La Maschera del Cardellino

di PinaProser95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nel Nome del Padre (Prima Parte) ***
Capitolo 2: *** Nel Nome del Padre (Seconda Parte) ***



Capitolo 1
*** Nel Nome del Padre (Prima Parte) ***



3 Agosto 1382
Aucey La Plaine, Normandia


Viva il Sangue di Gesù Cristo

Eccellenza Reverendissima,

come accordato, Vi invio la presente per comunicarVi che la bambina è nata: non posso ragionevolmente esser sicuro che sia lei, ma in cuor mio non ho più dubbi. Quel viso di infante è innocente come se null'altro fosse che una povera orfanella, ma il suo sguardo non mente e si ravvisa non esser pianta di questo Terreno.
Confido che ci sia ancora speranza per noi figli di Dio, anche se in ragione delle mie incertezze sono di tutt'altro avviso, e mi dispero: temo per i miei fratelli e le mie sorelle, temo per la sacralità di questo istituto. Temo per la salvezza dell'anima mia stessa.

Possa Dio perdonarci e darci la forza di ultimare il nostro ufficio, prima che il Principe di questo Mondo erediti la sua corona di spine.
Prego Vostra Eccellenza di voler accogliere le espressioni della mia filiale devozione e raggiungermi al più presto: la croce che mi attende è troppo pesante per la mia sola Fede.

Tanto Vi dovevo e con segni di vera stima e rispetto mi prostro al bacio del Sacro Anello e mi dichiaro
di Vostra Eccellenza Reverendissima.

Vostro umilissimo servo,
Padre Bernard Turstin.


A Monsignore
Raoul de Lamps
Vescovo di Pontorson


Ripongo la lettera nel cassetto.
O Gesù Redentore, possa la mia goccia di sangue, unita al tuo, giovare alla redenzione del Mondo.
Chiudo gli occhi e dormo di un sonno profondo.




Nel Nome del Padre

(Prima Parte)


Nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo.
Mi appello alla misericordia del Signore di noi tutti e lo prego perché mi dia la forza e la lucidità per rievocare gli avvenimenti dell'anno 1359 e quel di cui i miei occhi furono testimoni omertosi, offuscati da bassi istinti, affinché il mio mortale peccato non abbia più occasione di ripetersi nei tempi a venire.
Ho implorato il Suo perdono per tutte le sere che seguirono e continuerò a farlo finché il mio corpo non troverà la pietosa fine della carne guasta, secondo il Suo volere.
Comincerò dall'inizio, come si deve ad una storia che meriti la giusta attenzione, e per ordine comincerò dal mio nome.


Mi chiamo Bernard Turstin.
Nacqui a Servon, nel 1325, dall'errore di una madre ingenua e troppo giovane per rendersi conto della vita che portava in grembo. Mi gettò come una vergogna tra gli scarti di una conceria di porto e, fin da subito, in quel luogo fetido, imparai a riconoscere odori e avanzi di una civiltà che non mi apparteneva ancora, ma che, presto, sarebbe diventata il mio gregge.

Con il primo respiro inalai i fumi della lisciva e i vapori dell'alcool, e mi aprii ad un mondo che sapeva di sangue e frattaglie, di feci e carne bruciata: la mia esistenza iniziò proprio lì, in un umido letamaio, tra i miasmi della morte.
Fui salvato da un macellaio che udì il mio pianto mentre scaricava in mare le rigaglie della sua giornata, scure e marcescenti come quelle di sempre. Mi afferrò per un piede, mi scrollò come un budello inanimato e, guardandomi negli occhi, vide che invece erano pieni di vita, ed ebbe pietà di me. Non era raro trovare neonati indesiderati in un posto come quello, l'unico abbastanza caldo da permettere ad un infante di sopravvivere quel tanto che bastava perché il suo primo vagito non fosse colto solo dal gelido inverno.

Così fui lavato dal sangue che mi ricopriva, oltre a quello di animale, anche da quello di mia madre e l'unico contatto che ebbi mai con lei fu risciacquato dal mio corpo e sparì per sempre nello scarico di una fogna a cielo aperto.


