Frammenti di Luna

di Peppers
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'Olocausto degli Angeli - Parte I ***
Capitolo 2: *** L'Olocausto degli Angeli - Parte II ***
Capitolo 3: *** Polvere ***
Capitolo 4: *** Alyna ***
Capitolo 5: *** Oltre la Corazza ***
Capitolo 6: *** sospeso ***
Capitolo 7: *** Il Respiro dell'Eternità ***



Capitolo 1
*** L'Olocausto degli Angeli - Parte I ***






 

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L’OLOCAUSTO DEGLI ANGELI
 

“Perché è venuto il gran giorno della loro ira,
e chi vi può resistere?”
Apocalisse di S. Giovanni  (6,17)

 
1. Il sole giaceva immobile, striando l’orizzonte col proprio sangue. La luna esultava, pronta a usurpare il trono dei cieli, sotto gli occhi attoniti delle stelle. Erano poche, e brillavano di una tenue luce violetta, ma presto altre sarebbero accorse, mutando la volta celeste in un prezioso diadema.
Indifferente a quel rito, Divodurum si affannava a raccogliere le ultime briciole della giornata. Per le strade della città romana la gente brulicava, accalcandosi fianco a fianco come un fiume in piena. Persino l’incedere ordinato di una schiera di soldati o il passo cigolante del carro di un nobile stentava a fendere quell’ingarbugliata matassa di toghe. Serrato nella ressa di corpi, un prete cristiano salmodiava con voce stridula; la folla non gli prestava attenzione, preferendo gli odori invitanti delle fumose tabernae ammassate sotto i portici che bordavano la via. Una dopo l’altra, tutte le terme della città sembravano esalare l’ultimo respiro: le fornaci stavano per spegnersi e i pennacchi di vapore risalivano sempre più esigui al cielo.
Ondeggiando sulle spalle di quattro servi numidi, una portantina vagava per Divodurum. Ne scese un vecchio raggrinzito, col naso ricurvo come un predatore rapace. Non aveva artigli, ma un’arma ben più pericolosa stretta sottobraccio: un contratto d’affitto. Due schiavi lo precedettero, aprendogli la via fino a una casa ordinaria, che non vantava il lusso sfolgorante delle domus patrizie, né la fatiscenza giganteggiante delle insulae plebee. L’uomo si avvicinò, sbirciò oltre una finestrella minuta che si apriva nel muro, poi percosse la porta col pesante batacchio.
«Papà, stanno bussando».
Vatinio Erucio si recò alla porta preceduto dal figlio. Quando vide il vecchio Polibio serrò il volto, reprimendo la stizza per quella visita poco gradita.
«Spero non ti abbia disturbato» esordì l’affittuario, sfoggiando un sorriso affilato quanto un coltello.
«Per niente, anche se ti aspettavo fra qualche giorno»
«Davvero?».
Polibio finse stupore, scostò l’inquilino ed entrò nella casa.
«Stupidi schiavi numidi» continuò, guardandosi attorno con malcelata attenzione «non riescono proprio a tenere il conto dei giorni del nostro calendario».
«Dovresti provare con qualche servo greco, allora»
Vatinio si morse le labbra. Odiava quell’omuncolo avvolto in sete profumate, eppure non poteva rischiare di contrariarlo. Almeno finché volesse assicurare un tetto dignitoso sulla testa della propria famiglia.
«Greci? Costano troppo e non sanno fare altro che ciarlare. La filosofia non riempie il borsello, mio caro, dovresti saperlo»
Non gli piacque il tono con cui il vecchio aveva chiuso la frase, né il modo con cui sembrava stesse scegliendo il prossimo gingillo da portarsi via in cambio dell’affitto. Che guardasse pure. Non avrebbe trovato nulla che fosse più prezioso di un vaso di terracotta, almeno da quella volta che si era appropriato del vassoio d’oro con le offerte ai Penati. Gli spiriti protettori della famiglia si erano adirati molto perché Vatinio avesse permesso quel vile saccheggio. L’avevano punito, ne era sicuro, rendendo aridi gli affari della bottega. Da allora, il romano aveva fatta sua l’abitudine di nascondere alla vista i beni preziosi della casa. Il risultato era un’abitazione scarna e smunta, simile a un cadavere beccato da un corvo. Il pavimento legnoso crepitava ad ogni passo, e l’unico braciere con cui la famiglia si scaldava e cucinava aveva annerito i muri da lungo tempo. Ciò di cui andava fiero era il tavolo. Privo di qualsiasi decorazione, certo, ma massiccio quanto lo scudo di un sassone. Quella robustezza, messa soltanto al servizio di un vaso di fiori, portava alla casa più un tocco d’ilarità che di colore.
Ma in fondo andava bene anche così.
Vatinio non era un uomo da lasciarsi sopraffare dallo squallore dei propri problemi. Aveva abbandonato l’esercito per mettere su famiglia. Aveva sposato Lavinia, una graziosa ragazza cristiana, poco prima di stabilirsi a Divodurum. Anche se gli ultimi dieci inverni lo avevano visto fornaio, i suoi muscoli erano rimasti quelli di un guerriero. E di un soldato conservava anche lo spirito indomito con cui fronteggiava ogni avversità. Sarebbe venuto a capo del dissesto economico già da tempo, se Polibio non lo avesse tormentato con i suoi periodici salassi.
Eccolo lì invece, il vecchio uccellaccio, chino a profondere carezze al piccolo Cornelio Erucio.
«Quali nuove da Roma?» chiese all’affittuario, sottraendogli dalle grinfie il proprio bambino.
Polibio inarcò un sopracciglio, come a valutare la sincerità dell’interesse celato nella domanda, poi rizzò la schiena come faceva ogni volta che si vantava dell’elevato rango dei propri contatti.
«L’Imperatore Teodosio sta dibattendo col Senato la possibilità di un nuovo attacco contro gli elfi».
«Elfi».
Vatinio soppesò ogni sfumatura di quella parola esotica.
La situazione al fronte doveva essere cambiata parecchio, dai tempi in cui le tribù germaniche bramavano le fertili terre dell’Impero con la stessa insistenza con cui Polibio sbavava su tutto ciò che potesse riflettere la sua faccia grinzosa.
«Cosa sono gli elfi, papà?» chiese dubbioso Cornelio.
Vatinio aggrottò la fronte. Come poteva dare una spiegazione di quelle misteriose genti dalle orecchie a punta? Non li aveva mai incontrati, e nessuno fra coloro che ne parlavano asserivano di averne visto uno. Per un po’ aveva creduto che fosse solo una trovata  dell’Imperatore, un trucco volto a giustificare l’ennesimo aumento delle tasse.
Le rughe sulla sua fronte si fecero ancora più profonde, la sua mente rifiutava quella spiegazione con la stessa velocità con cui l’aveva formulata. Non poteva essere una menzogna.
Le menzogne non uccidono. Gli elfi si.
Le città bruciavano, sotto il torchio di una guerra che stava insanguinando l’Europa. Per cosa? Il filo della matassa si era perso fra la Politica e la Religione. l’Imperatore raccontava di essere stato prigioniero di quella razza infima e spregevole. Vittima di una crudeltà raccapriccianti, una volta tornato libero aveva giurato sulla Croce stessa lo sterminio degli elfi.
La guerra era stata facile all’inizio.
Roma poteva contare su un gran numero di uomini, su una superiorità numerica schiacciante. Ma poi qualcuno aveva cambiato le carte in tavola. Una risposta, o forse un istinto di sopravivenza. Gli elfi erano sgusciati fuori dalla tane che li avevano nascosti da secoli, rispondendo con la violenza alla violenza. A sentire i racconti dei superstiti, fuggiti in tempo alla caduta di tante città di confine, i demoni si spostavano rapidi. Mordevano lì dove l’Impero era più scoperto: Le città di provincia. Vatinio aveva abbastanza esperienza sulle spalle per capire il loro gioco. Volevano logorare Roma, senza però tentare un attacco diretto alla Capitale. Se l’Impero era un gigante, quel Comandante uscito dall’Inferno puntava dritto ai piedi, facendo vacillare la base stessa del nemico.
«Allora, papà? Cosa sono?»
Per quanto il piccolo Cornelio lo incalzasse con le sue domande, Vatinio non si sentiva di parlargli degli orrori della guerra, né della paura verso quei nemici sconosciuti. Si sforzò in un sorriso e prese in braccio il figlio con fare protettivo.
«Sono dei mostri cattivi con cui i genitori spaventano i figli che non ubbidiscono. Un po’ come le arpie e le chimere»
«Ma Raulio, il figlio del falegname, dice di aver visto una chimera»
«Era solo un grosso cane, Cornelio, forse un lupo sceso dai monti a caccia di montoni»
«Dovresti insegnargli come gira il mondo, se vuoi che diventi un uomo» sussurrò Polibio, il cui timore degli elfi fece abbandonare per un attimo quella sua aria d’aguzzino.
«Non voglio che la notte non riesca a dormire»
Nella voce di Vatinio, una nota di preoccupazione. Stava ammettendo che egli stesso passava notti inquiete? Era così, e non badò a nasconderlo in presenza di quel vecchio avvoltoio. Gli bastò un’occhiata al fondo degli occhi castani di Polibio, solitamente così luminosi, per capire che non c’era uomo sotto la bandiera di Roma che non temesse i nemici dell’Aquila.
«Va a chiamare tua madre, Cornelio. Dille di portare i soldi»
Il bambino era appena sparito oltre l’arcata che dava nella stanza interna, che Vatinio tornò a fissare quel volto dai tipici tratti latini.
«Questo è l’ultimo mese, Polibio»
Il vecchio patrizio dilatò le narici in un’espressione di indignazione.
«Stai lasciando casa? Ma il contratto non è terminato»
«Voglio trasferirmi in Italia, la Germania non è più sicura»
«Mi pagherai fino all’ultimo asse, Vatinio, o giuro che ti farò inseguire dagli avvocati ovunque ...»
Il romano non riuscì a trattenere un moto d’ira. Quel suo pensare sempre ai soldi anche se c’era di mezzo qualcosa di più grande! Agì di impulso, col viso arrossato dalla collera. Avvinghiò il nobile per l’orlo della toga e lo batté al muro.
«Le città stanno cadendo una dopo l’altra! Sarà questione di tempo, Polibio, non capisci?»
Il vecchio aprì la bocca per parlare, ma non emise alcun suono. Scoccò un occhiata alle dita di Vatinio, ancora strette nella seta, poi si divincolò.
«Ho già parlato al Legato Imperiale» asserì con calma, mentre si sistemava la toga sgualcita. «Penso di riuscire ad assicurare un buona scorta di legionari alla città. Se quelle fiere pagane oseranno calcare le nostre mura, assaggeranno l’acciaio di Roma»
«I soldati su cui puoi contare sono sufficienti per proteggere l’intera città?»
Polibio guardò Vatinio come chi avesse fatto una domanda sciocca.
«Certo che no. Non sono mica un Senatore, sai»
Vatinio chiuse gli occhi. Una parte di sé non voleva abbassarsi a invocare l’aiuto di quel vecchio avido, ma l’altra parte sapeva che, se c’era qualcuno che poteva far qualcosa a Divodurum, era proprio lui. Rimuginò in silenzio. Pensò a Lavinia e Cornelio finché, vinto il proprio orgoglio, si decise a parlare.
«C’è qualche possibilità di ...»
«Mi dispiace, Vatinio».
La risposta arrivò, secca e imbarazzata, ancor prima che la domanda fosse completa.
«Capisco».
Sebbene non avesse mai contato sull’aiuto del vecchio, l’amarezza gli tolse le parole di bocca. L’evidenza di una città che ruotava soltanto attorno al potere e al denaro, una città fatta d’oro ma costruita sulla spiaggia di un oceano in tempesta, gli spense ogni moto di ribellione.
«È per questo che voglio andare in Italia. Non posso accettare che la mia famiglia sia ogni giorno a rischio».
Quando Lavinia tornò, recando con sé un sacchetto pieno di monete, fra i due uomini regnava un silenzio nervoso. Un’occhiata al marito e una a Polibio, e il volto della donna lasciò intendere di aver capito ciò che era successo. Non disse una parola, ma accennò solo un sorriso stanco, poi porse l’oro a Vatinio.
«Spero per voi che è quanto mi è dovuto» bofonchiò Polibio, versando il contenuto della sacca sul tavolo. I denari scintillavano all’ultimo sole della giornata quando giunse, sulle ali del vento, il suono di un corno.
Una nota profonda e tetra.
Vatinio rabbrividì, si avvicinò alla finestrella che dava sulla via della città e guardò fuori. Lavinia gli venne accanto e gli strinse il braccio.
Cornelio si mise in punta di piedi a osservare meglio le monete che Polibio stava contando.
«Sta fermo, ragazzino» sbraitò il vecchio, allontanandolo da sé.
Un secondo suono di corno.
Vatinio osservò la gente per strada che si dimenava come un gregge umano, cercando affannosamente di raggiungere i portici.
«Cosa sta succedendo?» proruppe Lavinia, con il respiro affannato.
«Sarà arrivato qualche senatore» le rispose Polibio, ancora chino sul denaro, liquidando l’intera faccenda con uno sbrigativo gesto della mano.
Poi una terza lugubre nota.
La gente ora per strada correva per ogni dove. I visi terrei si schiudevano in grida di panico, i corpi si spingevano per guadagnare un po’ di spazio. Tutto divenne frenetico come se, di colpo, la notte fosse scesa più velocemente a strappare via il tempo agli uomini. Chi aveva con sé un otre di vino, lo abbandonò sul ciglio della strada per correre più velocemente. I bambini furono presi in braccio. Molti bussavano ad ogni porta in cerca di rifugio. A far da cornice a quel fanfara caotica, l’abbaiare rabbioso e scomposto dei cani.
 Lavinia, atterrita e con gli occhi sbarrati, scosse per il braccio il marito.
«Sta succedendo qualcosa!»
Vatinio non riusciva a credere ai suoi occhi. Le sue paure presero forma in una parola, udita a stento nel disordine della città.
«Elfi»
«Ma gli elfi non esistono, papà»
«Elfi?!» ribatté Lavinia, col cuore in gola.
Polibio spinse le monete nella propria sacca, senza curarsi di quelle che, nella fretta, erano cadute fra le assi del pavimento. Vatinio lo vide dileguarsi verso l’uscita in un batter d’occhio. Avrebbe voluto chiamarlo e dirgli di rimanere al sicuro lì in casa ma, prima che riprendesse il controllo di sé, il vecchio aveva già fatto ritorno alla propria portantina e intimava ordini agli schiavi numidi. Rimase attonito a fissare la folla sparire dalle strade, inghiottita da fiotti di panico e paura, poi si riscosse.
«Presto» intimò al resto della famiglia. «Giù nella botola!»
«Quale botola, papà?»
Cornelio. Non poteva certo sapere che, ormai da mesi, Vatinio lavorava ogni notte per costruire un piccolo antro sottoterra, un piccolo rifugio sicuro al riparo dai pericoli.
Non era tempo di spiegazioni.
Scostò il grande tavolo d’ebano e si chinò. I muscoli si tesero, nello sforzo di aprire quel portello grande appena a lasciar passare una persona. Lavinia trascinò con sé il bambino giù per le scale di legno scricchiolanti che sparivano nell’oscurità. Non aveva ancora fatto dieci passi che si volse verso il marito.
«Perché indugi ancora?»
«Voglio vedere gli elfi»
«Non essere sciocco, Vatinio. Vieni con noi»
«Solo un’occhiata, poi scendo anch’io»
Il desiderio che lo spingeva verso l’ignoto gli animava il petto con una forza prepotente. Sentiva l’istinto di sbirciare oltre quell’uscio spalancato, il bisogno di dare un volto a quelle creature, assicurarsi che fossero fatte di carne.
Fece un passo sulla strada.
Ormai non rimanevano che pochi vagabondi, gente che il terrore aveva ridotto a pallidi spettri. In fondo alla via, i soldati si allineavano in formazione: i gladi stretti nel pugno, i grandi scudi pronti a erigere un muro fra Divodurum e quei demoni venuti dall’Inferno. Nonostante le urla imperiose con cui i centurioni dispensavano gli ordini, avvertiva distinto i colpi inferti contro le porte della città. Tuoni, di una tempesta che si stava per abbattere sulla città nonostante il cielo terso.
Sordo ai richiami della moglie, attese, inerme di fronte alla sciagura, finché una breccia squarciò le mura. Possibile che tutto si stesse svolgendo così in fretta? Guardò in alto il mite luccichio delle stelle. Il tempo sembrava essersi alterato sulla soglia fra la vita e la morte. Le paure affrettavano il susseguirsi dei secondi, per poi rallentarlo, racchiudendo un respiro in un attimo infinito. Vatinio osservava l’inizio della battaglia per Divodurum avvolto in una cappa di silenzio. Né il frastuono dell’acciaio né gli urli di guerra riuscivano a raggiungerlo. Stava immobile, e non trattenne più le lacrime. Pianse sul ciglio di casa, per la fine del mondo che aveva conosciuto. Qualsiasi fosse stata l’esito di quella battaglia, il suo piccolo universo sarebbe mutato per sempre.
Adesso li aveva visti, gli elfi: figure snelle, coperte da armature metalliche. Brandivano spade, archi e lance dietro quei loro strani occhi luminosi. Luminosi? Si, luccicavano. Non capiva se per l’ebbrezza della battaglia o per la loro intima natura. Piegò la testa di lato. In fondo, con gli elmi a coprirne le proverbiali orecchie a punta, non sembravano poi così diversi dagli uomini. Riusciva a scorgere il loro vessillo. Sventolava oscuro e carico di sinistri presagi dall’alto di una lunga picca. Era un sole. Un sole sceso oltre il fondo di una valle, un’alba capovolta: il Crepuscolo.
Per un po’ seguì attento l’andamento della battaglia. Dalla breccia gli elfi si riversarono nella città, abbattendosi sulla testuggine romana come un pesante maglio brandito da una mano invisibile. Gli schieramenti ondeggiavano, guadagnavano terreno, ora lo perdevano, in un susseguirsi terribile di fendenti e affondi. Vatinio li spiava da lontano e non si mosse finché non vide ciò che lo spingeva a ignorare le urla di Lavinia e il pianto di Cornelio.
Gli elfi sanguinavano.
Morivano, come gli uomini. Chiuse gli occhi e ringraziò gli Dei. Non erano spiriti. Quella certezza sembrò rinvigorirlo. Un’ondata di rinnovata energia gli risalì lungo la schiena, provocandogli i brividi. Gli istinti di guerriero, mai assopiti nel suo animo, reclamavano la battaglia. Avrebbe voluto trovarsi lì, alle porte di Divodurum, fianco a fianco ai suoi fratelli di lama. Avrebbe voluto essere lì, a urlare con orgoglio il nome di Roma, ma bastò un’occhiata alle sue spalle per ricordargli che il suo posto era altrove.
Doveva difendere la sua famiglia, prima di ogni altra cosa. Tornò in un balzo a casa. Si recò nella stanza più interna, indossò un corazza di cuoio e si affibbiò il cinturone con la propria spada. Afferrò anche un pugnale e fece ritorno nell’atrio della casa. Si inchinò al cospetto dei Penati, rivolgendo loro delle preghiere affinché proteggessero il focolare domestico. Chiuse la porta, serrandola con un chiavistello, poi scese nella botola. Richiuse l’ingresso, celandolo alla vista di chiunque avesse fatto irruzione. Baciò la moglie e abbracciò il figlio.
«Ce la faremo» sussurrò. Il suo spirito non si rassegnava alla resa. Tutte le città di confine battevano adesso il vessillo degli Elfi. Forse anche Divodurum sarebbe caduta. Sotto l’ombra di quella minaccia Vatinio si sentiva come un animale ingabbiato, diviso fra paure e speranze.
Il giorno era fuggito via oltre le Colonne d’Ercole, impaurito al cospetto degli Elfi del Crepuscolo. La terra aveva accolto il cadavere del sole, primo caduto della battaglia. La notte era sorta, benedicendo con la sua pallida luce quell’orda affamata di distruzione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 “Se guardi nel buio a lungo, c'è sempre qualcosa”
                                                                      William Butler Yeats

