Apple pie

di yoshimoto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** 1 ***


I.
 



Sto scrivendo dalla pochezza dei miei diciannove anni, davanti allo schermo di un computer ormai troppo vecchio per subire ulteriori sfruttamenti – spero proprio che non mi abbandoni nel mezzo del racconto.
Divoro anche un bel pezzo di torta di mele, che tra parentesi ho rubato alla mia coinquilina Julie, ma lei non se n’è accorta né se ne accorgerà per il resto della sua esistenza: è in una dieta ferrea e continua a sfornare dolci a go go come se non ci fosse un domani. Ed il bello è che anch’io dovrei seguire il suo esempio, dieta o cucina che sia. Non sono brava in nessuna delle due cose, ad ogni modo.
Poco fa ho smesso di guardare per l’ottantesima volta “Home alone” e per l’allegria sono scoppiata a piangere – o forse questo è dovuto al fatto che mi senta una vecchiaccia?
Non so per quale arcano mistero io l’abbia visto con tanto entusiasmo chiusa nella mia stanza con la febbre che sfiorava i trentanove gradi, di certo c’è che essendo stanca e sola non avevo altro da fare se non paragonare la mia vita da neo universitaria a quella da bambina undicenne con l’acne che inseguiva il sogno di poter sposare Macaulay Culkin. Ovviamente allora non si sapeva ancora che fosse un drogato alcolista, sia chiaro: col tempo anche lui ha perso il suo fascino.
Ho pensato molto alla Elizabeth adolescente e sono giunta a due conclusioni: la prima, che madre natura ce l’ha avuta con me – e credo che sia così tuttora – e la seconda, cioè che sono stata io ad aver seguito poco gli oroscopi. Vi spiego meglio la situazione: a dodici anni ero pazza di un cantante di cui non ricordo il nome, uno riccio con un sorriso che, a mio avviso, avrebbe potuto sciogliere le pietre; a quattordici sono passata al periodo oscuro in cui qualsiasi cosa mi faceva schifo – esempio: detestavo qualsiasi cosa somigliasse al rosa e che avesse una forma a cuore, ma schifavo tante altre cose come il fish and chips; a diciassette mi ero ripresa mentalmente ed avevo iniziato a dare vita alla vera me. E per vera non intendo una ragazza che prima fingeva una vita e ora la viveva come se i fiori fossero adorabili, o come se gli arcobaleni fossero attraversati dagli unicorni e Babbo Natale in realtà fosse un mio amico di vecchia data. No, assolutamente no.
Ascoltavo musica seria, sapevo destreggiarmi nell’arte della retorica, ero amica di molte persone e, soprattutto, accettavo con più entusiasmo – specifichiamo: non troppo! – il rosa e i fiocchettini.
Non amavo più Culkin, che a quei tempi si diceva drogato, o il cantante senza nome: non amavo per niente, tanto non mi sarebbe servito a nulla.
Mamma diceva che era orgogliosa di me e cercava ogni giorno di affibbiarmi un abitino troppo femminile, finendo col pentirsi perché “magari sono io che voglio troppo, ma i ragazzi non ti vedranno mai se non metti una maglia un po’ più colorata”, papà sorrideva più spesso ed era contento di poter parlare di politica con me e mio fratello, be’, lui viveva sotto il mio stesso tetto.
E la mia vita andava a gonfie vele. Avevo – ed ho – una migliore amica fantastica, Claire, con la quale condividevo tutto, dal bagno al letto, dal cibo agli apprezzamenti per i ragazzi.
Tutto filava liscio, qualsiasi cosa andava a gonfie vele. Ma, come ho detto, madre natura ce l’aveva con me e io non aiutavo granché ignorando gli oroscopi che, a proposito, oggi non ho letto.
 