Come la maggior parte degli orfanelli di Servon venni affidato alle cure delle Sorelle del Précieux Sang de Notre Seigneur e nel loro istituto di carità passai i primi sedici anni della mia vita. Appresi a leggere e scrivere, a pregare e a ringraziare Dio per la mia miseria. Sperimentai la compassione cristiana e fui rapito dai misteri di una Fede che per me era insieme gioia e dolore, amore e odio, affascinato e turbato allo stesso tempo da quel dissidio irrisolvibile che riusciva a suscitarmi nel profondo.

Nei primi mesi del 1350 decisi di accogliere la mia vocazione, pur con tutti i dubbi e le incertezze che mi appesantivano lo spirito, e mi unii all'Ordine dei Frati Minori Conventuali, i Cordeliers della Normandia. I monaci mi insegnarono tutto ciò che mi fu permesso da età e passione e, cinque anni dopo l'ingresso nell'Ordine, tornai all'orfanotrofio e aiutai le Sorelle a gestirlo con tutto me stesso, comprendendo immediatamente che il mio destino mi chiedeva di restituire ai più bisognosi parte di quella misericordia che Dio, nella Sua infinita bontà, mi aveva concesso.

Seguirono anni molto difficili, sia per me che per il paese. Guerra e pace si alternarono con costanza, ma in modo tale che ad un occhio attento, e che soprattutto fosse incredulo nei confronti della parafrasi politica del momento, non sfuggisse quella sottile connessione di interdipendenza che l'una aveva con l'altra, come se in questo mondo non abbiano altra scelta che quella di coesistere, il Bene e il Male incarnati in una dicotomia terrena e apparentemente inestirpabile. E anche quando il nemico non fosse arrivato da oltre i confini, per quanto labili e privi di una definizione concreta potessero essere, si era costretti a diffidare della propria gente, martoriata in casa propria più dei soldati in terra straniera e nelle cui viscere già ribolliva il germe dell'insurrezione, pronto per esplodere e sommergere i potenti, o chi tale sembrasse, sotto una schiumante marea di pus virulento. Le rivolte intestine che seguirono rischiarono di sventrare l'intera Normandia. Ricordo la prima ribellione contro le imposte a Rouen, come fosse ieri. Vedo ancora i corpi lungo le strade, lasciati per giorni ad imputridire nel fango come spazzatura. Vedo il sole sorgere e tramontare nei loro occhi vitrei, svuotati dalla morte e dimentichi della vita che una volta racchiudevano.

In tutto ciò tentai con ogni mia forza di scorgere l'ombra sfuggente di un disegno provvidenziale, perdurando in un logorante sforzo intellettivo il quale, tuttavia e ben presto, si dimostrò essere solo una vana macchinazione di logica, che in ultimo nulla può e niente sa per far luce sui profondi misteri della teologia; a me non restò così altra strada che quella di proseguire nella mia missione terrena lasciando perdere le domande del cielo e, come se nulla fosse, rinunciare ai fin lì inutili tentativi di conciliare l'amore divino con il sangue versato e sprecato sulla mia terra, di cui ero ancora, e ancora sono, perdutamente innamorato. Ma più gli anni passavano e più non potevo che domandarmi quale ruolo giocasse davvero l'Onnipotente nell'esistenza delle sue creature.
E così, la crisi che imperversava all'esterno trovò modo di riflettersi negativamente sulla mia stessa fede, alla quale tutto il mio essere si trovava allora appeso in grazia a un filo che, poco a poco, diventava sempre più sottile; e sebbene in diversi momenti della mia vita sentii quella presa allentarsi pericolosamente, mai fui tanto sicuro di averla persa come nell'inverno del 1359.


Il 1359 fu l'anno della peste bubbonica e di madamoiselle Jaqueline; quest'ultima bussò alla porta del mio istituto in una fredda mattina di Novembre.
Se chiudo gli occhi posso ancora sentire i passi di sorella de Mere affrettarsi per le scale e la sua voce fanciullesca, preda di un mal ostentato panico, irrompere nella mia stanza.