 
 
 
2. «Perché non accendiamo una lucerna, papà?»
Cornelio non riusciva più a tollerare quell’oscurità imperscrutabile. La risposta dei genitori era stata sempre la stessa da quando si erano ritirati in quell’antro buio e umido.
«Shhhhh»
La braccia di Lavinia lo abbracciavano forte. Stretto al suo grembo, riusciva a sentire il cuore della madre. Stranamente, quel suono sempre così familiare, non faceva altro che acuire la sua inquietudine. Batteva troppo forte e troppo veloce. Rannicchiato accanto, scorgeva appena la sagoma massiccia di Vatinio. Respirava in modo regolare, chiuso in un silenzio meditabondo, ma il modo in cui lasciava scorrere le dita sul coltello tradiva la sua impazienza.
Cosa stava succedendo? Cornelio non capiva. Cos’era quel chiasso che arrivava dalla strada? Sopra la sua testa giungevano, attutite dalle mura e dal pavimento legnoso, urla di uomini, clangore di armi. Sobbalzò, e la madre lo strinse ancor più forte. Non era forse il ruggito di una bestia? Deglutì e stropicciò gli occhi, che bruciavano a causa del buio e dell’umidità. Non era il normale abbaiare dei cani di strada, indispettiti dal passaggio delle processioni cristiane. Non era nemmeno il ringhiare cupo e sommesso dei lupi delle colline. La sua mente infantile volò a Raulio, il figlio del falegname. Una chimera? Gli elfi esistevano davvero, dunque? E calcavano le chimere. L’associazione giunse istintiva, propinata da quel buio afoso attraverso cui i rumori assumevano le sfumature di un incubo a occhi aperti.
Cornelio rabbrividì, poi tirò su col naso. Quasi sobbalzò quando Vatinio gli sfiorò la guancia in una carezza delicata. Aveva sempre amato immaginarsi un soldato in un futuro lontano, quando sarebbe stato alto quanto papà. Ma ora che la guerra infuriava a pochi metri dalla sua testa, stava ritrattando quella decisione. Forse era meglio la professione del fornaio. Cucinare il pane non fa morire la gente, pensò. Certo, ogni tanto una manovra incauta poteva fare bruciare l’intera bottega. E l’incendio poteva estendersi alle insulae vicine, ma erano dei casi rari. Cornelio non aveva mai sentito di fornai che erano morti. Chissà come appariva all’Imperatore Nerone Roma quando bruciava. Forse anche lui aveva avuto la stessa paura che Cornelio avvertiva strisciare sulla sua pelle. Non riuscì a immaginarsi un Imperatore che si nascondeva nella botola. La sua mente stentava ad accettare quel riparo stentato, scavato nella roccia su cui sorgeva la casa. C’era qualcosa di sbagliato in tutto ciò, una deviazione troppo brusca dalla mite routine della vita.
Strabuzzò gli occhi, sforzandosi di mettere a fuoco un piccola macchia scura poco distante dai suoi piedi. Allungò il braccio e raccolse l’oggetto. Un piccolo disco metallico, certamente una delle monete sfuggite a Polibio. Chissà dov’era il vecchio nobile adesso. Anche lui aveva una botola sotto casa? No, quell’uomo rugoso aveva tanti soldi. Cornelio era certo che la botola di Polibio era ben più ampia e illuminata, comoda e lussuosa quanto la domus dell’Imperatore Nerone.
La sua mente vagava inquieta. Inseguiva i pensieri uno dopo l’altro senza una meta precisa. Il suo corpo tremava, intirizzito. Quanto tempo era passato? Non riusciva a capirlo. Le urla, così uguali fra di loro, non gli permettevano di apprezzare l’evolversi della notte. Forse il sole era alto, o forse c’era ancora la luna. Ebbe l’impressione di addormentarsi. E il cuore martellante di Lavinia popolò i suoi sogni di elfi brutti e cattivi che mangiavano i bambini dall’alto di chimere feroci. Si svegliò di soprassalto e urlò.
«Va tutto bene, piccolo mio» gemette la madre.
Cornelio provò l’impulso di piangere. Perché se andava tutto bene, Lavinia stava singhiozzando? Qualcosa al suo fianco spezzò la monotona immobilità che lo aveva inghiottito. Vatinio si mosse, strisciando sulla roccia. Fece solo qualche passo e si levò in piedi, la spada in una mano, il coltello nell’altra. Tese l’orecchio verso il pavimento, a una spanna dalla sua testa.
Il tonfo della porta sfondata.
Cornelio sgranò gli occhi. Qualcuno era entrato in casa. Voleva urlare, ma Lavinia gli tappò la bocca. Sentì la madre che si rannicchiava ancor più a fondo nell’angolo buio. Per un attimo ebbe paura che, se si fosse stretta ancora un po’ alla parete, sarebbe riuscita a entrare nella pietra. Sarebbe stata una bella protezione, certo, ma poi come sarebbero usciti? Pensieri febbrili allucinavano i suoi occhi e annodavano la sua gola, mentre osservava il padre immobile nell’oscurità.
Rumore di passi.
Qualcosa stava passando sulle loro teste. Qualcosa, perché non poteva essere un uomo. Gli uomini bussano prima di entrare nelle case, non sfondano le porte. Solo una volta Cornelio aveva aperto la porta con un calcio, era stato un pomeriggio in cui aveva litigato con Raulio, e Vatinio lo aveva rimproverato duramente. Chissà se ora il padre avrebbe rimproverato anche gli elfi. Di certo era molto arrabbiato, perché tremava. Tremava anche la mamma, ma lei non era arrabbiata. Aveva solo paura, Cornelio lo sentiva in quella comunione di corpo e anima con cui era legato a Lavinia. Aveva tanta paura. Anche lui aveva tanta paura. Era per questo che continuava a pensare senza sosta. Perché se smetteva di inseguire i pensieri, sentiva lo stomaco annodarsi e la tunica bagnarsi.
L’elfo annusava l’aria, i suoi passi lenti incrinavano le assi.
Cornelio udì il rumore del vaso che si rompeva e si sentì triste. Mamma amava quei fiori. Ogni giorno, dopo le lodi del mattino, innaffiava quei germogli con la stessa cura amorevole con cui la sera lo infilava nella tinozza per il bagno. Qualcuno aveva rotto il vaso. Qualche briciola di terra cadde dalle assi del pavimento. I fiori sarebbero morti se qualcuno non li avesse messo in nuovo vaso. Cornelio dubitava che l’elfo si sarebbe preso la briga di salvare quelle piccole piantine. In fondo aveva rotto la porta, no? Quindi era una persona cattiva. No, un elfo non era un persona. Corresse il pensiero, poi udì Lavinia che strozzava il proprio pianto. La mamma era triste perché gli elfi avevano rotto il vaso con i fiori. Cornelio si strinse alla madre e pianse, affondando la testa nella sua tunica.
L’elfo si chinò e graffiò il pavimento con le unghie. Quando si rialzò, il legno scricchiolò ancora una volta.
Poi tutto piombò nel silenzio.
Se ne era forse andato? No, non poteva essersene andato via. Cornelio sapeva che avrebbe dovuto sentire rumori di passi verso la porta. Gli elfi sapevano volare? Quel pensiero gli mise ancora più paura. Se avessero preso la mamma e l’avrebbero portato via? Papà non sapeva volare, come avrebbe potuto inseguirli? Stava ancora cercando una soluzione a quell’annoso problema, quando le assi del pavimento cedettero, con un forte schianto. Dall’alto piombo una figura scura, a pochi passi da Vatinio.
Cornelio urlò.
Il riflesso dei fuochi nella strada si unì al turbinare della polvere, avvolgendo quel guerriero in un alone spettrale. La sua armatura di metallo era chiaramente distinguibile con contorni terrificanti. Teneva alta la lancia contro Vatinio.
«Aule ya rahmaa!»
Cornelio si sentì soffocare, come se il suo corpo si rifiutasse di respirare. La paura per quelle parole incomprensibili lo faceva tremare, pallido e sudato.
Quando l’elfo accennò un passo, Vatinio gli si avventò contro. Colpì con un affondo ma l’elfo si spostò lateralmente evitando il corpo. Si muoveva con un’agilità sorprendente. Aveva addosso una’armatura pesante abbastanza da impacciare il movimento di qualsiasi soldato romano, eppure schivava ogni colpo del guerriero romano.
«No, vi prego!» balbettò Lavinia, stringendo il figlio al petto. Ma nessuno dei due combattenti le prestò ascolto; né badavano alle urla che si mescolavano al crepitare delle fiamme per tutta Divodurum. L’elfo fece roteare la lancia, descrivendo un ampio cerchio, ma Vatinio si ritrasse, lasciando che l’arma avversaria scheggiasse la roccia. Il romano si chinò in avanti, ansimante. Lanciò il coltello, colpendo l’elfo alla spalla. Non appena il nemico si piegò, colto alla sprovvista da quella mossa avventata, si scagliò in avanti brandendo la spada con entrambe le mani. Si esibì in un fendente micidiale. L’elfo fece scattare il braccio destro verso l’esterno, deviando il colpo con la picca; lasciò andare l’arma e si avvinghiò alle braccia di Vatinio. Di certo non sospettava la forza che il romano aveva in corpo, perché il viso si contrasse in un ringhio feroce. Con malcelata difficoltà spostò verso il basso le mani del romano, ancora stretta alla spada.
Uno schiaffo, e Vatinio barcollò.
Un pugno allo stomaco, e Vatinio sputò un grumo di sangue.
Un calcio, e Vatinio stramazzò al suolo.
Le sue dita brancolavano nell’oscurità per recuperare l’arma, ma l’elfo si premurò di allontanarla con la punta dello stivale.
Quando il mostro alzò la lancia, Cornelio vide tutto farsi buio. Sentì che la madre gli coprì gli occhi, che urlava, straziata da orrori innominabili. Sentiva che la madre si accasciava sul suo piccolo corpo e piangeva. Sentiva l’aria ammorbarsi con il caldo odore di sangue. Sentì i passi dell’elfo rimbombargli nelle orecchie e nella mente. Sentì che afferrava Lavinia per un braccio, che la portava via. Cornelio strinse la mano della madre. Incespicò sui gradini di legno, incapace a reggere l’andatura della creatura. Poi si voltò e guardò in basso, in quel buco nel terreno.
«Papà!» urlò con tutte le forze che aveva in corpo. «Papà, ci stanno portando via!».
Urlava e piangeva, scosso da una paura primordiale.
Perché suo padre non stava fermando l’elfo? Perché si limitava a fissarlo con gli occhi spenti e le labbra tumefatte? Perché la sua corazza era striata di sangue?
Cornelio urlava e invocava il padre, ma, sordo ad ogni richiamo, Vatinio rimase immobile, riverso sulla roccia.