 
Il pezzo di torta oramai è terminato, ma magari ne andrò a prendere un altro pezzo dopo. O magari Julie me ne porterà uno pensando che non l’abbia ancora assaggiata.
Ho scritto ancora poco, o meglio ho scritto relativamente qualcosa circa la mia inutile adolescenza che, diciamocelo, è stata più emozionante della vita da maggiorenne che sto vivendo adesso. Se esco nel weekend è già tanto, perché lo studio non mi permette nemmeno di andare in bagno per più di cinque minuti – Julie ha risolto la questione mettendo un orologio davanti al gabinetto così da mettere ancora più pressione – o mangiare qualcosa di pesante che faccia addormentare. E, ovviamente, è plausibile che vada a dormire entro le dieci, non sono una vecchia come dicono le altre mie coinquiline. Sono stanca, tutto qui.
Un giorno Caroline, la ragazza punk che ha la stanza accanto alla mia, corse da me e urlò a squarciagola: «Stasera sono con il mio ragazzo, o smammi o smammi!»
Le risposi con calma che sarei rimasta chiusa in camera e che non avrei dato fastidio, che avrei dormito come un ghiro. La sua risposta fu talmente chiara che rimasi scandalizzata al solo pensiero di due ragazzi vestiti di nero che durante la notte urlano come Tarzan e fanno rumori molesti.
Inevitabilmente uscii.
Chiesi alle altre mie coinquiline che avrebbero fatto quella sera e mi autoinvitai ovunque fossero dirette. Non avevo – ho – una vita sociale sviluppata, a quanto avrete capito.
Sarah fu talmente entusiasta della mia sorpresa che non esitò un attimo a miagolare come un gatto trascinandomi nella sua stanza per “renderti presentabile”. La insultai con molta disinvoltura.
Non sto qui ad elencarvi tutto quello che mi fece passare perché potreste immaginare da voi quanto possa essere orribile essere privata del proprio stile non esistente e sradicate dalla vostra stanza con un motivo non del tutto valido. Anch’io avrei voluto starmene nel letto come quei due, ma magari senza versi animaleschi o altro.
 
