Remember me.

di clakis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Insecurity. ***
Capitolo 2: *** Non so più chi sono. ***
Capitolo 3: *** Solitudine. ***



Capitolo 1
*** Insecurity. ***


            Primo Capitolo: Insecurity

Alice pensava che tutta la sua vita fosse incentrata su un piccolo particolare ormai divenuto il suo ossigeno giornaliero: La pallavolo era il suo centro di sfogo perenne. Si adagiava sulla convinzione che non ci fosse nulla di così appagante come liberarsi dei propri malumori schiacciando una palla e passare metà delle sue giornate in quelle quattro mura ormai così familiari da distinguerne i lievi contorni levigati e le crepe di ogni parete malandata. Pensava che la sua tristezza, ormai divenuta incessante, era un sentimento che non poteva cambiare e che attraversava gran parte delle sue giornate . Come se la felicità fosse una meta troppo alta da poter raggiungere. Come se non la meritasse mai abbastanza.
Ogni piccolo contorno di quelle domeniche quasi infinite, trascorreva le sue ore di riposo sdraiata comodamente nel suo letto e con gli occhi rivolti verso il soffitto bianco e quasi spoglio, sperando di essere inghiottita da esso. In fondo, come con tutte le cose bianche, lei ne era terrorizzata. Non sapeva bene il perché di quell’angoscia improvvisa quando trovava davanti un foglio bianco, un muro bianco o perfino una porta bianca. Vedeva in quest’ultime la paura di rimanere sola, immobile, persa. Forse perché il bianco esprime soltanto il nulla. E lei del nulla ne aveva il terrore. Le giornate erano troppo brevi perché lei potesse appagarsi completamente di quelle ore che erano libere. Così i giorni erano un susseguirsi di date, di cui lei, non faceva nemmeno caso. Il tempo scorreva lentamente, quasi a singhiozzo. Ma l’estate era vicina, quasi palpabile. Non sapeva se essere contenta o no di quel dettaglio. In fondo solo un tipo come lei poteva vedere nell’estate una completa solitudine. L’odore dell’imminente stagione afosa era ovunque. Ne sentiva l’odore da ogni angolazione di visuale del mondo. Il sole illuminava gran parte del cielo come se ne fosse il completo padrone e i suoi raggi si espandevano a misure elevate trasportando le persone a mettersi davanti a esso, soprattutto nell’ore più calde come l’una e le due, e a bruciarsi completamente. Alice non aveva di questi problemi, lei non amava sbandierare la sua pelle candida e bianco latte, al sole. Trovava sempre dei posti all’ombra per potersi rifugiare dal mondo. Lei non si sentiva al suo posto, pensava di essere nata in un territorio  sbagliato o magari in un mondo dove non centrava affatto. Si sentiva persa e sola. Non sapeva bene il perché si trovasse sempre fuori luogo, come se non avesse mai avuto veramente una cittadinanza. Le ragazze della sua età erano tutte diverse da lei, sembrava si trovassero bene in qualsiasi situazione e Alice segretamente ne era invidiosa. Non esprimeva mai i suoi sentimenti perché credeva che nessuno al mondo potesse capirli. E infondo era proprio così , le persone sono tutte prese da qualsiasi stupido problema per accorgersi del mondo che gli gira attorno. Alice pensava che prima o poi avrebbe trovato qualcuno che fosse come lei, un perso nel mondo. Ma non osava cercarlo perché aveva anche paura di questo. Paura di condividere con un essere umano i suoi pensieri, i suoi problemi, i suoi aspetti drammatici del mondo e soprattutto i suoi sogni. E Alice in fondo, era felice che la sua vita si trovasse nel nulla e confinasse con il niente.
 
15 Giugno 2010

L’anno scolastico era scivolato via come tutti gli anni precedenti, come se qualcuno avesse spinto l’acceleratore facendo saltare ogni secondo, settimana, mese. Era giugno e lo si poteva notare benissimo dall’aria ormai divenuta intollerabile. Il caldo, quasi incessante, era diventato parte delle mie giornate troppo lunghe per essere vissute completamente. In soli 10 giorni avevo letteralmente letto quattro libri, facendomi venire le occhiaie per le letture notturne. E con ogni santissima ultima pagina un brandello di me volava via, come la storia finita del libro. Cosa mi piaceva nel leggere le storie d’amore? Perché in segreto, in cuor mio, immaginavo di essere la protagonista e cercavo di immedesimarmi in ogni situazione riflettendo il mio carattere con quello di lui o lei. Le storie che leggo finiscono sempre con il lieto fine perché credo che c’è sempre una prima o seconda possibilità per tutto. Mi piace immedesimarmi in una vita che non è la mia perché nel profondo spero sempre di perdermi nel libro e diventare tutt’uno con il personaggio. Solo per il gusto di andare via da lì. Ma quasi sempre mi trovo con i piedi per  terra in quello spazio di vita che non credo possa essere il mio. Cercai di divincolarmi dal letto, cercando con tutta me stessa la forza di mettere i piedi per terra. Quasi ci riuscii ma mi trovai in bilico nello spessore rettangolare destro e proprio quando stavo per alzarmi persi l’equilibrio. Il mio corpo cadde con un rumore quasi forzato e il mio ginocchio arrivò per primo sul pavimento. Un dolore quasi bruciante si allargò dentro la pelle doppia della parte di gamba dove vi era anche il mio ginocchio. Sulle prime pensai “cazzo si è rotto” ma successivamente mi accorsi che il contorno del dolore divenne sempre più lieve fino a diventare un solletichino quasi inesistente. Mi alzai con la forza delle mie braccia e in quel preciso istante squillò il mio cellulare. In un primo momento mi sentì perplessa perché il mio cellulare squillava pochissime volte e soprattutto per i casi d’emergenza. Poi pian piano presi lucidità e impugnai il telefono premendo il tasto verde.