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Capitolo 2
*** L'Olocausto degli Angeli - Parte II ***


L’OLOCAUSTO DEGLI ANGELI – PARTE II

 
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“Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno
e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia.”
Matteo 5, 11

 
 
3. Lavinia si era lasciata condurre via senza opporre alcuna resistenza.
Teneva il figlio stretto a sé, ma non riusciva a ribellarsi. Negli occhi, gonfi di lacrime, aveva ancora l’immagine della morte di Vatinio. Non riusciva a capire il senso di tutto ciò che le stava accadendo intorno.
Divodurum brillava come una stella nella sua ultima notte, aizzata da roghi e combattimenti. I cadaveri riempivano le vie come se, stremati dalla battaglia, quei soldati avessero solo bisogno di riposare un po’. C’erano ancora sporadici focolai di resistenza, per lo più bande di disperati convinti di vendere cara la propria pelle, ma ormai la città era in mano ai nemici.
Lavinia stringeva il proprio bambino, mentre nel suo animo cupo si delineava l’ineluttabile certezza di orrori ignoti. Gli elfi uccidevano i soldati e ogni uomo che opponeva resistenza. Ammucchiavano i prigionieri in gruppi nelle piazze. Davano alle fiamme i simboli dell’Impero e piantavano vessilli malvagi. Il simbolo del Crepuscolo ora svettava lì dove poco prima l’Aquila strillava, indomita, la propria sfida al cielo. Cosa avrebbero fatto dei superstiti? Stringeva il piccolo Cornelio, angosciata da quel pensiero. Vatinio era caduto, e con lui ogni certezza. Era sempre stata una moglie amorevole, con poche pretese se non una mite tranquillità familiare. In vita sua aveva lottato solo una volta: affinché Vatinio abbandonasse la vita militare. Aveva vinto, con la sola arma di lacrime e parole.
Lacrime e parole.
Dubitava che sortissero lo stesso effetto con quei mostri. Quale sensibilità potevano avere creature selvagge come quelle? Erano passate solo poche ore da quando la sua famiglia era stata distrutta, ma aveva l’impressione che l’intero mondo in cui era vissuta fosse lontano mille miglia. Cornelio era in uno stato di atterrita indifferenza. Ciò che era successo aveva dilaniato il suo piccolo animo, lasciandolo in balia di chi gli stava attorno. Lavinia lo capiva semplicemente guardando sul fondo di quegli occhi bruni. Il bambino non parlava né si opponeva. Teneva il viso basso, lasciando che le lacrime increspassero la polvere delle strade. Lo strinse a sé, nell’ultima speranza che non separassero una madre dal proprio bambino. Lo strinse a sé piangendo, come se quel corpicino sporco e tremante potesse darle forza.
Forza.
Forza per far cosa?
Si guardò intorno. Gli uomini venivano condotti come bestie ai recinti. Lavinia si sentì asserragliare in mezzo a una folla di visi sconvolti e stremati. Il guerriero che aveva ucciso Vatinio non  disse un parola. Le lasciò il braccio, la spinse insieme agli altri prigionieri, la scoccò un’occhiata truce e si dileguò, tetro aguzzino di innocenti, a compiere il suo sporco lavoro. Lavinia sembrava non riconoscere più la città in cui aveva vissuto in quegli ultimi anni. Le fontane agli angoli facevano gorgogliare acque rossastre ai piedi delle divinità romane. Di tanto in tanto qualche insula, consumata dalle fiamme, crollava, accasciandosi su se stessa. Alcuni si gettavano dai tetti di quei giganti di legno e pietra, preferendo la morte alla prigionia degli elfi. Altri, incapaci di trovare il coraggio di abbandonare la vita, imploravano un vicino affinché elargisse loro una fine rapida.
Lavinia stropicciò gli occhi mentre scrutava quei figli di Satana. Eccolo lì, ritto su una bestia alta quanto un uomo, l’elfo che i romani chiamavano l’Anticristo, il comandante di quei vili demoni. Indossava un elmo nero con un cimiero grigio che scendeva sulla spalla. Sul suo viso pallido brillavano due occhi di ghiaccio. Aveva uno sguardo determinato, da freddo conquistatore. Reggeva le redini del suo destriero, pericoloso almeno quanto il cavaliere che portava in groppa, avvolto in un manto nero che garriva al vento come le ali di un pipistrello. Lavinia provò un moto di disprezzo contro quel viso giovane e bello, che studiava la città con cinica indifferenza. Impartiva ordini nella lingua degli elfi e nessuno fra gli uomini osava avvicinarvisi. Quando il Cavaliere Nero scesa dalla belva che cavalcava, muovendosi a lenti passi verso la piazza, la folla indietreggiò come di fronte al Nemico di Dio.
«Non azzardate iniziative personali» esordì il Comandante degli Elfi in un perfetto latino. «E non vi verrà fatto alcun male».
Lavinia scosse il capo. Non riusciva a credere alle proprie orecchie. Non vi verrà fatto alcun male. Uno dei uomini aveva fatto irruzione nella propria casa, scovato il loro nascondiglio e ucciso senza esitazione suo marito. Se questo non era considerato fare del male, cos’altro erano in grado di fare quelle creature?
L’Anticristo continuò a parlare alla folla, camminando avanti e indietro con l’elmo sottobraccio.
«La città è caduta nelle nostre mani, dunque non contate più sull’aiuto delle istituzioni romane. Certamente vi state chiedendo perché siamo qui e cosa vogliamo».
Fece una pausa, per dare maggior rilievo alle parole che seguirono.
«Ce lo siamo chiesti anche noi, il giorno in cui il vostro Imperatore ha dato inizio a una caccia la cui ferocia è pari a quello che vedete attorno a voi. Molti di voi erano soldati che hanno difeso fino alla fine la propria città. Molti di voi sono uomini indifesi, vittime inermi di un massacro di cui siete spettatori succubi».
Il suo volto era infiammato da un impeto feroce, di cui tutti ebbero terrore.
«Siamo in guerra con Roma. Ogni guerra ha le proprie vittime. I vostri soldati sono caduti, il vostro Signore si nasconde a Roma. E voi?»
Gli elfi presenti nella piazza scoppiarono in un fragoroso urlo di vittoria a quelle parole. Battevano le lance, percuotendo le pietre delle strade in un coro d’acclamazione.
«Se diserterete l’Impero, avrete salva la vita. Seguirete la nostra colonna, come prigionieri. Spingerete i carri e raccoglierete la legna. Luciderete le nostre spade e ci aiuterete nella nostra marcia verso il cuore dell’Impero».
Parlava con una sicurezza arrogante. Parlava come chi non ammettesse indugi o repliche. La sua voce echeggiava nella notte, strappando lacrime e singhiozzi. Davvero il suo destino e quello di Cornelio era quello di divenire schiavi di colui che aveva schiacciato la loro vita? Lavinia sentì il respiro farsi irregolare. Avrebbe voluto Vatinio al suo fianco. Lui le avrebbe fatto forza. Lui avrebbe trovato una soluzione. Invece era morto, per difendere una libertà che il Cavaliere Nero stava soffocando nel suo terribile pugno. Lavinia sentì le lacrime rigarle la guancia.
 Nemmeno nella morte trovava una consolazione.
Vatinio non aveva mai voluto abbandonare il culto degli dei romani. La sua anima indugiava sulla barca di Caronte verso l’Ade, lontano dal Paradiso cristiano a cui lei era destinata.
Separati per l’Eternità.
Quel pensiero le dilaniò il petto, terrorizzandola più della prigionia e della morte. D’istinto strinse forte a sé Cornelio, che teneva fissi gli occhi verso l’Anticristo.
«Non guardarlo, piccolo mio» gli sussurrò, nel timore che anche solo uno sguardo al Cavaliere Nero portasse sventura.
«Che significa disertare, mamma?»
Lavinia non rispose. Spiegare ciò che li attendeva sarebbe servito solo a rendere più pesante il fardello che gravava sulle loro spalle.
«Se invece rimarrete fedeli a Roma» proseguì il Comandante «morirete per un città che ha ignorato le vostre vite. Dov’era Roma quando la prima città del confine era caduta? Dov’è adesso il vostro Imperatore?»
Ogni parola dell’elfo trasudava un odio più nero della notte, un feroce rancore determinato a lasciare dietro di sé solo morte e devastazione.
«Vi dico io dov’è Teodosio di Roma: uccidere i nostri guerrieri, picchia le nostre donne, tortura i nostri bambini, converte la mia gente al cristianesimo. Scegliete, romani. Scegliete, se vivere o morire. Scegliete, se ribellarvi a un Impero indifferente alla vostra sorte o morire per una bugia che hanno tramato contro di noi. E chiunque andrà in Paradiso non dimentichi di portare queste parole al Dio d’Israele: Edheldur Arhathel, il Cavaliere Nero, il Campione del Dio Mordhros, il Comandante degli Elfi del Crepuscolo di Nainiel, spezzerà la croce e soffocherà Roma nel suo stesso sangue».
Pronunciò il discorso con un impeto tale che dovette riprendere fiato. Persino gli elfi rimasero ammutoliti di fronte alla maledizione con cui Edheldur sfidò il Cielo e la Terra. Lavinia si segnò col gesto della croce, per difendersi dalle parole di quella bestia partorita da Satana in combutta con i peggiori demoni dell’Inferno.
Quando infine il Cavaliere Nero fece ritorno alla sua cavalcatura, vi risalì e dette aria al proprio corno, la notte attorno a lui sembrò farsi più fosca. Tre lunghe note lugubri e sinistre. Lavinia sentì i capelli rizzarsi sulla sua nuca e un brivido mutarle il sangue in acqua. Quando infine Edheldur Arhathel sparì fra le vie per incontrare il suo Stato Maggiore, tirò un sospiro di sollievo.
Il terrore lasciò posto a una scalpitante impazienza. Vivere o morire. Non riusciva ad accettare nessuna di quelle due alternative. Quell’elfo avrebbe retto il confronto col più abile oratore del Senato. Non c’era una vera scelta da compiere. Si trattava se scegliere di morire subito e più tardi. Lavinia non aveva dubbi sul futuro che attendeva i profughi, una volta terminata la guerra. Sul fondo di quei occhi di ghiaccio aveva visto sentimenti inumani, incapaci di provare pietà.
La gente attorno non era meno stordita di quanto fosse lei. Un lugubre silenzio, pregno di rassegnazione, gravava come una cappa immota sui dispersi del massacro di Divodurum.
Cornelio, soprafatto dagli eventi di quella notte, cedette ad un sonno irrequieto. Lavinia lo strinse fra le sue braccia, scaldandolo col suo manto. Sedette sulla piazza, insieme ad altre centinaia di prigionieri. Chiamò a raccolta le ultime forze del suo animo. Barcollava fra un’eccitata ricerca di una via di fuga e l’abbandono alla preghiera. La notte trascorse lentamente, come un carro sovraccarico per una strada impervia.
L’idea le arrivò proprio quando stava cedendo al sonno.
Edheldur Arhathel aveva vinto il suo braccio di ferro con la città e scorazzava ormai incontrastato per Divodurum, scegliendo il luogo più adatto dove stanziare il suo quartier generale. Le morsa degli elfi si era fatta meno stringente. In fondo, perché dubitare che ognuno sarebbe rimasto fermo nel proprio giaciglio? Se doveva agire, questo era il momento. Ora che il nemico era meno vigile, ora che Divodurum poteva ancora offrire qualche gramo rifugio.
Dove gli uomini avevano fallito, Dio poteva prevalere.
Se il Cavaliere Nero era più di un uomo, era certamente meno di una divinità. Lavinia si alzò, fra le braccia Cornelio ancora dormiente, e sgusciò, insignificante ombra nella notte, fino al limitare della piazza. Attese, finché la ronda degli elfi non le lasciò lo spazio di una fuga disperata. Corse a perdifiato, senza voltarsi indietro. Corse col cuore in gola, evitando le strade principali. Normalmente quelle strette viuzze fra le insulae erano il luogo preferito in cui banditi e tagliagole tendevano i loro agguati. Ma la Divodurum che conosceva era morta, e pericoli ben più oscuri che banditi vagavano a piede libero per la città.
Non impiegò molto tempo a raggiungere la chiesa.
Era una costruzione solida, priva delle effigi con cui i maggiori templi pagani erano riccamente decorati. Un edificio squadrato, dal tetto a punta sormontato da una grossa croce. Lavinia passò oltre il portone principale, dirigendosi verso una porticina secondaria che si apriva sul lato orientale dell’edificio. Bussò sul portone arrossato dai riverberi degli incendi. Bussò una seconda volta, ma nessuno venne ad aprire.
«Per l’amor del Cielo» implorò, bussando ancora una volta. Attendeva inquieta, guardandosi le spalle. Sapeva che da un momento all’altro poteva giungere un elfo. Appoggiò la fronte contro la porta e singhiozzava, quando da un piccolo spiraglio apparvero un paio d’occhi tremanti.
La porta s’aprì, rivelando un prete vecchio e curvo. Nello stato in cui si trovava, Lavinia non badò al saio largo e logoro, né ai pochi capelli unti che scendevano ai lati della testa dell’uomo. Cadde in ginocchio di fronte a quel santo salvatore.
«Vi prego, datemi un posto in cui possa nascondermi insieme a mio figlio»
L’uomo si inumidì le labbra, indugiando nel cedere il passo alla donna.
«Credi in Cristo, figliola?»
Lavinia annuì. Incapace a parlare, estrasse una collana da cui pendeva un piccolo crocifisso, testimone della sua fede. Quando la porta si richiuse alle sue spalle, tremava ancora. Sapeva che ci voleva ben più di un portone a fermare Edheldur Arhathel, ma confidava nella sacralità del luogo in cui aveva trovato rifugio.
Il prete condusse Lavinia per uno stretto corridoio che sboccava all’interno della chiesa. Le panche erano state rimosse e ammassate contro la porta principale per aumentare la resistenza di quella piccola fortezza. Centinaia di persone gremivano il vasto vuoto rimasto, sussurrando preghiere, sgranando rosari e piangendo silenziosamente in una sobria austerità. Cornelio si svegliò mentre la madre sedette fra i gradini che conducevano all’altare maggiore.
«Dove siamo, mamma?»
«In una chiesa, bambino mio»
«Mi sono addormentato, mamma»
Lavinia si sentì addolorata dal tono di speranza colpevole che permeava la voce del figlio. Capì che sperava fosse solo un brutto sogno, ma la miseria che li circondava fugò ogni dubbio sull’incubo che stavano vivendo.
«Voglio che tu mi prometta una cosa, Cornelio»
«Cosa?»
Lavinia si tolse dal collo la collana col monile sacro, facendola indossare al figlio.
«Non separarti mai da questa collana»
Cornelio fece un cenno d’assenso, ma non indagò oltre. Rimasero immersi in un cupo silenzio. Lo sguardo del bambino indugiava sulla gente che li circondava, pur senza soffermarsi su nessuno in particolare. Di tanto in tanto gli occhi umidi tradivano i sentimenti del piccolo romano, allora, per cacciare via l’ultima immagine di Vatinio, prendeva a giocare con il crocifisso che la madre gli aveva donato. Lavinia lo osservava con un nodo in gola. Accennava un sorriso e gli sistemava l’orlo della tunica. Come se fosse nato appena quella notte, lo ammirava in silenzio, cercando di imprimere nel cuore con ogni piccolo gesto del figlio.
Il tempo trascorreva pigramente, così lentamente che Lavinia cadde in un grigio torpore senza che ne fosse consapevole. Capì di essersi addormentata solo quando, svegliandosi di soprassalto, trovò Cornelio intento a profonderle delle carezze.
«Ti ho svegliato, mamma?» chiese il bambino.
«No, piccolo mio»
Lavinia rispose in un sussurro, ancora stordita per il sonno e la stanchezza. Strabuzzò gli occhi e studiò attorno a sé. Non era cambiato molto durante il suo riposo. La gente si raccoglieva su se stessa, cercando di fare il meno rumore possibile. I volti, segnati dalle occhiaie, rivelavano animi inquieti e bisognosi di ristoro. Il prete che l’aveva accolta nella chiesa girava fra i profughi con un ciotola fra le mani.
«Prendete, fratelli miei, è tutto ciò di cui al momento disponiamo».
Le mani s’affrettavano a rovistare fra i viveri, raccogliendo un tozzo di pane o un pezzo di formaggio. Quando il prete le offrì il cibo, Lavinia prese soltanto un frutto e lo porse a Cornelio. Di certo, pensò la donna, quel monaco aveva una solida fiducia nella protezione di Dio. Tutto ciò di cui, al momento, disponiamo. Avrebbe forse avuto modo di procurare altro cibo? Ne dubitava. Lasciare quel rifugio equivaleva a consegnarsi agli elfi. Ma la fame si sarebbe fatta sentire, presto o tardi. E allora che avrebbero fatto?
«Basta, Cornelio». Col cuore pesante, interruppe il pasto del figlio. «Basta così, o rimarremo senza cibo».
Il bambino guardò avidamente la metà di mela rimanente e senza protestare la consegnò alla madre. Lavinia si guardò con circospezione attorno e nascose il frutto, avvolgendolo nel proprio manto.
«Mamma, perché stai ...»
Cornelio si bloccò prima di completare la domanda.
Il silenzio luttuoso che aleggiava su Divodurum rese ancor più terribile lo schianto contro il portone della chiesa.
«Stanno arrivando» mormorò Lavinia, abbracciando a sé Cornelio.
Alla vista delle panche che sobbalzavano, la gente si ritrasse terrorizzata. Ogni colpo rimbalzava fra le pareti di pietra e, amplificato dal soffitto ligneo, sembrava possedere una forza smisurata. Quando infine lo porta cedette, una teoria di soldati fece irruzione nell’edificio. Alcuni circondarono gli uomini e misero ben in mostra le armi per scoraggiare ogni tentativo di fuga. Altri presero posto nella navata centrale, formando un corridoio per il passaggio del Cavaliere Nero.
Edheldur Arhathel entrò con passo imperioso e gli occhi sollevati ai dipinti che adornavano soffitto. L’eco dei suoi stivali fu l’unico suono che osò levarsi al disopra dei flebili respiri. Si fermò a poca distanza dai prigionieri e li studiò in un gelido silenzio.
Lavinia tremava. Teneva lo sguardo basso, fissando l’ombra del guerriero allungarsi sulle pietre.
«Ar reyn  ne m’eh?» chiese uno degli uomini al seguito del Comandante.
Pur senza conoscere quella strana lingua, Lavinia comprese il senso della domanda.  Sapeva che la propria sorte e quella del figlio sarebbe stata segnata da ogni singola parola che l’Anticristo avrebbe pronunciato.
E la risposta arrivò. In latino, affinché tutti comprendessero.
«Date la chiesa alle fiamme»
Un sentenza pronunciata con lenta ferocia. Una condanna che sembrò sorprendere persino l’ufficiale elfico.
«E i prigionieri, signore?» chiese, adeguandosi alla lingua che Edheldur aveva scelto.
Il Cavaliere Nero strizzò gli occhi, come a sfidare il crocifisso che dominava l’altare maggiore.
«Che brucino insieme al santuario» ordinò con fermezza.
Il soldato indugiò ancora un momento e nei suoi occhi Lavinia scorse un barlume di pietà.
«Arhami ti les derlun, Edheldur» bisbigliò in tono confidenziale.
A quelle parole il Comandante fece scattare la testa verso il compagno.
«Non mi importa se abbiamo bisogno prigionieri» lo ammonì con una punta d’ira. «Non voglio cristiani al mio seguito».
Il soldato chinò il volto composto in un tacito assenso, lasciando arenare ogni tentativo di protesta.
Soltanto allora Lavinia osò sollevare gli occhi, incrociando lo sguardo del Comandante degli elfi. Aveva scelto di ucciderli tutti, e in modo beffardo, trasformando quel rifugio sicuro nella loro tomba. Si chiese se la colpa per quei delitti avrebbe un giorno superato quell’espressione di freddo distacco, macchiando la coscienza di Edheldur. Davvero non c’era un briciolo di umanità in quell’elfo? Eppure il suo soldato ... Un’estrema speranza, di fronte alla rassegnazione dell’inevitabile, soverchiò ogni paura e spinse Lavinia ad agire.
 Il Cavaliere Nero aveva appena mosso i primi passi per tornare all’uscita, che Lavinia urlò.
«No, Aspetta!»
Pregò con tutto il cuore che l’elfo si fermasse ma, non appena lo vide immobile, desiderò che non si fosse mai voltato. La sua sagoma si stagliava minacciosa, illuminata d’oro per i fuochi e d’argento per i riflessi della luna. Non vide traccia d’ira per quell’intervento inaspettato, ma solo sorpresa.
Ormai doveva andare fino in fondo. Afferrò per le spalle il piccolo Cornelio e lo spinse avanti, fino a portarlo di fronte all’Anticristo.
«Uccidimi pure, se ritieni sia necessario. Ma salva mio figlio».
Mise tutto il coraggio di cui disponeva in quell’unica frase, che non suonò come un’implorazione, ma che aveva tutte le sfumature della forza di una donna e di una madre. Ora che aveva finito di parlare, si sentì in balia di quegli occhi di ghiaccio in cui brillava un fuoco inumano. Cadde in ginocchio e non riuscì più a trattenere le lacrime.
Ma doveva andare fino in fondo, se voleva salvare la vita del figlio.
«Se da qualche parte hai un figlio, so che capirai ciò che ti chiedo».
Lavinia non capì quale delle parole pronunciate, riuscì a convincere quell’abile oratore. Fra le lacrime, lo vide alzare il braccio e afferrare Cornelio per la toga. Sui suoi occhi baluginò la pietà, ma fu solo un attimo, poi il suo viso tornò ad assumere quell’aria di sprezzante ferocia con cui aveva piegato Divodurum. Non le diede nemmeno il tempo per un addio, ma trascinò via il bambino che urlava e si dimenava.
«No, mamma! Non lasciarmi, non lasciarmi solo!»
Lavinia si piegò su se stessa e graffiò il pavimento, soprafatta dal dolore. Lo aveva forse abbandonato? Lo aveva forse privato di una madre, unica certezza che gli era rimasta?
Era forse un’idea migliore lasciarlo morire lì con lei?
Lasciarlo morire?
Morire.
No.
Cornelio non doveva morire.
Cornelio doveva vivere.
La vita, il bene più prezioso del mondo.
Lavinia aveva faticosamente guadagnato quella conclusione che si sentì morire ancor prima che i guerrieri elfici eseguissero gli ordini del Comandante.
Un urlo straziante.
Vide per l’ultima volta il figlio, e il suo cuore non riuscì a reggere una tale emozione. Si abbandonò sul pavimento, gli occhi vacui lì dove il figlio era sparito. Si portò la mano al petto, lì dove per anni aveva portato il piccolo crocifisso.
Un giorno Cornelio avrebbe capito. Un giorno, se fosse vissuto abbastanza, avrebbe capito che il sacrificio dei propri genitori gli aveva donato la vita, una seconda opportunità in quel mondo insanguinato dalla guerra.
Pregò, e chiuse gli occhi per non aprirli mai più.
Udiva solo urla e disperazione, poi arrivarono le fiamme.
E fu solo un lungo ed eterno silenzio.
 
