A Whole New World

di Nymphna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Jasmine. ***
Capitolo 2: *** 2 - Cindy. ***
Capitolo 3: *** 3 - Ariel. ***
Capitolo 4: *** 4 - Belle. ***
Capitolo 5: *** 5 - Esmeralda. ***
Capitolo 6: *** 6 - Aurora. ***
Capitolo 7: *** 7 - Jane. ***
Capitolo 8: *** 8 - Meg. ***
Capitolo 9: *** 9 - Blanche. ***
Capitolo 10: *** 10 - A Whole New World. ***



Capitolo 1
*** 1 - Jasmine. ***


Capitolo 1, Jasmine
(domenica 13 giugno)

 


Era una mattina soleggiata di giugno, a New York, e il caldo si faceva sentire già insistente. La luce del sole penetrava fra le pesanti tende arancioni della camera da letto. Leggeri granelli di polvere volteggiavano alla luce, come piccoli petali di soffione. Nella stanza in stile arabo regnava una penombra rosata, che si spezzava solamente per illuminare il corpo di una ragazza sul letto a due piazze di ferro battuto a motivi arricciolati.
Jasmine stava dormendo profondamente, sospirando leggera, con i lunghi capelli corvini sparsi sul cuscino. Accanto a lei, accoccolato fra le sue gambe piegate, sonnecchiava un gattone arancione e zebrato, che sembrava proprio una piccola tigre. E pensare che qualche mese prima era solamente un cucciolo denutrito che la ragazza aveva trovato a cibarsi dei resti di un cous cous buttato nei bidoni della spazzatura lì fuori… fra i due si era subito creato un profondo legame. Rajah, questo il nome del gatto, attendeva Jasmine per mangiare, non dormiva se non sulle sue ginocchia o sul suo letto e soffiava minaccioso a chiunque non fosse lei. La ragazza era l’unica che gli dava da mangiare, che si occupava della sua salute e del suo lungo pelo. Il padre proprio non ne aveva il tempo. Sbadigliò spalancando la bocca, per poi allungare le sue zampette feline e riaccomodarsi.
Passarono solo pochi secondi, prima che Rajah drizzasse le orecchie, sentendo un rumore fin troppo conosciuto in casa della padroncina. Si alzò sulle quattro zampe con la coda ritta.
“JAS!” urlò una voce melodiosa anche se urlante. Le pupille del gatto diventarono sottili come mai “JAAAAAAAAAS!” strillò di nuovo. Rajah saltò giù dal letto appena prima che la porta si aprisse, sentendo già i passi che correvano per il corridoio, e corse fino alla cabina armadio, dov’era sicuro che avrebbe trovato un po’ di calma.
La ragazza che spalancò la porta aveva lunghi capelli rosso fuoco, grandi occhi blu e un’esuberanza innata che risplendeva intorno a lei come un’aurea. La rossa era Ariel, una delle migliori amiche di Jasmine.
“Jas!” gridò ancora, saltando sul letto e cominciando a scuotere la mora. “Dai, Jas, ho una notizia davvero stupenda da darti! Non ci crederai mai! Dai, sta arrivando anche Aurora… dai, Jas! Svegliati!”, concluse con la sua solita risata spensierata e cristallina.
La mora aprì gli occhi sbattendo le palpebre diverse volte, e quando focalizzò l’amica corrucciò le sopracciglia sospirando sonoramente. Si portò le mani al viso, se lo sfregò un paio di volte e si mise seduta, con l’aria ancora insonnolita. Ariel si spostò e si mise in ginocchio sul letto accanto alle sue gambe, con un’aria maliziosa che solo lei aveva, che poteva voler dire solamente… una pessima idea in vista.
“Buongiorno mondo” esclamò Jasmine cinicamente, stiracchiandosi. La rossa aveva un’aria esaltata. Sospirò ancora una volta. In quel momento irruppe nella stanza anche la terza del gruppo, che guardò un momento la situazione con aria critica, per poi mettersi i pugni sui fianchi e assottigliare le labbra come solo lei sapeva fare, mantenendo l’aria da dolce principessa delle favole.
“Ariel!” esclamò con la sua voce da contralto, spiritosa e dolce anche se in aria da rimprovero “Jasmine stava dormendo! Dove l’hai imparata questa maleducazione di svegliare le persone mentre sono ancora in fase REM?!”
“In fase cosa?” domandò la rossa con aria fintamente colpevole, mostrando con il brillio degli occhi tutta la sua indifferenza a riguardo. Aurora, l’ultima entrata, sospirò.
“Non imparerai mai, vero?” domandò esasperata.
“Non importa…” intervenne Jasmine, cosciente che le due si becchettavano continuamente, pur volendosi un bene dell’anima. “Dovevo alzarmi prima o poi. E comunque…” lanciò un’occhiata alla sveglia sul comodino lì accanto. Segnava le undici e un quarto della domenica mattina. “Si, mi sa di aver dormito fin troppo” concluse stancamente, lanciando il lenzuolo da un lato e buttando le gambe giù dal letto. Si stiracchiò la schiena.
“E comunque, abbiamo una notizia magnifica” sostenne ancora la rossa.
“Ma io non sto cercando di diffondere la sopraddetta notizia a tutto il mondo, Ariel!” esclamò Aurora inviperita.
“Sbagli!” la interruppe ancora l’amica “E’ proprio tutto il mondo che deve saperlo!”. Jasmine scosse la testa, si alzò in piedi e si diresse verso il bagno, chiudendo la porta a chiave dietro di sé, lasciandole becchettarsi. Si spogliò velocemente per fare una doccia veloce.
Il suo sguardo venne attirato dallo specchio grande quanto la parete lì davanti. Nuda, si fermò e strinse gli occhi, guardandosi. Appoggiò le dita contro la superficie liscissima.
Perfetta. Ecco ciò che diceva suo padre di lei, quando la presentava ai suoi amici, quando la abbracciava, quando le faceva un complimento. Semplicemente perfetta. Ma Jasmine sapeva che l’aggettivo in realtà era riferito non a lei, ma a sua madre, morta prematuramente dopo il parto della sua unica figlia. Erano identiche, e la ragazza l’aveva sempre saputo, rivedendosi nelle mille fotografie che invadevano la casa, nelle descrizioni dettagliate del padre, nelle melliflue parole di Jaff.
Jasmine non si trovava proprio perfetta, ecco. Perfetta poteva essere l’aggettivo adatto ad Aurora… non certo a lei. Jasmine era magra, pesava a malapena 45kg, aveva un bel seno sodo e una vita sottile e delineata. Era alta un metro e sessanta molto scarso (ma a lei piaceva dire di essere leggermente più alta della realtà), aveva capelli corvini lunghi fino alla vita e vispi occhi scuri come la notte. La pelle leggermente olivastra faceva da contorno alla sua figura. Il viso era a forma di cuore, con gli zigomi molto alti e il mento sottile, gli occhi grandi a mandorla, le labbra carnose e rosee. Diede precipitosamente la schiena allo specchio e si chiuse nella doccia, sperando di uscirne più alta di un centimetro.


Jasmine uscì dal bagno della stessa altezza e dello stesso peso con cui era entrata, e quando tornò in camera le sue amiche erano ancora sul letto, ma sembrava che avessero fatto pace. Ariel chiaramente fremeva e non vedeva l’ora di parlare, mentre Aurora, l’unica da cui Rajah si facesse toccare oltre alla padroncina, era accoccolato sul suo grembo e si godeva i grattini sotto il mento. La bionda lo guardava con un dolce sorriso. La mora si diresse verso la cabina armadio, per scegliere che biancheria mettersi. Si infilò dei semplicissimi slip bianchi e un reggiseno in tinta, poi ne uscì strofinandosi i capelli.
“Allora, Ary?” domandò sedendosi sul pouf lì vicino, abbandonando l’asciugamano e impugnando una spazzola. “Qual è questa meravigliosa notizia che ti ha portata a irrompere nella mia camera e a svegliarmi questa mattina?” la ragazza lanciò un gridolino soddisfatto e si sedette sul bordo del letto, scostandosi i capelli all’indietro con un sorriso. Mentre prendeva respiro venne interrotta da Aurora.
“I miei non ci sono per un paio di giorni” la precedette. “Vanno a prendere quella famiglia di amici… sai, quelli che ogni tanto chiamano… i tipici perfetti sconosciuti che sono venuti a vedere il mio battesimo e basta. Il loro preziosissimo pargolo ha deciso che farà qui l’università di veterinaria… ovviamente andare a vivere nel college universitario è troppo da comuni mortali… il diletto Filippo dovrà venire a vivere a casa mia” si lamentò “Ma ti pare che debbano venire proprio in casa mia, come se fosse un albergo?! Occuperà la mia seconda stanza!” gemette. Jasmine giustificò mentalmente le lamentele dell’amica ricca sfondata, che non era mai stata abituata ad avere una sola camera come tutti gli altri.