-Padre Bernard?
Ricordo che quando mi fece cenno di seguirla, con quel gesto frettoloso e mal controllato della mano, capii che fosse successo qualcosa di serio e, trascorso un qualche breve istante, uscimmo dal portone di ingresso.
Prima ancora di aver dato un senso alla situazione, fui investito da una sferzata di vento gelido, nel quale avvertii, sebbene in parte ammansiti dalle basse temperature, gli effluvi di porto e tutte quelle altre esalazioni che si trascinava dietro passando dal mare alle concerie, dal macello al mercato del pesce, e tra le quali, con un fondo leggermente dolciastro, quello che non poteva essere altro che un primo presagio di ciò che presto mi sarei trovato davanti. E, infatti, girato l'angolo dell'edificio, proprio in prossimità dell'orto dove non cresceva più niente da qualche mese, vidi il motivo per il quale sorella de Mere venne a chiamarmi con così tanta fretta.

Sul terreno bruciato dal freddo qualcuno aveva faticosamente trascinato una carriola di ferro battuto. Le ruote malconce e infangate erano mezze sprofondate sotto il peso di ciò che vi era stato gettato dentro, di cui un braccio inanimato e sporgente dal resto era un incontrovertibile indizio.
Ci avvicinammo per liberarci da ogni dubbio e quel che vidi fu il cadavere di una donna.
Era stata adagiata su un fianco, le ginocchia raccolte al petto, in una posizione in cui non potei non riconoscervi l'angosciante imitazione di un infante nel grembo materno.
In aggiunta a questo, il volume di spazio non occupato dall'esile e denudato corpo della ragazza era colmato da una spaventosa quantità di sangue fumante, tanto che la povera sembrava galleggiarvi dentro come in una tinozza. I suoi capelli ne erano intrisi e si diramavano seguendo le forme di un corallo scarlatto.

Poi, quella mano smorta che pendeva fuori dalla carriola mi afferrò per un braccio, e un corpo che solo qualche attimo prima sembrava privo di vita iniziò ad urlare con quanto fiato aveva nei polmoni.


Portammo immediatamente la ragazza dentro le mura dell'istituto e io rimasi ad aspettare fuori dalla porta della lavanderia, attraverso la quale potevo comunque sentire il vociare di sorella Flavienne e sorella Claudine, mentre si affaccendavano nelle prime cure della poverina.
Mano a mano che i minuti trascorrevano, il panico che traspariva dalle loro parole nei primi istanti cedette il posto ad un tono più calmo e sollevato, che sortì il medesimo effetto rassicurante anche su di me.

Mi fu permesso di entrare solo dopo qualche interminabile minuto. Le care sorelle del Précieux Sang de Notre Seigneur avevano mondato la giovane dal sangue, smacchiato la sua pelle, datole dei vestiti puliti e asciutti, e io fui finalmente in grado di vederle i capelli, ora lavati e rilucenti di porpora naturale.
Mi apparve in quel momento in tutto il suo innocente splendore, levigata e avvolta dalla stessa luce che improvvisamente sembrava mancare dal resto della stanza. L'attraeva su di sé, e così il mio sguardo. Un diamante nel buio.
Una sola parola allora mi passò per la mente. Rinascita.

Mi avvicinai a lei, allietato.
-Come vi chiamate, madamoiselle?
Poi, vidi i suoi occhi.
-Jaqueline

Uno azzurro. L'altro nocciola.


Ultimamente non è raro che io mi ci imbatta ancora, nei suoi occhi, illuso da un gioco di luce e ricordi che si combinano tra loro in modo tale che io non possa più distinguere ciò che è vero da ciò che invece è solo eco della mia memoria, e sulla lingua non mi rimane nient'altro che la fiele amara del presentimento appena avvertito.
Li vedo traballare in una fiamma, danzare tra i riflessi di una pozzanghera, oppure impossessarsi dello sguardo di un mendicante e supplicarmi attraverso i suoi, di occhi, un attimo solo, prima di abbandonarlo in grembo a una sfuggente lacrima.
Mi perseguitano tutt'ora, demoni evanescenti di un passato ancora troppo vicino perché ceda il passo una volta per tutte.

