La Stella Oscura

di Theredcrest
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prigionia ***
Capitolo 2: *** Fuga ***
Capitolo 3: *** Ritorno ***
Capitolo 4: *** Straniero ***
Capitolo 5: *** Unione ***



Capitolo 1
*** Prigionia ***


PRIGIONIA


Siamo uomini e non lo siamo. Siamo alieni, eppure non siamo neanche quello. E allora chi siamo veramente, noi? In un modo o nell'altro, nei secoli tutte le popolazioni se lo sono chieste. Cosa fossero, cosa ci fosse in alto nel cielo, se esistessero altre vite, altri mondi, altri spazi infiniti. É un lavoro di fantasia che solo i più primitivi si limitavano ad eseguire nei tempi dei tempi.
Mentre invece, adesso, sappiamo la verità. O quasi.
C'è stato un tempo in cui eravamo anfibi, e non scimmie come voi. Un tempo in cui siamo usciti dalle acque di questa terra fredda e arida, evolvendoci sulla terra ferma, sviluppando gambe e arti. Siamo umani per forma, ma allo stesso tempo siamo i vostri temuti alieni, niente di diverso dai corpi organici che anche voi possedete e con cui camminate, bevete, mangiate. Con la sola differenza della qualità della nostra evoluzione. Delle nostre conoscenze e caratteristiche. E allora sono come voi, vedete? Tranne per il fatto di non avere una libertà.
Quella me l'hanno tolta tempo fa.
Camminai avanti e indietro nella mia cella imbottita illuminata a giorno, innervosito dalle pareti quadrate e bianche che si univano in un cubo di pochi metri quadrati. Nella nostra era moderna, a mille e mille anni di distanza dal vostro pianeta, tutto è racchiuso in uno spazio ristretto: un'interfaccia neurale installata nella scatola cranica ci permette di richiamare a comando ciò che si trova nelle nostre case o in quelle altrui, dai servizi ai lavabi, alle cucine, salvo gli elementi personali doverosamente protetti.
Abitudinario, mi fermai al centro della stanza, richiamando con un battito di mani un'interfaccia olografica che vi sognereste di avere. Vi trafficai davanti, raccogliendo numerosi dati, nessuno dei quali mi faceva piacere vedere, dopodiché richiamai un posto a sedere. Emerse dal pavimento permettendomi di prendere posizione, dopodiché dovetti addentrarmi nella realtà virtuale di tutti i giorni.
Avevo finito l'ora d'aria.
Suppongo non possiate capire appieno quello che dico, vi basti sapere che sono un "carcerato", termine corretto utilizzato per indicare una persona che crea disagio al pubblico e che viene disposta in quarantena, o in poche parole, imprigionata per il bene degli altri. Qualsiasi sia questo grado di disagio provocato, che sia fisico o mentale, non importa. L'importante è disporci ordinatamente, separarci e rinchiuderci. Ma come esseri evoluti e senzienti, pur se dissonanti dalla normalità, abbiamo bisogno di interagire socialmente, motivo per il quale ci viene fatto dono di un'interfaccia di RV, anche chiamata Realtà Virtuale, per continuare a vivere nella comunità senza danneggiare l'agglomerato. Come potrete intendere, siamo esseri sensibili: non desideriamo privare il nostro prossimo dell'indipendenza, solo contenerlo. L'autodeterminazione è un nostro grande punto di forza e viene creata con l'ordinato controllo, raggruppandoci in insiemi di elementi "liberi" in una determinata ristrettezza. Ma è il prezzo di ogni evoluzione.
Noi lo accettiamo. Pensiamo per il bene d'insieme e sebbene limitati organicamente, ai soggetti come me viene data la possibilità di muoversi virtualmente tra le strade della Città continuando una propria vita d'affetti e lavoro, affinché la produttività resti invariata. Questa interfaccia virtuale, un'appendice di cui veniamo dotati, ci permette persino di toccare e di provare sensibilità con dei limiti regolati in tempo reale. Accarezzare e sollevare sono azioni di routine di cui non si viene privati, ma il tentativo volontario di ferire o rompere, se non effettuato in risposta ad un attacco organico, viene registrato e inibito spegnendo le funzionalità relative alla fisicità delle nostre proiezioni.
In quel caso, la nostra è pura realtà immaginaria. Diventiamo incorporei e solo quando l'impulso è sedato ci viene restituita la normalità. Dopo poco si capisce come controllare le proprie emozioni, anche se nessuno ci vieta di provarle. Sfortunatamente, io sono un soggetto che fatica ad imparare.
Collegandomi attraverso l'impianto del mio visore, mi ritrovai catapultato dov'ero rimasto disattivato, intento a condurre affari per conto della mia famiglia. Sono figlio di una corporazione che si tramanda in generazioni, specializzata nella costruzione di materiali adatti alla biosfera in cui viviamo. La mia storia si tramandava nella genetica e, a differenza di quanto potrete pensare, non era una sorpresa per la comunità che l'ennesimo discendente fosse sotto RV, né appariva come un'onta nelle indubbie qualità della mia famiglia. Siamo socialmente accettati e riconosciuti da tutti, indistintamente. Non siamo suore o monaci di clausura, nonostante la nostra ambigua condizione.
Portai a termine alcuni scambi, valutando i prezzi della fibra minerale usualmente impiegata in tutte le nostre costruzioni, essendo perfettamente biocompatibile con gli impianti e fotoreattiva. Perfino le nostre vesti sono fatte dello stesso materiale degli edifici, in modo da renderli mutevoli a piacere, con un'altissima resistenza alle basse temperature. Patteggiai per ottenere almeno il cinquanta percento sui profitti di vendita e raccolsi in fretta le borse, spostandomi tra la folla del mercato per dirigermi ad un secondo banco gremito di volti pallidi. Constatata la quantità di gente stipata lì attorno, mi venne da pensare ad un rivenditore di visori. La mia supposizione si rivelò esatta e mi diressi anche lì per contrattare sui prezzi degli aggiornamenti. Tuttavia, non fu una buona vendita e ricavai un accordo del trenta percento.
Provai disappunto.
Finendo il giro, caricai tra le braccia le buste di viveri acquistate per mettermi sulla strada della mia abitazione. Com'era ovvio per le nostre usanze, a piedi: i veicoli inquinanti a combustibile sono stati eliminati più di quattro secoli fa, lasciando il posto a stringhe di trasporto, veloci nastri trasportatori che fungono da mezzi pubblici gratuiti. Scorrono in tutta la Città da una parte all'altra, coprendo le distanze più svariate: illuminano eternamente le strade come i nostri abiti e gli edifici che ci circondano. Siamo un mondo di chiaroscuri al neon, un piccolo mondo, dopodiché il fuori è nulla, il deserto, l'assenza. La notte eterna, il motivo per cui adoriamo la luce come si farebbe con un dio.
Il mio peso si alleggerì immediatamente con un passo sulla stringa. Mi lasciai trasportare fino a raggiungere la destinazione, circondato da altri soggetti che a malapena notai, dopodiché scesi, raggiungendo la mia casa in un tempo catalogabile a voi come pochi minuti.
Sulla soglia bussai due volte, poi entrai silenziosamente. É nelle nostre abitudini che le porte siano solo accessori, invece che suppellettili utili. Non sussistendo il concetto di criminalità, eliminato tramite l'intervento preventivo sui portatori di disagio, da noi non si pone il vostro problema di sbarrare entrate e finestre dai malfattori e dai ladri.
Venne ad accogliermi mia madre, che raccolse le borse con un sorriso di saluto. Ricambiai il suo affetto aiutandola a portare gli acquisti sul tavolo composto da blocchi di pavimento, mentre mio padre faceva capolino dallo spazio salotto raggiungendoci in quello dedicato alla cucina. Suppongo fosse intento a leggere gli ultimi aggiornamenti sul visore, constatando quanto sembrasse distratto.
«Cor, bentornato» mi salutò, espandendo la proiezione olografica dei dati nell'aria in modo la potessi vedere. «Oggi gli acquisti sono scesi del quindici percento. Mi vuoi passare i tuoi aggiornamenti?»
Annuii, mentre aiutavo mamma a riporre gli alimenti acquisiti. Sincronizzai il mio visore col suo e gli passai le buone notizie della giornata, assieme al resoconto degli affari fruttuosi e di quelli infruttuosi. Sentii il suo lamento su questi ultimi, un'imprecazione sulla produzione degli "occhiali", poi sparì indaffarato oltre la soglia. Mia madre scosse la testa mentre riponeva una varietà di tuberi fluorescenti nei cabinetti appositi, e passò ad informarmi sul resto.
«Abbiamo invitato Elenia per il pasto, caro. É di sopra che ti aspetta, ti vuole vedere.»
«Preferirei farlo a cena, se possibile.»
«Come mai, Cor?»
«Mi sento particolarmente indisposto, oggi.»
«Comprendo, ma è molto che attende. Potresti fare uno sforzo?»
«Potrei, madre. Dopo aver finito qui.»
«Bravo, caro.» Mi scoccò un bacio sulla fronte ed io, ubbidiente, quand'ebbi finito mi diressi al piano superiore. Digitai alla parete il codice per gli ambienti privati e le scale si sollevarono davanti a me uno scalino dopo l'altro, portandomi al pianerottolo punteggiato dalle porte delle stanze da letto.
Mi diressi alla mia a passi pesanti, aprendola e constatando l'ovvio. Aspettare una persona nelle sue camere private indica un'approfondita conoscenza del suo carattere e la volontà di voler instaurare una relazione intima con essa. Elenia non aveva affatto la prima e io non desideravo da lei la seconda. La mia visione di lei seduta sul mio letto era assolutamente neutrale.
«Cor, sei tornato» mi fece, sorpresa, subito dopo amareggiata. «Non ti fai trovare mai.»
«Questo è perché ho precisi orari di veglia e sonno» le risposi atono.
«Eppure non arrivo mai tardi dal centro di raffinazione minerale. Sembra quasi che tu non voglia vedermi.»
«Affatto.»
Mentivo, e la mia rigidità virtuale lo tradiva. Elenia è la mia "consorte", ma stiamo assieme solo perché è usuale avere una compagna alla mia età. Cerco di sotterrare la mia diversità comportandomi come i miei simili, usandola, se mi volete passare il termine. La conosco fin dalla giovane età e il nostro, all'inizio, era solo un gioco. Adesso è diventato una trappola mortale.
«Non fare finta di nascondermelo, me ne sono accorta. Non ti piaccio, vero?»
«No.»
«Non... ti sono mai piaciuta?»
«No.»
«E non mi darai un bambino.»
«No.»
Non avrei saputo come meglio risponderle. Non volevo affatto avere un bambino con lei, anzi, non volevo affatto stare con lei. Non ne avrei nemmeno avuto l'obbligo: la società non esige che un rapporto sia per la vita, eppure mi sentivo in dovere di adeguarmi. Con me stesso e con i miei familiari. In realtà provavo nausea al solo pensiero di sfiorarla. I miei desideri erano altri, e non c'era lei tra di essi, ma lo spazio e le stelle.
«Lo sai che tutti se lo aspetterebbero da noi?»
«No, Elenia. Nessuno pretende di unirci in una famiglia.»
«Io si.» Iniziò a sbottonarsi il colletto della tuta tecnica, con intenzioni che mi apparvero lampanti. «Lo pretendo. Pretendo un rapporto, qui e subito. E mi darai un figlio. Dovrai farlo, prima o poi, lo sai. É la regola.»
«Me ne vado.»
Mi girai, e lei si alzò dal letto per raggiungermi e afferrarmi un braccio. Non strattonai. Rimasi a guardarla da dietro il mio visore. «Posso scollegarmi in qualunque momento, Elenia.»
Fui eloquente, ma non tanto da farla smettere.
«Fallo allora! Chiamerò il centro quarantena e verrò a trovarti nel tuo corpo reale.»
«Non se ti tolgo gli accessi come consorte e confidente.»
«E perché dovresti farlo?» Avrei voluto spaccarle una sedia-blocco in testa, ma mi controllai. Aveva il diritto di fare le sue domande, anche se era arrivata al limite dell'insistenza.
«Perché questo gioco è durato troppo. Basta con gli accanimenti. Hai voluto tu che fossi il tuo consorte.»
«E lo voglio ancora! Ti ho solo chiesto quello che qualunque altra avrebbe fatto.»
«Non "qualunque altra". Ci sono consorti che si uniscono a cento anni, anche centoventi, e altri mai. C'è tempo. Potresti trovare qualcun'altro di tuo gradimento.»
Per intenderci, ho ottant'anni, corrispondenti ai vostri trenta. Invecchiamo più lentamente di voi.
«Ma io voglio te.»
«Io no.»
«Perché? Potresti accontentarti. Avresti me, potremmo essere felici insieme.»
«Non è questa la felicità che desidero.»
«Ma potremmo essere normali!»
«E se non riuscissi ad esserlo? Mi costringeresti a diventare come tu desideri?»
Mi guardò con l'espressione affranta, sul punto di mettersi a piangere.
«Io non... non intendevo...» La guardai. Non le credevo, e nemmeno lei ci credeva davvero. Il suo unico intento era quello di ferirmi. «Perché devi essere sempre così diverso?»
Come sospettavo. La domanda suscitò in me il più profondo disgusto nei suoi confronti.
«Perché esisto.»
Era chiaro che consideravo la discussione conclusa, ma Elenia non voleva lasciarmi andare, non comprendendo - o non volendo comprendere - cosa ciò significava. Se non era in grado di accettarmi per com'ero, era chiaro io avrei fatto altrettanto con lei.
Stavo già azionando i protocolli di estromissione quando, all'improvviso, un rombo scosse il pavimento dell'abitazione. Mi guardai attorno per capire cosa stesse succedendo, trovando ad attendermi solo le pareti bianche della mia cella: ero stato disconnesso.
Considerai un'anomalia del sistema, considerazione interrotta da un sussulto dei blocchi sotto i miei piedi. Sotto l'insistenza della scossa, i suppellettili che emergevano nella stanza si inclinarono, accompagnati da un acuto cigolio che attirò la mia attenzione.
La porta della cella si era aperta.
Dal nulla mi si prospettava un'opportunità di scappare. Ma perché avrei dovuto farlo?
Avevo tutto ciò che volevo, attraverso l'RV. Non mi mancava nulla.
Un rombo simile a quello che avevo sentito prima, accompagnato dal continuo sussultare del pavimento, capovolse immediatamente tutte le mie opinioni. Certo, non mi mancava proprio nulla. Potevo godere di ogni cosa come se fossi all'esterno. Ma non ero veramente all'esterno, e non lo sarei mai stato. E non gradivo quella prospettiva.
Sistemai il visore e presi il giubbotto termico, indossandolo. Con circospezione mi diressi alla porta e sbirciai nel corridoio su cui si apriva, non vedendo un'anima viva in circolazione.
Finalmente mossi qualche passo fuori dal cubicolo che era stata la mia prigione per poco meno di cinquant'anni. Quando presi sicurezza, mi misi a correre.




