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di dreamrauhl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


1.

 

Mi maledii per la millesima volta quella sera.
Davanti agli occhi un foglio bianco, in mano una penna nera, una di quelle Bic che compri e usi fino a finirle, fino a quando non rimane più una goccia d'inchiostro, per scrivere cosa non si sa.
Ciao Jenny, mi manchi...
Appallottolai anche quel foglio di carta, tracciare un taglio secco sulle ultime due parole non sarebbe servito a nulla, ogni volta che iniziavo a scriverle una lettera era sempre la stessa storia: avevo mille parole da dirle, altrettante cose da spiegarle, eppure tutto ciò che riuscivo a scrivere era quel banale “mi manchi” scritto con una scrittura infantile, grassoccia e imprecisa.
Vaffanculo”, sbottai inveendo contro il muro, lanciando la penna contro la parete e il foglio nel cestino.
Vaffanculo Jenny, sono passati mesi, non puoi mancarmi così tanto! Ti odio come non ho mai odiato nessun'altra persona!
Pronunciai quel “ti odio” con più rabbia nella voce che sicurezza.
Ti odio, ti odio, ti odio”, ripetei come per auto-convincermi.
...Ma ti amo ancora”, ammisi sconfitto.

Scesi giù in cucina, ovviamente non senza prima aver sbattuto la porta della camera quasi a far tremare le pareti.
Ehi Justin, tutto bene?”, chiese Pattie.
No mamma, va tutto una merda, contenta?
Si avvicinò, voleva abbracciarmi.
Mi scansai. Desideravo con tutto me stesso rinchiudermi in quell'abbraccio caldo, in quell'abbraccio che tante volte mi aveva salvato e risollevato, quell'abbraccio che mi aveva sempre dato una ragione per non mollare.
Non mi lasciai prendere, aver ammesso che tutto andava uno schifo mi sembrò già abbastanza per quella sera.

Ho fame”. Cambiai discorso.
Fra dieci minuti è pronta la cena” disse lei arresa.

Odiavo farla stare male, ma in quel momento mi sembrò di essere fragile quanto un bicchiere di cristallo, mi sentivo come un fotografo che tenta di fotografare la sua stessa vita ma non ci riesce perché non può fotografare i suoi sorrisi e le sue stesse lacrime. Non può, non ci riesce. Servirebbe essere un estraneo per riuscirci ma non si può, non si può essere entrambe le cose contemporaneamente: o provi a vivere o provi a fotografarti senza riuscirci intestardendoti fino a sbattere la testa e a farti male.
Mi sentivo estraneo a quella vita che per diciotto anni mi era sembrata la mia.
Una famiglia felice, una fidanzata meravigliosa, buoni voti a scuola.
Sì, ma ora cosa rimaneva di tutto quell'idillio? Mamma e papà si erano separati due mesi prima, Jenny mi aveva lasciato, i miei voti erano drasticamente calati.
Dov'era la ragione per non mollare? Qual era la ragione che mi spingeva a restare in piedi e a camminare a testa alta?
Orgoglio”, pensai.
Mi risposi da solo, non avrei sopportato la lezioncina morale di qualcun altro.

Cenammo in silenzio io e la mamma, una forchettata alla volta, pochi spaghetti arrotolati sulla forchetta, lo sguardo fermo, fisso sul piatto che non si decideva a svuotarsi. Sembrava che si riempisse nonostante tentassi di mangiare sempre un po' di più, ogni forchettata era più decisa dell'altra.
Lo stomaco mi diceva di smettere, che non avrei retto altro cibo all'interno del mio corpo, eppure continuavo a mangiare.
Se non ascolto il cuore non ho ragione neanche per ascoltare te, amico”, rimproverai mentalmente lo stomaco.
Pensai fossi pazzo.
Prima parlavo da solo ora con uno dei miei organi. Cosa stava succedendo?
Mamma, non ho più fame”, posai la forchetta e tornai in camera, senza dire altro ne sentire la sua risposta.

Mi buttai a peso morto sul letto, le braccia incrociate sotto la testa, i piedi a penzoloni che quasi toccavano il pavimento.
Justin, datti una mossa, non puoi mollare ora”, ripetei come un mantra fino a che gli occhi non si chiusero e sprofondai in un sonno profondo.

