Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
“Bene, non penso che manchi
nessuno allora. Iniziamo con l’argomento odierno: Freud”
I ragazzi tirarono fuori dalle
cartelle in pelle marrone i quaderni per gli appunti e si misero a scrivere.
Nessuno aveva davvero voglia di studiare filosofia psicologica, ma quella
sarebbe stata la loro ultima lezione prima delle vacanze pasquali e quindi la
professoressa aveva tutta l’intenzione di spiegare un carico maggiore di
argomenti.
A Fabio arrivò un foglio
scritto nella brutta calligrafia di sua sorella e lo lesse. “Noia! Emma non fa che prendere appunti e io non so cosa fare! Mi
dai un soggetto per un disegno?”
Il ragazzo si voltò verso di
lei, che gli sorrise e fece un occhiolino, e poi scosse la testa. Prese la
penna e rispose, lanciandole il pezzo di carta. “Potresti ascoltare la lezione, no? Comunque
penso che due ragazzi abbracciati al tramonto siano un meraviglioso soggetto”
Lei lo lesse e poi si
illuminò. Mimò con le labbra un “Grazie fratellone” e chinò la testa, mettendosi a disegnare.
Fabio sospirò e mise la testa
appoggiata sul palmo della mano. Quella lezione sarebbe stata infinita, già lo
sapeva. Con la professoressa Isaac era sempre così: si dilungava in spiegazioni
inutili su persone morte da decenni, spesso anche secoli, facendo parabole
enormi sulla loro vita da sfigati. Niente di più noioso della filosofia, non
aveva altro da dire.
In quel momento bussarono alla
porta di classe e lui alzò la testa speranzoso: magari dovevano evacuare per
colpa di un incendio.
“Avanti” rispose la
professoressa.
Il preside, un uomo sulla
sessantina con un viso rubicondo e un corpo che più che un essere umano lo
faceva somigliare a un cerchio, apparve sorridendo.
“Mi scusi, signorina Isaac, lo
so che interrompo la sua meravigliosa lezione su Freud, ma ho un annuncio da
fare, per quanto questo possa essere anormale” spiegò imbarazzato.
Tutti gli allievi si voltarono
verso di lui, incuriositi.
“Mi dica, signor preside”
acconsentì la donna. L’uomo si schiarì la voce e poi si spostò di un paio di
passi, lasciando intravedere il corridoio.
“Ecco, per colpa di alcuni
cavilli burocratici stamani questa deliziosa fanciulla è dovuta rimanere con me
in presidenza, perdendo le prime tre ore di lezione e arrivando tardi per
l’inizio della quarta, così l’ho accompagnata io. Si è trasferita qui una settimana
fa e ho già provveduto ad inserirla nel nuovo elenco del registro di classe.
Sono davvero desolato che abbia la possibilità di frequentare questa classe
solo per due giorni prima delle vacanze pasquali, ma comunque spero che la
farete sentire a suo agio” disse.
Una ragazza piccola e
imbarazzata entrò nella stanza tenendo gli occhi bassi e le mani giunte sulla
pancia, rivolte verso il basso. Aveva i capelli castano ramato che arrivavano
alle spalle e le lentiggini sparse su tutta la faccia. Fabio notò anche che era
molto formosa, ma quel che più lo incuriosiva era il colorito rosso che aveva
sulle guance.
“Piacere,
io mi chiamo… Rea, Rea Simon” si presentò semplicemente.
“Salve, signorina Simon, io
sono la professoressa Isaac. Puoi sederti qui alla cattedra, dato che non
avanza un banco per te” rispose l’insegnante, avanzando sorridente verso di
lei. Le indicò una sedia vuota vicino alla sua e la ragazza annuì senza dire
una parola per poi avvicinarsi e accomodarsi.
Il preside batté le mani
soddisfatto.
“Bene, direi che è tutto a posto.
Si diverta, signorina, e mi raccomando a voi altri: fatela sentire a suo agio”
si congedò l’uomo, uscendo di classe.
Ci fu un lieve brusio generale
tra gli allievi, subito soffocato dalla professoressa.
“Torniamo alla nostra lezione,
forza” li incitò, recuperando il libro a cui traeva spunto per le sue
spiegazioni.
Fabio continuò a guardare la
nuova arrivata: era carina, tutto sommato. Niente di particolarmente speciale,
ma carina. Sembrava completamente fuori posto per quella scuola e continuava a
tenere lo sguardo basso, evitando il contatto visivo con gli altri. Si
ripromise di parlarle una volta finita la giornata.
Rea prese le sue cose, tirando
un sospiro di sollievo: tutto bene, per adesso. Certo, non che avesse fatto
molto, però almeno era sopravvissuta, il che, per una come lei, era già una
conquista enorme.
Storse la bocca quando,
alzandosi dalla sedia, si rese conto che la gonna che portava era troppo corta
per nascondere le gambe storte e grassocce che si ritrovava. Odiava le divise
scolastiche, le aveva sempre odiate con tutta sé stessa, ma suo padre aveva
insistito tanto per farla andare lì che non aveva potuto rifiutare. Maledetto
dovere dettato dall’orgoglio!
“Ciao”
disse una voce accanto a lei. Alzò lo sguardo e si ritrovò due occhi profondi e
bellissimi piantati addosso.
“Ciao”
sussurrò in risposta. Nemmeno quel doversi fingere timida e remissiva le
piaceva.
“Io mi
chiamo Fabio Daniels, piacere” si presentò il
ragazzo, allungando una mano. La ragazza la strinse senza troppa convinzione e
tornò a prendere le sue cose.
“Rea
Simon” ricambiò.
Scese il silenzio mentre lei
finiva di fare la cartella, poi si mise in spalla la borsa e lo guardò.
“Dovrei
andare, mio padre mi aspetta” disse in un fil di voce.
“Ah,
sì scusami” rispose lui, spostandosi di lato. Con un lieve sorriso lei
lo sorpassò a testa bassa e corse fuori dalla classe, tirando un sospiro di
sollievo.
Non aveva mai saputo mentire,
recitare o fare qualsiasi cosa che si allontanasse troppo dalla realtà. Era
negata per queste cose e ciò la portava ad essere negata per quel lavoro.
Potevano dire ciò che volevano, nell’alto della loro idiozia, ma lei non era
quella adatta per quel compito.
“Stai
tranquilla, tesoro, che andrà tutto bene. Entri, prendi un paio di cartelle ed
esci. Filerà tutto liscio come l’olio e nel giro di un paio di settimane
torneremo nella vecchia casa. Certo, come no” sussurrò infuriata,
ricordando il discorso di suo padre un mese prima.
Costringerla a trasferirsi non
era stato un problema, era da quando era piccola che cambiava scuola e paese
ogni sei mesi per colpa del lavoro dell’uomo, il problema era stato solo
convincerla a collaborare. Tutto qui.
“Ah,
eccoti qua! Com’è andato il primo giorno di liceo?” la accolse suo
padre, dandole un bacio sulla testa.
“Direi
bene, se escludiamo che sono rimasta ferma nell’ufficio del preside per tre ore
e poi per le seguenti due mi sono sopportata una lezione interminabile su
Freud. Non sapevo che alle superiori si studiassero le cose in modo così
barboso” rispose, sedendosi scomposta sul sedile anteriore della
Mercedes nera che avevano da qualche settimana.
“Dai,
non è così male. Lo so che tu hai già dato la maturità con un anno di anticipo
e che non volevi rientrare a scuola, però consolati: non durerà molto”
le assicurò lui, mettendo in moto e partendo.
“Lo
hai detto anche per natale, papà, e ancora tutto questo non si è risolto. Odio
fare la ragazzina timida e impacciata” ammise controvoglia.
Lui rise e le accarezzò i
capelli.
“Sei
adorabile quando storci il naso con quell’espressione buffa in volto, lo sai?
Somigli moltissimo a tua madre alla tua età” le disse nostalgico.
Rea sospirò e guardò fuori dal
finestrino gli alberi che ricominciavano a fiorire.
“Già,
la mamma. È un po’ che non vado al cimitero, quasi, quasi più tardi ci faccio
un salto” decise.
“Vuoi
che ti accompagni? In ufficio hanno bisogno solo fino alle cinque, poi sono
libero” le propose l’uomo, mettendo la freccia a destra.
“No,
forse è meglio se vado da sola. Tu mi stai antipatico ultimamente” lo
prese in giro.
“Così
mi ferisci! Potrei morire senza il tuo amore!” ribatté lui ridendo.
“Simpatico,
sì. Piuttosto, spiegami una cosa: perché io non posso venire nel tuo ufficio
quando sono la persona più importante per il tuo progetto?” chiese lei,
togliendosi la cintura di sicurezza quando la Mercedes imboccò il vialetto di
casa.
“Il
capo pensa che non sia saggio farti vedere in giro. Sai com’è, se ti
collegassero a noi probabilmente andrebbe tutto a monte” le spiegò,
spegnendo il motore.
“Ha
un suo senso” ammise la ragazza. Fissò la casa azzurra che aveva davanti
e scese di macchina: ancora non la sentiva sua nonostante fossero passati tre
mesi da quando erano andati a stare lì. Di tutta la costruzione l’unica cosa
che aveva deciso era stata la tintura dell’esterno.
Recuperò la cartella e se la
mise in spalla, camminando verso l’ingresso.
“Odio
questa gonnella” esclamò infuriata.
“Non
puoi chiedere al preside se ti fa usare i pantaloni?” le domandò suo
padre, posando il giacchetto sulla poltrona in corridoio.
“Figuriamoci,
quello è uno di quei signori che vedresti bene a interpretare Babbo Natale
sulle confezioni di Coca-Cola, non andrebbe mai contro le regole. Vado a
cambiarmi, con permesso” annunciò, lanciando la borsa a terra e andando
al primo piano.
La sua stanza era piccola e
rosa, come quella di quando era piccola, ma non le dispiaceva: le ricordava
tutto sua madre e ciò la faceva sentire felice.
Cercò sulla sedia una paio di
pantaloni, trovandone un paio della tuta nera che utilizzava per far finta di
fare ginnastica quando suo padre era in casa. L’unico sforzo fisico che aveva
imparato a fare era stato alzarsi dal letto per scendere le scale e andare a
prendere da bere.
Se li infilò e subito si sentì
meglio: con le gambe capaci di muoversi come volevano decisamente era tutto più
comodo.
Stiracchiò le braccia e si
guardò intorno cercando le chiavi di macchina e odiandosi: non le metteva mai
due volte nello stesso posto e puntualmente le perdeva.
“Ah,
eccole qui” esclamò soddisfatta afferrando il portachiavi a forma di
maiale gigante.
“Papà,
io vado, ci vediamo per cena!” annunciò, correndo fuori. L’uomo la seguì
sulla veranda e la fissò.
“Guida
con calma, mi raccomando” le disse.
“Come
sempre, papà. Saluterò la mamma anche da parte tua, promesso” rispose,
lanciandogli un bacio con la mano.
Appena fu lontana dalla
visuale che si aveva della strada da casa, accostò in uno spiazzo sterrato e si
afflosciò con la testa sulle mani che aveva appoggiato sul volante dell’auto.
“La
mia testa, di nuovo” si lamentò impaurita. Frugò nella borsa in modo
febbrile e ne tirò fuori una scatola bianca, da cui prese una pillola rosa.
“Accidenti,
non pensavo che potesse capitare di nuovo” ammise, cercando di calmarsi.
Aspettò un paio di minuti
affinché la medicina avesse effetto, poi rimise in moto. Aveva proprio bisogno
di visitare sua madre.
La mattina
dopo Rea si alzò in ritardo. Suo padre sentì un’imprecazione rumorosa e poi uno
schianto e sorrise. Non sarebbe cambiata mai.
“Perché non mi hai svegliata? Ti diverti a sapere che farò
tardi il mio primo giorno ufficiale da liceale?” lo aggredì lei,
scendendo le scale con in mano il giacchetto dell’uniforme.
“In effetti la cosa mi diverte. Sei grande e vaccinata,
tesoro, non pensavo che avresti avuto bisogno di me per rimettere una sveglia”
le rispose, passandole una tazza di caffè. Lei la prese al volo, ingurgitando
la bevanda e scottandosi la lingua.
“Dannata scuola, non l’ho mai sopportata” disse.
Infilò le scarpe e recuperò la cartella dall’ingresso.
“Vado con la mia macchina, ci vediamo dopo!” lo
salutò di corsa.
L’uomo si
alzò in fretta e la fermò.
“Che c’è?” chiese la ragazza irritata.
“Siamo a marzo e, soprattutto, sei in una classe di
liceali. Quali studenti possiedono un’auto propria a codest’età?” le
fece presente, con un sopracciglio alzato. Rea strinse i denti e il suo odio
profondo verso le superiori crebbe.
“Va bene, quindi cosa dovrei fare?”
Con ben
venti minuti di ritardo rispetto al programma, la ragazza scese dal pullman e
corse verso l’edificio bianco e grigio che si trovava in fondo alla strada. La
gonna della divisa la intralciava e basta, dato che si alzava ad ogni suo passo
e lei non faceva che tirarsela giù ogni poco.
“Maledetti aggeggi infernali femminili” esclamò.
Arrivò
davanti all’ingresso ed entrò come una furia, frenando improvvisamente quando
vide un paio delle sue compagne di classe tranquillamente sedute alla
macchinetta del caffè. Riprese fiato un attimo e si schiarì la voce, rientrando
nella parte della piccola e timida liceale.
Si avvicinò
a loro, fissando il pavimento.
“Scusatemi, non sono in ritardo?” domandò
sussurrando. Loro la guardarono e scossero la testa, sorridendo.
“No, alla prima ora c’è religione e ognuno può fare ciò
che vuole. Tu sei iscritta a religione?” le chiesero.
“No, non seguo quella lezione” rispose. “Ringraziando papà, che ha voluto essere magnanimo con me”
aggiunse nella sua testa.
“Allora sei apposto. Tu sei quella nuova, vero? Rea Simon.
Io sono Emma Stevens e lei è Laura Daniels, piacere”
si presentò la mora.
“Piacere mio” ricambiò, allungando la mano.
Anche
l’altra ragazza gliela strinse, quella piccola e bionda, e lei ebbe il modo di
osservarle bene. Quella che si chiamava Emma era alta e slanciata, con lunghi
capelli castano scurissimi e occhi color nocciola; l’altra, Laura, era più
bassa e in carne, anche se non era grassa, e aveva i capelli biondo sporco. Rea
sentiva che sicuramente non avrebbe legato con loro, anche se non sembravano
brutte persone.
“Allora, ti sei trasferita qui da poco, eh? Come mai hai
cambiato scuola a metà del secondo quadrimestre? Non è un po’ rischioso in
questo periodo, visto che dobbiamo dare l’esame tra poco?” le chiese
quella alta.
“Oh, ma non è un problema, io ho già la mat… ehm…” la ragazza si schiarì la voce e arrossì.
“Ho sempre avuto dei voti alti, quindi papà ha pensato che
non sarebbe stato un problema per me cambiare istituto” si corresse.
“Beata te! Noi
studiamo ogni giorno per quattro ore ma non riusciamo ad avere dei risultati
ottimi” si lamentò l’altra.
“Non ti preoccupare, la maturità passa velocemente”
la consolò lei. “Non che io sappia come sia un
esame di diploma di liceo, comunque” aggiunse.
“Certo, quelli che si sono già diplomati lo dicono tutti,
ma l’ansia di quei giorni sarà terribile, fidati” le assicurò Emma.
Rea evitò
accuratamente di controbattere, ben sapendo che si sarebbe tradita, e sorrise
semplicemente.
In quel
momento vide arrivare da lontano il ragazzo che il giorno prima l’aveva
salutata e abbassò lo sguardo fingendo imbarazzo.
“Ehilà, ciao” le disse.
“Ciao” sussurrò in risposta. Sicuramente sembrava
una scema, vista da fuori.
“Ehi, fratellone, hai
portato gli appunti?” gli chiese Laura, illuminandosi.
“Sì, ve li ho portati. Comunque, se fossi in voi, starei più
attente durante le spiegazioni. È frustrante vedere quanto io mi impegni per
rendere le vostre conoscenze quanto meno decenti per una quinta liceo”
le rispose passandole il quaderno. La ragazza lo prese riconoscente.
“Grazie! Sei un
angelo!”
“Sì, sì, lo so” ribatté lui. Emma rise.
“Io i miei appunti ce li ho, lei parla al plurale solo
perché si vergogna di chiederteli da sola” confessò, facendogli vedere
il suo blocco notes. La bionda arrossì e rise imbarazzata.
“È vero”
ammise.
Rea li
guardò incuriosita: non sapeva che esistessero davvero delle persone così
amiche. Nella sua vita di amici ne aveva avuto ben pochi.
Sentì
suonare la campanella e alzò lo sguardo.
“Dobbiamo andare in classe?” chiese.
“Sì, purtroppo ci aspettano due ore di matematica e due di
italiano stamani. Facciamoci coraggio” rispose Fabio teatralmente.
La ragazza
li seguì in aula, continuando a fare finta di essere timida e impaurita, e poi
rimase in piedi sulla porta.
“C’è qualche problema?” si preoccupò il ragazzo,
avvicinandosi.
“Ah, no, niente di che, solo… non avevo un banco, ieri,
quindi non so dove sedermi” spiegò impacciata.
“Ne hanno messo uno per te stamani, non c’eri prima? È quello
in fondo all’aula” le disse sorridendo. Lei seguì con lo sguardo
l’indice della sua mano e vide che c’era un banco vuoto nell’angolo destro
della classe.
“Meno male, mi vergognavo troppo a tornare alla cattedra.
Grazie” gli rispose, avviandosi verso il suo posto.
Quando il
professore entrò nella stanza e calò il silenzio, la ragazza ringraziò il fatto
di essere piccola di statura: poteva mimetizzarsi in maniera perfetta dietro ai
capelli di Emma e nascondersi fino a lezione finita.
Durante ogni
pausa Rea venne assediata dai suoi nuovi compagni. Andavano da lei per
chiederle del suo trasferimento, da dove veniva, cosa facevano i suoi genitori,
quali erano i suoi hobby e puntualmente aveva risposto con una bugia. Non
poteva dire la verità, questo era certo, però anche mentire non le faceva
proprio piacere. Odiava le menzogne, sin da piccola suo padre le aveva
insegnato che dobbiamo essere sinceri col prossimo, però in quel caso proprio
non poteva. Non vedeva l’ora di tornare a casa e prendersi una settimana di
pausa dopo quei due giorni estenuanti.
Quando suonò
la campanella di fine lezione, tirò un sospiro di sollievo: anche questa era
andata.
“Ehi, tu come torni a casa?” le domandò Fabio,
apparendole alle spalle. Lei sobbalzò e si mise una mano sul cuore, impaurita.
“Non mi arrivare dietro così di soppiatto!” lo
sgridò. Lui rimase stupito dal suo tono di voce.
“Scusami, non pensavo di spaventarti” disse. Capendo la
gaffe fatta, Rea si schiarì la gola e scosse la testa.
“No, scusami tu, non volevo alzare la voce” ribatté.
Prese la cartella e uscì di classe senza dargli una risposta seria, così lui la
seguì.
“Allora?”
“Cosa?”
“Come torni a casa? Vai in pullman, a piedi, con l’auto…?”
ripeté.
“Penso che ci sia mio padre ad aspettarmi qua fuori.
Almeno spero” spiegò.
“Oh, capisco” disse dispiaciuto.
Senza capire
a cosa si riferisse lei sorrise.
“Devo andare, mi dispiace per… qualsiasi sia il motivo che
ti ha fatto rattristare. Ci vediamo dopo le vacanze” lo salutò
sorridendo.
S’incamminò
verso la Mercedes continuando a guardare il ragazzo, inciampando così in una
buca causata dalla pioggia. Nel cadere a terra la gonna le si alzò fino alla
vita, facendo bella mostra dei pantaloncini che portava come copertura dal
freddo.
Rimase ferma
a terra per un paio di secondi prima di rendersi conto che tutti quelli che
aveva intorno stavano ridendo, Fabio compreso. Si alzò, scuotendosi la polvere
di dosso, e lo fulminò con lo sguardo. “Ti odio”
pensò.
Imbarazzata
come mai in vent’anni di vita, entrò in macchina sbattendo la portiera con forza.
Suo padre stavalacrimando dalle risate
e lei lo guardò infuriata.
“Invece di ridere metti in moto!” gli urlò.
“Scusami ma è stata una scena epica! Se avessi avuto una
videocamera ti avrei filmato, giuro!” le disse lui, partendo in
retromarcia per uscire dal parcheggio.
Quando
furono a casa Rea notò che la gonna si era strappata sul davanti, lasciando un
bel buco al posto della stoffa che copriva le ginocchia. Lanciò l’indumento
contro la porta e si sdraiò, frustrata, sul letto.
“Io odio questa missione, odio questo lavoro e,
soprattutto, odio le divise scolastiche” decise.
Dato che non
avrebbe dovuto affrontare l’esame né studiare per le vacanze, Rea decise di
aiutare suo padre con la documentazione riguardo al caso in cui era stata
infilata anche lei.
Passò tutta
la settimana delle vacanze pasquali con in mano fascicoli e cartelle piene
zeppe di roba noiosa, facendosi sei caffè al giorno per non addormentarsi.
Nemmeno quando affrontava sei ore di professori privati per dare la maturità
con un anno di anticipo era così annoiata.
Alla fine
tornò a scuola con le idee piuttosto chiare: quel caso era un caos completo.
L’unica cosa certa era che in quell’edificio succedevano cose piuttosto
anomale. Secondo le statistiche erano sei mesi che, con cadenza periodica,
almeno un alunno si sentiva male per cause ignote. Su diciotto ragazzi ben
dodici erano morti e questo aveva insospettito la polizia, che si era messa
subito in moto per riuscire a capire cosa stava succedendo. E chi, meglio di
una ragazza ancora adolescente e figlia di un agente, poteva infiltrarsi in
quell’istituto?
“Dannato papà, mi convince sempre a fare tutto”
disse sospirando. Appoggiò la testa sulla mano e fissò la finestra.
“Un penny per i tuoi pensieri” le sussurrò Fabio,
avvicinandosi di soppiatto. Lei sobbalzò, presa alla sprovvista.
“Ciao. Ti diverte molto arrivarmi alle spalle?” gli
chiese irritata. Lui rise e prese una sedia, mettendola al contrario e
sedendosi con le gambe aperte.
“In effetti sì. Sei così facilmente sorprendile”
rispose.
“Ah, carino da parte tua” lo freddò la ragazza.
Quella mattina non era nelle condizioni di far finta di essere timida e
silenziosa, non ce la faceva.
“Qualche problema? Sembri di cattivo umore” notò lui.
“Lascia perdere, non mi va di parlarne” disse.
“Perché no? Siamo amici, no?” le fece presente. Rea
arrossì e sbuffò.
“Ci siamo visti due volte, non si chiama essere amici
questo, si chiama essere conoscenti al massimo” ribatté.
Fabio ci
rimase un po’ male, soprattutto perché la ragazza non gli sembrava una di
quelle aggressive.
“Va bene, come vuoi. Sei tu a dover decidere, ero venuto solo
per chiederti come sono andate le tue vacanze di Pasqua” ammise
arrendendosi. Lei sospirò e si rese conto di essere stata sgarbata, così
sorrise.
“Scusami, non ho avuto un risveglio piacevole stamani.
Papà mi aveva lasciato un biglietto dicendomi che stamani era sciopero dei
pullman, così sono dovuta venire a piedi facendomi due chilometri di corsa nel
giro di quindici minuti” gli spiegò. Sentiva ancora male alle gambe e maledisse
suo padre per averle praticamente sequestrato la macchina con la scusa che “Se la usi senza pensarci e ti vede qualcuno poi la gente
s’insospettisce”. Va’ al diavolo.
“Allora ti capisco e sei perdonata. Tornando alla domanda
iniziale, come sono andate le tue vacanze di Pasqua?” domandò il
ragazzo, tornando sorridente.
“Studiose. E le tue?”
“Divertenti, sabato siamo usciti tutti insieme per andare alla
festa. Come mai tu non c’eri?”
“Non avevo idea che ci fosse una festa, semplice”
rispose con un’alzata di spalle.
La
professoressa della prima ora entrò in classe sbattendo la porta e facendo
calare il silenzio in aula. Ognuno tornò al proprio posto, Fabio compreso, e
Rea tornò ai suoi pensieri.
“Per lunedì
voglio che tutti voi lavoriate in squadra e mi portiate una relazione sulle
diverse composizioni rocciose della luna. Ogni gruppo di quattro persone, va
bene?” disse l’insegnante.
“Sì,
professoressa” risposero gli alunni. La campanella suonò e lei recuperò le sue
cose, uscendo dalla stanza.
Emma, Laura
e Fabio si unirono al banco delle due ragazze, quello, cioè, davanti a Rea.
“Noi studiamo insieme?” propose la mora.
“Non c’è nemmeno da
chiederlo” rispose la bionda, sgranchendosi le braccia.
“Sentite, posso farvi una proposta?” chiese il ragazzo.
Loro lo guardarono incuriosite.
“Certamente” lo spronarono.
“Lo chiediamo anche alla nuova, se studia con noi?”
disse. Le ragazze si guardarono e poi annuirono sorridenti.
“Perché no? Potrebbe essere una buona idea per fare
amicizia” rispose Emma.
Rea non si
era nemmeno posta il problema del dover studiare in quelle settimane che
passava a scuola né aveva ascoltato una sola parola di ciò che aveva detto
l’insegnante, così rimase spiazzata quando si vide comparire davanti gli unici
tre suoi compagni con cui era riuscita a spiccicare più di due parole di
seguito.
“Che c’è?” chiese a disagio.
“Niente di
importante, ci chiedevamo semplicemente se avevi voglia di fare gruppo con noi”
rispose Laura.
“G-gruppo?” balbettò.
“Sì, per la ricerca
di geologia” le spiegò. “Nota per me: ogni
tanto ascoltare i professori”
“Ah, sì… ce-certo” rispose poco convinta. Stavolta
non aveva avuto nessun bisogno di fare finta di essere imbarazzata perché lo
era per davvero.
“Bene, è meraviglioso!” esultò Emma, battendo le
mani. Non seppe che rispondere e rimase zitta.
Incredula di
aver davvero accettato il gruppo di studio sulle rocce, la ragazza tornò a casa
in trance. Rimase zitta per tutto il viaggio, cosa che suo padre notò.
“Sei arrabbiata perché sei dovuta andare a scuola a piedi
stamani?” le domandò.
“Mh? No, figurati” rispose.
“Allora che problema c’è? Hai già scoperto qualcosa
riguardo a quella scuola?”
“No, sono andata anche oggi in presidenza con una scusa ma
non riesco a penetrare negli archivi, ogni volta capita qualcosa che mi blocca”
“Quindi c’è qualcos’altro che ti preoccupa” dedusse
l’uomo. Lei lo guardò e rise.
“Elementare, Watson. Si nota così tanto?” chiese
imbarazzata.
“Abbastanza. Problemi con i tuoi compagni?”
“Non sono proprio problemi, semplicemente oggi mi sono
fatta convincere a mettere a disposizione la casa per fare una ricerca. Domani
pomeriggio verranno alcuni alunni della mia classe per studiare geologia”
spiegò poco felice.
“Non vedo dove sia il problema, mi sembra una cosa
meravigliosa no?” considerò suo padre. Lei storse il naso.
“No, affatto. Non voglio portare avanti relazioni
interpersonali dato che a breve ce ne andremo e, soprattutto, non pensavo che
qualcuno mi invitasse a far parte di un gruppo studio così presto”
ammise. Arrossì pensando che quella sarebbe stata la prima volta che faceva
qualcosa in gruppo e si sentì infantile nell’essere felice per questo.
“Ti prometto che andrà tutto bene. Ti fidi del tuo vecchio
papà?” le chiese ridendo.
“Non sei poi così vecchio. È il lato positivo dell’avermi
avuta prestissimo, no?” lo prese in giro. Ma, anche se non lo ammetteva,
si sentì sollevata nel sapere che l’uomo era accanto a lei.
Sarebbero
arrivati per le quattro e suo padre aveva detto che per quell’ora sarebbe stato
a casa. Si sentiva ansiosa e impaurita per quella nuova esperienza, così si era
messa a pulire casa. Lo faceva sempre quando era nervosa.
In tre ore
era riuscita a spolverare tutti i mobili, spazzare tutti i pavimenti e poi era
uscita in veranda. Aveva ancora il tempo di salire sul tetto e pulire le
grondaie. Inoltre, anche se non fosse scesa in tempo, suo padre entro poco
sarebbe tornato per accogliere gli ospiti.
Prese la
scala e salì sulla tettoia, dandosi lo slancio con le braccia per tirarsi su.
Nel far quel movimento dette un colpo allo scaleo, che si inclinò
pericolosamente all’indietro.
“No, no, no, fermo!” esclamò, girandosi per
recuperarlo. Troppo tardi. “E io sarei una quasi
poliziotta” si disperò. “Ho i riflessi di un
elefante” si disse.
Guardò la
terra sotto di sé: non era a più di cinque metri di altezza, poteva saltare.
Oppure…
“Sta qua, vero?” domandò Emma, facendo imboccare a
sua madre il vialetto di casa di Rea.
“Sì, ma consiglio di scendere qua, non so se c’è il posto per
fare retromarcia più avanti” rispose Fabio, togliendosi la cintura di
sicurezza.
“Va bene,
torno tra un paio d’ore a riprendervi. Divertitevi” li salutò la donna.
I tre si
incamminarono verso la casa, parlottando tra sé.
“Chissà che tipi sono
i suoi genitori” si chiese Laura.
“Secondo me sono tipi composti e seri come lei”
rispose la mora.
“Per me fanno gli studiosi” s’inserì il ragazzo.
Sentirono
delle voci che urlavano che provenivano da poco più avanti ed allungarono il
passo incuriositi.
“Non vengono dalla
sua abitazione, vero?” chiesero le ragazze.
Arrivati
davanti alla porta d’ingresso le voci si fecero più forti, però non si vedeva
nessuno.
“Forse sul retro?” propose Fabio. Fecero il giro
dell’edificio e rimasero immobili in mezzo al prato.
“Vieni giù da lì!”
“Cosa pensi che stia cercando di fare?”
Un uomo che
non aveva più di quarant’anni e Rea stavano discutendo animatamente. Lui la
fissava da terra con le mani sui fianchi, infuriato, mentre lei…
“Possibile che tu debba sempre fare cose stupide? Abbiamo
una palestra per allenarci, lo sai, non devi penzolarti dai rami!” la
sgridò lui.
“Oh, certamente! Io sono salita sul tetto per poi calarmi
su un albero perché mi annoiavo! Ero venuta per pulire le grondaie, testone!”
ribatté la ragazza.
Stava seduta
su un ramo a quattro metri da terra, con le mani strette al legno.
“Comunque torna giù” ripeté l’uomo.
“Se tu non mi avessi urlato contro sarei scesa da dieci
minuti” lo freddò lei.
Premendo i
palmi sul ramo si penzolò sotto di sé, dondolandosi avanti e indietro. Alla
fine fece un salto di un paio di metri, eseguendo una perfetta capriola in
aria. Atterrò di fronte a tre ragazzi stupiti e con la bocca aperta e subito
suo padre si mise una mano sulla faccia, pensando che fosse un caso perso.
Subito
l’uomo si avvicinò con la mano tesa per presentarsi.
“Salve, scusatemi per questo… ehm… comitato di benvenuto.
Rea ogni tanto ha bisogno di fare un po’ di ginnastica per sgranchirsi”
disse odiando la figlia. Quella, nel frattempo, era rimasta immobile e
terrorizzata, con gli occhi sgranati.
“Tutto a posto? Stai bene?” le chiese Fabio
preoccupato. Lei sobbalzò e rise imbarazzata.
“Sì, sì, figurati. Ben… benvenuti qui” rispose.
Suo padre
strinse la mano a tutti loro e sorrise.
“Io mi chiamo Jason Simon, piacere” si presentò.
Emma rimase
in silenzio, colpita dalla bellezza e dall’avvenenza dell’uomo.
“Salve, io sono
Laura, questo è mio fratello Fabio e lei è Emma” rispose la bionda.
“Beh, venite pure dentro, abbiamo preparato da mangiare
per tutti quanti, così studiate meglio” li invitò lui, aprendo la
strada.
Rea rimase
ferma, col cuore a mille. Quelle mosse le aveva imparate in palestra da
piccola, quando sua madre era morta e lei era costretta ad andare in ufficio
con papà, ma non si addicevano decisamente alla sua immagine di ragazzina
timida e impacciata. L’aveva sempre saputo che quella recita non le si poteva
addire.
Sul tavolo
in salotto erano stati messi dei pasticcini comprati al supermercato, della
cioccolata calda e qualche tortina salata se qualcuno non amava il dolce.