Note dell'autore
Ecco a voi il progetto a cui mi sto dedicando davvero tanto in questo periodo, una storia di fantascienza ispirata per caso dalla copertina di un album. Incredibile dove mi portino i miei viaggi mentali xD E' la prima volta che scrivo qualcosa di simile, oltre ad essere la mia prima ff "a punti", ovvero con un numero di capitoli più o meno programmato che non dovrebbe superare la decina. Chissà se ne uscirà qualcosa di buono! Per ora, ecco qui il primo capitolo, che spero sia finalmente degno di questo nome in lunghezza e in qualità. Ringrazio chiunque decida di leggerla poichè è uno di quei racconti in cui ho deciso davvero di credere e che, nonostante la mia pigrizia, vorrei riuscire a portare avanti e a finire. Non so quanto possa essere avvincente, ma spero che per voi lo sia almeno un po'!
Come sempre, vi ringrazio nel caso decidiate di lasciare dei commenti di qualsiasi tipo, sia positivi che negativi (credo di averne davvero bisogno in questo mio primo "esperimento" xD); in ogni caso vi risponderò subito!
Bene, direi che per ora è tutto qui. Al prossimo capitolo!

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Capitolo 2
*** Fuga ***


FUGA

 
Ho sempre sperato di trovare qualcuno che si adattasse a me come un guanto, che mi fosse complementare e mi completasse. Era uno dei tanti sogni di bambino, dare un fermo alla solitudine. Avere un amico, un fratello, una compagna come me. Desideravo non essere più unico, avrei dato qualsiasi cosa per far avverare quest'eventualità. In cuor mio dovevo aver compreso l'importanza di avere un'individualità distinta, e non ero il solo. Ma forse non riuscite a comprendere a cosa davvero mi riferisca.
L'importanza dell'apparire per noi è relativa. Il risultato è l'imprevedibile espressione dell'unicità riflessa sul corpo, quando il modo di pensare è unificato. Capelli di ogni colore, modifiche in ogni forma e misura, ogni cosa concessa solo per dare un apparente senso di indipendenza ai singoli individui. Anch'io ai miei tempi ho mostrato analoghi comportamenti, i corti capelli rossi e neri ne sono una prova.
Cosciente del mio desiderio, mio nonno mi portava davanti alle stelle della nostra galassia con la speranza che, un giorno o l'altro, venissi ascoltato. Mi viene da pensare provasse lo stesso senso di desolazione vedendosi diviso da suo nipote per mezzo dell'RV che allora era costretto ad utilizzare, proprio come me dopo di lui. A volte ci dirigevamo ai margini della città, sedendoci sull'erba luminescente a guardare le Sette Sorelle, il nostro sistema di sette lune orbitanti. Mi diceva di pregare e sperare sotto il loro sguardo e quello delle Pleiadi lontane e questo alimentava il mio amore per il nostro cielo sempre buio, squarciato dalla limpidezza delle stelle. Alla fine di ogni ciclo, mi portava a rinnovare la promessa. E così fin quando l'età avanzata l'aveva portato al finire del suo tempo.
Gli tolsero l'RV allora, ricordo. Lo portarono a casa e per un'ultima volta trasse le forze e mi portò davanti alle stelle. Stavolta, però, non sotto le nostre lune o la distante Polaris, ma davanti alla Stella Oscura che si ergeva lontano dal nostro pianeta come un sinistro avvertimento, con i crateri fiammeggianti aperti come piccoli occhi cavi e bocche spalancate lontane anni luce. Leggende raccontavano che avverasse qualsiasi desiderio di sufficiente intensità, che era abitata da esseri superiori a volte propensi ad ascoltare i capricci della nostra gente.
Col senno del poi, avrei dovuto ascoltare la mia mente allarmata. Ma accecato dal mio sogno e ansioso di accontentare le ultime volontà di mio nonno, non lo feci e sperai, pregai più di quanto avessi mai fatto in vita.
Non accadde nulla.
Mio nonno morì il giorno dopo, e a qualche ciclo di distanza anch'io finii sotto RV. L'unica speranza che avrei mai avuto di tornare a guardare veramente le stelle sarebbe stata sul finire della mia esistenza, quando fossi stato troppo vecchio e impossibilitato a creare disagio alla società. Agli anziani, si sa, si perdona tutto. E invece, in quel preciso istante, stavo scappando senza incontrare resistenze. Nel pieno della mia età.
Un'eventualità mai considerata.
Percorsi i corridoi asettici in fretta, badando a che nessuno mi vedesse. Non mi imbattei in guardie o factotum, se c'erano sembravano essere scomparsi in un baleno. Da fuori sentii delle grida, e immaginai il perché. Mi diedi una mossa. Trovare l'uscita alla struttura non fu complicato, i miei dati erano già caricati sul visore, la piantina circolare liberamente scaricabile. Sorpassai le celle che si aprivano in continuazione sulle pareti ai miei lati, alcune delle quali lasciate con la porta mezza aperta, e finalmente arrivai alla zona che fungeva da reception per i visitatori e al portellone bianco che mi separava dalla Città. Digitai il codice, osservando le chiusure a pressione che si aprivano più lentamente di quanto avessi voluto. Contando sul fatto nessuno sarebbe mai scappato dal centro quarantena, le password per i visitatori sono a libera disposizione dei rinchiusi: solo noi possiamo dare o togliere gli accessi a chi si inserisce nel sistema e richiede l'accesso. Quando il portellone ebbe finito, lo scostai con forza per passare. Si richiuse dietro di me mentre uscivo. Fuori trovai il caos.
Solo pochi minuti prima ero connesso ad una città brulicante di vita, rallegrata dal chiacchiericcio della gente e dalla luce che lo accompagnava. Adesso il fermento era del tipo meno ordinato e più precipitoso: ovunque individui correvano, si accalcavano, sgomitavano.
Considerai inutile un simile comportamento in caso di possibile minaccia. Cercai di analizzare i dati che potevo raccogliere, cercandone la causa ovunque essa fosse, e la trovai quando un rumore sordo e prolungato mi passò sopra la testa stordendomi. Guardai in alto e, nel buio, vidi volare qualcosa. Fece un giro su sé stessa, si alzò e, muovendosi sinuosa, scese in picchiata verso di noi.
Potei dire addio all'autocontrollo. Con la paura che quella sagoma, simile ad una stella di cristallo nero, si schiantasse nella mia area presi a correre proprio come tutti gli altri, capitombolando e spargendo spintoni come chiunque nella mia situazione. Dovetti calpestare qualcuno e quando me ne resi conto, ringraziai di essere stato tanto fortunato da non finire per terra sotto i passi altrui.
A quell'ora e con la velocità tenuta, la sagoma sospesa avrebbe dovuto schiantarsi su di noi già da tempo. Molti se ne accorsero, vedendola sorvolare le nostre abitazioni, e alzarono lo sguardo in tempo per notare assieme a me che qualcosa veniva sganciato dal corpo appuntito. Nessuno capì cos'era, fino a quando un tremendo boato non ci investì in tutta la sua grandezza, dovuto ad un'esplosione non molto lontano da dov'eravamo. La folla riprese a spintonarsi e a disperdersi nel panico, ed io con loro.
Un giovane afferrò la mia mano, crollando poco distante, schiacciato dagli arti. Un uomo mi passò accanto a tutta velocità, sbattendomi contro la spalla. Vidi una donna urlare, stridula, gracchiando imprecazioni nella nostra lingua natia. A terra c'era una quantità di visori che faceva presagire il peggio.
Esitai nell'osservarli, inciampando sulla gamba di una ragazza. Risollevandomi le diedi uno sguardo, vedendola sfatta e sporca, col visore rifrangente graffiato che rifletteva l'ambiente circostante, e in un moto di solidarietà mi fermai ad aiutarla. Non disse una parola, quand'ebbi finito semplicemente mi lasciò, correndo in un'altra direzione. Anch'io corsi, diretto in un'altra.
Vidi altre navicelle di cristallo nero sorvolare il nostro spazio, e sentii altri fragori e altre urla. Altre esplosioni attentarono ai nostri corpi in cerca di rifugio. Qualcuno si barricava nelle dimore, altri negli edifici all'apparenza più stabili. Compresi che non aveva senso, che stare alla luce della Città poteva significare la nostra morte. Voltai le spalle alla famiglia e alla casa allora, e mi diressi altrove.
C'era un giardino solitario di fiori e piante fluorescenti che cresceva ai margini dello spazio abitato, laddove mio nonno mi portava. Riuscii a pensare solo a quello, sapendo che finito il giardino c'era l'accesso sicuro al nulla e al buio perenne delle lande desolate. Nel nostro pianeta freddo e arido, per gran parte invivibile, solo la Città è considerata come luogo abitabile. Adesso mi sembrava l'esatto opposto, e il gelido deserto planetario appariva di gran lunga migliore dello stare a farsi bombardare sulla testa da invasori sconosciuti.
Perché era l'unica cosa che avrebbero potuto essere, invasori, quelli che ci avevano attaccati. A cui dovevo, in molti modi, la mia attuale libertà. Ma scommetto che non mi avrebbero lasciato il tempo di ringraziarli, se mi fossi trovato faccia a faccia con loro, qualunque strano aspetto avessero.
Corsi velocemente attraverso il campo, schiacciando foglie e vegetazione sotto i piedi. Laddove l'iridescenza prodotta dalle piante finiva, c'era una soglia ben delimitata che, oltrepassata, si perdeva in un indistinto buio foriero di storielle e racconti per spaventare i bambini. Avrei dovuto provare paura davanti all'ignoto, angoscia per i mostri tentacolari dalle grandi bocche di cui ci avevano parlato i nostri genitori, appartenenti ad un passato prima della civilizzazione. Avrei dovuto temere le figure nere del deserto, in attesa di ghermire chi si perdeva nell'oscurità.
Invece non provai nulla. Tutto sarebbe stato meglio della distruzione che mi stavo lasciando alle spalle, pensai. Tutto sarebbe risultato più comprensibile senza le urla della mia gente, fatta a pezzi dietro di me da forze aldilà della mia immaginazione. E improvvisamente mi ritrovai nel buio. Continuai a correre come un disperato, alla cieca, finché i miei occhi non si abituarono. L'oscurità era una ragnatela filamentosa, quasi palpabile, che sembrava avvolgermi interamente e stringermi, stritolandomi nelle sue profondità. Era come un mostro intento ad attirare la sua preda nelle fauci, ma lentamente, in modo da far penare la vittima fino all'ultimo: più mi addentravo, più la sensazione di essere passato dalla padella alla brace si avvicinava. Lentamente.
Ad un certo punto mi fermai, senza sapere dove andare. Spensi le luci del visore e anche quelle del giubbotto e della tuta nella speranza di non essere rilevato, e proseguii sperando di abituarmi presto alla mancanza delle fonti luminose che avevano contraddistinto la mia vita e quella di tutti. Preferii non voltarmi in direzione della Città, ignorandola, in modo da concentrarmi sul mio obbiettivo e non essere sopraffatto dalla malinconia che, sapevo, presto o tardi sarebbe arrivata. Più facile a dirsi che a farsi.
Ripresi a camminare, controllando la respirazione per cercare di mantenermi calmo e lucido. Lo shock dovuto all'attacco era alle porte, specialmente considerando il nostro essere, nel complesso, una popolazione pacifica. Dovevo cercare un rifugio, trovare degli alimenti e dell'acqua, perché non avevo minimamente pensato a raccoglierne durante la fuga e adesso mi trovavo in un territorio ostile: dubitavo di trovare qualche prodotto della flora autoctona sul terreno sabbioso che si perdeva a vista d'occhio, e sicuramente sarebbe stato altrettanto difficile trovare del liquido potabile che non fosse congelato. O quasi.
Fortunatamente, una soluzione esisteva.
Non è un segreto che la Città si trovi nel letto di un antico mare asciutto. Le uniche fonti idriche utilizzabili sono le falde acquifere nascoste nelle viscere del pianeta, dove ancora fa caldo, o quelle risalite fino in superficie nei crateri sparsi sulla crosta, mentre il resto è ghiaccio. I rarissimi laghi naturali all'interno di questi crateri si potrebbero definire un'eccezione alla regola visto il nostro clima estremamente rigido, poiché sono riforniti dalle profondità e mantengono una temperatura stabile grazie alle piante fluorescenti che solitamente vi crescono vicino, in grado di produrre calore; tuttavia, sono l'eccezione alla regola che ci mantiene tutti in vita.
Ve lo spiegherò in modo vi sia chiaro: la Città esiste perché fondata in vicinanza ad uno dei più grandi crateri della zona, abbastanza largo e caldo da permettere l'installazione di estese coltivazioni lungo l'area e il loro mantenimento. Il cratere in questione, dal raggio di diverse miglia, è chiuso da grandi pareti che un tempo avevano dovuto formare un largo promontorio a picco sul mare. Avrei potuto dirigermi lì, tenendomi lontano dalla strada principale punteggiata di vegetazione iridescente ed evitando di morire in mezzo al nulla senza acqua né cibo. Se pure gli invasori avessero deciso di distruggere i nostri campi, ci sarebbe comunque stato qualcosa da recuperare in grado di sostentare un solo individuo, e l'acqua non poteva evaporare nel nulla nel giro di un attimo. Quanto alle mie ridottissime esigenze termiche, è necessario ricordarvi la nostra origine anfibia: voi mammiferi tendete a dimenticare. Il giubbotto appositamente strutturato mi avrebbe protetto dalla dispersione di calore, non avevo altre richieste in merito.
Con queste rassicuranti premesse in mente, cercai di orientarmi, accorgendomi solo ora di avere inconsapevolmente quasi imboccato la strada giusta. Il giardino illuminato da cui guardavo spesso l'andamento orbitale delle Sette Sorelle e da cui ero fuggito confinava a pochi chilometri di distanza con la via che portava al cratere. Non avevo deviato di molto uscendo dalla soglia, e tornando indietro di poco avrei potuto intraprendere il percorso corretto senza rischiare di espormi. Avrei camminato accostando la luce, tenendomi nell'ombra.
Sollevai una nube di polvere nera dal suolo, iniziando a ripercorrere i miei passi a ritroso. Poteva essere una soluzione accettabile.