-Ciao Ali.
Era una voce femminile, un suono quasi impercettibile e lento, come se avesse dovuto fare un enorme sforzo per emetterlo. Sulle prime mi sentì confusa perché Catrin non mi aveva mai chiamata e a pensarci su nemmeno mai salutata. E poi come faceva ad avere il mio numero?

-Ciao.

Il mio respiro divenne quasi a sforzo, come se qualcuno mi avesse tolto l’ossigeno che mi circondava. La mia mente fu varcata da fili di pensieri aggrovigliati e quasi tutti gli stessi. Non capivo il perché di quella chiamata e non sapere mi creava fastidio.

-Stiamo andando tutti al mare, alla terza Cala, ci vieni?

All’inizio in senso di meraviglia si fece spazio dentro di me legato anche al pensiero di indifferenza di quell’invito. Sentivo dalla sua voce l’obbligo della chiamata dettato da qualcuno che io sicuramente non conoscevo. Pensai diverse volte di rifiutare ma l’immagine di quella lunga giornata vuota che mi aspettava  si distendeva dinnanzi a me. Calcolai bene di avere ancora ossigeno nei miei polmoni e poi dettai un ‘si’ accompagnato da un sospiro lento che nemmeno mi accorsi di avere emesso.

-Perfetto allora. Alle 10 ci vediamo lì.  A presto.

Restai con la mente soffermata su quei “tu tu” che sembravano infiniti. Li contai a bassa voce, perdendomi nel contare i secondi che gli distaccavano. Cercai con tutte le forze di non aver notato la delusione nella voce di Catrin come se avesse sperato costantemente in un mio rifiuto. A passi lenti mi avviai verso il bagno dove lo specchio enorme ritraeva il mio viso pallido e macchiato di lentiggini che sembravano tanti chicchi di lenticchie. Con il palmo cercai di nasconderle e mi concentrai sui miei occhi. Erano di un marrone intenso, del colore della terra arata nei campi. Erano leggermente distaccati e il naso pronunciato con una punta quasi a patata mi creava fastidio. Mi girai nervosamente.  Mi preparai velocemente come se il tempo mi scappasse dalle mani. Cercai di dar spazio ai miei pensieri incoerenti e non ne trovai. Infine mi sdraiai nel letto e contai il tempo che mi separava da quell’evento nuovo e quasi straordinario . Avevo un’ora abbondante per perdermi nella tristezza ed essere risucchiata da essa.
 

Terza Cala . Un’ora e mezza dopo.

Sdraiata accanto all’asciugamano di Catrin cercavo di contenere un tono abbastanza alto per i suoi profili. Aveva invitato altre tre sue amiche e io rimasi quasi abbagliata dalle loro lunghe e sottili gambe nude che erano parte di loro. Cercai di annuire a ogni loro parola e di concentrarmi su tutto ciò che dicevano. Per lo più delle volte non ci riuscii ma loro non ci fecero nemmeno caso. Parlavano di qualunque cosa fosse inutile, almeno per me. Mi ritrovai a sorridere a commenti del tipo guarda il sedere di quello, sembra scolpito!” oppure “ non trovi che il mio smalto sia di un colore seducente?”. Le guardai imbarazzata perché in quel momento senti nella mia mente un pensiero nuovo e inaspettato: avrei voluto essere in un altro posto. Abbassai lo sguardo per non far si che quel pensiero fosse leggibile nei miei occhi, non avrebbero capito. Alexia, la ragazza dalle grosse gote rosse mi sorrise e io non potrei fare altrimenti che ricambiare quel gesto inaspettato.

-Andiamo a farci un bagno?

Il mio cuore balbettò e sembrò essermi uscito dal petto. Le mani iniziarono a sudarmi incontrollate. Non potevo dirle che non riuscivo a nuotare, che nessuno si era mai posto il dovere di impararmelo. Cercai una scusa fattibile ma non ne trovai. Mi divincolai su una scusa del tutto nuova come quella di avere il ciclo anche se nella mia vita non ne avessi avuto mezzo ma non fui abbastanza credibile.

-Cazzo Ali.. sei una palla! Dai andiamo.

Catrin mi prese il braccio con la forza di una bambina e in quel momento capii che non avevo alternative. La paura prese possesso del mio corpo, la sentivo ovunque. Cercai di avere un tono calmo e maturo ma non riuscivo a far smettere al mio cuore di rimbalzare furioso. Scesi piano piano le rocce che silenziosamente mi graffiavano la pianta del piede. Sentivo i quattro paia di occhi fissarmi maliziosi. L’acqua era a due centimetri da me e sembrava volermi risucchiare dentro. Lanciai uno sguardo allarmato a Catrin che ricambiò con un sorriso compiaciuto.

-Ali tu ti butti da lì ok?

Con il braccio destro indicò uno scoglio alto una decina di metri e contornato di pietre nere e affilate. Cercai di non fare caso all’altezza e alla consapevolezza che tra 20 secondi a quella parte sarei morta. Le mani iniziarono a bruciarmi e non riuscivo a fare mezzo passo. La bionda ossigenata accanto ad Alexia mi trascinò con forza alla punta del mio trampolino di lancio. Tutt’e quattro scoppiarono a ridere della mia paura che era leggibile da 200 mila metri. Con una nota di masochismo guardai sotto e mi accorsi che non era poi così tanto alto. Ma non dirti cazzate Alice.