I tre ospiti
si sedettero sorridenti, parlando amabilmente col padrone di casa, il quale si
mostrò gentile e amabile e li mise a loro agio.
Quando Rea
arrivò nella stanza vide lo sguardo di ghiaccio che l’uomo le lanciò quando gli
altri non lo guardavano e si sentì rabbrividire: l’avrebbe sicuramente
strozzata, una volta soli. Forse poteva ancora emigrare in Australia.
“Bene, vado di sopra a prendere il computer per ricercare
qualche informazione su internet, va bene? Voi aspettatemi qui, tanto siete in
ottima compagnia” annunciò correndo su per le scale.
Si precipitò
in camera a recuperare il portatile, ma quando si voltò suo padre la stava
osservando in modo arrabbiato e minaccioso.
“Aiuto” sussurrò.
“Sei completamente scema?” le domandò.
“Mi dispiace, non sapevo che…”
“Sapevi che sarebbero arrivati, quindi dovevi essere
pronta! Inoltre dobbiamo ancora chiarire cosa ci facevi sopra a quell’albero!”
l’aggredì.
“Te l’ho già spiegato: ero andata sul tetto per pulire le
grondaie ma lo scaleo è scivolato a terra e io ho usato i rami per avvicinarmi
un po’ prima di saltare giù! Non pensavo che saresti arrivato e mi avresti
vista mentre saltavo dal tetto all’albero né che loro sarebbero arrivati in
anticipo” spiegò sbuffando.
“Non fare la faccia scocciata, ragazzina, perché non te lo
meriti! Tu non dovresti avere particolari abilità, ricordi? Se tieni un basso
profilo nessuno capirà che stai lavorando con la polizia, però a fare così non
ci aiuti per niente” disse.
“Senti racconterò che da piccola ho fatto ginnastica
ritmica e che mi piacevano gli anelli, così si spiegherà come mai ho fatto una
capriola in aria per scendere da lassù” lo tranquillizzò. Lui si passò
una mano tra i capelli, disperato.
“Mi farai invecchiare prima del previsto, lo sai?”
le chiese. Lei rise e gli dette un bacio sulla guancia.
“Non hai nemmeno quarant’anni, non invecchierai per ancora
un bel po’. Torno giù, se vuoi venire ad aiutarmi ogni tanto sarai il
benvenuto: io non ho idea di come si gestisca un gruppo studio” ammise
nel panico.
“Non te lo meriteresti, lo sai?”
“Ma tu sei il migliore e non mi abbandonerai” lo
prese in giro.
L’uomo rise
e le dette una pacca sul sedere, invitandola a tornare dagli ospiti. Sorridendo
sollevata, la ragazza prese il computer e scese in salotto.
Nelle due
ore successive Rea comprese una cosa: non si ricordava quasi niente delle
nozioni chimiche che servivano per studiare le rocce. Tutto quello che leggeva
in internet e sugli appunti di Emma era come arabo nella sua testa e questo la
mandò un po’ nel panico.
“Che fatica! Non solo
ho lo stomaco pieno e mi sta venendo l’abbiocco post-mangiata, ma queste cose
mi fanno anche venire sonno. Non ce la faccio più, fermiamoci qua”
implorò Laura. In effetti stavano lavorando ininterrottamente da quasi due ore
ed erano tutti distrutti.
“Chiedo a papà se mi aiuta a preparare un caffè per tutti,
ok?” propose Rea, alzandosi. La mora si illuminò e annuì.
“Volentieri!” rispose. La ragazza sorrise ed andò a
cercare l’uomo, lasciandoli soli.
“Tu non bevi caffè” osservò Fabio incuriosito. Lei
arrossì.
“Certo che lo bevo” ribatté.
“No, ricordo benissimo quando venisti a casa nostra qualche
tempo fa. La mamma ti chiese se volevi un caffè e tu rispondesti chiaramente no, grazie, la caffeina mi fa un brutto
effetto” ribatté lui.
“Ora, invece, mi va” disse Emma, incrociando le
braccia come i bambini.
“Ehi, non è che ti
piace il signor Simon?” chiese Laura.
“Ma va’, figuriamoci. Lui è grande, non mi innamorerei mai
di un uomo così maturo” rispose.
“Invece secondo me ti
attira” considerò la bionda. Lei la fissò nervosa, muovendo una gamba in
maniera convulsa, poi crollò.
“Va bene, lo ammetto, è vero! Prima, quando l’ho visto, mi
sono sentita subito attratta da lui! Ma avete visto quant’è bello? Secondo me
deve fare un lavoro impegnativo, ha dei muscoli incredibili! E quegli occhi,
poi!”
I due
fratelli si scambiarono un’occhiata divertita: quando partiva con le sviolinate
al bello di turno Emma era come un fiume in piena.
“Voglio solo farti presente che è il padre di Rea”
s’inserì Fabio. La ragazza sospirò.
“Ma è un colpo di fulmine! Non dirmi che non l’hai mai
provato perché non ci credo” ribatté. Lui distolse lo sguardo, colpito
nel segno.
“Non è per quello, semplicemente ti facevo presente che questo
potrebbe essere uno di quegli amori impossibili da raggiungere. Probabilmente
ha una moglie, non pensi?” le spiegò.
In quel
momento la padrona di casa rientrò in salotto, seguita dall’uomo.
“Chi di voi vuole un caffè?” chiese sorridendo.
Aveva gli occhi color del ghiaccio e la mascella squadrata e pronunciata.
“Io” rispose Emma sognante.
“Anche noi due”
disse Laura, cercando di dissimulare l’interesse dell’amica per lui.
“Bene, nel giro di qualche minuto saranno pronti”
assicurò.
Rea lo
precedette in cucina, tornando dopo poco con un vassoio pieno di tazzine.
“Vi dispiace se papà beve con noi? Adesso siamo in pausa e
direi che ne abbiamo bisogno” chiese.
“Figurati, per noi va benissimo” esclamò la mora
con un po’ troppa enfasi. Fabio rise.
Il cellulare
di Emma squillò alle sei e mezza, annunciando l’arrivo di sua madre. A
malincuore lei si alzò e raggruppò i suoi appunti, seguita dai due amici.
“Noi dobbiamo andare, sono venuti a prenderci”
disse tristemente.
Rea sorrise
dolcemente.
“Figurati, mi ha fatto piacere che siate venuti. Quando
volete tornare basta che me lo diciate, casa mia è sempre aperta per voi”
la consolò.
“Sono certa che la
rivedrai frequentemente” rise Laura. Lei la guardò senza capire.
“In che senso?” chiese.
“Nessuno, diceva tanto per dire” s’intromise Fabio,
cercando di salvare la situazione. La ragazza continuò ad essere confusa ma non
fece domande.
Accompagnò
gli ospiti fino in fondo al vialetto con suo padre dietro.
Prima di
entrare in macchina l’uomo strinse la mano ad ognuno di loro.
“Spero che ci farete il piacere di tornare ancora”
li salutò. Emma si soffermò un po’ di più con la mano nella sua, fissandolo
negli occhi.
“Arrivederci” sussurrò. Lui rimase immobile un
attimo, confuso. Era stato pervaso da una sensazione stranissima che non sapeva
spiegare, però non era male.
Quando le
loro dita si staccarono inconsciamente strinse l’aria, ricercando nuovamente
quel contatto e non trovandolo. Si riscosse e sorrise.
“Arrivederci a tutti” disse.
Padre e
figlia fissarono la macchina andare via.
“Simpatici, i tuoi amici” considerò lui, passandole
un braccio intorno alle spalle e tornando verso casa insieme.
“Non sono
miei amici, lo sai. Non devo legarmi a nessuno, qua, rischio di metterli in
pericolo” ribatté lei.
“Sì, lo so
cosa significa questa vita” ammise l’uomo controvoglia. Se pensava che stava
vivendo quelle cose per colpa sua si sentiva un verme, ma non volle pensarci.
“Pizza,
stasera? Non ho voglia di cucinare” le propose. Rea annuì felice.
“Dammi il
tempo di cambiarmi maglia, questa l’ho strappata sull’albero” rispose.
Corse in
camera lasciandolo solo e lui si massaggiò le tempie. Quella sensazione non
accennava a diminuire, anzi aumentava con i minuti. Era stato davvero un
fulmine a ciel sereno.
Il lunedì
mattina a scuola c’era una grande agitazione, Rea se ne rese conto non appena
mise piede nell’edificio. Gli studenti si guardavano preoccupati, parlando a
bassa voce tra di loro e stringendosi in piccoli gruppetti, come se avessero
paura di qualcosa.
Non appena
ebbe posato la cartella sul banco, la ragazza fu raggiunta da Fabio.
“Hai sentito?” le chiese.
“Cosa?”
“Pare che sia sparito un ragazzo del terzo anno, Roberto
qualcosa. È da sabato che nessuno lo vede in giro e i suoi genitori hanno
chiamato la polizia” spiegò. Lei sentì il cuore accelerare: adesso si
era arrivati anche al rapimento? Non bastavano gli studenti già morti?
“Come è successo?” s’informò.
“Sembra che lui sia uscito per andare ad una festa con degli
amici e che non sia mai rientrato” rispose l’amico. Rea si accasciò
sulla sedia, disperata. Era successo proprio sotto al suo naso e non aveva
ancora fatto niente affinché quella storia si concludesse.
“Ti senti male? Lo conoscevi?” si preoccupò di
domandarle Fabio.
“N-no, niente di tutto ciò, semplicemente sono… spaventata”
lo tranquillizzò.
“Sì, ti capisco benissimo. Ormai sono mesi che in questa
scuola succedono cose assurde: prima alcuni ragazzi si sono sentiti male, poi
sono morti; adesso questa sparizione misteriosa. I genitori che fanno parte del
consiglio degli studenti stanno decidendo se far chiudere l’istituto o no”
le raccontò.
Chiudere
l’istituto? Non ne sapeva niente, considerò Rea. Promemoria per me: parlare con papà.
Quando salì
sulla Mercedes di suo padre, subito tirò fuori dalla cartella il suo blocco per
gli appunti, dove aveva segnato le cose importanti da riferire.
“Nuove notizie sul fronte occidentale” annunciò
come un soldato.
“Scoperto qualcosa sull’istituto?” le domandò lui.
“Diciamo di sì. Sabato sera è scomparso un ragazzo”
rispose. L’uomo strinse convulsamente le mani al volante, infuriato.
“Dannazione, dobbiamo agire più velocemente” disse.
Rea annuì seria.
“Lo so. Allora, ecco ciò che so: pare che le stranezze
siano iniziate prima di quando pensavamo noi, all’incirca in agosto. Gli alunni
venivano a frequentare i corsi di recupero estivi per le materie che avevano
insufficienti, molto normalmente: scuola, casa, amici, tutto come da copione.
Solo che, dopo qualche giorno, alcuni di loro hanno iniziato a cambiare, almeno
a detta dei loro compagni: paranoia, aggressività e nervosismo sono solo alcuni
dei sintomi che mi hanno descritto stamani. Si isolavano dagli altri e
rimanevano per delle ore da soli, chiusi in qualche stanza lontani dal mondo. A
ottobre il primo ragazzo è morto ed è lì che è stata chiamata la polizia. Da
allora, ogni dieci giorni circa, qualcuno si sentiva male o aveva delle crisi
epilettiche che lo facevano collassare” spiegò.
Jason
parcheggiò davanti casa e sospirò.
“So che ti chiedo molto, ma potresti venire in centrale
per ripetere ciò che hai detto a me anche al comandante? Una testimonianza
formale ci sarà più utile di alcuni appunti scritti su un taccuino” le
domandò. Lei sorrise e gli fece l’occhiolino.
“Ci avevo già pensato, papà, ed avevo anche già messo in
conto che sarei venuta in ufficio con te. Mi vado a cambiare e poi andiamo”
rispose.
“Sei un tesoro, lo sai?” le disse l’uomo.
“Sì, me lo dicono tutti”
Rea ripeté
parola per parola tutto ciò che aveva già raccontato a suo padre, aggiungendo
il fatto che non si sapeva se la scuola sarebbe stata chiusa o sarebbe rimasta
aperta.
“Secondo il consiglio dei genitori è diventato troppo
pericoloso per i loro figli frequentare l’istituto e stanno decidendo cosa fare
in futuro” spiegò.
Il
comandante la guardò e sospirò.
“Questa
storia mi puzza di bruciato” disse.
“Sì, anche a me. Facendo un conto totale dei ragazzi, sono
diciannove le vittime di queste stranezze, tra morti, malati e ora anche rapiti”
confermò Jason.
“Dobbiamo
fare qualcosa” decise il capo.
“Qualche
idea?”
“Nemmeno una”
La ragazza
li guardò delusa: pensava che ci fossero già arrivati.
“Scusate, posso permettermi?” chiese angelicamente.
Fu ignorata.
“Potremmo
chiedere un mandato per entrare a scuola, anche se non saprei come
giustificarlo. Per quanto ne sappiamo, quei ragazzi potrebbero essere stati
tutti invischiati in chissà quali casini al di fuori dell’istituto”
“Infiltrarci nell’edificio quando è chiuso?”
Rea si
schiarì la voce per farsi sentire.
“Io ho già un’idea” disse. Nessuno la considerò ed
iniziò ad innervosirsi.
“Parlare
direttamente col preside?”
“Volete piantarla e ascoltarmi una buona volta?”
esplose. I due uomini la guardarono stupiti.
“Qualche
problema?” chiese il comandante.
“Sì, lavoro con due idioti!” rispose in malo modo.
“Ehi,
ragazzina, modera i termini, lo sai che posso farti uscire da caso quando mi
pare” la avvertì.
“Non lo farai, non hai nessun altro disposto ad entrare in
un liceo come infiltrato. Adesso posso avere la vostra attenzione per un minuto
o continuerete a parlare di fatti vostri come se io non ci fossi?”
domandò. Loro si zittirono, con tanta gratitudine da parte della ragazza.
“Signor
preside, mi scusi, c’è il signor Simon che aspetta qua fuori. Vuole parlare con
lei” annunciò la segretaria. L’uomo si stropicciò gli occhi, stanco.
“Fallo
passare” rispose. Lei annuì ed andò a chiamare il genitore.
Quando Jason
entrò nell’ufficio, si era stampato in faccia un sorriso di cortesia e lo aveva
accolto calorosamente.
“Signor Simon,
benvenuto! Prego, venga pure, si sieda” gli disse. Lui annuì e si accomodò
sulla poltrona rossa in velluto che stava nel centro dello studio.
“Che cosa la
porta qui? Problemi con sua figlia? Non si trova bene in questa scuola?” chiese
il preside.
“Oh, no, si figuri. Mi ha detto di avere dei compagni
fantastici e che si è integrata quasi subito. Devo dire che ne sono stupito,
Rea non è solita fare amicizia così velocemente” rispose.
“Questo mi
fa molto piacere” ammise l’uomo. Jason si mosse sulla sedia nervosamente,
aggiustandosi la giacca nera.
“Ecco, il motivo per il quale sono qui è più delicato. Ho
sentito i racconti di ciò che è successo qui con i ragazzi. Sto parlando di
quelli morti e dello studente scomparso sabato” spiegò.
Il preside
iniziò a sudare freddo.
“Sì, sono al
corrente delle voci che circolano, ma se è qui per una rassicurazione le dico
subito che il mio istituto non c’entra niente. Purtroppo alcuni dei ragazzi che
frequentano questa scuola ha iniziato a far parte di alcuni giri poco produttivi,
finendo per entrare in amicizia con persone per niente raccomandabili. Tutto al
di fuori di questo edificio, gliel’assicuro” disse.
“Quindi posso stare tranquillo che a mia figlia non
accadrà niente?” chiese Jason.
“Sulla mia
stessa vita le giuro di sì”
“Bene, sentirlo dire da lei mi conforta. Allora mi scuso
per il disturbo e me ne vado, la lascio ai suoi lavori. Arrivederci, signor
preside”
“Arrivederci,
signor Simon”
“Com’è andata?” chiese Rea. Era nell’ingresso che
stava aspettando suo padre da venti minuti, giocherellando nervosamente con un
pezzo di carta. L’unico modo che avevano per interrogare almeno il preside,
come lei stessa aveva suggerito, era che lui facesse la parte del padre
premuroso e preoccupato e andasse a chiedere informazioni sulla sparizione del
ragazzo. Così facendo non avrebbe destato nessun sospetto, né avrebbe dato a
qualcuno l’opportunità di pensare che loro erano degli infiltrati.
“Ti racconto appena usciamo. Senti, mi serve un foglio
bianco, dove posso trovarlo?” domandò Jason. La ragazza indicò il banco
dei bidelli.
“Là, ci sono le fotocopiatrici, chiediamo ai custodi se ci
possono prestare un foglio” rispose.
Mentre si
avvicinavano videro che una ragazzina, non avrà avuto più di sedici anni, stava
parlando con uno degli inservienti. L’uomo era alto, con la faccia magra e
smunta, il mento appuntito e gli occhi infossati. Sembrava che non mangiasse da
un mese come minimo. Quando arrivarono da lui l’alunna sgranò i grandi occhi
castani e se ne andò con la testa bassa. “Che
strana ragazzina” pensò Rea.
Suo padre
prese il foglio e ci scrisse sopra qualcosa con una penna che il bidello gli
aveva prestato, poi sorrise e salutò.
“Andiamo a casa, dobbiamo prendere un paio di cartelle e
poi ci aspettano in commissariato” le disse. La ragazza sobbalzò e
annuì.
“Sì, scusa ero sovrappensiero” rispose. Il custode
aveva continuato a fissarla incessantemente, mettendole addosso una certa
inquietudine.
Uscirono da
scuola e salirono in macchina, diretti alla polizia.
Passarono un
paio di giorni, nei quali Rea continuò a chiedere innocentemente a tutti quelli
che incontrava che cosa stesse succedendo. Aveva avuto ragione suo padre: fare
la parte della ragazzina impaurita e timida aiutava molto a tenere un basso
profilo.
Il venerdì
mattina, durante l’ora di ginnastica, la ragazza si sentì male. Ebbe un
capogiro più forte del solito, causato dal poco sonno degli ultimi giorni, e
cadde a terra svenuta.
Tutto ciò
che ricordava era che stava per segnare a pallavolo quando, all’improvviso, il
mondo intorno a lei era sfumato, diventando buio e indefinito.
Quando
riaprì gli occhi era stesa sui materassi blu che venivano usati per gli
esercizi di salto. Sopra di lei, Emma stava bagnando un panno di spugna e
glielo stava mettendo sulla fronte.
“È freddo” si lamentò a bassa voce. La mora
sorrise.
“Meglio così, ti farà passare prima il malore” le
rispose.
Provò ad
alzarsi lievemente, ma aveva completamente perso le forze e non riuscì nemmeno
a girare la testa per vedere cosa stavano facendo gli altri.
“Stai ferma, tra poco tuo padre sarà qui per portarti in
ospedale” le disse l’amica, sedendosi a terra.
“Papà? Oddio, papà no, per favore!” si lamentò.
“Perché? Appena ha saputo che ti eri sentita male ha detto
che correva qua il più velocemente possibile” le raccontò l’altra. Rea
si maledisse: se avesse ricominciato con i suoi malori sicuramente le avrebbero
tolto il caso e avrebbe compromesso tutta la situazione. Dov’erano le sue
pillole?
“Certo che sei proprio fortunata ad avere un padre come
quello” considerò Emma, sospirando. Da quando l’aveva visto non era
riuscita a fare altro che pensarlo e ripensarlo, ritrovandosi anche a fare
fantasie che poco si addicevano a una diciottenne.
“Direi che dipende dai punti di vista” ribatté lei,
ignara di ciò che l’amica stava pensando.
“No, è così. I miei genitori non sono così divertenti e
disponibili con i miei amici, pensa che mio padre è in casa pochissimo. Lavora
come guardiano notturno in un albergo e quindi il pomeriggio dorme” le
confessò.
“Ma anche papà è sempre fuori, semplicemente sta con me
quando è a casa”
“E tua madre? Non l’ho vista l’altro giorno”
s’informò la mora.
“Mia madre è morta quando ero piccola” rispose.
Stupita, Emma rimase zitta.
“Mi dispiace” disse infine.
“Non deve dispiacerti, io a mala pena me la ricordo. Avevo
sette anni quando se n’è andata e, anche se ne ho sentito molto la mancanza,
papà ha compensato benissimo il fatto che non ci fosse. Non mi è mai mancato
niente, quindi ho vissuto una vita relativamente tranquilla” la consolò.
“Sì ma deve essere stato terribile. Com’è morta?”
“Per una semplice malattia. Aveva un cancro”
rispose.
“Quindi tu per undici anni sei stata sola con tuo padre?”
dedusse la mora.
“Esatto, solo noi due. A quanto ne so, non ha mai avuto
altre donne oltre a lei” confermò.
In quel
momento l’uomo entrò in palestra, preoccupato e sudato per la corsa.
“Ora mi ammazza” commentò Rea.
Fu caricata
in macchina e portata in ospedale poco dopo. Suo padre non disse nemmeno una
parola fin quando lei non fu dimessa.
I medici
dissero che probabilmente era stato un semplice abbassamento di pressione, ma
lui sapeva che non era così.
“Da quanto tempo ha ricominciato?” chiese infatti.
La ragazza fece la finta tonta e lo guardò sorridendo.
“Che cosa, papà?”
“Lo sai. Da quanto è che soffri di nuovo di mancamenti?”
“Oggi è stata la prima volta dalla quinta elementare”
rispose angelicamente.
“Rea lo sai che non mi piace quando mi racconti le bugie.
Hai preso di nuovo le pillole calmanti, vero?” indagò. Lei odiava quando
l’uomo usava i metodi di interrogazione della polizia perché tutte le volte la
scopriva. Si impose di mantenere la calma.
“Le ho buttate anni fa” affermò convinta. Jason la
guardò di sbieco, poco convinto.
“Quindi puoi assicurarmi che oggi avevi solo la pressione
bassa?” domandò.
“Al cento per cento. Non ho mangiato prima di fare
ginnastica perché dovevo fotocopiare la relazione di geologia, così mi si sono
abbassati gli zuccheri nel sangue, tutto qua” spiegò.
Lui non era
affatto sicuro di ciò che lei stava raccontando, non le credeva nemmeno un po’,
ma decise di fidarsi.
“Va bene, ti credo. La prossima volta sta’ attenta, però”
si raccomandò.
“Certo, papà, da ora in poi mangerò sempre”
assicurò Rea.
“Sarà bene, altrimenti ti tolgo il caso. Se capiterà di
nuovo ti riterrò non idonea fisicamente ad affrontare uno stress simile”
la minacciò.
“Non capiterà più, fidati di me”
“Speriamo”
Quando
arrivarono a casa, Jason si chiuse nel salone che utilizzavano come palestra e
la lasciò sola con i suoi pensieri.
Rea corse in
camera e si barricò dentro, cercando tremante le pasticche che prendeva contro
l’ansia. Ne era diventata quasi dipendente da quando era morta sua madre, ma
capitava con cadenza regolare che soffrisse di vertigini e cali di pressione e
questo le provocava degli attacchi di panico molto forti.
Dieci minuti
dopo l’ansia e il nervosismo diminuirono, lasciandole solo un lieve mal di
testa.
Sospirò
felice e si rilassò contro la porta, seduta a terra.
Adesso
doveva pensare a come risolvere il problema “compiti a casa”. Doveva almeno
dare l’impressione di interessarsi a ciò che veniva spiegato in classe, così
afferrò il cellulare e compose il numero di Emma. Dopo un numero impressionante
di squilli, la ragazza rispose.
“Ciao Rea! Dimmi!”
“Ehi, ciao! Senti ti ho chiamato solo per chiederti cosa
devo studiare per domani e cosa hanno spiegato oggi dopo che me ne sono andata”
spiegò.
“Ah, giusto! Ho le tue
fotocopie di letteratura, il professore mi ha chiesto se te le potevo
consegnare. Sei a casa? Passo da te tra poco, così ti do anche tutto il resto”
“Oh, certamente. Vieni pure, tanto dove sto lo sai, no? Ti
aspetto” la invitò.
La mora
attaccò e andò a parlare con sua madre.
“Entra, non rimanere sulla veranda” disse Rea,
facendo posto a Emma. Quella varcò la porta, guardandosi intorno per scrutare
se vedeva Jason.
“Cerchi qualcosa?” domandò la rossa. Lei sobbalzò.
“No, figurati, stavo solo… ehm… controllando che fossimo
sole” rispose.
“Papà è in palestra quindi praticamente siamo sole”
le spiegò l’amica.
“Praticamente?”
“Sì, abbiamo la palestra in casa, al piano di sotto,
quindi è qua. Però è anche vero che quando è occupato con i suoi esercizi non
considera niente e nessuno” le disse.
“Capisco”
Si misero in
salotto, sedute al tavolo, e Emma raccontò ciò che era successo quella mattina
dopo che se n’era andata, dandole tutte le lezioni della mattinata.
Alla fine
Rea si stiracchiò e si alzò.
“Torno subito, vado a prendere il diario per segnarmi
tutto quanto” annunciò.
Lasciò
l’amica da sola, intirizzita come non mai. Era nervosa all’idea che Jason fosse
sotto lo stesso suo tetto che faceva esercizi per gonfiare i muscoli. Magari
era anche senza maglietta. Arrossì senza rendersene conto.
“Tesoro, hai studiato quelle cartelle che ti ho dato
prima?” chiese ad alta voce un uomo.
La mora alzò
la testa stupita, ritrovandosi l’uomo davanti.
“Oh, salve” la salutò.
“C-ciao” ricambiò imbarazzata.
“Come mai sei qui? Sei venuta a sentire come sta mia
figlia?” le domandò sorridendo.
“Sì, le ho portato i compiti per domani” rispose
lei.
“Te ne sono grato, grazie mille” disse.
Era
effettivamente senza maglietta, notò Emma. Bello!
Rea tornò di
sotto di corsa, con il fiatone.
“Papà! Ti sembra il modo di presentarti?” gli
chiese col cuore a mille.
“Ehi, è casa mia e non sapevo che avessimo ospiti”
si scusò lui.
“Vai via! Mi traumatizzi le amiche!” gli ordinò,
spingendolo fuori dal salotto.
“Ok, ok, mi dispiace! Arrivederci, Emma! Prometto che la
prossima volta mi farò trovare vestito in modo adeguato” la salutò
divertito.
“Arrivederci” ricambiò la mora.
Una volta di
nuovo sole, Rea sorrise imbarazzata.
“Scusalo, è sempre stato così”
“Così come?”
“Stupido!” spiegò.
Tornarono a
concentrarsi sulle lezioni e per le due ore successive non pensarono ad altro.
O quasi.
Il
comandante della polizia aveva ascoltato il racconto dei due Simon con
attenzione e preoccupazione.
“Si vede che
non è del tutto sincero, no?” considerò, riferendosi al preside. Rea scosse la
testa pensierosa.
“No, non sono d’accordo” rispose.
“Perché?” le
chiese.
“Vediamola dal punto di vista di un preside, ok? La scuola
rischia di chiudere e i genitori non si fidano più a mandare i ragazzi a
scuola, questo significa che il suo istituto, che è uno dei più famosi della
città, sta rapidamente perdendo prestigio” spiegò. Jasonsi mise una mano sulla faccia e rifletté.
“In effetti non hai tutti i torti” ammise.
“Lo so. dovreste avere imparato tutti e due che io ho
sempre ragione” disse orgogliosa.
“Non ti
allargare, ragazzina. I poliziotti siamo sempre noi” la freddò il comandante.
Lei sbuffò.
“Per ora” sussurrò.
“Hai detto
qualcosa?”
“No, non ho aperto bocca” negò angelicamente. Si
guadagnò uno sguardo di disapprovazione da parte dei due uomini ma non ci fece
particolarmente caso. Ormai non faceva più caso a nulla.
“Una festa?” chiese la mattina successiva a scuola.
“Sì, una festa. Hai presente la discoteca? Ecco, una festa
come quella” confermò Fabio. Lei scosse la testa.
“Non penso che papà mi darebbe il permesso di venire”
rispose.
“Dai, almeno chiediglielo! Mi farebbe molto piacere se tu
venissi” le confessò arrossendo. La ragazza lo guardò stupita.
“Davvero?” domandò.
“S-sì” ammise. Quelle parole la fecero sentire felice e
allora annuì.
“D’accordo, glielo chiedo subito, tanto è là che mi
aspetta per tornare a casa” promise. Il ragazzo s’illuminò.
“Fammi sapere per sms, ok?” si raccomandò.
“Te lo dirò subito!”
Rea corse
verso la macchina di suo padre allegra e lo salutò con un grosso bacio sulla
guancia.
“Ciao papà!” disse. L’uomo rimase stupito da quella
dimostrazione improvvisa di affetto e la guardò male.
“Che cosa vuoi?” s’insospettì.
“Niente, che vai pensando?” assicurò lei.
“Rea…” la richiamò. La ragazza gli fece la
linguaccia.
“Non è niente di che, voglio solo sapere se sabato posso
andare a una festa disco” spiegò. Lui divenne scuro in volto.
“Pensi che sia la cosa migliore viste le tue condizioni di
salute?” le chiese.
“Le mie condizioni di salute?”
“Tesoro non sono scemo, lo so che sei stata male
ultimamente. Non sono sicuro che andare in discoteca ti possa aiutare”
“Ma io sto bene! Avanti papà! Questo aiuterà moltissimo il
nostro caso” disse. Era l’ultima carta che poteva giocare, quella.
“Il caso?” domandò Jason, confuso.
“Sì. Il preside ha detto che i ragazzi sono finiti in un
giro di amicizie sbagliato, giusto? E che, da lì, le cose sono peggiorate. Non
c’è niente meglio di una festa in discoteca che possa servirmi come campo di
indagini” spiegò.
Suo padre ci
pensò un po’, rimanendo zitto fin quando non ebbe parcheggiato davanti casa.
“Sei sicura che non ci sia nient’altro?” chiese.
“Cosa intendi dire, papà?”
“Te l’ha chiesto un ragazzo di andare?” precisò.
Lei arrossì e scosse violentemente la testa.
“Affatto. Ho sentito in classe che i miei compagni ne
parlavano e ho pensato di fare un salto. Ma va beh, se pensi che non sia il
caso allora non vado, non importa” rispose. Si rabbuiò in modo evidente
e prese la cartella in mano.
“Almeno sabato porta a casa le schede degli studenti che
sono morti, così farò qualcosa di costruttivo” lo implorò.
“Ferma, aspetta” la richiamò Jason, vedendola
entrare in casa. Lei si voltò, dissimulando la gioia.
“Vuoi andare solo per studiare ciò che succede, vero?”
si assicurò.
“Solo per quello” giurò.
“Allora va bene, puoi andare. Ma sta’ attenta, non voglio
che ti capiti niente”
“Grazie papà! Ti prometto che capiremo cosa è successo a
quei ragazzi prima di giugno e che mi impegnerò per vedere se non c’è niente di
anomalo!” promise.
Salì in
camera felicissima e subito mandò un messaggio a Fabio.
“Ok per la festa. Ci
troviamo in piazza” scrisse. La risposta arrivò un minuto dopo.
“Mi rendi davvero felice.
A domani!”
Rea rilesse
quell’sms almeno dieci volte prima di rendersi conto di ciò che stava facendo e
si dette della stupida, scuotendo la testa. Chiuse il cellulare e si sedette in
terra, accanto alla porta.
“Ma sono diventata scema tutta insieme? Non devo
assolutamente farmi coinvolgere emotivamente, questo danneggerebbe chiunque
venisse a contatto con me!” si disse.
“Però Fabio è carino e a me piace” continuò
tristemente. Sospirò.
“No, non devo e non posso, soprattutto. Domani sera andrò
solo ed esclusivamente per controllare che non succeda niente di anormale”
esclamò.
Dopo aver
deciso ciò, però, le venne in mente un dubbio: come ci si vestiva per andare in
discoteca?
Fabio stava
aspettando da dieci minuti quando la vide arrivare di corsa. Aveva indosso un
vestito nero che arrivava alle ginocchia e dei pantacollant grigi, il tutto
unito a un paio di stivali alti con le zeppe. Rimase a bocca aperta, stupito.
“Cavolo, stai proprio bene!” si complimentò. Rea
arrossì e abbassò lo sguardo.
“Non sapevo se potevo andare bene così” ammise a
malincuore. Ci aveva messo quattro ore per prepararsi.
“Sei perfetta” le assicurò lui. Lei gli sorrise.
“Andiamo? La festa è qui dietro, a due passi. Non ci vorrà
molto” la spronò. La ragazza annuì e si misero a camminare fianco a
fianco.
Tra loro era
sceso il silenzio ed entrambi si sentivano imbarazzati.
“Allora, com’è andata la tua giornata?” chiese lui.
“Il solito” rispose Rea.
“Ti sei calata da un albero anche oggi?” la prese in
giro.
“Simpatico. No, ho studiato un po’” spiegò.