Note dell'autore
Ed ecco il secondo capitolo di questa piccola storia! Spero che si dilunghi il giusto, non voglio rifilare a nessuno la solita frittata vista e rivista di quaranta capitoli con tanti filler tanto per riempire xD Vorrei fare qualcosa di serio il più possibile... senza che venga a mancare un po' di brava ironia che male non fa, ma ovviamente non so se ci riuscirò. Lo spero tanto, anche perchè ho nella testa tantissime idee che poi mi sembra si incastrino così male! Ma lascio a voi il giudizio di questo, non sono affatto brava a darmi dei pareri.
Ok, basta con le lagne xD spero vi sia piaciuto il breve scorcio di Città, presto ne avrete una visuale molto più ampia! Il breve passato di Cor l'ho trovato abbastanza complicato da descrivere in maniera soddisfacente, ma credo di aver fatto almeno un lavoro discreto col mio povero personaggio (ammmmore di mamma *.*).
Come sempre se volete leggere e lasciare dei contenti sarò contentissima di rispondervi *.* In ogni caso vi ringrazio di star seguendo questo racconto!
A presto col prossimo capitolo!

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Capitolo 3
*** Ritorno ***


RITORNO


Volute di vapore si sollevavano sulla vista della Città che si spegneva inesorabilmente, pezzo dopo pezzo, al passaggio dei veivoli di cristallo che abbattevano edifici e persone con cui avevo interagito durante la mia intera esistenza. Osservavo la decadenza della civiltà dall'alto, nascosto, e mi domandavo se fosse desolazione quella che mi attanagliava il respiro nel guardare la luce affievolirsi da lontano, oppure un alito di truce soddisfazione. Quella che era stata la mia prigione, che i miei concittadini avevano voluto costruire e in cui la società aveva voluto inserirmi, ora andava disgregandosi come un castello di sabbia al vento. Eppure là c'era anche gran parte di quello che amavo.
Iniziavo a sentire la mancanza della routine in cui ero rimasto ingabbiato da tempo. La mancanza di pasti regolari, dopo due giorni di camminata e un breve mordi e fuggi dai campi per raccogliere qualche alimento. Confinare la Città era stata una pessima idea, ma l'unica che mi sembrasse plausibile nel dubbio le stringhe di trasporto non fossero più in funzione, danneggiate in qualche modo. Sentivo il vuoto lasciato dall'impossibilità di avere una regolare pulizia ordinaria, e luce dove ce ne fosse bisogno. La lontananza dalla famiglia mi pesava. Quanto ad Elenia, poteva anche essere morta e sepolta. Non ne avrei avuto nostalgia.
Da qualche parte sentivo anche l'urgente bisogno di assaporare ancora uno scorcio di breve contatto, come quello sperimentato prima dell'arrivo dei veivoli invasori. Ricordavo quasi perfettamente i dettagli, la sensazione della mano tiepida e piccola del bambino che stringeva terrorizzata la mia, l'urto violento con la spalla dell'uomo, la ruvidezza delle braccia della ragazza, dovuta alle vesti inzuppate di sabbia e indebolite dalla stanchezza. Ero riuscito ad esasperare quei dettagli fino al massimo consentito ed ora riempivano completamente la mia mente.
Il visore aveva registrato dei frammenti dell'accaduto. Io ne avevo estratti alcuni e li avevo elaborati dozzinalmente per mandarli in loop continuo, uno dopo l'altro, a vista sullo schermo.
Il bambino, l'uomo, la ragazza, un trio di ricordi privi di volto. Il bambino, l'uomo, la ragazza.
Di nuovo. Ancora. Lo spavento, l'orrore, l'ingenuità. Il contatto. Lo trovavo estremamente esaltante e deprimente. Frustrante.
Ditemi: se vi avessero nutriti per l'intera vita a insipide barrette proteiche e improvvisamente vi regalassero un pollo arrosto, lo trovereste buono? La risposta dovrebbe essere semplice, lo trovereste ottimo. Il migliore dei cibi, nel caso non sappiate che ne esistono altri. E se finito il pasto vi dicessero che il pollo si è estinto, che il vostro era l'ultimo pollo mangiabile in tutto il mondo, anzi, in tutta la galassia? Aldilà dei polli, stavo vivendo questo contrasto. Mi importava relativamente dei miei simili, coi quali non avevo mai avuto eccessivi contatti, e contemporaneamente temevo le loro sorti perché avrebbero determinato le mie. Niente più ordinarietà senza una comunità che la creasse. Niente più contatti senza nessuno con cui averne. E la cosa che meno mi poteva piacere di tutto il discorso: la possibilità che insorgesse la fame.
Il cibo non sarebbe cresciuto da solo e le coltivazioni sarebbero marcite senza cure. Mi tornò in mente il vostro pollo, o il suo equivalente per noi, e sospirai sconsolato. Avevo appena iniziato ad approcciarmi al concetto di "mancanza di viveri", ma quello che stavo imparando già mi bastava per spingermi ad agire.
Decisi che dovevo fare qualcosa, o quantomeno lasciare la rientranza umida, stantia e malamente illuminata in cui avevo trovato riparo, una delle tante sparse sulle alte pareti del promontorio che circondava il cratere, erose da secoli di ghiaccio, sabbia e vento. Senza nessun altro posto dove andare, l'unica destinazione fattibile era la Città. Si trattava di un'azione avventata solo all'apparenza: se fossi riuscito a trovare dei superstiti ne avrei tratto tutto il vantaggio, altrimenti sarei tornato nel piccolo angolo buio che mi ero scelto come nascondiglio. Non avevo nulla da perdere e, in qualsiasi caso, sarebbe stato meglio che deperire in solitudine senza nemmeno provarci.
Non avevo molto da raccogliere, quindi sgranocchiai qualcosa e partii. Stavolta decisi di seguire il percorso più semplice: passai per la strada tra le coltivazioni iridescenti, ponderando dove eventuali sopravvissuti avrebbero potuto trovare rifugio e provviste. Ma soprattutto mi chiesi come attraversare miglia di città senza sistemi di trasporto, e, sempre che qualcuno fosse rimasto vivo, se erano stati fatti schiavi. Presto arrivai alla conclusione che preferivo non saperlo. L'eventualità mi intimoriva.
Nell'arco di un'ora, oltrepassai i margini della Città e raggiunsi le prime costruzioni. La devastazione mi sembrò palpabile ancora prima di essermi addentrato tre le vie butterate dalle esplosioni e occluse dai crolli: dei nostri efficienti edifici erano rimaste macerie intermittenti o poco più, e si trattava solo delle zone periferiche. Sapendo a cosa sarei andato incontro avanzando, non avevo nessuna voglia di proseguire e scoprire lo scempio che sicuramente era stato riservato al centro abitato, posizionato all'interno della metropoli.
Stranamente, notai l'assenza di corpi: avrei dovuto vedere almeno quelli dei cittadini rimasti feriti o morti nell'attacco, e invece non trovai nulla. C'erano delle chiazze di sangue, ma non un solo caduto. Lo trovai strano.
Domandandomi dove fossero stati portati - perché risultava plausibile che fossero stati raggruppati altrove - attivai la registrazione visiva sul visore: con del tempo a disposizione, avrei potuto elaborare i dettagli e forse arrivare ad una conclusione plausibile. Sempre che ce ne fosse una.
Avanzai, perdendo l'esatta cognizione del tempo nonostante l'orario fosse segnalato in sovrimpressione dal visore. Senza le stringhe e a volte senza luce, proseguire lungo i soliti percorsi richiedeva uno sforzo considerevole. Fortunatamente, qualcuna sembrava funzionare ancora. Le sfruttai il più possibile per ridurre i tempi di marcia, dopodiché arrivai finalmente a destinazione.
Avvolto dal cuore della Città, mi sorpresi di come tutto fosse ancora incredibilmente in piedi. Non fosse stato per l'apparente stato di abbandono, avrei potuto credere che i miei concittadini si fossero concessi nient'altro che un giorno di vacanza, chiusi nelle loro case. Purtroppo sapevo come stavano veramente le cose, e ancora una volta non trovai corpi né sopravvissuti nel luogo. Feci il punto della situazione, e decisi di iniziare a cercare dagli edifici definibili "sicuri": espansi le piante dal visore in modo da avere dei punti di riferimento e passai in rassegna quello che potevo, senza successo. Mi chiesi dove avevo sbagliato, e nel frattempo mi sorpresi di non ricevere visite: degli invasori non c'era traccia. Andai avanti.
Avevo eseguito un controllo su alcuni palazzi dalle strutture più solide, sul centro amministrativo e su alcuni dipartimenti di controllo supponendo il primo impeto di un cittadino davanti ad una minaccia fosse quello di rivolgersi alla più vicina autorità, oltre che di scappare a gambe levate il più in fretta possibile. Forse avevo fatto un altro errore di calcolo: tolsi di mezzo le piantine e caricai una cartina della città, segnalandone con pochi gesti i punti caldi. Era possibile che fossero rientrati nelle loro case? Lo ritenevo altamente improbabile, nonché pericoloso. Restava il mercato, molto esposto, e i giardini esterni, fuori discussione. Strutture nel sottosuolo? L'unica era il centro quarantena, che si inabissava di molti piani sotto la superficie, ma dubitavo qualcuno si sarebbe azzardato ad entrarci. Con la possibilità che tutte le celle si fossero infine aperte come la mia, nessuno si sarebbe arrischiato a fare tanto.
Scorsi frenetico i diagrammi di probabilità, più preoccupato di essere rimasto solo al mondo che non di un possibile arrivo nemico. Non capivo cosa non andasse nelle mie valutazioni, cosa non avessi calcolato. Non c'erano dati fuori posto.
Innervosito, iniziai ad avere fame. Era l'ultimo tassello ad un puzzle di disperazione che si acuiva di secondo in secondo, ma avevo previsto una situazione di questo genere e quindi mi ero premurato di portare con me qualcosa di commestibile che non mi appesantisse e fosse adatto al facile trasporto, trovando adatto alle mie esigenze un piccolo frutto dalla buccia blu a noi comune, simile ad una vostra pesca. Ne avevo giusto qualcuno in tasca, così ne scelsi uno e ne staccai un morso, rivelandone la polpa violacea e succosa. Il profumo era troppo delicato perché lo sentissi nello stato di agitazione in cui mi trovavo. Fu invece il colore a distrarmi, mentre lo osservavo intento a ponderare.
All'improvviso ricevetti l'illuminazione che chiedevo, nel modo meno conforme possibile: dove potevano andare delle forme di vita senzienti e guidate da istinti comuni, dalla fame prima di tutto, se non dove si potesse trovare del cibo? Scartando il mercato che come detto in precedenza, era fin troppo esposto alle minacce, rimanevano le cupole.
Le illuminai sulla mappa.
Le cupole sono state create come luoghi di puro svago per i cittadini, ambienti sani e tranquilli in cui curare la fragile psiche della mia gente dal peso degli sforzi giornalieri effettuati per la comunità. Sono quelli che voi chiamereste "parchi" nel vostro buffo linguaggio pittoresco, in sintesi delle biosfere totalmente autonome con un proprio ecosistema ed una propria stabilità, molte delle quali dotate di vegetazione fruttifera a libera disposizione del pubblico. Una qualità che da sola, pensai, sarebbe bastata a farne degli ottimi luoghi di raduno. Ma non sarebbe stato abbastanza. La struttura delle cupole è stata appositamente progettata per dare riparo e benessere ad una vasta fetta della popolazione: con una massa più densa dell'usuale ma dotata di una superficie ridotta, raggiunge i nostri più alti standard di resistenza e qualità. Forse non sarebbe sopravvissuta ad una moltitudine di bombe, ma avevo idea avrebbe retto alla maggior parte dei colpi. Se i sopravvissuti non fossero stati lì, allora non li avrei trovati da nessun'altra parte. Avrei lasciato perdere, sarei ritornato al sicuro nella zona del cratere.
In realtà non credevo sarebbe successo. Ero sicuro sull'esattezza delle mie supposizioni e in ogni caso, con strutture tanto vantaggiose, non c'era da sottovalutare la possibilità che gli invasori ne avessero preso il possesso. Avrei accettato qualsiasi sviluppo, non avevo molta scelta.
Calcolai le coordinate di quella più vicina, che si trovava a meno di mezzo chilometro da dov'ero. Feci sparire gli indicatori in fretta, mettendomi a correre: una metà del mio cervello mi avvertiva di fare attenzione, l'altra pulsava d'agitazione. Come risultato, arrivai all'obbiettivo prima del previsto, per poi arrestarmi davanti alla rinnovata maestosità della sua singolare conformazione sferica. I simil-vetri opachi risaltavano non poco il particolare, mentre la larga bocca d'entrata si apriva sull'interno.
Il visore lampeggiò in sovrimpressione, indicando la presenza di scanner biometrici che non ricordavo ci fossero mai stati. Richiamai dati di costruzione e mantenimento, confermando le mie ipotesi: erano stati installati recentemente senza registrazione in un tempo non databile, probabilmente negli ultimi due giorni. Avevo almeno una probabilità che qualsiasi individuo ci fosse all'interno, fosse dei nostri.
Con circospezione, mi diressi all'entrata, esitando davanti alla porta dotata della tecnologia necessaria a friggermi. Gli scanner biometrici erano spesso usati per precludere alla popolazione l'entrata a determinate aree: facevano un'analisi comparativa del soggetto con i dati inseriti e se lo sfortunato non risultava avere le caratteristiche necessarie, non solo attivava un allarme sonoro ma riceveva come ulteriore premio una scossa ad alto voltaggio e un mal di testa inconfondibile. Perfino i nostri sensori di RV erano stati tarati per sentirla, un'esperienza tutt'altro che piacevole. A questo proposito, vorrei farvi notare quanto i nostri corpi siano conduttori molto più dei vostri: anche una mentalità primitiva potrebbe capirne le conseguenze.
Ciononostante, non titubai molto sulla soglia della cupola. In qualche modo avrei pur dovuto entrare, ed era impensabile farlo riducendo a pezzi le pareti. Passai, lasciandomi registrare da fasci di luce verde che si muovevano frenetici attorno a me, prodotti da quattro diverse installazioni collegate ad un'unica unità di controllo. Quando ebbero finito il loro lavoro rimasero sospese, e attesi il verdetto.
La luce sfrigolò percettibilmente, mutando gamma da un estremo all'altro. Rossa avrebbe significato il rigetto, blu l'accettazione.
Trattenni il fiato quando finalmente i colori si stabilizzarono, pochi secondi dopo.
Ricevetti un debole bip d'assenso, e finalmente tornai a respirare.
Potevo passare.




