessa, ma sapeva che negli Hunger Games nulla è prevedibile.
Aveva fatto persino delle ipotesi sull’arena, ma non aveva concluso niente.
Una landa ghiacciata? O una foresta di latifoglie?, pensava ancora, rimuginando sulle diverse possibilità. O ancora una spiaggia desolata? Magari una montagna rocciosa…
Scosse la testa. Era comunque preparata ad ogni evenienza.
Dopotutto il suo distretto godeva di diversi climi per ogni determinato periodo dell’anno. Forse, se la sorte fosse stata dalla sua parte, sarebbe stata anche avvantaggiata.
Preferì concentrarsi sulla sessione. Aveva preparato un numero speciale per gli strateghi.
Rimarrano colpiti, si disse orgogliosa.
Per prima cosa, si avvicinò a un tavolo di legno con delle erbe mediche. Non curandosi minimamente di queste ultime, le gettò a terra rovesciando il ripiano in modo da avere la parte rettangolare di fronte a sé.
Si allontanò un istante, recuperando un arco, una faretra di frecce e una cintura di coltelli. Si mise velocemente tutto in spalla, tornando a qualche decina di metri dal tavolo rovesciato.
I primi furono i coltelli. Li lanciò uno ad uno sul legno, a debita distanza l’uno dall’altro, qualcuno più in alto e qualcuno più in basso.
Ionas e qualche altro collega che si era avvicinato per curiosità si domandavano quali fossero le intenzioni della ragazza. Non sarebbe stato meglio se avesse utilizzato dei manichini, come tutti gli altri?
America continuò la sua opera sino ad esaurire i coltelli della cintura. Dopodiché, la gettò in un angolino e passò alle frecce.
L’arco era probabilmente l’arma che amava di più. Incoccò una freccia con precisione e mirò poco sopra a un coltello che aveva lanciato in precedenza. Scoccò e la punta si andò a piantare proprio doveva aveva premeditato.
Continuò la stessa operazione anche con le frecce, finché non le esaurì e fece un sorriso puramente e pienamente soddisfatto.
Gli strateghi, dall’alto della loro saletta, poterono capire finalmente la prova della ragazza. Sul tavolo ora, con frecce e coltelli allineati, si poteva chiaramente leggere il nome “America”.
– Arrivederci – disse la ragazza, a metà tra il sarcastico e l’arrogante, quando il tempo fu terminato.
Qualcuno la applaudì.
– In gamba, questa ragazzina, per essere dell’11 – disse Arian con approvazione. – Le darei un bell’8, che ne dite?
Seen ed altri colleghi annuirono.
– Ionas, segna 8, su – gli intimò l’uomo dai capelli verdi.
Ionas odiava quando a dargli ordini non era Cicero ma uno dei suoi pari. Visto che comunque era d’accordo, però, si limitò a imprecare in silenzio, segnando quel voto accanto al nome di America.