 
Ebbene, giunte alla festa alla quale mi autoinvitai, i miei piedi non ce la facevano già più. Ero abituata ad un massimo di camminata casa-università con le scarpe di tela o un bel paio di sneakers comodissime, camminare con un tacco di sette centimetri – “Sono solo sette centimetri! Nemmeno fossero dodici come i miei, non ti lamentare!” – non era per niente divertente. Specie se ci aggiungiamo i sassolini della strada sterrata dove mi portarono. Stupide donne.
C’era gente e, vi dirò, non fui mai più spaventata di quella sera: non vedevo così tante persone chiuse in una grande stanza da un bel po’ di tempo – circa il trasferimento nella nuova casa da quella dei miei – e non era una bella sensazione. Avevo vissuto serate allegre con la compagnia di me stessa o al massimo delle mie amiche e dei loro fidanzati quotidiani prima che si chiudessero nelle proprie stanze a fare Tarzan e Jane. E tutti insieme erano l’antonomasia dello schifo, ma ero io che mi ero cacciata in quella situazione, quindi cuffie nelle orecchie e sonno pesantissimo erano più che utili.
«Conosci qualcuno?» domanda da un milione di dollari.
Scrutai la sala quel che potevo – senza occhiali non ci vedevo molto – e riconobbi i visi di qualche compagno di corso dell’università, ma ovviamente i loro nomi mi erano ignoti.
Annuii rapidamente sperando che mi tenessero con loro un altro po’. Ma, ricordo, la sfiga era con me.
Julie mi abbandonò con un bel «Allora vai e parlaci» e Sarah fuggì ancor prima che me ne accorgessi.
Cosa pensereste di una ragazza immobile all’entrata di una casa sconosciuta, con dei tacchi altissimi – Sarah, non me ne volere – e una cera che nemmeno i morti hanno? Io avrei riso di lei, sinceramente. Ma ci rendiamo conto? Sono arrivata a odiare il mio modo di essere!
Un paio di ragazzi mi guardarono scombussolato, o magari spaventato, finchè non venni spintonata verso l’ammasso di gente che ballava e beveva sudando a destra e a manca, con un odore insopportabile che solleticava il naso. Facevo bene a rimanere chiusa nella mia camera profumata alla lavanda del profumo che spruzzavo giornalmente per aiutare il mio karma nel rilassarsi nel periodo di studio.
Non so come né perché, mi ritrovai all’angolino di una cucina stretta e piena di cibo che Julie avrebbe battezzato come «Poco salutare, troppo amico della pancetta» e mi venne il voltastomaco nel vedere due tizi che si addentravano nella foresta dell’amore. Ero più che certa che avrebbero messo in scena il film di Tarzan anche loro.
Il mio buon senso mi portò ad andare fuori da quel posto, ammesso che ci fosse un giardino o qualcosa del genere: eravamo entrate in una casa di stile Vittoriano inglese che dava direttamente sulla strada, poteva esserci un giardino all’ottanta percento: i miei studi sull’architettura avrebbero dato qualche frutto.
Ed effettivamente un giardinetto c’era. Piccolo ed essenziale. Non vi nascondo che per raggiungerlo abbia spintonato più di qualcuno e che più di una volta quel qualcuno aveva osato ricambiare il favore, rischiando di farmi cadere. Ancora non mi capacito di come sia arrivata sana e salva in quella piccola oasi di pace, silenzioso e vuoto: dopotutto era inverno.
Mi sedetti sui gradini che portavano sul prato inglese e volsi lo sguardo indietro, provando a pensare come una normale ragazza di diciannove anni che deve divertirsi, ma nella mia mente si susseguirono una serie di pensieri come: disegno tecnico, belle colonne, fa freddo, quel tizio sta vomitando, avrei colorato un po’ di più i muri. Se le mie amiche avessero saputo i miei pensieri mi avrebbero presa a calci nel sedere con i loro tacchi alti “dodici centimetri”. E allora forse avrei cambiato idea. Ma solo per non provare ancora il dolore lancinante.
Posso ribadire il concetto di prima? L’oroscopo quella mattina doveva essere stato pessimo, per questo una disgrazia tira l’altra. Presa dai miei pensieri non mi ero accorta che un paio di ragazzi erano usciti a parlare e fumare una sigaretta proprio dietro di me. Ignorandoli bellamente continuai ad analizzare il poco esteso prato davanti a me, provando a immaginare una bella fontanella nel centro ed un gazebo in legno chiaro nel fondo.
La voce di uno dei due ragazzi si sovrappose a quella dei miei pensieri, dicendo ad alta voce c’ho che stava circolando nel mio cervello. Mi scossi e mi misi più dritta, provando a sentire quel tizio che la pensava al mio stesso modo. Ad una festa, per di più.
«E un paio di lampioncini ai lati. È un po’ scuro qui»
Fermi tutti. Aveva ragione. E ci voleva anche una bella casetta per gli attrezzi.
Tossicchiando per la sigaretta lui aggiunse «E una casetta per gli attrezzi».
Spalancai la bocca. Magari dirà anche «rossa»!
«Rossa»
Non ce la feci più. Troppe coincidenze per il mio povero cervello catapultato in una nuova realtà: mi sarei presentata al ragazzo con quanta più spontaneità possibile e avrei tenuto uno di quei discorsi che solo io sapevo mettere insieme.
Mi voltai sorpresa, ma la mia espressione cambiò da emozionata a sconvolta: riccio, alto, sguardo superbo e un ghigno divertito. Non poteva essere. Non doveva essere. Non volevo che lo fosse.
«Lizbeth!»
No. No. No.
Il rischio di cadere dall’alto dei miei sette centimetri diventò altissimo, tanto che mi mantenni stretta alla ringhiera accanto a me, provando a non arrossire o balbettare, cosa che non accadeva da circa otto mesi.
«Francis» risposi, purtroppo, balbettando.
I ricordi tornarono alla mente e lui non aveva permesso nemmeno per un solo attimo di farli scomparire.
E da lì la mia autostima cadde ancor di più, insieme al mio coraggio e al mio discorso sull’architettura.
Ma almeno quello mi spinse a tornare a casa, anche se in lacrime, facendomi litigare per un bel po’ di tempo con Caroline per averla disturbata. Ma almeno mi rifugiai nella mia calda stanza, nel mio nido pieno di karma alla lavanda.
Oroscopo o Madre natura che fossero, qualcuno da lassù mi voleva davvero male.


E nel frattempo Julie non mi ha portato un altro pezzo di torta. Ma oggi l'ho letto l'oroscopo!



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Capitolo 2
*** II ***


 II.