 
 
 
 
 

“Perché la salvezza sta nella ricerca.
Anche se non si trova.
Anche se non si sa cosa si cerca”
Rosario Magrì

 
 
 
4. Cara Petunia,
Se stai leggendo questa lettera, vuol dire che sono già andato via. Non voglio mentirti, non sto piangendo mentre sono chino a scrivere su questa pergamena. Ti amo, Petunia. Per questo non piango. So che devo essere forte per entrambi.
Ho riflettuto a lungo. Mi dispiace per tutte le promesse fatte e che non manterrò. Mi dispiace per la vita che non divideremo mai. Ma il mio posto è lontano da qui. Sai bene, Petunia cara, che ogni notte continuo a vederli. Sono passati troppi anni, ma il dolore ha lo stesso sapore di quel giorno. Rivedo mio padre, che lotta contro un elfo quando fuori c’erano altre centinaia di quegli esseri. Rivedo mia madre, piccola donna che ha osato levar alta la voce contro colui di cui nessuno osa pronunciare il nome. Ci ho provato, Petunia. Ho provato a mettere una pietra sul mio passato, ma sarebbe come appiccare il fuoco che consumò la chiesa.
Devo partire.
So che verserai lacrime sufficienti per far straripare il Tevere. Se mi ami, lasciami andare. Non fare alcun tentativo di farmi seguire. Dimenticami. Celebra pure il mio funerale, se ti può essere d’aiuto. Mi sento un uomo strappato dalla propria terra. Mi sento un uomo strappato dalla propria razza. Ho tutto ciò che potrei desiderare, eppure mi sento lontano da tutto. Lontano dai visi rubicondi che frequentano la mia casa. Lontano da quella sicurezza osteggiata dai nobili patrizi.
Il suo tocco mi ha cambiato, Petunia. Quei suoi guanti freddi mi stringevano con forza. Mi trascinava come un sacco di grano. Era la creatura più insensibile che io abbia mai incontrato, eppure l’unico con la sensibilità sufficiente da prestare orecchio alle lacrime di una donna qualsiasi. Sotto l’odore del sangue che sporcava la sua corazza, sotto il lezzo di morte che emanava, riuscivo ad avvertire il suo profumo.
Faceva un buon odore, Petunia. O forse è solo il ricordo storpiato dalla mente di un bambino. Era il profumo della libertà, il profumo della vita. Come il canto di una sirena, mi sento attratto ancora una volta da quel profumo. Ancora una volta mi volto irrequieto sul mio comodo giaciglio e sento di dovermi mettere in viaggio. Non pensare che io non ti ami. Ho cercato di non prestare orecchio a quella voce che mi impone di lasciare casa. Ci ho provato, e ho avuto il terrore di divenire simile a lui. I giorni della mia vita mi sfilano davanti agli occhi, ma io mi sento precipitare in un baratro di indifferenza. Nemmeno il ricordo del vecchio Polibio riesce a increspare quel muro impassibile che si è alzato fra me e il resto del mondo.
Il vecchio Polibio.
Ricordo mio padre inveire senza sosta contro il suo nome. Lo accusava di un’avidità sfrenata eppure, quando il Cavaliere Nero mi abbandonò per le strade di Divodurum, è stato il vecchio avvoltoio a trovarmi.
La morte ci ha resi fratelli nella sciagura, mi disse prendendomi con sé. Per un po’ viaggiammo come prigionieri alle spalle dell’esercito. Che Dio possa avere in grazia quel vecchio spilorcio. Persino nella miseria riuscì a portare con sé borsa di aurei: i soldi gli risparmiarono la prigionia, ma non le sofferenze. Dopo aver corrotto alcuni soldati elfici, scappammo insieme fino ad Augusta Treverorum. Povero diavolo, morì di tubercolosi proprio quando giunse alla salvezza.
Come ben sai, ho ereditato ciò che rimaneva della sua fortuna. I suoi possedimenti mi aprirono la via verso l’Italia. Fu lì che ci conoscemmo, Petunia, ed è qui che le nostre strade si separeranno. Ti lascio ogni avere. Che la ricchezza di Polibio possa dispensare la stessa fortuna che riservò a me.
Non mi servirà che un pugno di denari, lì dove mi sto recando. 
L’unica certezza è che il mio sentiero passerà per Divodurum. Non sono sicuro di voler riaffrontare i fantasmi del mio passato. Ho prestato orecchio a tutte le voci giunte dal nord: la città è stata ricostruita. Come un ferito si rialza dopo una lunga convalescenza, così anche Divodurum ha ripreso a vivere. Voglio recarmi nella mia casa d’infanzia nella speranza che, nella botola in cui mio padre morì, io possa trovare la spada di Vatinio.
Non so cosa farò dopo. Cosa rimane di un uomo a cui è stata tolto il sapore della vita?
Dovevo morire anch’io quella notte, Petunia.
Mi sento strappato e lacerato. Sulle mie spalle sento un peso troppo grande per un solo uomo. Ho visto troppo, ho sentito troppo, ricordo troppo.
Le sue parole avevano un fondo di verità.
Divodurum.
Un nome come tanti sulla lista dell’Imperatore Teodosio. La guerra continua la sua corsa, come uno spettro invisibile agli occhi degli uomini, Petunia. La Politica accende fuochi che perdurano negli anni, ma siamo noi, piccoli uomini insignificanti, a soffocare in mezzo alla polvere sollevata dagli incendi. La Religione è un marchio che divide la gente. Dio doveva salvare quei poveri disperati. E invece non ha ascoltato che una sola preghiera. Quella di mia madre. Mi piace pensare che il crocifisso che mi donò sia più di una semplice colata di ferro modellata nelle forme di un uomo morto. Questo monile è speciale, lo sento, per questo l’ho messo fra le pieghe di questa lettera. Voglio che tu possa conservarlo. Io non sono un buon cristiano. Dio vorrebbe forse che io nutra sentimenti così oscuri quanto l’odio? Eppure, non ne posso fare a meno. Li ha uccisi solo perché erano cristiani, Petunia. Sento il cuore creparsi a questo pensiero. Si sbriciola riversando lava incandescente nelle vene. Uccisi solo perché cristiani. Hai idea di quante vite si sono spente quella notte ad un suo ordine?
Cerco di calmarmi. Chiudo gli occhi e tento di riappropriarmi di me stesso. A volte mi chiedo il senso di tutto questo. Mi arrovello in una spirale senza fine per capire quale motivo può spingere un comandante a massacrare centinaia di innocenti eppure salvare la vita a un solo bambino.
Io devo mettermi in cammino. So che, se anche lo trovassi, non riuscirei a ucciderlo. Come potrei mai riuscire lì dove centinaia di legionari ogni giorno falliscono?
Non è la vendetta, ciò che cerco. Voglio vedere ancora una volta quel viso. Voglio scoprire se è ancora bello come lo ricordo nei miei incubi. Voglio scrutare sul fondo di quegli occhi di ghiaccio e leggere nella sua anima.
Voglio scoprire la verità, Petunia.
La verità su quell’elfo che, in una sola notte, gremì il Paradiso con centinaia di Angeli.
 
 
Cornelio Erucio, figlio di Vatinio.
 
 
 
L’ANGOLO DEL BARDO:
I miei occhi, ancora stanchi per la lunga maratona di fronte al pc, esultano, in un racconto in cui rivedo tutto ciò che giorno dopo giorno ha contribuito a quel che i più arditi chiamerebbero “il mio stile”. I frutti dei saggi storici su Roma Antica, stanno iniziando a dare i propri frutti. Un bizzarro incrocio fra fantasia e storia, ne sono consapevole, ma che nasconde aldilà di ogni immaginazione un messaggio, purtroppo, attuale. La guerra, gli stermini, le violenze, le sofferenze a cui tante persone ogni giorno sono soggette. A me personalmente viene in mente un po’ un parallelismo con la seconda guerra mondiale. Mi fa ribrezzo vedere il mio caro Edheldur nei panni dell’Hitler dei Cristiani, ma è così. Se c’è una cosa che, fra le righe, ho sforzato di sottolineare è la non divisione fra bene e male. Non ci sono buoni né cattivi. Ci sono solo persone che prendono decisioni, ed eventi che da queste scaturiscono. Prendo come esempio proprio una semplice comparsa. Polibio, il vecchio nobile che fino alla fine rimane attaccato alla moneta ma che, in memoria di un amico, non esita a salvare il piccolo Cornelio. La riflessione ultima (e vi lascio). Lì dove la politica ha portato divisioni, lì dove la religione ha portato divisioni, ha trionfato qualcosa di estremamente più semplice: l’empatia. Madre romana o Comandante Elfico, sia Lavinia che Edheldur sanno che significa essere genitori. Entrambi condividono quel sentimento profondo che è l’amore. Un amore che va aldilà di ogni parola. Quell’amore che va aldilà di ogni differenza. Se riuscissero a capirlo anche solo un quarto delle persone che popolano il nostro mondo, allora anche la vecchia Terra sarebbe un posto poco migliore. A volte mi chiedo perché scrivo. Forse è per questo. Scrivo perché ho qualcosa da raccontare. E qui il bardo rivela il suo lato più farabutto: nascondere dietro personaggi e situazioni fantastiche messaggi che ritengo vicino a ognuno di noi. Nella speranza di avervi allietati e di non essere apparso presuntuoso, vi saluto.
 
PepperS, il Bardo di Efp

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Capitolo 3
*** Polvere ***


1 - Polvere






Lontano su nebbiosi monti gelati
in antri oscuri e desolati.
Partir dobbiamo, l'alba scortiamo
per ritrovare gli ori incantati.
Ruggenti pini sulle vette
dei venti il pianto nella notte.
Il fuoco ardeva fiamme spargeva
alberi accesi torce di luce.