Madamoiselle Jaqueline, forse per caso, ma io credo più probabilmente per destino, incrociò quella mattina il suo cammino con quello stesso che passava per il mio caro istituto di carità, che in sé già raccoglieva le sorti del sottoscritto e delle sorelle del Preciéux Sang. Quando qualche tempo dopo ci rendemmo conto, ripensando al momento in cui trovammo Jaqueline nell'orto, mezza congelata e ricoperta di sangue, di come quell'accadimento fosse in realtà riuscito a porsi come spartiacque tra due periodi ben distinti delle nostre esistenze - nel primo divise, poi saldamene intrecciate -, ad unirci e a vincolarci creando un continuum che ci raccordasse in modo che le sfortune di uno producessero conseguenze percepibili anche dall'altro, quando appunto ce ne accorgemmo non rimanemmo meno stupiti di chi, aprendo un cassetto per pulirne il contenuto, vi ritrovi una matassa dimenticata di stringhe, disgiunte un tempo e ora inspiegabilmente annodate.

Come ho già detto, il 1359 fu anche l'anno della peste bubbonica.
A solo qualche settimana dalla sua comparsa, le nostre porte dovettero aprirsi alla straziante moltitudine di orfani a cui la malattia aveva strappato entrambi i genitori. Ahimè, non che il morbo avesse qualche preferenza per gli adulti, perché a dirla tutta furono soprattutto i corpi dei bambini a riempire fino all'orlo le fosse comuni, e noi ci ritrovammo a combattere contro un nemico invisibile che se fosse riuscito a raggirare tutte le nostre precauzioni per tenerlo fuori dalle mura del mio istituto, avrebbe distrutto buona parte di quel futuro di Servon che avevamo promesso di proteggere.

Jaqueline svolse un ruolo essenziale in tutto questo. Non volle mai unirsi all'ordine delle sorelle del Precieux Sang, ma desiderò comunque prestare i suoi servizi alla gestione dell'orfanotrofio, forse perché sentiva il dovere di sdebitarsi con qualcuno, o forse perché non aveva nessun altro posto in cui andare, ma comunque fosse, in quel che fece per noi e per i bambini dimostrò un'esperienza ed un controllo straordinari, cosa che contribuì ad infittire il mistero che la riguardava.
Già, perché benché si ricordasse il nome con cui era stata battezzata, Jaqueline non conservava il minimo ricordo delle proprie origini. Per quanto si sforzasse, stimolata anche dalle mie continue domande, non riusciva a ricordare niente della sua famiglia o del suo passato, remoto o recente, compresi gli eventi che la condussero al nostro orto.
Soprattutto non seppe mai dirci nulla del sangue che la ricopriva quando la trovammo nella carriola, né da chi provenisse, poiché in lei non trovammo alcun trauma o lacerazione che ne potesse giustificare una perdita così ingente.
In quel suo esordio, a cui più pensavo e più questo assumeva i tratti del miracoloso, mi parve col tempo di riconoscervi l'ombra di un progetto divino: mai nella mia vita mi discostai tanto lontano dal vero, ora posso dirlo con certezza.

Perché capiate ciò che intendo, occorre che adesso io vi narri di quella parte della vita di Jaqueline di cui lei pareva allora essersi dimenticata, ma che io ebbi modo di conoscere in seguito, grazie ad eventi che forse avrò modo di chiarire più avanti nel racconto.
Per farlo, concedetemi quindi di abbandonare per un attimo l'orfanotrofio e la peste, e accompagnatemi attraverso la piana ghiacciata che separa Servon dal villaggio di Cancale.