“Che emozione, vero?” domandò Fabio divertito.
“Sì, ho avuto il batticuore per l’eccitazione!”
confermò stando al gioco. In quel momento un uomo le dette un colpo alla
spalla, sorpassandola, e lei perse lievemente l’equilibrio, sbilanciandosi
all’indietro.
“Mi scusi” disse. Vide il profilo della persona e
si rese conto di riconoscerlo, anche se non riusciva a capire chi fosse.
“Ehi, ma non era il bidello della scuola?” chiese il
ragazzo.
“Penso di sì” confermò lei.
La discoteca
era un caos totale, considerò Rea appena entrati. Le luci intermittenti, la
musica a tutto volume, tutte quelle persone che ballavano strette le une alle
altre… in effetti suo padre aveva ragione: non c’era dubbio che tutto ciò la
facesse stare male.
“Vado a prendere da bere, aspettami qui” le disse
Fabio, lasciandola sola. Lei fu presa dal panico: lì era tutto troppo caotico,
non c’era abituata. Si guardò intorno per calmarsi un po’ e notò una ragazza
che sembrava completamente fuori luogo. Si stava torcendo le mani fino a farle
diventare rosse e osservava la sala con occhi spiritati. Le si avvicinò
preoccupata.
“Tutto bene?” le chiese. Lei sobbalzò a quel
contatto e la fissò impaurita. Non rispose, ma iniziò a muovere la testa a
destra e sinistra meccanicamente, come se stesse dicendo “no”.
“Posso aiutarti?”
“Vattene,
non voglio” rispose infine. Un secondo dopo era scomparsa tra la folla,
lasciandola di nuovo da sola. “Che tipo strano”
considerò lei.
Fabio le
batté un dito sulla spalla per chiamarla.
“Non sapevo cosa poteva piacerti, così ti ho portato un gin lemon. Va bene?” le domandò.
“Perfetto” assicurò lei, sorridendo e prendendo il
bicchiere.
Rea non era
un tipo che ballava e si scatenava, soprattutto visto che odiava qualsiasi
indumento femminile e al momento stava indossando un vestito che le rallentava
parecchio le gambe. Ma davvero le donne portavano quei cosi per farsi belle?
Era una tortura!
“Ti va di andare in pista?” le propose Fabio. Lei lo
guardò senza capire.
“In pista?” chiese.
“Sì, a ballare” specificò. La ragazza arrossì e scosse
la testa.
“Oh, nonono, io non so ballare”
rifiutò. Lui s’incupì un poco.
“Va bene” accettò. Comprendendo che aveva appena fatto
una gaffe, lei si affrettò a rimediare.
“Però puoi insegnarmi” disse. Il ragazzo si rianimò
e la prese per mano, trascinandola in mezzo alla pista.
“Ok, guarda me d’accordo?”
“Ci provo”
Rimasero nel
mezzo della sala per un’ora e mezza, ridendo come matti ogni volta che Rea
inciampava e perdeva l’equilibrio. Le girava la testa, un po’ per l’alcool e un
po’ per la musica ma non ci faceva caso: per la prima volta da un tempo
indeterminabile si sentiva felice e leggera. Era una sensazione meravigliosa.
Alla fine fu
Fabio a chiedere di fermarsi per un momento. Era sfinito, aveva il fiatone ed
era anche sudato.
“Non sei così male, sai? Certo, ti muovi con un po’ di
difficoltà ma si vede che hai il ritmo nel sangue” si complimentò. Rea
arrossì.
“Figurati, due volte che ho provato a fare una giravolta e
due volte che ho fatto danno. Quel ragazzo a cui ho dato un calcio su un
ginocchio probabilmente mi starà odiando” ribatté. Lui rise.
“Oppure quel signore con in mano una vodka che hai urtato lievemente, facendo ribaltare sia il
bicchiere che lui” aggiunse. La ragazza tossì imbarazzata.
“Non scendiamo nei dettagli, ti va?” gli propose.
“Ok, come vuoi” accettò l’amico.
La ragazza
si guardò intorno, incuriosita: quello per lei era un mondo completamente
nuovo. Dato il lavoro di suo padre non aveva mai vissuto una normale vita da
adolescente, uscendo con gli amici o partecipando alle feste. Non che avesse
avuto amici prima di allora, comunque.
Quelle
riflessione l’avevano portata a fissare un punto in mezzo alla sala e il suo
cervello registrò ciò che stava vedendo con un minuto di ritardo: la ragazzina
che aveva visto prima e che l’aveva mandata via in malo modo stava urlando
qualcosa contro qualcuno. Spinta dalla curiosità, si alzò e raggiunse il punto
in cui si trovava, rimanendo piuttosto sorpresa quando si rese conto che stava
urlando contro un muro.
“SMETTILA DI
SEGUIRMI, CAPITO? SONO LIBERA, ADESSO! LIBERA!” gridava.
Rea le bussò
sulla spalla, cercando di farsi vedere, ma quella la ignorò.
“Ehi, stai… ehm… bene?” le domandò. Quella si voltò
e lei ne rimase quasi spaventata: se prima i suoi occhi le erano parsi
spiritati, adesso sembravano terribilmente cattivi.
Lei arretrò
di un paio di passi, capendo che con non avrebbe potuto ragionarci, e la
ragazzina le dette una spinta forte all’addome, facendola cadere a terra. Le
lanciò un’ultima occhiata infuriata e se ne andò senza dire una parola.
“È tutto a posto? Ti ha fatto male?” chiese Fabio,
arrivando di corsa. Aveva osservato la scena da lontano ed era andato da lei
quando aveva visto che veniva spinta a terra.
“N-no, io sto bene, ma…” non finì la frase, i suoi
piedi si mossero da soli, andando nella direzione della ragazzina.
“Io la devo ritrovare” disse spaventata. Ecco cosa
intendeva suo padre con “se succede qualcosa di strano agisci”: decisamente una
studentessa che urlava contro un muro era strano.
“Cosa? Ma sei matta?” esclamò il ragazzo. Lo ignorò,
andando a recuperare il giacchetto e la borsa.
“Vieni con me o rimani qua?” gli domandò seria.
“Rea, rifletti un attimo: quella là ti ha spintonato e se la
stava prendendo con una parete. Secondo te è saggio andare a romperle le
scatole? Probabilmente è ubriaca persa e reagisce così all’alcool” le
spiegò. Lei sbuffò.
“Lo prendo come un dire che resti qua. Ci vediamo, Fabio”
lo salutò, sorpassandolo. Lui rimase lì con un palmo di naso, incredulo.
Nei venti
minuti successivi Rea cercò quella ragazza in tutta la discoteca, senza
successo, così decise di uscire per vedere se la trovava fuori. C’era qualcosa
che non le quadrava in quella faccenda ed era sicurissima di averla già vista
da qualche altra parte. Probabilmente a scuola, ma non capiva cos’era a
sfuggirle.
Nello
spiazzo fuori dall’edificio c’erano persone di tutti i tipi: ubriachi; drogati;
uomini di mezza età che cercavano di rimorchiare delle sedicenni (se non fosse
stata impegnata in altro li avrebbe presi e portati alla polizia); giovani
ragazzi che facevano la corte a delle cubiste. Della ragazzina nessuna traccia.
“Maledizione! Non dovevo fare la cretina e distrarmi, non
era questo il piano!” si disse, battendo una mano sulla fronte.
Respirò con
calma un paio di volte, poi controllò di nuovo tutto il perimetro.
Alla fine la
vide entrare in un vicolo buio.
Stava
barcollando come una pazza verso una macchina, reggendosi a mala pena sulle
gambe ma continuando a camminare. Sembrava ipnotizzata, quasi come se non
ragionasse più ma fosse qualcun altro a darle gli ordini.
“Eccola! Ehi, tu! Fermati!” esclamò Rea,
avvicinandosi di corsa a lei. Il suo cuore batteva all’impazzata, sentiva che
forse non era stata la cosa più saggia da fare, quella di seguirla da sola. Ma
cos’altro avrebbe potuto inventarsi?
Vide
qualcuno nella macchina grigia che stava aspettando la ragazzina che le lanciò
uno sguardo di ghiaccio e la portiera dell’auto si spalancò all’improvviso.
“Muoviti,
idiota!” gridò una voce di donna. Un braccio la strattonò dentro e subito dopo
il motore si accese rombando. Rea si bloccò confusa.
“Fermati!” urlò. L’auto partì a tutto gas, facendo
fischiare le gomme sull’asfalto.
“Maledizione!” imprecò lei. Infilò una mano nella
borsetta, ringraziando il fatto che suo padre aveva lasciato la pistola a casa,
e puntò l’arma verso la macchina.
“Fermati ho detto!” ripeté. L’auto si indirizzò
verso di lei, ma non si mosse. “Spara”
ordinò la sua mente. Si sentì il rimbombo del colpo risuonare nell’aria, ma
l’unica cosa che riuscì a colpire fu il fanale anteriore destro. “Oh merda!” pensò.
Si gettò di
lato un attimo prima che la macchina le passasse sopra a ottanta chilometri
orari, finendo per schiantarsi contro un gatto che dormiva. Quello miagolò
contrariato e se ne andò, lasciandola a terra, nascosta da alcune scatole.
Fece appena
in tempo ad alzare la testa per vedere l’auto scomparire dietro l’angolo.
“Papà mi ammazza” disse, rialzandosi. Si guardò il
vestito: era rovinato. La caduta lo aveva strappato da una parte ed era
completamente sporco di terra. Si tolse un po’ di polvere di dosso e aprì la
borsa per rimettere la pistola al suo posto.
“Cos’era quello?” chiese una voce dietro di lei. Rea si
voltò impaurita, puntando l’arma davanti a sé.
“Wowowo! Calmati! Ero solo venuto a cercarti!” spiegò Fabio,
alzando le mani al cielo.
La ragazza
sospirò di sollievo per un attimo.
“Sei solo tu” esclamò.
“Sì, sono io” confermò lui. Poi incrociò le braccia e
la guardò.
“Tu, invece, chi sei?” le domandò. Ottima domanda.
“Non ci posso credere”
“E dai, non avercela con me, non l’ho fatto apposta!”
“Punto primo: mi hai mentito. Punto secondo: ti sei fatta
scoprire!”
“Ti ho detto che mi dispiace!”
“Glielo spieghi tu a Bearne? Io non ci tengo a dirgli che
hai fatto saltare la copertura e che dobbiamo ricominciare da zero!”
“Oh, andiamo! Lui terrà il segreto, vero Fabio? Digli che
non dirai niente a nessuno”
Il ragazzo
era a casa Simon da quaranta minuti e non aveva fatto altro che sentire parole
come “indagini”, “sparizioni”, “caso” e quant’altro. Era abbastanza confuso.
“N-no, io non ho intenzione di dire a nessuno che tu sei… sei…
una poliziotta?” confermò poco convinto.
“Aiutante e basta, per il momento non sono in polizia”
lo corresse Rea.
“E nemmeno in futuro lo sarai! Io l’avevo detto fin da
subito che non eri adatta per questo compito” disse suo padre. Lei
sbuffò.
“Sei stato tu ad insistere affinché tornassi ad aiutarvi,
vorrei ricordartelo” lo freddò.
“Non avevamo agenti a disposizione per infiltrarsi,
cos’altro dovevo fare? Lasciare che dei ragazzi morissero senza far niente?”
esclamò l’uomo.
“Scusatemi, posso farvi una domanda?” chiese Fabio.
Loro lo guardarono e annuirono.
“Perché non fare le indagini apertamente?” s’informò.
“Nessuno ha denunciato la scuola, purtroppo. Gli studenti
di quell’istituto sono morti ma nemmeno un genitore ha pensato che la cosa
dipendesse dalla scuola, così non ci sono denunce a carico del liceo”
spiegò Jason.
“Capisco. Voi quindi non siete davvero la famiglia Simon?”
“Fabio non fare domande sceme. Siamo agenti infiltrati non
nel programma protezione testimoni” sbuffò Rea in risposta. Il ragazzo
alzò le mani in segno di resa.
“Scusa, era solo una domanda” specificò.
“Comunque le possibilità sono due: o uccidiamo lui o
cambiamo piano” annunciò l’uomo. Fabio si sentì prendere dal panico a
quell’affermazione e guardò la ragazza in cerca di aiuto.
“Non essere ridicolo, papà. Io mi fido se promette di non
dire nulla a nessuno” ribatté sua figlia.
“Giuro!” si affrettò a specificare il ragazzo.
“Visto? Tutto a posto, adesso lo riporto a casa”
decise lei.
Jason
strinse le labbra in segno di disapprovazione, ma lo ignorò e spinse l’amico
fuori, in strada, facendolo salire sulla sua macchina. Rimasero in silenzio fin
quando non furono davanti alla sua abitazione, poi Rea sospirò e sorrise.
“Scusami, mi rendo conto che non è stata la serata ideale”
disse.
“Diciamo che è stata… ehm… particolare, ecco” precisò
lui. La ragazza tornò seria e lo fissò.
“Senti, lo so che ho detto che mi fidavo, ma io devo
essere certa che non dirai a nessuno chi sono o cosa faccio io, capito? A
scuola succedono cose strane e devo arrivare a capo di questa faccenda senza
problemi” si raccomandò.
“Ti prometto che nessuno saprà da me della tua indagine”
assicurò Fabio. Lei sorrise.
“Grazie di tutto. Adesso vai, ne riparleremo in classe
lunedì” lo salutò. Lui scese e la guardò andare via, con mille pensieri
che gli vorticavano in testa.
Capitolo 9 *** Se il sintomo persiste consultare il medico ***
Se
il sintomo persiste consultare il medico
Quando
rientrò in casa, Jason era furibondo. I suoi occhi mandavano scintille e
batteva il piede in terra come faceva quando avrebbe avuto voglia di rompere
qualcosa. Rea seppe subito che sarebbero stati urli.
“Non hai niente da dire?” le chiese l’uomo.
“Sì, ho sonno e vado a dormire. Notte” provò lei,
ma la fermò mettendosi in mezzo al corridoio.
“Hai appena messo quel ragazzino in un pericolo che non
puoi nemmeno immaginare! O santo cielo, sembri una bambina quando fai così!”
gridò. Come volevasi dimostrare.
“Papà, non gli ho chiesto io di seguirmi là fuori. Se non
avessi seguito quella ragazzina non me lo sarei mai perdonato!” si
scusò.
“Ma perché portarti dietro la mia pistola? Senza dirmi
nulla, per giunta!”
“Avrebbe potuto esserci qualche pericolo, come poi c’è
stato, e io potevo averne bisogno!” spiegò.
“Ma andiamo! Sei andata a cercartelo, il pericolo! Appena
hai visto che qualcosa non andava mi dovevi chiamare e io sarei arrivato
subito!”
“Sì, subito infatti. Con la macchina ci vogliono dieci
minuti per arrivare alla discoteca, quella ragazza faceva in tempo a essere
picchiata, uccisa, a sentirsi male e anche a vomitare anche lo stomaco se fosse
stato colpa dell’alcool!”
“Non puoi sapere se davvero era ubriaca! Hai seguito
qualcuno spinta solo da un brutto presentimento e hai rischiato di essere
investita”
“Se hanno cercato di investirmi significa che non era solo
ubriaca!”
Jason
sospirò rumorosamente, nervoso. La guardò disperato.
“Rea, hai sparato in un luogo pubblico contro una macchina
senza nemmeno un indizio!” disse cercando di calmarsi.
“Papà il motivo per cui io sono andata in discoteca era di
prendere informazioni, giusto? Di controllare che non succedesse niente di
anormale. Ho solo fatto il mio dovere” gli ricordò.
“E Fabio allora? Lui non fa parte del tuo dovere”
la freddò. La ragazza rimase con la bocca spalancata, incapace di trovare
qualcosa di intelligente da dire.
“Mi ha solo accompagnato” sussurrò alla fine,
imbarazzata.
“Senti, domattina chiamo Bearne e ti togliamo da
quell’istituto” decise l’uomo. Lei si rianimò.
“No! Quella ragazza quasi sicuramente sarà nei guai, non
puoi fermarmi adesso!” si ribellò.
“Ma tesoro…”
“Niente ma! Fabio ha promesso che non dirà niente e io mi
fido di lui! Sarò più attenta, lo giuro, ma non sollevarmi dal mio caso!”
esclamò. Un secondo dopo si rese conto che le sue guance erano bagnate e che
suo padre la stava guardando incredulo.
“Tu nemmeno lo volevi, quest’incarico” le ricordò.
Lei si asciugò gli occhi e scosse la testa.
“Non importa, adesso voglio rimanere lì, invece”
affermò convinta. Jason le prese il viso e la guardò negli occhi.
“Se ti chiedessi il perché non me lo diresti, vero?”
domandò.
“Perché mi sto sentendo utile, per una volta”
ammise a bassa voce. Lui comprese che era il momento di smettere di discutere e
la lasciò andare.
“Va bene, ne riparleremo domani, adesso va’ a dormire”
decise.
Rea sussurrò
un “buonanotte papà” e scomparve in cima
alle scale. Solo quando fu veramente sola si mise a piangere.
Quando
rientrò a scuola, il lunedì mattina, era arrivata ad un accordo con suo padre:
lui non diceva niente a Bearne e lei cercava di essere più discreta possibile.
Inoltre l’uomo le aveva consigliato di stare più lontana possibile da Fabio per
evitare che lui potesse finire nei guai, così, una volta in classe, si mise al
suo banco in silenzio senza salutare nessuno.
Quando il
ragazzo la vide agitò una mano sorridente, ma lei lo ignorò, voltando la testa
da un’altra parte. La campanella suonò prima che potesse avvicinarsi per
chiederle spiegazioni, ma staccò un foglio dal quaderno e ci scrisse sopra una
cosa.
“Emma, passalo a Rea” sussurrò. La mora prese il pezzo
di carta e lo fece scivolare sul banco della ragazza, che si stupì nel vedersi
recare un messaggio.
“Cos’è?” chiese.
“Da Fabio” le rispose l’amica, semplicemente.
Il suo cuore
prese a battere forte: poteva davvero riuscire a ignorarlo?
“Buongiorno! Alla fine hai
risolto con tuo padre? Mi spiace davvero per tutto, prometto di essere attento
e di non dire niente a nessuno!”
Velocemente
rispose e lanciò il foglio appallottolato sul banco del ragazzo, con precisione
geometrica.
“Non importa, tanto tu
ne rimarrai fuori. Anzi, sarebbe meglio non parlarsi, onde evitare problemi.
Grazie per tutto, comunque, mi ha fatto piacere la tua compagnia sabato sera”
Lui si girò
con gli occhi sgranati, incredulo.
“Ma sei seria?” chiese sottovoce. Lei annuì. Infuriato,
lui scarabocchiò qualche parola sotto alla sua risposta e le rispedì il foglio.
“Ne parliamo a pranzo,
vieni con me e senza fare storie!”
Rea alzò la
testa e la scosse.
“Non posso” mimò con le labbra.
“Non era un invito, il mio” ribatté lui. Senza darle il
tempo di dire altro si voltò verso la cattedra, facendo finta di interessarsi
alla lezione.
Mandato
messaggio a papà, cartella presa, giacchetto indossato: Rea era pronta. Jason
aveva avuto qualche difficoltà nel crederle quando gli aveva detto che doveva
rimanere a scuola per “sessione studio con il professore”, ma cos’altro poteva
fare? Seguirla e spiarla? La ragazza si bloccò un attimo, assalita dal panico:
in effetti avrebbe potuto farlo. Scosse la testa e si dette della stupida,
seguendo il ragazzo.
“Dove andiamo?” gli chiese.
“Alla mia macchina, ti porto lontana da qui, dove non ci
possono sentire” le rispose.
“Tu hai la macchina?” esclamò lei, incredula. Lui
la fissò senza capire.
“Perché? Non ce l’hai anche tu?” le fece presente.
“Sì, ma io… oh, papà io ti ammazzo” farfugliò.
“Sorvolerò sul fatto che non ho capito” concesse Fabio.
Partirono in
silenzio. Il viaggio durò una decina di minuti, nei quali Rea si chiese
cos’avrebbe potuto dirgli: “Guarda il punto è che
rischi di venire ucciso. Mica ti dispiace, vero?”.
Si fermarono
in un parco e il ragazzo parcheggiò da una parte. Rimase fermo a guardare
davanti a sé, poi si voltò all’improvviso.
“Ti ascolto” le disse.
Lei lo fissò
titubante.
“Mi rendo conto che per te è un po’ strano, però ecco… io
non me la sento di metterti nei casini per colpa di una mia distrazione. Ne ho
parlato anche con papà e ho capito che tutto questo è troppo pericoloso per te.
Non voglio che ti capiti niente, tutto qui” gli spiegò.
“Capisco” sussurrò Fabio.
Rea aspettò
che dicesse qualcosa, invece continuò a stare zitto e a fissare di fronte a sé.
“Quindi vorresti farmi capire che non siamo più amici, giusto?”
chiese il ragazzo.
“No, non è questo, noi siamo amici, però… amici da lontano”
rispose.
“io non voglio un’amica da lontano, io voglio te come amica da
vicino” si ribellò lui.
“Sì, anche io ti vorrei essere amica, però capiscimi:
tutta questa storia si sta incasinando sempre di più e io non so se mi
ritroverò a dover affrontare dei criminali o no. Tu te la sentiresti di mettere
in pericolo qualcuno per colpa di un po’ di egoismo? Io no”
Fabio la
fissò incredulo.
“Egoismo? Non è egoismo, è che siamo amici e io conosco il tuo
segreto! Volente o nolente io lo so e non posso fare finta di nulla, per cui la
discussione finisce qui: tu continuerai ad essermi amica e basta!”
esclamò.
Rea sentì il
respiro accelerare e portò automaticamente una mano al petto per calmarsi.
“Per favore non gridare” lo implorò.
“Io invece grido quanto e come mi pare! Sei semplicemente
assurda: prima mi chiedi di venire con te a cercare quella scema che urla
contro un muro e poi, dopo, se io ti seguo per davvero, ti tiri indietro! Non è
un comportamento normale!” le rispose.
La ragazza
mise una mano nella cartella per cercare le pasticche ansiolitiche, ma capì non
appena le toccò che la scatola era vuota. Iniziò a girarle la testa.
“Per favore, parla con più calma” chiese ancora.
“Non puoi dirmi anche come parlare quando sono arrabbiato!”
ribatté lui.
La voce le
si strozzò in gola quando provò a spiegargli come mai e cadde con la faccia sul
cruscotto, incapace di reggersi seduta dritta.
Sentiva
Fabio chiamarla ma non riusciva a dire niente: era bloccata nel suo stesso
corpo. Panico.
Riaprì gli
occhi poco dopo. Era di nuovo svenuta. Si sentiva una stupida: continuava a
perdere i sensi nei posti meno adatti e questo non si addiceva al lavoro che
voleva fare in futuro.
“Stai meglio?” le domandò l’amico. Le aveva steso il
sedile fino a farla mettere in posizione orizzontale, supina.
“Sì, tutto ok. Sarà stato un calo di zuccheri”
rispose, più tranquilla.
“Scusami, non volevo farti così paura” disse il ragazzo
sentendosi in colpa.
“No, figurati. Ogni tanto mi capita di avere qualche
problema di bassa pressione, è normale per me” gli assicurò.
Lui appoggiò
la testa sul volante e sospirò.
“Comunque ti chiedo scusa. Ho capito il tuo punto di vista e
so che è giusto, me ne rendo conto, solo che… non mi va di non poterti parlare
più” le spiegò. Rea sorrise dolcemente.
“Solo fino a quando il caso non sarà chiuso, poi tutto
tornerà come prima” lo consolò.
“Ovvero tu te ne tornerai nella tua vecchia casa” la
freddò. Lei rimase zitta per un secondo, poi scosse la testa.
“No, non penso che capiterà. Io qua mi ci trovo bene”
“E poi sarebbe stupido cambiare di nuovo scuola prima degli
esami di maturità” aggiunse l’amico. A quelle parole lei esitò.
“Ecco, a questo proposito io…”
Il suo
cellulare squillò e lei si rimise seduta dritta.
“Che strano, è il comandante Bearne. Non mi chiama mai,
sarà successo qualcosa?” si chiese.
Rispose con
le mani tremanti.
“Sì?”
Cinque
minuti dopo la macchina di Fabio stava sfrecciando verso la stazione di
polizia.
Quando entrò
di corsa nell’ufficio di suo padre, Rea non sapeva se sentirsi orgogliosa di sé
stessa o tremendamente inutile.
“Ah, eccoti qua. È stato un problema venire via da scuola?”
le chiese l’uomo, dandole un bacio sulla testa.
“No, figurati. Ho detto che mi sentivo poco bene e il
professore mi ha lasciata andare” rispose colpevole. Lui la guardò poco
convinto, alzando un sopracciglio, ma non ebbe il tempo di domandarle altro
perché entrò il comandante, schiaffando con poca grazia una cartella gialla sul
tavolo.
“Indovinate
un po’ che denuncia ci è arrivata stamani” disse. Loro due si guardarono
presagendo il peggio.
“Di sparizione?” tentò lei.
“Un punto
per la ragazzina impertinente. E indovinate chi è scomparso?” chiese.
Quando
aprirono il fascicolo rimasero tutti e due con gli occhi spalancati e il fiato
mozzato.
“Lo sapevo, lo sapevo!” esclamò Rea vittoriosa.
“Ma allora l’altra sera, quando è stata portata via…”
sussurrò Jason, passandosi una mano sulla faccia.
“Esattamente,
è stata rapita” confermò Bearne.
La ragazza
che aveva urlato contro un muro, quella che poi loro avevano scoperto chiamarsi
Mary entrando sul sito della scuola dove c’erano tutte le foto, era sparita.
Allora aveva ragione a dire che qualcosa era successo!
“Io ve l’avevo detto che non era normale nemmeno per un
ubriaco che gridasse a una parete!”
“Ma allora come mai è stata rapita? E quel suo
comportamento c’entrava qualcosa?” iniziò a chiedersi suo padre
pensieroso.
“Secondo me sì, anche se non saprei dirti cosa”
rispose lei.
“E allora
scoprilo! Il tuo compito, da adesso, è anche più difficile, Rea. Te la senti di
continuare?” le chiese il comandante. Lei annuì sicura.
“Certamente! Escludendo che quelli che l’hanno portata via
hanno cercato di ammazzarmi e che quindi è diventata una questione personale,
io adesso ho il dovere di venire a capo di questa faccenda, anche se ciò fosse
pericoloso e difficile!” rispose.
Jason
sobbalzò a quelle parole, iniziando a preoccuparsi. Forse non era stata una
buona idea, quella di coinvolgerla nelle loro indagini. Se le fosse capitato
qualcosa…
“Benissimo,
allora avrai bisogno di proteggerti maggiormente. Probabilmente il guidatore
dell’auto che ti ha quasi investita ha visto il tuo viso per cui potrebbe
cercare di risalire a te, quindi tuo padre adesso ti porterà di sotto al
poligono e ti darà una pistola con la quale allenarti e che poi terrai” decise
Bearne.
“Ma non credo che sia la cosa migliore da…”
“Va bene, capo! Andiamo papà, ho voglia di tirare di
nuovo, mi manca tenere in mano un’arma mia” lo spronò Rea, tirandolo per
una manica.
Titubante,
l’uomo la seguì.
Quando aveva
avuto la sua prima pistola aveva sedici anni. Suo padre era spesso fuori per
lavoro e lei rimaneva a casa da sola, così avevano deciso in comune accordo di
farle prendere un brevetto speciale per le armi da fuoco e di tenere una
pistola di piccolo calibro in casa.
Dopo che la
magnum era risultata poco idonea per la sicurezza l’avevano restituita e lei
non aveva più sparato a nessuno. Almeno fino al sabato precedente.
Quando prese
in mano la Revolver Colt con il tamburo percepì subito una specie di legame con
essa, come se fosse unaprotesi della
sua mano. Infilò i proiettili negli appositi fori e li fece girare come nei
migliori film western.
“È divertente!” esclamò ridendo.
Si mise i
paraorecchie e gli occhiali protettivi e fece partire il primo bersaglio.
Suo padre la
guardava con apprensione: l’aveva tirata in quel guaio e ora lei ci si stava
anche divertendo. Non era questo il piano originario, lei avrebbe dovuto
solamente infiltrarsi nell’istituto, rubare le cartelle degli studenti morti
dalla segreteria e tornare a casa. A quel punto la sua collaborazione sarebbe
finita. Invece adesso si era complicato tutto quanto, a partire dal fatto che lei
si trovava bene a scuola per arrivare alle sparizioni dei ragazzi e non
potevano più scinderla dal patto, c’era troppo invischiata.
Si odiò per
averla messa in pericolo.
“Sono un po’ peggiorata” commentò Rea,
richiamandolo alla realtà. Guardò il suo punteggio: 75% di precisione.
“Ma se sei quasi perfetta!” ribatté lui, prendendo
a sua volta una pistola e preparandosi.
“Quattro anni fa facevo quasi il cento per cento”
gli ricordò la ragazza, posando il revolver e osservando come sparava suo
padre.
Jason si
concentrò più che poteva ma mille pensieri gli si affollavano in testa,
rendendogli quasi impossibile centrare il bersaglio.
“Sei diventato proprio scarso, lo sai?” lo prese in
giro lei, guardando il punteggio: 45% di precisione.
“Sono solo stanco” rispose lui sospirando.
“Vuoi andare a casa? Io prendo la pistola e me la porto
dietro, mi alleno là” gli propose sua figlia sorridente. Sembrava così
felice lì dentro, quasi come se fosse abituata a quell’ambiente, come se gli
appartenesse. Ma in fondo era normale: aveva vissuto nella stazione di polizia
da quando aveva sette anni, cos’altro poteva pretendere?
“Andiamo, dai, guido io. Ah, a proposito di guida: tu ed
io dobbiamo fare un discorso sulla macchina e sul tuo concetto di i ragazzi della tua età non portano la
macchina a scuola, visto che i miei compagni ce l’hanno l’auto e ci vanno
al liceo” gli disse.
Non
l’ascoltava più, ma non importava.
Quando
furono in casa lei si eclissò in palestra, dove c’era un piccolo bersaglio che
usavano come poligono domestico, mentre lui andò al piano di sopra.
Entrò in
camera e si buttò sul letto, mettendosi una mano sulla testa. Era distrutto,
decisamente.
Non ce la
faceva più a sopportare lo stress e il nervosismo causati dalla partecipazione
di sua figlia a un caso della polizia.
Il telefono
squillò e lo distolse dai suoi pensieri, facendolo sobbalzare.
L’uomo
rispose piuttosto scocciato.
“Bearne se sei tu sappi che Rea è giù ad allenarsi, non
farmi una ramanzina perché siamo tornati a casa” ci fu del silenzio
dall’altra parte della cornetta che lo fecero preoccupare.
“Bearne?” lo chiamò.
“Mi dispiace, non
pensavo che avrei disturbato a chiamare. Avevo bisogno di parlare con Rea ma
credo di aver capito che è occupata, vero?” chiese una voce
femminile. Jason scattò a sedere.
“Emma? Oddio, mi dispiace! Pensavo che fosse… ehm, qualcun
altro” si affrettò a dire.
“Si figuri, non
importa. Allora Rea non può venire al telefono?” domandò ancora.
“Se aspetti un secondo vado a chiamarla, è in… palestra”
rispose.
“Non mi muoverò da qui” promise la ragazza.
L’uomo scese le scale di corsa, arrivando nella stanza degli allenamenti. Il
rumore degli spari rimbombava ovunque, assordandolo.
“Ehi! Tesoro?” chiamò, ma sua figlia non rispose
occupata com’era a divertirsi con il bersaglio.
“REA!” urlò. Lei sobbalzò e abbassò il revolver,
guardandolo incuriosita.
“Dimmi papà” disse.
“C’è Emma al telefono, chiede di te. Le dico che non puoi
rispondere oppure vieni su?” domandò. Lei guardò il tamburo della
pistola.
“Ho ancora due proiettili, dille che arrivo” gli
ordinò.
“Nel frattempo che faccio?”
“Intrattienila! Sei sempre stato bravo a parlare, non ti
sarà difficile”
L’uomo
sospirò e tornò al primo piano. Cosa si dice a una diciottenne?
“Emma?”
“Sono ancora qui”
“Rea arriva subito, sta finendo una serie” le
disse.
“Ok, allora continuerò
ad aspettare”
Rimasero
zitti in imbarazzo. Anche tramite la cornetta del telefono era palpabile che si
sentivano entrambi in difficoltà.
“Senta se vuole
richiamo dopo”
propose la mora.
“No, figurati, penso che non le ci vorrà molto”
“Ma è occupata a fare
ginnastica?”
“Qualcosa di simile, sì”
“Capisco. E… ecco, lei
cosa stava facendo?” domandò timidamente.
“I-io? Mi stavo per mettere a leggere qualcosa”
rispose confuso.