(Lo Hobbit)





 

“Avanti nano, cammina”
Con l’unico occhio che gli rimaneva, Valdak fulminò una delle guardie che lo stavano scortando. La mascella prominente si mosse appena, pronunciando una ruvida imprecazione. La fame e la stanchezza, oltre alla lucida consapevolezza di non cavare nulla di buono, lo dissuasero dallo stritolare quello stupido soldatino.
Con uno strascichio delle catene, poggiò le mani contro la parete umida.
Sotto i graffiti e le incisioni lo sentiva.
Il Cuore della Pietra.
Pulsava persino lì, nelle viscere di Roma.
Chiuse gli occhi, ascoltando i sussurri degli Dei. Riusciva a sentire Raukhur, il Grande Grigio. Sapeva che non si vergognava di lui.
Combatti fino alla fine, ripeté fra sé, non importa se muori o se divieni prigioniero, ma combatti fino alla fine.
Questo era ciò che Valdak aveva fatto, quando era caduto nelle mani dei romani. Si sforzò di richiamare il frastuono dell’acciaio, l’odore del sangue e i canti di guerra dei compagni, ma il buio in cui aveva vissuto le ultime settimane tornò a lambirgli la mente, offuscando ancora una volta quegli ultimi e preziosi ricordi.
Uno strattone alle catene che tenevano ferme le mani gli ricordò che le montagne del Nord erano ben lontane.
“Cerca di fare un po’ di spettacolo” lo schernì una seconda guardia “sei l’ospite d’onore dell’Imperatore”
Senza badare a quelle provocazioni, Valdak raggiunse il cancello che chiudeva il lungo corridoio. La grata disegnò un’armatura d’ombra sulla pelle grigiastra del suo corpo tozzo. Inspirò profondamente, riempiendo i polmoni con il ruggito della folla. Chinò un po’ la testa, cercando di scorgere la fine di quell’immenso anfiteatro. Una folata d’aria calda animò i lunghi capelli argentei.
“Non hai paura?” gli chiese un soldato.
“I Raukhim non conoscono la paura” scandì Valdak in un latino incerto. “In arene come queste voi uccidete i vostri prigionieri, noi facciamo lottare i nostri figli”
I due romani ebbero appena il tempo di scambiarsi un’occhiata interrogativa, che uno squillo di tromba li informò che tutto era pronto. Si udì lo scricchiolare di un argano, poi il cancello si sollevò.
Con uno spintone i soldati gettarono il nano in pasto al popolo romano.
Accecato dalla luce del sole, Valdak portò le mani al viso. Le voci si inseguivano e correvano da un lato all’altro dell’anfiteatro, confondendosi in una cacofonia di rumori. Il tumulto della folla lo assordava. Quando si fu abituato alla presenza del sole, fece correre il suo occhio di ghiaccio lungo la linea degli spalti.
 Le diverse decine di migliaia di seggi si accalcavano l’uno sull’altro, come una maestosa gradinata che portava al cielo. Il pubblico lo guardavano con curiosità, i più con ostilità, qualcuno perfino con compassione. Coperto solo da stracci e insulti, si sentì quasi inghiottito dal cielo sopra la sua testa. Al centro di un palco rialzato, scorse l’Imperatore. Circondato dalle guardie palatine, parlava con i senatori più in vista dell’elité romana.
L’istinto guerriero divorò ogni altro pensiero, lasciando Valdak in balia dell’odio verso la maschera di superbia che il Cesare indossava con estrema eleganza. Fremette, urlando a squarciagola e percuotendo il terreno col piede. In mezzo alla polvere risplendettero le dozzine di anelli che portava alla barba, muti testimoni delle sue vittorie. Fissò famelico quell’uomo biondo dal viso lentigginoso, avvolto nelle pieghe della sua toga porpora.
Teodosio si alzò, quietando con un gesto della mano l’esplosione d’entusiasmo della folla.
“Quante volte l’arena dei Flavi ha rallegrato il vostro meriggio, cittadini di Roma? Fra queste pietre avete visto lottare fra loro i più famosi gladiatori, ruggire le bestie più esotiche e implorare pietà i criminali più malfamati. Oggi, col volere di Dio, assisterete ad un spettacolo unico: la morte di un principe dei Nani!”
Nello sforzo di spezzare le catene dei polsi, Valdak irrigidì i muscoli delle braccia. Se la fiamma che gli ardeva nel cuore avesse potuto mostrarsi, Roma avrebbe conosciuto un incendio ben peggiore che quello dei tempi di Nerone. Giurò a se stesso vendetta. Vendetta per l’umiliazione di quelle risate, per l’ironia con cui era stato pronunciato il proprio titolo. Avrebbe strappato con le proprie mani la corona d’alloro dalla testa di Teodosio. Ne avrebbe fuso l’oro, forgiando un cimelio di cui si sarebbe vantato per molti secoli a venire. Un anello, in memoria dell’Imperatore nemico degli Elfi e dei Nani.
Teodosio tese il pugno in avanti, poi volse lentamente il pollice verso il basso.
“Damnatio ad bestias” sentenziò. “Fate entrare le fiere!”
L’impeto del pubblico seppellì il lento cigolare degli argani.
Animato dallo spirito della battaglia, l’occhio di Valdak guizzò verso i cancelli, aldilà dei quali alcuni domatori battevano con delle pertiche un leone, un leopardo e una tigre. Alcuni schiavi attesero che le belve si avvicinassero al nano, poi appiccarono le fiamme ad un cerchio che cinse con un abbraccio il prigioniero e i suoi avversari. Alcuni tamburi presero a battere con un ritmo cadenzato che presto Valdak non distinse più dal proprio cuore.
Le volute di fumo accompagnavano i ruggiti del leone al cielo, il leopardo girava lentamente intorno stiracchiando i muscoli, mentre la tigre si inumidiva una poderosa zampa artigliata. Che creature erano mai quelle? La sorpresa scalzò la rabbia nell’animo di Valdak. Aveva visto di persona l’ultimo drago e conosceva le fattezze di basilischi e chimere, eppure non aveva un nome per quegli strani animali.
Flettendo leggermente le ginocchia, si chiuse in posizione difensiva. Chiamò all’appello tutti i sensi a disposizione, cercando di supplire alla zona d’ombra dovuta dall’occhio mancante. Vide appena in tempo il leopardo guizzare rapido dalla propria destra.
 “Kharud tri r’ham Izaad!”
Scandendo l’urlo di guerra che gli Dei aveva insegnato al popolo nanico si gettò al suolo, lasciando che il felino balzasse al di sopra della propria testa. Vedendolo disteso a terra, inerme, il leone gli si avventò contro. Valdak rotolò di lato, lasciando che l’enorme bestia affondasse i suoi artigli nel terreno. Si piegò sul torace, tossendo a causa della nube di polvere che si era levata. Cercò di rimettersi in piedi velocemente. Distinguere le sagome attraverso quella pesante cortina era divenuto così difficile, che s’avvide troppo dell’imponente presenza della tigre.
 Tutto si svolse in fretta. Troppo in fretta.
Un ruggito.
Un colpo alla spalla e uno schizzo di sangue che segna l’arena fra le acclamazioni dei presenti.
Valdak è scaraventato a terra, le fiamme ora gli lambiscono il volto. La gente si alza in piedi. Si prega che i giochi non si concludano troppo presto. Fra le ovazioni e gli incitamenti il prigioniero si rialza, poi mangia di nuovo la polvere.
Il nano strabuzza gli occhi, bestemmiando a denti stretti. Vede la testa del leone proprio sopra di sé. La bava cola ai lati della bocca spalancata, facendo brillare una lunga fila di denti. Con una capriola all’indietro il condannato schiva le fauci fameliche.
“Kharud tri r’ham Izaad!”
Un secondo urlo di guerra accompagna uno scatto di Valdak. Si avvicina all’avversario, incurante dell’alito caldo che gli lambisce il volto. Piega le ginocchia, poi si esibisce in un poderoso salto.
La folla trattiene il fiato.
Il nano ora penzola, aggrappato alla criniera del leone. La bestia scuote con forza la testa. Ruggisce di rabbia, nel tentativo di scrollarsi di dosso l’intruso, ma la presa del nano è ben salda.
Un colpo di reni. Una mano, poi un’altra e, sotto lo sguardo incredulo dei romani, Valdak riesce ad ergersi in groppa alla fiera. Il sudore gli imperla la fronte, facendo brillare al sole i lunghi capelli color argento.
Il cuore batte più veloce dei tamburi mentre cerca di domare la bestia imbizzarrita. Di fronte a quella danza adrenalinica, il leopardo si acquatta. Sembra volersi tenere cauto. La belva striata arriccia il muso, gli occhi fissi sul nano. È attratta dal sangue, attende solo il momento giusto per fare la sua mossa.
Quando il grande animale chiomato distende le zampe inarcando la schiena, la tigre  si lancia all’attacco. Valdak tira con forza la criniera. Il leone ruggisce, poi si impenna. Il suo dolore scuote la terra. Gli artigli del felino lacerano il petto di quell’insolito destriero. Il sangue zampilla, brillando fra i muscoli del Re degli animali.
Anche il leopardo si unisce a quell’assalto mortale. Balza in groppa al leone, cercando di agguantare la sua preda. Per sfuggire agli artigli, il prigioniero si lascia rotolare in mezzo alla polvere. A pochi centimetri stramazza la fiera ferita.
Di fronte a quel risvolto inaspettato, gli spettatori esplosero in un boato assordante.
Il leone giaceva immobile, come una immensa montagna sanguinolenta. Solo il lento movimento del torace tradiva in lui l’ultimo alito di vita. Annaspava, battendo flebilmente la coda sull’arena.
“Siete certi che il prigioniero non possa sfuggire alla sua sorte?” chiese Teodosio, sporgendosi appena dal suo scranno dorato.
“Assolutamente, mio Signore” lo rassicurò un senatore.
Un’espressione contrariata oscurò i nobili lineamenti dell’Imperatore. Teneva gli occhi fissi su Valdak, divenuto quasi un beniamino della folla.
Stava curvo al centro dell’Arena. Adesso che l’impeto della lotta gli lasciava lo spazio per riprendere fiato, accusò il colpo alla spalla. Non se ne curò e, muovendo impercettibilmente le labbra,  pregò Rhudin, il Signore delle Battaglie. A lui offriva questa prima vittoria. A lui chiedeva la forza per abbattere le rimanenti fiere.
Tornò a concentrarsi sugli avversari. Gli giravano intorno, studiandolo con gli occhi scuri.
Valdak sapeva che, nell’attimo di un respiro, quella solenne sfilata sarebbe mutata in una rissa sanguinosa. Temeva la forza della tigre, ma ancor più l’astuta agilità del leopardo. A conferma di quei pensieri l’animale maculato si lanciò in una rapida corsa.
Il nano rimase immobile finché, proprio all’ultimo istante, schivò l’attacco. La bestia rallentò appena la sua carica, sollevando un spruzzo di terra, poi tornò nuovamente all’assalto. Colto alla sprovvista, il condannato sentì gli artigli graffiare la schiena.
Un uomo sarebbe certamente rimasto prigioniero di quella morsa fatale, ma Valdak non era un uomo. La sua pelle grigiastra era un scorza ruvida, una naturale armatura forgiata per resistere al dolore.
Digrignò i denti, scrollandosi dalle spalle il leopardo. Urlò, ebbro di lotta, e la sua sfida fu accolta dalla tigre. Quando gli artigli sibilarono verso il suo volto, balzò indietro, protendendo in avanti le mani. Il poderoso colpo dell’animale spezzò le catene.
Era libero.
Finalmente libero.
“Kharud tri r’ham Izaad!” vociò, passando ancora una volta all’attacco.
Puntò sul leopardo. Sollevò le braccia, incrociandole in modo da difendere il viso dagli artigli. L’animale tentò di azzannare il collo, ma Valdak riuscì ad avvilupparlo fra i suoi muscoli. Strinse con tutta la forza che aveva in corpo. Strinse, e ruotò su se stesso, atterrando la bestia. Strinse, e gli pose un ginocchio sul torace. Strinse ancor più forte, proprio come aveva fatto Khudin il Brutto con Dhroaa, il Dio Drago.
Il prigioniero ebbe la meglio, e il pubblico lo acclamò per nome.
“Dovevate liberare cento leoni!” sbraitò Teodosio, rimproverando aspramente i senatori.
“Ma Signore” cercò di giustificarsi uno fra questi. “Nessun gladiatore è mai uscito vivo da lì”
“Stupidi idioti, non capite? Quel mostro appartiene alla prole di Satana”
Serrò le labbra, artigliando con rabbia il seggio.
“Doveva essere una dimostrazione della nostra forza, e invece il popolo lo osanna”
I senatori si scambiarono occhiate cariche di preoccupazione. Tutti sapevano che la collera dell’Imperatore si sarebbe placata solo alla vista del sangue. Si segnarono col gesto della croce, implorando Dio che quel sangue appartenesse al nano.
Impegnato com’era a sfuggire alla tigre, Valdak non si accorse di quanto stava accadendo sul palco imperiale. Adesso correva nell’arena cercando di tenere distante dalla tigre. Si passò una mano sul viso madido, mentre un rivolo di sudore sgattaiolò ai lati della barba. Aveva il fiatone e le ferite iniziavano a bruciare a causa della sabbia.
La fiera striata lo incalzava senza tregua, padrona indiscussa dell’arena. Lo sferzava con gli artigli, facendolo ruzzolare nella sabbia, per poi dargli il tempo di rialzarsi. Il prigioniero scartò l’idea che la bestia si fosse stancata. Forse voleva privarlo delle ultime energia, o forse stava solo giocando come un gatto fa col topo.
Valdak fu così disgustato da quell’idea, che rallentò la corsa fino a fermarsi.
Si voltò, deciso ad affrontare quell’ultimo mostro. Si inumidì le labbra e sputò a terra. Strisciò i piedi sulla sabbia, divaricando le gambe corte e tozze. Alzò la guardia e fece cenno all’animale di farsi avanti.  
Se avesse avuto la propria ascia sarebbe stato tutto più facile. Cercò di non pensare alla fine che aveva fatto quell’arma lasciatagli dal padre e dai suoi avi. Nel vedere la tigre lanciarsi in corsa, grugnì.
L’impeto della carica lo fece strisciare indietro, ma riuscì a reggersi in piedi. Bloccava a mani nude le zampe della bestia striata. Cercava di sopraffarla, ma non vi riuscì. I muscoli delle braccia fremettero, le vene del collo si gonfiarono. Aveva il viso arrossato, ma si sforzò di non cedere. La tigre puntellò le zampe posteriori, inghiottendo nella sua ombra il nano.
“Sembra così piccolo” rise un donna negli spalti, indicando nell’arena i due lottatori avvinghiati.
“Mamma, mi compri una tigre?” urlò entusiasta un bambino, agitando nell’aria una spada di legno.
“Anch’io voglio una tigre!” gli fece eco il fratellino seduto in grembo alla madre.
“Guarda che forza” si stupì una ragazza, il viso incorniciato da un drappo blu che scendeva fin sulle spalle.
“Pensi che potremo comprarne uno simile come schiavo?” chiese dubbioso il marito, un uomo calvo e grasso.
“Affrettatevi, signori. Le scommesse stanno per chiudere” bandiva un ragazzetto smilzo a quanti lo circondavano. “Avanti, chi punta sul nano?”
La folla è elettrizzata dalla spettacolo. Gli occhi, ancora non sazi, temono di perdersi il più piccolo movimento.
Tutti scattano in piedi.
la tigre ha atterrato il nano. Lo tiene fermo con le enormi zampe, poi affonda le zanne poco sotto il collo. Si sente un urlo, poi la bestia si ritrae. Trionfante, fa il giro dell’arena, leccandosi il muso sporco di sangue.
Valdak si rialza dalla pozza di sangue.
Barcolla, generando stupore. La stanchezza sta per coglierlo, gli occhi bruciano. Respirando a fatica e col viso sporco di sangue si volta verso l’imperatore.
“Kharud tri r’ham Izaad!”
L’eco rimbomba arrogante nell’arena, ammutolendo i presenti. Teodosio sgrana gli occhi, quasi arretra sul suo seggio.
Valdak sa che morirà, ma quel timoroso silenzio, carico di rispetto, lo ha appena incoronato vincitore.
Cammina, e ad ogni passo la vista si offusca. I contorni diventano sfumati, i colori confusi e sbiaditi.
Valdak non si ferma.
Combatti fino alla fine, ripete fra sé, non importa se muori o se divieni prigioniero, ma combatti fino alla fine.
 