“E poi, cosa direbbe Eric?” domandò Jasmine ammiccando. Aurora la guardò sospirando e scompigliandosi i boccoli dorati. Poi sorrise arrossendo graziosamente.
“Beh, non stiamo insieme” si giustificò alzando le spalle “Ci stiamo solamente frequentando”.
“L’arrivo di un ricco scapolo ci sta distraendo dal nostro obiettivo primario” scherzò Ariel “In realtà il punto era un altro!” Aurora sospirò.
“Si, ecco, l’altro giorno Ariel si stava giusto lamentando perché siamo tre ragazze… ecco… poco popolari, a scuola”.
“No, Aury” la corresse subito Jasmine “NOI non siamo così popolari. TU sei la reginetta di tutti i balli che hai passato qui a scuola… credo che tu abbia davvero fatto un record.”
“Beh… oh, va bene!” esclamò alla fine, dispiaciuta “Okay, Ariel si lamentava perché voi due, e soprattutto lei, non siete abbastanza popolari. Perciò mi ha spinta a proporre di dare una festa sabato prossimo…”
“Festa a cui verrà sicuramente tutta la scuola!” esclamò la rossa con aria sognante.
“Si, e quindi?”
“E quindi pensavo di dare una super festa” concluse Aurora “So che non è nel mio stile… ma non l’abbiamo mai fatto, e… potremmo provare, no? Vorrei provare a invitare tutti… senza distinzione di chi è più ricco o meno ricco… non è quello l’importante, no? Noi tre siamo amiche, anche se apparteniamo a famiglie diverse in ricchezza!”
“Certo” la confortò Jasmine, non troppo sicura dell’idea “Certo, potrebbe essere un successone” l’amica la guardò preoccupata.
“Vorrei solo non fare danni ma riuscire a dare ad Ariel l’opportunità di farsi un nome… e perché no, potrebbe anche essere l’occasione buona di incontrare qualche ragazzo, o provarci definitivamente con Eric… potrebbe essere divertente, anche io vorrei organizzare una festa, dal momento che non ho mai…”
“Ehi, Aury, calma” la tranquillizzò la mora sedendosi accanto a lei e tirandole indietro i capelli, scostandoli dagli occhi “Possiamo provare. Non abbiamo nulla da perdere. Io sono con te” Ariel balzò in piedi saltellando euforica.
“Sarà meraviglioso. Aspettate e vedrete… andiamo alla tipografia? Magari possiamo stampare già qualche biglietto…” le amiche si guardarono sorridendo, Jasmine si vestì con un top bianco e blu e un paio di jeans e uscirono insieme, dirette alla tipografia.


Si diressero subito verso il centro commerciale, che distava solamente due isolati dal famoso ristorante arabo del padre di Jasmine, “La Reggia del Sultano”. La ragazza, a ogni passo, diventava più euforica. Mille pensieri e preoccupazioni le si affollavano in testa, primo di tutti il fatto che era sicurissima che il padre non l’avrebbe mai lasciata andare a una festa. Ma pensava di poterlo convincere dicendogli che era semplicemente un pigiama party a casa di Aurora. Anche se non l’aveva mai lasciata andare, ormai aveva sedici anni e poteva fare un sacco di cose in più di prima… in fondo la sua maggiore età si stava avvicinando rapidamente, e le mancava solo un anno e mezzo di scuola, poi sarebbe andata all’università… già si immaginava il castello dell’amica addobbato per la festa, gremito di persone, pieno di gente e di musica… si immaginava le feste proprio come nei film: un grande spasso. Tutti i dubbi sparirono prima che arrivassero al centro commerciale, e una volta varcata la soglia era già convinta che la festa sarebbe andata a gonfie vele.
Arrivate nella tipografia, Aurora e Jasmine lasciarono la parte artistica ad Ariel, che era decisamente la migliore in queste faccende, e si misero in disparte a dare un’occhiata alle decorazioni e agli stencil vari che pendevano dal soffitto in maniera artistica e sofisticata. Jasmine colse l’occasione per scambiare due parole con la bionda con calma.
“Come va con Eric?” le domandò. Aurora le sorrise timidamente.
“Va bene. Cioè, ai miei non va proprio a genio il fatto che ci piacciamo… sai, loro vorrebbero vedermi accasata con l’amico Filippo…” spiegò sfogliando un libro illustrativo distrattamente.
“Sempre quel Filippo, eh? Ma non te lo toglierai mai di torno? I genitori non dovrebbero intromettersi nelle decisioni delle figlie” sostenne Jasmine convinta “Anzi, penso proprio che lo debba imparare anche mio padre… non mi lascia mai uscire di casa la sera, solo di giorno e per poche ore! E’ come se mi tenesse continuamente sotto controllo, mi sento prigioniera in una gabbia che profuma di spezie” Aurora le prese una mano e la strinse con affetto.
“Anche io non mi sento affatto libera” ammise “Quando non ci sono i miei, ci sono sempre le mie madrine… sono terribili, mi chiamano al cellulare ogni ora per sapere dove sono e cosa faccio… e se ritardo di anche solo un minuto sono scintille. Arrivano immediatamente a casa mia a farmi una bella lavata di capo…” sorrise “So che lo fanno per il mio bene, ma trovo che siano un po’ esagerate, ecco…”
“Sembra che Ariel sia così libera…” sospirò Jasmine. Aurora scosse tristemente la testa.
“Ariel a volte nasconde cose che mi feriscono molto…” sospirò. Ma quando Jasmine stava per chiedere cosa, vennero interrotte dalla diretta interessata che aveva dato l’ordine ed ora dovevano solamente aspettare un’oretta prima di vedere i loro seicento inviti stampati su un cartoncino di un delizioso rosa antico, scritte in un lilla scuro che risaltava perfettamente. Aurora fu così soddisfatta del lavoro che volle tenere un biglietto anche per sé, dopodiché uscirono a fare un giro fra i negozi per ingannare il tempo.
Erano appena al secondo piano, quando Aurora lanciò un urletto di gioia mal contenuta e si catapultò dentro un negozio. Jasmine lanciò un’occhiata all’insegna prima di seguirla, e quando si rese conto che era una boutique Gucci girò i tacchi e si sedette con Ariel nella panchina lì davanti. Rimasero in silenzio per una decina di minuti, ognuna immersa nei propri pensieri. Aurora ogni tanto sbucava da una vetrina indicando loro una borsetta, un paio di scarpe o qualsiasi altra cosa con aria euforica. Quando mostrò loro una giacchetta a maniche corte, con maniche a palloncino e collo a volant, color rosa antico, Ariel non riuscì a trattenere un sospiro. Jasmine la guardò. Sapeva che l’amica soffriva molto per non essere ricca. Anzi, se viveva nell’isola di Manhattan era semplicemente perché suo padre era il pescivendolo di fiducia della maggior parte dei ristoranti più in vista del luogo. Ma con una casa costosa e sette figlie ancora in casa da mantenere, non rimanevano molti risparmi a fine mese.
Aurora, al contrario, era l'unica figlia di uno degli uomini più influenti di tutti gli Stati Uniti, e sua moglie era la sua assistente. Era tanto bella quanto ricca, aveva sempre i vestiti più alla moda delle marche più costose in piazza, e non passava quasi giorno senza che la ragazza andasse a spendere qualcosa dalla sua Golden Card. Ma il contenuto di quella tessera non era niente in confronto alla sua gentilezza e alla sua modestia: nonostante fosse ricca, popolare, bella e avesse una marea di strade possibili davanti a lei, Aurora continuava a rimanere una semplicissima ragazzina di sedici anni, l’amica ideale per fare da psicologa, leale e disponibile, fin troppo gentile.
Jasmine stessa era agiatissima grazie al rinomato ristorante del padre, che attirava tutta l’èlite americana.
“Nemmeno io posso permettermi quella roba” ammise infine “Non che mi dispiacerebbe… ma non credo di poter ottenere qualcosa che vada molto più in alto di Zara o H&M.”
“Aury è proprio fortunata. Non è cattiva, solo che ora è troppo presa da quella giacchetta per rendersi conto che ci siamo anche noi” commentò con un sorriso un po’ troppo tirato, per i gusti di Jasmine. Non le piaceva vedere l’amica giù di morale. Era lei l’anima del gruppo, lei quella che le tirava sempre su di morale quando avevano bisogno di un sorriso.