Note dell'autore
Ecco qua il terzo, sudato capitolo. Mi dispiace della prolungata assenza ma fino a due ore fa ero intenta a pitturare casa, quindi sono stata un po' forzata al fermo prolungato fino ad adesso. Non contiamo iI mal di schiena e i mal di braccia che arrivano con un maledetto pennello in mano, si arriva a sera che scrivere diventa impossibile, con la pulizia pavimenti poi si rattrappiscono le dita, inizi a trascinarti sulle gambe e poi muori, anche perchè mettere lo scaletto sul tavolo per arrivare fino al soffitto è un intento del tipo possibilmente mortale che non vorrei ripetere (*fatalismo mode on*) XD Per fortuna la mia mente malefica aveva già preparato quasi tutto il capitolo in previsione del malaugurato evento di pittaggio pareti, e così adesso potete godervi il risultato delle mie fatiche e prepararvi anche all'arrivo in ritardo del quarto, giacchè un altro evento mi porterà via per un po' xD Sono piena di eventi! *piange*

Come sempre se volete leggere e lasciare dei contenti sarò contentissima di rispondervi *.* e ringrazio chi sta seguendo questo racconto!
A presto col prossimo capitolo!
 

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Capitolo 4
*** Straniero ***


Secondo le nostre migliori menti, l'RV è un tipo di sostituto perfettamente riuscito, un'alternativa assolutamente non dissimile dalla vita reale. Avevo ascoltato credibili discorsi sulla sua perfezione molti anni prima e non avevo mai potuto scordarli per il modo in cui facevano sembrare la nostra condizione del tutto ordinaria, uguale a quella degli altri. Erano stati bravi a farcelo pensare, e noi avevamo voluto crederci per alleviare il peso della differenza. Se non noi, almeno io.
Adesso li avrei voluti sentire, gli illustri signori, a spiegarmi accuratamente che sentire l'aria della cupola in RV era come sentirla nella realtà.
Fossi stato ancora nella cella, avrei dato loro ragione. Ma adesso che ne ero fuori, mi accorgevo dei sottili cambi apportati dal passaggio virtuale a quello organico. Con l'RV l'ambiente mi sarebbe apparso senza alcun dubbio piacevole e salutare, un luogo in cui riposare in sicurezza. C'erano alberi da frutto rigogliosi, erba e posti a sedere in quantità ovunque posassi il mio sguardo. Elementi di distrazione che avrebbero limitato le osservazioni di qualsiasi animo obbiettivo.
Utilizzando l'interfaccia fisica invece si potevano percepire delle esatte stonature, delle interferenze con quelle che sarebbero state le mie solite sensazioni. Un risultato simile conduceva ad una sconosciuta percezione di pericolo che non riuscivo a spiegarmi o inquadrare. Sapevo di come andasse di pari passo col mio avanzare, ma non ero stato abituato a riconoscere a cosa fosse dovuta se non, forse, a livello istintivo.
Dall'entrata, mi introdussi nel percorso segnalato che portava al centro della biosfera. La strutturazione pianeggiante del suolo, anche se ricca di vegetazione, mi avvantaggiava in vista di eventuali minacce e da lì il sentiero che zigzagava nell'erba purpurea offriva il massimo della copertura visiva. Era una scelta strategica.
Ebbi prova della sua funzionalità quando sentii dei passi in corsa ancora prima di vederli. Da lontano, potei osservare qualcuno che si avvicinava. Riconobbi immediatamente le luci della tuta che io invece avevo tenuto spente, dopodiché il visore, anch'esso ben visibile nell'ombra offerta dalle fronde. Era un superstite. Non ero solo.
Giudicai questa notizia come la migliore dopo la mia liberazione.
Accesi le luci a mia volta per segnalare la mia presenza, fermandomi dov'ero. L'altro, un giovane filiforme e scattante, mi raggiunse poco dopo col fiatone.
«Finalmente sei arrivato. Che notizie ci porti dagli altri?»
Lo guardai confuso. Non avevo previsto ulteriori gruppi, semplicemente supponevo fossero stati tutti eliminati.
«Altri?»
«Dall'altra cupola. Hanno deciso cosa fare?»
«Fuori non c'è nessuno.» Non mi ascoltò. Andò avanti, insistendo.
«Si, ma che hanno detto?»
«Niente. Perché non c'è nessuno.»
Spazientito, incrociai le braccia. L'altro rimase colpito dalla risposta e dal silenzio successivo. Poi comprese.
«Non sei stato mandato dall'altra cupola.»
«No.»
«Allora da dove-»
«Da fuori.» Eloquente, diedi uno sguardo all'entrata e contai cinque secondi.
Fu il tempo esatto perché realizzasse la mia provenienza. Lo vidi inorridire.
«Non è possibile.»
«Perché?»
«Sono tutti morti, all'esterno. Avrebbero dovuto prenderti.» Parlava degli invasori, e mi domandai se li avesse visti. Avrei avuto molte domande da fargli in proposito, più tardi.
«Ma io sono qui. E sono vivo.»
«Forse ti sei accordato con loro.»
Mantenni la calma, pur desiderando di strozzarlo nel profondo. Mi chiesi dove fossero i blocchi sensoriali, in questo momento.
«Avrei dovuto?» gli risposi glaciale. Il ragazzo esitò.
«Ti devo portare da Pargon.»
Fece dietrofront e si rimise in marcia, badando a tenersi lontano da me mentre lo seguivo. Immagino avesse intuito che fosse meglio espormi al giudizio comune, piuttosto che arrischiarsi in una valutazione personale in tutta probabilità errata. Non avrei potuto biasimare un simile comportamento, sapendo che al suo posto avrei reagito nella sua esatta maniera, ma non sopportavo ugualmente la sua malcelata diffidenza. Pensai a come non fosse coerente coi dettami della società, ma preferii smentirmi in fretta: era preferibile immaginare di ritrovarsi con un soggetto totalmente prevedibile. Probabilmente, nonostante l'ovvietà della situazione, anche lui stava facendo lo stesso con me.
Mi portò oltre il percorso, inoltrandosi in una macchia di vegetazione che prima non avevo notato, più lontana e rigogliosa del previsto. Lo valutai come un buon posto in cui nascondersi, valutazione comprovata dalla successiva presenza dei primi soggetti vivi degni di questo termine: uomini, giovani ragazze e veterani che si avvicendavano per venire a prelevare le informazioni che non avevo, e che non potevo dare. La loro delusione fu cocente, non capendo perchè non parlassi e perché venissi scortato alla maniera di un prigioniero, ma presto si disinteressarono.
Arrivati nel folto, notai che gli alberi iniziavano a spaziarsi. Degli evidenti solchi nel terreno suggerivano lo spostamento di alcune pietre fittizie, solitamente usate per gli abbellimenti, laddove alcuni gruppi di persone sedevano, chiacchieravano e camminavano insieme in un'atmosfera quasi normale. Trovai interessante il loro tentativo di negazione della realtà, sicuramente più edificante del panico di due giorni prima, ma insufficiente: non avevano posti dove andare, famiglie in cui stare e il loro entusiasmo si sarebbe presto spento. Sarebbero scoppiate paure e disfunzioni, a meno il gruppo non avesse già trovato una propria individualità, dividendosi nei diversi ruoli necessaria alla sopravvivenza. Ero curioso al riguardo, ma prima potessi fare domande il ragazzo mi condusse altrove.
Finii davanti a tre soggetti stipati in un angolo, vicino ad alcuni arbusti nodosi. Le loro condizioni contrastavano apertamente con l'ambiente circostante, troppo colorato per le tute scolorite e troppo luminoso per i volti cupi che vedevo alzarsi su di me.
C'erano un uomo, una ragazza e un bambino. Riconobbi nei primi due lo sconosciuto che mi aveva urtato la spalla e la giovane che avevo risollevato da terra, nonostante avessi visto solo uno scorcio delle loro facce che non era stato registrato, mentre il terzo restava a me ignoto: la sua unica funzione, al momento, sembrava essere quella di prendersi cura della ragazza, con la tuta ancora più rovinata e calpestata di quando l'avevo vista in precedenza. Sembrava sfinita mentre il piccolo le districava i lunghi capelli neri.
L'uomo aveva alzato lo sguardo, il suo visore faceva brillare la calvizia e la corta barba di un rosso cupo. Pargon, probabilmente.
«Chi è questo? Quello dell'altra cupola?» lo sentii domandare alla mia scorta, dimostrando evidente insofferenza. L'altro rispose in fretta, preoccupato.
«No.»
«E allora chi? Sbrigati, moccioso.»
«Viene da fuori.»
«Ah, si? E come credi che sia arrivato qui, altrimenti?» Fece gesto di andare. «Smamma, ragazzino. Smettila di disturbarmi.»
«Ma...»
«Ho detto smamma. Non ho più bisogno di te.»
Il tono di minaccia era evidente, un'aggressività eccessiva che lo inquadrava come fuggitivo dal centro quarantena. Provai disappunto. Com'era possibile che un diverso fosse diventato l'attuale capo di questa comunità? Era possibile che avesse trasformato la sua massa fisica in un mezzo coercitivo, lontano dall'RV, ma non riuscii ad arrivare ad altre conclusioni. Il mio accompagnatore resistette solo pochi istanti, poi se ne andò trafelato. Il visore dell'uomo si posò su di me.
«Frena il cervello prima che ti fumi, ci serve ancora» mi consigliò con meno prepotenza. Notai i suoi avambracci e constatai la loro grandezza. Avevo premurato di mantenermi in buona forma fisica, ma lui...
«Siedi.»
Non obbiettai. Non avrei avuto nemmeno l'uno percento delle probabilità di uscirne vivo, altrimenti. Feci quello che mi era stato chiesto e rimasi in silenzio.
«Allora, vieni dall'esterno mi è stato detto. Vogliamo iniziare con le domande?»
Annuii.
«Bene, iniziamo dal nome. Io sono Pargon. Tu chi sei?»
«Cor» risposi atono.
«Cor? Non è un nome da tutti.» Ponderò per alcuni secondi. «Mi ricorda qualcosa... per caso, il magnate delle fibre?»
Si riferiva a mio padre. Annuii di nuovo.
«Sono il figlio.»
Soddisfatto delle risposte, l'altro si strofinò le mani.
«Bene, finalmente qualcuno di utile. E ora passiamo ai fatti. Dove ti sei nascosto per tutto questo tempo?»
Diedi una breve occhiata a lui e poi agli altri, sentendomi affatto confortato dalla presenza dei due concittadini. Quello di Pargon sembrava un interrogatorio sotto qualsiasi punto di vista fosse a mia disposizione in quel momento.
Non lo gradivo.
«Fuori» risposi, rimanendo sul vago.
Lo feci male e volontariamente. L'irritazione gli tornò addosso, lo vidi dal suo arricciare le labbra.
«Scusa, hai detto?»
«Fuori.»
Sorrisi, ripetendolo. Non avrei sopportato la sua arroganza, fino a prova contraria eravamo ancora individui di una società civile. Pargon sembrava averlo dimenticato.
«Ti stai prendendo gioco di me» mi corrispose con un ringhio.
«E continuerò a farlo.»
«Per quale motivo, a parte sputare i tuoi denti per terra di qui a dieci minuti?»
Più grossi sono, più rumore fanno quando cadono. Sperai che il vostro vecchio detto fosse vero.
«Spiegami con quali mezzi sei passato dall'essere nulla ad essere il capo di queste persone. Avrai la tua risposta.»
Devo ammetterlo, mi sentii meschino. Ma era un senso di meschinità positiva, malgrado sapessi che di lì a poco mi sarebbe saltato addosso.
Lo vidi alzarsi dalla sua posizione. Non mi mossi e attesi placidamente che mi venisse a malmenare. Forse le Sette Sorelle in quel momento mi ascoltarono, o forse fu solo fortuna, ma di fatto non ricevetti mai la dose di pugni che mi meritavo.
La ragazza stesa a terra allungò il braccio e lo afferrò per la caviglia mentre si avviava verso di me, pronto a colpire. Sembrò distrarlo in quell'attimo, tanto che portò la sua attenzione su di sé. Scosse la testa, muta col bambino al fianco, e all'improvviso seppi che la rabbia di Pargon era sparita all'improvviso.
Glielo vidi impresso in faccia. Se n'era andata.
Pargon tornò a sedere. Quando mi si rivolse lo fece senza scusarsi, ma con un tono diverso.
«Parlami di cosa ti è successo là fuori.»
Lo trovai brusco, ma accettabile, e alla fine conclusi che avrei comunque dovuto collaborare per il possibile bene comune nonché mio soddisfacimento futuro. Così iniziai a parlare.
«Durante l'attacco mi sono rifugiato nella zona buia.» Lo sentii rabbrividire, in pochi si arrischiavano così lontani dalla luce. Fui stranamente compiaciuto di potermene vantare alla vostra maniera. «Ho costeggiato la Città, sono andato al cratere. Le pareti che lo circondano presentano pertugli adatti a nascondersi.»
«E perché sei tornato?» Pargon sembrava interessarsi alle mie motivazioni, cosa inusuale per un individuo normale. Gli altri avrebbero scansato simili domande credendo la risposta - molto simile ad un "per il bene comune" - fosse altamente scontata. Lui no.
Non ragionava nel concetto di insieme, ma come individuo distaccato dalla massa. Eppure, era a capo di quella piccola comunità dentro la cupola e sembrava gestirla bene. Com'era possibile conciliare egoismo e solidarietà insieme?
Lo facevano tutti i diversi? Lo facevo anch'io?
«Per vedere se fosse rimasto qualcuno.»
Ci fu un brontolio represso in risposta alla mia gelida compostezza.
«Quindi saresti tornato da un nascondiglio perfetto per pura gentilezza.»
«Ovviamente.»
Sorrisi, fingendomi modesto. In realtà ero tanto orgoglioso di quanto avevo fatto da solo nel panico e nel buio che, fossi stato il corrispondente di un vostro pavone, a quest'ora avrei iniziato ad agitarmi in una profusione di ruote colorate. Fortunatamente non potevo, perché passammo subito ai fatti di natura più concreta.
Lo sguardo di Pargon si indurì, dovendo toccare un argomento così delicato.
«Com'è lo stato della Città all'esterno della cupola?»
Proiettai nel visore i dati relativi alle registrazioni, in modo da avere una panoramica esaustiva, ed espansi un ologramma della Città.
«Le periferie sono state devastate, solo il sessantacinque percento degli edifici rimane usufruibile. Il quaranta percento delle zone è stato privato d'energia. Dei centri, rimane operativo il settanta percento del totale. Nel nucleo dell'agglomerato l'agibilità aumenta al novantacinque percento e la fornitura d'energia risulta regolare. Molte stringhe di trasporto funzionano ancora in questa sezione.»
Evidenziai i punti caldi, trasmettendo le informazioni rilevanti.
«Sugli invasori?»
«Nessuna traccia della loro presenza. Non sembrano essersi stabiliti nell'area.»
«I campi?» Aprii un'altra panoramica.
«Intoccati. Le colture risultano in ottime condizioni.» Mi fece un cenno. Decompressi l'immagine e gliela inviai.
«Le altre cupole?»
«Non erano sul mio percorso.»
«Hai delle valutazioni generali sulla situazione?»
Mi prese alla sprovvista, principalmente perché la sua era la richiesta di un consiglio, cosa del tutto inaspettata. Temporeggiai all'inizio, dopodiché chiusi l'ologramma con un sospiro.
«La cupola è una struttura resistente, ma non reggerà ad un massivo attacco. Sarebbe vantaggioso raccogliere il necessario dalle strutture e condurre quello che rimane della popolazione ai campi nel minor tempo possibile.»
Pargon trovò le mie conclusioni ragionevoli.
«É fattibile» rispose. «Ma prima dovremmo recuperare gli altri gruppi.»
«La loro posizione?»
Si strofinò il mento, pensando.
«Le altre tre cupole di questa zona. Ci siamo divisi quando è partito l'attacco, abbiamo visto altri correre in quelle direzioni. Successivamente abbiamo mantenuto le comunicazioni a distanza aperte. Ci avevano avvertito che avrebbero mandato qualcuno a raggiungerci...»
«...e avete pensato fossi io.»
«Si, era legittimo.»
«Ma perché avrebbero dovuto mandare qualcuno?»
Pargon gettò un'occhiata alle proprie spalle prima di tornare a me.
«Perché nella fretta siamo stati tutti sballottati da una parte e dall'altra. Noi abbiamo quattro medici e pochi feriti, mentre in alcune cupole la situazione è peggiore. L'inviato avrebbe fatto da scorta per i dottori da mandare alle altre strutture.»
Calcolai mentalmente la distanza dei quattro edifici.
«A quest'ora dovrebbe essere già arrivato.»
L'uomo annuì, condividendo le mie stesse preoccupazioni, annuendo.
«Il tuo arrivo è provvidenziale.»
Non era la risposta che mi aspettavo. Non mi piaceva il tono in cui l'aveva detto e non gradivo il come mi aveva osservato nel farlo. Incrociai le braccia, contrariato a quello che intuivo stesse per dirmi.
«Dobbiamo andarli a cercare, e tu ci puoi indicare come affrontare la strada.»
«"Dobbiamo"?» Speravo che parlasse di un ristretto gruppo di persone.
«Si, noi. Tutti.»
«In trenta? É un suicidio!» esclamai, affatto incline a seguire il suo ragionamento. «Siamo in numero troppo elevato per spostarci velocemente. Saremmo esposti a possibili attacchi!»
«Ma tu sei arrivato fin qui, no?»
«Si, ma io sono uno, non una folla.»
«Hai detto che fuori non ci sono nemici.»
«Ma non che non possano tornare.» Il mio livello di sopportazione già basso stava sprofondando verso il sottosuolo. Serrai i denti. «Una moltitudine non ha speranze di nascondersi, cadrebbe nel panico al primo cenno di pericolo. Gli invasori hanno già utilizzato questo metodo per disperderci, vuoi lasciarglielo fare di nuovo?»
«Ma non possiamo lasciare tutti qui» ribatté l'altro. «Dovremmo scegliere chi mandare, prima di tutto. E comunque pochi non basterebbero ad affrontare eventuali minacce all'esterno, finirebbero tutti morti. Un grande numero ha più probabilità di vedere dei sopravvissuti.»
«Senza contare che ci ritroveremmo daccapo arrivando ad un'altra cupola e dovendo scortare la gente al suo interno.» Dovevo ammetterlo, aveva una sua logica.
«Dovremmo procurarci qualcosa con cui combattere in caso di pericolo.»
«Hai un'idea?» gli chiesi. L'uomo, con la sua precedente aggressività, sembrava essere l'individuo adatto a questo scopo.
«Vedremo il da farsi. Ora dobbiamo organizzare la partenza.» Lo vidi mentre si alzava con una certa urgenza. Non potevo che essere d'accordo con lui, ma avevo ancora un'ultima domanda.
«Posso fare qualcosa, intanto?»
Si girò a guardarmi.
«Prepara un percorso sicuro.» Si trattenne un attimo sulla ragazza poco distante. «Dalle un occhio.»
Non trovai motivo d'obbiettare: annuii richiamando i dati, lasciando la cura della giovane al bambino. Dubitavo avrei avuto molto tempo libero per occuparmi di lei, nelle prossime ore.