“Tu?” s’informò poi.
“Studio per la
maturità. Mi devo impegnare a fondo per passare bene, altrimenti non entrerò
all’università” spiegò lei.
“A cosa aspiri ad entrare?”
“Medicina!”
“Beh, ti auguro di riuscirci allora”
“Grazie, signor Simon”
In quel
momento arrivò Rea, che gli strappò di mano la cornetta e se la portò in
camera. Jason comprese come mai aveva esplicitamente chiesto di comprare un
cordless.
Si stese
nuovamente sul letto e cadde in un sonno profondo e senza sogni.
Quando
arrivò a scuola Rea fu subito circondata da Emma e Laura, che la guardarono con
gli occhi luccicanti. Lei si spaventò.
“Che c’è?” domandò titubante.
“Abbiamo saputo
qualcosa” iniziò la bionda maliziosa.
“Infatti. Un uccellino ci ha detto del tuo appuntamento”
specificò l’altra.
“Del mio che?” esclamò lei, arrossendo.
“Della festa a cui sei andata con Fabio!” rispose.
La ragazza abbassò gli occhi sul banco imbarazzata.
“Non era un appuntamento” precisò.
“Eravate soli?”
chiese Laura.
“Sì, ma…”
“Eravate tutti e due preparati, lavati e belli profumati?”
domandò Emma.
“Sì, però…”
“Allora era un
appuntamento!” esclamarono insieme. Rea sbuffò, sentendosi come un
animale da circo.
“No, non lo era” negò.
“Oh, andiamo! Se
lui ti piace che male c’è?” la interrogò la bionda.
“Non mi piace, siamo solo amici!”
Le ragazze
si guardarono divertite.
“Le migliori storie d’amore iniziano così” la
informarono.
La
campanella suonò e loro si sedettero lasciandola ai suoi pensieri. “Non mi piace!” si ripeté poco convinta.
“Tesoro, io esco. Bearne ha trovato una pista per un caso
di droga e oggi devo andare a fare un sopralluogo, mi raccomando tu chiudi
tutto e non far entrare nessuno che non consoci” si raccomandò Jason
prima di salutarla.
“Certo papà, come sempre negli ultimi tredici anni. Tra i
due sei tu quello che deve stare attento, oggi, i trafficanti di droga sono
pericolosi” rispose dandogli un bacio sulla guancia.
L’uomo
sorrise.
“Starò bene, come sempre negli ultimi tredici anni”
promise.
Chiuse la
porta di casa e mise in moto la macchina, lasciando Rea in casa da sola. Ogni
volta che suo padre aveva un’irruzione in programma lei si sentiva ansiosa e
preoccupata. Le era rimasto solo lui e se fosse andato qualcosa storto… no! Non
voleva nemmeno pensarci!
Scosse la
testa per allontanare i pensieri negativi e andò in camera, accendendo il
computer. Dalla sera della discoteca le era venuto un dubbio che voleva
togliersi.
La discoteca
le fece venire in mente Fabio e ciò la fece arrossire. Non era stato un
appuntamento, il loro! No, no e poi no!
“Maledizione!” esclamò, dando un pugno a un
cuscino. Quel ragazzo la stava davvero mandando fuori di testa.
Sbuffò e si
sedette, cercando di far concentrare la sua testa su altro. Qualsiasi cosa sarebbe
andata bene.
Entrò su
Google e iniziò a digitare parole a caso, senza sapere bene come impostare la
sua ricerca, poi i suoi occhi unirono le parole che leggeva, risvegliando il
suo interesse.
Si alzò da
lì felice e motivata: forse poteva far vedere al mondo che poteva riuscire a
venire a capo di un caso da sola.
Si mise a
saltellare per la stanza, cercando il modo di sfogare tutta quella euforia.
Alla fine
prese la pistola e andò in palestra.
Il suo
cellulare squillò in un momento piuttosto critico, ma pensando che potesse
essere suo padre rispose comunque.
“Sì?”
“Rea, ciao! Volevo
chiederti come stai, dopo che ti ho portato in centrale non ci siamo più
parlati” la
ragazza allontanò la cornetta dal telefono e la guardò stupita, come se quella potesse
dargli una spiegazione a quella telefonata.
“Fabio?” chiese incredula.
“Sì, sono io. Ti disturbo?” si preoccupò.
“Oh, no, figurati. Sono sottosopra e basta” rispose
lei. Dall’altro lato del telefono ci fu silenzio.
“Anche io” ammise il ragazzo
imbarazzato. Lei guardò le sue gambe attaccate al quadro svedese sopra la sua
testa e rise.
“Pensavo di essere l’unica a penzolarsi dalle sbarre di
legno” disse.
“Come scusa?”
“Sì, a penzolarsi… no aspetta: ma a cosa ti stavi
riferendo tu?” chiese improvvisamente confusa.
“No, semmai a cosa ti
stavi riferendo tu?”
“Al fatto che sto facendo degli esercizi al quadro
svedese. Erano anni che non tornavo a fare ginnastica e visti gli ultimi
avvenimenti ho pensato che potesse essere salutare ricominciare” spiegò.
“Ah, il quadro svedese,
certo”
ripeté Fabio deluso.
“Che cosa avevi capito, scusa?”
“No, io… niente, lascia
perdere. Torniamo al motivo per cui ti ho chiamato: come va la vita? Cos’era
successo in centrale per aver bisogno di te così repentinamente?”
“Te la ricordi quella ragazza di sabato sera?”
“La matta che urlava ai
muri?”
“Sì, lei. Il mattino dopo io e papà abbiamo cercato negli
archivi della scuola su internet se frequentava l’istituto ed è venuto fuori
che si chiamava Mary e che aveva sedici anni” spiegò.
“Ho una certa paura a
chiederti come mai stai usando il passato per parlare di lei”
“Perché è scomparsa. Da sabato sera nessuno l’ha più vista”
rispose.
Le rispose
un silenzio tombale.
“Ci sei?”
“Più o meno. Sono un po’
sotto shock”
“Io l’avevo detto che quella ragazza era sospetta, ma
nessuno ha voluto ascoltarmi!”
“Percepisco una nota
d’orgoglio nelle tue parole o sbaglio?”
“Sono solo felice di non aver sbagliato”
“Non gongolarti però. Mi
sembra piuttosto tetro essere felici perché qualcuno è scomparso”
“Non gongolo!”
“Come vuoi, hai ragione
tu. Senti per quel discorso del non essere più amici io…”
“Dimenticatelo. Io e te siamo amici, no? Ormai sono a
scuola da qualche settimana e sei l’unico con cui ho legato davvero, non voglio
perdere questa relazione. Basterà stare attenti” lo fermò.
“Davvero?” chiese lui speranzoso.
“Sì. Papà pensa che sia pericoloso vederci, quindi saremo
discreti: parleremo a scuola e ogni tanto ci vedremo fuori. In qualche modo
faremo” assicurò.
“Rea, questo mi rende
felice”
ammise Fabio. La ragazza arrossì e sorrise.
“Ok, adesso torno ai miei esercizi. Ho il sangue alla
testa e dopo devo uscire con papà, quindi devo anche farmi la doccia”
esclamò, dissimulando l’imbarazzo. Era diventata brava a recitare, osservò.
“Va bene, un’ultima cosa:
io prima non stavo parlando di una sbarra” le rispose lui.
“Prima quando? Ehi? Ha attaccato” disse la ragazza
tristemente.
Fece altri
due addominali a testa in giù, notando la fatica che faceva, poi scese. Era
fuori forma e tutti i chili che aveva messo su in quegli anni di fermo non la
aiutavano. Obbiettivo da raggiungere nel minor tempo possibile: perdere peso.
Sbuffò e
andò in bagno per farsi la doccia, togliendosi i vestiti sudati e riflettendo.
A che sbarra si riferiva Fabio?
“Oh, no, figurati.
Sono sottosopra e basta” “Anche io” “Pensavo di essere l’unica a penzolarsi dalle sbarre di
legno” “Alle sbarre di legno?”
L’acqua
calda le entrò in bocca quando la spalancò per lo stupore. No, probabilmente
stava parlando di altro, non era possibile che si riferisse a quello.
Sputò
l’acqua in terra e si pulì la faccia dal sapone, cercando di tornare con i
piedi per terra. Fantasie come quelle erano proibite a un’aspirante poliziotta
come lei, soprattutto visto che stava per mettersi contro a persone
terribilmente pericolose.
Si passò una
mano sulla faccia come era solito fare suo padre e sospirò. Ora era davvero
sottosopra.
Capitolo 12 *** Lieve complicazione tecnica in casa Simon ***
Lieve complicazione tecnica in casa Simon
Per tutto il
mese di aprile sia Rea che suo padre furono impegnati a raccogliere indizi e
testimonianze per arrivare a capo di tutta quella faccenda, ma senza risultati
concreti. Dopo la sparizione di Mary nessun altro ragazzo aveva contratto la
malattia strana che ne aveva colpiti diciotto né qualche studente era stato
rapito, quindi risultava anche difficile cercare di seguire una pista.
“Sono bravi, vero?” commentò un pomeriggio lei,
stiracchiandosi. Erano in ufficio da due ore che studiavano per l’ennesima
volta i sintomi del virus, senza arrivare a niente.
“Chi?”
“Quelli dell’organizzazione che ha fatto fuori tanti
studenti. Dopo che si sono resi conto che qualcuno li stava osservando si sono
calmati, così che non potessimo rintracciarli. Io non so più che fare”
spiegò arrendendosi. Si alzò per sgranchirsi le gambe e fece due passi nella
stanza.
“Sai che sei molto dimagrita? Hai ripreso a fare sport?”
le chiese suo padre guardandola con orgoglio.
“Sì, mi è sembrata la cosa più logica da fare. Se dovessi
entrare in azione e tu non fossi con me avrei bisogno di essere in perfetta
forma fisica, no?” rispose sorridente.
“Ehi, aspetta un attimo. Tu non dovrai fare proprio
niente! Sei nel caso solo perché eri l’unica che potevamo infiltrare a scuola
ma non puoi indagare per conto tuo!” la riprese l’uomo. Rea sbuffò e
guardò in alto.
“Papà non iniziamo di nuovo, va bene? Sai già come la
penso: se c’è da agire agirò, che a te l’idea piaccia o meno!” ribatté.
“Non costringermi a sollevarti dal caso, signorina”
la minacciò lui. Lei lo fronteggiò a testa alta, sfidandolo.
“Cosa vorresti che facessi, eh? Mi sembra di parlare a un
bambino, giuro! Mi hai voluta come aiutante? Hai insistito tanto? Bene, sappi
che io mi sto divertendo a fare questo lavoro e mi piace! Incredibilmente ho
scoperto che mi soddisfa indagare sotto copertura, mi diverto a sparare e lo
sforzo fisico non è così terribile come pensavo e ho anche già deciso che farò
il corso di addestramento per diventare poliziotto, anche senza il tuo
consenso!” lo informò. Jason rimase stupito da quel comportamento e
strinse la macella.
“Cosa diavolo stai farneticando?” chiese. Rea
distolse lo sguardo imbarazzata.
“Il tuo lavoro mi piace, mi è sempre piaciuto. Quando da
piccola venivo con te in ufficio era divertente vedere come ti impegnavi,
quanto eri utile alla società e, soprattutto, mi piaceva il rapporto con la
squadra che avevi intorno. Non ho mai potuto aiutarti in modo particolare, lo
sai: ero troppo debole psicologicamente anche solo per andare a scuola. Adesso,
però, ho capito che questo lavoro fa per me e non me lo porterai via!”
spiegò sicura di sé.
“Rea, stai parlando così solo perché adesso ti sei fissata
con quest’idea, ma sono convinto che entro un mese cambierai idea, come solito,
quindi non fare discorsi senza senso e torniamo a lavorare” la freddò
Jason. Si morse la lingua un attimo dopo, capendo che aveva appena detto una
cosa che non avrebbe dovuto.
Guardò il
viso di sua figlia cambiare e le lacrime bagnarle gli occhi e si sentì un verme
per aver parlato senza pensare.
“N-no, io non intendevo che…”
“Vai al diavolo, papà” gli disse lei, uscendo dalla
stanza.
Si mise a
correre quanto più poteva verso casa.
Se le
ricordava tutte, le volte che aveva cambiato idea.
Nello sport,
nella scuola, nelle scelte di vita… non era mai stata abbastanza coerente con
sé stessa per prendere una decisione e portarla avanti con convinzione. Mai. E
per questo si era sentita spesso inutile e stupida, come se fosse rimasta bambina
per tutto quel tempo.
Ma cosa
poteva farci? Da quando era morta sua madre non aveva fatto altro che passare
da un dottore a un altro per controllare che i suoi crolli psicologici non la
danneggiassero troppo. Fino a dieci anni aveva addirittura preso pillole
ansiolitiche ogni giorno per evitare di avere attacchi di panico devastanti e
poi dopo, quando aveva smesso di assumere il medicinale, si sentiva talmente
impaurita nel lasciare suo padre ogni giorno per andare a scuola che aveva
deciso di studiare a casa. Le superiori le aveva frequentate da autodidatta,
per poi dare l’esame di maturità con un anno di anticipo rispetto al previsto.
Però tutto
questo non l’aveva aiutata a capire cosa voleva dalla vita. Proprio per colpa
della sua paura del mondo non si era mai arrischiata a mettersi obbiettivi a
lungo termine, le bastava essere a casa quando suo padre tornava dal lavoro e
poterlo aiutare se possibile. Era tutta la sua famiglia, non poteva permettersi
di perderlo.
Si fermò
senza fiato sul ciglio della strada, stravolta e disperata. Non se le meritava,
quelle parole, non erano giuste. Lo sapeva, ciò che voleva, e forse l’aveva
sempre saputo: essergli accanto più che poteva.
Una macchina
le accostò vicino e il finestrino si abbassò.
“Serve aiuto?”
Jason corse
fuori dalla centrale con l’intento di trovare sua figlia e chiederle scusa, ma
aveva fatto passare fin troppo tempo prima di decidersi a rincorrerla: era già
scomparsa tra le strade della città.
“Maledizione!” esclamò, infuriato con sé stesso.
Dette un pugno ad un palo della luce, facendosi male alla mano, ma non ci badò.
Il dolore era il suo ultimo problema al momento.
Aveva
parlato senza riflettere e l’aveva ferita: un padre peggiore non esisteva sulla
faccia della terra, ne era certo. Lo sapeva che Rea si era sempre sentita
triste e inutile, sapeva lo sforzo che faceva nell’essere allegra e dinamica
ogni giorno e, nonostante questo, aveva dovuto sparare la prima idiozia che gli
passava per la testa e farle male.
Però non
riusciva ad accettare il fatto che lei volesse seguire le sue orme: non era
tutto semplice come poteva pensare, fare il poliziotto significava anche
sacrificio e impegno oltre che divertimento. Lui lo sapeva bene.
Quando era
morta sua moglie aveva fatto in modo che sua figlia non rimanesse mai sola:
conosceva il dolore causato dalla perdita di un genitore e conosceva
soprattutto le conseguenze psicologiche che comportava, così si era ripromesso
di non farle mai mancare la sua figura accanto. C’era stato quando gli attacchi
di panico non la facevano dormire la notte e gli incubi la facevano gridare
anche alle due del mattino; c’era stato quando aveva deciso di smettere di
frequentare la scuola pubblica per iniziare a studiare da sola; c’era stato
quando aveva preso la patente, aiutandola con la pratica nel percorso alla
centrale. E ci sarebbe stato adesso, quando voleva diventare poliziotto, anche
se quella sua decisione lo faceva stare in pensiero. Se era il suo sogno lui
doveva sostenerla e basta.
“Signor Simon, tutto bene?” gli chiese qualcuno.
Jason si voltò e si trovò faccia a faccia con Emma, che lo guardava curiosa.
“Sì, io sto… sto bene” rispose poco convinto. La
ragazza vide che aveva le nocche della mano rosse e graffiate e si spaventò.
“Ma che ha fatto? Venga, la devo medicare!”
esclamò. Si vedeva che avrebbe fatto il medico.
“No, figurati, non è nulla” disse lui, cercando di
dissimulare il dolore che stava arrivando tutto insieme. Fece una smorfia e lei
comprese che stava mentendo, così lo prese per un polso.
“Abito qua vicino, ho il mio kit del pronto soccorso in
camera, mi segua” ordinò perentoria. L’uomo non ebbe nemmeno la forza di
rifiutare tanto si sentiva triste.
“Grazie per il passaggio, te ne sono grata” disse
Rea. Si torceva le mani nervosamente e guardava un punto indefinito fuori dal
finestrino.
“Figurati, lo sai che quando hai bisogno puoi contare su di me”
le rispose Fabio.
“Sì, lo so” confermò lei.
Il ragazzo
la fissò apprensivo, poi le mise una mano sulle sue per farla smettere con quel
movimento assurdo.
“Mi stai facendo venire l’ansia!” la sgridò divertito.
La ragazza lo guardò, poi fece una piccola risata.
“Scusami”
“Figurati”
Rimasero in
quella posizione per un paio di secondi, poi lei sospirò.
“Forse è meglio se me ne vado, non vorrei che papà
tornasse e si arrabbiasse ancora. Non che mi interessi, visto ciò che è
successo, però evito volentieri una scenata perché non mi sono allontanata da
te” decise aprendo la portiera.
Fabio scese
a sua volta e la raggiunse dall’altro lato della macchina, fermandola prima che
sparisse dentro casa.
“Senti, se hai bisogno di qualcuno con cui parlare voglio che
tu mi chiami, ok?” domandò. Rea sorrise e annuì.
“Sei un amico prezioso, te l’ho mai detto?”
confessò. Lui arrossì e l’abbracciò di slancio, lasciandola senza parole.
“Mi raccomando, dopo fammi sapere com’è andata” si
raccomandò.
“Te lo prometto” rispose lei.
Continuò a
salutarlo finché non fu sparito dietro la curva, poi aprì la porta ed entrò
nello spazioso ingresso di casa sua. Salì le scale stancamente, lanciando il giacchetto
sulla ringhiera.
Era sfinita.
Quando
arrivò in camera spense il cellulare e lo buttò sul comodino, accendendo lo
stereo per fare in modo che i pensieri fossero sovrastati dalla musica.
Si accasciò
sul letto e si mise di nuovo a piangere.
Jason entrò
in casa Stevens quasi senza accorgersene. Era ancora troppo scosso e triste per
ragionare lucidamente e non notò nemmeno che la ragazza era scomparsa in bagno
per prendere il suo kit da pronto soccorso e lo aveva lasciato solo. Litigare
con Rea era sempre stato un motivo di depressione per lui, nonostante fosse
capitato pochissime volte in tredici anni.
“Venga, si sieda qui, devo tenere la ferita ferma per
fasciarla” disse Emma, accompagnandolo al tavolo in cucina e facendolo
accomodare.
“Ok, forse questo le farà un po’ male” lo avvertì.
Gli prese la mano e se la mise sulle gambe, toccando lievemente il punto in cui
c’erano i graffi. A quel contatto l’uomo sobbalzò dal dolore.
“Io l’avevo avvertita”
“No, tranquilla è tutto a posto” minimizzò lui,
sentendo un bruciore lungo tutto il dorso della mano.
“Se mi devo fermare me lo dica, va bene?” si
raccomandò la mora.
“Lo terrò a mente” promise Jason sorridendo.
Quando il
disinfettante cadde sulla ferita lui strinse i denti per non lamentarsi: in fin
dei conti l’aveva colpito volutamente, quel palo della luce. Certo, ora se ne
pentiva, ma del senno di poi son piene le fosse.
Dovette
riconoscere, comunque, che Emma era davvero brava a medicarlo: le sue dita si
muovevano leggere, stringendo la fasciatura quanto bastava perché stesse ferma
ma senza che la circolazione fosse fermata, come invece capitava quando a
medicarti era un’infermiera annoiata del dipartimento di polizia. Ce n’era una
che una volta lo aveva stretto talmente tanto che aveva dovuto tagliare le
bende, per riuscire a toglierle.
“Posso
chiedere come ha fatto a farsi male alle nocche? Sembra che abbia preso a pugni
un muro!”
chiese la ragazza.
“Sì, qualcosa del genere” rispose lui.
“No, non ci credo” rifiutò lei. Jason alzò un
sopracciglio e la guardò.
“Ma dice sul serio? E perché mai ha fatto una cosa del
genere? Era ubriaco?” domandò. L’uomo rise, divertito da
quell’affermazione, e scosse la testa.
“No, non bevo mai non mi piace l’alcool”
“E allora cos’è successo? Problemi al lavoro?”
continuò ad indagare la ragazza.
“Penso di poterti rispondere di sì”
“Il capo è un mostro, eh? La capisco, anche un paio di
nostri professori sono così, li ucciderei se potessi!” disse Emma.
“Problemi nello studio?” gli chiese lui, davvero interessato.
“Sì, siamo troppo stressati per colpa degli esami. Rea non
è in ansia in vista della maturità? Ormai mancano solo due mesi, a scuola non
fanno che ricordarcelo!” spiegò. Fece un piccolo nodo alla fascia e
prese la retina per bloccarla per bene.
“Rea? Ah, no, lei non è mai stata particolarmente
stressata per la scuola, ha sempre… ehm, studiato in modo diligente e
costruttivo” le rispose.
La mora
aggiustò la retina e sorrise soddisfatta.
“Ecco fatto, medicazione finita. Le ho fatto male?”
domandò apprensiva. Jason si guardò la mano, perfettamente fasciata, e scosse
la testa.
“No, affatto. Parlare mi ha distratto dal dolore”
la rassicurò.
“Ne sono felice” sorrise lei.
Si
guardarono per un attimo, poi la ragazza si alzò.
“Vuole qualcosa da bere? Analcolico, naturalmente”
gli propose.
“Solo un bicchiere d’acqua, grazie”
Emma si
avvicinò al mobile con i bicchieri e si allungò a prenderne uno.
“Comunque ancora non ho capito una cosa. Ma lei che lavoro
fa?” gli chiese.
“Sono un… un… aiutante della società” rispose
l’uomo, cercando di non mentire troppo.
“Un aiutante della società? Cioè?”
“Io lavoro per il bene della società” spiegò.
“Come gli spazzini o i vigili?”
“Più o meno”
“Ho capito”
Gli passò
l’acqua e si prese un succo di frutto all’ACE per sé, bevendo direttamente dal
brik.
Rimasero in
silenzio, in imbarazzo.
“Quando deve andare lo dica, la accompagno alla macchina”
esordì infine Emma.
“No, figurati, non ce n’è bisogno. Ho parcheggiato a due
passi da qui” rifiutò Jason. Lei si rabbuiò.
“Ma io lo facevo volentieri” ammise tristemente.
L’uomo sentì un moto di felicità colpirlo al cuore, ma lo ignorò.
“Non mi va di darti più disturbo di quanto non stia già
facendo. Hai detto che ti devi impegnare nello studio e ti sto già portando via
un sacco di tempo “ le spiegò cercando di consolarla.
“Ah, se è per questo non importa: oggi non avevo voglia di
stare sui libri, è una giornata troppo bella fuori” ribatté la ragazza,
illuminandosi di nuovo. Jason comprese che non l’avrebbe fatta desistere, così
sorrise leggermente.
“Allora mi farebbe molto piacere se mi accompagnassi”
le disse.
Guardò
l’orologio per vedere che ore erano e se fosse il caso di tornare a casa:
magari Rea si era un po’ tranquillizzata.
“E, aggiungerei, mi farebbe piacere se mi accompagnassi
ora. È meglio se rientro, ho paura che mia figlia altrimenti si arrabbi”
annunciò, sospirando. Si alzò, stando attento a non battere la mano fasciata al
tavolo, e la guardò.
“Deve proprio andare via così presto?” chiese Emma,
tristemente.
“Temo di sì” rispose lui.
“Va bene, vado a prendere la borsa, mi aspetti qui”
gli disse, uscendo dalla cucina e sparendo nel corridoio.
L’uomo
rifletté un attimo, poi si affacciò alla porta.
“Ehi, senti mi faresti un favore?” le domandò.
“Mi dica pure!” concesse lei, urlando dalla camera.
“Puoi darmi del tu? Mi fai sentire vecchio e non ho
nemmeno quarant’anni!” le spiegò ridendo. Lei riapparve sorridendo.
“Davvero? Quanti anni hai?” s’informò curiosa.
“Quanti me ne dai?” la interrogò. Lei ci pensò un po’,
guardandolo.
“Trentacinque” decise infine.
“Sbagliato di poco. Trentasei” la corresse.
Uscirono in
strada e si misero a camminare fianco a fianco.
“Ma è diventato genitore prestissimo! A soli diciassette
anni!” esclamò lei, colpita.
“Già. Mia moglie era più grande di me di due anni quando è
rimasta incinta e io ho potuto finire la scuola e poi mettermi a lavorare”
le raccontò.
“Capisco”
Rimasero in
silenzio per tutto il tragitto, sorridendo come due scemi. Quando arrivarono
alla macchina Jason si appoggiò alla carrozzeria e incrociò le braccia,
guardandola.
“Questa è la mia” annunciò.
“Ah” rispose Emma, tristemente.
“Vuoi che ti riporti verso casa?”
“Non è una cosa un po’ stupida?”
“A te importa qualcosa se lo è?”
“In effetti no. D’accordo, accetto volentieri il passaggio”
decise lei, salendo al posto del passeggero.
Lui mise in
moto e fece retromarcia, facendo bella mostra dei muscoli quando si tese
indietro per controllare che non passasse nessuno. Emma deglutì in imbarazzo.
“Sai che forse era davvero una cosa stupida?”
osservò l’uomo quando, meno di un minuto dopo, erano tornati al punto di
partenza.
“Io l’avevo detto” lo prese in giro lei.
“Comunque adesso è davvero il momento di salutarci”
le fece presente Jason, indicando la sua casa.
“Mi sa di sì. Grazie per avermi fatto fare pratica con la
sua ferita” disse la ragazza.
“Con la tua
ferita” la corresse lui.
“Sì, giusto, scusa. Con la tua ferita”
“Comunque grazie a te che mi hai medicato senza farmi
sentire dolore” ricambiò l’uomo.
“Sicuro? Posso guardarla di nuovo se vuoi” propose
lei. Quello rise e le avvicinò la mano alla faccia.
“Vedi? Nessun dolore, va tutto bene” disse. Emma lo
guardò sorridendo.
“Sì, vedo” rispose.
Per un
istante i loro sguardi si incrociarono e senza volerlo Jason le mise la mano
sulla guancia, accarezzandola.
“Già, tutto bene” ripeté.
Rimasero in
silenzio e lui avvicinò i loro visi.
“Tutto bene” disse per la terza volta.
Quando
sfiorò con le labbra la sua bocca sentìuna scarica elettrica passargli per la spina dorsale e il cuore iniziò a
battere così forte da fargli quasi male.
Stava
baciando una diciottenne. Non ci poteva quasi credere.
Rimasero
attaccati per un tempo infinito, poi il buonsenso tornò improvvisamente al suo
posto e lui la allontanò di scatto.
“M-mi dispiace, io…” balbettò confuso. Emma rimase
zitta, sotto shock.
“Forse è meglio se vai” le suggerì, accendendo la
macchina. Lei annuì e aprì la portiera, sempre rimanendo in silenzio.
“Ciao, e scusa ancora” ripeté.
Partì
velocemente, con il cuore a mille e la testa annebbiata: aveva baciato un’amica
di Rea! Era sicuramente impazzito, niente da dire.
Arrivato a
casa rimase in auto per un pezzo, con la testa afflosciata sulle mani: quello
era stato davvero un grosso errore.
Rea si era
addormentata alla fine. Aveva pianto talmente tanto che i suoi occhi si erano
chiusi da soli.
Alzò la
testa e si guardò intorno, confusa: quanto tempo era passato? Suo padre era
tornato?
Scese dal
letto e si stiracchiò, cercando di capire quanto era ancora arrabbiata nei suoi
confronti. Un po’ sì, ma molto meno di qualche ora prima.
Spense la
musica e si affacciò alla finestra per vedere se la Mercedes era parcheggiata
nel vialetto.
“Papà!” lo chiamò quando vide l’auto. Notò che l’uomo
era ancora dentro, segno che era arrivato da poco, e che aveva alzato la testa
nel sentirla.
Gli fece
segno di entrare in casa, ma lui sembrava confuso.
Decise di
andare a prenderlo direttamente fuori e si infilò le scarpe al volo, correndo
per le scale. Odiava litigare con suo padre, quindi era meglio risolvere subito,
no?
“Bentornato” lo salutò, cercando di sorridere il
più calorosamente possibile.
“Ciao” ricambiò lui, scendendo di macchina. Aveva
gli occhi vacui.
“Senti, possiamo parlare?” gli domandò la ragazza
piuttosto tesa.
“Scusami, adesso non me la sento, è stata una
giornataccia. Vado a riposarmi un po’” le rispose Jason, superandola ed
entrando in casa quasi senza vederla.
Rea rimase a
bocca spalancata, incredula: non solo l’aveva ferita in maniera quasi
irreparabile ma adesso faceva anche finta di niente. Non se lo sarebbe mai
aspettato da lui.
Decise di
aspettare senza dire altro. Prima o poi le avrebbe parlato, no?
No. La
risposta era stata no e lei aveva accettato malvolentieri la cosa. Erano
passati ormai quattro giorni da quando avevano litigato ma suo padre non
accennava ad uscire dal suo stato di pseudo trance in cui era caduto.
La mattina
non la salutava quando andava a scuola e il pomeriggio non andava più a
prenderla quando usciva. Aveva iniziato a portare la macchina da sola, tanto
aveva notato che anche i suoi compagni lo facevano, però quella soluzione non
le andava bene per niente. Rivoleva il su vecchio papà, quello che rideva e
scherzava, non quello che si muoveva per casa e al lavoro come fosse uno
zombie.
Un
pomeriggio si ritrovò a parlare di quel suo stato d’animo con Fabio. Erano
usciti per prendere un gelato insieme, tanto sicuramente Jason non si sarebbe
accorto di niente.
“Secondo me dovresti dirglielo” le consigliò il ragazzo,
sedendosi su una panchina.
“Ci ho provato, ma non mi ascolta! Mi sembra di parlare
col muro!” rispose lei esasperata.
“Magari ha qualche problema che non riesce a risolvere. Gli
hai mai detto che se ha bisogno tu ci sei?” le domandò lui.
“Lo sa già!”
“Perché lo dai per scontato o perché gliel’hai detto tu?”
La ragazza
strinse le labbra contrariata.
“Lo davo per scontato” ammise a bassa voce.
“Prova a dirglielo, allora. In questo modo saprà che ci sei e
che non è solo” le disse. Lei sbuffò.
“Odio quando hai ragione” confessò. L’amico rise e
le dette una piccola spinta.
“Ma io ho sempre ragione” le fece presene.
“Non ti allargare troppo, ragazzino. Porta rispetto agli
anziani” disse Rea, ridendo.
“Anziani? Tu ed io abbiamo la stessa età!” esclamò Fabio.
Lei si schiarì la voce imbarazzata.
“Ecco, a questo proposito io volevo dirti una cosa già da
un po’. Io sono più grande di un anno” confessò alla fine.
“Rispetto a chi?” chiese lui.
“Rispetto a voi tutti. Tempo fa abbiamo parlato del fatto
che io dovrei dare la maturità con voi, però io ho il diploma già da due anni.
Ho finito le superiori con dodici mesi di anticipo” spiegò arrossendo.
Il ragazzo sorrise: gli piaceva quando le sue guance si coloravano di rosso.
“Anche io ho vent’anni, sai?” disse infine.Lei alzò la testa stupita.
“Cosa? Com’è possibile? Sei ripetente?!” domandò.
“No, non ripetente. Essere ripetente significherebbe che ho
dovuto fare due volte una cosa, mentre io, semplicemente, ho avuto dei problemi
e ho perso un anno” rispose.
“Che genere di problemi?” indagò lei, continuando a
mangiare il gelato.
“Sono stato in coma per sei mesi”
Rea rimase a
bocca aperta, incredula.
“Stai scherzando?”
“Affatto”
“Per quale motivo sei entrato in coma?” chiese la
ragazza. Fabio accartocciò il tovagliolo che era rimasto alla fine del cono e
guardò davanti a sé.
“Perché sono uno stupido, ecco perché. È successo durante
l’estate della mia prima superiore: i miei mi avevano regalato un motorino per
congratularsi di come avevo passato gli esami, con la raccomandazione di
guidare con prudenza e attenzione. Te la farò molto breve: il motorino era
stato truccato da me e da un mio amico affinché potesse andare fino a
novantacinque chilometri all’ora e io, andando a velocità massima, ho preso
male una curva e mi sono schiantato contro un albero. I medici mi avevano dato
per spacciato, pensa un po’” le raccontò.
Rea era
rimasta con il gelato in mano che colava e gli occhi sgranati a fissarlo.