Mi svegliai la mattina seguente, i vestiti stropicciati che la sera prima non avevo tolto, la schiena indolenzita a causa delle posizioni inimmaginabili in cui dormii, i piedi formicolanti.
Sembri un vecchio...”, disse la vocina dentro di me, quella che quando leggi 'in silenzio' sentii rimbombare nella testa.
Sta' zitta”, rimproverai anche lei, anche se era tutto frutto della mia immaginazione.
Era domenica, per fortuna.
Presi il mio iPhone dal comodino e controllai l'ora: erano soltanto le nove del mattino.
Tornai a dormire, in fondo era meglio che restare svegli ad autocommiserarsi.

Mia madre urlò dal piano di sotto che era pronto il pranzo, feci finta di non sentire, poi avrei usato la scusa che ero troppo stanco e lei non avrebbe detto nulla.
Avrebbe voluto fare tanto per me, si vedeva dai suoi occhi lucidi quando vedeva il mio dolore, quando solo restandomi accanto sentisse il mio disagio, il mio fastidio anche solo nel sentire parlare d'amore o nel vedere un film romantico alla televisione.
Sapeva ma fingeva di non sapere.

Mamma non era come me: lei era una donna forte, preferiva perdersi a guardare fisso nel tubo catodico e ad immedesimarsi nei personaggi delle soap opera invece che restare ferma ad autocommiserarsi.
Mi aiuta a sopravvivere, mi permette di sognare come una ragazzina”, era solita ripetere, ma anche quella era una forma per auto-convincersi, anche a lei mancava papà come a me mancava Jenny.
Forse dovrei raccontarle cos'è successo...
Lo pensavo spesso, ma mi bloccavo sempre. Non riuscivo a dirle quanto meschino e infame fossi stato, mi vergognavo di me stesso per quel gesto... avrei voluto porre fine alla mia esistenza quella volta in cui vidi Jenny scossa dai singhiozzi, nel momento in cui quella troia di Cindy, la sua amica, le raccontò tutto.
Oh, quanto la maledii quella ragazza.
Avevo fatto un errore, lo ammetto, ma non grave quanto lei lo descriveva.
In fondo, non era successo niente di che...
Più chiamavo Jenny meno lei rispondeva. Le chiamate aumentavano giorno per giorno, ma senza mai aver risposta.

Sono stato un cretino. L'amavo e ho rovinato tutto. Era lei quella giusta, era lei quella con cui volevo invecchiare, quella che avrei voluto sposare, quella con cui costruirci una famiglia.

Ambizioso per un ragazzo di diciotto anni? Forse, ma l'amore in sé è ambizione.
L'unica cosa che sapevo era che volevo solo il meglio per me. E il meglio era lei.

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Capitolo 2
*** 2. ***


2.

Scesi le scale lentamente, un passo alla volta, appoggiando prima un piede e poi l'altro su ogni scalino, invece di farlo saltellando.
Avevo sul volto stampato uno strano sorriso, un occhio attento avrebbe notato che era un sorriso di quelli finti, di quelli luminosi e all'apparenza veritieri, di quelli che ingannano, seducono, fingono.
Mamma stava armeggiando ai fornelli, “chissà cosa sta preparando”, pensai.
Terminata la rampa di scale, mi precipitai da lei, l'abbracciai forte da dietro.
Scusa se ti ho trattata male ieri sera, mamma
Fa' niente”, disse lei sorridendo, fiera di aver ritrovato suo figlio che sembrava essersi smarrito lontano da lei.
Cosa stai preparando di buono?
Spaghetti alla bolognese, uno dei tuoi piatti preferiti
Mi leccai le labbra, avevo fame.
Guardai l'orologio a forma di rombo appeso alla parete: erano le due del pomeriggio.
Mamma mi aveva aspettato per pranzare. Sorrisi, lei è la mamma migliore del mondo.
Ci sedemmo a tavola e tra una forchettata e l'altra decisi di raccontarle quanto era successo con Jenny.
Ti devo raccontare un po' di cose, ma'
Dimmi”, disse lei sorridendo e con sguardo comprensivo.
Non riuscivo a pronunciare alcuna parola, la bocca mi si era seccata.
Riguarda Jenny?
S-Sì
Se non vuoi dirmelo non importa...
No ma', te lo voglio dire
Allora, avanti, parla”, mi esortò.
Non voglio deluderti, anche se so di averlo già fatto
Tu non mi hai deluso! Capitano i periodi un po' così
Ma stavolta è colpa mia, solo colpa mia
Basta con i sensi di colpa, così non vai avanti
Lo so, ma...
Ma niente, raccontami e stai tranquillo, io non sono qua per giudicarti”.