Giunse il turno dell’ultimo distretto, il 12, che chiudeva le danze.
Il tributo maschile fu chiamato da Ionas, come tutti gli altri, tramite interfono. – Richard McIntyre.
Il ragazzo entrò svogliatamente nella sala, con le mani intasca e l’espressione annoiata.
Per lui tutta quella storia era solo un’altra seccatura. A cosa servivano i voti degli strateghi se poi un Favorito ti avrebbe ucciso nella notte, quando tutto tace?
A nulla, ecco a cosa.
La storia dei voti era solo un altro modo per attirare sponsor e, consecutivamente, audience. Inutile.
Fissò dritto in volto l’unico stratega che lo stava guardando, quello che l’aveva chiamato. Questi ricambiò lo sguardo, interdetto.
Controvoglia, Richard si avvicinò a qualche manichino indifeso.
Prese un respiro profondo e, sgranchendosi le dita delle mani, cominciò a prenderli a pugni.
Sembrava un incontro di boxe, con l’unica differenza che gli avversari non si muovevano, né reagivano. Inoltre, Richard non aveva i guanti appositi e se non fosse stato abbastanza abile, avrebbe anche potuto rompersi qualche dito.
Continuò con lo stesso ritmo per qualche minuto, finché non prese a mandare dei calci dritti nelle cosce dei manichini, che li fecero cadere a terra uno ad uno.
Richard non lo stava facendo per dare prova di sé, ma per sfogarsi.
Immaginava di picchiare tutte le persone che lo infastidivano, di farle fuori con solo la forza delle sue braccia. Degli strateghi se ne stava infischiando altamente.
Quando nel voltarsi, però, vide che nessuno oltre all’uomo di prima l’aveva osservato, un moto di rabbia si fece largo dentro di lui.
Organizzavano tutta quella farsa e poi non lo calcolavano neanche di striscio?
Richard strinse i pugni e socchiuse le palpebre in un gesto minaccioso.
Certo, lui poteva permettersi di maltrattare le persone, ma gli altri non potevano permettersi di maltrattare lui. Quella era la sua filosofia.
Giusta o sbagliata che fosse non importava.
– Tu, damerino! – disse, chiamando Ionas.
Lo stratega gli rivolse uno sguardo interrogativo e paziente al contempo.
– Chiama i tuoi colleghi, voglio che mi prestino attenzione!
A quelle parole, anche Arian e Seen si voltarono.
– Non siamo autorizzati a fare quello che dici tu, Distretto 12 – lo ammonì il primo con tono infastidito.
– Beh, fareste meglio a darmi ascolto… o preferite ingozzarvi di quella merda? – fece retoricamente il ragazzo, riferendosi a tutto l’alcool che stavano consumando.
– Modera i termini, ragazzo – gli disse Ionas, ma Richard non ne volle sapere nulla.
– Io faccio quello che cazzo mi pare e non saranno di certo degli strateghi senza palle a fermarmi!
Seen fu il primo a prendere dei provvedimenti. – Sicurezza! – chiamò.
Gli stessi uomini che avevano recuperato Samantha scesero da una scala di sicurezza e lo costrinsero a uscire, mentre Richard ancora urlava: – Andate tutti a fanculo!
Ionas scosse la testa. Aveva capito già dalla mietitura che quel ragazzo fosse ingestibile, ma non pensava fino a quel punto.
Sperò per il suo bene che gli strateghi non lo prendessero di mira.
Una volta finita la discussione, Arian disse: – Questo idiota non merita neanche di essere giudicato.
– Dobbiamo pur farlo, ha fatto comunque qualcosa –
replicò Ionas.
– E cosa? Prenderci a parole? – domandò l’altro retoricamente.
Ionas indicò i manichini che aveva preso a pugni, a terra e danneggiati. – Gli abbasseremo il voto per la sua inadeguatezza, ma dobbiamo comunque darglielo.
– E quanto, 1?
– Un 4 è più che sufficiente –
si limitò a dire Seen.
Ionas preferì non allungare ulteriormente la discussione e segnò 4 sul taccuino. Forse gli era andata bene.

Fu quindi il turno dell’ultimo tributo, quello femminile del Distretto 12.
– Evelyn Gray – annunciò Ionas, voglioso di concludere finalmente quelle sessioni.
La ragazza, il cui fisico minuto e agile rimandava a quello di un grazioso folletto dai capelli corti, entrò con sguardo determinato.
Era una ragazza estremamente ambiziosa, Evelyn, e per quella prova – l’ennesima, nella sua vita – aveva premeditato di dare il meglio di sé.
L’arco era l’unica arma a cui si fosse affezionata nel tempo. Le altre non le usava con la stessa passione, né con la stessa abilità.
Preferiva non domandarsi cosa sarebbe accaduto se non avesse trovato un arco nell’arena. Forse avrebbe potuto nascondersi, lontano da assassini e occhi indiscreti, e poi saltare fuori al momento adatto ed esplodere come una bomba ad orologeria.
Era ingegnosa, furba e pratica. Difficilmente non trovava una soluzione ai problemi e anche quelli dell’arena si sarebbero rivelati, per lei, risolvibili.
Doveva vincere, perché non voleva sprecare così la sua vita. Le carte in regola le aveva e presto le avrebbe schierate tutte in tavola, lasciando a bocca aperta avversari e spettatori.
Il suo distretto sarebbe stata fiera di lei.
Forse dopo sessantatré anni il Distretto 12 avrà un terzo vincitore, pensò con gli occhi dorati che le brillavano. Certo, Haymitch non le era di grande aiuto, ma avrebbe potuto farcela anche da sola.
Perché era stata sempre da sola nella sua vita, dopotutto. Non cambiava molto, nell’arena o a casa.
L’unico sostegno che aveva era Tellie, ma era morta due anni prima alla Cornucopia.
Gli altri suoi amici o suo fratello Jae non avrebbero mai potuto rimpiazzarla.
Era anche per lei che avrebbe vinto, per riscattarla.
Tellie non meritava di morire, era una ragazzina dolcissima. Più di quanto chiunque potesse immaginare.
E, pur essendo un anno più piccola di lei, era stata in grado di insegnarle molte cose, come riconoscere le piante benefiche, trovare l’acqua e piazzare qualche trappola.
Anche se involontariamente, Evelyn era in debito con lei.
Non notò neanche il trambusto che avevano lasciato ventitré tributi prima di lei, quindi prese un arco, concentrata e determinata.
Aveva ideato una prova speciale. Forse gli strateghi l’avrebbero premiata per quello.
Mirò ad alcuni bersagli a muro, con forma umana. Le parti vitali erano indicate da alcuni cerchi rossi sul cranio, sul petto e sull’addome.
Evelyn, però, aveva altri piani.
Tirò le prime frecce, che andarono a colpire mani e piedi dei bersagli. Sentì qualche sporadica risata, al che anche lei fece un piccolo sorriso sarcastico. Non avevano idea di quello che avrebbe fatto.
Per non far calare l’attenzione che aveva ottenuto, scoccò le successive frecce il più rapidamente possibile, centrando stavolta i punti vitali.
Passati dieci minuti abbondanti, Evelyn posò l’arco e uscì facendo un inchino irrisorio.
Gli strateghi videro ciò che in realtà lei aveva realmente fatto.
Le frecce, sui bersagli allineati, formavano un grande e spesso 12.
Ionas aveva già pensato a un possibile voto, ma aspettò di ascoltare le opinioni di Seen e Arian, che avevano deciso di guardare con lui l’ultima prova.
– Un po’ simile alla prova della ragazza dell’11… – commentò il primo, pensoso. – Ho sentito dire che si sono alleate.
– Non credo si siano messe d’accordo –
fece Arian. – Sarebbe controproducente per entrambe, no?
Ionas annuì e s’inserì nel dibattito. – Proporrei di assegnarle un 7. Ma solo perché America ha tirato anche i coltelli, mentre Evelyn solo frecce.
Gli altri due colleghi furono d’accordo e dissero: – Vada per 7.