“Caspita, devi avere un corpo molto forte” osservò.
Lui le sorrise.
“Te l’ho sempre detto che io sono grande e vaccinato e che non
ti devi preoccupare per me” le ricordò divertito. La ragazza rise e
distolse lo sguardo, posandolo sul muretto di cemento che c’era lì vicino.
“Se il tuo vuole essere un rimprovero perché non voglio
che tu mi aiuti con le indagini, sappi che non attacca. Mettere in pericolo
qualcuno è la cosa più stupida che potrei fare: il solo fatto che sono
diventata tua amica nonostante il mio buonsenso e papà mi stessero dicendo di
fare il contrario ti dovrebbe far capire che razza di immatura e irresponsabile
io sia” gli disse.
“Devo essere sincero: a meno che tu non mi avessi respinto a
chiare lettere dicendomi che non volevi assolutamente avere nessun rapporto con
me perché io non ti piacevo, non avrei mai rinunciato a diventarti almeno amico”
le confessò serio. Lei lo guardò di sbieco.
“Volevi diventare mio amico?” gli domandò col cure
che batteva forte. Fabio annuì.
“Mi facevi tenerezza e volevo esserti d’aiuto, o almeno
all’inizio era così. Poi, dopo che hai iniziato a far uscire fuori il tuo vero
carattere e che ti sei dimostrata una ragazza forte e di spirito mi sono
sentito sempre più attratto dalla tua personalità” ammise. Rea deglutì a
stento.
“Attratto… da me?” chiese. Il ragazzo arrossì e si
schiarì la voce.
Il gelato
che aveva in mano si sciolse, cadendo sui suoi jeans puliti e facendola
sobbalzare.
“Oh no!” esclamò, cercando di togliere la macchia.
Lui rise e la prese in giro.
“Sei un’imbranata!” le disse.
“Maledizione, non ho detto a papà che uscivo e lui sa che
io non mangio mai il gelato da sola! Quando arrivo a casa mi ammazza!”
si disperò.
Si alzarono
entrambi per tornare alla macchina, continuando a parlare tra di loro.
“Fammi sapere se succede qualcosa, ok?” si raccomandò
lui.
“Ok!” rispose lei, mettendo in moto.
Era riuscita
a rientrare prima di suo padre. Corse in camera e si mise un paio di pantaloni
della tuta, poi prese in mano i jeans sporchi e andò nella stanza della
lavatrice.
Quando fu
per le scale trovò Jason che saliva lentamente i gradini e si bloccò col cuore
a mille.
“C-ciao” lo salutò titubante.
“Ciao” ricambiò lui, sorpassandola senza notare il
suo comportamento.
Rea si
stupì: di solito quando lei nascondeva qualcosa suo padre lo notava subito e
deduceva cos’era successo.
Mise i
pantaloni a lavare e poi si appoggiò al banco da stiro, pensierosa: quella
situazione era diventata insopportabile. Decise di tentare il tutto e per tutto
e andò nella camera da letto dell’uomo.
“Ti disturbo?” gli chiese prima di entrare. Lui era
sdraiato sul materasso con un braccio sul viso. Annuì.
“Ero venuta solo per dirti che oggi sono uscita con Fabio
di nascosto e che gli ho detto tutto quanto sull’indagine. Inoltre, non ho mai
smesso di essergli amica, l’ho semplicemente incontrato senza dirtelo”
confessò tutto d’un fiato.
“Brava” le rispose senza ascoltarla. Brava. Brava.
Brava…
“Papà, vai al diavolo” gridò Rea, triste e ferita.
Si sentiva presa in giro, tremendamente sola e inutile. Jason alzò la testa e
la guardò, vedendola davvero per la prima volta da cinque giorni. E vide una
cosa che non gli piacque affatto: sua figlia piangeva. Piangeva disperata.
“Ehi, tesoro che succede?” gli chiese preoccupato.
La ragazza rise amaramente e si voltò verso la porta.
“Sei un cretino, papà, e non mi interessa cosa ti sia
successo perché tanto sarebbe inutile anche solo chiederti di parlarmene: non
me lo diresti! Non sei più tu e io questo papà qui lo odio! Chiamami quando sarai
tornato a essere te stesso, ti va?” gli rispose.
“Ma Rea…”
“Sta’ zitto” lo bloccò lei, uscendo da lì quasi
correndo.
Si chiuse in
camera sua piangendo e recuperò le pillole dal cassetto del comodino,
prendendone tre tutte insieme.
La
stanchezza non tardò ad arrivare e lei se lo aspettava: erano medicine che come
controindicazione davano sonnolenza e mal di testa, ma le aveva prese apposta.
Si rese
conto che ne era diventata quasi schiava, però non le importò niente al
momento.
Si sdraiò
sul letto e chiuse gli occhi, sperando che, quando si fosse svegliata, tutto il
suo mondo fosse tornato allo status quo.
A scuola Rea
era silenziosa e apatica da qualche giorno, ormai, e Fabio iniziò a
preoccuparsi. Non riusciva a tirarla su di morale in alcun modo né ad esserle
d’aiuto e si sentiva inutile.
“Le scale mobili sono chiuse” esclamò un giorno,
avvicinandosi a lei durante la ricreazione. La ragazza, sorpresa, alzò la testa
dal banco e distolse lo sguardo dalla finestra.
“Cosa?” chiese, confusa.
“Non lo so, era una frase come un’altra, cercavo solo di
attirare la tua attenzione” le spiegò lui, facendo spallucce. Per la
prima volta da quando erano andati a prende il gelato lei sorrise.
“Grazie” gli disse.
Il ragazzo
arrossì e la guardò per la prima volta davvero: la sua faccia era orrenda.
Aveva gli occhi rossi e le occhiaie scure, come se non dormisse da un po’, e
era pallidissima.
“Senti, ma tu la notte ti riposi?” le domandò
preoccupato.
“Per quanto riesco sì, anche se non riesco a dormire
tranquillamente. Mi sveglio mille volte e al mattino sono comunque tanto stanca”
“Non avrai preso qualche malanno? Influenza stagionale o
qualcosa di simile?” ipotizzò l’amico. Le mise una mano sulla fronte per
sentire se era calda, ma quel contatto, per qualche strana ragione, fece
arrossire Rea, che scosse la testa e si allontanò imbarazzata.
“Io non mi ammalo mai!” esclamò, coprendosi la
fronte per evitare che lui la toccasse di nuovo.
Fabio la
guardò senza capire, poi sorrise.
“Se lo dici tu allora mi fido”
Lei distolse
lo sguardo, sentendo il cuore battere forte. Abbassò le braccia e le appoggiò
al banco.
“Però tutti questi problemi con papà… il fatto che lui non
voglia parlarmi… l’indagine che non procede… io… i-io…”
Le lacrime
sgorgarono prima che potesse fermarle e si ritrovò a singhiozzare disperata.
“Io non ce la faccio più” ammise. Il ragazzo rimase
stupito da quell’esternazione di fragilità, lei aveva sempre cercato di
nascondersi dietro a una corazza piuttosto che far vedere se soffriva e quanto
soffriva.
“Non capisco perché papà mi odi, non riesco ad essere
utile nella risoluzione del caso, non sono in grado nemmeno di stare lontana da
voi tutti per salvarvi la vita! Sono così debole e inutile!” confessò,
coprendosi il viso con le mani. Si vergognava ma non riusciva a smettere di
piangere.
“No, non è vero che sei debole e inutile. Dai, lo so che non
sopporti i moti affettivi, ma fatti abbracciare” la consolò Fabio. Lei
si gettò tra le sue braccia, stringendo la camicia della divisa.
“Aiutami, ti prego” lo implorò. Lui sorrise e le
accarezzò i capelli.
“Cercherò di fare il possibile” promise.
Quando il
telefono squillò in casa Simon, Rea quasi scivolò nei vestiti che stava per
mettere in lavatrice, allungando una mano per afferrare il cordless che aveva
appoggiato sulla tavola da stiro.
“Pro… maledetta tinozza! Pronto?” rispose.
“Rea? Te la stai prendendo
con degli oggetti inanimati?” chiese Fabio dall’altro capo.
“No, sono loro che se la prendono con me!” ribatté
lei.
“Allora tutto ha più senso”
“Invece di sfottere dimmi che c’è. Sono impegnata in una
discussione seria con la biancheria sporca” intimò, calciando la tinozza
con rabbia.
“Non mi soffermerò sulla
tua ultima affermazione, promesso. Comunque, ti ho chiamata per chiederti se
hai voglia di venire con me a fare un giro” le spiegò, ridendo sotto
ai baffi.
“Dove vorresti andare? Non mi va il gelato”
“Mi credi così scontato da
portarti due volte di seguito a prendere il gelato? No, ho trovato qualcosa di
meglio”
le disse.
Rea guardò
il corridoio vuoto della sua casa: quel posto era diventato una prigione vera e
propria da quando aveva litigato con suo padre. Praticamente l’uomo era rimasto
in ufficio da allora.
“Dove ci troviamo?”
Quando
arrivò davanti al liceo la ragazza si tolse gli occhiali da sole e si guardò
intorno. Non le pareva che ci fosse niente di strano, nonostante Fabio le
avesse detto il contrario.
Lo vide
arrivare di corsa e si appoggiò alla macchina con le braccia incrociate.
“Sei in ritardo” gli disse. Lui si appoggiò sulle
gambe per un secondo, poi alzò la testa e la guardò sorridente.
“Mi perdonerai, fidati” le assicurò. La ragazza lo
guardò confusa.
“Posso chiederti che cosa stai macchinando oppure andiamo
avanti a indovinelli per i prossimi due giorni?” domandò.
“Dobbiamo solo aspettare qua” rispose lui.
“Fermi in questa posizione? È un po’ scomodo, in effetti”
considerò Rea.
“Ti ricordi che ti avevo promesso di aiutarti?” chiese
Fabio, ignorandola completamente.
“Sì, me ne ricordo” ammise lei, arrossendo al
pensiero.
“Sappi che io mantengo sempre le mie promesse! Ieri mattina,
mentre uscivamo da scuola, ho visto che Antonio stava parlando in modo
concitato e sospetto con un ragazzo di quarta che aveva lo sguardo piuttosto
vacuo. Lo scuoteva e il suo tono di voce sembrava piuttosto arrabbiato”
le raccontò. Sorrise soddisfatto.
“Li ho spiati un po’, origliando cosa dicevano, e indovina chi
sta arrivando per incontrarsi e discutere di un affare spigoloso, parole sue”
Rea non
riuscì ad aprire la bocca per rispondere perché il bidello era apparso alla
fine della strada, camminando a passo di marcia. Il suo sguardo non presagiva
niente di buono.
Il ragazzo
la tirò dietro la macchina, abbassandosi per coprirli.
“Poi dimmi che non ti faccio mai i favori” le sussurrò.
Rea gli fece
una linguaccia e sorrise.
“Diciamo che pagherò col sistema del baratto, va bene?”
ribatté. Lui annuì felice.
“Guarda che l’hai detto eh” le disse.
In quel
momento un ragazzo basso e tarchiato apparve da dietro l’edificio, con gli
occhi spiritati e le mani che tremavano.
“Siamo sicuri che stia bene?” chiese Rea,
preoccupata.
“Zitta, ci sentono!”
Antonio il
bidello si avvicinò allo studente, camminando con il suo solito passo legnoso e
la sua figura alta e magra. Sembrava un palo della luce con i piedi, considerò
la ragazza, trattenendo una risata.
“Cosa dicono?” domandò, cercando di sporgersi per sentire.
“Non li sento, ma di sicuro non parlano di shopping”
rispose il ragazzo. In effetti i toni della discussione erano parecchio accesi,
si vedeva anche da lontano: l’uomo era diventato paonazzo e si sbracciava come
un matto, sbraitando a bassa voce, mentre
il ragazzino sembrava che quasi non lo sentisse e che guardasse davanti a sé,
perso nel vuoto.
Alla fine
Antonio gli dette uno schiaffo e Fabio e Rea trattennero il respiro,
spaventati. Lo studente non parve minimante scosso.
“Se scopro
di nuovo una cosa del genere non rispondo di me, capito?” gridò il bidello,
andandosene infuriato.
Passarono un
bel po’ di minuti prima che i due riuscissero ad alzarsi da dietro la macchina
e a parlare.
“L’ha… minacciato?” domandò lui, incredulo.
“Penso di sì” rispose lei, controllando che anche
l’altro se ne fosse andato.
“Cavolo, bella storia!” esclamò Fabio, esultando.
“Meno male che sei felice, io sono solo più confusa”
disse Rea, sospirando e salendo in auto. Lo guardò.
“Vuoi un passaggio?” gli chiese. Il ragazzo aprì lo
sportello e si mise a sedere.
“Direi di sì”
Mentre
faceva retromarcia ed usciva dal parcheggio, entrambi rimasero zitti,
pensierosi. Alla fine fu lui a rompere il silenzio.
“Giuro, non credevo che sarebbe andata a finire così”
disse. Lei strinse il volante e scosse la testa.
“Aspetta, sto iniziando a ricordare” esordì. Aveva
la sensazione di dover fissare qualcosa in mente per collegare le informazioni
di quel pomeriggio.
“La mattina che papà venne a scuola a parlare col preside
vidi che Antonio stava discutendo con una ragazzina. E… e…” si stava
sforzando fino al limite, ma proprio non riusciva a capire.
Accostò la
macchina al lato della strada e si mise una mano sulla testa.
“Maledizione, sono sicura che ci sia di più”
esclamò.
“Ma cosa stai cercando di ricordare?” le chiese Fabio.
“Non deconcentrarmi, zitto!” gli ordinò lei,
continuando a battersi la mano sulla fronte.
Quella
ragazzina aveva qualcosa… qualcosa…
“Oh, ma certo! Quella che gridava al muro, la scolara
scomparsa! Mary! Quella mattina Antonio stava discutendo con Mary di qualcosa e
quando io mi sono avvicinata lei se n’è andata impaurita, con lo sguardo colpevole!”
esultò. Fabio sobbalzò, sorpreso: non si aspettava quel grido.
“Mi hai spaventato!” si lamentò.
“Quando ho seguito Mary l’ho fatto perché inconsciamente
me la ricordavo! Antonio è la chiave! Lui sicuramente sa qualcosa!” gli
disse, ignorando completamente il suo lamento.
Il ragazzo
sorrise nel vederla così soddisfatta di sé e la guardò rapito.
“Probabilmente dietro c’è una storia illegale o di droga
o… o…” la ragazza si voltò e lo vide fissarla. Arrossì e si bloccò.
“C-che c’è?” domandò imbarazzata.
“Niente, sono solo felice del fatto che sei di nuovo viva. Mi
ero preoccupato molto l’altro giorno” le rispose.
Rea distolse
lo sguardo e sorrise.
“Sì, lo so. Penso sia merito tuo, giusto?” dedusse.
“Esattamente e mi devi qualcosa” le ricordò.
“Ah, giusto. Hai già un’idea o devo aspettare un paio di
giorni? Non penso di avere molti soldi a disposizioni per comparti qualcosa ma…”
Le parole le
morirono in gola quando si ritrovò le labbra di Fabio a due centimetri dalle
sue.
“No, stai tranquilla, non importa” le sussurrò.
La baciò
delicatamente, tanto che Rea quasi non lo sentì. Il cuore le stava scoppiando
in petto, le mani le tremavano e aveva voglia di piangere. Non le era mai
capitato che un bacio fosse così intenso.
Quando lui
si staccò la ragazza non ebbe nemmeno il tempo di aprire gli occhi che la
portiera della macchina si era già aperta, facendo entrare l’aria fresca e
soleggiata di inizio maggio.
“No, non… tu… dove…?” balbettò lei.
“Non voglio che si rovini qualcosa con le parole sulla tua
indagine, mi voglio ricordare questa giornata così. Ci vediamo domani!”
le spiegò, sorridendo e andandosene.
Prima di
riuscire a guidare di nuovo lucidamente Rea dovette respirare cinquanta volte e
mettersi una mano sul cuore per rallentare il battito.
Alla fine
tornò a casa, sicura che niente avrebbe potuto rovinarle la giornata.
Emma aveva
resistito all’impulso di chiamare Jason per tutto quel tempo, capendo da sola
che avrebbe fatto peggio ad avvicinarsi piuttosto che a stargli lontana.
Però
soffriva, tremendamente.
Era
sbagliato innamorarsi di un adulto, soprattutto se quell’adulto era il padre di
una tua amica. Si era messa a passeggiare per strada con le mani in tasca,
cercando di pensare a qualcos’altro. Agli esami, in particolare.
“Tanto è inutile” si disse, calciando un sasso.
Lo fece
rotolare per un po’, obbligandosi a non pensare più a Jason. Però quelle labbra
e quelle mani forti che l’avevano accarezzata con tanta dolcezza… no, proprio
non riusciva a toglierselo dalla testa.
Si mise una
mano sugli occhi, tentando di non piangere.
Alla fine si
fermò, incapace di proseguire.
“Non ce la faccio più” sussurrò disperata.
“Problemi?” domandò una voce dietro di lei. La
ragazza abbassò la testa imbarazzata e la scosse prepotentemente.
“No, niente, io… oh!” sobbalzò quando si ritrovò
davanti Jason. Sorrideva tristemente.
“Pare che non riesca ad evitarti” ammise. Lei
cercava dentro di sé qualcosa da dire, ma non riusciva a trovare niente che non
risultasse patetico.
Si
guardarono per un po’, impacciati.
“Ti va di fare due passi? Vorrei parlarti” le
propose l’uomo.
“Sì, va bene” accettò lei.
Con le mani
in tasca, Jason la precedette.
Il silenzio
sceso tra di loro era pesante e ricco di tensione ed entrambi volevano rompere
quella barriera che si era creata senza che riuscissero a impedirlo, ma non ne
erano capaci. Riuscivano solo a rendere tutto più difficile con la loro paura.
Alla fine
Jason sospirò e si bloccò.
“Così non va” disse.
“Che c’è? Ho fatto qualcosa io?” domandò Emma,
impaurita. Lui rise lievemente.
“No, figurati, tutto questo casino l’ho fatto io”
le rispose.
Prese un bel
respiro e la guardò.
“Hai da fare? Se vieni da me risolviamo la questione nel
modo meno doloroso per tutti”
Mezz’ora
dopo erano davanti ad una tazza di tè fumante, tesi e intirizziti ma comunque
abbastanza sicuri che una volta usciti da lì sarebbero tutta quella situazione
sarebbe cambiata.
“Mi dispiace” disse infine lui. Se lo teneva dentro
da quando l’aveva baciata ed era giusto tirare fuori tutto, adesso.
“Mi dispiace. Non volevo baciarti quel pomeriggio io…
cioè, no, non dovevo baciarti, perché se non avessi voluto non l’avrei fatto e
non… insomma…” le parole adesso gli venivano fuori tutte insieme, però.
Quando si
rese conto di star parlando a sproposito si bloccò, con la voce ancora in gola.
Cosa si
poteva dire di preciso in una situazione simile? Ciò che stava dicendo era
stupido e insensato, parole che messe in fila non creavano una frase che aveva
anche solo lontanamente un senso nemmeno se ad ascoltarle era un ubriaco.
“Ok, aspetta” le disse, mettendo una mano davanti
alla faccia e riflettendo.
“Ciò che cerco di dire… io volevo…”
“Lo so” lo interruppe Emma, guardando il tavolo per
paura di alzare gli occhi.
“Come?” chiese Jason, senza capire.
“So che cosa vuoi dire, lo so da quel pomeriggio. È stato
bello, vero? Parlo del bacio e di quel pomeriggio passato assieme. I-io mi sono
tanto divertita, sai? Come non mi capitava da un pezzo, ormai. Tra gli esami, i
problemi con gli amici e tutte le scemenze che mi danno qualche preoccupazione,
stare con te è stato divertente e salutare. Prometto che non dirò niente a Rea,
né ti disturberò. Sono stata brava negli ultimi giorni, no? Non ho chiamato mai
ed ho resistito alla tentazione di venire qui!” esclamò.
Le tremavano
le mani ma non cedette al pianto.
“E poi farò in modo di non passare più davanti alla
centrale, visto che anche tu passi di lì e se non mi vuoi vedere ti capisco”
concluse.
Jason era
rimasto in silenzio, incapace di parlare. Non ci riusciva, semplicemente: dire
una cosa del tutto diversa da ciò che si prova è tremendamente difficile.
Emma attese
con gli occhi chiusi.
“No” esclamò l’uomo alla fine. Il suo tono di voce
era stato stranamente fermo e sicuro, nonostante dentro si sentisse debole e
impaurito.
“Eh?” chiese lei.
“Ho detto di no” ripeté lui. Batté le mani sul
tavolo e si alzò a testa bassa.
“M-mi dispiace, non volevo disturbarti, io non…”
“Non mi interessa. Io non ce la faccio, non sono così
forte da decidere di starti lontano, perché io voglio conoscerti. È sbagliato.
È stupido. È masochista. È autolesionista. È irresponsabile. È egoista. Però
non ce la faccio proprio” disse.
La ragazza
non sapeva come prendere quelle parole: le stava dicendo che voleva uscire con
lei? O che voleva smettere di parlarle? Cosa voleva da lei di preciso?
“Inoltre, Rea mi odierà. Odierà il fatto che mi sono
invaghito di una sua amica dopo averla vista due volte e mezzo, odierà il fatto
che ci esco insieme, odierà me e te” aggiunse.
“Tanto, sono ormai dei giorni che non mi parla più, penso
che peggio di così non potrebbe andare” considerò.
Alzò la
testa e la guardò, tremando.
“Però tu… in qualche modo… per qualche motivo
inspiegabile… con chissà quali dinamiche… mi piaci, tutto qui” confessò.
Si sentiva
un cretino bello e buono: stava parlando con una diciannovenne, sant’iddio, che
cosa gli prendeva?
Si rese
conto di ciò che aveva detto solo un paio di secondi dopo e si allontanò dal
tavolino imbarazzato.
Emma rimase
in silenzio, confusa. Cosa poteva rispondere?
“Io voglio bene a Rea” esordì.
“Le voglio davvero bene” confermò. Lo prese per un
braccio e lo fece voltare.
“Però anche tu mi piaci!” esclamò.
“E voglio conoscerti meglio!” aggiunse.
Si fissarono
per un po’, senza sapere cos’altro dire. Alla fine si baciarono.
Quando Rea
entrò in casa camminava a tre metri da terra. Era felice, era allegra, era
orgogliosa, era soddisfatta, era… era semplicemente innamorata, considerò.
Arrossì a quel pensiero ma continuò a sorridere.
“Sono a casa!” annunciò, buttando sul divano il
giacchetto e togliendosi le scarpe.
Suo padre si
affacciò dalla cucina, rosso in volto e col fiatone.
“Ciao” la salutò. Nemmeno lui e tutta la rabbia che
provava nei suoi confronti riuscirono a scalfire il suo buonumore.
“Vado in camera!” disse la ragazza, salendo gli scalini
a due a due. Voleva mettere per iscritto ciò che aveva visto quel pomeriggio e
poi voleva mandare un messaggio a Fabio.
Quando fu
nella sua stanza si rese conto che aveva lasciato il cellulare nel giacchetto e
sbuffò. “Non ho voglia di scendere” pensò
stancamente.
Le
alternative erano non mandare il messaggio o chiamare suo padre. “Nessuna delle due” decise.
Tornò di
nuovo al piano di sotto e andò direttamente al divano.
Si bloccò
nel trovarsi davanti una Emma imbarazzata.
“Ehi, che ci fai tu qui?” domandò confusa. La mora
sobbalzò e si mise a balbettare un paio di parole senza senso.
“Ti doveva portare degli appunti scolastici”
s’inserì suo padre, arrivando con un vassoio di pasticcini.
“Appunti?” ripeté Rea. Non ricordava di aver
chiesto niente a nessuno.
“S-sì, di… matematica” affermò l’ospite, prendendo
un quaderno dalla sua borsa.
“Ma te li avevo chiesti io? Non me lo ricordo”
chiese lei, riflettendo.
“N-no, non me li avevi chiesti, ma io passavo di qui e mi
sono ricordata che l’altro giorno parlavi con Fabio del fatto che non capisci
matematica e ho pensato di portarteli” spiegò.
“Ah, grazie” disse la ragazza. Prese il quaderno
con un po’ di titubanza, sentendo che c’era qualcosa che non tornava.
“D-di niente” rispose l’amica.
Scese un
silenzio teso, che Rea non riusciva a capire.
Alla fine si
schiarì la gola e sorrise.
“Io ho da fare, mi spiace non poterti intrattenere di più.
Con permesso” la salutò.
“Oh, figurati, me ne vado anche io” ribatté Emma,
alzandosi.
“Papà, pensaci tu ok? Ciao” disse la ragazza,
correndo al piano di sopra.
Sicuramente
le era sfuggito qualche particolare ma non importava: adesso voleva solo
mandare un messaggio a Fabio e poi buttare giù un riassunto di ciò che aveva
scoperto durante l’indagine negli ultimi due mesi.
“Non ci crederai mai!” esordì una mattina Rea,
arrivando in classe di corsa. Fabio alzò lo sguardo dal libro che stava
leggendo e la fissò.
“Tuo padre ti ha chiesto scusa?” provò ad indovinare,
vedendola così euforica. Lei si rabbuiò.
“I miracoli non accadono, mi spiace” rispose.
“Ok, non ti intristire però. Che è successo, quindi?”
La ragazza
tornò ad essere sovraeccitata e abbassò la voce, avvicinandosi a lui.
“Ti ricordi quel ragazzo che abbiamo visto parlare con
Antonio?” gli chiese.
“Sì ed ho l’impressione che questa conversazione non finirà
bene” annuì l’amico, sospirando.
“Pare che sia sparito sabato sera, dopo essere uscito per
andare ad una festa” gli spiegò. Si sentiva un po’ in colpa nell’essere
così emozionata perché uno studente (un ulteriore studente) era sparito, però
questo significava che poteva arrivare alla cima della piramide e trovare il
colpevole.
“Perché mi sembri felice che questo sia successo?” le
domandò Fabio, guardandola male. Lei arrossì.
“Non sono felice, solo che… quando l’ho saputo ho capito
che c’è un elemento di collegamento tra questa sparizione e quella di Mary”
ribatté.
“Un elemento di collegamento?”
“Sì, qualcosa che li accomuna. Prima di scomparire
entrambi hanno parlato con Antonio, il bidello, e in entrambi i casi sembravano
assenti e privi di qualsiasi presa sulla realtà” spiegò.
“Aspetta, non ho capito il secondo punto. Che vuol dire che
non avevano presa sulla realtà?”
“Ok, vediamo di farti capire cosa sto dicendo. Quando
abbiamo trovato Mary, questa presentava una forma di alienamento molto
avanzata, non rendendosi conto di ciò che le succedeva intorno e del fatto che
stava gridando contro un muro. Ci sei fin qui?” gli chiese. Lui annuì.
“Ora, l’altro giorno, quando quel ragazzo stava parlando
con Antonio i suo occhi erano vacui e anche quando lui l’ha schiaffeggiato non
si è minimamente scosso. Non aveva il senso di quello che stava capitando,
probabilmente per lui avrebbero anche potuto essere in Uruguay, non se ne
sarebbe accorto” spiegò. Fabio ci pensò un attimo, poi si illuminò.
“Erano stati drogati!” esclamò. Rea gli fece cenno di
abbassare la voce e si guardò intorno.
“Non gridare, ci sentiranno!” gli disse.
“Scusa, hai ragione”
“Comunque è la stessa conclusione a cui sono arrivata
anche io: probabilmente erano drogati quando li abbiamo visti noi, il che
significa solamente che il bidello c’entra qualcosa, sicuramente!”
confermò la ragazza. Le brillavano gli occhi, notò lui, e sembrava davvero
felice.
“Allora ti darò una mano” decise. Lei rimase un attimo
ferma, incredula.
“Sei drogato anche tu?” gli chiese, controllandogli
gli occhi per vedere se le pupille avevano una dimensione normale.
“Ma no! Che domande idiote! Semplicemente non ti lascerò
andare da sola” le rispose.
“Pensa un po’, io non ti farò venire con me” ribatté
Rea, incrociando le braccia.
“Potremmo andare avanti con questa discussione all’infinito e,
dato che nessuno dei due rinuncerà, penso che sarebbe inutile, quindi cambiamo
discorso” decise Fabio.
“Che cosa? Tu sei proprio un…”
Lui la baciò
per zittirla, sorridendo divertito.
“Un idiota? Uno scemo? Un cosa?” le chiese. La ragazza
arrossì imbarazzata e si sedette al suo posto, guardandolo male.
“Un cretino” sussurrò, vedendo che la professoressa
stava entrando in classe.
Laura aveva
notato già da qualche tempo che suo fratello e la nuova arrivata stavano sempre
insieme a parlare da una parte, però non ci aveva dato quasi mai peso. Almeno
fino a quella mattina, quando sentì che lui gridava “Erano
stati drogati!”. Era sobbalzata, col cuore a mille, e li aveva guardati.
Non le
piacevano affatto, decisamente no.
Quando
uscirono da scuola si avvicinò sorridente a Rea.
“Ciao” la
salutò.
“Ciao” ricambiò la ragazza.
“Come va la
scuola? Ormai è da un po’ che non parliamo, con tutto questo studio non ne
abbiamo mai avuto il tempo” le disse.
“Mi sono ambientata bene e devo dire che i nostri compagni
sono tutti molto simpatici e disponibili” rispose, ricambiando il
sorriso. Con lei doveva continuare a fare la recita della ragazza simpatica,
dolce e timida.
“Mi fa piacere.
Ti andrebbe di venire a una festa sabato sera? Ci andiamo sia io che Emma e ho
pensato che magari avresti voluto venire anche tu” le propose la bionda.
Lei scosse la testa.
“No, meglio di no. Ho tanto da studiare e non credo sia il
caso di andare a fare baldoria, ma grazie per il pensiero” rifiutò,
aprendo la macchina.
“Ora scusami, ma devo tornare a casa, papà mi aspetta. Ci
vediamo!” la salutò, salendo e mettendo in moto.
Laura la
guardò andare via e la sua espressione mutò subito, dal sorriso alla smorfia in
un secondo. Stupidissimo bidello che non riusciva a tenere la bocca chiusa, ci
avrebbe scommesso quanto voleva che era tutta colpa sua.
Decise di
prendere provvedimenti.
Emma, nel
frattempo, non faceva che stare attaccata al cellulare, con il quale sentiva
Jason. Dato che mentre lavorava non si potevano chiamare, avevano deciso di
mandarsi dei messaggi.
Non riusciva
a fare a meno di pensarlo e di desiderare con tutta sé stessa di poterlo
rivedere prima possibile, ma sapeva anche che ciò era davvero molto poco
possibile: se Rea li avesse scoperti sarebbe scoppiato un putiferio.
Si era
arresa, quindi, all’idea che si sarebbero rivisti solo quando lei avesse avuto
una scusa per andare dalla ragazza a studiare, ma inaspettatamente l’uomo le
mandò un messaggio con l’invito ad uscire sabato sera. “Sempre se non hai niente da fare”
specificava alla fine dell’sms. Lei quasi non
riusciva a crederci e si mise a gridare di gioia sul letto, calciando il libro
di matematica sul quale stava facendo finta di studiare.
La sua
risposta arrivò veloce e precisa. “Dammi un orario e ci sarò”
“Stai uscendo?” chiese Rea, stupita. Suo padre si
stava preparando di tutto punto, con completo di camicia nera, jeans scuri,
profumo e capelli pettinati e aggiustati.
“Sì, una cena di lavoro” rispose lui, arrossendo.
“Da quando alla polizia fate le cene?” indagò la
ragazza. Ultimamente era sicura che suo padre le nascondesse molte cose, anche
se non avrebbe saputo dire cosa.
“Da quando Bearne ha voglia di bistecca e sua moglie non
gliela cucina” spiegò Jason, ridendo.
“Allora è plausibile”
Non avevano
più affrontato l’argomento “Rea-vuole-diventare-un-poliziotto” né, in realtà,
nessun altro argomento: erano diventati due estranei che convivevano.
“Senti papà, quando torni possiamo parlare?”
domandò lei, tristemente. L’uomo vide la sua espressione nello specchio e
sorrise.
“Risolveremo tutto, tesoro, sta’ tranquilla” le
promise, dandole un bacio sulla testa.
Lei si
rianimò a quel gesto di affetto.
“Allora ti lascio preparare. Divertiti e non fare tardi,
mi raccomando” lo salutò, andando nella sua camera.
Lui la
guardò sparire in corridoio e sospirò: si stava rivelando stressante
nasconderle di Emma. Forse avrebbe potuto provare a dirglielo, pensò. O forse
no, suggerì la parte di lui che non era andata in ferie con gli altri neuroni.
Scosse la
testa e tornò ad aggiustarsi la giacca, capendo che quella situazione era una
bomba ad orologeria, pronta a scoppiare in ogni momento.