“Sembra che abbia quasi finito” annunciò la mora indicando l’amica che stava pagando alla cassa.
“Non ce l’ho con lei, Jas” disse Ariel alla fine “Alcune persone nascono in un castello, altre in un appartamento. Ma va tutto bene. Lo sai che il vostro mondo è il mio sogno, ma voglio anche guadagnarmelo” Jasmine sorrise.
“Secondo me ce la farai!” esclamò. Ariel la interruppe con la sua risata argentina.
“Lo spero proprio!” in quel momento le due furono interrotte da Aurora, rossa in viso e chiaramente felice.
“Ho comprato tutto quello che mi piaceva di più!” disse con tono sognante “Sono delle cose bellissime, non vedo l’ora di abbinarle a quel vestito rosa, e…”
“Dai, principessa, scendi dal trono e accompagnaci al mercato!” esclamò Jasmine ridendo e spingendola dalla schiena “Abbiamo visto un H&M di sotto, e anche un negozio che sembrava più economico dei tuoi… tocca anche a noi un po’ di shopping!”


Quando Jasmine tornò a casa era l’ora di cena per tutti i comuni mortali. Non certo per il Sultano. Suo padre era in piedi alla cassa e spuntava da un elaborato foglio di carta i clienti che avevano già prenotato e stavano arrivando. Dall’entrata principale scorse la fila, così si fece portare sul retro del ristorante dalla limousine di Aurora, che era venuta a prelevare le ragazze al centro commerciale, e dopo aver aperto il cancello si fece strada fra i cespugli e l’erba alta per raggiungere la porta della cucina. Un paio di sacchetti minacciarono di cadere, ma Jasmine mantenne un equilibrio invidiabile e proseguì. Spalancò la porta delle cucine e si districò fra i cuochi, gli aiutanti, il capo chef e i camerieri che brulicavano come formiche per tutta la stanza. Finalmente riuscì a uscire da quel caldo soffocante e imboccò immediatamente le scale per salire al piano superiore, dove c’era casa sua. Arrancò su per i gradini, ostacolata da tutti quei sacchetti, dopodiché entrò in camera e lì lasciò cadere sul letto. Poi girò i tacchi e ridiscese, andando in cerca di qualcosa da mangiare. Si infiltrò nuovamente fra i vari dipendenti di suo padre, e riuscì ad arraffare un pezzo di Tajine e un piatto di minestra. Poi si diresse nuovamente verso il piano di sopra. Prima, però, passò dal padre, che doveva vedere ciò che consumava la figlia e pagarlo di tasca sua. Quando Jasmine si sentiva molto arrabbiata, prendeva dalla cucina una quantità enorme di cibo e lo portava di sopra senza nemmeno farglielo vedere.
“Ciao papà” lo salutò. Il Sultano, così chiamato da tutti quanti, col viso gentile, si sporse dalla cassa per guardare la figlia, interrompendo la discussione con il Capo Sala, Jaff, l’uomo più antipatico e subdolo di tutti gli Stati Uniti.
“Bentornata, gioia mia!” esclamò il Sultano “Hai comprato qualcosa di bello al centro commerciale?” Jasmine annuì.
“Si papà.” L’uomo abbracciò la figlia. “Papà, domenica prossima sono stata invitata fuori da Aurora… posso andare?”
“Certo, certo… se torni presto ti farò anche stare in cassa, so che ti piace tant…”
“Papà, è un’uscita di sera” sospirò Jasmine “In realtà è un invito per un pigiama party…”il viso dell’uomo cominciò a virare in un colorito scarlatto molto poco promettente “Ti prego, papà, è l’unica volta che veramente vorrei uscire, non mi hai mai fatta stare fuori la sera, e…”
“Non è il momento di parlarne, Jasmine. Abbiamo ancora tempo, e io ora stavo parlando con Jaff riguardo…”
“Si che è il momento di parlarne!” sostenne la ragazza incrociando le braccia “Non mi fai mai uscire la sera!”
“Perché è così che devo fare. Non sai quanta gente cattiva può esserci là fuori, e io non ho la minima intenzione di perderti come…” la voce gli morì in gola. Come mia madre, pensò Jasmine. Il Sultano si schiarì la voce “La gente che gira la notte, credimi, è orribile. E tu non potresti nemmeno difenderti!” esclamò preoccupato. “Dai, gioia mia, ora è il momento di andare di sopra, i clienti aspettano di essere sistemati ai loro tavoli” Jasmine strinse i pugni, e come al solito quand’era arrabbiata, arricciò le labbra spalancando ancora di più i suoi occhioni scuri.
“E’ una festa in casa” sostenne la ragazza “Io sarò dentro la casa, non fuori. E poi sarò lì a divertirmi un sacco, e…”
“Festa?” scattò il padre. Jasmine si morse il labbro inferiore. Accidenti alla sua impulsività. “No, se si parla di festa è fuori discussione. Vai in cucina di sopra, Jasmine, subito.”
“Ma papà…”
“Non mi interessano ragioni, Jasmine, tu non andrai a quella festa. Non se ne parla nemmeno. Ora vai” Jasmine sentì le lacrime salirle agli occhi e cercò di frenarle mordendosi il labbro ancora più forte.
“Certo, e io non avrò mai una vita sociale, un ragazzo decente, qualche amica in più e qualcosa da scrivere nel diario segreto!” sbottò “Ma a te che importa? Tu puoi fare tutto quello che vuoi!”
“Tu sei mia figlia” tuonò il padre “E in quanto tale, il tuo dovere è imparare a gestire questo ristorante, che un giorno sarà tuo! Dovrai sposare un uomo per bene secondo le regole del Corano e vivere qui tutto il resto della tua vita!”
“E se io non volessi?!” urlò Jasmine. Qualche signora lì intorno trattenne il fiato. La ragazza si rese immediatamente conto che tutti i clienti erano in silenzio e li stavano ascoltando. Ma non le importava. “E se il mio unico desiderio fosse demolirlo?! Io non voglio questo ristorante! Tu non puoi capire! Tu non capisci mai!”afferrò i piatti che aveva preso dalle cucine e corse di sopra, in preda a mille emozioni diverse. Appena entrata in casa sbattè la porta e la chiuse a chiave, poi si lasciò cadere sul pavimento e scoppiò a piangere, con Rajah che le sfiorava delicatamente le gambe.


La casa di Jasmine era su un piano solo, sopra il ristorante, ma non si udiva nulla che poteva ricordare il chiacchiericcio dei clienti. Era un appartamento grande e raffinato: i pavimenti erano di marmo e cotto, le pareti colorate di un caldo color arancio che ricordava la sabbia del deserto. La cucina nella quale Jasmine mangiò si componeva di due parti: la cucina vera e propria e la sala da pranzo, separate da colonne a volta di legno, intarsiate. La ragazza sbocconcellò il Tajin guardando fuori dalla finestra, intarsiata anch’essa e bloccata all’esterno… Una gabbia, pensò Jasmine. Una bellissima gabbia, dalla quale sentiva di non poter uscire, di non avere scampo. Non si sentiva affamata, così andò sul balcone di camera sua e si sedette con le gambe a penzoloni fuori dal balcone, con Rajah seduto accanto. In quel momento le suonò il cellulare. Era Ariel.
“Ehi” rispose malinconicamente.
“Anche tu, vero?” sospirò la rossa dall’altra parte della cornetta, capendo al volo ciò che era successo.
“Anche io” confermò “A volte penso che se ci fosse stata mamma…”
“Lo penso anche io” condivise Ariel. A entrambe mancava la madre. Ed entrambe ne soffrivano molto ed erano convinte che i padri si comportassero in maniera così restrittiva per paura di perdere anche loro. “Almeno tu hai anche mancanza di sorelle” commentò acida “Non che non voglia loro bene, ma le mie sono tutte più grandi e dato che sono scappate di casa tutte almeno un paio di volte… beh, io sono tenuta sotto controllo dal pesce cane!” Jasmine sorrise “E poi oltre al pescecane c’è anche il mastino, quel dannato di un Sebastian che mio padre ha istruito perché si mettesse ad abbaiare ogni volta che raggiungo la porta di casa. Non ci sono soldi per comprare vestiti nuovi, né un cd, né per avere una casa più bella, ma per avere un cane rompiscatole i soldi ci sono sempre.” Jasmine scoppiò a ridere, e Ariel la seguì pochi secondi dopo. Fu Jasmine a interrompere il momento divertente delle due ragazze.