-Ma ti vuoi muovere? Sei proprio una fifona!

Ero in un di quei momenti dove ti vedi passare tutta la tua vita davanti e capisci dell’importanza di ogni piccolo dettaglio di cui non hai mai fatto caso. Qualcuno mi fece pressione al centro delle spalle e il mio corpo si gettò  in avanti, spinto da 4 mani. Il volo che feci fu ,per me, immenso. L’adrenalina mi scorreva furiosa dentro le vene e nessuna figura, suono o qualsiasi altra cosa , era coerente nel mio cervello. Per la prima volta mi sentì libera, svuotata da qualsiasi pensiero. Per la prima volta mi sentì felice perché mi avevano dato ciò che volevo, la libertà della mia anima. L’impatto con l’acqua fredda non fece che aumentare la mia emozione di quel salto. Il sale entrò da ogni direzione, inondandomi la gola. Il mio corpo immobile non riusciva ad emettere alcun gesto e non ne aveva nemmeno l’intenzione. Scendevo silenziosamente ed ero tutt’uno con quello spazio di quiete infinita. Impercettibilmente aprii gli occhi per vedere ciò che mi circondava, ciò che avrei visto per l’ultima volta. Un viso angelico, corrugato di pura preoccupazione, mi guardava smarrito. I suoi occhi sembravano essere cielo e mare, scombinati in un colore mai visto prima. Le sue labbra sottili e rosse erano distorte da una smorfia di terrore. Il suo corpo cercava inutilmente di raggiungermi ma le onde lo trascinavano via da me. Gli sorrisi e fu un gesto quasi inaspettato, come se tutti i nervi del mio corpo si fossero messi d’accordo per compierlo.Improvvisamente sentì quasi una consapevolezza attraversare ogni mia cellula, quelli occhi mi erano familiari, ogni dettaglio del suo viso lo conoscevo, sapevo impercettibilmente in che modo si fossero mosse in sincrono le sue braccia. Non avevo la minima idea di chi fosse, era un estraneo ai miei occhi ma non al mio cuore. Sentivo il bisogno di afferrare le sue grandi braccia e di stringerlo forte al mio petto ed esclamare “io sono qui”, senza una ragione logica. Ma una potenza maggiore ci distaccava, le onde impetuose ci trascinavano in direzione opposte senza chiederci perdono. Improvvisamente qualcuno o qualcosa mi spinse verso di se e in quel preciso istante la mia riserva di aria cessò, portandomi verso il nulla.
 



Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare.
-- Giacomo Leopardi .

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Capitolo 2
*** Non so più chi sono. ***


                       
 Secondo Capitolo:  Non so più chi sono.
Luca.

Non credo di aver visto mai in vita mia un volto così bello. Sono rimasto come un ebete a fissarla, incapace di fare altrimenti. La guardavo e ogni spazio vuoto del mio corpo si riempiva, come un serbatoio d’acqua.  Solo dopo 7 secondi  mi sono accorto che stava annegando e la paura si è impadronita di ogni mia singola cellula. Cercavo di prenderla ma la mia mano afferrava il nulla. Lei sorrideva e potrei giurarlo li si illuminarono gli occhi. Mi guardava intensamente come mai nessuna prima di allora, mi guardava come se mi conoscesse e mi sentii più scombussolato di sempre.  I muscoli tiravano ma non arrivavo mai. Era un incubo, ma il più reale di tutti. Un giovane con gli zigomi molto pronunciati ,un viso serio e con gli occhi a quasi due fessure  la prese e la trascinò verso l’alto. Gli occhi della donna  si chiusero e potrei costatare che perse conoscenza. Rimasi due secondi immobile, straziato. Con tutta la forza che avevo cercai di arrivare a riva e solo in quel momento mi accorsi che stavo finendo l’ossigeno. Quello che vidi in superficie fu un terribile colpo al cuore ,la figura bianca e immobile era sdraiata nella pietra più piatta. Lo stesso giovane di pochi secondi fa le premeva il petto con le sue stesse mani, non vi era nessun segno di vita da parte di quel corpo. Non riuscivo a credere a una cosa del genere, mi sentivo dannatamente in colpa. Non potevo restare più di un altro secondo lì, sarei crollato. Velocemente cercai di prendere la mia roba mentre i miei occhi, a alternanza di una manciata di secondi, si direzionavano verso la sua direzione. E ad ogni sguardo un pezzo di me volava via. Corsi verso il mio motorino mentre le mie orecchie sentivano il rumore sempre più vicino di un’autombulanza, sfrecciai a velocità impressionante verso la mia città, giurando a me stesso di non ritornare mai più a mare in quel paese. Gli occhi mi bruciavano incontrollati e questa volta non potevo dare la colpa al vento. 


6 Settembre 2010
Mi sveglio di soprassalto ed eccola lì, la stessa immagine che mi tormenta da mesi davanti ai miei occhi. La sconosciuta che annega e io non ho il potere di fare nulla. Così come ogni santissima cazzo di mattina resto fermo per 10 minuti sopra il letto e guardo il muro rosso davanti a me. La nausea mi assale e il senso di vuoto, abbandono e strazio diventa parte di me. Poggio la testa sulle ginocchia e prego con tutto me stesso che quello stato di consueta mancanza di me stesso finisca, la stanza traballa e a distanza di pochi secondi gli oggetti si muovono dinnanzi ai miei occhi. Fateli smettere! Cazzo!