 

Eccomi tornata dopo "solo" qualche millennio di assenza! Sono stati mesi durissimi questi ultimi e sì, non nego di aver trascurato un po' troppo questa storia... ma alla fine mi è tornata nostalgia, e così ho ricominciato a scrivere. Spero la qualità, se così si può chiamare, non differisca molto dagli altri capitoli, ovviamente mano a mano il tempo è passato anche il mio stile di scrittura è diventato sempre peggio x°D
Detto questo, speriamo di riuscire ad andare avanti ancora un po'. Mi stanno inondando di cose da fare! Scrivi per questo, fai l'articolo per quest'altro, manda il downtime di gioco (gioco di ruolo live), comunica questo, spedisci l'email a quest'altro... ci manca solo che mi chiedano di spararmi ò.ò col natale alle porte poi i parenti sono una condanna :P
Come sempre se volete leggere e lasciare dei commenti mi fate felice ç_ç  grazie a chi continua a seguire, sappiate che se non mi avete già mandato a quel paese vi voglio ancora più bene di prima!
Detto questo, al prossimo capitolo... spero entro tempi decenti ^_^''

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Capitolo 5
*** Unione ***


Perché viviamo di desideri irrealizzati, di speranze? É la nostra natura che ci suggerisce di farlo davanti all'insipido vuoto di una vita uguale a sé stessa, del tutto inanimata e priva di emozioni. La familiarità di una ripetitività costante ci rasserena e al contempo ci distrugge, facendoci struggere di sogni e preghiere per un mondo che vorremmo avere, uno scorcio di paradiso realizzato in terra per l'amore di un indefinito altissimo nei nostri confronti.
La verità è che non esiste nessun altissimo, e non c'è amore nel gelido cielo che ci guarda. La fredda logica e la razionalità lo suggeriscono, le uniche entità di cui sappiamo sono le facce di satelliti e pianeti, vuoti crateri che immaginiamo abbiano un alito di coscienza e ci guardino dall'alto, benevolenti, solo perché abbiamo l'inespresso bisogno di ricevere approvazione da qualcosa di superiore e di più bello. Ma qualora ci fossero altri esseri vivi lassù, a parte noi e voi, io credo che essi sarebbero sì superiori, ma freddi e vuoti come lo spazio che li accoglie.
Dovrebbe forse essere altrimenti? Se foste dotati di una mente riflessiva, pensereste a come la vostra mitologia spieghi bene l'interesse degli Dei per le formiche che corrono loro al fianco. Voi stessi non vi preoccupate di calpestare cose piccole e insignificanti, e non accorrete per aver schiacciato accidentalmente un insetto sotto la suola del vostro stivale, o la mano di un vostro rivale. Ed eliminato il comune senso civico, di noi, di voi, non rimane altro che disgregazione e angoscia. E la disperazione, l'ultima barriera prima del crollo sociale.
Mi svegliai di soprassalto, steso di lato, sentendomi braccato da qualcosa o qualcuno. Dovevo essermi addormentato all'improvviso, realizzai notando le luci spente del visore, perché il modello del mio software era programmato per entrare automaticamente in stand-by durante il sonno e non avevo mai disattivato quella funzione. Per quanto ami la luce al pari dei miei simili, alzarsi con una sottospecie di lampada puntata nelle palpebre non fa piacere a nessuno.
Percepivo una presenza posizionata in un punto cieco della visuale, probabilmente al mio fianco, e ne riconoscevo la stessa entità che mi aveva angosciato nel sonno. Nonostante sapessi dove mi trovavo e non mi facessi illusioni riguardo a chi mi circondava, mi sentii discretamente intimorito dallo sguardo che immaginavo avrei trovato a fissarmi non appena mi fossi voltato.
Mi chiesi il motivo di tanto interessamento, o se fosse possibile che uno degli invasori si fosse furtivamente introdotto tra noi per eliminarci uno dopo l'altro. In tal caso, avrebbe dovuto disporre di capacità mimetiche invidiabili o di un aspetto consueto. Inoltre, pensai, non avrei potuto essere l'ultimo, né uno dei tanti infilati nel mezzo, come potevo constatare dal vociare attorno: nel primo caso mi sarei trovato circondato da un silenzio irreale; nel secondo sarebbero risuonati i passi in fuga e le grida di almeno una ventina di persone.
Certo, questo escludendo che simili esseri disponessero della capacità di comunicare vocalmente. Includendola, la prospettiva cambiava percettibilmente: sarei stato circondato dalle voci ovattate di boia alieni pronti a terminare un altro superstite, l'ultimo.
Le congetture non mi avrebbero aiutato, stando immobile col naso nell'erba. Cosa poteva esserci di peggio rispetto alle mie previsioni? Il deserto. Il buio completo. Elenia.
Rabbrividii. Nonostante tutto, poteva davvero esserci qualcosa di peggio.
Lanciai un'occhiata discreta alle mie spalle, scorgendo una figura familiare intenta a fissarmi semi-distesa, e temetti che la mia ultima ipotesi si fosse avverata. In tal caso sarebbe seguito un tentativo di contatto fisico indesiderato - credo che da voi si chiami stupro - a cui non avevo probabilità di sfuggire. Solo in seguito mi rilassai, scoprendo che non era la mia psicopatica consorte ma solo la ragazza assistita dal bambino, la giovane che avevo aiutato e che era rimasta stesa a riposare durante tutto il mio periodo di veglia all'interno della cupola.
Il motivo per il quale mi osservava mi era sconosciuto. Non credevo fosse dovuto alla mia diversità, non era mai stata tanto spiccata da trasformarmi in un animale da esposizione. Piuttosto, poteva essere pura curiosità suscitata dalle circostanze del mio arrivo.
Lo trovai insolito. Senza dati rilevanti non potevo nemmeno tentare di dare un senso a quanto faceva se non valutandolo di persona, quindi mi voltai.
«Ti diverte?»
Vidi la ragazza sobbalzare sul posto, colta di sorpresa, e mi sentii curiosamente contento di averla spaventata. Nonostante questo la sua reazione mi sembrò di molto ridotta rispetto alla norma. Eravamo soli, il piccolo non c'era. Mi diedi da fare per mettermi a sedere, e lei in breve tornò a guardarmi senza una piega da dietro il visore graffiato, facendo svanire del tutto la soddisfazione provata poco prima.
«Mi stai osservando da minuti» feci di nuovo.
Rimase sulle sue prima di rispondermi.
«Ti sto valutando.» Possedeva una voce rauca, femminile ma vagamente meccanica. Distolse lo sguardo e lo riportò subito su di me. «Pargon possiede degli esatti motivi per usarti. Cerco di capire quali.»
Se era uno scherzo, non lo trovai divertente.
«Mentre dormo?» gli chiesi. La sua espressione si dipinse della stessa soddisfazione che doveva aver visto in me.
«Ogni momento è adatto.»
Piegai la testa. Davanti a Pargon avevo inaspettatamente provato emozioni contrastanti, originate dal desiderio di sfidare la sua arroganza e l'autorità che rappresentava senza un motivo coerente. Non riuscivo a somatizzarlo efficacemente, sebbene l'avessi sperimentato più volte. Lei mi confondeva ulteriormente. Non sapevo se provare disappunto o astio in sua presenza. Non mi basai su precise deduzioni per realizzare una risposta come avrei dovuto fare. Era considerata una comune formalità rispondere secondo dati precisi, a meno non si fosse legati da qualcosa di più di una comune conoscenza dell'altro. Ma detto tra noi, a chi importavano le formalità?
«La tua valutazione andrebbe modificata per non violare gli spazi del tuo prossimo. Avresti dovuto aspettare che fossi sveglio. E magari, chiedere.» Rivelai il mio fastidio, freddo e del tutto giustificato. Poi mi sentii un'idiota, accorgendomi che le avevo risposto come avrei fatto ad Elenia. Avevo sbagliato a relazionarmi, le avevo fatto notare il mio livello di differenza.
Piccola parentesi esplicativa: noi e voi abbiamo quasi lo stesso livello di comunicazione. Quasi. Questo significa che quella che per voi mammiferi è una facile risoluzione alla comunicazione verbale, di cui spesso abusate per creare più problemi che risolverne, per noi, evoluti maggiormente sotto il profilo biologico e culturale e societariamente avanti anni luce, è estrema razionalizzazione. Dovendo la nostra vita alla convivenza, solitamente usiamo estrema attenzione: al dialogo, all'intonazione, alle parole. Da qui, la nostra formalità. Forse, tra cento o duecento cicli sarà così anche per voi, se e quando ci arriverete.
L'origine della mia constatazione non aveva motivo di sussistere, se non a livello strettamente personale. Non avrei saputo dire di più. Probabilmente l'avevo anche offesa usando quello scambio informale ma sopratutto irritato, e non osavo pensare ai risultati. Evidentemente, pensai sentendo il suo silenzio, o stava soppesando le mie parole, o ben presto mi sarebbe arrivato uno schiaffo di benservito. Sono ancora un'usanza comune delle nostre donne.
Sul suo visore graffiato, notai comparire un'ombra.
«Errore. Un tipo di valutazione concettualmente corretta si ottiene attraverso un confronto dei dati rilevati nel periodo di sonno e di veglia, senza autorizzazione del soggetto.» Una risposta tecnica, oltretutto esatta.
«Conosci bene i parametri.»
«Conosco molte cose.>
Trovai superflua e inutile quella constatazione. Stava ostentando le sue conoscenze, ed io rimasi così contrariato da decidere, del tutto improvvisamente, di sottoporla ad un test.
«Milletrecento quartz frattale di novecento?»
«Undici milioni di quartz elevati al quinto.»
Un secondo netto, forse due, seguito da un sorriso. Orgoglio, realizzai, guardandola. Come se sapesse già i risultati. L'analisi sui file di testo accessibili dalla memoria centrale del visore partì automaticamente, rivelandomi l'esattezza della sua dichiarazione. Tuttavia, perfino il mio software aggiornato all'ultimo modello ci mise diversi secondi ad estrarla ed elaborarla, più di quanti ne avesse impiegati lei.
Non sapevo come sentirmi, se non come un'idiota al quadrato. Non aveva un visore recente, lo potevo constatare ad occhio. Le uniche opzioni erano che avesse overcloccato manualmente il programma per migliorare il calcolo dati, o che lei stessa fosse un calcolatore biologico. Ma sapendo dell'impossibilità di manipolare il codice sorgente del nostro intero sistema, propesi per la seconda ipotesi. Assieme a quella, intuii che doveva essere una diversa. E lo era, perché come Pargon e me presentava una strana sfumatura emozionale che i nostri simili non riuscivano a comprendere. E non l'avevo mai vista prima dei fatidici ultimi giorni.
Non empatizzai la reazione della ragazza ma risposi ugualmente con un debole sorriso. A sua volta, lei rinforzò il suo. Dimenticai il tono della risposta che le avevo fornito. Mi sentivo confuso, e non sapevo valutare se il momento fosse adatto ad esprimersi in quel vostro antico rituale di corteggiamento che migliaia dei nostri cicli avevano contribuito a trasformare in un'espressione di civile cortesia.
«Il mio nome è Cor.»
«Eon.»
Trovai il suo essere diretta molto confortante. Non credevo gli importasse di sembrare normale. L'arrivo del bambino preposto alla sua cura mi impedì un ulteriore discorso a base di calcoli percentuale e dati.
«Hai completato l'elaborazione?» mi chiese avvicinandosi a noi. Accesi le luci del visore, ma non risposi subito, notando che teneva un abito sottobraccio.
«Ho lasciato il processo nell'area di fondo. É quasi completato.»
«Bene.» Lo osservai avvicinarsi a Eon, rivolto a me. «Ti puoi voltare?»
«Cos'hai in mano?» La mia curiosità dovette prenderlo di sprovvista, o forse lui non era come noi. Mi gettò un'occhiata incerta.
«Una tuta di stimolazione muscolare. L'ha fornita uno dei medici.»
«Non è della tua taglia» commentai. Lui si voltò verso la ragazza.
«No, infatti. É per lei. Quando l'hanno visitata, gli scanner hanno rivelato una forma di atrofia muscolare. Per poter camminare correttamente deve indossarla.»
«L'efficienza a quanto dovrebbe salire?»
«Con l'uso, dovrebbe essere pari alla nostra.»
Lo sguardo di Eon si indurì.
«Non puoi semplicemente voltarti?»