“Dov’è che andavano le tue sorelle quando scappavano di casa, Ary?” domandò la mora.
“Credo andassero in un luogo chiamato Bazar.” Rispose l’amica “Le ho sempre sentite molto parlare di quel posto. Credo sia una specie di centro commerciale sotterraneo, non so come dire… ci puoi trovare di tutto a poco prezzo. Molte volte lì si ruba anche. Sai quante volte Arista è tornata a casa con qualcosa di nuovo che non si sapeva dove l’avesse preso. Io penso che abbia rubato là al Bazar.”
“Hanno anche trovato i loro ragazzi lì, no?” domandò Jasmine sempre più curiosa.
“Si… o almeno, Arista e Adella si.” Rispose l’altra “Come vorrei andarci anche io… ne sento sempre parlare come se fosse il paradiso!”
“Ma sai dov’è?” nella mente della mora cominciava a figurarsi un piano perfetto per riuscire ad andarsene finalmente dalla sua prigione. Se ne sarebbe scappata di casa… anche il padre di Ariel aveva fatto così, teneva le sue sorelle continuamente sotto controllo, esattamente come il Sultano, ma quando una sera non le aveva trovate a letto e compreso che erano fuggite le aveva lasciate più libere… sperava che anche il suo grasso papà reagisse alla stessa maniera. La rossa le diede informazioni abbastanza dettagliate sulla posizione di questo Bazar. “Grazie Ary… ora penso proprio però di dover andare. Devo mangiare. Ho una fame. Non ho ancora avuto tempo di andare a prendere qualcosa in cucina” mentì.
“Perfetto Jas. Ci vediamo domani a scuola. Buona serata!” esclamò, per poi chiudere il telefono. Jas grattò sulla testa Rajah.
“Mi dispiace, Rajah, ma questa notte non dormiremo insieme” disse al gatto, per poi alzarsi.
Frugò per un po’ nella sua cabina armadio, per poi tirare fuori un paio di jeans scoloriti e strappati sul ginocchio, che non metteva più da anni, una felpa blu e un paio di deformate scarpe da ginnastica nere. Sotto la felpa indossava il più fantastico dei top bianchi, senza reggiseno, e nella borsa aveva infilato un paio di scarpe col tacco nere e bianche. In bagno si truccò in modo da sembrare più grande, si acconciò i lunghi capelli neri e posò tutto il necessario nella borsa. Lasciò il cellulare sul letto, bene in vista, in modo che suo padre capisse. Rajah stava miagolando nervosamente, sbattendo la coda di qua e di là, ma Jasmine non lo assecondò. Scavalcò la ringhiera del balcone bombato, poi si lasciò cadere in un cespuglio. I capelli rimasero perfettamente integri grazie al cappuccio calato sul viso. Aspettò accucciata che un paio di cuochi smettessero di fumarsi una sigaretta, per poi correre al cancello del retro. Quando ne fu uscita, sospirò profondamente un respiro di libertà.


Le occorsero cinque fermate di metropolitana, tre di autobus e un bel pezzo a piedi prima di raggiungere il Bazar. Inizialmente non era così sicura di aver preso la strada giusta, ma quando si trovò intorno sempre più ragazzi man mano che si avvicinava, capì che non poteva aver sbagliato. Si sedette su un muretto, si tolse le scarpe da ginnastica e al loro posto si infilò quelle col tacco, si liberò della felpa e si fece largo fra la folla. Riuscì ad arrivare alla fine della fila di gente che stava aspettando il proprio turno per entrare. Davanti a lei c’erano due ragazze che stavano parlando fra loro fumando sigarette.
“Suonano i Dark Sea, sta sera. Sono nella sala concerti” stava dicendo una, con la voce roca.
“Si, ma prima passiamo da Joe. Voglio farmi una dose.”
Jasmine non aveva la minima idea di che cosa potesse essere una dose, ma il suo sesto senso le disse di non andare da questo Joe. Attese in fila per una ventina di minuti, dopodiché arrivò il suo turno e si presentò davanti al buttafuori che era all’entrata. Lui la squadrò un momento, poi le fece un cenno con gli occhi, e Jasmine sorpassò la soglia. Si trovò su un pianerottolo, e cominciò a scendere delle buie e ripide scale. Man mano che scendeva una luce cominciava a mostrarsi avanti a lei, e quando arrivò alla fine della scalinata, si trovò in una vera e propria cittadina sotterranea. C’erano varie bancarelle piene di merce, e talmente tanta gente da fare fatica a camminare. Lo spazio era illuminato scarsamente, e la ragazza non riusciva a distinguere chiaramente alcun viso. Si accostò ad una bancarella per prendere un po’ di respiro e per vedere meglio cosa c’era da offrire. Erano esposti dei gioielli economici di bigiotteria, e l’uomo con un’ispida barba castana dietro il banco la guardò con un sorriso non proprio rassicurante. C’era una musica ritmata piena di bassi penetranti che proveniva da qualche parte. Jasmine ricominciò a camminare finchè non arrivò a un bivio: in un vicolo cieco c’era una massa di gente che saltava con le mani in aria, e davanti a loro un gruppo che suonava con amplificatori giganteschi e una console. Anche il cantante stava saltellando come impazzito. Jasmine scoppiò a ridere: ecco cosa le piaceva, la sensazione di libertà, di trasgressione, il lasciarsi andare completamente alle emozioni e ai desideri del momento… non che fosse una ragazza con la testa per aria, ma una volta ogni tanto si sentiva perfettamente autorizzata a fare quello che voleva. Nonostante dentro di lei ci fosse una vocina che le consigliava di fare attenzione e di tornare subito indietro, la ragazza decise di ignorarla completamente e proseguire nel suo giro nel Bazar.
Proseguendo per il lungo corridoio che mostrava le varie bancarelle, la musica si affievoliva sempre più, fino a mischiarsi con altri generi. Jasmine sentì della musica suadente ed attraente, e si avvicinò alla massa di gente che stava davanti a un piccolo palco con dei pali disseminati qua e là. Si alzò sulle punte dei piedi per sbirciare. Sopra il palco c’erano quattro ragazze semi nude, con solamente un paio di tanga ciascuna e delle scarpe col tacco, ognuna di loro stava ballando in maniera sensuale, mostrando tutte le forme e punti che fecero trasalire Jasmine. Erano tutte a petto nudo, e gli uomini sotto di loro gridavano oscenità guardandole e fischiando. La mora si sentì arrossire. Provava un senso di attrazione verso quelle ragazze, ma razionalmente si sentiva profondamente turbata. Lei non aveva mai visto niente di più osé delle danzatrici del ventre che suo padre pagava per intrattenere gli ospiti durante la cena, ma nessuna di loro mostrava niente tranne le braccia, le spalle e la pancia, e nessuno urlava loro niente. Semplicemente, i clienti sprofondavano in complimenti al Sultano per l’ottima scelta, per la bravura delle ballerine e per la loro sensualità. Fu proprio guardando quelle ragazze danzanti, con i seni scoperti, che Jasmine capì chiaramente di essere arrivata in un altro mondo. Era sempre la stessa città, ma niente era più diverso dal suo universo e dal loro. Un uomo nella fila di gente sotto al palco urlò qualcosa prendendo la mano di una delle ragazze. Quella annuì sorridendo e scese dal palco. Poco dopo, Jasmine li vide passare dietro di sé, lui che mormorava alla ragazza stringendole le natiche, lei che ridacchiava divertita. La ragazza rimase turbata. Sapeva che c’erano donne che si facevano pagare per i propri servizi, non sapeva cose fossero ma sentiva istintivamente che era quello che stavano per fare, e vederne una a così poco spazio da lei la sorprese. Decise di non pensarci, cercando di giustificare la sua ansia dicendosi che quelle erano cose per le persone “più grandi” e che lei era ancora una ragazzina, che finalmente stava vedendo la realtà. Decise di andare avanti. Lanciò un ultimo sguardo alle danzatrici, ma si fermò proprio in quel momento. Ce n’era una, con i capelli rossi e ipnotici occhi viola che le sembrava di aver già visto. Era alta almeno venti centimetri più di lei, magra e longilinea, con seni a punta. La guardò stringendo gli occhi e pensando, poi le venne in mente che l’aveva già incrociata a scuola, e che doveva essere chiaramente più grande di lei. Si, pensò, è sicuramente più grande e l’avrò incrociata in corridoio, ora non sarà più al liceo.