-Luca è pronta la colazione!
Mia madre mi salva sempre, sarà forse il mio angelo personale? Mi alzo e come un ubriaco traballo e cerco di appendermi alla maniglia della porta. Cerco di risucchiare l’aria per riempire i polmoni ma ci riesco a malapena. Con i calzettoni fino al ginocchio e i pantaloncini a vita alta sembro proprio un.. coglione! Alla mia entrata con nonchalance in cucina, mia madre mi sorride e credetemi “non ho mai visto un sorriso così bello”.

-Ciao Luc.. ahahahhahah Ma come ti sei vestito?
Sghignazza come una pazza e mio fratello Walter di 15anni si unisce a lei. Cerco di fare l’offeso ma alla vista del mio piatto stracolmo di cibo il mio umore cambia  letteralmente per una ventina di secondi. 

-Mamma è il primo giorno di scuola, voglio morire!
Mi pentì subito di quella battuta orribile, la colazione iniziò a salirmi. Il volto pallido della sconosciuta balenò nella mia testa per una frazione di secondo, giusto il tempo per correre in bagno a vomitare tutto.

- Luca! Che hai?
- Niente Mà, il latte mi fa uno strano effetto!
- Ma se non ne hai bevuto manco un millesimo!
Che schifo di bugiardo che sono! Ma che devo dirti mamma? Che ogni volta che penso a quella ragazza bellissima il mio corpo si stacca da me? Che il senso di perdita mi attraverso fino alla punta dei capelli? Non posso dirtelo mamma, tu mi diresti “sei un codardo!”,sei scappato e non ti sei nemmeno azzardato ad accettarti che fosse viva. Non sei come tuo papà. E io a quel punto ti avrei ringraziato mamma, ti avrei risposto “eh menomale! Io non ti avrei mai abbandonata mentre lui l’ha fatto mamma. Io lo odio papà”. Ma che pensieri mi faccio alle 7 meno venti del mattino? Meglio una rinfrescata va!

Con lo zaino in spalla, più vuoto del mio cuore, corro per arrivare alla fermata in tempo. Attraversato il vialetto di casa mi giro e cerco di mandare un bacio alla mamma che ne rimanda uno di risposta. Con la mente cerco di scattarle una foto in modo che il suo sorriso rimanga con me tutta la giornata. Il bus è sempre in ritardo e dopo essermi accertato che da quella distanza la mamma non mi veda mi accendo una sigaretta. Di colpo un equilibrato senso di stabilità e calma mi riempie. Con tutte le forze che ho cerco di non pensare a quanto la mia vita non sia perfetta. Al fatto che mi sento sempre solo in mezzo a una folla, di non avere neanche uno straccio di amico e di come le ragazze sembrano evitarmi nonostante lo dicono tutte che sono “attraente”. Non che io mi senta così. Ho quasi diciotto anni e non so nemmeno cosa farne della mia vita, non so nemmeno più chi sono e chi ero ambito a essere. Non ricordo quasi nulla del mio passato, come se un enorme masso si fosse piantato su tutto ciò che ero, su tutti i miei ricordi. Mamma dice sempre che è stata colpa dell’incidente ma come può essersi volatilizzato via ogni cosa di me? La vista dell’auto in lontananza mi riempie di sollievo e cerco di fare un cenno all’autista.