La conversazione con mamma mi aveva aiutato a chiarirmi un po' le idee, in fondo aveva detto anche lei che non avevo fatto qualcosa di così tanto grave come credevo.
Mi sentii sollevato. Sapere di non averla delusa per me significava tanto.
Mi consigliò di parlarle, il che era un problema dato che Jenny mi stava evitando e Cindy l'aveva convinta a non ascoltare le mie ragioni.
Mi odiai per essere caduto nella trappola di quella sgualdrina.
Come avevo potuto essere tanto stupido? Non avrei dovuto fidarmi.

Uscii con Ryan e Chaz quel pomeriggio, era da tempo che non li vedevo.
La relazione con Jenny mi aveva fatto alterare le mie priorità, avevo occhi solo per lei. Mi ero allontanato dagli amici di sempre, avevo perso la testa.
Chiamai Ryan sperando mi rispondesse e non mi chiudesse il telefono in faccia e così feci con Chaz e Christian.
Ryan e Chaz risposero subito, ebbi il tempo di chiedere loro scusa e di ascoltare ciò che avevano da dirmi.
Mi sentii un cretino. Loro mi erano restati fedeli nonostante tutto, mentre io non avevo perso occasione per allontanarmi e dimenticarmi di loro.
Fui sorpreso dalla loro reazione, credevo mi avrebbero risposto male e mi avessero già sostituito con qualcuno migliore di me.
In effetti sapevo che di persone migliori ne era pieno il mondo, forse per questo avevo così tanta paura di affrontarli.
Paura che, per mio grande sollievo, si dimostrò infondata.
Chiamai Christian altre tre volte, il telefono squillava ma lui non rispondeva, altre volte invece era occupato. “Risponde la segreteria telefonica del numero....”.
Quella voce rimbombava nella mia testa. Segreteria telefonica? Christian non aveva mai lasciato squillare il telefono fino a far partire la segreteria.
Una lama sembrò trafiggermi lo stomaco. Era forse successo qualcosa di cui io non ero a conoscenza?

Ci trovammo alle quattro del pomeriggio nel parco dove eravamo soliti fare skateboard qualche anno prima.
Eravamo quattro sedicenni con i capelli calcati sulla fronte che si divertivano con un nonnulla, ridendo e scherzando per ore intere e facendo acrobazie sulle rampe per poi farsi video e caricarli su YouTube.
Nessuno di noi desiderava farne una professione, era solo un passatempo in cui ci credevamo bravi, pensavamo di avere qualche possibilità e di farci conoscere, se non dai professionisti in quel campo almeno dalle ragazze più popolari della scuola.
Da quei nostri pensieri si denota la nostra poca maturità a quel tempo. Era per questo che le ragazze ci evitavano quando avevamo quell'età. Nessuna voleva uscire con noi, ci snobbavano.
A noi andava bene così, credevamo che a perderci fossero loro.
Se non fosse stato per quella tonnellata di autostima che avevamo, chissà dove saremo ora.

Non appena li vidi, il sorriso finto che avevo indossato fino a poco tempo prima si trasformò. Ora era vero, reale. Li guardai e corsi loro incontro, li abbracciai forte, prima Ryan poi Chaz.
Mi erano mancati.
Hey bro', staccati! Non sarai mica diventato una femminuccia” ironizzò Ryan mentre lo stavo abbracciando talmente forte da fargli mancare il respiro.
Non contarci” mi staccai e gli feci l'occhiolino ammiccando come una ragazza.
Basta, così mi spaventi
Scoppiammo a ridere.
Mi erano mancate le risate con loro, gli scherzi fra di noi.
Allora, con Jenny?” disse Chaz, aspettandosi buone notizie.
Di colpo il mio volto si rabbuiò ed entrambi se ne accorsero.
Hey bro', cos'è successo con la fidanzata?
Ci siamo lasciati, Ryan”, dissi rivolgendomi a lui ma parlando contemporaneamente anche con Chaz.
Lasciati? Cosa?”, strillò Chaz.
Sì, lasciati” annuii tenendo gli occhi bassi.
Perché?” chiese Ryan dandomi una pacca sulla spalla.
E' una storia lunga...
Okay, non hai voglia di parlarne”. Chaz capì subito.
Annuii.
Ve lo dirò... lasciate che mi passi
Quando vuoi, nessuna fretta