Jasmine continuò a camminare. Si ritrovò in una stanza grande, l’ultima dell’edificio, nella quale c’erano due banconi illuminati e tutto il resto era buio. La ragazza sentì dei mugolii arrivare da un lato della stanza, ma non ci fece caso. Si avvicinò a uno dei due, vedendo le ragazze che erano davanti a lei all’entrata del Bazar. Dietro al bancone c’era un uomo sulla cinquantina, magro come uno stecco, con l’aria allampanata e stempiato, che la guardò e le fece cenno di avvicinarsi. Jasmine eseguì. Lui le mostrò con una mano varie polverine e foglie di piccole dimensioni, pastiglie colorate e altre sostanze informi che sembravano sassi o tuberi.
“Salve, ragazzina” la salutò con voce roca, sorridendole con denti neri e senza metà dentatura “Hai voglia di comprare qualcosa dal vecchio Joe? Lui ti può procurare tutto, qualsiasi cosa… il vecchio Joe ti può procurare visioni fantastiche o la sensazione di volare, un orgasmo che dura per mezz’ora oppure sonni colorati… dimmi, ragazzina, dimmi cosa desideri” Jasmine era titubante. Non aveva mai sentito parlare di tuberi che dessero sonno e nemmeno di pastiglie che facessero volare. In quanto all’orgasmo, poi, non sapeva nemmeno cosa fosse. Si ricordò che in un momento molto vicino ma che a lei sembrava lontanissimo si era ripromessa di non parlare con Joe. Socchiuse gli occhi.
“Voglio volare” bisbigliò. Il vecchio Joe scoppiò in una risata strana, sguaiata, che sembrava l’abbaiare di un cane.
“Ti faccio volare subito, ragazzina. Tu dammi trenta dollari, e io ti faccio finire sopra le nuvole” in quel momento una delle ragazze che erano davanti a lei, che stavano aspirando col naso una polverina bianca, alzò la testa e lo guardò.
“E dai, Joe, non lo vedi che è una ragazzina? Non puoi farle sborsare trenta dollari per un cannone” la difese. Un cannone? , si domandò Jasmine.
“Io le faccio sborsare quello che voglio, Sam.” Replicò Joe “E’ una mia cliente, e qua sono io che detto le regole. Anche tu, se ti stai sniffando quell’ottima roba, è grazie a me, quindi non ti intromettere”
“Ma dai, sarà scappata da casa e non avrà dietro un centesimo. Guardala” continuò la ragazza indicandola con una mano “Ha una maglia di Gucci. Ti dice qualcosa? Sarà evasa dalla sua prigione di cristallo per farsi un’esperienza. È così che cominciamo tutti. Forza Joe, abbassa il prezzo, o non vengo più da te. C’è un altro ottimo fornitore a Central Park, sai? Si chiama Jim”. Fornitore?, si chiese ancora Jasmine. Pensò che un fornitore per definizione doveva rifornire la gente di qualcosa. E se la gente comprava, non doveva essere qualcosa di illegale…
“Quel maledetto Jim. Ha preso tutto quello che ha da me!” sbottò Joe “Va bene, dai, ragazzina, facciamo quindici dollari e facciamola finita. Ora sei contenta, Sam?”
“Resterò da te, allora” concluse l’altra chinandosi nuovamente. Jasmine tirò fuori il portafoglio sentendosi molto in soggezione, e il vecchio Joe in cambio dei suoi quindici dollari le diede una sigaretta fatta a mano. Poi le offrì un accendino.
“Tieni, ragazzina. Sei capace a fumare?” Jasmine scosse la testa. “Queste maledette ragazzine! Mi sa che avevi ragione, Sam!” disse. Poi le prese la sigaretta e la accese. La ragazza sentì immediatamente un profumo che non aveva mai sentito. Sapeva solamente che era molto buono. Sentì la saliva in bocca aumentare. “Allora, ragazzina. Dato che non sei abituata, devi prenderne poca alla volta. Ma veramente poca, okay? Brava. E poi devi mandarla giù, devi sentirla nei polmoni. Poi soffi fuori quello che è rimasto in bocca.” le mostrò come si faceva. “Forza, prova tu” Jasmine prese la sigaretta fra le dita come aveva visto fare molte volte da Ariel, che fumava di nascosto ogni tanto, appoggiò la sigaretta alle labbra e aspirò un po’ di fumo. Lo mandò giù come aveva detto il vecchio Joe, e sentì la gola bruciare, gli occhi riempirsi di lacrime e cominciò a tossire. Joe scoppiò a ridere. “Certo che sei proprio forte, ragazzina. Un cannone come prima fumata. Il prossimo è gratis, te lo prometto. Offre la casa. Ma solo se riesci a fartela tutta, quella roba lì. Dai, fammi vedere che ne sei capace. A proposito, come ti chiami?” Jasmine provò a fare un altro tiro, e questa volta andò molto meglio. La gola bruciava comunque, ma molto meno di prima, e tossì molto poco.
“Jasmine” rispose lei.
“Ottimo, Jasmine. Se te la fumi tutta, te ne do un’altra gratis”. La ragazza alzò le spalle con fare indifferente, pensando che fosse assolutamente figo. Il vecchio Joe rise di nuovo.
Un’ottima qualità di Jasmine, che in quel momento le sembrava proprio preziosa, era che non demordeva mai. Se desiderava davvero qualcosa, solitamente la otteneva. L’unica eccezione, ovviamente, era quando desiderava qualcosa che al Sultano non andava bene per niente. In quel caso, e solo in quello era costretta a cedere. Ma in quel momento suo padre non c’era, era sola. C’erano solamente lei, quel cosiddetto cannone e il vecchio Joe. E Jasmine aveva appena imparato a fumare. Joe continuava a chiacchierare, dicendo che era stata fortunata a trovare roba ottima in quel modo, e raccontandole di tutti i suoi numerosi clienti. La mora lo ascoltava fumando, ma si accorse che più la sigaretta giungeva alla fine, meno lei capiva quello che stava succedendo intorno a lei. Si rese conto che i suoi sensi non funzionavano più come avrebbero dovuto funzionare. Si rese presto conto che tutto ciò che sentiva le arrivava al cervello come in un eco, e tutto era davvero divertente, così tanto che presto si trovò a ridere con Joe di qualcosa di cui non aveva nemmeno afferrato il senso. La sua vista funzionava, ma si rese anche conto che se guardava lontano tutto diventava sfumato, come se non ci vedesse bene, ma non si preoccupò, anzi, scoppiò a ridere anche per questo. La bocca divenne secca, quando quel “cannone” era quasi alla fine, e Jasmine chiese da bere. Il vecchio Joe le propose di andare a chiedere al bancone davanti, quello dall’altro lato mentre le girava “quella nuova”, e la ragazza eseguì. Arrivò davanti al banco, e quando l’uomo la guardò, lei scoppiò a ridere.
“Vorrei dell’acqua” disse infine.
“Dell’acqua?!” esclamò l’altro, un uomo grasso e curato, tutto il contrario di Joe “Qua non abbiamo acqua. Nemmeno un goccio. Se la vuoi… beh, credo dovresti risalire in superficie, bambina. Qua ho qualsiasi altra cosa, ma proprio acqua no”
“E allora io cosa bevo?” esclamò Jasmine incrociando le braccia contrariata, ma sempre sorridendo sotto i baffi.
“Ho un’idea: ti faccio un bel Sex On The Beach” propose lui “E’ buono e non è troppo pesante. Però non bere altro per questa sera, d’accordo?”
“D’accordo” rise lei esultando fra sé e sé.
“Ce l’hai i soldi, ragazzina?” domandò lui ancora, però poi cominciare a prendere gli ingredienti e a mescolare vari contenuti di bottiglie che Jasmine non aveva mai visto. Annuì incantata da tutti quei colori che si mischiavano.
“Ehi, Mike!” esclamò Joe dall’altra parte della stanza buia “Per lei è gratis, questa sera. È la prima volta che fuma, e guardala! La prima volta, già Maria…”
“Io non mi chiamo Maria!” sbottò la ragazzina, afferrando il drink che aveva preparato Mike “Grazie Mike” disse poi.