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Capitolo 4
*** Alyna ***


ALYNA



 "Vivi con virtù, agisci con la mente, combatti con il cuore"

Caranthir Arhathel



 

“Non allontanarti troppo da casa e non girare a piedi nudi” le aveva detto la mamma. Ma Alyna, come al solito, non aveva prestato orecchio a nessuno dei due avvertimenti. Saltando a gruppi gli scalini di rami intrecciati, si era fiondata giù dall’albero su cui sorgeva la capanna con in testa il solito ritornello.
“Ricorda che il vecchio Mordhros porta via con sé gli elfi che disobbediscono ai genitori”
Alyna non credeva più da un pezzo a quella vecchia storia.
Poteva vantare una lista invidiabile di marachelle, eppure era ancora lì, coi suoi ricciolini castani baciati dal vento. Certo, a volte era attanagliata dal dubbio che il Dio dei Morti attendesse in agguato fra le ombre delle enormi querce. Quando accadeva, rallentava per un attimo la corsa, tuffandosi in mezzo ai grossi cespugli di oleandro. Vigile come una delle sentinelle del villaggio, stava immobile, a tirare sassolini ai grossi tronchi. Rassicurata dal chioccolare dei merli, sgusciava via, attenta a non impigliare il vestitino di lana fra le radici.
Come ogni volta che usciva a fare due passi, la bambina si avvicinò al recinto degli animali. Sporse la testa fra le sbarre di legno e fece un fischio. A quel segnale, fra le capre e i vitelli, emerse la gracile sagoma di Ranocchio. Alyna voleva un gran bene a quel piccolo agnellino, che la Natura aveva voluto storpio sin dalla nascita. Gli elfi silvani lo avrebbero scelto da un pezzo per allentare i morsi della fame, se la piccola non avesse combattuto strenuamente.
“Volete ucciderlo solo perché zoppica, non è così?” aveva gridato una mattina agli addetti delle cucine reali, giunti a ritirare l’animale. “Siete senza cuore! Stupidi elfi senza cuore!”. Di fronte alle urla e ai calci della ribelle, l’imbarazzo degli inservienti era stato secondo solo al divertimento di quanti avevano assistito. Ranocchio fu graziato, e da allora era divenuto l’inseparabile compagno della bambina.
Alyna lo colse fra le sue braccia, poi corse in direzione della radura al centro del villaggio. Alzando gli occhi, scorse il sole baluginare fra i rami degli alberi. L’autunno non era ancora terminato, ma già le fronde erano state depredate dalle foglie. Non le piaceva l’autunno, e ancora meno l’inverno, ma in fondo c’erano cose peggiori.
La guerra, ad esempio.
Non sapeva come era iniziata e non si era mai chiesta come sarebbe finita. Per quel che ne sapeva era sempre stata lì, come un fiume tutt’attorno al villaggio. Alyna aveva visto tante volte la mamma piangere alla vista del sangue dei feriti, persino Ranocchio tremava allo scoccare degli archi elfici.
Lei, che era una bambina coraggiosa, aveva fatto l’abitudine sia all’uno che all’altro, ma una cosa la terrorizzava sopra ogni cosa, persino più dell’ombra di Mordhros. Era il sordo scricchiolare delle selci calpestate dalle caligae dei soldati romani. Odiava il tramestio metallico di quelle calzature perché le faceva ricordare quella notte, la notte in cui tutto era accaduto.
Le prime file di legionari erano state abbattute senza alcuna difficoltà. C’erano stati sorrisi e acclamazioni, presto soffocate dall’arrivo di altri nemici.
Erano tanti, erano troppi.
“Un elfo ben addestrato può uccidere anche cinque avversari in duello” aveva sussurrato con preoccupazione Lorelin Arhathel, Regina degli Elfi Silvani. “Ma quanti elfi sono necessari per uccidere tremila soldati?”
Alla fine di uno scontro lungo e sanguinoso, i nemici erano riusciti a mandare in rotta anche l’ultima fila delle difese elfiche. Dalla sua capanna, Alyna aveva sentito scemare il clangore delle armi, presto sostituito dalle risate dei vincitori.
“Ranocchio!” aveva urlato, sfuggendo alle braccia della madre “Devo salvarlo”
Sorda alle grida della genitrice, era scivolata come una piccola ombra sul campo di battaglia. Era stata brava, doveva ammetterlo, ad evitare le fiamme che ardevano le casupole e anche i cavalieri che, dall’alto dei loro grossi cavalli, uccidevano i feriti e i fuggiaschi sparsi nella foresta. Le sarebbero bastati ancora pochi metri per giungere al recinto. Lo aveva persino visto, Ranocchio, solo in mezzo agli altri animali.
Era ancora vivo, terrorizzato ma vivo.
Da dove era sbucata la mano che l’aveva sollevata non riusciva proprio a ricordarlo, né rammentava i volti di tutti coloro che poi l’avevano circondata.
Risate. Schiaffi. Calci. Urla. Lacrime. Il riflesso di un coltello, poi l’aspro odore del sangue. La notte si era tinta d’amaranto. Una ferita all’occhio destro l’aveva accecata, dissacrando quel suo grazioso viso di bambina. Alyna non voleva immaginare che altro le avrebbero fatto, se non fosse intervenuta la Regina.
Sebbene la cotta di maglia masticata dalla ruggine marchiasse Lorelin come un facile avversario, l’impeto furente del suo sguardo e l’urlo selvaggio con cui accompagnava lo scoccare delle frecce avevano convinto la combriccola di romani alla fuga. Quell’incubo era finito solo quando, soprafatta dal dolore, era crollata, avvolta nel manto lacero della Regina.
Il timore dei romani l’aveva segnata sia nel corpo che nello spirito, ma non tanto da impedirle di andare a zonzo per il villaggio durante la loro assenza. A volte, subito dopo le battaglia, amava sedere su un masso, lasciandosi trasportare in paesi lontani dalle note dei martelli. Quando riusciva ad evitare i rimproveri delle sentinelle, si infilava in una delle buche nel terreno. Sperava di trovare qualche gemma preziosa, degna di Lorelin, ma poi le piombava a dosso una manciata di fango e, impaurita, scappava via.
Quel giorno invece Alyna decise di lasciar pascolare liberamente Ranocchio.
“Non hai paura che un giorno, brucando tutta l’erba, tu possa rimanere senza cibo?” lo stuzzicò divertita. Per tutta risposta l’agnellino alzò la testa, facendo risuonare la campanella appesa al collo, e zoppicò verso una macchia di verde che cresceva rigogliosa.
L’elfa, sdraiata con la testa poggiata sui palmi delle mani, osservò delusa l’amico. Sperava che finalmente lui le desse una risposta, una vera risposta. Invece no. Ancora una volta replicò con quei belati striduli.
“Dovresti insegnarmi a parlare la tua lingua, Ranocchio. Sarà più divertente riuscire a capirci”.
Un suono sommesso attirò la sua attenzione. Si rizzò in piedi, cercando di capire da dove provenissero quei tonfi sordi. Poco lontano, sul fondo di una piccola valle nel bosco, alcuni bambini si divertivano a tirare sassi contro ciò che rimaneva dell’accampamento romano.
“Alyna, vieni a giocare con noi!” la invitò uno di questi. “Abbiamo spogliato i cadaveri delle armi, ora abbiamo delle vere spade”.
“Non posso” rispose, scuotendo con veemenza la testa riccioluta “A Ranocchio non piacciono i romani”.
Dalle risate immaginò che gli altri compagni di gioco avessero intuita la sua menzogna. Corrucciata tornò verso l’agnellino. Loro non potevano capire, non erano stati violati dalle mani dei nemici. E se qualcuno non fosse davvero morto? Se stessero solo dormendo, pallidi e freddi, distesi sui loro manti?
“Vieni Ranocchio, andiamo a giocare da un’altra parte”.
L’animale seguì docilmente la bambina che si inoltrava fra le querce.
L’erba ora si faceva sempre più alta. Lunghi tralci d’edera si inerpicavano su per i tronchi fino a lambire i rami, sapientemente intrecciati per dar vita alle capanne. Un tempo, quando ancora la guerra non esisteva, lassù vivevano altri elfi, così le aveva detto la mamma. Adesso invece molte di quelle strutture erano gusci vuoti, in cui muschi e licheni facevano compagnia ai fantasmi di un passato troppo lontano perché Alyna potesse ricordare.
“Vedi quell’albero laggiù?” chiese all’agnellino, indicando un grosso albero che cresceva in mezzo ai rovi. “Lì viveva un grande guerriero”.
Le sue parole erano sussurri intrisi di solenne rispetto. Alyna non aveva mai visto un eroe, anche se ne conosceva tutti i nomi. Li aveva appresi dagli elfi più anziani che, nelle fredde notti in cui il vento rendeva incerte le fiamme dei focolai, amavano raccontare quelle antiche storie. La sua fantasia stava ancora galoppando a briglia sciolta, quando il suo occhietto fu attratto da un fiore di indicibile bellezza.
Era una rosa, una splendida rosa rossa, nascosta fra le sterpi. Le spine riuscivano a nascondere la sua vista, ma non il suo profumo. Alyna si chinò, inoltrandosi nell’arbusto. Sentì che i rami le graffiavano la faccia, ma non desisté. Strisciò ancora un poco in mezzo alla polvere. La sua mano ora riusciva a sfiorare quel fiore prigioniero delle sterpaglie invidiose. Lo colse, avendo cura di non rovinarne i petali scarlatti.
Uscita da quella gabbia irta, si lanciò in corsa verso il villaggio. Superò, veloce come il vento, i bambini che ancora bighellonavano nel castra imperiale abbandonato. Balzò oltre le buche, scansando gli elfi che portavano i feriti al riparo. Lanciò dei richiami a Ranocchio, cercando fra gli alberi finché non scorse Lorelin.
Curva in mezzo al fango, la Regina stava issando alcuni pali per formare una palizzata. Benché i lunghi capelli corvini fossero crespi e la pelle candida sporca di polvere, l’elfa pensò che Lorelin fosse bellissima.
“Ho un regalo per voi, Regina” ansimò, porgendole il bocciolo.
Lorelin accettò con un sorriso il dono. Lo annusò, godendo del suo buon profumo, poi profuse una carezza a quella bimba che fremeva ai suoi piedi, raggiante nonostante l’occhio maciullato dalla guerra. Abbracciò Alyna, fiore ancor più bello della rosa, appoggiando la sua fronte contro quella dell’elfa.
Gli occhi della Regina si riempirono di lacrime. Pianse fra le braccia di quella bambina dal cuore così grande. Era commossa dallo scoprire che, in mezzo alla violenza e alla disperazione, esisteva ancora qualcuno che aveva ancora il coraggio di sognare.

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Capitolo 5
*** Oltre la Corazza ***


3 - Oltre la Corazza








Il Bardo Consiglia come Soundtrack per l’ascolto : http://www.youtube.com/watch?v=UGl40O3Az_g




I morti non si posso riportare in vita
Sun Tsu – L’Arte della Guerra

 
 

 

Il silenzio della grotta non faceva che acuire l’euforia che regnava all’esterno del tempio.
“Sono tutti pronti” pensò Edheldur Arhathel, immobile di fronte l’altare. Li vedeva con l’occhio della mente, ordinatamente disposti uno a fianco all’altro. Le cotte di maglia scintillanti, le faretre gravide di frecce e l’acciaio delle lame ben oleato.
L’esercito degli Elfi del Crepuscolo attendeva il proprio comandante, presto avrebbe preso posto sulle navi che dalla Norvegia lo avrebbe condotto alle coste della Germania.
“E da lì, nel cuore dell’Impero”.
Aveva studiato il piano decine di volte prima di proporlo al Consiglio. Quante notti insonni, cercando la falla che avrebbe potuto minare quel viaggio? Nulla doveva essere lasciato al caso; ogni dettaglio, anche il più piccolo e insignificante, doveva essere tenuto in conto.
“Sarà una cavalcata veloce fra i villaggi minori” tentò di rassicurarsi. “Un’incursione mirata a disturbare l’immenso regno degli uomini”.
Lasciare la propria città per una scaramuccia nelle terre aldilà del mare non era certo una novità, eppure ogni volta aveva quel nodo alla gola. Un cappio ben stretto, che gli irrigidiva il corpo intero. Era un comandante, mostrarsi determinato verso i propri uomini faceva parte dei suoi doveri.
Dovere.
Tanto più si aggrappava a quella parola, tanto più il pensiero lo ripugnava.
La vita prima del comando, supposto che ne avesse mai avuto una, sembrava così lontana da essere come un foglio sbiadito e illeggibile in un volume colmo di note minuziose. Si era lasciato trascinare nei giochi politici che reggevano il fragile equilibrio dell’Europa, uscirne non sarebbe stato semplice né immediato. Ma in fondo non se le cavava male; ci sapeva fare con parole, doveva ammetterlo, e fra i nemici godeva di una certa fama come guerriero. I suoi discorsi infiammavano i cuori degli Elfi del Crepuscolo, nei cui occhi aveva visto brillare lo spettro di una fedeltà incondizionata, di una fiducia cieca.
Forse, fra tutto, era questo che gli faceva più male.
“Perché non capiscono i rischi a cui li espongo?”
Strinse i denti così forte che la bocca assunse il sapore del sangue. In circostanze diverse non avrebbe esitato a urlare la propria rabbia verso quell’ammirazione spropositata.
“Non qui, non ora” rammentò a se stesso.
La paura di lasciar trapelare i propri sentimenti non faticò a frenarlo. Con l’elmo nero sotto braccio si inginocchiò di fronte l’altare, e per un attimo il panneggio del manto coprì la corazza d’acciaio nero.
“Mordhros, Signore dei vivi e dei morti” iniziò a pregare il Dio protettore degli Elfi del Crepuscolo. “Tu che soprassiedi alle battaglie, ti prego, proteggi i tuoi figli. Non lasciare che le Legione Romana recida i fili delle loro vite”.
Alzò gli occhi lucidi verso la statua come se che quell’elfo snello, dai lunghi baffi e con la corazza simile alle squame di un pesce dovesse replicare ai suoi pensieri. Attese, scandendo il tempo con i battiti del proprio cuore, ma il silenzio fu l’unica risposta che ebbe.
“Fa che tornino salvi” lo implorò.
Non riusciva a togliersi dalla testa i molti giovani che popolavano i ranghi del suo esercito. Alcuni avevano visto brillare le insegne dell’Aquila soltanto nei racconti dei compagni più anziani. Fare il massimo per trasmettere alle nuove reclute la conoscenza di chi ormai era avvezzo alla guerra era sempre stato fra le sue priorità. Vincere la ripugnanza dei veterani sull’argomento non era stato facile, ma infine li aveva convinti a spiegare ai novelli soldati le tattiche di Roma.
“Devono sapere a cosa vanno incontro. Devono sapere della formazione a testuggine, delle trincee e delle torri d’avvistamento lungo il Limes”.
Troppe volte aveva assistito inerme alla caduta di valorosi guerrieri nello scontro frontale fra i muri di scudi. Era quello il momento in cui i gladi dei legionari si rivelavano armi insidiose. Forse non erano resistenti quanto le lame forgiate dagli Elfi, né incantate con le rune alla maniera dei Nani. Bisognava temere il modo in cui quelle spade corte si districavano agevolmente nella ressa dei corpi che si accalcavano l’uno sull’altro.
“E se non fosse la cosa più saggia da fare?”. Quel pensiero tornò a tormentarlo, come un bandito in agguato oltre l’angolo.
Saggezza. Tanto preziosa, quanto rara.
Non amava la guerra, ma non vedeva altra soluzione per fermare quella follia. Come potevano tre città elfiche rappresentare una minaccia per l’Impero? Si era posto troppe volte quella domanda, ma la risposta rimaneva sempre la stessa.
Paura, o forse la minaccia dell’ignoto.
Qualsiasi fosse il motivo per cui l’Imperatore romano aveva deciso di rendere i nani e gli elfi solo delle leggende, lui avrebbe cambiato le carte in tavola. Non sarebbe rimasto a guardare l’annientamento della propria razza. Sperare in una strenua difesa nei confronti degli attacchi romani equivaleva ad una lenta e continua rovina.
“Basta guardare il villaggio degli Elfi Silvani. Quanti altri morti dovranno ancora raccogliere prima di capire che bisogna passare all’attacco?”.
Che la sua idea fosse carica di responsabilità l’aveva letto sulla faccia preoccupata dei propri consiglieri. Ad ogni nuova sortita aveva l’impressione di agitare sempre più forte l’estremo di una catena.
Presto o tardi l’onda sarebbe tornata indietro.
“Hai paura che un giorno gli uomini ti accusino di averli trascinati in una guerra troppo grande per loro, vero?” gli aveva chiesto la propria donna. Con lei non doveva fingere, non era necessario nasconderle i tormenti del proprio animo.
Nulla lo terrorizzava quanto il far pagare agli altri il prezzo delle sue scelte.
Sapeva che la fedeltà di quegli Elfi non sarebbe mai venuta meno, almeno quanto era cosciente che fra loro qualcuno non avrebbe mai più fatto ritorno a Nainiel.
“Puoi scappare dai tuoi nemici, ma non da te stesso”
Piegò il corpo in avanti, poggiando la testa contro il pavimento, e graffiò la pietra le unghie. Ogni soldato che cadeva in battaglia era una cicatrice sul proprio cuore. Anche nel sonno continuava a vedere quei volti scomparsi. I loro occhi fiammeggiavano, ma nessuna parola accompagnava quelle accuse silenziose. Sembravano rimanere leali persino nei suoi incubi, incapaci di imputare al comandante la propria morte.
Mentre Edheldur Arhathel aveva ingaggiato una battaglia con la propria coscienza, versando lacrime per chi ancora non aveva ricevuto le ferite fatali, il solenne silenzio del tempio di Mordhros fu violato dal timido avanzare di alcuni passi.
Una figura sottile strisciò fra le colonne, avvolta in un ampio manto verde. Il cappuccio ne nascondeva il viso, ma il bastone da mago tradiva la sua identità.
 “Edhel” sussurrò l’Ambasciatore degli Elfi del Crepuscolo. “Non dovresti far attendere troppo gli uomini”
“È proprio necessario, Maric?”
“Stai scherzando?” rise nervosamente il giovane mago. “Certo che è necessario, non fanno che chiedere di te”.
Quando i suoi occhi incontrarono quelli dell’amico, capì il dolore a cui alludeva.
“Tutto questo non è colpa tua. Li hai sempre guidati al meglio, ce la faremo anche questa volta”
Gli pose la mano sulla guancia, asciugandogli le lacrime.
“Avanti, sai che non sono bravo con le parole” lo incitò. “Hanno fiducia in te a ragione, lasciatelo dire. Quindi caccia via i cattivi pensieri e torna ad essere il Comandante di sempre”.
“Il Comandante di sempre …” ripeté Edheldur.
Maric gli scostò una ciocca corvina dal viso, traendo un fiore da dietro l’orecchio dell’elfo.
“Non iniziare a fare il prestigiatore” sorrise il condottiero.
“Si chiama magia, mio caro”
Non appena l’Ambasciatore l’ebbe lanciato in aria, il bocciolo si dissolse in nugolo di piccole sfere luminescenti che presero a ruotare attorno alla statua di Mordhros. Rimasero in silenzio ad ammirare il gioco di luci che sembrava rendere viva l’effige del Dio, poi si volsero entrambi verso le porte del tempio.
“Hai fatto caricare le provviste?” chiese Edheldur infilandosi l’elmo.
“Potremmo banchettare senza sosta per dieci giorni, ma da qualche parte ho letto che non è un bene lottare a pancia piena”
“E il cielo?”
“Sariel ha osservato a lungo il volo degli uccelli, dice che per un po’ di giorni siamo al sicuro dalla pioggia. Dello stesso parere è anche Rimantine, che ha studiato le interiora dell’agnello durante l’ultimo sacrificio”
Rovistando in una delle tasche del manto, Maric trasse uno stralcio di pergamena sgualcita.
“Stavo dimenticando” s’affrettò ad aggiungere, lanciando una rapida occhiata agli appunti “È d’accordo anche Seren, ha indagato le stelle per tutta la notte”
Sul viso di Edheldur si incise un sorriso tagliente.
“Perfetto, allora basta indugiare” concluse, spalancando l’ingresso del tempio. “Abbiamo una battaglia da vincere”.
“Abbiamo una battaglia da vincere” assentì Maric, al suo fianco.