Cambiai discorso. Erano i miei migliori amici, ma odiavo farmi vedere debole persino da loro. Credo non mi avessero mai visto così triste e senza forze. In un attimo avevo cambiato umore rispetto a qualche minuto prima. Era bastato quel nome a riportarmi alla mente ogni errore che avevo commesso con Jenny, ogni respiro affannato, ogni parola detta al momento sbagliato.

E Christian? Che fine ha fatto? Non mi ha risposto al cellulare
Li guardai fissi negli occhi. Nessuno dei due sembrava voler rispondere, tenevano gli occhi bassi e a scatti li spostavano guardando oltre a me, dietro, ammirando la rampa per fare skateboard piuttosto che incontrare i miei occhi gelidi.
Alzai la voce, ripetei la domanda.
Cos'è successo a Christian?
Stavo quasi urlando, me ne resi conto solo dopo quando sentii la mia voce rimbombare nell'intero parco.
Be', Christian...”, iniziò Chaz.
...è in coma”, finì Ryan.

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.

In coma? Cosa?
Le lacrime iniziarono a rigare il volto fuori dal mio controllo.
No, non è possibile. Christian è vivo e vegeto, sta bene e questo è solo un incubo.
Mi diedi un pizzicotto, conficcando le unghie nella pelle. Lasciai dei segni rossi su di essa, graffi talmente profondi che fecero uscire sangue.
Justin...
Entrambi si avvicinarono a me.
Non è possibile, no
Justin...
Tentavano di calmarmi ma gli risultava difficile. Troppo difficile.
Justin calmati!” mi urlò Ryan.
No! Io non mi calmo! Lasciatemi stare!
Girai i tacchi e me ne andai. Lontano da loro. Lontano dalle brutte notizie. Lontano dalla merda che era diventata la mia vita.
Vagai senza meta per una buona mezz'ora, finché non raggiunsi la stazione. Un'orda di gente gironzolava con le valigie in mano, altre si abbracciavano col sorriso stampato in volto, altre ancora si salutavano fra le lacrime.
Amavo le stazioni, il ricongiungersi e l'allontanarsi nello stesso edificio. Mi era sempre piaciuta quella contrapposizione di emozioni, quell'incontro di caratteri, quegli abbracci caldi ed altri gelidi, quelle parole sussurrate all'orecchio, i baci d'addio, quelli che sapevano solo di promesse e di “ritorna”.
Eppure ora mi sentivo fuori luogo, sentivo di odiare quel posto che avevo sempre amato.

Lì fu l'ultima volta che vidi mio padre. Ero piccolo, avevo solo dieci anni. Chiesi alla mamma “ma papà torna?” e lei non mi rispose. Papà non è più tornato, mi ha lasciato crescere da solo con la mamma.
È stato un vigliacco. Promisi a me stesso che non sarei diventato come lui. Promisi che se mai avessi avuto un figlio, gli avrei dato tutto l'amore che avevo in corpo perché merita di crescere con un padre e una madre accanto.
Tante volte ho chiesto a mia madre di lui, non ha mai voluto raccontarmi niente. So solo il suo nome, Jeremy. Mi ricordo poco di lui, in fondo non stava mai a casa, era sempre in giro per lavoro. Prima a Dubai, poi in Europa, poi in Sudafrica. A casa non c'era mai.
Avrei desiderato sapere perché se n'era andato, se l'aveva voluto proprio lui, se era stato costretto... ma non ebbi il tempo di chiedergli nulla. E mia madre sembrava del tutto contraria a rivelarmi di più su di lui.