-Buongiorno!
Nessuna risposta. Questo è il prezzo da pagare per essere educato? Cerco di farmene una ragione e cammino per cercarmi un posto libero. Le solite facce di cazzo che salgono in quel bus tutto l’inverno, mi fissano. Soffoco anche quest’altra forma di violenza che vorrei praticare e intreccio le mie mani serrandole una all’altra. Il tempo sembra non passare mai e a me sinceramente va bene così. Arrivati in piazza Santo Stefano  scendo di corsa e raggiungo la mia classe in un baleno ed eccoli lì tutti i miei compagni di classe, visi quasi conosciuti di cui a malapena so il nome e il cognome. Qualcuno mi sorride educato ma io cerco di non prestargli molta attenzione perché dentro di me sento nascere un sentimento che riempie quasi tutte le mie giornate: la delusione. Nei loro occhi vedo ciò che io ero prima, un normale alunno pieno di amici e ragazze che sente di  avere in mano il mondo mentre  adesso mi sento solo un naufrago approdato su un’isola sconosciuta. Appoggio la testa al banco e cerco di non pensare senza alcun risultato, le immagini di quella terribile giornata mi scombussolano e non faccio altro che pensare alla sensazione ambigua e quasi disumana che quella ragazza mi conosca . Mi sento arrabbiato verso me stesso perché sono stato io il colpevole della mia stessa tragedia, io avevo il mano il volante ed ero del tutto ubriaco, io non ho visto l’auto svoltare e sono stato io a prendermela a duecento all’ora. Io che adesso non ricordo più nulla di me ma solo il giorno che persi la concezione di tutto, le mie conoscenze, la cultura, i sentimenti, gli aspetti  della vita, persino le azioni elementari del mio corpo come “camminare”. Ed è colpa mia se adesso non riconosco quella donna e a malapena conosco me stesso. Non so più che devo fare, non so quali sono i miei obbiettivi, non so cosa farne della mia vita. Cerco di ascoltare la prof che spiega otto interi capitoli di storia e dopo circa 10 minuti apprendo ogni cosa e non ho bisogno nemmeno di studiare a casa. Sotto questo aspetto sono fortunato perché ho bisogno solo di un ascolto per memorizzare tutto, sarà forse che la mia mente è così vuota di tutto che qualsiasi cosa entra così velocemente solo per occupare quell’immenso spazio. Diversi occhi mi guardano anzi mi fissano ma con tutte le forze che ho cerco di non girarmi in nessuna direzione senza riuscirci, il fastidio prende il sopravvento e sposto la mia testa a destra e disintegro con lo sguardo un mio compagno di classe molto ma molto muscoloso e con delle braccia cinque volte più grandi delle mie. Solo in quel momento mi accorsi di aver fatto una cosa che non dovevo fare se volevo sopravvivere a questo mondo disastro e incolore. Il tipo si alza velocemente senza ascoltare le urla della prof che sicuramente si era accorta di ogni cosa e si avvicina lentamente verso il mio banco spoglio, più solo di me. Mi guarda incerto e so bene cosa vede : una facile preda dalle ossa fragili pronto a scappare a gambe elevate. Un sorriso tremendo si dipinge sul suo volto e quasi senza accorgermene mi sussurra all’orecchio
‘Andiamo fuori’. Ha una voce strana che non s’intona completamente al suo aspetto. I jeans tagliati e grezzi mi colpiscono ma di più la sua maglietta a giromanica nera che espone in bella vista i suoi muscoli enormi. Non so cosa io sia stato prima dell’incidente, se ho mai alzato le mani a qualcuno e se so come si fa a dare pugni ma penso che dev’essere istintivo, facile come respirare. Rispondo con un cenno della testa e mi dirigo fuori verso il campo, dietro di me tutti i miei compagni di classe mi seguono , alcuni intimoriti altri acclamano la rissa imminente. La povera prof, con i suoi 50anni superati e le braccia minuscole e fine, cerca in tutti modi di fermarci ma non ci riesce, così corre verso la parte opposta sicuramente andrà a cercare qualcuno. Mi ritrovo accerchiato da tutte quelle facce sconosciute e illuminate, si poteva ben vedere da chilometri che erano contenti anzi esaltati per quel nuovo episodio del tutto differente alla loro vita monotona e tranquilla. Mister muscolo che solo dopo pochi secondi ricordai che si chiamava “Cameron, soprannominato Cam” si avvicinò a passi lenti verso di me e negli occhi vidi un odio incomprensibile, almeno per me. Mi preparai mentalmente alla rissa ma non feci nemmeno in tempo di pensarla che Cam mi venne addosso tirandomi un pugno nella guancia sinistra. Sentivo l’odore del sangue scendermi attraverso il setto nasale ma non sentivo dolore, nemmeno una piccola parte. Mi alzai velocemente e d’improvviso ogni mio muscolo sapeva cosa fare, come muoversi. Andai in contro a Cameron e lo spinsi con tutta la mia forza e lui cadde a terra, come una foglia d’Autunno.  Resto lì per circa una frazione di secondo ma poi si alzò e a me sembrò più enorme di prima, i muscoli erano contratti ma a me non facevano alcuna paura.  L’adrenalina mi scorreva furiosa e iniziai a tirare ganci destri e ad ogni pugno il suo corpo sembrava essere sempre più piccolo e irrilevante. Non volevo più fargli del male, non ero io quell’essere che sentiva la voglia di continuare a fare violenza dentro di sé, così indietreggiai e coprendomi con la mano destra il sangue che ancora scolava con la sinistra feci segno di fermarsi ma lui non volle ascoltare e mi venne incontro furioso. Cercai di trattenerlo con una sola mano e sotto lo sbalordimento di tutti e anche il mio, ci riuscii. Non credevo di avere così tanta forza. Due figure grandi e quasi curve corsero verso la nostra direzione, erano la prof di storia e il preside che ci guardavano allarmati e potevo ben notare che alla vista del nostro sangue che sgorgava furioso, corsero ancora più veloce. Nel frattempo Cam cercava di tirarmi pugni e calci senza mai prendermi sul serio e io lo guardavo con occhi tristi cercando di trasmetterli con un solo sguardo, tutto il dolore e la tristezza che provavo per quella vicenda. Ma Cameron continuava a gridarmi, a dire quanto fossi uno sfigato, a rinfacciarmi l’incidente e di come avevo rovinato ogni cosa. Non sapevo cosa rispondergli perché non riuscivo a comprendere le sue ultime parole che oltrepassarono il mio corpo e mi spinsero a gettarmi a terra, sfinito. Ma Cam non continuò ad aggredirmi e con le lacrima agli occhi mi gridò prima di andarsene con il preside:
 
-Eri il mio migliore amico Luca, prima che rovinassi ogni cosa. Ti odio.
Il mio cuore si bloccò per una decina di secondi e tutti mi guardarono con una nuova espressione :‘l’incertezza’. Volevo dire qualcosa, chiedergli scusa in ginocchio a quel ragazzo che diceva di essere stato il mio migliore amico, quel ragazzo che non riuscivo nemmeno a capire di che colore fossero i suoi occhi e a non sapere quale fosse il suo cognome. Fino a quel momento avevo pensato di aver rovinato la vita a me stesso e alla mia famiglia ma adesso sapevo che non era così. Ero un mostro e come tutti gli esseri spregevoli meritavo di restare solo. 


Il più grande errore che un essere umano possa fare è, provare a dimenticare il dolore che prova, un dolore non si dimentica, torna sempre, più forte e straziante che mai, forse si dovrebbe solo imparare a conviverci.
 
da PensieriParole

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Capitolo 3
*** Solitudine. ***



Terzo Capitolo: Solitudine.