Il ragazzino non aggiunse nient'altro al suo rimbeccarmi. Mi girai come mi era stato chiesto, sconcertato, e preferii concentrarmi su altro. Quindi la sua non era solo una disfunzione caratteriale, ma anche funzionale, biologica. Una condizione considerata tollerabile nella nostra società, a cui si metteva rimedio in ogni modo possibile. Per quello avevamo sviluppato medicine e cure, e sempre per quello erano inizialmente nate le RV, successivamente passate allo scopo che ben conoscevo. Era facile capire perché fosse a terra, durante la mia fuga. Era probabile che fosse caduta.
«Ho fatto.»
La voce del ragazzino mi consentì di ritornare alla posizione iniziale. Eon, con la tuta stretta come una guaina attorno agli arti inferiori e interlacciata al busto e alle piante dei piedi, ben fissata in vita, era seduta per terra intenta a regolare l'intensità dell'elettrostimolazione muscolare tramite le fasce ventrali. Il bambino accanto sembrava particolarmente intento a starle al passo nei diversi calcoli. Osservai per qualche tempo le sue difficoltà prima che il bip del mio visore tornasse a distrarmi, indicandomi l'avvenuta mappatura dell'area. Secondo le informazioni che avevo fornito al programma e le rilevazioni effettuate dalle mie registrazioni, si potevano raggiungere in sicurezza le altre cupole sfruttando una serie di viali panoramici coperti adiacenti alla via principale, abbastanza lontani dalle stringhe di trasporto perché la fornitura elettrica non rappresentasse un ostacolo al viaggio. Riguardo alla presenza di luce, le mie erano solo supposizioni: ero sicuro che le linee di alimentazione collegate alle varie cupole fossero ancora attive assieme alle secondarie, ma non avrei fatto conto su quelle principali. Da quello che avevo visto, la maggior parte era stata danneggiata a partire dalle periferie. Non era comunque un problema insormontabile sul breve periodo, potevamo affidarci alla fotoreattività dei nostri tessuti e alle luci in dotazione ai visori. E nel caso aveste qualcosa da commentare, ricordatevi che quello di avere un sole è un privilegio che non tutti possiedono.
«Qual'è il tuo nome?» mi rivolsi al bambino.
«Dwain.» Aveva rinunciato a seguire la ragazza e ora stava seduto, tenendosi le ginocchia con le mani. Indifferente a tutto e a tutti.
«Io sono Cor.» Parlare coi miei simili non era mai stato un problema tramite l'RV: l'interfaccia completa mi aveva dato tutto quello di cui avevo avuto bisogno, distaccandomi però dal mondo di stimoli e di sfumature presente là fuori. Per cui non mi spiegavo cos'era, adesso, quella strana sensazione di angoscia che mi prendeva al petto mentre scambiavo poche, basilari parole con Dwain. Non le sapevo dare una chiara origine perché non c'era mai stata. Non avevo mai veramente percepito il vuoto che mi circondava. Temporeggiai prima di andare avanti.
«Dwain, trova Pargon. Digli che ho finito col percorso.»
Non riguardava l'invasione, l'imminente viaggio, e nemmeno i possibili pericoli. Era qualcosa di estraneo al semplicistico timore di un evento. Continuai a sentirla mentre Dwain si alzava meccanicamente, allontanandosi alla ricerca dell'uomo, e la sentii svanire non appena fu abbastanza lontano, dispersa nel silenzio calato tra me e la ragazza.
Dopo un tempo indefinito, Eon intervenne.
«Ti sembra anormale?»
Annuii, sforzandomi di guardare l'erba violacea che mi circondava. Parlava del bimbo. Lei proseguì.
«Non l'avevi mai notato prima.»
Scossi la testa, strappando attentamente alcuni dei fili mossi da una leggera brezza temporizzata.
«Sono tutti così, all'infuori di noi. Svuotati. Lobotomizzati. Non sentirti in dovere di imitarli.»
«Imitarli?» alzai lo sguardo dritto su di lei, ribattendo. «Siamo noi i diversi. Dobbiamo adeguarci.»
«Perché dobbiamo?» Aveva smesso di regolare la tuta. «Perché ci dicono di farlo?»
«Perché necessitiamo di protezione.»
Sentii la sua breve risata.
«Sono i normali che vogliono proteggerci da noi stessi.»
«E anche se fosse?» Come con Pargon, iniziavano a prudermi le mani. Fossi stato in RV la mia forma corporea si sarebbe disattivata, percependo intenti violenti, ma senza potevo invece contare solo su me stesso e su tutto quello che andava all'infuori del desiderio di strozzarla. Poco, in realtà. «Siamo un pericolo, incontrollati ed esageratamente emotivi. Potremmo scattare in qualsiasi istante. Distruggere. Mettere fine alla pace. Ma finché ci proteggono, anche se da noi stessi, il nostro popolo non ha bisogno di guerre e armi.»
Il mio discorso era corretto, formulato dai migliori nella comunità per non addossare ai diversi una colpa di cui non avevano controllo, e per far apparire del tutto accettabile la nostra reclusione. Si trattava di preservale l'uguaglianza, i diritti che tutti noi avevamo in comune a prescindere dalla nostra condizione. Era giusto. Ma non lo pensavo davvero.
«Non ci credi, Cor.» affermò Eon, prevedibilmente. Era chiaro a me quanto a lei.
«Ovvio che no.»
Lo ammisi senza sforzo. Pensateci: avevo passato la mia esistenza nella privazione delle interazioni più intime e affettive. Similmente a molti altri, mi avevano sottratto la possibilità di percepire la differenza tra un mondo riflesso composto da connettitori neuronali e sensazioni sintetiche e quello vero, ricco di una terza dimensione che nemmeno la realtà virtuale più aumentata del mondo poteva rendere. E dopo anni di una vita che avevo considerato normale a tutti gli effetti, completamente grigia e ordinaria, ero stato improvvisamente catapultato nel bel mezzo di un'invasione che aveva fatto il bel favore di darmi uno scorcio di libertà che non avrei mai dovuto ricevere. «Ma è per i soggetti incontrollati come te che gli altri ci credono. Grazie per il tuo continuo contributo alla nostra causa.»
Volevo essere cattivo nei suoi confronti. Lei aveva già le sue risposte, lo si evinceva dal modo in cui parlava, mentre io non trovavo le mie. Desideravo sentirmi dire che in realtà non esistevano note stonate, che andava tutto bene dentro e fuori dall'RV. Che era lei a sbagliarsi, che io avevo ragione. Che non avevo passato cicli e cicli paragonabili a sessanta dei vostri anni rinchiuso in quella che il vocabolario avrebbe potuto suggerirmi essere una comoda prigione dorata. Volevo illudermi. Non sapevo come lei avesse passato i suoi anni al Centro Quarantena, ma volevo illudermi lo stesso, e avevo migliaia di motivazioni per farlo.
Eon non rispose. Per qualche momento credetti fosse perché mi riteneva ancorato alla mia personale visione della realtà, un'analisi che mi sarei auto propinato da solo. L'arrivo di Pargon mi fece realizzare diversamente la cosa. Lo vidi salutarla, poi rivolgersi a me con un gran sorriso beffardo.
«Allora straniero, hai terminato il calcolo?»
«Si» commentai freddamente.
«E non me li passi, i dati?»
«Solo quando utilizzerai il mio nome.»
Sbuffò, guardandomi da capo a piedi, ma non ottenne una reazione. Continuai a ignorarlo finchè non ebbi la mia risposta.
«Va bene, Cor. Passami i dati.»
«Cortesemente. Credo di non aver compreso la tua richiesta.»Gli restituii il sorriso beffardo che gli avevo visto stampato in faccia, vedendolo cambiare di colorito. Ci mise del tempo, ma riprese l'uso della parola.
«Cor, passami i dati. Cortesemente.» Evidentemente gli servivano proprio. Soddisfatto, li condivisi creando una rete interna con richiesta di autorizzazione. Accettai la sua; il download della mappatura che avevo eseguito fu talmente rapido che l'attimo dopo Pargon era già intento a consultarla con l'aria concentrata.
«Un buon lavoro» mi fece sapere a consultazione terminata. «Ci sposteremo per i passaggi che ci hai indicato, e in caso di pericolo torneremo qua.»
Annuì, mi sembrava ragionevole.
«Preparatevi» continuò, riferendosi a me e alla ragazza. «Dico agli altri di raccogliere le loro cose e di venire qui, tra poco si parte. E... Eon?» fece, rivolto a lei.
«Si?»
«Non fare la schizzinosa. Fatti aiutare dal nostro straniero.»
Non fece una piega, ed io nemmeno. Annuii in sua vece, prima di vedere Pargon voltarsi e andare a raccogliere gli altri. Quando tornò, lo fece assieme a circa una trentina di persone: qualche normale e un gran numero di diversi. Una fila di facce pallide dietro ai visori dotate di qualsiasi modifica corporea o colore di capelli si potesse immaginare, ma che a differenza della passiva tranquillità delle altre sorridevano, piangevano, tremavano o rimanevano contrariate davanti all'ipotesi di quello che stavamo per fare. Abitatori del Centro Quarantena. Come avevamo fatto a salvarci in così tanti? Era statisticamente impossibile.
Ci dirigemmo verso l'entrata, Pargon in testa, io ed Eon a pochi passi di distanza, passando gli scanner biometrici, seguendo il percorso che avevo progettato per la nostra sicurezza. La calma piatta dell'esterno e il vento reale che si era alzato mi colpirono più che in precedenza, assieme all'assenza di ogni altra forma di vita negli edifici intatti. La nostra Città era popolosa e animata, la nostra razza ne percorreva le strade ad ogni ora espletando le più diverse incombenze. Ora c'era solo vuoto, e un'assenza palpabile. Niente addetti alla manutenzione. Nessun lavoratore, nemmeno i cadaveri. I nostri silenziosi centri di lavorazione e raffinazione non emettevano più il fumo atossico a cui eravamo abituati.
Tenni il visore regolato sulle impostazioni di rilevamento del calore invano durante il tragitto, non riuscendo a registrare tracce che non fossero lasciate da noi. Quando arrivammo alla cupola, percepii un fremito: la struttura era troppo grande per essere controllata con facilità, ma il fatto che all'interno non si percepisse la benché minima concentrazione di calore era un chiaro segno. Come non bastasse, sembrava che nessuno avesse impostato gli scanner biometrici all'entrata, che da accesi avrebbero emesso una quantità di energia rilevabile sulla registrazione.
«Cor, controlla questi scanner» mi chiese Pargon.
In testa al gruppo, tornai alle impostazioni standard, controllando la data della loro installazione. Non era stata registrata, per cui era recente. Lasciai il fianco di Eon e li controllai personalmente da una minore distanza, accertandomi del loro stato di inerzia. Non erano spenti e funzionavano egregiamente, ma non erano stati tarati.
«Possiamo passare senza pericolo» riferii sbrigativamente, tornando a guidare il gruppo assieme agli altri due. Entrammo.
L'atmosfera non era diversa da quella ricreata nella nostra cupola, eccetto il tipo di vegetazione più folta e colorata, macchiata da boccioli luminescenti e variopinti ogni dove che voi avreste definito appartenenti ad un "giardino delle fate". Voi con le vostre candide credenze non potete certo sapere che sul nostro pianeta, a differenza del vostro scialbo e opaco, ogni cosa ha la propria luce. Voi la comprate, sfruttate la vostra terra per poco più di una candela. Non alzate mai lo sguardo e guardate sempre verso il basso. Per questo non avreste potuto notare l'unica nota stonata all'interno dell'intero ambiente, quella che i nostri occhi invece videro subito.
Dapprima non fu facile localizzarla, definirla. Fu Eon la prima a comprenderla nel suo campo visivo.
«Guarda.»
Me la indicò, un'enorme colonna di aghi di cristallo nero che sembravano toccare il notevole soffitto della struttura, piantata con molta probabilità al centro della stessa. Non pensai nemmeno per un attimo che il mio visore potesse valutarne forma e dimensioni, mi era chiaro che eravamo troppo lontani.
«Ci avviciniamo?» mi chiese Pargon.
«Vedi altre soluzioni?» domandai schietto.
«No, in effetti.» concordò. Prima che potessimo fare un solo passo, intervenne Eon.
«Non credo sia una buona idea.» Non sembrava felice di quella scelta, e nemmeno io lo ero.
«Hai ragione, ma possono essere solo lì» risposi.
«Perché ne sei tanto sicuro?» Avrei dovuto dare una motivazione misurata, coi dati alla mano, ma non ne avevo. Il mio visore pareva inceppato quando si parlava di quel monumento. Alzai le spalle.
«É comunque una possibilità. Non credi?»
Si, credeva.
«Ho paura sia la scelta sbagliata.» Conveniva con me, ma aveva... paura. Quella non era una parola che molti di noi conoscevano, nella nostra società. Almeno, non fino all'arrivo degli invasori. La cosa mi sorprese.