Le lacrime non avevano cessato un istante di rigarmi il volto, camminavo trascinando le gambe all'esterno del grande edificio attraversando la strada senza guardare a destra e a sinistra e facendo lo slalom fra i taxi parcheggiati all'esterno e schivando poi i passanti sul marciapiede.
Volti vuoti, occhi spenti, labbra serrate, tutto ciò che riuscivo a vedere era il dolore. Non solo dentro me, ovunque. Sembrava fossi circondato dal buio, nonostante il sole che splendeva nel cielo prossimo a tramontare.
Non notavo i sorrisi abbaglianti, inciampavo nelle lacrime ricacciate dentro per paura e debolezza, m'immedesimavo nei loro occhi, immaginavo le loro storie, i traumi e i dolori sofferti.
Fui preso da un attacco di egoismo, “loro non sanno la merda che sto passando io, questo non è niente in confronto a quello che provo io”.

Entrai dall'ingresso principale della stazione, attraversando in diagonale l'edificio ed uscendo dal retro.
Una dozzina di treni aspettavano sulle rotaie che i passeggeri salissero a bordo per poi partire. Migliaia di persone attendevano sulle sedie blu e scomode, tutte attaccate fra loro, leggendo un giornale o raccontandosi qualche barzelletta per ingannare l'attesa.

Risalii il tratto di rotaie all'esterno, quello dove non c'erano treni, dalla parte in cui sarebbero arrivati a breve almeno due treni.
Mi sedetti sul muretto, attento che nessuno mi vedesse.
Con la mano mi asciugai le lacrime che sembravano scorrere come un fiume in piena, mi bagnarono la manica della maglia fino a scendere lungo il collo e bagnarmi tutto.
Appoggiai i gomiti sulle ginocchia sorreggendomi il capo.
Non riuscivo a capacitarmi del fatto che tutto ciò stava accadendo a me.
Prima avevo una vita perfetta, ero invidiato da tutti perché ero circondato da buoni amici, avevo una ragazza meravigliosa e mia madre mi era sempre stata accanto. Ora invece tutto ciò sembrava essersi trasformato.
Ero diventato colui che non avrei mai voluto diventare.

Diedi un'occhiata all'orologio. Erano passate due ore da quando me n'ero andato dal parco e tre da quando ero uscito di casa.
Mi balenò in testa il pensiero che qualcuno a casa avrebbe potuto preoccuparsi per me, ma lo cacciai subito perché ero convinto che sarebbe stato meglio per chiunque se non avessi messo mai più piede in quella cittadina in cui abitavo da diciotto anni.

Desideravo avere risposte, da Jenny e da Christian.
Lei non mi voleva parlare, Christian era in coma.
Non sapevo nemmeno cosa gli fosse successo, preso dalla rabbia nei miei confronti per averlo trascurato non avevo nemmeno pensato di informarmi chiedendo spiegazioni a Ryan e Chaz.

Appoggiai la testa al muro alla mia destra.
La testa mi pulsava da quanto avevo pianto, gli occhi erano rossi e gonfi. Diedi un'altra occhiata all'orologio: nove e un quarto, iniziava a fare buio.
Sentii un rumore provenire da lontano e il semaforo che distava pochi metri da me diventare rosso.
Stava arrivando un treno. Ora o mai più.
Mi alzai in piedi sorreggendomi sulle mani e facendomi forza, più il treno si avvicinava più mi sentivo pronto a saltare e a farla finita.
Il telefono continuava a vibrarmi in tasca, non mi curai nemmeno di leggere il mittente. Lo lasciai cadere a terra dove cadde rompendosi e sparpagliando i pezzi.
Il rumore del treno si faceva sempre più forte e vicino.
Ora la faccio finita”.
Il treno distava meno di un metro da me quando mi voltai di schiena e mi lasciai scivolare all'indietro.

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Capitolo 4
*** 4. ***


4.

Qualcuno se ne accorse. In quel poco di lucidità che ebbi sentii il panico generale, stavano tutti urlando. Vidi una ragazza corrermi incontro.

***'S POV.

Mi trovavo in stazione assieme a mia madre. Finalmente il grande giorno era arrivato: papà avrebbe fatto il suo rientro a casa.
Da mesi ormai aveva dovuto recarsi a tre ore di distanza da dove abito per problemi di salute, aveva bisogno di cure adeguate che qui non avrebbero potuto fornirgli.
Lo chiamavo ogni giorno, mi chiedeva sempre come stavo, cosa avevo fatto a scuola, come andavano le cose qui. Era lontano ma con il cuore non se n'era mai andato da casa, mi era sempre restato accanto.