Rea sospirò
e lesse per l’ennesima volta il riassunto che aveva fatto della situazione.
Dodici ragazzi morti, sei finiti in ospedale, tre rapiti e un bidello quanto
mai sospetto. Bel quadro.
Si
stiracchiò annoiata e invidiò la cena di suo padre. Forse entro qualche anno
Bearne avrebbe invitato anche lei ad andare con loro, quando la sua
appartenenza alla polizia fosse stata assicurata.
Senza dirlo
a Jason aveva preso dei moduli da riempire per iscriversi ai corsi base per
diventare poliziotta; li aveva nascosti dentro un cassetto nel comodino e ogni
tanto li guardava sognante. Già si immaginava mentre lavorava come suo padre ad
un caso, risolvendolo con maestria e ricevendo gli applausi dell’ufficio. Sì,
quella era decisamente la vita che voleva vivere.
L’unico
problema era che non voleva ancora prendere nessuna decisione senza prima aver
risolto quella situazione con lui. Le faceva male sapere che nessuno dei due
aveva ancora fatto un passo verso l’altro, per questo aveva chiesto di parlare
quando fosse rientrato. Se non si decideva a muoversi rischiava che quel
problema non venisse mai superato, quindi niente
orgoglio e facciamo la prima mossa, si era detta.
Si alzò
dalla sedia girevole, allontanandosi dal computer, e si stropicciò gli occhi.
“Voglio fare qualcosa!” si lamentò.
Prese il
telefono e guardò l’ora: le nove e mezzo. Era prestissimo per essere sabato.
Cosa le
aveva detto Laura? C’era una festa da qualche parte, giusto? Magari faceva
ancora in tempo ad andarci.
Cercò in rubrica
se aveva il numero della ragazza, ma si ricordò quasi subito di non averglielo
mai chiesto. Le uniche persone di cui aveva il cellulare erano Emma e Fabio.
Premette
l’invio di chiamata.
“Pronto?”
“Pronto, ciao Emma, sono Rea! Ti disturbo?”
“N-no, dimmi pure”
“Volevo sapere… ecco, in verità è una cosa imbarazzante”
“Hai bisogno nello
studio?”
“No, no, niente del genere! Solo che Laura oggi mi ha
detto che sareste andate ad una festa stasera e volevo sapere se ero ancora
invitata”
“…….”
“Emma?”
“Io non so di nessuna
festa. A me Laura ha detto che doveva studiare, così io sto facendo… ehm… altro”
“Ah. Forse ho capito male io, allora. D’accordo, fa’
niente, scusa il disturbo”
“Figurati, non ti
preoccupare. Buona serata”
“Anche a te”
Rea attaccò
e rimase un paio di minuti col telefono in mano, leggermente confusa. Perché
mai Laura avrebbe dovuto invitarla ad una festa dove aveva detto esserci anche
Emma se poi la festa non esisteva ed Emma stava “facendo altro”? Non aveva
nessun senso e forse, proprio per questo, avrebbe dovuto infischiarsene. Invece
il suo sesto senso si era messo in moto, facendola diventare sospettosa e
terribilmente agitata. Forse Laura nascondeva qualcosa? Ma allora lei cosa
c’entrava?
Si sdraiò
sul letto con un braccio sulla fronte e rifletté. Certo, non era una ragazza
che attirava molto l’attenzione: in quelle settimane aveva notato che teneva
sempre un basso profilo, parlava con tutti e sorrideva con tutti ma poi non
usciva mai con nessuno. Anche quelle poche volte in cui lei si era trovata a
studiare con Emma, escludendo il pomeriggio dell’incidente con l’albero, aveva
sempre gentilmente rifiutato il suo invito con una scusa.
Sgranò gli
occhi, colpita dal pensiero che aveva appena avuto: non poteva essere,
sicuramente si stava sbagliando.
Il cellulare
squillò, facendola sobbalzare.
“Pronto?” rispose.
“Salve, qui parla un
ragazzo che si annoia e che sta cercando qualcosa da fare. Chi è lì?”
Rea rise di
cuore.
“Ciao Fabio, che ti serve?”
“Uffa, e io che speravo
che tu non capissi chi era. Che stai facendo?”
“Niente, sono sdraiata sul letto che rifletto un po’ sui
nuovi indizi che sono venuti fuori. Tu?”
“Niente, sono sdraiato sul
letto che rifletto un po’ su di te”
La ragazza
ringraziò che lui non potesse vederla perché arrossì violentemente.
“Non dire certe cose” lo sgridò. Lui rise.
“Perché? È vero. senti
visto che siamo entrambi soli ti va se ci vediamo?” le propose. Lei guardò
tutte le scartoffie che aveva sulla scrivania e sospirò.
“Io devo rimanere in casa ad aspettare papà” rispose.
Seguì del silenzio dall’altra parte della cornetta.
“Però se vuoi vieni a farmi compagnia” lo invitò.
Fabio arrivò
a casa sua dieci minuti dopo, annunciato da un lungo suono di clacson. Rea lo
stava aspettando sulla porta, con le braccia incrociate e un sorriso divertito
sul viso.
“Benvenuto” lo accolse, aprendogli il passaggio.
“Che simpatica signora di casa” commentò lui, ridendo.
“Che vuoi farci, è una dote naturale. Sono una padrona
meravigliosa, così meravigliosa che abbiamo anche lo spuntino se ci viene fame”
ribatté la ragazza.
“Ho mangiato da poco, per il momento non mi va nulla”
“Vai via subito?” chiese lei.
“No, perché?”
“Quindi significa che abbiamo un po’ di tempo per farti
venire fame” spiegò. Si rese subito conto che quella frase poteva
suonare piuttosto ambigua. Arrossì e si voltò.
Fabio la
guardò sorridendo.
“Che carina che sei quando sei rossa” le disse. La
ragazza sbuffò.
“Non sono rossa!” esclamò.
“Secondo me sì. Fatti vedere un po’ meglio, così ti dico se
sei rossa oppure no”
“Cos…?”
Lui la prese
per un braccio e l’attirò a sé, avvicinando i loro visi e scrutandola bene.
“Mmmh…
direi che sei decisamente rossa. Sembri quasi un pomodorino” la prese in
giro dolcemente.
Rea cercò
con poca convinzione a staccarsi, con risultati che lasciarono molto a
desiderare.
“Non è colpa mia” si lamentò.
“A me piaci quando sei imbarazzata. Sei così tenera”
commentò il ragazzo.
“M-ma io non devo essere tenera, devo essere aggressiva se
voglio fare il poliziotto” ribatté lei.
“Adesso sei con me e non devi essere o fare nient’altro. A me
va bene così” le confessò lui.
Rea non
seppe cosa rispondere, troppo confusa dal battito del suo cuore per reagire.
Fabio la
baciò, liberandole le mani e abbracciandola.
“Tu sei scorretto” lo accusò la ragazza quando
riuscì a parlare. Lui si allontanò leggermente, guardandola.
“Perché?”
“Mi baci sempre quando io non me l’aspetto e questo non è
giusto!” spiegò, mettendo il broncio come i bambini.
“Vuoi che ti avverta prima di baciarti?” si stupì il
ragazzo, trattenendosi dal ridere. Lei arrossì.
“N-non dico quello, solo che… i-io non…” balbettò
la rossa.
Lui la
spinse verso la parete che aveva dietro e ce la bloccò con le braccia. Rea
sentì il respiro accelerare e ili cuore battere forte contro le costole.
“C-che fai?” domandò.
“Ti bacio” le rispose semplicemente il ragazzo.
Era forte.
Era passionale. Era bellissimo. Era… lei non aveva nemmeno più degli aggettivi
per descriverlo.
Gli passò le
mani dietro la testa, attirandolo a sé e stringendolo forte.
Senza sapere
come fosse successo, cinque minuti dopo erano sdraiati sul divano a spogliarsi.
Jason aveva
passato una serata stupenda, doveva ammetterlo. Nonostante Emma avesse
diciassette anni meno di lui e fosse una studentessa in crisi pre-esame, era
simpatica, acuta e piacevole. Oltre che bella, certo.
L’aveva
riaccompagnata a casa, sentendosi come un ragazzino quando l’aveva baciata
prima che scendesse di macchina, per poi aspettare che entrasse come un
gentiluomo.
Sorrise
mentre apriva la porta di casa, felice di aver passato una così bella serata e
sapendo che adesso lo aspettava un chiarimento con sua figlia, cosa che lo
rendeva ancora più felice ed euforico.
Entrò in
corridoio e mise la giacca sull’attaccapanni.
“Rea, sono tornato!” esclamò, andando verso la
cucina.
Quando passò
davanti il salotto e vide la ragazza che dormiva abbracciata a Fabio si bloccò,
col cuore in tumulto. Erano nudi sotto la coperta?
“Rea!” gridò. Lei sobbalzò spaventata e si sedette,
allungando una mano verso il cassetto del tavolo e tirando fuori la pistola di
suo padre.
“Chi c’è?” chiese confusa. Quando vide Jason in
piedi nel mezzo della stanza la sua testa si voltò automaticamente verso il
ragazzo sdraiato accanto a lei e chiuse gli occhi, maledicendosi.
“Guarda papà, lo so
che sei deluso e stupito, però io ho vent’anni e anche se so di aver sbagliato
so anche che capirai se ti dirò che questa è una cosa naturale e che insomma…
siamo stati bravi, io non sono un’irresponsabile e poi lui mi piace tanto”
Questo
avrebbe dovuto dire Rea a Jason per scusarsi. Invece sbuffò e incrociò le
braccia.
“No, non ho niente da dichiarare, mi spiace” gli
rispose in malo modo. Si voltò andando in cucina, infuriata quasi quanto lui.
Non aveva un
senso il fatto che fosse arrabbiata, però lo era e basta.
“Niente da dichiarare? Ragazzina, fermati un po’!”
la richiamò l’uomo, andandole dietro.
“Papà, non farne una tragedia!”
“Ma Rea, ti sei completamente bevuta il cervello?”
le domandò sorpreso.
“No, sono obiettiva. Tu non hai mai fatto l’amore con la
mamma? Io sono nata sotto un cavolo, mi ha portata la cicogna o i fiorellini
hanno sparso il polline?!”
“Non ti devi permettere di rivolgerti a me in questo modo,
hai capito?”
Rea prese un
bicchiere per versarsi da bere e notò che le mani le tremavano.
“Senti, non ho programmato la cosa, ok? Ho invitato Fabio
per farmi compagnia: tu eri fuori e io ero sola, cos’avrei dovuto fare?”
“Non eravamo rimasti d’accordo che saresti stata lontana
da quel ragazzo? la sua vita è in pericolo fin quando sei sotto copertura, e lo
sai benissimo!”
Lei sbatté
il bicchiere sul tavolo e lo guardò.
“Non ti rendi conto di niente, tu! Sono settimane che esco
con Fabio, ormai e tu eri così occupato a fare… cosa? Cosa facevi? Stavi sdraiato
sul letto a fissare il soffitto senza fare nulla. Ho indagato, sono uscita di
casa decine di volte, ho trovato degli indizi, lui mi ha baciata e tu non te ne
sei reso conto. La mia felicità non è stata notata, IO non sono stata notata!”
gli gridò contro.
Jason fu
colpito come da uno schiaffo e si ritirò per colpa della forza di quelle
parole, ma non distolse lo sguardo.
“Io ho i miei problemi, tu i tuoi, ma se facciamo un patto
è un patto! Tu me l’avevi promesso, cavolo!”
“E tu mi avevi promesso anni fa che non mi avresti mai
nascosto niente, invece sei in condizioni a dir poco pietose da settimane!”
lo accusò.
L’uomo si
passò una mano sul viso, disperato.
“Torniamo al problema principale? Tu hai fatto sesso sul
mio divano!”
“Io ho fatto l’amore sul tuo divano, non sesso. Punto
primo. Punto secondo questa è anche casa mia e visto che tu mi ci hai
trascinata ora prenditi le tue responsabilità!”
“Cosa ho fatto io?”
“Tu sei voluto venire qui, non io. Tu e il tuo lavoro ci
hanno portati qui. Io sono parte di questa casa e ci faccio cosa voglio,
capito? Se volessi girare nuda o volessi demolire il salotto per ricostruirlo
potrei benissimo farlo!” esclamò.
“Sei ancora una bambina! Non puoi fare sesso col primo che
capita!”
“Ho vent’anni, non due, e lui non è il primo che capita!”
“Senti, la questione si chiude qui, per quanto mi
riguarda. Non ho voglia di sentire le tue scuse” disse Jason.
“Come sempre, vero papà?” gli chiese Rea. Lui la
guardò.
“Cosa stai dicendo?”
“Tu non mi ascolti mai, sei troppo occupato con non si sa
bene cosa per renderti conto di quanto io possa stare male. Negli ultimi tempi
non sei più Jason Simon, sei solo un ricordo lontano di te” lo accusò.
L’uomo si
avvicinò a lei e le dette uno schiaffo in pieno viso, facendola barcollare
all’indietro.
“Se ti azzardi a rivolgermi un’altra parola con questo
tono da arrogante e presuntuosa signorinella so-tutto-io giuro che… che…”
“Cosa, papà? Mi butti fuori? Se ti fa felice, accomodati
pure, io con te non voglio più viverci” commentò.
“Rea, smettila, non sei tu che parli, è solo la tua
rabbia. Ora vai in camera ne riparleremo poi” gli disse lui.
Rea si mise
a piangere e si toccò la guancia.
“Dopo… sempre dopo. Non affrontiamo mai la questione,
vero?” gli chiese.
“Noi ormai siamo abituati a far finta di niente, ad
accettare le cose stando zitti. Io questa cosa non la sopporto proprio”
Guardò il
bicchiere che c’era sul tavolo e fu assalita dalla furia, dall’odio, dalla
disperazione.
“NON LO SOPPORTO!” gridò. Prese il bicchiere e lo
lanciò contro la parete, spaventando il padre che si allontanò.
“Ma che stai facendo?” le domandò.
Rea aveva il
viso bagnato di lacrime e tremava.
“Io ho continuato ad indagare, sai? Ho continuato a
cercare indizi, a fare in modo di proseguire col caso, di trovare una risposta.
E forse ce l’ho anche fatta, forse ho la soluzione a portata di mano, ma tu… tu
non mi aiuti. Non esisto più per te” sussurrò.
“Per fare in modo che tu mi riparlassi ho dovuto fare…
sesso… con Fabio e farmi scoprire, altrimenti tutto questo non sarebbe venuto
fuori”
Jason si
rese conto che sua figlia stava davvero lanciando un grido d’aiuto, ma non
riuscì a muoversi di lì, ad abbracciarla per confortarla. La guardò e basta.
“Non ha importanza cosa faccia e quanto mi impegni, dopo
che abbiamo litigato in centrale tu non mi hai più quasi parlato” disse.
Strinse i
pugni e abbassò la testa, poi guardò i cocci del bicchiere.
“Mi dispiace, adesso pulisco tutto” decise,
avvicinandosi e inginocchiandosi a terra.
Si sentiva
stupida, aveva detto cose che non avrebbe dovuto con un tono poco appropriato,
ma erano cose che purtroppo pensava. Tutte, dall’inizio alla fine.
Suo padre la
guardò mentre si abbassava e recuperava i vetri con le dita tremanti,
impotente.
“Rea, se sei così triste voglio aiutarti, voglio.. voglio
prendermi le mie responsabilità se è colpa mia” le disse. La ragazza
sorrise amaramente e scosse la testa.
“Ci ho provato, papà. Ho provato a dirtelo mille volte di
risolvere, a chiederti di chiarire, ma tu te lo ricordi cosa mi hai risposto
tutte le volte?” gli chiese. Lui rimase zitto.
“Mi hai detto adesso
no, sono stanco; non posso, scusami; preferirei riparlarne più avanti, vado in
palestra ad allenarmi” gli ricordò.
“Tesoro, io non… non me ne ricordo, assolutamente”
ammise.
“Me l’immaginavo, purtroppo. Sei in stato catatonico da
quel pomeriggio in cui mi hai detto che… che non sono costante, che anche
l’idea di diventare poliziotto svanirà e che non mi aiuterai. Più che provare a
sforzarmi di venirti incontro non ho saputo cosa fare” ammise. Non aveva
smesso nemmeno per un attimo di piangere ma la sua voce era ferma e decisa.
“Butto questi vetri e poi vado su a farmi una doccia, ne
ho un certo bisogno” lo avvertì.
Si alzò e
andò al cestino, gettando dolcemente i cocci nel sacco.
Guardò Jason
un’ultima volta, poi se ne andò dalla stanza senza dire niente.
Stesa sul
letto con indosso solo l’accappatoio, Rea si sentiva distrutta. Non era
sicuramente stato il discorso che aveva pensato di fare a suo padre, questo era
certo.
Avrebbe
voluto che risolvessero la situazione in modo pacifico, come avevano sempre
fatto in tutti quegli anni: qualcosa non andava? Ne parlavano tranquillamente,
senza urlare.
Ma da quando
erano finiti lì tutto era cambiato, loro erano cambiati e non riuscivano più a
stare insieme senza litigare.
Prese il
cellulare, indecisa se chiamare o no Fabio. Forse a quell’ora lo avrebbe
disturbato.
Prima che
potesse scrivere anche solo una lettera per mandargli un messaggio, il telefono
squillò.
“Pronto?”
“Rea? Sono Bearne”
“Ciao capo, che succede?”
“Niente di importante, in realtà. È da un po’ che
non vieni in ufficio e mi chiedevo come procedesse l’indagine”
“Ho raccolto molti indizi, sono quasi arrivata alla cima
della piramide”
“Bene, sono fiero di ciò che mi dici. Senti, tuo
padre ultimamente non mi sembra molto concentrato, è successo qualcosa in casa?
Quando ieri è andato via dalla centrale era completamente sconnesso. Non è che
tu ci hai parlato stasera?”
La ragazza
rimase un attimo in silenzio, cercando di capire come mai quelle parole non le
tornavano. Poi scosse la testa.
“Capo, papà stasera non era con te?” gli chiese.
“Con me? A meno che mia moglie non si sia
miracolosamente trasformata in Jason, e questa è un’ipotesi che mi fa
sinceramente rabbrividire, direi di no. Perché?”
“N-no, lui ha… non importa, lascia perdere. Comunque ti
manderò un rapporto dettagliato in settimana, tranquillo” rispose.
“Va bene, aspetto con ansia tue notizie allora.
Buonanotte”
la salutò.
Rea chiuse
la comunicazione e sospirò, sentendosi terribilmente male. Aveva un peso sul
petto che non la lasciava quasi respirare.
Prese le
pillole che aveva in borsa e ne ingoiò due, cercando di calmarsi.
Suo padre le
aveva mentito. Era uscito con una scusa e le aveva detto una bugia bella e
buona. Perché? Che motivo c’era di nasconderle qualcosa?
Le lacrime
scesero di nuovo dai suoi occhi, ormai abituati a piangere per colpa sua. Non
ce la faceva più così, era stanca e distrutta e voleva solo tornare a dicembre
e rifiutare quel compito invece di accettare l’infiltrazione nell’istituto.
La mattina
dopo l’aria in casa Simon era pressoché irrespirabile. Entrambi i componenti
della famiglia erano ansiosi, tesi e nervosi dopo la discussione della sera
prima e nessuno dei due sapeva cosa dire. E quella sensazione di ansia e nervosismo
andò avanti anche il lunedì, facendoli sentire come due estranei nella stessa
casa.
Rea in
primis, dopo aver ricevuto la telefonata di Bearne.
Come si
doveva comportare adesso che sapeva che suo padre, in realtà, non era mai
andato a una cena di lavoro? Aveva bisogno di una strategia e anche
velocemente.
Prese la sua
decisione in fretta e chiuse gli occhi per farsi coraggio.
“Papà?” lo chiamò, andando nella sua camera.
Tremava.
Jason si
affacciò in corridoio e la vide arrivare, sentendo il nervosismo prenderlo
tutto insieme.
“Sì?” rispose.
La ragazza
prese un bel respiro, si odiò un paio di volte per quello che stava per dire e
poi guardò suo padre.
“Mi dispiace” esclamò infine. Lui rimase basito.
“Come scusa?”
“Scusami per quello che ti ho detto ieri sera; scusami se
ho continuato ad uscire con Fabio nonostante il tuo divieto e scusami anche
perché l’ho portato qui; scusami se me la sono presa in quel modo quando mi hai
detto che non sono costante, in fondo avevi ragione tu, è vero; scusami se non
ti ho parlato dell’indagine; scusami se non ti ho detto che stavo male perché
tu mi avevi ferita; infine, scusami per essere sempre così orgogliosa”
gli disse. Jason aveva spalancato gli occhi: non era mai successo che sua
figlia gli chiedesse scusa, era sempre lui a fare la prima mossa.
Si avvicinò
a lei, tendendo le braccia, e la strinse a sé.
“No, scusami tu tesoro. Tutta questa situazione ci è
sfuggita di mano e dovevo capire subito che ti stavo ferendo con il mio
comportamento distaccato, sono stato un idiota. Puoi perdonarmi?” le
chiese. Rea gli passò le braccia intorno alla vita e affondò la testa nel suo
petto, sentendosi al sicuro.
“Ti ho già perdonato” gli assicurò. Lui sorrise e
si impose di non piangere, poi si allontanò un po’.
“Ti va di venire con me in ufficio, stamani? Fai rapporto
su ciò che hai scoperto e poi andiamo a pranzo insieme” le propose.
“Ma la scuola?”
“Non sei obbligata a frequentarla, tu non devi sostenere
nessun esame, quindi puoi saltare per oggi. Vai a prepararti, ti aspetto giù”
le disse, spingendola in camera. Lei rise e annuì.
Una volta da
sola, Rea si sentì un po’ in colpa: quelle cose le aveva dette solo per fare in
modo che lui si fidasse di nuovo di lei, altrimenti non avrebbe chiesto scusa
nemmeno sotto tortura.
Sospirò e si
odiò: era giusto fare così, in fondo? “Sì, lo è:
lui ti ha mentito, dicendoti che era con Bearne, quindi tu non ti preoccupare e
continua” pensò, infilandosi una maglia comoda e un paio di jeans e
buttando la divisa scolastica sul letto in malo modo.
Mandò un
messaggio a Emma per dirle che non sarebbe andata a lezione, quella mattina, e
chiederle se poteva andare a casa sua nel pomeriggio per darle i compiti. La
risposta le arrivò meno di trenta secondi dopo, con un “d’accordo” scritto sopra e la richiesta dell’orario.
Rea sorrise
e uscì di camera, andando nell’ingresso da suo padre.
In ufficio,
Rea fece un rapporto molto dettagliato di ciò che era successo nelle ultime
settimane: dal bidello sospetto al ragazzo sparito, passando per le sue ipotesi
momentanee.
“Droga?
Pensi che tutto questo sia collegato alla droga?” le chiese Bearne, stupito.
“Sì, ne sono convinta” affermò. L’uomo si passò una
mano tra i capelli e sospirò.
“Gli esami
tossicologici sui cadaveri, però, sono risultati negativi. Nessuna traccia di
qualche sostanza strana” disse. Lei ci pensò un po’, poi fece spallucce.
“Questo non significa niente. Studiando chimica qualche
anni fa, mi ricordo che c’erano delle sostanze che non potevano essere rilevate
perché si dissolvevano nel sangue, mimetizzandosi con le cellule del corpo.
Erano più pericolose delle altre proprio per questa loro particolarità”
spiegò.
“Ha ragione lei. Gli effetti che ha visto su quei ragazzi
mostrano sicuramente un atteggiamento non lucido da parte loro, unito a sguardo
vacuo e insensibilità al dolore. Non potevano essere in loro quando Rea li ha
visti, altrimenti significherebbe che ha trovato solo ragazzi con problemi
cerebrali molto sviluppati, durante la sua indagine” s’inserì Jason.
“Il che non può essere possibile, perché Mary l’ho vista a
scuola e lì stava bene, non gridava contro i muri né era particolarmente
arrabbiata con qualcosa o qualcuno” aggiunse la ragazza.
Bearne
sembrava poco convinto, però annuì.
“Capisco. E
tu pensi che questo Antonio, il bidello, sia coinvolto in qualche modo?” le
domandò.
“Ne sono quasi sicura. Ogni volta che è sparito qualcuno
l’ho trovato a parlare con lui, per non aggiungere del fatto che l’ultimo
ragazzo ci ha litigato qualche giorno fa” affermò convinta.
“Beh, se sei
sicura di questo non posso fare altro che chiederti di fargli qualche domanda.
Con discrezione e attenzione, però, non voglio che tu corra rischi” si
raccomandò. Rea sorrise felice.
“Nessun rischio, fino ad ora” assicurò.
“Meglio
così. Potete andare” li congedò.
Jason uscì
dallo studio e raggiunse un suo collega, mentre lei si stava mettendo la borsa
in spalla. Prima che potesse uscire, il capo la richiamò.
“Ho bisogno
che tu inoltri la tua domanda per far parte della squadra entro una settimana,
altrimenti per quest’anno si chiudono le iscrizioni e i corsi” le disse. La
ragazza rimase ferma con una mano sulla maniglia, indecisa. Sorrise e lo
guardò.
“Te la porto domani, non ti preoccupare” rispose.
Raggiunse il
padre e insieme andarono a pranzo fuori. Forse lì poteva fargli qualche domanda
e, magari, lui le avrebbe risposto.
“Lo odio, non lo sopporto! Perché mentirmi così? Non ha
alcun senso!” stava dicendo al telefono. Il pranzo non aveva sortito
l’effetto sperato: la cosa più importante di cui avevano parlato era stata se
quell’hamburger era troppo cotto oppure no. Il suo interlocutore sospirò.
“Almeno non ti ha ucciso
perché ci ha trovati insieme sul divano” le fece presente.
“Ho vent’anni, posso fare cosa mi pare in casa mia! Non ho
bisogno del suo permesso!”
“Rea, è sempre tuo padre!
Smettila di accusarlo così, magari ha avuto bisogno di andare a fare qualcosa
di importante e non può dirtelo”
“No, il mio sesto senso mi dice che lui sabato era a
divertirsi. Continua a rimanere la domanda: perché non dirmelo? Non mi
arrabbiavo mica se mi diceva ehi, esco
con una donna, spero che vada bene, tu vai a dormire presto e non aspettarmi
sveglia”
“Fossi in te io gli
chiederei chiaramente cosa ha fatto, dicendogli che sai che no era a una cena
di lavoro. Ora devo andare a studiare. Io ho la maturità quest’anno” le disse Fabio. Rea
sospirò.
“Hai ragione, scusami ti ho portato via fin troppo tempo.
Ci sentiamo più tardi, io aspetto Emma. Divertiti a studiare!” gli
augurò divertita.
“Non sei affatto simpatica”
la accusò
lui, buttando giù mentre rideva.
La ragazza
sentì il campanello squillare un attimo dopo e corse alla porta per aprire
all’amica.
“Benvenuta!” le disse, facendola entrare. Emma le
sembrava piuttosto impaurita e titubante.
“Qualche problema?” le domandò, sinceramente
preoccupata.
“No, niente di che, solo tanto studio” minimizzò la
mora, indicando i libri che aveva in braccio.
“Ah, quello. Sì, troppo studio” concordò Rea,
pensando che non si era mai fatta nessun tipo di problema nemmeno quando frequentava
le lezioni private.
La fece
accomodare in sala e si misero a parlare di quello che era successo a scuola,
dei compiti che avevano dato e delle date degli esami che erano appena state
annunciate.
“Bene, almeno so quanto tempo ho” esultò Rea,
felice. Emma la guardò confusa.
“Intendo per… studiare” spiegò imbarazzata.
“A me viene l’ansia: solo un mese e mezzo! Troppo poco
tempo!” esclamò l’altra, tremando di proposito.
Studiarono
un paragrafo e mezzo di filosofia prima che si rendessero conto che erano già
quasi le sei.
“Che strano, papà sarebbe dovuto tornare mezz’ora fa.
Lavora troppo, io glielo dico sempre” ragionò la ragazza, chiudendo il
libro. L’amica impallidì.
“Sì, decisamente” confermò.
Rea sospirò
e sorrise.
“Devi andare, immagino. Di solito tua madre viene a
prenderti verso quest’ora. Ti accompagno qua fuori” si offrì, alzandosi.
“G-grazie, ma non devi” balbettò Emma.
“Figurati, nessun disturbo per me” minimizzò Rea,
con un gesto della mano.
Quando
furono quasi arrivate nello spiazzo per la retromarcia, lei vide la Mercedes
nera di suo padre ferma, con lui dentro che leggeva il giornale.
Si sbracciò
per salutare.
“Che ci fai qui tutto solo? In casa ti senti stretto?”
chiese la ragazza, affacciandosi al finestrino. Jason sobbalzò e la guardò con
occhi imbarazzati.
“No, solo che mi è arrivato un messaggio e ho dovuto
controllare un articolo, tutto qua. Voi che cosa state facendo?” domandò
a sua volta.
“Ho accompagnato Emma ad aspettare sua madre, ma visto che
ci sei tu puoi rimanere al posto mio? devo chiamare Fabio” lo implorò.
Lui sospirò e annuì, facendola passare per una cosa che non voleva fare.
“Salutamelo e chiedigli scusa per sabato” si
raccomandò. Rea gli dette un bacio sulla guancia.
“Ci vediamo tra poco” lo salutò.
“Ciao Emma” disse alla mora.
Corse fino
all’ingresso di casa, felice di poter sentire Fabio, poi si ricordò di non aver
detto a suo padre che non c’era niente per cena.
Decise di
tornare indietro un secondo prima di dimenticarsene.
“Papà, una cosa prima di… di…”
Si bloccò,
con la sensazione di essere appena stata colpita da un pugno allo stomaco.
Si stavano
baciando. Emma e Jason, in macchina, si stavano baciando. Non la notarono
nemmeno quando, una volta staccati, l’uomo fece retromarcia e partì per
portarla chissà dove.
Rea rimase
ferma, col cuore a mille, e si sentì infinitamente sola. Si accasciò al suolo,
col petto che scoppiava.
Fabio andò
con la macchina a prenderla al parco dove avevano parlato quando avevano
litigato. Lei era con le gambe strette al petto, il viso completamente bagnato
di lacrime e una scatola di pasticche in mano.
“Che succede?” le chiese preoccupato.
Vide anche
che si era portata dietro una borsa piuttosto grossa, di quelle che si portano
in spiaggia.
“Ti prego portami via di qui, da qualsiasi parte ma non
farmi tornare a casa” lo implorò tremando.
“Ma che succede?” chiese nuovamente.
Capì subito
che lei non ce la faceva a parlare, così la prese per mano e la fece salire in
macchina.
“Andiamo da me, poi mi racconti”
Jason arrivò
a casa e la trovò vuota. Il sorriso stupido che aveva sul volto da quando aveva
salutato Emma sparì poco dopo, quando si rese conto che sua figlia non era da
nessuna parte.
“Rea?” chiamò, controllando la sua stanza, il piano
terra e la palestra. Nulla.
“Sono Fabio, signor Simon” disse alla fine il
ragazzo.
“Oh, Fabio, scusami. Rea non c’è se stavi cercando lei,
non so…”
“Sì, lo so, è qui con me.
Cos’è successo, posso saperlo?”indagò.
Jason si passò una mano tra i capelli, a metà tra il sollevato e l’incredulo.
“Non ne ho idea, sono rimasto fuori per cinque minuti e
quando sono tornato lei non c’era!”
“Signor Simon, posso
essere franco con lei?”
“Certo, dimmi pure”
“Rea è qui da me che
piange da un quarto d’ora e non riesce a dirmi cosa sia successo. Lei dice di
essere uscito di casa cinque minuti solo e di essere tornato, non trovandola.
Nel tempo in cui l’ha vista e poi è rientrato cos’ha fatto?”
L’uomo
trattenne il fiato e si odiò con il cuore, l’anima e il corpo. L’aveva visto.
L’aveva visto mentre baciava una sua amica. Perfetto.
“Cazzo” sussurrò in risposta.
“So che probabilmente non
approverà, ma penso che al momento Rea non sia in grado di tornare a casa,
quindi la farò rimanere da me. Abbiamo la stanza degli ospiti e i miei non ci
sono, per cui non darà noia. Quando riuscirà a parlare di nuovo la chiamerò, va
bene?”
gli disse Fabio, apprensivo. Jason batté un pugno al muro, tremando, poi parlò.
“Dille che mi dispiace che l’abbia saputo così e che
aspetto sue notizie” si raccomandò.
“Riferirò”
“Ah, e grazie”
Attaccò il
telefono e si mise una mano in faccia, disperato. Questa non gliela perdonava,
lo sapeva.
Rea rimase
in stato di shock per qualche ora prima che le lacrime smettessero di cadere e
lei riuscisse a ragionare obbiettivamente.