Alice.
Essere stata in coma per una settimana e due giorni è davvero un’esperienza da non rifare. Mi sono sentita come un pesce fuor d’acqua a vagare in uno spazio temporale senza colori né persone, completamente sola. Ogni giorno rimanevo seduta su quel bianco ad ascoltare le voci di qualche parente o amico che mi veniva a trovare, tutti con la consapevolezza che una buona parola mi avrebbe rimossa da quel mondo incolore in cui ero caduta. La voce di mia madre era un susseguirsi di parole dolci e scuse per tutto quello che si rimproverava di aver fatto. Le quattro stronze che mi avevano mandato in quel letto di ospedale non si erano fatte vive e chissà dov’erano finite anche se non m’importava affatto. Al quinto giorno avevo ricevuto visite da quasi metà del paese e per un po’ mi sentì felice di ricevere tutte quelle attenzioni anche se sapevo erano dovute solo al mio stato malconcio e quasi morto. Al nono giorno cercai con tutte le mie forze di varcare all’indietro quella stanza e di diventare tutt’uno con il mio corpo. A mio malgrado ci riuscii e grazie al cielo potevo avere il completo possesso di ogni mio arto. Quando aprii gli occhi che mi sembrarono due serrande pesanti vidi tutto ciò che mi aspettava da molte ore: un pizzico di vitalità e di gioia che mi era mancata da molto tempo. Sette ampi sorrisi attraversarono la stanza per venirmi incontro e il mio cuore avviò un processo di felicità mai avuto prima. Per la prima volta in vita mia mi sentì entusiasta di vivere. Mi tartassarono di domande confuse e quasi senza senso almeno per quello che riuscivo a comprendere da quel frusciare di parole emesse tutte in una volta. Cercavo di sorridere a tutti e di abbracciare debolmente i miei parenti e qualche amica della pallavolo. Iniziai ad essere stanca e le parole che si scambiavano in quelle quattro mura divennero deboli suoni che sembravano cullarmi in una ninna nanna mai sentita prima. Nella mia mente vi erano un susseguirsi di immagini sbiadite ma un ricordo rinchiuso in fondo al cuore si faceva spazio da solo. Il ricordo di quel viso che dire “bello” è un aggettivo insignificante da dire, in fondo non c’è parola al mondo che possa descriverlo. Non esiste ancora alcuna bellezza che possa fargli giustizia. Quando ,fra l’immensità di quel mare violento in cui ero finita, io ho incontrato il suo viso, il suo corpo, ogni singola particella di me gridava “è lui”. Sentivo dentro ogni minima parte di me, dai filamenti aggrovigliati di pensieri fino al bruciare inconsistente dei polpastrelli, la consapevolezza di conoscere, o aver conosciuto il ragazzo dalla bellezza sovrumana. Anche i suoi occhi di quel color lapislazzuli mi erano famigliari come le coperte della sera, come il calore dell’abbraccio di mia madre o l’odore di mio padre. Ma non avevo la minima idea di come lo potessi conoscere, non avevo nessun ricordo nitido di quel viso ed ero sempre più consapevole che una bellezza del genere ti rimane impressa nella menta, non la scordi più. Eppure.. sentivo il bisogno di avere le sue spalle forti intorno alle mie spalle perché sapevo che erano lì che dovevano stare, era quello il loro posto. Logicamente non potevo avere quei pensieri così strani che quasi mi spaventavano, non potevo farmi film mentali su un ragazzo che avevo visto per una decina di secondi e mi era rimasto impresso così violentemente.. forse perché mi sentivo così sola da lasciare che uno sguardo così dolce e profondamente sincero entrasse dentro di me a colmare quel vuoto insistente che sentivo? Forse perché restando sola per così tanto tempo sentivo il bisogno di avere qualsiasi persona accanto? Se fosse stato così non mi sarei avventata anche su quei due rammolliti che mi venivano dietro come cani bastonati? Non sapevo rispondermi e le domande sembravano crescere dentro di me, come se avessero trovato spiragli di uscita dalla crepe del mio cuore distrutto. Ero troppo nervosa per prendere completamente  sonno, per viaggiare nella quiete del mio animo e scoprire posti che la mia mente mi avrebbe imposto di vedere, situazioni che non potevano sfuggirmi. In fondo ,quando sogni, nessuno può modificare ciò che la tua mente ti vuole fare ricordare o riflettere . La stanza era riempita dal suono odioso e insistente del bip monocorde di un apparecchio e l’odore ospedaliero era incollato in qualsiasi oggetto dentro le quattro mura, era odioso e mi pungeva il naso. Immaginavo a occhi chiusi la presenza del ragazzo “delle acque” accanto a me, lo facevo perché volevo tranquillizzarmi, sperare che il mio pensiero volasse fino a lui e che se ne accorgesse che lo desideravo tanto come quando da bambina guardavo la nutella troppo alta nello scaffale e con gli occhi e con il pensiero speravo che scendesse e volasse verso di me. Ma il vasetto rimaneva lì, incollato nel suo modo inesistente e senza emozioni, un mondo fatto di vasetti e di scatoli chiusi che nessuno filava fin quando non si accorgevano che erano scaduti e gli