Fissavo la gente che attendeva disinteressata seduta sulle poltrone, con in mano il giornale o ascoltando musica, provavo a immaginare chi aspettassero, se un parente o un amico, un marito o una moglie, un fidanzato.
Ogni tanto li vedevo sorridere e abbracciarsi, altri li vedevo darsi forza, leggevo “tornerà” dal labiale.

Guardai fuori dalla finestra: accanto al muro in cemento c'era un ragazzo. Era solo. Si guardava intorno, lo sguardo spento, i capelli color cenere che facevano brillare il volto buio, triste.
Avrei voluto chiedergli cos'aveva, se aveva bisogno di parlare con qualcuno.
Come al solito la mia timidezza mi fermò. Che fine aveva fatto la ragazza estroversa che salutava sorridendo persino i passanti sul marciapiede?
All'improvviso ero diventata un'altra, più schiva, responsabile.
Il ragazzo giocherellava con un qualche elastico o forse era solo il laccio del cappuccio della felpa. Se lo rigirava fra le mani, disinteressato, perso.
Chissà, chissà cosa gli passava in mente.

Mi alzai dalla sedia, avvicinandomi alla finestra e appoggiando le mani al vetro.
Sentii mia madre chiedermi “dove vai?” ma non risposi.
Rimasi incantata di fronte a quell'essere umano tanto bello quanto misterioso, tanto affascinante quanto disperato.
Mi diressi verso la porta, aspettai che si aprì e uscii.
Gli andai incontro, non se ne accorse perché era voltato di schiena, fissava le rotaie, controllava se arrivavano treni.
Camminavo sempre più veloce, il cuore palpitante che sembrava uscirmi dal petto, la gola che si era seccata, le mani che tremavano.
Era da tanto che non provavo quella sensazione, eppure mi era così familiare.
L'avevo provata tante volte, ma avevo sempre desiderato rimuoverla dai miei pensieri.

Io. Non. Devo. Innamorarmi.

Mentre mi avvicinavo a lui continuavo a ripetermelo, una, due, tre, dieci volte. Ero arrivata a contarne venticinque finché non gli ero distante solo qualche metro.
Si alzò in piedi, mi bloccai.
Da lontano sentivo il rumore di un treno in arrivo, si faceva sempre più forte e assordante.
Ebbi una paura folle quando lo vidi controllare e ricontrollare quell'arrivo.
Si sposto finché i piedi sporgessero dal pavimento cementato.
Non riuscivo a respirare, non mi rendevo conto di quanta aria non avessi aspirato a causa dello spavento.
Il rumore del treno mi assordava, le parole della gente si trasformarono in grida e divennero un frastuono.
Non so con quale forza riuscii a muovermi ma iniziai a correre. I pochi metri che ci separavano divennero in una frazione di secondo solo millimetri.
Spalancai la bocca per lo spavento quando guardandomi si lasciò cadere all'indietro.
Istintivamente mi gettai in avanti, tendendo le braccia. Riuscii ad afferrargli un piede ma le mie mani e le mie braccia non riuscirono a sorreggere quel peso, esagerato per i miei muscoli.
Iniziai ad urlare cercando di attirare l'attenzione.
Aiuto! Aiuto! Aiuto!”, le mie parole erano grida disperate.
Sentii un rumore sordo: era la testa del ragazzo che sbatteva contro il muro in cemento, trascinandomi ancora di più verso il fondo e facendomi scivolare e graffiare sul pavimento ruvido all'esterno della stazione.
Aiutatemi!
La mia voce si era fatta rauca da quanto avevo urlato solo qualche secondo prima.
Il menefreghismo delle persone in attesa mi disgustò.
Un ragazzo aveva appena tentato il suicidio e loro se ne stavano fermi, fingendo di non aver visto nulla. Feci una smorfia schifata, quando dopo svariate urla finalmente qualcuno accorse in mio aiuto.
Ormai il mio busto era quasi del tutto sporto dal bordo, mi sorpresi io stessa di non essere caduta anche io con lui.
In un momento di lucidità pensai a quello che avevo fatto, pensando e ripensando al fatto che avrei rischiato la vita per salvarlo pur non conoscendolo.
Aveva quel non so che di speciale di quelle persone un po' disastrate a cui non puoi non voler bene, vuoi bene loro per forza, quasi a proteggerle, accudirle.