Suo padre,
il suo amato papà, che se la faceva con Emma. Come avevano potuto? Che cosa gli
diceva il cervello? Santo cielo, c’erano diciassette anni tra di loro!
Fabio entrò
nella stanza degli ospiti con in mano una tazza fumante.
“Camomilla?” le chiese sorridendo. Lei annuì e gli fece
spazio sul letto, prendendo la tazza con le mani tremanti.
“Ti va di parlarne?” le domandò lui, guardandola
apprensivo. La ragazza scosse la testa.
“Scusami, non ci riesco. Sono abbastanza sottosopra”
rispose. Lui rise sommessamente.
“Che c’è?” chiese lei, incuriosita.
“L’ultima volta che hai detto quelle parole ti stavi
penzolando da un quadro svizzero e io, pensando che parlassi di ciò che provavi
per me, ti ho risposto anche io! Che
figura!” ricordò divertito.
Rea si
strinse nella felpa gigante che aveva addosso e arrossì.
“No, io ho pensato che fosse una cosa carina da dire.
Certo, quando ho capito a cosa ti riferivi” gli assicurò, ridendo.
“Giusto, pensavi che anche io stessi facendo la scimmia a
testa in giù!” esclamò Fabio, prendendola in giro.
“Non stavo facendo la scimmia a testa in giù, mi allenavo!
Voglio fare domanda per diventare poliziotto, lo sai, quindi devo essere in
forma!” s’impermalì Rea, spintonandolo leggermente.
“Ma sei già in forma!” ribatté il ragazzo.
“Sì, in effetti. Cerchio è una forma, in fin dei conti”
considerò lei, facendogli la linguaccia.
Lui la
guardò dolcemente.
“Mi fa piacere vederti sorridere. Sono triste quando stai male”
ammise. La ragazza arrossì un po’.
“Sei l’unico che sia mai riuscito a farmi ridere in un
momento in cui avrei voglia di urlare, sai? Questa cosa di te mi piace”
confessò.
“Solo questa? Inizio a pensare che tu stia con me solo per
divertirti!” esclamò Fabio, fingendosi triste.
“Non è assolutamente vero, io sto con te perché mi piaci!”
lo corresse Rea. Abbassò lo sguardo imbarazzata.
“Cioè, non è che sto con te nel senso lato del termine…
insomma…” balbettò un paio di parole senza senso.
“E vorresti stare con me nel senso lato del termine?”
le chiese lui, prendendole il viso e guardandola fisso. La ragazza avrebbe
voluto scomparire, si sentiva andare a fuoco. Annuì debolmente.
“Sì” sussurrò.
“Meglio così, perché per quanto mi riguarda noi stavamo già
insieme” le annunciò, baciandola.
La tazza che
aveva in mano cadde sulle sue gambe per lo stupore, facendola schizzare in
piedi.
“Brucia!” si lamentò, cercando di asciugarsi i
pantaloni. Fabio rise e si avvicinò, mettendole le mani sui fianchi.
“Basta toglierli” le suggerì, sganciandole il bottone.
Rea sentì il
cuore battere forte mentre lui la toccava e i pensieri sparire per un po’.
Emma rispose
al cellulare felice come non mai.
“Ciao Jason!” lo salutò, sedendosi sul letto. Sentì
un sospiro dall’altro capo del telefono.
“Abbiamo un problema” le disse l’uomo.
“Che succede? Non ci vediamo domani? Devi lavorare?”
chiese lei, tristemente.
“N-no, niente di tutto
ciò, solo che… prima… Dio, ho fatto un casino” esclamò lui.
“Mi stai spaventando”
“È Rea, Emma! Ci ha
visti mentre eravamo in macchina” le annunciò.
“Oh, cazzo” esclamò la ragazza, mettendosi una mano
sulla bocca.
“Al momento è da
Fabio, non vuole parlarmi. Se n’è andata senza dire nulla”
“M-mi dispiace, dovevo essere più cauta e…”
“No, non è colpa tua,
però per adesso facciamo in modo di non vederci ok?”
Emma
sospirò: lo sapeva che non poteva durare.
“Va bene, non ti preoccupare. Proverò a parlarle a scuola,
domani” gli promise.
“Grazie, ti sono
grato. Ciao”
“Ciao” sussurrò lei, chiudendo la telefonata.
Si accasciò
sul cuscino e strinse gli occhi: avevano fatto un casino colossale.
Rea non andò
a scuola né il giorno dopo né quelli successivi. Sapeva benissimo che suo padre
sarebbe potuto benissimo andare all’istituto per parlare e non voleva ancora
vederlo.
Si era
instaurata nella stanza degli ospiti a casa di Fabio e lì studiava il caso e
come trovare un modo per smascherare Antonio. Ormai era quasi certa che fosse
lui il colpevole.
C’erano
troppi indizi che puntavano in quella direzione e anche andando a rigor di logica si poteva chiaramente capire che un bidello
come lui, sottopagato e probabilmente anche trattato male dal proprio datore di
lavoro, aveva tutti i moventi per cercare di arrotondare un po’ il salario con
lo spaccio di droga e, nel frattempo, distruggere la credibilità della scuola.
Chiaro e semplice.
“Io vado, Laura è già al piano di sotto che freme per partire.
Ci vediamo dopo, ok?” la salutò Fabio, dandole un lieve bacio sulle
labbra. Lei sorrise.
“D’accordo, quando rientrate avrete il pranzo pronto”
promise Rea.
Li guardò
uscire di casa battibeccanti, poi fu un attimo: Laura si voltò verso di lei con
uno sguardo inquietante negli occhi e lei si bloccò, paralizzata. Un secondo
dopo la bionda si era girata ed era salita in macchina.
Tornò in
camera e aprì il computer, cercando di mettere per iscritto i motivi per cui
dovevano darle l’autorizzazione a interrogare Antonio, poi le venne un dubbio.
La sera in cui Jason era uscito, Laura le aveva chiesto se voleva andare ad una
festa, però poi la festa non c’era stata ed Emma, come aveva purtroppo appreso,
era stata con suo padre, per cui perché chiederle di uscire con una scusa così
stupida?
Altra cosa:
negli ultimi tempi aveva notato che Laura spesso la scrutava con sguardo
indagatore, come se stesse cercando di capire cosa facesse. Non è che era
invischiata anche lei in quell’affare?
Si morse un
labbro: non era possibile che una diciannovenne spacciasse droga e rapisse
ragazzini in un liceo, che senso avrebbe avuto? Era lei che si faceva tanti
problemi per niente.
Tornò a
fissare il monitor, ma quell’idea non la abbandonava. C’era un solo modo per
togliersela di testa.
Emma aveva
sperato per una settimana che Rea andasse a scuola, ma non era stata esaudita.
Stava male, si sentiva una traditrice e una stronza per averla ferita, e quella
lontananza da Jason non la aiutava.
Non ce la
faceva proprio ad affrontare quella situazione da sola, era troppo difficile.
Una mattina,
alla fine, decise di fare festa. Non aveva proprio la concentrazione per stare
in classe.
Si nascose
nel parco vicino alla centrale di polizia, dove sapeva che Jason passava
spesso. Chissà se il lavoro che faceva era collegato con ciò.
Prese il
libro di matematica per studiare, ma già dopo cinque minuti si era messa a
fissare la strada sperando di vederlo. “Ma a chi
voglio darla a bere? Non sono qui perché non riuscivo a stare in classe, sono
qui perché mi manca” si disse sospirando.
Lo aveva
pensato ogni giorno, ogni ora, ogni minuto da quando Rea aveva scoperto della
loro relazione e non aveva fatto altro che sperare e pregare affinché lui andasse
da lei a dirle che non voleva perderla. Ma non era successo e iniziava a
pensare che forse era stata tutta una sua fantasia, quella di una storia
d’amore tra di loro.
Alla fine,
lo vide uscire dalla centrale di polizia, ridendo con un poliziotto. Lo guardò
incuriosita e vide che lui tirava fuori una pistola dalla cintura (o, più
probabilmente, da una fodera attaccata alla cintura) e la mostrava all’altro,
che sorrideva e annuiva, per poi salutarlo.
Jason era un
poliziotto?
Il bisogno
di sapere cosa stesse facendo fu molto più forte dell’impulso di rimanere lì a
guardarlo mentre sospirava e le sue gambe si mossero da sole, portandola
davanti a lui. L’uomo sobbalzò e impallidì quando la vide.
“Tu lavori qui?” domandò Emma, capendo solo adesso
la sua allusione al servizio pubblico.
“Ehm, n-no, io… ecco… uff, sì, lavoro qui” rispose
lui, sospirando tristemente.
“Perché non me l’hai mai detto?”
Jason si
guardò intorno, poi la prese per un braccio.
“Andiamo via, ti spiegherò tutto a casa”
Dopo averle raccontato
la storia come aveva fatto con Fabio qualche settimana prima, lui si versò un
bicchiere di vodka e lo mandò giù tutto d’un fiato, sperando che gli passasse
quel senso di colpa che stava provando. Aveva messo anche lei al corrente della
loro copertura, il che significava esporre un’altra persona a dei seri
pericoli. Bel colpo.
“Mi basta sapere che tu stia attento, per il resto non ti
sarò d’intralcio” promise Emma, sorridendogli. Quanto gli era mancato
quel viso!
“Bene, perché Rea ha avuto a che fare con loro e ne è
uscita salva per miracolo” le disse.
La ragazza
annuì, poi si mise a fissare le sue mani strette a pugno sulle ginocchia. Erano
entrambi nervosi.
“Non è venutaa
scuola, non ho potuto provare a spiegarle la situazione” esordì la mora,
infine.
“Sì, me l’aspettavo. Venire a scuola significa avere la
paura che io possa arrivare a disturbarla, è troppo esposta lì” rispose
Jason, sedendosi sul divano accanto a lei.
“E poi vedrebbe me” aggiunse Emma.
“Ci odia” sussurrò l’uomo, disperato. Si mise una
mano sul viso, sentendo improvvisamente la mancanza della figlia, e la ragazza
lo accarezzò dolcemente.
“È solo un po’ confusa, ma sono certa che prima o poi
capirà. Però penso che rimanere separati in un momento come questo sia stupido”
ammise lei. Ecco, l’aveva detto, ora tutto stava a cosa le rispondeva.
Jason la
guardò attraverso le dita e comprese che aveva ragione. Che da solo non
riusciva ad affrontare tutto quello.
“Io senza di te non ce la faccio” gli confessò
Emma, avvicinandosi.
L’uomo le
prese il viso tra le mani, baciandola con trasporto, sentendosi subito meglio.
“Nemmeno io” ricambiò, stendendola sul divano. Si
mise sopra di lei e si perse nel suo corpo, senza pensare a niente.
Rea entrò in
camera di Laura solo un paio d’ore dopo, quando riuscì a trovare il coraggio
per farlo. Si sentiva una stupida a fare una cosa simile, era sicuramente
inutile: non c’era niente da cercare.
Guardò la
confusione che regnava sovrana in quella stanza e si mise a ridere, divertita.
“Ok, dove potrei cercare qualcosa anche se non so cosa?”
si chiese.
Si avvicinò
alla scrivania e spostò i libri che c’erano sopra, per poi aprire i cassetti e
controllare cosa c’era dentro. Niente, se non pile di fogli.
“Lo sapevo da sola che non c’era nulla” si disse
imbarazzata.
Si voltò e
fece per andarsene, ma i suoi occhi notarono una piccola scatola di cartone
nascosta sotto a una montagna informe di vestiti. Ormai che c’era, si disse.
La tirò
fuori da lì sotto, spolverandola un po’, e l’aprì.
“Oh santo…”
C’erano
almeno cinquanta diverse fotografie di lei che entrava e usciva dalla centrale
di polizia, che chiedeva a scuola dei fatti strani avvenuti in quei mesi, e
poi…
“Questo non è possibile” sussurrò.
“Divertente,
vero?” domandò una voce dietro di lei. Non fece in tempo a voltarsi che fu
tramortita da una botta alla nuca.
Sentì un
dolore atroce attraversarle la spina dorsale e poi fu il buio.
Jason sentì
squillare il telefono in lontananza, come se stesse ancora sognando, e allungò
una mano per prenderlo.
“Pronto?” biascicò assonnato.
“Signor Simon, meno male è
in casa!”
Lui si tirò
su, improvvisamente sveglio.
“Fabio?” chiese, sentendo sin da subito che quella
telefonata non aveva niente di rassicurante.
“Sì, sono io! La prego, mi
dica che Rea è con lei!” lo implorò il ragazzo.
“No, è da te, qui non torna da…”
“Non è da me!” lo interruppe Fabio.
“Sono tornato da scuola e
in casa non c’era nessuno! Sono preoccupato, Rea mi aveva promesso che non
sarebbe uscita senza dirmelo” gli spiegò.
“Ok, aspetta, spiegami cos’è successo” ordinò
Jason, alzandosi e cercando i suoi pantaloni. Emma continuava a dormire
beatamente sul divano.
“Stamani alle otto ho
salutato Rea, sono uscito di casa con la promessa di rivederci per pranzo ma
quando sono rientrato la casa era vuota e nella stanza dove stava lei non c’era
nessuno! Anzi, per essere precisi, non c’era niente, nemmeno il suo computer” raccontò il ragazzo, nel
panico.
“Vengo da te, sarò lì in dieci minuti. Dammi l’indirizzo e
arrivo”
La polizia
arrivò a casa Daniels nel primo pomeriggio quando,
dopo un’accurata ricerca in camera di Rea, avevano capito che le sue cose erano
rimaste tutte lì tranne il suo portatile e lei stessa.
“Mia figlia non sparirebbe così senza dire niente, ne sono
certo” si disse Jason, preoccupato. Forse aveva scoperto qualcosa ed era
stata trovata, oppure… non aveva nessuna idea, constatò con dispiacere.
“Ascoltatemi, dobbiamo perquisire tutta la casa, non
possiamo lasciare nulla al caso” ordinò alla squadra.
“Cercate ovunque, dalla cucina alla soffitta, non mi
importa quanto ci mettiate, capito?” gridò.
Bearne lo
affiancò e gli mise una mano sulla spalla.
“Jason, devo
parlarti” esordì, sospirando. Si vedeva dalla sua faccia che non sarebbe stato
un discorso facile.
“Che vuoi? Non ho tempo” lo freddò lui, sentendo
risuonare un allarme chiaro nella sua testa.
“Ascoltami,
so che sei sconvolto, ma penso che capirai che non sono in una posizione
simpatica, per niente” iniziò, cercando di usare più tatto possibile.
“Arriva al punto, Bearne”
Il capo si
passò una mano tra i capelli e lo guardò.
“Non puoi
continuare le indagini, lo sai anche tu qual è la procedura per queste cose.
Sei troppo coinvolto emotivamente, rischi di intaccare il caso e di mettere a
rischio anche e soprattutto te stesso. Devo sollevarti dall’incarico” gli disse
tutto d’un fiato.
“Che cosa? Si tratta di Rea, cazzo! Di mia figlia! Non
smetterò di cercare!” si arrabbiò lui.
“Lo so, ti
capisco, però…”
“Però nulla! Non puoi togliermi dal caso!”
“Jason,
cerca di capire! È la procedura standard, tu sei un familiare, non puoi
indagare su una faccenda che ti riguarda in prima persona! Questa è la mia
decisione” lo freddò Bearne. Riusciva a comprendere il suo dolore, ma non
poteva fare niente.
Jason annuì
contrariato, poi si tolse dalla cintura il distintivo e glielo consegnò,
insieme alla pistola.
“Come vuoi, vai al diavolo” lo salutò, uscendo
dalla stanza.
“Ehi,
aspetta, ascoltami!” provò a richiamarlo il capo, senza esito.
Una volta in
corridoio, l’uomo indicò Fabio, che lo guardò senza sapere cosa fare.
“Tu adesso vieni con me” gli disse, prendendolo per
un braccio.
Emma aprì un
occhio e si ritrovò sola, in casa Simon, nuda sul divano.
Si guardò
intorno, ma non c’era nessuno. “Un biglietto?”
si chiese, allungando una mano verso il tavolino.
“Non ho voluto
svegliarti per non allarmarti, non pensavo che fosse il caso. Sono da Fabio,
Rea è scomparsa e io devo ritrovarla! Fai come se fossi a casa tua, tornerò
prima che posso”
Trattenne il
fiato: scomparsa?
Del tipo che
era fuggita via? Oddio, era colpa sua e della sua relazione col padre? Il cuore
accelerò i battiti al sol pensiero.
Cercò i suoi
vestiti e se li infilò, poi chiamò a casa.
“Sì, lo so che dovrei studiare, però lo farò da Rea. Lo
so, ma ti prometto che mi impegno. Va bene, a stasera, ciao”
Non poteva
rientrare prima di aver visto Jason per chiedergli qualcosa in più, avesse
anche dovuto aspettare tutta la notte.
Si sedette
al tavolo bevendo un bicchiere d’acqua e sentì la porta aprirsi.
“Ora mi dirai tutto ciò che sai, poi chiameremo anche tua
sorella” sentì dire. Si precipitò nell’ingresso col fiatone.
“Che è successo? Dov’è Rea? L’avete trovata?”
domandò Emma, con le lacrime agli occhi.
“Ci stiamo lavorando” le rispose l’uomo.
Si avviò
verso le scale che portavano in palestra e guardò i due ragazzi.
“Forza, di sotto possiamo parlare più tranquillamente, che
aspettate? Muovetevi!” li spronò. Loro lo seguirono, ritrovandosi in una
specie di sala d’addestramento per poliziotti.
“Che roba è?” chiese Fabio.
“Palestra, poligono, angolo studio” elencò Jason.
Prese tre
sedie e le mise in modo da vedere entrambi, poi si strofinò le mani.
“Ok, dopo essere stato sollevato dal caso…”
“Sei stato sollevato?!” esclamò Emma,
interrompendolo.
“Sì, per conflitto d’interesse. Dicevo, a questo punto
lavoriamo da soli. O almeno, io lavoro da solo, se voi volete aiutarmi siete i
benvenuti” li invitò.
“Non mi sono mai fidato dei poliziotti normali, non hanno una
buona fama qua nei dintorni, per cui io sono con lei” asserì Fabio.
“Anche io non ti lascio solo” confermò la mora.
L’uomo sorrise.
“Bene, allora dobbiamo studiare come sono andate le cose
fino ad oggi per capire dov’è mia figlia” annunciò.
Rea,
intanto, stava lentamente tornando nel mondo reale. Le faceva male la testa in
maniera indescrivibile ed era sicura di avere una specie di trapano piantato
nella nuca che la traforava.
“Che male!” si lamentò. Provò a muovere unamano per toccarsi, ma era bloccata.
“Ma che diavolo…?”
Era legata,
da capo a piedi. Si agitò per vedere se le corde cedevano, ma era inutile.
“Porca vacca, liberatemi!” gridò. Non ebbe
risposta.
Il ricordo
di ciò che era successo le arrivò tutto insieme e si rese conto di chi l’aveva
colpita: Laura, la piccola e dolce Laura. Allora non aveva avuto la sensazione
sbagliata, tutto sommato.
“Chi c’è?”
chiese una voce flebile. Lei si guardò intorno allarmata.
“C’è
qualcuno, vero? Puoi aiutarmi?” implorò quella voce.
“Ci sono io, ma non ti vedo. Dove sei?” rispose
Rea.
“Nella
stanza accanto, credo. Com’è bello sentire una voce così gentile, per una
volta” esclamò quella.
“Scusa, ma sei prigioniera anche tu?” s’informò la
ragazza.
“Sì, ormai
da un po’. Ho perso il conto dei giorno” ammise.
Eppure lei
era convinta di riconoscere quel timbro vocale, ne era certa.
“Scusami, come ti chiami?” domandò.
“Io?” chiese
la voce.
“No, parlavo alla mia amica immaginaria” Rea scosse
la testa sconsolata: stava discutendo con un’idiota.
“Mi
dispiace, sono un po’ fuori fase, è colpa di tutto questo tempo passato qui” si
scusò l’altra persona.
“Comunque sì, lo stavo chiedendo a te. Chi sei tu?”
Jason
camminava per casa disperato, con in mano una tazza di caffè. Emma era tornata
a casa già da un’ora e lui era rimasto solo con Fabio, che al momento stava
cercando di chiamare sua sorella.
“Non capisco, è irraggiungibile completamente. È strano, Laura
è sempre raggiungibile. Uff, da un po’ di tempo quella ragazza ha perso la
testa, è cambiata completamente. Va beh, torniamo a noi, dov’eravamo rimasti?”
L’uomo posò
la tazza sul tavolo e si appoggiò con la mano sui fogli.
“Al punto di partenza, temo. Non posso chiamare in ufficio
per sentire se riescono a trovare il numero di quel famoso bidello e a scuola
non mi sanno dire niente. Sembrano tutti spariti al momento, dannazione!”
esclamò.
Il ragazzo
sospirò.
“Se fosse stato Antonio dove potremmo cercarlo?”
domandò.
“Non ne ho idea, ma sono quasi certo che sia stato lui. Il
preside sicuramente saprà dirmi qualcosa, andiamo da lui. Ho il suo indirizzo
di casa, l’orario di rientro dalle lezioni è passato da un pezzo, se non ci
sono gli inservienti, a scuola, figuriamoci se c’è il preside” rispose.
“Come posso aiutarla, signor Simon? Non so fare quasi niente,
che posso fare?” chiese.
Jason lo
guardò sorridendo.
“Una pistola non saprai usarla, ma premere un grilletto è
più facile di quanto pensi” lo informò.
“Non ce l’ho nemmeno, una pistola!” esclamò Fabio.
“Ma io ce l’ho, però. Ne ho due di riserva e una ce l’ha
Rea. Siamo previdenti, in casa, sai com’è” gli disse l’uomo.
Tirò fuori
dal cassetto una rivoltella e gliela passò.
“Sembra piccola ma in realtà è molto potente. Spero
vivamente che non ne avrai bisogno”
Rea aveva
ascoltato il racconto dell’altro prigioniero con gli occhi sgranati, incredula
e stranita. Le sembrava davvero che tutta quella storia fosse assurdamente
inventata, ma parola dopo parola si rendeva conto che il tutto aveva un senso.
“Questo spiega come mai siamo qui” commentò infine.
“Già. Mi fa
piacere sapere che sei con me, mi sento più tranquilla” rispose l’altra.
“Beata te, io sono molto poco tranquilla, invece. Quanto
tempo è che sei qui?”
“Non lo so,
ho perso il conto. Non c’è un orologio, ma da quella finestra entra un po’ di
luce, ogni tanto, quindi qualche volta ho provato a tenere il conto dei giorni,
ma alla fine mi sono persa d’animo e ho smesso. Più di un mese, comunque, penso”
disse.
“Più di un mese. Da quella stupida festa in discoteca.
Sono una deficiente, ecco la verità!” esclamò Rea, stringendo i pugni
arrabbiata.
Sentì
qualcosa di duro sui polsi e cercò di guardarsi dietro le spalle, ma era legata
troppo stretta.
Piegò una
mano verso l’interno del braccio e allungò le dita più che poteva. Alla fine ci
arrivò.
“Ah-ha! Cosa sei tu?” chiese retoricamente.
Sentì con i
polpastrelli che era qualcosa di appuntito e decise di provare.
Piegò
qualsiasi cosa avesse in mano contro le corde e iniziò a muovere su e giù,
tentando di ledere i lacci.
“Ci metteròuna
vita così” si lamentò.
In quel
momento una porta di aprì e lei sobbalzò, spaventata.
Si voltò per
guardare chi ci fosse, ma controluce non riusciva a distinguere bene le forme.
“Ancora
viva?” chiese una voce rauca e profonda. Rea la riconobbe e rabbrividì.
“Cosa vuoi tu? Vattene via, mio padre sta per arrivare!”
lo minacciò.
“Sì, sì,
certamente. Lo so da solo quanto tempo ci metterà tuo padre a trovarti, anche
volendo non riuscirebbe ad essere qui prima di alcune ore. E tu, nel frattempo,
sarai morta” rispose quello.
La ragazza
si sentiva tremare di paura e non sapeva come fare.
“Non la passerai comunque liscia” tentò.
“Questo è
poco ma sicuro. Ora stai ferma, altrimenti mi ci vorrà una vita” le consigliò
l’uomo, avvicinandosi con un coltello.
Rea si mise
a piangere silenziosamente.
Jason suonò
a casa del preside e attese. Quando l’uomo andò ad aprirgli e lo vide, sbiancò.
“Oh,
si-signor Simon, che ci fa qui? C-ci sono problemi?” balbettò.
Lui sorrise
gentilmente.
“No, si figuri. Avrei solo bisogno di un’informazione”
lo tranquillizzò. L’uomo si guardò intorno, sudando e respirando
affannosamente.
“A-adesso?
Avrei da fare e non ho molto tempo” disse. Jason alzò un sopracciglio, poco
convinto.
“Non ci vorrà molto, faremo subito e ce ne andremo”
assicurò.
“Faremo?”
Fabio spuntò
da dietro le spalle di Jason e salutò il preside con una mano.
“Buonasera”
“Fa-Fabio,
buonasera” ricambiò.
Li fissò
impaurito e poi sospirò.
“Va bene, un
minuto posso anche concedervelo. Che vi serve?” chiese.
“Per caso ha un recapito di Antonio, il vostro bidello? Mi
servirebbe trovarlo” spiegò l’uomo.
“A-Antonio?
Se n’è andato qualche giorno fa da scuola e…”
“Sergio!
Dove sono le chiavi della stanza di sotto, ci sono quelle due che…”
Una donna
non molto alta, con i capelli raccolti in uno chignon e gli occhiali neri che
coprivano metà faccia apparve dietro al preside, che sbiancò anche di più.
“O-ora
arrivo, Samantha, tu aspetta di là” rispose.
Samantha squadrò
gli ospiti da capo a piedi e poi annuì.
“Va bene, tu
muoviti, temo che abbiamo un problema” lo spronò.
Jason capì
da solo che c’era qualcosa che non andava, non serviva un genio per
comprenderlo, e il suo cervello si mise in moto.
“Grazie per tutto, signor preside, noi andiamo”
salutò, prendendo Fabio per un braccio.
“Ma…” provò il ragazzo. Lui lo fulminò.
“Arrivederci” salutò anche lui.
Quando
furono in macchina, lontani da lì, lo guardò.
“Che è successo?” domandò confuso.
“Abbiamo il nostro colpevole” rispose Jason.
Rea temeva
che la sua fine sarebbe arrivata a soli vent’anni. Aveva paura, le mancava suo
padre e tutto ciò che voleva in quel momento era non essersi mai messa a
indagare senza aiuto. Era stata la cosa più stupida che potesse fare, e solo
ora si rendeva conto di quanto suo padre fosse un aiuto prezioso.
Chiuse gli
occhi quando l’uomo si avvicinò a lei, ma il coltello non la sfiorò
minimamente.
Le corde che
la stringevano si sciolsero tutte insieme, lasciandola libera di muoversi senza
problemi.
“Ma che…?”
“Non sono io
il cattivo, detective in gonnella. Hai sbagliato uomo” le disse Antonio.
“Cosa? Sì che sei tu, ti ho visto mentre…”
“Mentre
litigavo con quel cretino? Ovvio che mi sono infuriato, ha voluto utilizzare le
nuove droghe nonostante tutti i miei avvertimenti, e così si è messo nei guai.
I ragazzi non ascoltano mai i bidelli” le spiegò l’uomo, sospirando sconsolato.
Rea non ci
credeva, tutto ciò era sempre più assurdo.
“Come sapevi che ero qui, scusami?”
“Ti tengo
d’occhio da mesi, mia cara investigatrice”
“COSA? Sei uno stalker?”
“Uno stalker non ti avrebbe salvata, genio. Sono solo uno che si
interessa ai suoi ragazzi e che sa benissimo che nessuno studente sano di mente
cambia scuola a marzo della quinta superiore. Sapevo che non eri un’alunna
normale, facevi troppe domande. Poi, naturalmente, ti ho vista sparare alla
macchina di Samantha, quella sera in discoteca” le spiegò Antonio. Tirò fuori
dalla tasca una pistola e gliela passò.
“Tieni, ti
servirà sicuramente. Adesso andiamo a liberare la tua amica, non le è
sicuramente piaciuto star qui rinchiusa” le disse, uscendo in corridoio.
Rea lo seguì
senza fare domande: si sentiva abbastanza confusa così.
Aprirono la
porta dell’altra cella e videro la ragazza seduta da una parte, con i vestiti
sporchi e il viso polveroso.
Li fissò
sorridente e si mise a piangere.
“Pensavo che
nessuno mi avrebbe più fatta uscire di qui” disse, prima di svenire.
Antonio
portava in braccio la ragazza mentre Rea stava con l’orecchio teso ad ascoltare
che non arrivasse nessuno.
“Certo che sono un tipo più lento di quel che credevo. Ero
sicura che fossi tu il cattivo della situazione” commentò lei. Il bidello
sospirò.
“Ma non mi
dire” rispose acido.
“Ehi, se ti comporti come uno che ha da nascondere delle
cose mica è colpa mia!” lo accusò la ragazza.
Si affacciò
dietro un angolo e vide una lunga scalinata che saliva.
“Siamo in una cantina?” domandò.
“Perspicace”
“Smettila col sarcasmo, mi urti i nervi!”
“Sì, siamo
in una cantina. Per la precisione nella cantina del tuo preside” le spiegò.
“Del preside?” si stupì Rea. Si guardò intorno come
se cercasse una risposta più plausibile ma comprese da sola che era quella la
risposta.
“Lui e
Samantha hanno ampliato un po’ le basi della casa e hanno così allargato la
cantina. In questo modo hanno potuto arrangiarla come prigione”
La ragazza
si mise una mano sulla fronte, confusa.
“Perché tu sai tutte queste cose? Ma soprattutto, se loro
sono di sopra, tu come cavolo hai fatto ad entrare?!” domandò
istericamente. Troppe informazioni tutte insieme.
“Sto dietro
al preside da un po’ e ho visto che portavano qui la tua amica, poi dopo,
quando hanno portato anche te, ho notato che si chiudevano nello studio. Che
altro potevo fare? Lasciarvi qua? Non mi pareva il caso, così sono entrato
usando il vecchio metodo di aprire la porta con una carta di credito e mi sono
nascosto fin quando non sono potuto venire qui”
“In pratica sei una specie di detective, ho capito”
“Sono solo
un bidello che odia veder sparire cadaveri!” ribatté lui.
“Cadaveri?”
“Dove pensi
che siano finiti i ragazzi scomparsi, a Disney world?”
Rea si sentì
gelare.
Jason si
appostò con la macchina fuori dalla casa del preside con Fabio a fianco. Emma
era a casa e aveva l’ordine di chiamare la polizia se non si fossero fatti
sentire ogni dieci minuti.
Stavano
guardando l’interno dell’appartamento con un binocolo e stavano in silenzio
religioso.
“Secondo te Rea è lì?” domandò il ragazzo.
L’uomo
annuì.
“Quasi sicuramente” rispose.
Aveva la
sensazione che quella donna, Samantha, gli ricordasse qualcuno, anche se non
riusciva a focalizzare chi.
“Cosa facciamo?” chiese Fabio.
“Aspettiamo che vadano a dormire e poi entriamo. Non posso
fare altro, non ho il permesso di chiedere un mandato per perquisire la casa e,
anche se l’avessi, ci vorrebbe troppo tempo. Visto com’è andata la situazione
finora, ogni momento è prezioso per salvarla” gli disse.
Il ragazzo
storse la bocca.
“E se ci fosse qualcun altro in casa?”
“Non c’è” rispose Jason, sicuro.
“Ma…”
“Senti, dobbiamo rischiare! Se non lo facciamo quelli
l’ammazzano!” esplose.
Scese di
nuovo il silenzio nell’abitacolo e lui sospirò disperato.
“È l’unica possibilità che abbiamo” lo informò.
“Va bene, mi fido” decise Fabio.
Si rimisero
il binocolo agli occhi e guardarono dentro.
Le luci
erano accese, ma non si vedeva nessuno.
“Che succede?”chiese Jason. Quella situazione non
gli piaceva.
Si sentì una
specie di urlo stridulo e prolungato e poi un colpo di pistola. Delle ombre
apparvero proiettate sulle tende gialle, sembrava stessero lottando.
“Merda!” esclamòl’uomo, scendendo di macchina di corsa, seguito da Fabio.
Arrivarono
davanti alla porta di casa e iniziarono a suonare.
“Aprite subito, polizia!” gridò, ma non ebbe
risposta.
Iniziò a
battere con la spalla alla porta, cercando di aprirla senza successo.
“Posso?” domandò il ragazzo. Sfoderò la pistola e sparò
un colpo alla serratura, che saltò lasciando la porta aperta.
“Prego” disse divertito.
Il
divertimento fu subito rimpiazzato dalla paura quando vide che Antonio aveva in
mano una rivoltella e la stava puntando contro Rea e Laura, che erano stese a
terra.