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Capitolo 2
*** Nel Nome del Padre (Seconda Parte) ***


yguy

  

Nel Nome del Padre

(Seconda Parte)

  Contrariamente a quanto uno sprovveduto viandante possa pensare, avendogli messo di fronte una mappa delle terre, dei villaggi e delle strade che da Pontorson dipartono come lunghe radici e convogliano, per le sponde ghiacciate della Manica, vite e destini della misera manciata di punti nevralgici di cui si fanno tacite portatrici, la via più sicura per raggiungere Cancale, partendo dal punto mediano di questo sistema, non è quella che a prima vista potrebbe sembrare anche la più breve.
Se, infatti, il nostro viandante sventurato, si lasciasse guidare da quell'istinto puramente geometrico che vuole che per viaggiare da un punto primo ad un secondo, il più velocemente possibile, si debba procedere per la retta che li congiunge, si inoltrerebbe, nel nostro caso, per una terra in cui la crudeltà dell'uomo e della Natura hanno trovato luogo per una simbiotica alleanza.
E quando per l'appunto non fossero le lame del freddo a penetrargli nella carne, uccidendo il nostro viandante per nessun altro motivo se non quello di seguire le imposizioni inappellabili del Creato, lo farebbero certamente quelle dei banditi e dei briganti, per invece una delle tante ragioni vincolate a quella parte di loro che, da naturale impulso alla sopravvivenza, è degenerata in indole criminosa.
E anche se quest'ultimi non sono gli unici motivi per i quali è più saggio non intraprendere un viaggio sconsiderato per terre apparentemente facili da domare, come se nient'altro possano nascondere che muschi e rocce, sono certamente i preponderanti e, in assenza di vere e proprie istituzioni di controllo e pattuglia dei sentieri che si incanalano a Nord, fino a Cancale, hanno spinto le genti dei villaggi a cercare soluzioni alternative per raggiungere tali mete.


    E fu per ciò che, 1350 anni dopo la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo, uno dei Suoi più controversi servitori, un tale padre Guillerme de Chambres, giunse una fredda mattina di Settembre al porto di Aucey la Plaine, accompagnato da giovani galoppini che lo sgravavano del peso di un paio di grandi valige, e pagò 5 franchi perché venisse traghettato, da solo, fino al villaggio di Cancale, che faceva da vetta ad una piccola e stretta penisola, protesa come un dito ammonitore in direzione della Britannia.
Tutto quel che padre Guillerme de Chambres si aspettava prima di imbarcarsi per tale viaggio, che a suo dire si prospettava come un facile incarico, come altrettanto facili erano sempre stati i suoi, recava in bella vista l'insegna della sua ingenuità o, peggio ancora, della sua ignoranza.
Si potrebbe dire, infatti, che, in quindici anni di esorcismi commissionati dal vescovo di Pontorson in persona, di esperienza, de Chambres, ne avesse abbastanza da riempire ben più bagagli di quanti se ne fosse portati per questo suo ultimo viaggio.
Tuttavia, in un modo che allora de Chambres non poteva prevedere, la sua missione a Cancale lo avrebbe sospinto lentamente verso le porte dell'Inferno.


    Quando Guillerme de Cambres sbarcò da Aucey la Plaine, il sole, che per quell'ora avrebbe già dovuto svettare alto sulla Manica, sembrò aver deciso almeno per un giorno di ritardare la propria ascesa quotidiana e, finché il traghetto non lasciò la darsena, sparendo nella nebbia, questi continuò, nel basso orizzonte, a bruciare di rosso, miscelando la propria corona con i vapori che salivano melliflui dalle attività portuali, dando vita a danzanti illusioni ottiche.
Il viaggio sarebbe durato poco più di una decina di ore, ma già dopo esserne trascorse solo un paio, il costante rollio della piccola imbarcazione, che altri non era che una vecchia lancia dal passato ormai perduto, si tramutò per Guillerme de Chambres in un ribollio intestinale insopportabile. Non era più abituato a simili spostamenti; non aveva più lo stomaco per quel placido sciabordio che, se per alcuni poteva suonare come rilassante, in lui non faceva altro che rimestargli gli umori di tutto il corpo, tanto che alla fine avrebbe avuto la sensazione che più nulla al suo interno fosse al posto giusto.