 
 
 
Ho appena notato di vivere in una stanza troppo grande per i miei bisogni primari. Per un letto, una scrivania e un armadio-libreria una stanza grande quanto una sala da pranzo mi sembra esagerata. Certo, se avessi i soldi necessari per renderla vivibile in qualunque modo lo farei sicuramente: di certo non sto studiando architettura per niente!
Ciò che, però, manca è un frigo, anche uno di quelli mini. Non si sa mai, potrei avere fame nel mezzo della notte e la mia pigrizia mi permetterebbe di perire da sola al buio, per di più in una stanza mal arredata. Che fine indegna!
Ma comunque niente sarebbe peggio dei giorni che ho appena passato. Da un paio di settimane a questa parte mi sono chiusa nel mio mondo al profumo di lavanda e edifici antichi e non, cercando di muovermi il meno possibile dai luoghi conosciuti. Dopo l’incontro della sera alla festa meglio evitare di espormi troppo ai sentimenti altrui. E parlo così perché, ahimè, ho passato l’ultimo anno a rimpiangere un’amicizia-amore andata a finire male per l’idiozia del mio lui, del mio amato, del vero amore che se potessi ammazzerei con le mie stesse mani in questo momento. Solo che sto scrivendo e piuttosto preferirei raccontare qualcosa riguardo l’idiota sopra citato.
Avrete capito tutti di chi si tratta.
Quel riccio presuntuoso fumatore amante del rosso. E chi se no?
Il nostro R.P.F.A.d.R. (riccio presuntuoso amante del rosso) si presentò nella mia vita due anni fa, quasi a volerla stravolgere. Peccato che quel quasi debba essere eliminato: capovolse completamente la mia esistenza. Mi rese debole, stupida e, agli occhi delle mie amiche, innamorata. Io non mi sentivo nessuno dei tre aggettivi prima elencati: lo ammiravo come compagno di scuola, gli dovevo l’amore per la musica e per la lettura. Era un me al maschile.
E sì, parlo al passato per un motivo ben preciso: di punto in bianco, una sera delle tante che passavamo insieme – «Una delle tante? Ci hai passato un anno e mezzo intero insieme!» direbbe Claire – decise di darmi buca perché si sentiva poco bene.
Allora ero ingenua e gli volevo un gran bene e per di più due giorni prima ci eravamo baciati, ma pensavo che fosse un qualcosa in segno di amicizia – e ora, a diciannove anni, penso che quella che reputavo ingenuità fosse, in realtà, stupidaggine acuta.
Era palese che mi piacesse ma io stessa non mi capacitavo che qualcuno potesse vedermi come una potenziale fidanzata proprio perché ero amica di tutti, sorridevo indistintamente a chiunque e soprattutto non esponevo mai i miei sentimenti agli altri.
Il fattaccio avvenne a pochi giorni dalla sua partenza per l’università: un anno più grande della sottoscritta, aveva condiviso con me l’idea di iscriversi alla facoltà di architettura, rendendomi ancor più orgogliosa di lui.
 
 
Ma, ingenuità o meno, da allora mi chiusi come un riccio e non volli più frequentare la gente che solitamente usciva con noi quando non eravamo soli. Pensavo spesso al bacio che ci scambiammo. Ci penso troppo dal sabato di due settimane fa. In realtà non dovrei nemmeno farlo perché si trova in cima alla lista nera delle persone di cui non m’importa niente. E se pensiamo che il secondo posto è occupato da Culkin, be’, la situazione si fa grave.
 
 
Ho capito di essere innamorata di lui da quando, qualche giorno dopo la sua partenza per il trasferimento nella Londra caotica che lo avrebbe accompagnato nel mondo degli adulti, una ragazza mi chiese quando sarebbe tornato perché avrebbe voluto confessargli il suo amore.
Di certo, penso, ci fu solo che mi venne una voglia irrefrenabile di prendere a sprangate quella povera ragazza che, almeno allora, si trovava nella mia stessa situazione.
Ho capito di sentire la mancanza della sua voce quando, in uno dei cd che aveva registrato per il mio compleanno, sentii quelle note basse cantate con tanta emozione e devozione.
Ho capito di non poter conoscere persona migliore di lui da quando mi si catapultò addosso in un giorno soleggiato di un aprile troppo calmo per la vita scolastica urlando che lo Stato andava salvato dalle mani di qualcuno che avrebbe potuto distruggerlo.
Ho capito molte cose troppo tardi.
 