“Di niente ragazzina, goditelo tutto.” Rispose lui ridendo. Jasmine rise con lui, poi si soffermò a osservare quella bevanda. Era color arancione, ma era sfumata. Partiva rossa, poi diventava arancione caldo, poi più chiaro per finire gialla. Aveva un bastoncino con una ciliegina infilzata sopra. Credeva di non aver mai visto qualcosa di più bello in vita sua. Jasmine era veramente estasiata. Lo buttò giù in un paio di sorsi, sentendolo al gusto d’arancia, dolce, ma con una sfumatura amara dell’alcool. Era davvero buono, e lei era sicura che si sarebbe ricordata il nome per sempre. Sex on the Beach. La bevanda del paradiso. Girò sui tacchi appena svuotato il bicchiere, e tornò da Joe, reclamando l’altro cannone. Joe glielo diede senza fare storie, porgendoglielo già acceso. Se già Jasmine non capiva più niente dopo la prima canna, dopo la seconda rideva senza motivo di qualsiasi cosa e non riusciva a stare in piedi senza cadere. Aveva una sete incredibile, e il Sex On The Beach non aveva sortito nessun effetto. Così, su indicazione di Mike, si diresse verso l’entrata: le avevano detto che dalle parti del concerto dei Dark Sea avrebbe potuto trovare un chiosco dove prendere l’acqua. Così, traballando e reggendosi alle pareti, alle bancarelle e alle persone, si avviò verso il concerto. Doveva solamente andare dritta. Qualcuno la guardava male, altri scoppiavano a ridere, alcuni la indicavano e bisbigliavano fra loro, ma la maggior parte della gente la ignorava. Se avesse ragionato normalmente, Jasmine si sarebbe resa conto che erano abituati a vedere quella stessa scena tutte le sere, se non peggio, da varie persone e non solamente da una ragazzina chiaramente scappata di casa. Si sarebbe anche resa conto di che tipo di gente infestava quel posto, e avrebbe capito perché le sorelle di Ariel ormai erano lasciate totalmente allo sbaraglio dal padre. Forse sarebbe addirittura arrivata a capire perché il vecchio Tritone non faceva uscire la sua figlia minore di casa, se non strettamente controllata.
Arrivò al luogo dove le ragazze ballavano e si fermò nuovamente a osservarle. Quella che se n’era andata via con l’uomo era tornata, e stava continuando a ballare in modo sensuale. Quella che era convinta di aver già visto era ancora nello stesso punto di prima, muovendosi lenta e nel modo più attraente che Jasmine avesse mai visto. Venne colta da un’incontrollabile voglia di andare a ballare con loro, trascinata dalla musica. Si avviò con un sorriso ebete verso il palco, sgomitando fra la folla, e quando finalmente arrivò all’obiettivo salì goffamente sul rialzo. Un paio di ragazze si fermarono incredule e stupite a guardarla, ma non la ragazza della scuola, che le lanciò uno sguardo privo di interesse, e nemmeno la ragazza che se n’era andata poco prima, la mora con i capelli alle spalle, che si fece avanti verso di lei continuando a ballare, avvolgendole un boa di sgargianti piume fucsia intorno al collo e ancheggiando sensuale. La ragazza, presa dall’euforia, cominciò a ballare con la donna davanti a lei. Sentiva un’irrefrenabile voglia di toccarla, di essere come lei, di entrare nella sua carne. Le sfiorò un fianco, poi lo strinse e continuò a ballare, accecata da tutte le luci intermittenti di vari colori che si alternavano intorno a lei. La donna si avvicinò finchè non la ritrovò a un soffio dal viso, per strusciarsi, abbassandosi e rialzandosi a gambe aperte. Gli uomini sotto il palco erano in delirio. Una delle ragazze urlando preoccupata corse via, ma Jasmine non capì cosa stesse dicendo, non avvertì una singola parola. In quel momento era totalmente stordita dal profumo dell’altra, così tanto da non riuscire a percepire nulla intorno a sé…
La prima cosa che la fece tornare cosciente per un paio di minuti fu una mano grande e grossa, posseduta da un uomo altrettanto alto e grasso che le strinse il polso sottile. L’uomo la stava guardando con aria furibonda, le sopracciglia aggrottate in un’espressione di insoddisfazione e frustrazione. La trascinò malamente giù dal palco, mentre la ragazza, terrorizzata, cercava disperatamente una parte del suo cervello funzionante, capendo immediatamente di quanto ne aveva bisogno in quel momento.
“Ehi tu!” esclamò l’uomo con una voce roca e profonda, rivolgendosi a lei. “Che cosa stavi cercando di fare, ragazzina?! Quello era il mio spettacolo di burlesque, quelle erano le mie ragazze e quelle ragazze hanno con me un contratto per farmi guadagnare, capito? Non dovevi salire lì sopra, adesso hai stravolto tutto! Non hai idea delle conseguenze che ci saranno! Adesso mi verranno a chiedere tutti delle minorenni, per Dio!” Jasmine non capiva quasi niente di ciò che l’uomo le stava dicendo, e quel poco che recepiva la faceva scoppiare a ridere, anche se la sua coscienza stava provando disperatamente a urlare di tenere la bocca chiusa e di assumere un’aria contrita e dispiaciuta. “Quanti anni hai? Dovresti essere a letto tu a quest’ora! Dovrei chiamare i buttafuori e far arrivare tuo padre! Ecco, giusto, mi frutterebbe un po’ di soldi, gli farebbero una bella multa per averti lasciata venire qua al Bazar da sola. Forza, muoviti, dammi il cellulare!”. Fu proprio quando l’uomo allungò la mano per afferrarle la borsa che spuntò fuori un’altra mano, che lasciò Jasmine confusa come non mai.
“Ehi, Pain, lascia stare la ragazzina” esclamò una voce chiara e cristallina. La ragazza si girò, e nel suo campo visivo entrò un ragazzo. Non era molto più alto di lei con i tacchi, perciò avrebbe dovuto essere sul metro e settantacinque. I suoi capelli erano lunghi sulle spalle, nerissimi, gli occhi grandi, castani e sinceri. Le sue labbra erano sottili e la sua pelle abbronzata quanto quella di Jasmine. Indossava un paio di pantaloni da tuta bianchi e una maglietta viola. L’uomo grugnì. “E’ mia sorella… è un po’ matta, è per questo che non ho mai detto di averla… sai…” si avvicinò all’uomo e gli parlò con tono confidenziale “Stavamo tornando dallo psichiatra quando lei è scappata via ed è arrivata qua” si allontanò, mentre alla ragazza veniva fuori un’improvvisa cascata di risate, data l’espressione facciale che il ragazzo sconosciuto aveva utilizzato. “Ora andiamo. Scusami per il disturbo. Ciao ciao!” esclamò. Prese Jasmine per mano e la trascinò fra la folla. “Riesci a correre?” le domandò poi con un sorriso. La mora cominciava a capire qualcosa della situazione, e si rese improvvisamente conto che il ragazzo era un completo estraneo. Cercò di ritrarre la mano da lui, che la strinse ancora un po’. “Ci sta per correre dietro. Dai, ti porto fuori di qui. Mi sembri una che ha proprio bisogno di una boccata d’aria”. Disse. Jasmine si lasciò andare e lo seguì come in trance fino alle scale, poi su, su, sempre più su, fino a sentire l’aria fresca pizzicarle il viso sudato. Si sentì subito meglio. Inspirò profondamente, poi il ragazzo la trascinò velocemente fino a un parco lì vicino, la fece sedere su una panchina e le chiese di aspettare. Tornò pochi minuti dopo portando con sé una bottiglietta d’acqua. “Tieni, bevi” le offrì. Lei non se lo fece ripetere due volte: afferrò la bottiglia e cominciò a bere avidamente. Lui rise. Aveva una bella risata, sincera, aperta. “Avevi proprio sete, eh?” lei annuì. Sentiva pian piano l’effetto di quella cosa che aveva fumato sfumarsi sempre di più, e un sonno tremendo le stava calando addosso. Si ripromise di tornare a casa prima di addormentarsi, ricordò la promessa che si era fatta, di non tornare più a casa finchè suo padre non si fosse arreso all’idea di lasciarla andare alla festa, e si sfregò gli occhi. “Quanti anni hai?” domandò ancora lui.
“Sedici” rispose lei con la bocca impastata. Bevve ancora un po’ d’acqua “E tu?”
“Io ne ho quasi venti” rispose lui “Li farò il mese prossimo. Come ti chiami?”
“Jasmine”
“Io sono Ali. Piacere di conoscerti, Jasmine” si presentò lui stringendole calorosamente la mano. La ragazza sentì un brivido su per il braccio, e decise che il ragazzo le stava decisamente simpatico. Aveva una bella voce, un tono simpatico, la risata aperta, e il suo viso ispirava subito fiducia. Gli sorrise, e sentì quasi di potersi fidare di lui. Bevve ancora. “Cosa ci facevi al Bazar, Jasmine?” domandò. Lei sospirò un momento, cercando di riordinare le idee. Le sentiva come se fossero un vortice che girava al massimo della velocità dentro la sua testa. Chiuse un momento gli occhi, e quando li riaprì aveva ricomposto il pensiero.