Accompagnata dall’ovazione della folla, la Luce si precipitò all’interno della grotta, dissolvendo l’Oscurità che avvolgeva il Cavaliere Nero.

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Capitolo 6
*** sospeso ***





 

questo racconto è sospeso per motivi di partecipazione a un concorso

 

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Capitolo 7
*** Il Respiro dell'Eternità ***


Il Respiro dell’Eternità         
 
La soundtrack consigliata dal bardo: http://www.youtube.com/watch?v=zakVfDY0xZk                              
 
Tarak Rowin non riusciva a scacciare la sensazione che la quiete immobile dei secoli non gradisse alcun intruso. Il silenzio sembrava ritrarsi al passaggio dei due nani, solo per strisciare loro intorno e spiarne ogni movimento.
«C’è qualcosa» disse Khanner Thane, muovendosi a passi lenti sotto un affioramento di cristalli luminescenti nel soffitto della caverna. «Qualcuno ci osserva».
La testa rotonda e calva si muoveva in ogni direzione, mentre le dita tormentavano la grande borsa di cuoio in cui erano riposte le gemme. I piccoli occhi del nano si sforzavano di perforare la foschia verdognola che li circondava: le pareti della caverna erano logorate in aperture irregolari, alcune appena abbozzate, ma in diversi punti erose al punto da divenire veri e propri cunicoli.
«Significa che siamo sulla strada giusta» ribatté Tarak, descrivendo un piccolo arco col braccio destro. Nel cono di luce sbiadita il pulviscolo turbinò, saggiando la tempra del martello della Casa Rowin; le catena che dal pomo dell’arma correva al guanto sinistro si tese, ondeggiando con uno scricchiolio sordo.
Tarak Rowin indietreggiò fino a trovare la schiena di Khanner.
Aggrottò le folte sopraciglia, aggiungendo altre rughe alle tante che solcavano la fronte  stempiata. Sembrano orbite vuote, pensò fra sé, orbite vuote di un ragguardevole numero di nemici. Il pensiero non mitigò il disagio che sentiva formicolare al di sotto dell’armatura brunita. Piegò la testa prima su un lato, poi sull’altro, cercando di sciogliere i muscoli irrigiditi del collo e delle spalle. La barba bigia ondeggiò, facendo tintinnare gli anelli da guerriero sull’orlo della corazza. 
«Riesci a individuare dove si trova?» chiese, tenendo ben alta la guardia.
Khanner grugnì, arricciando il grosso naso.
«Posso provarci»
Scostò il mantello color ocra e frugò al di sotto del corpetto di cuoio, cacciando fuori il medaglione. Le dita tozze accarezzarono le cesellature che ornavano il nome della famiglia Thane. Chiuse gli occhi, divaricando appena le gambe. Stretto nel pugno, il ciondolo d’argento prese a vibrare.
«La montagna è lacerata» disse, schiudendo appena le labbra sottili. «Avverto rancore e paura, urla e pianti. Una sensazione orrenda, come lo stridio di unghia acuminate sull’ardesia».
Fece una pausa, voltandosi a guardare il compagno, poi aggiunse: «La Pietra ci cerca, Rowin».
La luce dava uno svogliato tocco di colore alle guance paffute di Khanner, lasciandone però in ombra gli occhi. Tarak imprecò a mezza voce, il tono delle parole del compagno, fra il sorpreso e l’allarmato, non lasciava presagire nulla di buono.
A dirla tutta, era l’intera storia che puzzava di guai. Sin dall’inizio, quando Khanner Thane aveva premuto per una seduta straordinaria del Consiglio, annunciando a tutti i membri delle Case che qualcosa turbava la pietra.
Una presenza, una minaccia forse, nel cuore della montagna su cui sorgeva Farmek, il Palazzo di Ghiaccio dei Nani Nordici.
Solo dopo la scoperta dei primi cadaveri, il Consiglio si era risolto a mandare una spedizione e, naturalmente, Tarak aveva finito col farne parte. Adesso, con un abisso di pietra sopra la testa a separarlo dal confortevole tepore di Farmek, il vecchio guerriero riusciva ad apprezzare meglio l’ironia della sorte.
Braccati. Proprio dalla minaccia a cui dovevano porre rimedio.
«Facciamoci trovare preparati» decretò Tarak con voce asciutta.
L’esasperante gocciolio di un’infiltrazione d’acqua era l’unico suono nel silenzio in cui i due nani scandagliavano ogni recesso della grotta. Più che scovare tracce del nemico, osservò Tarak, Khanner sembrava impegnato a valutare tutte le possibili vie di fuga. L’aria era polverosa, e sapeva di funghi marci.
Nell’udire lo scricchiolio di roccia che sfrega su altra roccia, i nani voltarono la testa contemporaneamente verso un angolo buio della caverna. Il rumore, riflesso dalle pareti di roccia, echeggiò, dando l’impressione che provenisse da ogni direzione.
«Che gli Dei ci aiutino» disse in un soffio Khanner, mentre sfilava un quadrello per caricare la balestra.
La luce dei minerali sbiadì, per poi tornare nuovamente alla stessa intensità; alcuni frammenti di roccia scivolarono dalla sommità di un mucchio di detriti. Tarak colse tutto ciò nel preciso  istante in cui la creatura emergeva, senza fretta, dall’ombra in cui era nascosta.
Un ammasso di roccia irsuta, dalle forme di un uomo. La testa, supposta ne avesse una, si riduceva a un minerale rossastro conficcato di sghembo sulla sommità di quello che appariva come un torace prominente. Era alta quanto entrambi i nani sovrapposti, forse anche di più.
«Grande Raukhur». Khanner Thane si ingobbì in posizione difensiva, puntando la balestra contro l’avversario. «la Pietra è viva».
Tarak evitò di pensare a cosa avrebbero potuto fargli quelle braccia nerborute, se solo fossero riuscite ad agguantarlo. La creatura avanzò lentamente, con un tonfo sordo a ogni passo, accaparrandosi senza problemi il centro della caverna.
Khanner proruppe in una risata stentata. «Temo non vorrà scendere a patti». Fece correre lo sguardo dal mostro di pietra al compagno.
Tarak aprì la bocca, senza emettere alcun suono. Soffocò la tentazione di correre verso l’uscita più vicina. Nessun Nano Nordico deve volgere le spalle all’avversario, si disse. Meno che mai un nano della Casa Rowin.
Khanner abbassò la leva della balestra; il quadrello fendette l’aria con un sibilo acuto, piantandosi nella spalla dell’avversario. Il mostro vacillò appena ma non sembrò avvertire il colpo, piuttosto si mosse verso il nano della Casa Thane. Alzò un piede, tentando goffamente di calpestarlo, ma Khanner si era già infilato a capo chino fra le gambe prima di essere schiacciato.
«Cosa diamine è?» disse Tarak, balzando alle spalle della creatura pronto ad assestare un poderoso colpo di martello. L’arma vibrò e si limitò a scheggiare la roccia, trasmettendo al braccio che l’impugnava un duro contraccolpo. Fu costretto a ripiegare di lato perché l’avversario stava voltandosi a fronteggiarlo.
«Non ci scommetterei la testa, ma ricorda ciò che le leggende chiamano Gho’leem».
Khanner sparò un altro quadrello, mancando di un buon palmo il mostro, poi si chinò a ricaricare l’arma senza staccare gli occhi dal nemico.
«Gho’leem?»
Tarak non ricordava alcuna storia che li menzionasse. Quando la creatura gli si parò innanzi, con tutta la sua mole, il vecchio guerriero dubitò di ricordare una qualsiasi storia.
«Mostri di roccia, animati dalla magia»
La balestra di Khanner sputò una raffica di quadrelli che disegnò una linea lungo la schiena del Gho’leem. La creatura sollevò un braccio, sfiorando il soffitto della caverna, poi spazzò con una manata lo spazio di fronte a sé.
Tarak fu sbalzato contro il muro. Nel battere la testa contro la roccia, sentì la vista offuscarsi. Ebbe un capogiro, ma intuì di trovarsi riverso sul pavimento. Affondò le dita fra i detriti e provò a sollevarsi. Ci vedeva, anche se l’intero campo visivo brulicava di puntini. Ma almeno ci vedeva, quanto bastava per strisciare fuori dalla portata del Gho’leem. Tossì e si passò la mano fra i capelli grigi, ritraendo il guanto macchiato di sangue.
«Le storie non dicono anche come stenderlo?»
«No, a meno che tu non sia un Dio».
Khanner cacciò una mano nella borsa di cuoio, mentre con l’altra continuava a reggere la balestra. «Forse ho un’idea» disse, mordicchiandosi il labbro inferiore.
Tarak fece una smorfia. C’era solo un genere di idea che poteva venire in testa a Khanner: sfruttare le proprietà dei minerali. Che fosse per prevedere i cambiamenti del tempo, o anche solo per ricavare una tintura, un Thane aveva sempre la gemma giusta sottomano. Una volta Tarak aveva sentito dire che Dekhar Thane, fratello di Khanner, era riuscito perfino a distillare una bevanda alcolica raffinando una rara pietra estratta dalle miniere di Farmek.
Qui non si tratta di trucchi da salotto, mugugnò fra sé Tarak che, come un qualsiasi nano della Casa Rowin, preferiva risolvere la faccenda con la tempra delle armi.
«Lo faremo saltare in aria». Khanner sollevò una pietra ovale contro la luce dei minerali luminescenti, controllando che avesse pescato la gemma giusta dalla grande borsa di cuoio.
«Un’esplosione? Vuoi seppellirci in questi sotterranei?»
«Fidati di me, Rowin» disse il nano della casa Thane, umettandosi le labbra. «Basta solo incastrarla nel Gho’leem, colpirla con forza e ...»
La creatura sollevò un piede, poi lo mosse bruscamente, percuotendo il terreno più volte. Tarak sentì il terreno vibrare come un incudine sotto un martello di tonnellate di roccia. Barcollò, aggrappandosi a una sporgenza della parete per non perdere l’equilibrio.
Khanner Thane rischiò di perdere la presa sulla gemma, ma tenne ben salda la stretta e corse, fino a trovarsi di fronte la creatura. Incastrò la pietra fra le irregolarità del torace e, usando il calcio della balestra, iniziò a colpire la gemma.
Ma, per quanto tentasse, non riuscì a generare alcuna esplosione.
Tarak sapeva che l’idea del compagno non avrebbe funzionato; Il pensiero, pur scacciando la preoccupazione dell’esplosione, non fu di gran conforto. Il Gho’leem rimaneva pur sempre lì, muto e minaccioso.
E rimaneva anche il problema di come abbatterlo.
«Khanner, attento, sopra di te!»
Il nano alzò gli occhi, ma non fece in  tempo a ritrarsi dalla mano della creatura. Sollevato per aria e stretto nel pugno di pietra, Khanner Thane bestemmiava e si agitava, urlando con voce stridula. Tarak riuscì senza difficoltà a immaginare il dolore che l’altro stava provando. Sperò solo che lo scricchiolio che udiva fosse dovuto alla roccia, e non alle ossa del compagno.
«La g-gemma» boccheggiò Khanner, rivolgendo uno sguardo abbacinato al vecchio guerriero. «Colpisci la g-gemma».
Tarak guizzò, il viso largo e spigoloso contratto in un’espressione granitica. Gli occhi puntarono la gemma che oscillava a ogni movimento del Gho’leem. Trattenne il respiro e caricò un colpo di martello.
«Kharud tri r’ham Izaad!»
L’urlo di guerra della Casa Rowin vibrò con ferocia, mentre Tarak frantumava la pietra. La caverna sembrò capovolgersi mentre, in un attimo, una crepa appariva e si propagava sulla superficie ambrata della gemma.
L’esplosione, con un boato simile a un ruggito, sollevò una coltre di polvere e detriti, oltre la quale Tarak vide la sagoma paffuta di Khanner Thane schizzare verso il soffitto per poi ricadere a terra.
I resti del Gho’leem non si distinguevano più dalle pietre disseminate sul pavimento della caverna.
«È andata» disse Tarak, tirando la catena affissa al guanto sinistro per recuperare il martello.
Khanner annuì con aria assente mentre con un piede scostava, sospettoso, un frammento irsuto di roccia.
«Temo non sia finita qui» annunciò il nano con aria grave.
Il medaglione della Casa Thane vibrava, notò Tarak. Appese alla cinta il martello e afferrò una pietra chiedendosi come fosse possibile che quella stessa roccia, appena pochi attimi prima, avesse tentato di farli fuori senza tanti complimenti.
«Significa che ce ne sono altri?»
Khanner Thane si strinse nelle spalle, senza confermare né smentire la possibilità. Tarak si guardò attorno come se da un momento all’altro l’intera caverna dovesse prendere vita, chiudendosi su di loro come la bocca di un’enorme creatura. Finse di non pensare a loro come dei bocconi succulenti e si diresse verso una galleria illuminata da gruppi di cristalli luminescenti.
Khanner lo scosse per la spalla, facendogli cenno verso un altro cunicolo, un’apertura buia che si ripiegava su se stessa, sparendo nelle profondità del sotterraneo.
«Dobbiamo capire quale fonte anima la Pietra»
«Cosa faremo una volta trovata?»
«Non correre troppo, Rowin. Intanto cominciamo col trovarla»
Tarak inarcò un sopraciglio. «Abbiamo un punto di partenza» disse, senza troppa convinzione.
Di tutte le battaglie che aveva combattuto, questa rischiava di essere la più singolare. Pietra che prendeva vita. Da qualsiasi punto di vista la osservava, la situazione non appariva meno inquietante di prima.
La galleria procedeva in modo tortuoso e in leggera pendenza. Quando fu troppo buio per procedere, Khanner frugò di nuovo nella grande borsa di cuoio. Stavolta ne trasse un rubino grosso quanto un pugno. Per un attimo se lo rigirò fra le mani – dall’espressione accigliata, Tarak indovinò il cruccio per dover dar fondo alla preziosa risorsa – poi lo sollevò ben alto sopra la testa. La gemma iniziò a brillare, stilettando raggi scarlatti che disegnavano lunghe ombre alle spalle dei nani.
Usando il rubino come fosse una torcia, Khanner guidò il compagno nelle profondità insondate della montagna. Procedevano in silenzio, avvicinandosi con fare guardingo al fondo sbarrato della galleria. Un vicolo cieco o una frana, pensò Tarak. Invece, in quel tratto del tunnel, il tetto si abbassava fin quasi a sfiorare il suolo. Furono costretti a procedere a carponi, strisciando per un lungo tratto umido e fetido.
Quando il soffitto tornò a risollevarsi, i due nani si ritrovarono in una caverna così ampia da non riuscire a scorgere nessuna delle pareti. Tarak fece vagare lo sguardo in quell’oscurità sconfinata, rabbrividì e sfiorò il manico del martello. Khanner rimase immobile, puntando il rubino in ogni direzione, poi chiuse gli occhi, strinse con una mano il ciondolo e annuì.
Procedettero lentamente a causa del pavimento sconnesso. Grossi massi si erano staccati dalla volta, accatastandosi gli uni sugli altri. Negli interstizi fra quelle pietre gigantesche, detriti e licheni si confondevano alla polvere depositata nei secoli in uno strato uniforme.
Khanner saltava da una roccia all’altra, piegando le ginocchia per attutire ogni salto; Tarak lo seguiva in silenzio, cercando di limitare il cigolare dell’armatura. Nelle brevi soste durante le quali Khanner ascoltava il medaglione dei Thane, Tarak si guardava spalle. La via seguita dal compagno, notò il guerriero, continuava a scendere verso il basso.
Giunsero sul fondo della caverna con le gambe indolenzite per l’ardua discesa. Senza più punti di riferimento, Khanner sembrava incerto sulla direzione da seguire. Andava avanti, si bloccava, tornava indietro, riprendeva ad avanzare.
«Insomma, si può sapere che succede?» sbottò Tarak, quando per l’ennesima volta Khanner si fermò.
«La pista è incerta» disse il nano, grattandosi il mento squadrato. «Non riesco a capire dove ...»
«Shhh!»
Tarak tappò la bocca del compagno, guardandosi attorno con circospezione. Era sicuro di aver sentito qualcosa. Attorno ai due nani si stendeva solo un tratto di roccia nuda, segnata da piccoli avvallamenti in cui ristagnavano pozze d’acqua scura. Nient’altro. Tarak si passò la lingua sui baffi. Era quasi sicuro di aver udito qualcosa.
Tolse il guanto metallico dalla bocca di Khanner quando – stavolta ne era certo! – udì un rumore lontano, come lo stridere di una roccia che rotoli giù dalla frana per cui erano scesi.
Il rumore si ripeté, sulla loro destra, ma stavolta più vicino.
E si ripeté ancora, sulla sinistra.
«Gho’leem». Le labbra di Khanner vibrarono in un roco sussurro. «Tanti Gho’leem» ripeté, con la fronte imperlata di sudore.
Scapparono senza una meta precisa, tallonati dalle mostruose creature.
«Non possiamo affrontarli tutti» disse Tarak, che si sforzava di non perdere terreno dietro il compagno. Senza il peso dell’armatura Khanner correva più veloce, ma non azzardava a spingersi troppo lontano senza il vecchio guerriero.
«Non ho altre pietre per generare un’esplosione. E se anche le avessi, dubito basterebbero per eliminarli tutti».
La luce del rubino illuminò la sagoma di un Gho’leem, proprio di fronte a loro. Tarak afferrò per l’orlo del mantello Khanner, costringendo il compagno a cambiare direzione. Anche senza voltarsi, Tarak riusciva ad avvertire la presenza dei nemici: sembravano ovunque attorno a loro.
Quando Khanner si fermò, giunto davanti una parete di roccia, Tarak intuì che qualcosa era andato storto.
«È qui. La fonte è qui» urlava il nano, tastando palmo per palmo la pietra. «Dietro questa parete!»
Tarak sentì una fitta al fianco. Si piegò, poggiando le mani sulle ginocchia.
«Dobbiamo trovare una passaggio» disse con la voce incrinata dall’ira. «Non abbiamo molto tempo prima che ci piombino addosso».
Khanner annuì distrattamente, senza smettere di camminare febbrilmente avanti e indietro ai piedi della parete, ma il guerriero dubitava che il compagno gli avesse realmente prestato ascolto. Tarak sputò ai propri piedi.
Decise che avrebbe coperto il compagno mentre questi trovava una via per la salvezza. Ognuno aveva il proprio ruolo, fra i Nani Nordici, tanto a Farmek quanto lì sotto. Aveva sempre funzionato. E avrebbe funzionato ancora una volta, sperò in cuor suo.
Il primo Gho’leem che li raggiunse era alto poco più di nano. Tarak divaricò le gambe e attese che il mostro cercasse di colpirlo. Distese le braccia, parando il colpo con la catena tesa fra il guanto sinistro e il martello. Più veloce rispetto all’avversario, Tarak mosse la mano in modo che la catena imprigionasse l’arto dell’avversario. Lo tirò a sé, imprecando a denti stretti per lo sforzo, fino a sbilanciarlo in avanti, poi colpì usando il martello, con tutta la forza che aveva in corpo.
Il cristallo che era conficcato sulla sommità del Gho’leem andò in frantumi. Il mostro era adesso immobile, in ginocchio, e Tarak ne approfittò per darsi una spinta con i piedi. Si svincolò da quel pericolo abbraccio, librandosi in aria; prima di toccare terra, roteò su stesso, lanciando il martello contro il nemico.
Il colpo schiacciò il Gho’leem, mandandolo in frantumi. Tarak atterrò sulla punta del piede destro e ritrasse con uno scatto il guanto sinistro, riprendendo la presa sull’arma.
«Kharud tri r’ham Izaad!» urlò, ebbro della battaglia, alzando il martello della Casa Rowin sulla propria testa.
Ma fu costretto a smorzare l’entusiasmo, perché altri Gho’leem emersero dall’oscurità, senza rallentare la goffa corsa.
Tarak ringhiò, il volto di cuoio sfigurato in una maschera di guerra, e indietreggiò.
«Rowin! Ehi, Rowin, quassù».
Il richiamo di Khanner giunse in tempo per trarre Tarak fuori dalla battaglia: il nano aveva trovato delle sporgenze, una rozza scala, che portava fino a un livello rialzato della caverna, e agitava il rubino cercando di attirare l’attenzione del compagno. Il vecchio guerriero salì più in fretta che poté, rischiando quasi di ruzzolare giù, e fu ben lieto di trovare la mano di Khanner a offrirgli aiuto.
Quando fu al sicuro, Tarak guardò in basso l’assembramento di Gho’leem che si era creato ai piedi della parete di roccia. Spero che non siano così furbi da riuscire a scalare la roccia, si augurò, né di trovare la scala.
«Bel colpo» si congratulò Khanner. «Ma aspetta di vedere il più bello».
Con un ampio gesto del braccio, il nano si volse indicando il pavimento. A pochi metri da dove si trovavano, la roccia era aperta in una crepa larga lo spazio sufficiente per lasciar passare una persona.
«La fonte» disse Khanner, con i piccoli occhi scintillanti alla luce del rubino. «Abbiamo trovato l’accesso per la fonte».
Tarak grugnì una risposta che poteva significare qualunque cosa e, stringendo ben in pugno il martello, avanzò verso la fessura. Khanner fu il primo a calarsi dentro, poi fu la volta del guerriero della Casa Rowin.
Rimasero entrambi ammutoliti di fronte lo spettacolo che si presentò ai loro occhi.
Si trovavano in una piccola grotta il cui pavimento, poco più avanti, si rastremava in uno sperone proteso su un lago sotterraneo. L’acqua brillava d’una luce verde e azzurra per gli affioramenti di cristalli sul fondo.
Ma fu ciò che videro sulla punta dello sperone ad assorbire completamente la loro attenzione.
Un piedistallo naturale accoglieva una gemma grossa quanto la testa di Khanner. Era uno splendido cristallo, diverso da ogni altro che Tarak avesse visto e, dallo sguardo allucinato del compagno, suppose che anche per Khanner Thane fosse qualcosa di nuovo.
La gemma brillava, virando continuamente colore. Ora bianco, ma poi azzurro, viola, rosso, arancio, giallo e di nuovo bianco. Emanava anche calore, un tepore ben piacevole dopo la fredda umidità della caverna. Persino Tarak, che non sentiva la Pietra come il compagno, avvertiva il grande potere emanato dalla gemma.
«Eccola, la fonte» sussurrò Khanner con riverente ammirazione. «Secondo te, cos’è?»
«Speravo fossi tu a dirmelo». Tarak gracchiò una risata, senza riuscire a staccare gli occhi dalla pietra. «Quindi basta distruggerla per mettere fine a tutto?».
Khanner sobbalzò, riducendo gli occhi a una fessura. Una fessura minacciosa, non mancò di notare Tarak.
«Non possiamo distruggere una gemma così rara»
Il vecchio guerriero emise un fosco brontolio. Qualcosa gli diceva che doveva aspettarsi una resistenza da parte del compagno. Soprattutto se quel compagno era un Thane.
«Questa gemma è la fonte di tutti i nostri problemi»
«Immagina quali segreti può racchiudere». Khanner si guardò intorno come se si sforzasse di afferrare un pensiero lasciato a metà. «Dobbiamo portarla a Farmek».
«Prova a parlare con tutti quei Gho’leem, prima» aggiunse Tarak con un’ironia che l’altro non sembrò notare. Prima che il compagno muovesse un dito, il vecchio Rowin fece saettare la mano, cercando di afferrare la gemma.
Khanner emise un verso stridulo e graffiò il volto di Tarak.
«Sta fermo, maledizione» urlò il guerriero.
Colpì al volto il nano della Casa Thane, poi allo stomaco e, prima che potesse rialzarsi, fece calare il martello sulla gemma. La pietra andò in frantumi con un fischio che ferì le orecchie dei nani; un’ondata di luce si propagò per la caverna, attraversando le mura di roccia.
Il medaglione dei Thane smise di vibrare.
Khanner si rialzò con uno sguardo di irosa follia, lanciò un urlo e pestò un piede per terra. Fece correre gli occhi sguardo sui frammenti sparsi sulla roccia, poi parlò con tono risentito.
«La Pietra possa inghiottirti nelle sue viscere, Tarak Rowin!». 
«Ringrazia il Grande Grigio di essere ancora vivo, Thane»
«Non capisci? Avevamo in mano la chiave per dare vita alla Pietra».
Tarak capiva, per questo aveva distrutto la gemma. Il Consiglio li aveva mandati per abbattere il pericolo che covava in quei sotterranei: non avrebbe riportato indietro un artefatto che rischiava di gettare Farmek nel caos e nella rovina.
«I segreti degli Dei non mi riguardano» disse, inchiodando sul volto offeso di Khanner uno sguardo affilato che non ammetteva repliche. «Né dovrebbero riguardare te».
 