    L'umidità era mordace e densa. Attraverso di essa poteva scorgere i lineamenti fumosi della costa, mai troppo lontana. Cercavano infatti di tenersi il più possibile tangenti ad una traiettoria che accompagnasse la riva, solcando acque basse e limacciose, quasi fossero un prolungamento della battigia che non accennava a cedere in profondità. A volte sembrava che la chiglia raschiasse direttamente sul fondale roccioso; al che i due rematori si alzavano in piedi e, dopo un paio di studiate manovre con lunghi bastoni, disincagliavano la barca, allontanandola di poco da quel tratto pericoloso di bassa marea. Poi, come se fosse tutto di normale consuetudine per quel tipo di viaggio, riprendevano a vogare, in silenzio, e padre Guillerme de Chambres, seduto e imperturbabile con le proprie borse sempre vicine, non riusciva a liberarsi dall'immagine del loro traghetto che si schiantava in due.

     Le ultime ore furono surreali.
Più Guillerme de Chambres si guardava attorno, e più gli sembrava che ogni cosa fosse svanita nel nulla, assorbita in un grigiore etereo che permeava ovunque, sopra e sotto, ai lati e perfino dentro la barca. Il freddo era diventato intollerabile e, per la prima volta da quando avevano abbandonato il porto, qualcuno azzardò una flebile domanda, le cui parole andarono subito a perdersi nella risacca.
-Siamo ancora molto lontani?
La risposta, quasi provvidenziale, arrivò dal mare aperto.
In poco più di un istante, un vento gelido sferzante da Nord disperse la fitta coltre di nubi che avvolgeva il traghetto.
Ora la meta apparve davanti agli occhi di tutti, e quelle che fino ad un attimo prima potevano essere scambiate per piccole escrescenze di luce siderale filtranti dalla parete nebbiosa, ora si palesavano per ciò che in realtà erano: torce e lampade.
Guillerme de Chambres ammirò estasiato il promontorio sopra il quale si ergeva Cancale.

    Approssimandosi al punto di attracco, nient'altro che un'esile striscia di sabbia che cingeva a corona l'alta scogliera, Guillerme de Chambres sentì crescere dentro sé il moto di un vago risentimento, di un qualcosa sepolto nel proprio inconscio che dopo anni di assopimento si era ristabilito in forze e che ora iniziava a rimestare la terra che lo ricopriva. Ma che cos'era? A cos'era dovuto? Cercò di sforzarsi un attimo, ma la concentrazione che gli avrebbe permesso un'attenta analisi del proprio passato in cerca dei germi di tale male interiore era quel tipo di concentrazione che non si sarebbe mai potuta trovare nel mezzo del moto ondeggiante e sussultorio di un'imbarcazione che si apprestava ad ormeggiare. Perciò commise un grave errore, ovvero quello di accantonare il tutto come una conseguenza del viaggio poco piacevole, o come qualcosa di poca importanza, senza prestar ascolto a quel briciolo di sostanza coscienziosa che lo ammoniva da dentro, che lo avvertiva che qualunque cosa fosse, prima o poi sarebbe tornata. Prima o poi sarebbe uscita di nuovo.
E fu allora, proprio mentre i timonieri gettavano le funi ad un forzuto energumeno in piedi sul molo che sentì una voce. O almeno, credette di sentire.

    Si girò, scrutando negli occhi delle altre persone a bordo che si preparavano a scendere, cercando un qualche indizio nei loro sguardi che gli testimoniasse che anche loro avevano udito qualcosa. Ma niente. Nessun ammiccamento, nessuna occhiata complice, nessuno che volgesse l' attenzione altrove che dai propri pensieri ordinari.
Eppure l'aveva sentita. Una sola parola, pronunciata da una voce profonda e, in un certo qual modo, seducente. Che se la fosse immaginata? Che l'avesse detta una persona accanto a lui? No, non sembrava provenire da così vicino. Ma non era nemmeno un'eco distante. Troppo limpida per essere stata corrotta dal suo passaggio attraverso l'aria.
Quindi era nella sua testa?