“Che stai facendo?” esclamò, lanciandosi su di lui. Il
bidello si spaventò quando se lo vide arrivare addosso e perse la mira, così
che la bionda poté dare una testata a Rea, togliendosela di dosso.
“Maledetta!” le disse lei, alzandosi in piedi e
seguendola di corsa.
Jason
sfoderò anche la sua pistola e andò a cercare il preside, che trovò con la
testa tra le mani, seduto sul divano. Accanto aveva una ragazza semi-svenuta
che giaceva supina.
“Ma che…?”
L’uomo alzò
lo sguardo e lo fissò, con occhi speranzosi.
“Faccia
finire tutto questo” lo implorò.
In
quell’istante ci fu un altro colpo di pistola e Rea gridò di dolore.
“Non ce la fai ad affrontarmi a mani nude?” chiese
in direzione della bionda.
“Fossi
scema!” rispose quella, ridendo.
Fabio era
ancora occupato a tenere fermo Antonio, che cercava disperatamente di bloccarlo.
“Ragazzino
idiota, non sono io il cattivo!” urlava, ma quello non lo sentiva.
“Stavi per sparare alla mia ragazza!”
“Stavo per
sparare a Samantha, deficiente!”
Jason non
sapeva più che fare, si sentiva preso tra due fuochi. Alla fine alzò la pistola
al soffitto e sparò un colpo, che risuonò in tutta la casa.
Ne seguì un
silenzio glaciale.
“Samantha, ti dichiaro in arresto!” esclamò poi,
tirando fuori dalla cintura le manette. La bionda strinse gli occhi e continuò
a puntare la magnum su Rea.
“Se fai un
altro passo la uccido” lo minacciò. Lui si bloccò e la guardò impaurito.
“Non aggravare la tua posizione, sei accusata di almeno
sedici omicidi e di spaccio di droga” le ricordò. La donna non mosse un
muscolo.
“Fatemi
uscire o l’ammazzo” ripeté.
Jason si
sentiva alle strette, non sapeva come proteggere sua figlia.
“Ma per favore!” esclamò Rea. Samantha l’aveva
persa di vista e lei ebbe la possibilità di alzarsi di terra e gettarsi su di
lei.
“Così impari a spararmi a un braccio!” gridò,
sovrastandola col suo corpo. La bionda provò a divincolarsi ma a quel punto
l’uomo le fu sopra con le manette e la bloccò.
“Fossi in te starei ferma” le consigliò.
La ragazza
sorrise trionfalmente e si spostò, piuttosto acciaccata.
“Che dolore” commentò toccandosi la spalla.
Alzò gli
occhi su Antonio e Fabio, che erano rimasti immobili.
“Smettetela di litigare, siete dalla stessa parte”
li sgridò.
“Ma dai?”
chiese il bidello sarcastico.
Il ragazzo
si mosse velocemente e le fu accanto.
“Stai bene?” domandò preoccupato.
“Ho avuto giorni migliori” rispose lei, ridendo.
Il preside
si alzò con tutta la compostezza che riusciva ad avere e si avvicinò a Jason
con i palmi rivolti verso l’alto.
“Per favore”
lo implorò. Lui lo guardò stranito e poi annuì.
“Sergio sei
in arresto. Qualsiasi cosa che dirai verrà usata contro di te” disse,
ammanettandolo.
Samantha
stava continuando a scalciare, ma i suoi occhi incontrarono quelli di Fabio,
che trattenne il fiato. Spostò lo sguardo sulla ragazza debole e svenuta sul
divano e comprese.
Comprese di
essere stato uno stupido per delle settimane.
“Ma che…”
Rea lo notò
e sospirò.
“Fabio, ti presento tua sorella Laura degli ultimi due
mesi e mezzo” lo informò.
Mezz’ora
dopo Jason stava litigando con un Bearne piuttosto arrabbiato, Laura era stata
spedita con un’ambulanza in ospedale e Rea era dai medici della polizia a farsi
fasciare il braccio con Fabio accanto a sé.
“Che fatica” si lamentò lei, stringendo un panno
sul buco che la pistola le aveva lasciato sulla spalla.
“Certo che tu un po’ più di attenzione non potevi farla?”
“Io non avevo capito che tua sorella era la cattiva, sai?”
lo freddò. L’infermiere iniziò a stringerle delle fasciature intorno al
braccio, facendola lamentare.
“Lo so, stavo solo cercando di smorzare un po’ l’aria. C’è
Bearne laggiù che tra poco ammazza tuo padre” le spiegò, indicando i due
uomini che si stavano urlando contro. Rea fece spallucce.
“Se lo merita” disse. Fabio la guardò male.
“Se lui non avesse continuato a cercarti chissà come sarebbe
andata a finire”
“Nel modo migliore possibile! C’era Antonio ad aiutarmi”
rispose. Lo sguardo pungente del ragazzo la fece arrossire.
“Ok, va bene, ti posso anche dare ragione, ma io sono
arrabbiata con lui!” esclamò.
Le fu legato
il braccio intorno al collo.
“Tenga ferma
la spalla, signorina Simon, per un mese e ogni tre giorni si faccia cambiare la
fasciatura” le ordinò il medico. Lei mosse un po’ la spalla poi gli sorrise.
“Grazie”
Fabio si
sedette sul camioncino vicino a lei e le piantò addosso i suoi occhi
indagatori, mettendola in soggezione.
“Te ne prego, risolvete questa faida. È stato disperato per
tutto il tempo in cui non sapeva dov’eri. Io non so che è successo tra di voi,
non me ne hai mai voluto parlare e non ti chiederò di dirmelo ora, però fai un
passo verso di lui” la implorò. Rea scosse la testa.
“Non ancora” rispose.
Il ragazzo
sospirò e si appoggiò con la testa alla parete del furgoncino, guardando in
alto.
“Che è successo in quella casa?” domandò per cambiare
discorso. Lei rise amaramente.
“Antonio ci ha liberate. Io sono stata tramortita da
Samantha a casa tua e mi ha portata qui, prendendo anche il mio computer e non
so cos’altro: le prove che avevo all’attivo erano troppe, nonostante pensassi
che fosse tutta colpa di Antonio avevo già capito che i ragazzi erano stati
drogati. Quando mi sono risvegliata tua sorella mi ha parlato tramite una
specie di apertura sulla parete o qualcosa di simile e mi ha raccontato che era
stata rapita; io ho ricollegato i tempi a poco dopo la serata con te in
discoteca, ti ricordi? Quando è stata rapita Mary e io ho sparato su quella
macchina che ha provato a investirmi” raccontò.
“Sì, come dimenticare il nostro primo appuntamento romantico”
rispose lui sarcastico. Rea rise divertita.
“Sono una che lascia il segno, che vuoi farci? Comunque,
probabilmente era Samantha a guidare quella macchina e mi ha riconosciuta, per
cui con un po’ di trucco e un po’ di tinta per capelli si è finta Laura. Tutto
sommato non le deve essere risultato difficile, sono molto simili fisicamente e
al giorno d’oggi la paraffina fa miracoli. Alla fine tutto questo era per
spiarmi e fare in modo che io non capissi che in realtà il traffico di droga si
svolgeva a scuola sotto l’occhio attento del nostro amatissimo preside”
spiegò.
“Ma perché fare una cosa simile?”
“Per soldi. L’istituto sta attraversando un periodo
piuttosto buio e i fondi mancano: le famiglie preferiscono non investire nella
scuola perché la crisi ha colpito un po’ tutti e i soldi vengono messi da
parte. Comunque Samantha, venuta a conoscenza di questi problemi, ha proposto
al preside di testare sui ragazzi una nuova droga sintetica che risulta
introvabile alle normali analisi di routine sui cadaveri e lui, messo alle
strette, si è messo in gioco. All’inizio andava tutto bene, anche se la droga
diventava quasi subito una dipendenza per gli studenti, e i soldi hanno
iniziato ad arrivare, poi ci sono stati i primi cedimenti e i primi morti. Da
uno a sedici in poco tempo. Il preside si è fatto prendere dal panico e voleva
finirla con lo spaccio ma Samantha ha preferito fare di testa sua e ha rapito i
ragazzi che mostravano segni di dipendenza troppo avanzata, quelli che, cioè,
dopo poco si sarebbero sentiti male. Diciamo che la situazione è degenerata e
che il preside non è riuscito a fermare la donna che ormai si era presa il
diritto di usare i ragazzi come più le pareva e Antonio ha scoperto tutto.
Quando mi ha rapita, Samantha era sicura di togliersi di torno tutti i suoi
problemi ma alla fine le è andata peggio che mai perché noi siamo riusciti a
prenderla di sorpresa uscendo dalla cantina. Inoltre, il preside ha deciso di
non reagire: non voleva più essere in quelle condizioni, si sentiva in colpa e
non voleva più che i ragazzi morissero, quindi Samantha è stata fregata”
concluse.
Fabio
trattenne una risata e poi la guardò.
“Sei un tipo per niente noioso, sai?” le disse. Rea si
stupì.
“Oh, beh, se volevi una noiosa bastava che ne scegliessi
una a caso in mezzo a tutte quelle oche liceali” ribatté.
“Potrei farci un pensierino” la sfidò lui. La ragazza
gli sorrise.
“Provaci, tesoro” lo invitò.
Lui scosse
la testa e la baciò lievemente.
“Mi basti tu” le assicurò. Lei si posò con la testa
sulla sua spalla.
“Meno male, non mi piacciono le liceali, sono tutte
frivole e superficiali” confessò sollevata.
“Tu no”
“Non sono una liceale, lo sai. Da domani probabilmente
smetterò di venire a scuola, ormai io ho finito” lo informò. Fabio
rimase in silenzio, poi si spostò per guardarla.
“Non… non vieni più?” le domandò. Rea scosse la testa.
“Figurati. Ho fatto il mio percorso da studentessa e
adesso basta così. Mi sono divertita, tutto sommato le superiori non sono così
male, ma sono felice della mia scelta di studiare a casa, non sarei riuscita a
star dietro a ritmi come questi, sono odiosi” rispose.
“Ma mi lasci solo?” la accusò il ragazzo. Lei rise.
“Ma figurati, fossi scema! Semplicemente ci vediamo fuori
dalle mura scolastiche da ora in poi” spiegò.
“E con la scuola di polizia?”
La ragazza
sospirò tristemente.
“Sono fuori tempo massimo, devo aspettare un anno prima di
poter fare di nuovo la domanda, purtroppo. Questo significa stare di nuovo
ferma a non fare niente, il che mi fa venire l’ansia” ammise.
“Non prendi più le pillole, vero?”
Rea arrossì.
“Ogni tanto sì, non posso farne a meno, che ci vuoi fare?
Il respiro mi si mozza in gola e penso di morire, senza quelle soffocherei”
rispose. Fabio la guardò male.
“Smettila, lo sai che quegli attacchi sono solo colpa tua”
la sgridò.
“Ma…”
“Senti, ti sei mai chiesta perché tuo padre ti abbia sempre
tenuta sotto una bolla di vetro e abbia cercato di non farti entrare in
polizia?” le chiese. Lei rimase zitta.
“Secondo me l’ha fatto perché sa che tu hai paura. Tu hai
sempre paura, tutto sommato: sei una ragazza forte e indipendente, certo, ma al
minimo ostacolo un po’ più grande ti tiri indietro e non sai come affrontarlo,
così ti vengono gli attacchi d’ansia. In una situazione come quella che Jason
ha affrontato, dove sua figlia era stata rapita da dei malviventi, tu
probabilmente non avresti saputo cosa fare” le spiegò. Rea storse la
bocca.
“Qualsiasi cosa sia a farti entrare il panico in corpo, tu
evita quelle pillole” le consigliò.
La ragazza
annuì.
“Va bene, ma smettila con la paternale” accettò.
Fabio le baciò la testa e poi la strinse un po’.
“Sai che ho capito una cosa stasera?” la informò.
“Cosa?” chiese Rea, appoggiandosi al suo petto. Le
dava la stessa tranquillità che provava quando era suo padre ad abbracciarla.
“Ho capito che ti amo” confessò alla fine.
Nel
camioncino scese il silenzio e lui si sentì un perfetto idiota nell’averle
detto quelle cose. La ragazza sorrise.
“Fabio Daniels, sei un tipo
strano” rispose.
“Co…?”
“Queste sono cose da dire con una certa atmosfera, in un
posto romantico e lontano dal mondo, dove non esistono preoccupazioni”
lo informò. Poi lo guardò felice.
“Però anche io ti amo” ammise, baciandolo. Lui
sospirò sollevato.
“Ti giuro che stavo per rimangiarmelo” le disse. Rea
rise.
“Perché?”
“Hai idea di quanto abbia sofferto negli ultimi due minuti?”
le chiese.
“Ne è valsa la pena?” domandò lei. Il ragazzo
sbuffò contrariato.
“Direi di sì” rispose.
“Allora l’attesa non conta”
Rea si stese
su di lui, stanca. Era sfinita, aveva faticato più in quei giorni che in
vent’anni di vita e voleva dormire un po’.
Prima di
chiudere gli occhi vide suo padre che si sedeva da solo su una di quelle sedie
portatili e si sentì triste e sola. Le mancava, le mancava in modo terribile e
ora quella mancanza pesava.
Ora,
abbandonata tra le braccia del ragazzo che amava e che la ricambiava, avrebbe
voluto essere con suo padre, lì a vedere il suo sguardo orgoglioso e a sentirsi
dire “Brava piccola, sono fiero di te”. E
invece no, erano entrambi soli.
Era così
sbagliato avercela con lui perché usciva con Emma? Tutto sommato, se si
piacevano e volevano stare insieme, erano tutti e due grandi e vaccinati,
avevano la capacità di decidere.
Si
addormentò con un sospiro e dormì fino al giorno dopo.
Quando si
svegliò era in ospedale. Non ricordava di esserci andata, ma dato che aveva più
o meno perso i sensi in un’ambulanza era plausibile che lei lì non ci fosse mai
andata coscientemente.
Si mise
seduta e sentì subito il fastidio della fasciatura stretta al collo.
“Maledette bende” si lamentò.
Sentì una
specie di basso ronzio e si voltò, deglutendo a fatica quando vide suo padre
che dormiva su una poltrona. Era messo con la testa ricurva verso il basso,
tutto piegato e torto. Non doveva essere una posizione comoda.
Allungò una
mano un po’ esitante, poi lo sfiorò.
“Papà?” lo chiamò. Quando pronunciò quella parola
si rese conto di quanto le fosse mancato dirla.
L’uomo
sussultò e si guardò intorno spaesato, poi la vide e si tranquillizzò.
“Buongiorno” la salutò, stiracchiandosi.
“Mi fa male una spalla” si lamentò.
“Per forza, hai dormito piegato come un compasso”
lo sgridò lei.
“Non avevano un altro letto da prestarmi!” si scusò
Jason. Rea rise.
“Ma tu fossi cambiato di una virgola, negli ultimi giorni,
eh?” lo prese in giro.
Nonostante
la sua frase volesse essere allegra e tranquilla, si rese subito conto che
aveva invece premuto un tasto dolente.
“Scusa” disse subito.
“No, io sono qui per risolvere, non scusarti” la
tranquillizzò. La ragazza sospirò.
“Che vuoi risolvere? Vai a letto con Emma!” gli
fece presente.
Jason annuì.
“Lo so, sono un padre orrendo, me ne rendo conto. E ti
giuro che ho provato ad essere mille volte migliore rispetto a come non sarò
mai, ma il problema è che non l’ho fatto apposta! Non volevo ferirti, non lo
vorrei mai, io vorrei che tu fossi felice per sempre, vorrei renderti felice e
invece ti ho portata a questo. Mi odi, vero?” le chiese. Rea ci pensò un
po’, in silenzio.
“No” rispose alla fine. Jason la guardò sorpreso.
“No?”
“No, non ti odio, affatto. Io odiavo solo il fatto che tu
non ti fidassi abbastanza di me, che tu non mi abbia mai detto cos’era a farti
stare male” spiegò.
“Ma…”
“Fammi finire, papà. Tu ed io siamo soli da una vita,
ormai, siamo sempre stati soli praticamente. La mamma se n’è andata troppo
presto per quanto mi riguarda e tu non hai mai voluto nessun’altra. Non
fraintendermi, sono felice se tu sei felice, però speravo che dopo tredici anni
ti saresti fidato a dirmi ciò che ti passa per la testa. Invece hai preferito
tenerti tutto dentro, stare male da solo e poi fare le cose alle mie spalle.
Hai presente come ti sei sentito tu quando hai scoperto che stavo con Fabio?
Ecco, io sono stata dieci volte peggio, mi sentivo una nullità perché nemmeno
mio padre si fidava a dirmi le cose” raccontò.
“Non sapevo che altro fare quando ho visto che baciavi
Emma, ero nel panico: ho odiato te e lei e ho sperato che vi capitasse qualcosa
affinché capiste come mi sentivo, perché questo proprio non dovevate farmelo. Ma
poi dopo ho capito” ammise.
Jason, che
era stato zitto per tutto il tempo, cercò di non commuoversi.
“Cosa?” chiese.
“Sono stata in quella cantina non per molto, anzi a dirla
tutto mi è andata piuttosto bene: se avevo sfortuna, potevo essere ancora lì, chissà.
Comunque, nonostante ciò, quando sono uscita mi sono chiesta cosa sarebbe
successo se al mio ritorno a casa tu non ci fossi stato perché avevamo litigato
o se, peggio ancora, io non ne fossi uscita viva. Davvero volevo andarmene col
ricordo di te che mi facevi stare male o preferivo risolvere? Era inutile
starci male, sono sicura che se tu ed Emma avete iniziato una qualche relazione
sicuramente non sarà qualcosa di passeggero e che, volenti o nolenti, non
riuscirete a fermare ciò che provate, è inutile. Quindi io non dovrò essere
quella che vi mette i bastoni tra le ruote, non me lo perdonerei mai: e se la
tua felicità fosse proprio lei? Se fosse Emma colei che ti farà ritrovare il
sorriso? Non voglio essere io a toglierti la felicità” ammise.
Piangeva
silenziosamente, ma sorrideva.
“Io sarò felice qualsiasi cosa tu decida, papà” gli
promise.
Jason la
abbracciò senza sapere cosa dirle, tenendo stretta tra le braccia quella
bambina che poche ore prima aveva rischiato la vita. Senza non sarebbe riuscito
a stare, questo era sicuro.
“Ti voglio bene” le disse solamente. Altre parole
sarebbero state inutili, lo sapeva.
“Anche io, papà”
Una volta
fuori di lì, Rea e Jason andarono a prendere un gelato. Rimasero in silenzio
per quasi tutto il tempo, godendosi quei minuti di tranquillità.
“Quindi tu e Fabio siete affermati ora?” chiese
l’uomo, incuriosito.
“Sì, decisamente sì. Credo… credo di amarlo, sai?”
confessò la ragazza, avvampando.
“E lui ti fa felice?”
“Come nessuno mai”
Lui la
strinse forte.
“Allora è giusto così” le assicurò.
Rea
tergiversò un po’, poi sospirò.
“Tu ed Emma, invece?” domandò infine. Jason temeva
quella domanda, ma sapeva che sarebbe arrivata. Sospirò.
“Non lo so, a me lei piace e basta. Che ti devo dire? Non
riesco a starle lontano ma so che è sbagliato starle vicino” rispose.
“Non sono ancora pronta a parlarle, ma secondo me dovreste
conoscervi un po’ meglio” gli suggerì.
“Oh, ma lo so. L’unico problema nato eri tu” la
prese in giro.
“Ah, grazie eh!” fece finta di arrabbiarsi lei,
ridendo.
Anche l’uomo
rise, poi si fermò a guardarla.
“Secondo te è giusto che uno della mia età esca con una
liceale?” le chiese.
“Secondo me è giusto seguire il proprio cuore”
spiegò Rea, facendo spallucce.
“Fosse facile”
“Ma lo è! Insomma, se non te la togli di testa e lei non
si toglie di testa te tanto vale che vi vediate! I problemi nasceranno dopo!”
esclamò lei.
“Forse il mio è solo orgoglio, in fin dei conti”
“Ne uccide più l’orgoglio della spada”
“Quand’è che sei diventata così saggia?”
“Ho un buon maestro, che vuoi farci?” rispose la
ragazza, continuando a ridere.
Poi tornò
seria tutto insieme.
“Anche se adesso dovrò tornare a non fare niente per
chissà quanto tempo” sospirò. Lui la fissò.
“Che intendi dire?”
“Avrei dovuto portare la domanda per entrare in polizia
alcuni giorni fa, ora sono fuori tempo massimo per l’iscrizione, il che
significa che devo aspettare un anno per poter fare il corso” gli disse.
Jason
sorrise.
“Già, a proposito di quella… ho parlato con Bearne qualche
giorno fa” la informò.
“Per cosa?”
“So di essere stato un idiota e che devi fare le tue
scelte, così gli ho chiesto se aveva intenzione di farti entrare nella squadra
e che io avrei dato le referenze per accelerare l’assunzione. Ho firmato le
carte al posto tuo” le annunciò, tirando fuori dalla tasca della giacca
un foglio con su scritto “Approvato” a caratteri cubitali.
Rea prese il
foglio e lo guardò con occhi sgranati, senza sapere cosa dire.
“Ma tu non volevi!” esclamò.
“Io avevo solo paura che tu non ce la potessi fare, ma so
che sei una ragazza meravigliosa e che riuscirai a rendermi fiero di te. E poi
non sarai sola, io sarò sempre con te, ogni volta che ne avrai bisogno”
le promise.
Lei si
lanciò verso di lui e lo strinse con l’unica mano libera che aveva.
“Grazie, grazie, grazie, grazie!” gli disse.
Jason rise.
“Però vedi di impegnarti!” si raccomandò.
“Sarò la poliziotta migliore che tu abbia mai conosciuto,
te lo giuro!” disse lei, asciugandosi gli occhi.
L’uomo la
abbracciò di nuovo e sorrise.
“So che lo sarai, io ho fiducia in te” le assicurò.
Emma una
mattina uscì di casa per andare a scuola, qualche giorno prima degli esami di
maturità, e si trovò Rea davanti, appoggiata al muretto che l’aspettava. Aveva
ancora il braccio fasciato, ma sembrava stesse bene.
Quando la vide
le sorrise.
“Ehi” le disse, andandole davanti. Lei non seppe
che rispondere.
“Lo so, anche per me è strano, ma parliamo un po’, ti va?”
le propose.
La mora
semplicemente annuì.
Si misero a
camminare fianco a fianco e Rea non sapeva bene come comportarsi.
“Mi dispiace per quello che ho fatto” le disse
infine.
“So che papà è molto affezionato a te e se anche tu sei
innamorata di lui io non ho diritto di ostacolarvi” ammise controvoglia.
Emma la
fissò incredula.
“Quindi?” chiese senza capire.
“Quindi nulla, se lui è felice io sono felice con lui.
Dopo quest’esperienza ho capito che non posso permettermi di perdere papà.
Tanti ragazzi sono morti e quelli rapiti non torneranno mai a casa, i loro
genitori non li ritroveranno mai. Pure io ho rischiato che le ultime parole che
avevo detto a mio padre fossero che lo odiavo e questo mi ha fatto capire che
non voglio più essere arrabbiata. Certo, è strano pensare che una ragazza più
piccola di me stia con papà, ma sono cose che possono capitare, al cuor non si
comanda in fondo” rispose con un’alzata di spalle.
“Una ragazza più piccola di te? Noi abbiamo la stessa età”
disse Emma.
Rea la
guardò, poi rise di gusto.
“Sai, non sai tutto sulla vita di papà. Stamani vieni con
me, devo spiegarti delle cose” decise, prendendola sottobraccio e
portandola alla macchina.
Rea sapeva che
Emma sarebbe riuscita ad accettare tutto quello: lo vedeva da come ne parlava,
che Jason le piaceva davvero. Non sapeva però che Jason le aveva già raccontato
tutto, se pur omettendo qualche dettaglio.
“Comunque la storia è finita. Ora o scappi o ti abitui”
le disse alla fine, addentando la sua brioche.
L’altra fece
un grosso sospiro e poi la guardò sconsolata.
“Io non riesco a non innamorarmi di persone complicate,
che vuoi farci? Tuo padre mi piace, mi piace davvero tanto, per cui non voglio
tirarmi indietro” le chiese.
“Tutto quello che vuoi. Però ti do un consiglio per la tua
sopravvivenza: non fargli del male, non prenderlo in giro, non ti azzardare
nemmeno lontanamente a pensare di fare come ti pare, capito? Se gli capita
qualcosa ti strozzo io stessa. Conosco dieci modi per strozzare una persona
senza che rimangano i segni” la avvertì sorridendo.
Quel sorriso
inquietò Emma, che la fissò spaventata.
“Scherzi?” le domandò.
“Nemmeno un po’” rispose Rea angelicamente.
La mora
rimase in silenzio e poi rise.
“Va bene, come vuoi. L’importante è che tu sia felice che
io esca con Jason” disse.
“Tu gli fai bene, che vuoi farci? Se gli impedissi
qualsiasi cosa me ne pentirei, per cui vivete felici e contenti!” le
augurò.
Si alzò e
rise anche lei.
“E mi raccomando, non metterti a sperare che ti chiami
mamma” la prese in giro.
La mora si
intristì per finta.
“Ma io ci speravo!” disse sarcastica.
“Non si può mica avere tutto nella vita, che vuoi farci?
Imparalo adesso” la informò.
Lasciò i
soldi della colazione sul tavolo, poi la fissò sorridendo dolcemente.
“Emma, a me farebbe piacere che noi fossimo ancora amiche.
Sei la prima persona con cui mi interessi sul serio mantenere l’amicizia e non
so nemmeno io perché, però voglio sul serio che tutta questa situazione
funzioni, quindi impegniamoci, ok?” la pregò.
Emma rimase
zitta, poi ricambiò il sorriso.
“Ti prometto che ce la metterò tutta”
Jason e Rea
erano fuori dal liceo e aspettavano.
“Mi annoio” si lamentò la ragazza.
“Manca poco, su” la consolò suo padre.
Tutto era
tornato alla normalità, ormai: Emma e Fabio stavano aspettando i risultati
degli esami dentro scuola; loro si erano rimessi a lavorare; i ragazzi erano
tornati al normale svolgimento delle lezioni, il preside e Samantha erano stati
incarcerati con un sacco di accuse sulle spalle, tra le quali spaccio, omicidio
colposo e occultamento di cadavere; i genitori degli studenti morti avevano
deciso di fare il funerale tutti insieme, per rispetto alla memoria dei figli.
Tutto sommato avevano mantenuto un certo contegno elegante quando avevano
saputo tutta la storia, Rea non se lo aspettava.
Per quanto
riguardava lei, si era rimessa a studiare per diventare poliziotta.
L’addestramento sarebbe durato per qualche mese, ma le piaceva essere utile in
qualche modo.
Bearne aveva
urlato fin quasi a perdere la voce contro lei e suo padre quando erano tornati
in stazione di polizia dopo quella sera, non l’avevano mai visto tanto
arrabbiato. Prima aveva sgridato Jason perché aveva fatto come gli pareva
nonostante il divieto di indagare ancora, poi era passato a Rea, gridandole
contro perché si era occupata del caso tutta da sola.
Tutto
sommato era stata una scena piuttosto comica, anche se avrebbe dovuto essere
drammatica, ma vedere Bearne rosso in viso e con una vena pulsante sul collo
era troppo divertente.
La ragazza
fu distolta dai suoi pensieri quando vide Antonio che in lontananza puliva il
cortile. Sorrise e gli si avvicinò.
“Ciao bidello” lo salutò. Lui alzò gli occhi dalle
foglie che stava raccogliendo e sorrise lievemente.
“Ciao
detective in gonnella” ricambiò. Lei si sedette a terra.
“Come va la vita? Sei tornato al tuo solito lavoro, vedo”
“Perspicace
come sempre, tesoro. Il nuovo preside mi ha ripreso nonostante avessi mandato
in culo l’altro e visto ciò che ho fatto e l’aiuto che ho dato alla società,
parole sue, sono adatto a fare il bidello” le spiegò.
“Sono felice per te” disse Rea sinceramente.
“Tu?”
“Il solito: polizia, Fabio, mi abituo alla storia tra papà
ed Emma” minimizzò la ragazza, continuando a sorridere.
“Personalmente
non capisco che problemi hai con tuo padre e la moretta strana, ma non te lo
voglio nemmeno chiedere. Che ci fai qui, piuttosto?”
“Aspetto che i nostri liceali escano con i risultati della
maturità” rispose.
“Giusto,
oggi c’erano i risultati!” si ricordò l’uomo, fermandosi.
“Già. Stiamo aspettando che escano da lì, non ce la faccio
più. Odio aspettare” ammise storcendo la bocca.
“Ogni tanto
la calma e la pazienza sono importanti, servono per affrontare i problemi
peggiori. Essere troppo poco pazienti porta a essere ansiosi” la informò,
tornando a raccogliere le foglie.
Rea rimase
un po’ basita, poi sospirò.
“Lo so, purtroppo” rispose. Antonio la guardò
preoccupato.
“Però si può
sempre imparare” disse per consolarla.
“Ma quando si capisce che si è passato il problema?”
“Quando
qualsiasi cosa tu faccia sai che andrà bene. Anche se andrà male tu non
soccombi perché sei più forte. È una sensazione che senti dentro, non posso
spiegartela” le spiegò.
La ragazza
sorrise.
“Mi mancherai. Ci vedremo più dopo che smetterò di venire
qui per Fabio?” gli domandò.
“Se vorrai
venire da un vecchio bidello rompiscatole sì” rispose l’uomo, arrossendo un po’.
Rea gli si avvicinò e lo abbracciò.
“Non ti ho mai ringraziato abbastanza per avermi salvata,
sei stato il mio angelo. Tornerò ogni volta che posso” gli promise. Lui
era imbarazzato e le mise una mano sulla testa, impacciato.
“F-figurati”
balbettò in risposta.
La ragazza
si staccò appena in tempo per vedere Fabio che usciva da scuola.
“Ciao Antonio, abbi cura di te” lo salutò, correndo
da lui. L’uomo la guardò andare via poi sorrise.
“Anche tu,
detective in gonnella” la ricambiò.
A pranzo,
quel pomeriggio, brindarono tutti per il finalmente conseguito diploma di Fabio
ed Emma, che, orgogliosi, ridevano e si divertivano.
Rea li
guardava tutti quanti, abbastanza felice rispetto ai suoi standard. Il ragazzo
le teneva la mano sotto al tavolo e la fissava sorridente.
“Sapete, ho deciso una cosa” disse alla fine.
Tutti si
voltarono verso di lei. Giocò un po’ con la piccola scatola di cartone che
aveva in tasca, imbarazzata.
“Queste… queste non voglio che mi servano più”
decise, tirando fuori il pacchetto di ansiolitici. Jason sbiancò.
“Mi avevi detto che le avevi buttate!” l’accusò.
“Lo so, ma non ci riuscivo, stavo troppo male per troppe
cose, mi dispiace” si scusò la ragazza, vergognandosi.
L’uomo
sospirò, poi annuì.
“Perché hai deciso proprio ora?” chiese.
Rea alzò la
testa e lo guardò.
“Ora sono felice davvero e so che non sono sola. Fino a
qualche mese fa non lo sapevo e questo perché sono scema, lo so. Però… voglio
sentire di poter affrontare i problemi col sorriso, come mi ha detto Antonio, e
queste… non mi servono più” spiegò passandogliele.
Jason se le
rigirò un po’ in mano, poi annuì.
“Allora buttiamole” decise, alzandosi.
Fabio
intrecciò le sue dita a quelle della ragazza e le sorrise felice.
“Sono fiero di te” le disse.
“Anche io lo sono” ammise lei, appoggiandosi alla
sua spalla.
Aveva voglia
di piangere di gioia, era una sensazione mai provata prima e la fece stare
bene. Le persone che aveva davanti erano finalmente quelle giuste, non si
sentiva più inadeguata o fuori posto, era solo sé stessa, al posto giusto al
momento giusto.
Sospirò e
sorrise.
“Grazie” sussurrò, quando suo padre tornò a tavola.
Non la sentì nessuno, ma andava bene così: solo lei sapeva come mai stava
ringraziando e nessun altro avrebbe mai dovuto saperlo.
Eccoci (finalmente :P) alla fine di questa
long!!! Vorrei ringraziare tutti quelli che mi hanno dato sostegno per
iniziare, continuare e finire di scrivere questa storia! In primo luogo la mia
amica Emma che, quando si parla di efp, passa le giornate
in attesa che io mi decida a scrivere e rimane sveglia fino a tardi pur di
aspettare che io le mandi un capitolo! Grazie Emma!
Poi vorrei ringraziare tutti quelli che hanno
inserito la storia tra le seguite, tra le ricordate e addirittura tra le
preferite!