«Non possiamo fare nient'altro» intervenne Pargon. Con un sospiro, anche lei annuì.
«Allora andiamo.»
Riprendemmo la marcia, addentrandoci in poco tempo verso il centro. Presto, la consapevolezza che quello non fosse un semplice monumento fatto comparire per sola bellezza mi raggiunse: i contorni frastagliati di un immenso buco si aprivano sulla sommità, e diventavano più grandi mano a mano ci avvicinavamo. I detriti sparsi per terra lasciavano chiaramente intuire la cupola fosse andata in pezzi a causa di un impatto tremendo con l'oggetto, che non poteva essere di semplice cristallo per aver mandato in frantumi un edificio dalla riconosciuta resistenza. A parte quello nulla faceva pensare che le cose fossero volte al peggio: nessun corpo, nessuna traccia. Superammo anche l'ultimo tratto di vegetazione, ritrovandoci in quella che doveva essere l'ipotetica piazza di ritrovo nella biosfera numero due: un deserto nel quale erano conficcate le varie punte della costruzione di cristallo, che aveva sfondato il tetto ed era entrata di lato piantandosi lì.
Ora che potevo vederla, tutto assumeva un senso.
Le sagome che ci avevano attaccato scendendo in picchiata sulla città, procurando boati, panico e distruzione. Avevo pensato che fossero armi, o velivoli, ma comandati da lontano.
Ma guardando le punte che si innalzavano al cielo oltre la nostra biosfera, mi ritrovai a smentire quel pensiero. Erano navi, enormi navi con braccia appuntite e un grosso corpo centrale, di una bellezza aliena e terribile. Navi a forma di stelle di cristallo nero.
Rimasi ipnotizzato, senza riuscire a dire nulla. Una simile visione mi instillava il desiderio di toccarle. Vedere com'erano costruite, diventare parte di loro. Sapevo che il pensiero mi ingannava, che quella voglia era tanto febbrile quanto preoccupante. Mossi diversi passi in avanti, spinto da quella sensazione indefinibile di appartenenza, fino a quando Eon non mi strattonò prepotentemente il braccio, distogliendo la mia attenzione da dov'era riposta.
Mi guardai indietro, perché ero avanzato di molto. Sembravo l'unico ad aver risentito della particolare influenza della nave. Pargon mi guardava come se sul suo visore fosse apparso in sovrimpressione un punto di domanda; il resto della gente non sapeva cosa dire o cosa fare, a parte osservare me. Intuii non avessero il coraggio di avvicinarsi, la ragazza era l'unica che mi aveva seguito per fermare la mia avanzata.
«Cosa ti è preso?» mi domandò
«Non lo so. Io non...»
Venni subito zittito da una mano sulla bocca, la sua. Un contatto troppo diretto e inaspettato da cui arretrai all'istante. Eon non sembrò curarsene, mi riprese per il braccio.
«Ascolta.»
Ascoltai, come mi era stato chiesto, all'inizio senza sentire nulla. Ero sul punto di attivare la visualizzazione sonora del visore, quando iniziai a percepirlo. La nave faceva uno strano rumore, un basso ronzio minaccioso di qualcosa che si era attivato e sembrava lavorare a nostra insaputa. Lentamente, non paragonabile a qualcosa che avessi già sentito.
Ascoltammo, tutti. Ci volle un po' prima che notassi una spia senza nome illuminarsi a intervalli regolari sullo schermo del visore. La selezionai, senza sicurezze su cosa volesse dirmi il computer che stava analizzando la situazione secondo per secondo.
Parole come armi e bombe le conoscevamo, noi, ma solo sul vocabolario, perché appartenevano al nostro primitivo e secolare passato. Ebbene si, più di quattro dei vostri secoli addietro, eravamo un popolo civile almeno quanto voi, con le dita attaccate a quelli che chiamate grilletti, in lotta per un motivo che neanche più ricordiamo. Forse una qualche fonte di energia, come voi, o la semplice supremazia? Non riuscivo a ricordare.
Ma allora, se ci eravamo lasciati quel lontano passato alle spalle, come mai leggevo a chiare lettere illuminate la parola "esplosivo" sullo schermo?
Rimasi fermo senza capire, sentendo l'angoscia, sperimentando per la prima volta quella sensazione che rendeva ogni mio arto pietrificato, morto, incapace di agire. Non era possibile. Qualunque cosa fosse, non arrivava da noi. Di nuovo guardai gli altri, Eon compresa, e di nuovo capii che non avevano la più pallida idea di cosa stesse succedendo. Nessuno aveva in dotazione un software aggiornato? O ero solo io a ricevere un messaggio di natura esclusiva?
Ma quella non era pubblicità.
Le lettere si colorarono di una gradazione di rosso urgenza. Capii che se non avessi fatto qualcosa, come minimo non avrei avuto mai più il tempo per farla. Di tutto il mio corpo pietrificato, riuscii a muovere solo la mascella.
«Fuori.»
Dovevo aver parlato a voce bassa o debole, perché Pargon esclamò un «Cosa?» ed Eon mi strattonò di nuovo la tuta, così forte da riuscire finalmente a sbloccarmi.
«Fuori!»
Finalmente, urlai. Nessuno mi chiese niente, diedero per scontato fosse tutto vero perché nella nostra comunità non esisteva il concetto di dichiarare il falso. Ed era tutto vero. Non so come avrebbero reagito i vostri simili, ma i miei, in una situazione in cui avevo reso chiaro il pericolo, fecero dietrofront e si lanciarono in corsa verso l'entrata. Pargon rimase in fondo, non sapevo se per assicurarsi che tutti uscissero o solo perché era troppo grosso per correre veloce, ma ci diede una spinta quando si accorse che la ragazza al mio fianco non riusciva a scattare normalmente. Anche una bambina di appena qualche ciclo era rimasta indietro.
Non pensai alle conseguenze o alla natura di quello che stavo per fare. La prima volta avevo pensato per me stesso, privato di ogni forma d'empatia dall'RV e dalla calca generale. Stare nella realtà e a vero contatto con altri, ebbi modo di ipotizzare in seguito, probabilmente aveva cambiato qualcosa. Poteva, ad esempio, avermi regalato davvero uno scorcio di quella che nella nostra società veniva definita, a vuoto, unità.
Allungai il braccio e afferrai la ragazza inabile per il ventre, quasi gettandomela a spalla. Eon si dibatté per il primi secondi, impedendomi di mantenere un'andatura regolare, ma avevo mantenuto il mio corpo abbastanza sano durante gli anni passati al Centro da riuscire a tenerla con la forza necessaria. Recuperai anche la piccola, che accettò meglio il passaggio aggrappandosi al mio collo, e accellerai più che potevo, lasciando Pargon indietro. Non potevo fare altrimenti.
Il rumore si acquietò per un momento prima di trasformarsi in un boato tremendo, come il silenzio prima dell'arrivo di un grande tornado. Ero già quasi alla porta quando successe, e non riuscii a capire esattamente cosa stava avvenendo, solo a intuirlo: la nave stava generando un'onda, una grossa onda che aveva lo scopo di distruggere le forme di vita organiche. Non gli edifici, non gli oggetti ma noi. Il motivo dell'assenza di corpi, a cui non avevo mai dato veramente peso.
Abbandonai Eon e la ragazzina sulla porta, voltandomi indietro. Pargon era solo a pochi metri di distanza, che però sembravano un oceano intero in un simile caos. L'onda lo seguiva, creando un'interferenza nella stessa trama della realtà che sfarfallava e si piegava come per effetto di un intenso calore. Il visore però mi informava sulla sua espansione: perdeva potenza, e le misurazioni in tempo reale mi indicavano che si sarebbe fermata allo spazio della cupola e non oltre. Vi gettai una breve occhiata, prima di allungarmi all'interno, tendendo il braccio e tenendomi allo scanner biometrico che in quel momento fungeva da ancora. Non appena mi avesse raggiunto, gli avrei risparmiato quei due metri scarsi di terreno e l'avrei, con un po' di fortuna, tirato fuori, al sicuro. E non lo stavo facendo per coraggio, di questo ero certo, io non volevo morire.
Era qualcos'altro. Non volevo vedere sparire la mia razza, probabilmente, o comunque guardarla estinguersi. Se eravamo solo noi, pensai, in così pochi, ogni elemento perso era una speranza che se ne andava. Il nostro gruppo avrebbe potuto eventualmente sostituire, ripopolare l'habitat. Ma non se rimanevamo in tre, e in balia degli invasori.
Sentii Eon strattonarmi di nuovo, urlare.
«Ci dobbiamo allontanare!»
«No.» Non potevo voltarmi, non potevo mancare il momento in cui il grosso e spaventevole uomo diverso mi avrebbe raggiunto. Mi limitai a rispondere, a scrollare le spalle.
«Non lasciamo nessuno indietro.» Non sembrava una frase da eroe, detta con la sicurezza di chi è indistruttibile. Mentre lei mi tirava il giubbotto della tuta ed io mi aggrappavo a dov'ero, tremavo. Aspettavo che Pargon superasse quei pochi metri, che da dieci erano diventati sette, e che da sette diventarono cinque.
«Dammi un aiuto» le chiesi in quel momento. «Tirami indietro quando lo afferro.»
Mi concentrai, dimenticando per un secondo se mi stesse o no tirando ancora, o se se ne fosse andata. Di certo, non mi aspettavo una grande collaborazione, quindi feci del mio meglio: mi sporsi maggiormente, lasciai in parte la sicurezza del confine della porta, tesi quanto potevo il braccio. L'uomo, nel frattempo, era quasi arrivato a me, e l'onda a lui. Era così vicina che ne potevo sentire i primi effetti sulla pelle scoperta: bruciava. Voi primitivi che siete abituati al sole, sapete quanto male può farvi, vero? Pensate a noi, che mai abbiamo avuto più della luce delle Pleiadi e delle lune.
Riuscii ad afferrarlo, perché finalmente era vicino. Ma il suo essere vicino comportava anche la vicinanza della fine. Quando lo tirai indietro, non ero sicuro di potercela fare, ero instabile, non ben legato all'ancora. Sentii il fuoco sulla pelle ancora prima che arrivasse per davvero.
Due mani mi afferrarono il giubbotto sulla schiena, tirarono trainandoci all'indietro. Tra il mio tentativo di scaraventare l'uomo fuori dalla situazione in cui s'era cacciato e il loro di portarci via dal muro di morte, volammo tutti all'indietro.
Eravamo in tre, ne uscimmo in due e tre quarti: a Pargon mancava un pezzo, l'avambraccio ridotto ad un moncone cauterizzato. Con chissà quale forza, mi rialzai, lo presi per il colletto e lo trascinai via sorreggendo Eon, che ci aveva aiutato. Non capivo più nulla, lasciai che le gambe continuassero da sole senza l'ausilio del mio cervello.
Sentii altri schianti lontani, altri boati. Intuii vagamente che delle nostre biosfere non rimaneva più nulla. Erano andate distrutte, perse per sempre davanti ad una reazione a catena che aveva atteso solo il nostro arrivo per attivarsi. Se qualcuno oltre a noi era rimasto nelle strutture, quel qualcuno non esisteva più.
Solidarietà era una parola che sembrava lontana, adesso. Ma potevamo ancora darne dimostrazione: quelli che erano usciti per primi non avevano continuato a scappare per molto, e quando ci video vivi quelli rimasti più indietro tornarono, avvertendo gli altri. Di Pargon si occuparono immediatamente i medici, mentre Eon si ritirò in un angolo senza parole. Rimasi seduto per qualche tempo, intontito da qualche tipo di ormone dell'azione, prima di raggiungerla portandomi appresso la bimba che mi ero preso in braccio, molto più spaventata di tutti noi.
Non sono mai stato il tipo da consorte, adatto a consolare qualcuno. Elenia lo sapeva. La piccola avrebbe sicuramente fatto di meglio. La lasciai alla ragazza e mi sedetti poco distante, rimanendo ad osservare stancamente i loro scambi, svuotato di ogni forza.
Ci riprendemmo quasi tutti, in sostanza. La ferita di Pargon non era grave, ma non avevamo un innesto meccanico con cui sostituire in fretta l'avambraccio e la mano mancante. Si sarebbe dovuto accontentare di alcuni cerotti antidolorifici auto-somministranti e di una copertura antisettica. Qualcosa per le bruciature, che avevo anch'io, l'avremmo trovato strada facendo, se ancora di strada ne rimaneva.
Fu sul finire di quel pensiero che il mio visore si illuminò. Lo fecero tutti all'unisono, perfino quelli lasciati fino ad ora in stand by.
Il messaggio apparve qualche secondo più tardi, digitalizzato nei caratteri elettronici del nostro alfabeto sugli schermi al plasma.
 