buttavano come se niente fosse. A casa mia era sempre stato così, a mia madre piaceva comprare tante cose perché pensava e desiderata creare tante bontà per mio padre in modo che il suo viso spento e serio si trasformasse in un sorriso sbiadito. Ma quando tornava a casa e chiedeva a mio padre se avesse fame , lui senza incontrare il suo sguardo gli rispondeva un no secco e brusco e l’aria gelida che oltrepassava il cuore di mia madre si spingeva verso di me fino a diventare una poltiglia di sentimenti negativi e oscuri verso mio padre. Con il passare del tempo la tensione era aumentata e alla fine, grazia a Dio, mia madre decise che non voleva buttare la sua vita seguendo un uomo che non amava più, un uomo che pensava soltanto al suo lavoro e non si degnava nemmeno di salutarmi quando rientrava a casa. Un uomo che pensava che fossi comprabile con una banconota da 50 euro che lasciava nella mia scrivania quando arrivata al limite della sopportazione di quel silenzio spoglio che copriva ogni cosa, uscivo di casa con gli occhi gonfi di lacrime e vagavo da sola nella città. Non desideravo altro che uscisse per sempre dalla mia vita e quando il mio desiderio divenne realtà lui rimase impassibile di fronte agli scatoloni e alle valigie buttate a caso per terra. Non gli importa niente di noi, le uniche donne della sua vita. Così era stato facile rimuoverlo dalla mia vita e trasferirmi in un’altra città, lontano dal suo profumo che sembrava circondarmi sempre in qualsiasi posto. Mia madre non era più uscita con nessuno, aveva deciso di dedicare la sua vita alla sua unica figlia e di riiniziare tutto da capo, riprendendo gli studi e laureandosi come avvocato. Quel vuoto che mi aveva sempre accompagnato fin da bambina, quel vuoto che faceva puzza di troppo silenzio e ansia dei muri della mia vecchia casa, aveva contribuito a farmi diventare la donna che ero adesso, una donna che non riesce ad aprirsi con nessuno, una solitaria senza amici ma con la consapevolezza che se non volevo sentirmi così tanto sola avevo sempre i miei libi a portata di mano che mi facevano vagare in uno spazio di mondo diverso da quello attuale e rendevano ogni cosa meno drastica. Eppure.. sentivo nel profondo di non essere così tanto sola, di avere ancora l’immagine del viso di quel ragazzo impresso nella mente e immaginarlo lì accanto a me creava una barriera di speranza e di amore che non avevo mai conosciuto prima. Gli occhi incominciarono a diventare pesanti e a vagare verso altri spazi dove potevo esserci solo con la mente e non con il corpo, un senso di pace attraversò il mio corpo e mi ritrovai negli immensi campi celesti dove le nuvole sembravano soffici lenzuoli o zucchero filato. Un sole di dimensioni più piccole del mio pollice emanava raggi che mi infastidivano gli occhi e mi fecero lacrimare. Non riuscivo a vedere niente perché i grossi goccioloni che mi rigavano il viso mi impedivano di vedere qualsiasi cosa ma potevo sentire tutto: l’aria afosa che sbatteva furiosamente contro il mio corpo e sembrava quasi una dolce culla naturale, il suono silenzioso e frusciante del vento che emanava una pace inaspettata e silenziosamente il tocco leggero di una mano che premeva dolcemente la mia spalla che mi fece sobbalzare . Incuriosita dalle emozioni che il mio corpo provava senza nemmeno sapere chi fosse l’artefice di quel tocco, mi girai e trovai a due palmi dal mio viso i suoi occhi , dovetti socchiudere i miei perché tutta quella bellezza mi abbagliava. Il suo viso era esattamente come lo ricordavo, i lineamenti del suo volto che per me erano pura arte e mi sembravano modellati dal più esperto degli scultori, i suoi occhi , il colore delle sue labbra sottili e il suo naso incentrato perfettamente nella sincronia del suo viso. Luca, il ragazzo che avevo osservato dentro le acque, il ragazzo che non potevo in alcun modo conoscere il suo nome ma sapevo nel profondo che era quello . Tutto mi sembrava confuso e il suo sguardo di pura agonia mi fece tremare ogni mia singola cellula. Eravamo a debita distanza e nessun nostro arto osava sfiorarsi perché ero terrorizzata dall’idea che anche solo sfiorandolo Luca potesse volatizzarsi . Solo in quel momento mi accorsi del suo piccolo dettaglio nuovo e inaspettato che mi fece bloccare lo stomaco e rimanere di sasso ..perchè dietro la schiena, all’altezza delle spalle, una lunga scia di petali bianchi infiniti creava una sagoma ben leggibile: le ali. Erano di una grandezza enorme e battevano in sincrono lasciando una scia di scintille luminose. Desideravo vederle da vicino, toccarle per analizzare se fossero così morbide come davano a vedere ma quando cercai di divincolarmi dallo sguardo di Luca e alzarmi sulle punte per stringerlo forte a me, qualcuno mi trascinò via da quel sogno così nitido e perfetto facendomi tornare in quella stanza di ospedale che sapeva di morte.  L’ultima cosa che vidi fu il sorriso dell’angelo che mi entrò dentro paralizzandomi le ossa.
 