    -I signori diano una mano alle signore per scendere.
Guillerme guardò l'energumeno che parlava con uno stretto accento provenzale, il quale a sua volta indicò con un innaturale gesto del braccio un punto oltre la propria scapola.
-Qua dietro troverete la scala per il paese. E attenti a dove mettete i piedi, è pieno di radici.
 E dietro, ora che qualcuno l'aveva fatta notare, si poté appunto vedere la scaletta che, come una lunga edera rampicante, si inerpicava su per il promontorio, solcandone le pareti scoscese fino in alto, dove spariva a toccare il cielo. Cancale era nascosto dalla bassa prospettiva, ma dalla cima del sentiero sembrava provenire un debole bagliore, un morbido e caldo riverbero di luci, che indicava l'effettiva presenza di vita paesana.
Il gruppo di persone, sceso dalla barca, iniziò ad incamminarsi verso quell'unica via di salita. Ancora uniti, ma ognuno già per la propria strada.

    Guillerme de Chambres rimase invece immobile un momento di più, con una vuota espressione in volto.
Ancora quella voce, calma e abissale.

-Presto


    La salita verso Cancale si rivelò impervia, ma padre Guillerme de Chambres, col suo fare ammaliante raffinato in anni di omelie ai contadini, riuscì a convincere un ragazzino, piuttosto esile e ossuto, ma apparentemente volenteroso, ad aiutarlo con le valigie, a dare una mano, come disse lui, ad un povero vecchio in viaggio per conto di Nostro Signore. E così salirono, gradino per gradino, per la scala di pietra, di tanto in tanto prestando attenzione a dove mettessero i piedi sul terreno, nel quale si diramavano un numero impressionante di radici scivolose, come tante dita disarticolate che uscivano dal fianco della montagna.
Giunsero in cima e Guillerme de Chambres ringraziò il giovane aiutante, ormai stremato nel respiro, congedandolo con un'affrettata benedizione e nulla di più. Non che non avesse del denaro con sé, ma era altresì convinto che una ricompensa pecuniaria non avrebbe fatto altro che spalancare le porte di un'anima ancora così innocente al vizio del materialismo, poco importava quanto povera in realtà fosse questa creatura. Era arrivato in quel posto per un motivo che ben poco aveva a che fare con la carità. Era lì per estirpare il Demonio dal fango salmastro sopra il quale quegli uomini deboli di spirito avevano eretto le proprie case. E il denaro, si sa, è una delle tante esche che il Diavolo lascia incustodite, sperando che qualcuno prima o poi vi abbocchi. E questo capita sempre.

-In nomine Patri, Fili et Spiritui Sancti.
Così proferì, gesticolando cerimonioso davanti agli occhi del giovane, che poi vide allontanarsi, ridiscendere la scala e tornare in porto, a capo chino, forse per assaporare la benedizione ricevuta, o forse per mandar giù un boccone più amaro.


    Ora che finalmente era arrivato e che si era lasciato alle spalle un tale viaggio, il nostro Guillerme de Chambres altro non voleva che trovare un letto e un pasto caldo e pregare che per un altro giorno ancora fosse fatta la Sua volontà. E tutto il resto poteva aspettare, poiché con nemici pazienti, si doveva mostrare niente meno che la stessa virtù.
Si rimboccò le maniche e aguzzò la vista in cerca di un rifugio.
Il paese era come se lo aspettava: piccolo, di pochi immobili stretti gli uni agli altri, legno e paglia soprattutto, qualcuno in argilla, tutti scricchiolanti sotto le botte costanti del vento. Una misera manciata di lanterne squagliavano le tenebre, mostrando qua e là i tratti di un volto ancora sconosciuto: una strada battuta, una porta rimasta aperta, una finestra rattoppata con assi di legno, poi strumenti di lavoro, una carriola che sprofondava sotto il proprio peso, attanagliata dalle grinfie della terra collosa. In grazia a quelle poche luci, con la notte che trionfava già da qualche ora, l'intero abitato veniva esumato dall'ombra come un pallido cadavere.

    Padre de Chambres scacciò indietro un brivido che sembrò emergergli direttamente dall'anima, attribuendone la colpa al freddo e alla stanchezza. Mosse qualche passo e uscì di scena.

FINE SECONDA PARTE

Nota dell'autore: molto presto sarà pronta anche la terza parte del primo capitolo, che ho preferito dividere per non appesantire troppo la lettura. Ricordatevi di lasciare i vostri preziosi pareri e non risparmiatevi in critiche. Grazie.

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