«Sul. Promontorio. Le. Risposte. Aspettano.»


 

Siore e siori, eccomi tornata con taaaaaaaaanta roba! Spero che questo capitolo extralungo vi piaccia, mi ci sono impegnata al massimo e credetemi se dico che è stata una vera fatica in questo periodo mettermi a scrivere. Purtroppo in famiglia ci sono problemi, qualcuno è ammalato, qualcuno urla un po' troppo, qualcuno rompicchia abbastanza... a volte non sono al mio meglio e proprio non ci riesco, non è sempre piacevole scrivere con tutta questa baraonda, ma che ci volete fare, è pur sempre la famiglia! Di buono c'è che ce l'ho fatta, credevo di non riuscire a finire mai questo lungo capitolo. Ora che è qui, pronto, posso dire ufficialmente che siamo quasi alla fine dell'avventura che, si, lo so, è corta, cortissima dati gli eventi e come si stanno evolvendo. Spiace anche a me, ma almeno per una volta forse riuscirò a finire un racconto! E poi chissà che non venga un continuo *gghh* <3 Prima che mi sbrodoli addosso come una bambina, che è tardi e devo andare a ninna sperando domani di iniziare il prossimo (picchiatemi, vi prego, picchiatemi, sono pigraaaaa xD), vi prego di non far caso agli eventuali erroracci e refusi, l'ho appena finito >.< domani giuro che rileggo tutto con calma é.é inoltre, se avete notato un "leggerissimo" cambio di stile nel modo di raccontare di Cor, anche qui vi prego di non mangiarmi e di non preoccuparvi: è l'evoluzione naturale di questo piccino della mamma *prende l'alieno e lo sprimaccia tutto* x°D Adesso vado o muoio sulla scrivania, e morire è brutto, cattivo e non fa mai bene - siamo del team positivismo, nevvero? xD Ultima cosa che aggiungo, come sempre se volete leggere e lasciare dei commenti mi fate felicissima ç___ç e ripeto, picchiatemi, picchiatemi tanto! Un sempiterno grazie a chi continua a seguire, vi siete appena guadagnati tutto il diritto di tirarmi le orecchie quando ritardo >__< Detto questo, al prossimo capitolo! (Aiut... l'Odissea ricomincia) <3

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