Le sessioni si conclusero che era già tardi.
Gli strateghi ubriachi si erano abbattuti e si erano ritirati nei propri appartamenti stanchi e con i sintomi della sbornia. Tra questi c’erano anche Cicero, Jack e Hack, quelli che avevano consumato i liquori più pregiati di tutta Panem.
Arian e Sandra dormirono insieme; Paul fu rimproverato aspramente dalla moglie; Seen andò a giocare a pocker con un paio di colleghi.
Ionas, invece, non chiuse occhio tutta la notte. Sapeva che solo uno di quei tributi sarebbe tornato a casa e che gli altri ventitré sarebbero morti e non avrebbero più rivisto i loro parenti.
Ionas pensò tutta la notte a sua figlia Lahri, morta di malattia a dodici anni.
Era bellissima.
Quasi senza volerlo, si ritrovò a pensare che i genitori dei tributi dovevano sentirsi allo stesso modo, se non peggio.
Immaginò Lahri sbranata dagli ibridi, Lahri morta assiderata, Lahri che affrontava i pericoli mortali della nuova arena di Cicero. E pianse, a lungo.
Quella notte, Ionas si vergognò del proprio lavoro, ma, soprattutto, di se stesso.

 
Tutti i tributi indossano una maschera. […]
Ma c’è chi ha il coraggio di mostrarsi al mondo? C'è chi affronterà la morte con il proprio, vero viso?
























*Ionas è un personaggio di AriiiC_ ♥
**Fidatevi, la prova di Ibiza ha delle spiegazioni umane, ma eviterò di rivelarvele per non rovinare lo spettacolo!








Leddy’s Corner:
Buonasera, ragazzi. Per prima cosa, ci tengo a scusarmi in ginocchio per il colossale ritardo con cui sto pubblicando. Avrei dovuto farlo tempo prima, ma sono stata davvero impegnata (sembrerebbe una scusa alquanto banale, ma, credetemi, è così). Tra università, amici, famiglia e quant'altro non ci sto capendo più nulla. Siete voi, però, che mi spingete a portare avanti questa storia, perché senza di voi tutti non sarebbe neanche nata. 
Ci tenevo quindi a ringraziarvi di cuore. Per tutte le bellisime, entusiaste e prolisse recensioni che mi lasciate; per la vostra partecipazione; per tutti i vostri incoraggiamenti e per tutti i complimenti che mi fate e che non mi merito affatto... Grazie. Questa storia è vostra, ed è per questo che cercherò di non abbandonarla mai, trattarla con i guanti e renderla speciale. 
Siete la mia gioia, vi adoro con tutta me stessa ♥
Non ho nient'altro da dire, ma spero che continuiate a seguirmi e che il capitolo vi sia piaciuto (pensate che è anche più lungo delle mietiture... più di 30 pagine di Word! Sono sconvolta da me stessa xD).


PS: Purtroppo non ha tutti ho potuto assegnare il voto che mi avevate richiesto, ma non potevo sbilanciarmi con valutazioni troppo alte. Siamo pur sempre a Capitol City, d'altronde.
PPS: Non si sponsorizza finché non si è entrati nell'arena, ovvero fra due capitoli. Il prossimo sarà sulle interviste, poi potrete sbizzarrirvi u_u


Un bacio enorme, 



Leddy



 

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