“Volevo far preoccupare mio padre” disse “Lui non mi vuole far andare alla festa che organizza Aurora” Ali annuì divertito “Ariel mi aveva parlato di questo posto, e mi aveva detto che le sue sorelle venivano sempre qui. Quindi sono voluta venire anche io. Ma non riesco bene a capire cosa…”
“Hai fumato una canna.” La interruppe lui, capendo al volo cosa lei stava per chiedergli. Strinse gli occhi osservandolo, senza capire. Lui sospirò stringendosi nelle spalle. “Una canna è… un cannone. Gangia. Maria. Insomma, marjuana. Ed è una droga. Non è forte… ti stordisce solamente un po’. Solitamente fa venire la sensazione di volare.”
“Era quello che volevo” ammise lei.
“L’hai ottenuto” le sorrise “Allora, ti è piaciuto il giro sul tappeto volante?” lei gli sorrise e annuì.
“Credo che me ne abbiano date due, una dopo l’altra. Non so come ho fatto a rimanere in piedi” raccontò “Mi hanno anche dato da bere qualcosa di strano… alcool… si chiamava Sex On The Beach” il ragazzo scoppiò a ridere, e lei incrociò le braccia sul petto, quasi offesa. “Che c’è?”
“Beh, mi fai ridere” ammise lui “Credo di non aver mai incontrato nessuno di più ingenuo di te. Cioè… vai al Bazar, il covo delle persone più depravate di tutta New York, con tutta probabilità non hai mai fumato nemmeno una sigaretta e come prima esperienza ti fai due canne una dopo l’altra, bevendoci addirittura su…! Insomma, sei… sei una bomba, Jasmine” lei lo guardò imbarazzata, sentendosi arrossire.
“Grazie. Ma non sarei riuscita a uscirne bene se non ci fossi stato tu. Grazie”
“Non… non ringraziarmi, non è stato nulla” rispose lui, grattandosi dietro la testa e sorridendo imbarazzato. Jasmine sorrise ancora una volta. Quel ragazzo le piaceva sempre di più. Era simpatico, carino e sembrava sincero. “Tu cosa fai nella vita?” domandò lui improvvisamente, cambiando argomento. Jasmine sorrise.
“Vado a scuola, torno a casa e rimango lì finchè non ottengo il permesso del mio caro padre per uscire con le mie due uniche amiche” alzò le spalle “Sembra che non sia un granchè, lo so, ma è anche peggio di come sembra. Sai, ho il tipo di padre che è spaventato da qualsiasi cosa sia fuori dalle mura che lui ha costruito con sangue e sudore, non accetta in alcuna maniera che io possa uscire e divertirmi.” Il ragazzo annuì.
“Ho capito il genere. Deve essere davvero una noia! Ma… sempre meglio che non averlo, un padre” mormorò cambiando espressione, che diventò triste e abbattuta. “I miei sono morti in un incidente d’auto quando ero troppo piccolo per capire, e da allora ho sempre vissuto in un orfanotrofio… nessuno mi ha voluto adottare, e un paio di anni fa sono uscito con la mia roba e non sono più tornato. Adesso lavoro part – time in un call center e non guadagno proprio niente. Ecco perché ero là sotto… per cercare di trovare qualcosa da mangiare”. La ragazza improvvisamente si sentì toccata dalla semplicità di quel ragazzo, dalla sua malinconia nascosta, dal suo spirito di fuoco sotto tutto il dolore, e gli sorrise sinceramente. Gli prese una mano e lo guardò negli occhi.
“Io non ho più mia madre”. Il ragazzo la osservò per un momento con mille emozioni che gli passavano negli occhi. Era triste, malinconico, confuso, ma era anche speranzoso e felice di aver trovato qualcuno che almeno in parte potesse capire come si sentiva a non avere un genitore. Quell’Ali era davvero straordinario, pensò Jasmine, e improvvisamente si rese conto che tutto il mondo stava girando vorticosamente intorno a lei. Si chiese se fosse ancora l’effetto della droga (ehi, non poteva credere di essersi drogata), ma non se ne curò più di tanto, perché era totalmente concentrata sugli occhi castano scuro di lui. Erano così grandi… sinceri… semplici… e le ispiravano fiducia. Si rese improvvisamente conto che si stavano impercettibilmente avvicinando, piano piano, come tirati uno contro l’altro da un filo misterioso… un ciuffo ribelle gli scendeva sulla fronte, cadendogli sull’occhio. Jasmine era incantata.
Si sentiva totalmente scombussolata, perché improvvisamente si era resa conto anche che se non si fosse fermata subito si sarebbero baciati. E per questo era veramente agitata. Lei non aveva mai baciato nessuno. Molte volte ne aveva parlato di nascosto, sotto le coperte con una torcia accesa, con Ariel e Aurora. Ariel si vantava di aver già baciato qualcuno, ma a dire la verità, era stato solamente il suo cane Sebastian. Aurora era quella con più esperienza di tutte, essendo la più bella fra loro. Non si vantava mai, ma una volta aveva ammesso di aver baciato tutti e tre i ragazzi con cui era stata insieme, e aveva anche baciato Eric, la sua recente conquista. Jasmine molte volte aveva guardato film o cartoni animati in cui le persone si baciavano più o meno appassionatamente. Ma non sapeva assolutamente come si desse un bacio, e improvvisamente si sentì così ignorante sulla materia da pensare di allontanarsi da Ali e correre via. Ma c’era un’altra vocina dentro di lei, piccola e stridula, che si faceva strada nel suo cervello. Non aveva mai sentito una vocina del genere, ma le stava dicendo di rimanere, di non andarsene, perché finalmente aveva trovato la persona di cui le sue labbra agognavano il tocco. La vocina le diceva che era lui quello giusto, era lui quello che lei avrebbe voluto baciare da tutta la vita. Si sentì totalmente spiazzata, quando avvertì del movimenti mai esistiti prima nel basso ventre, e quasi si spaventò quando si rese conto che il suo corpo stava reagendo con così tanta violenza alla mano di lui che le sfiorava il fianco. Non si era mai sentita meglio e nemmeno peggio.
Erano vicini. Erano pericolosamente vicini. Suo padre l’aveva sempre messa in guardia dagli uomini che si avvicinano troppo, descrivendoli tutti come depravati che volevano solamente “quella cosa”, anche se Jasmine non aveva la più pallida idea di che cosa fosse “quella cosa”. Ma nei film le donne si facevano baciare con facilità, senza alcun problema… molte cose presero forma nella sua mente nello stesso istante, in quei pochi secondi in cui i due si stavano avvicinando.
Le venne in mente un film che aveva visto molti anni prima, in cui i protagonisti si erano dati un umido bacio appassionato. Quando suo padre l’aveva scoperta davanti alla televisione, l’aveva messa in punizione per un mese. Pensava che i baci si dessero così, anche se nei cartoni animati erano totalmente differenti. Capì immediatamente che il padre voleva evitare proprio questo, quando si era inventato qualcosa per cui lei non poteva fare educazione fisica. Sentì nel cuore un’ondata di desiderio di libertà, di Ali, del suo profumo e della sua pelle sulla sua, anche se non capiva esattamente in che senso. L’istinto era troppo forte. Si dimenticò che era scappata di casa, che era dall’altra parte della città e che era stata nel Bazar, un luogo sotterraneo in cui si mescolavano alcool e droga. Si dimenticò di essere salita sul palco sul quale una ragazza già vista, coi seni a punta, ballava in maniera sensuale. Si dimenticò chi era, come si chiamava e da dove veniva, sentendo l’odore pungente di spezie che aleggiava intorno al ragazzo. Ebbe il desiderio di affondare il naso nel suo petto e aspirare quell’inebriante profumo. Qualcosa, dentro di lei, le diceva che lo voleva, che lui era la persona che aveva sempre aspettato, che i loro cuori battevano in sintonia e che lui poteva capire come si sentiva.
Socchiuse gli occhi. Ormai erano vicinissimi. L’unico pensiero che balenò nella mente di Jasmine in quel momento, a cui lei non diede peso per non rovinare oltre le sensazioni che le scorrevano sul corpo una dopo l’altra, fu: “Baciami con passione”. Schiuse le labbra…
“Signorina Jasmine?!” esclamò una voce melliflua fin troppo vicina a lei, fin troppo reale. Jasmine si girò di scatto, con gli occhi spalancati. Ali si ritrasse imbarazzato, alzandosi in piedi d’istinto e portando la mano dietro la testa.