Un uomo sulla trentina afferrò entrambe le gambe dove io stringevo forte le caviglie con le mani sudate, mentre fiotti di lacrime iniziarono a rigarmi il viso, presa dal nervoso e dalla paura.

Lo tirammo su, lo facemmo stendere a pancia in su. Sembrava fosse svenuto, ma almeno era vivo.
Iniziò a mancarmi il respiro, un'altra volta. Non era un mistero che soffrissi di attacchi di panico, non per i miei genitori almeno, ma tutti questi sconosciuti non lo sapevano.
Mi portai una mano al petto, strinsi la maglietta con le unghie quasi a strapparmela di dosso ed iniziai a vedere nero, puntini bianchi su uno sfondo nero.
Le ultime parole che sentii prima di svenire furono “Pronto 118, venite alla stazione, un ragazzo ha tentato il suicidio, è salvo per miracolo”.

 

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Capitolo 5
*** 5. ***


5.

L'ambulanza arrivò pochi minuti dopo. Ricordo solo che mi svegliai in un letto d'ospedale, una flebo attaccata al braccio.
Mia madre era seduta su una sedia ai piedi del letto, sorreggeva il viso con la mano mentre il gomito si appoggiava al ginocchio.
«Figlia mia, finalmente ti sei svegliata»
«Mamma... il ragazzo come sta?»
La sua salute fu il primo pensiero che ebbi.
«L'hai salvato, è vivo grazie a te»
Mi sorrise. Un sorriso materno, comprensivo, innocente.
Sono sicura che ne lei ne quel sorriso sapevano quel che mi legava a quel ragazzo.
Era come se io fossi stata destinata a farlo, come se qualcuno di più grande me lo avesse imposto.
Pur non conoscendolo avevo provato il desiderio di proteggerlo, di salvarlo.
Il mio cuore gliel'avevo messo in una mano, come un amuleto, gridandogli in silenzio “non sei solo, io ci sono”.
Eppure lui non l'aveva capito, avrebbe preferito farla finita che vivere. Il pensiero mi fece venire i brividi.
Come può una persona togliersi la vita? È la cosa più preziosa che ognuno di noi ha e noi non siamo gatti, non abbiamo vite a volontà.
«Posso andare da lui?».
Mia madre annuí e chiamò l'infermiera.
«È nella stanza accanto».

JUSTIN'S POV.
Mi svegliai in un letto d'ospedale. Indossavo una vestaglia bianca, le mie gambe erano coperte da un candido lenzuolo e la mia schiena appoggiava su tre cuscini tenendomi alto.
Sentii l'odore di ospedale, quell'odore che avevo sempre odiato da quando vidi morire mio nonno.
Non dovevo essere morto, io?
Chiusi gli occhi, mi ricordai a pezzi gli ultimi avvenimenti. Ricordo un rumore assordante e un viso da ragazza che mi veniva incontro: un treno e... e chi?
Chissà chi era quella ragazza.
Non la saprei descrivere, i miei ricordi di lei non sono altro che un'immagine sfuocata e un paio di occhi azzurro mare. 
Mi maledii per il mio errore, avrei dovuto essere più intelligente e calcolare i tempi giusti.
Forse qualcuno è contento che io sia vivo, forse qualcuno entrerà da quella porta abbracciandomi e ringraziando il cielo di potermi stringere fra le proprie braccia.
Cosa dico? Non succederà mai.
Basta Justin, chiunque sarebbe più felice se tu fossi morto.
Una lacrima stava per rigarmi il volto quando sentii la maniglia muoversi e allora mi affrettai a ricacciarla dentro.