6 Settembre 2010
 
Essere tristi, piangere diverse ore  non significa essere deboli, il debole è colui che pur affrontando tante volte il dolore non ne sa trovar rimedio perché ha paura di tutto. Ed eccomi qui, con la mia solita faccia affranta e con la matita che cola, gli occhi lucidi e i goccioloni di acqua salata che mi solcano il viso. Non so perché lo faccio, a volte cerco di tenere tutto dentro: emozioni, tristezza, urla, pianti, parole.. poi arriva un giorno dove magari mi sono svegliata anche con il piede giusto e penso, mi immergo nei filamenti dei miei pensieri aggrovigliati, centinaia e centinaia, e ne pesco uno a caso. Continuo così, con il volto rivolto a soffitto, a farmi male da sola. Lo chiamo puro masochismo e non ne posso fare a meno di aggrapparmi a qualcosa, a qualsiasi sentimento; così mi tengo forte al dolore, al vuoto, alla tristezza, solo per il gusto di provare qualcosa. Non so bene cosa mi spinga a essere così diversa dal mondo, mia madre crede che alla base della mia “diversità” ci sia l’uomo che mi ha creato, mio padre per l’esattezza, perché è convinta che tutto ciò che mi ha inflitto in molti anni della mia vita mi è rimasto imprigionato nelle ossa. È facile dare la colpa agli altri quando non si sa veramente la verità su qualcosa ed è ancora più facile per me staccarmi dal mondo perché credo che io abbia paura. Paura di qualcosa lì fuori.. ma non so ancora bene cosa. Così mi lascio cullare dalla convinzione che il mio malessere sia stato inflitto da mio padre e arrivederci e baci. Ma sento sempre che qualsiasi passo io faccia, ogni direzione che prenda  sia sempre perennemente sbagliata, come se avessi impostato male la direzione del Tom Tom. Spero soltanto che a questa mattina, per l’esattezza il primo giorno di scuola, io sopravviva. 

Scendo di corsa le scale e mi scappa un “ciao mamma” molto più alto che credevo, in fretta e furia indosso la giacca che ho preso in salotto e salto (letteralmente) sulla bici. Questa mattina ho fatto veramente tardi! La strada per andare a scuola è sempre la stessa , mia madre mi prega sempre di prendere il motorino e nonostante ho preso il patentino (con 0 errori ) non lo uso quasi mai (per non dire mai). Con la bici mi sento libera da tutto, posso andare a passo di tartaruga sulla pista ciclabile senza che nessuno mi suoni quei stupidi clacson, e nel frattempo posso perdermi nel guardare le infinità di cose che mi circondano. Dai muri griffati , al cielo coperto di nubi vaporose, le vetrine color ocra del panificio di Susy dove vendono delle cupcake favolose, le macchine che corrono quasi tutte per la stessa direzione a una velocità impressionante, i bambini che urlano, i cani che corrono e l’erba verde altissima.. vedo una miriade di cose, persone che hanno scelto strade diverse, mondi imperfetti e non, gente che non sa ancora quale ponte prendere e ragazzine che hanno già scelto percorsi sbagliati. E poi mi vedo “io”, che non so precisamente in che posto devo stare, cosa voglio essere.. chi diventare. E fino ad oggi ho scelto sempre di essere me stessa e non è mai bastato.  Eccola lì la mia scuola, tre piani di struttura spazzolata di bianco cenere con un giardino inglese che circonda tutto, il mio piccolo inferno personale che ospita più di 500 persone divise per “categorie”: i nerd, le popolari, le bellissime, le secchione, gli strafighi, i giocatori di football, basket, le giocatrici di pallavolo, nuoto, i fan accaniti di Michael Jackson e quelle accanite di Justin Bieber, le sognatrici, le ritardate, le troppo “in carne”.. e poi ci sono io, che non ho mai capito in che gruppo devo stare e nessuno si è mai posto il dovere di dirmelo perché in fondo queste cose bisogna capirle da sé, così sono arrivata alla conclusione che il mio posto è invisibile, un luogo senza colori né forme dove la pace,  la calma sono alla base di tutto e così, silenziosamente, mi dirigo al mio banco vuoto senza nessuno che mi aspetti sulla sedia e che mi sorrida. La prima ora sembra non passare mai, odio dover restare chiusa in quattro mura per studiare, sempre sulla stessa sedia con il sedere in fiamme. L’unica cosa buona è che ho la finestra accanto così quando sono al limite della sopportazione fisso un punto nel cielo e mi perdo nel calcolare i minuti che rimangono alla fine della lezione. Questa volta la mia attenzione si sposta di sotto, dove una folla di ragazzi circondano due tipi dall’aria famigliare. Non so bene il perché il mio cuore sia partito in quarta, la mente mi pulsa e le mie mani tremano; so solo che nel momento che i miei occhi si sono fermati all’altezza del suo viso, della sua pelle bianca e all’incavo del suo collo, io sapevo esattamente chi era ,a  chi apparteneva quel cespuglio di capelli neri e quella maschera da duro. Luca, il ragazzo incontrato solo una volta nella burrascosa marea, era lì, a quasi 1 metro da me. La situazione non mi era chiara.. perché quel ragazzo super muscoloso dall’aria tremendamente familiare lo guardava in quel modo? Come se volesse ucciderlo? Non riuscivo più a guardare, non riuscivo a vedere quei pugni meschini che arrivavano fino alla pancia di Luca e lo tramortivano e ogni colpo era come se facessero male anche a me. In quell’istante capii che stavo trattenendo il respiro ma quando me ne accorsi era già troppo tardi. Tutto cominciava a girare vorticosamente.
L’ultima cosa che vidi fu lo spigolo del mio banco a un centimetro dalla mia testa.  




Con la tua immagine e con il tuo amore, benché assente, sei ogni ora presente.
Non puoi allontanarti oltre il confine dei nostri pensieri, perché noi siamo ogni ora con essi, ed essi, con noi.
-- William Shakespeare

 
da PensieriParole

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