L’ANGOLO DEL BARDO
Quanto tempo, si è chiesto qualcuno. E ha proprio ragione. Scomparso, riapparso, scomparso, come una lucina lampeggiante che per ora è accesa – spero che rimarrà così ancora per un po’. Allora, quale novità bolle in pentola? Qualcuno era reduce di quella raccolta le Canzoni del Bardo che sono evolute nella presente raccolta più matura, Frammenti di Luna. Ma anche questa è ormai prossima alla vecchiaia, aimè. Non abbiate paura ( coro di voci: ma chi ti caga? ) perché il Bardo di Efp ha sempre un asso nelle manica, stavolta più di uno. 64 racconti sono troppi per una sola raccolta. Si, mi sono fermato a contare le idee appuntate su OneNote. Quindi ho deciso che per una fruizione migliore, sia per me ma soprattutto per voi, le prossime storie verranno pubblicate in raccolte diverse, divise per nuclei tematici. Insomma, è inutile annoiare con storie di guerra chi vuole cercare di respirare un po’ di sana aria quotidiana di una Naniel tranquilla e spensierata. Ecco un po’ quelle che dovrebbero essere le nuove raccolte:
  1. ACCIAIO E SANGUE. Le storie sulla guerra che oppose l’Impero Romano contro le creature fantastiche. Vi troverete molte alcune delle storie pubblicate, ma qualche idea inedita c’è ancora. Basta solo convincersi a scriverla.
 
  1. SCORCI DI NAINIEL. Fra tutti posti del mondo che ho in testa, Nainiel risalta per la varietà e numero di personaggi. Scene di vita quotidiana e le avventure dello scapestrato Principino Uriel, del cugino Caladur e degli altri personaggi che battono la bandiera della Città del Crepuscolo.
 
  1. CRONACHE DEL NORD. Siamo sempre in Norvegia, ma molti anni prima della fondazione di Nainiel. Questa raccolta narrerà le storie legate ai Nani Nordici, con il loro Consiglio dei Sette, e le inacquietabili dispute fra le casate. Qualche nome che può significare qualcosa, Valdak Rowin, il padre Tarak. Ma non solo nani, le storie verteranno anche sui loro nemici secolari, gli Elfi Bianchi. Un nome per tutti, Curhan Norhol, il Leone Bianco.
 
  1. ADAMANTES. Nel 100 d.C. l’Imperatore Traiano, antecedente al Teodosio della guerra con gli elfi, creò un gruppo di soldati scelti per combattere ogni forma di minaccia estranea all’Impero. Seguirete Lucio Milone, la Lancia dell’Imperatore, e Cassandra Rasna nelle vicende che li opporranno ai maghi proibiti in ogni angolo dell’Europa conosciuta.
 
  1. STORIE DELLA FORESTA NERA. Germania, un angolino fra il fiume Reno e il Danubio.A pochi passi dal Limes dell’Impero Romano sorge la Foresta Nera al cui interno vivono ( tra le altre creature ) gli Elfi Silvani. Più a sud, a qualche settimana di marcia, svettano i  Montes Alpes, nelle cui viscere si celano i Peaks, i nani più selvaggi e volubili di tutti.
 
  1. LA COMPAGNIA DELL’ACCIAIO. Nel cuore della Dacia si cela Uran, la città degli Elfi Onirici. In questa raccolta scoprirete le vicende di un gruppo nato dal nulla, senza alcuno scopo e con un’identità incerta. Eppure, qualcosa li accomuna tutti. Ma cosa?
 
  1. IL PRINCIPE VAGABONDO. Uriel Arhathel, figlio di Edheldur. Il Principe Bianco, il Drago Rosso di Nainiel. I suoi titoli sono numerosi almeno quanto le avventure che ha vissuto viaggiando a zonzo per il mondo. Mai due notti sotto lo stesso cielo, mai due notti con la stessa ragazza.
 
Insomma le idee non mancano. Ma oltre ai racconti, è iniziato anche il fatidico lavoro di scrittura della Ruota del Destino. Per la prima volta, un resoconto ordinato delle vicende che formano il corpus delle vicende attorno a cui ruotano tutti i racconti sopra. Nella mia testa assomiglia un romanzo, sulla carta vedremo cosa ne uscirà fuori. Con questa lunga post fazione, lunga quasi quanto il racconto, vi saluto e spero che ci incontreremo su altre pagine.Ovviamente questo racconto era un regalino per chiudere questa raccolta. Si chiude un capitolo, se ne apre un altro. Spero che ci sarete miei pochi lettori xD xD
Saluti
PepperS, il Bardo di Efp.

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