***'S POV.
Eccolo, finalmente è davanti a me.
Nonostante il volto stravolto, da vicino è ancora più bello.
Ha gli occhi lucidi e un po' gonfi, forse ha pianto.
Chissà quali dolori ha sopportato. Vorrei dirgli che può contare su di me, ma quanto vale detto da una sconosciuta?
Mi sento esagerata a dirlo, ma sento come se il mio sorriso dipendesse dal suo. 
Non scherzo, vederlo così mi stringe lo stomaco in una morsa.
Ricordo di averlo già visto da qualche parte, ma non ricordo dove. Ricordo di aver conosciuto i fantasmi del suo passato, i suoi spettri, i suoi scheletri nell'armadio.
Sì, ma dove?
Lo guardo con gli occhi sbarrati, il volto incredulo.
I miei pensieri si riversano nelle mie espressioni e le emozioni prendono il sopravvento.
Mi guarda con aria interrogativa.
Vorrei dirgli tutto quello che mi passa per la testa ma decido che è meglio aspettare, perlomeno prima devo sapere dove e quando io lo abbia mai visto.
Lascio parlare le braccia e avvicinandomi lo abbraccio forte, fino a sentire il suo naso sfiorare il mio collo e fra le lacrime, fra i ricordi dello spavento che ho provato nel perderlo, gli sussurrò all'orecchio «meno male che sei ancora vivo».
Dopo svariati secondi sento le sue mani toccarmi la schiena e le sue braccia stringermi in una presa leggera e allo stesso tempo forte.
Piangiamo insieme.
Ci scopriamo così, fra una lacrima e l'altra.
Ci liberiamo della corazza che ci eravamo costruiti con gli sguardi di poco prima e ci lasciamo accarezzare l'uno dai segreti dell'altro.
Scopro che si chiama Justin, che nell'ultimo periodo la sua vita è andata a puttane, che lui per le persone che ama darebbe tutto ma che nessuno invece darebbe niente per lui.
Gli dico che si sbaglia, che c'è qualcuno che lo ama.
Mi riferisco a me, ma non glielo dico.
Gli dico che gli amici e la madre sono fuori ad aspettarlo.

JUSTIN'S POV.
È lei, è lei la ragazza di cui mi ricordavo.
La vedo timida aprire la porta, sussurra tra sé e sé parole senza senso finché mi viene incontro e mi abbraccia.
Avrei voluto cacciarla dicendole che ha sbagliato a salvarmi, che dovevo morire. Ma come si può una cosa del genere di fronte a tale dolcezza?
Piange, ho l'idea che stia versando tutte le sue lacrime.
L'abbraccio, non lo faccio per me, lo faccio per lei.
È lei che ha bisogno di essere salvata, è lei che con annessi e connessi ha il mare dentro, pur dimostrandosi dura come la roccia.
Piango anche io, vederla così mi distrugge.
Le racconto di me, lei mi racconta di sé. Si chiama Amy, non vede mai suo padre. Doveva ritornare oggi, si sta facendo mille sensi di colpa perché non sa se sia arrivato e non si è nemmeno preoccupata di chiederlo alla madre.
Sembra una bambina, mi stringe forte la mano e scansandosi dall'abbraccio appoggia la testa sul mio petto.
Perché lo fai raggio di sole? Perché tutto questo dolore? Non sarà mica colpa mia?
Potrei morirne, ora che mi hai salvato potrei sprofondare nuovamente nell'oblio.
Le sollevo delicatamente il volto, ci ritroviamo occhi contro occhi per la prima volta.
Occhi color miele e occhi azzurri come diamanti che riflettono l'acqua marina. Non ho mai visto occhi tanto belli in diciotto anni di vita.
Mi sorride.
Oh, quel sorriso. D'un tratto il dolore sembra sparire, il nero diventa bianco, non esistono sfumature, compromessi, delusioni.
Le lacrime di poco prima diventano gli uccellini che per primi cantano a primavera, come margherite a cui strappare i petali solo per urlare ai quattro venti "mi ama!".
Le dico che, nonostante ora ci sia lei, tutti sarebbero più felici senza di me.
Scuoto la testa, le dico che non è vero, che nessuno mi vuole bene. Lei mi contraddice, dice che qualcuno che mi ama c'è guardando in basso, schivando il mio sguardo.
Dice che i miei amici e mia madre mi stanno aspettando fuori dalla porta.
Ma io ho bisogno di lei, anche se non glielo dico. Ho bisogno del mio salvagente, dell'angelo che mi ha salvato la vita e mi ha donato una ragione per vivere.
Mi limito ad annuire, ma non a dirigermi verso la porta per aprire.
Sento la maniglia muoversi, ma non sarà una bella sorpresa come quella di un'ora prima. Me lo sento.
Una ragazza, alta, capelli nero corvino e occhi verdi ci guarda allibita.
Io non parlo, Amy nemmeno. Lei non accenna ne un sorriso ne una parola.
All'improvviso mi sento vuoto e apatico.

AMY'S POV.
Ed ora lei chi è?

 

 

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