 
R.P.F.A.d.R. – non mi va di chiamarlo per nome – solitamente usava indossare jeans stretti al punto giusto, maglie alternative talmente colorate da dare nell’occhio e un paio di occhiali da sole neri stile Ray-Ban, usava trascinare dietro di sé uno zaino con tantissime spille di cantanti rock – la maggior parte appartenevano ai Rolling Stones o ai Pink Floyd – contenente cd di ogni genere e almeno un libro classico.
Camminava a passo svelto, preso dal ritmo della musica che canticchiava mentalmente, e mi prendeva per il braccio ogni mattina mentre uscivo da casa, trascinandomi fino a scuola blaterando di qualche cantante che non gli piaceva e che avrebbe dovuto studiare meglio per l’interrogazione di matematica della mattina. Probabilmente non ha mai capito che il mio cervello, in realtà, non collegava molto i suoi discorsi introspettivi, specie alle otto e trenta del mattino.
Voti ottimi a scuola, partecipava alle partite di calcio organizzate dal professore di educazione fisica, odiava in particolar modo i ragazzi pieni di muscoli – penso che fosse perché lui aveva un fisico magrolino e fosse pallido, al contrario di quei giganti abbronzatissimi.
Nonostante fosse contro la sua «etica morale», mi aveva confessato di volersi fare in modo violento la professoressa Nicholson, la tutor dei corsi sportivi pomeridiani, e mi chiese in ginocchio di non dirlo a nessuno. Ops.
 
 
Il giorno che lo conobbi mi sentivo talmente allegra che nemmeno le sue urla contro qualsiasi cosa mi resero suscettibile. Avevo preso un ottimo voto in scienze – materia che detestavo – e presto avrei cominciato col corso di disegno tanto amato.
Lui era davanti alla scuola a distribuire volantini coloratissimi e continuava ad essere evitato quasi come se avesse la lebbra.
 
 
«Firmi?» mi chiese quasi stanco. Probabilmente si stava arrendendo a poco a poco.
Essendo di animo buono e con un’indole gentile verso il prossimo annuii senza capire di che parlasse. Il suo viso si illuminò e i suoi ricci si mossero tanto velocemente da sembrare quasi una parrucca ballonzolante. Dallo zaino pieno di spille uscì un foglio su cui mi chiese semplicemente di scrivere il mio nome e, non appena ebbi finito di rallegrarlo, mi disse che mi era grato per quel piccolo gesto.
E il suo sorriso sincero è ancora impresso nel cervello quasi a rendermi la vita sentimentale ancora più infernale. Dopotutto è per colpa sua se i due ragazzi che ho frequentato in quel lasso di tempo in cui non c’è stato mi hanno lasciata perché «sei assente! Quando ti parlo sembri essere su un altro pianeta». Ma non era colpa mia se mi parlavano di cose opposte ai discorsi ai quali ero abituata!
La sorpresa più grande arrivò quando, il giorno dopo aver firmato quel foglietto color verde menta, una voce maschile mi richiamò nel corridoio mentre camminavo verso la sala di ricreazione. Mai mi sarei aspettata di ritrovarmi quel tizio accanto a parlarmi di quanto fosse stato sfigato perché era riuscito a far firmare solo quattro persone, tra cui lui e i suoi genitori.
Al che diedi voce ad un pensiero che mi balenò per un secondo nella mente: «Falsifica tutto. Inventa nomi. Sii furbo!»
Alzò la testa per guardarmi dritta negli occhi. Pensai che mi avesse presa per mazza, quando invece acchiappò penna e fogli e li firmò convulsivamente.
«Anthony Drake» «Vanessa Smith» «Che cognome potrei dare ad uno che si chiama Albert?» sussurrava mentre io ridevo di lui e le mie amiche mi guardavano maliziosamente da lontano.
Ma che ne sapevano loro, che ne potrebbero sapere tuttora?
Non ero innamorata di lui. Ora lo sono. E vorrei che fosse il contrario.


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