“TU?!” Jasmine era senza fiato. Jaff… proprio lì, davanti a lei, il caposala di suo padre, l’uomo alto e magro, con quei baffi e quella barbetta che sembravano propri del demonio, che con la sua voce suadente e i toni sempre ossequiosi riusciva a manovrare il padre come voleva. “Cosa… cosa ci fai qui?!” Ali alzò lo sguardo e subito sgranò gli occhi.
“Jafar?!” balbettò, per poi tossire. L’uomo sorrise unendo le mani sul petto.
“Proprio io” sorrise un momento maleficamente, poi tossicchiò e riprese il suo solito tono ruffianamente disgustoso. “Ma signorina Jasmine, cosa ci fa lei qui, in mezzo a un parco, con un…” storse il naso “Un ragazzo di strada. Un reietto. Uno scarto della natura”.
“Non è uno scarto della natura, si chiama Ali! E mi ha salvata da…” provò a protestare la ragazza, ma quando vide lo sguardo di Ali ammutolì spaventata. Fra lui e Jaff non c’era solo imbarazzo e antipatia, ma ciò che Jasmine lesse negli occhi di entrambi era odio puro.
“Ci conosciamo già” ringhiò il ragazzo “Mi ricordo di una volta, non troppo lontana, in cui mi fu rifiutato di lavorare alla Reggia del Sultano come lavapiatti perché arrivavo da un orfanotrofio! E tu!” esclamò puntando il dito verso la ragazza “E tu sei la figlia di quel… Sultano?! Chi l’avrebbe mai detto!”
“Già, e credo che il Sultano non sarà per nulla compiaciuto nel sapere che la sua adorata figliola va a offrire piaceri a coloro che non dovrebbero fare altro che gli sguatteri.” Commentò Jaff. Poi si allungò e afferrò un polso di Jasmine. “Iago!” chiamò poi, e l’autista della loro Jaguar apparve dalle foglie del parco. La ragazza non sapeva più come sentirsi. La serata si era ribaltata in vari modi diversi, e uno strano presentimento le diceva che il peggio stava ancora per venire. Iago, un uomo grosso quanto stupido, afferrò Ali che cercava di saltare al di là della panchina senza successo, e lo trascinò con sé. Jaff tirò una Jasmine urlante fino alla macchina, su cui fu sbattuta al fianco di Ali. Le portiere si chiusero con uno schiocco sonoro, dopodiché l’auto partì. Jaff disse qualcosa in arabo a Iago, che Jasmine non capiva. Era di origini arabe, ma avendo vissuto per tutta la vita in America non conosceva alcuna parola se non le denominazioni dei cibi. La ragazza era preoccupata. Non sapeva cosa aspettarsi. Allungò la mano per sfiorare quella di Ali, che le lanciò uno sguardo stupito. Si guardarono negli occhi per un lungo momento. Lei cercava di chiedergli scusa, era dispiaciuta e non voleva che lui pensasse male di lei. Lui era ferito, sorpreso e arrabbiato, ma le fece un sorriso tirato per farle capire che non ce l’aveva con lei. Sapevano entrambi che non potevano andare oltre a quel leggero tocco, ma tanto bastava.
Per tutto il viaggio in auto, Jasmine cercò di racimolare tutta la chiarezza mentale di cui disponeva, cercò di far tornare nel cuore la determinazione e le parole che avrebbe voluto dire al padre il giorno dopo, quando avrebbe voluto tornare a casa. Cercò di trovare i modi giusti nella sua mente, tentò in ogni maniera di trovare la calma, perché sapeva bene che senza non avrebbe ottenuto nulla, nemmeno il perdono per essere fuggita da casa. Allo stesso tempo, cercava di trovare altre parole, ancora nascoste nella sua mente, per far capire al padre la cattiva influenza che Jaff aveva su di lui. Avrebbe anche voluto saperne di più su Ali che si era presentato alla Reggia per chiedere di diventare lavapiatti, e sul perché era stato rifiutato. Non riuscì a parlare per tutto il tempo.
La Jaguar posteggiò esattamente davanti al ristorante, e Jaff scese per primo, per poi afferrare di nuovo il sottile polso della ragazza.
“No!” esclamò lei, tendendo l’altro braccio per toccare Ali “Ali!”
“Jasmine!” urlò lui, con voce piena di disperazione. Ma Jaff e Iago ebbero la meglio, la ragazza si ritrovò contro il petto del caposala e vide la portiera chiudersi davanti a lei. L’ultimo sguardo che Ali le lanciò era quello che la ragazza si sarebbe ricordata per sempre: uno sguardo sconfitto. Jaff la trascinò dentro il ristorante ormai vuoto, e con la coda dell’occhio Jasmine vide che l’orologio nella sala segnava le tre e mezzo di notte. L’uomo accese la luce, la ragazza sentì dei passi affrettati giù per le scale e infine spuntò suo padre, con gli occhi rossi e gonfi di chi ha pianto a lungo, i capelli scarmigliati e la camicia sbottonata e messa molto male.
“Sultano, le ho riportato…”
“Jasmine!” esclamò il padre della ragazza “Gioia mia!” la abbracciò forte a sé, ma la ragazza non ricambiò l’abbraccio, convinta di ciò che voleva fare. “Sei sparita nel nulla… improvvisamente non eri più nella tua stanza, c’era il tuo cellulare sul letto, e… ma dove sei stata? Oh, gioia mia”
“Papà, dobbiamo parlare.” Disse lei freddamente. Poi puntò il dito contro Jaff “Quest’uomo mi ha presa… quasi catturata… e con me un ragazzo, che…”
“Il ragazzo stava cercando di…” Jafar tossicchiò “Sono sicuro che lei mi potrà capire, signore”.
“Che cosa?!” strillò l’uomo “Io non permetto che qualcuno tocchi mia figlia in modo volgare!”
“Non mi ha nemmeno sfiorata!” protestò Jasmine.
“Quando sono arrivato, la stava spingendo sulla una panchina in un parco…”
“Su una panchina?! In un parco?!”
“Non è assolutamente vero!” ruggì la ragazza, ma nessuno la ascoltò. Si sentiva completamente ignorata.
“Portatelo alla polizia, sarò io stesso a pagare l’avvocato per mandarlo in galera!”
“Certo, come desidera, signore…”
“Lui mi ha salvata” urlò Jasmine con tutto il fiato che aveva in gola. Il padre si girò verso di lei e la guardò ferito e sorpreso “Ero andata al Bazar” ammise in fine “Da sola. Perché volevo dimostrarti che mi tieni troppo chiusa in casa. La mia vita non può girare semplicemente intorno al ristorante! Io sono una persona, papà, non posso certo restare qua dentro senza avere un ragazzo, o un’amica, o senza andare a nessuna festa da nessuna parte… volevo solo dimostrarti che so cavarmela! Che posso farcela!”
“Lui ha cercato di…”
“Lui non ha cercato di fare niente. L’unica cosa che ha fatto è stata prendermi una bottiglia d’acqua quando avevo molta sete, e tirarmi fuori da un gran guaio nel quale mi stavo cacciando, e…”
“Io, signore, ho visto quel che ho visto” insistette il caposala “E lei sa che io non direi mai una bugia a vossignoria. Il ragazzo è lo stesso che era venuto per fare il lavapiatti qualche mese fa, si ricorda? Sicuramente voleva farci un torto facendo del male a sua figlia dopo che l’avevamo rifiutato, in modo da poterci ricattare a suo piacimento”.
“Lui non sapeva nemmeno chi ero!” Jasmine era esasperata.
“Non voglio sentire più ragioni. Vai subito in camera tua. Provvederò ad attivare l’allarme di sicurezza” borbottò il padre dirigendosi verso la cassa, su cui c’era il telefono del ristorante. La ragazza si sentì sprofondare. Suo padre non attivava mai l’allarme, la zona in cui vivevano era una delle più ricche e nessun ladro osava mettere piede nel giardino della Reggia del Sultano. Mentre Jasmine ancora boccheggiava dalla delusione e cercava di mandare giù l’aspro sapore della sconfitta, a Jaff squillò il cellulare. Rispose e disse poche parole, per poi rimettere il telefono in tasca e guardare il Sultano profondamente, senza degnare la ragazza di un’occhiata.
“Iago l’ha portato alla polizia. Hanno detto che conoscono già i suoi crimini. Starà là dentro per tutto il resto della sua vita. lo manderanno in un carcere di massima sicurezza”.
Jasmine non riuscì più a trattenersi. Sentì le lacrime arrivarle agli occhi, i muscoli tendersi fino a farla tremare. Il labbro inferiore cominciò a muoversi. Si sentì una fallita, una bambina inutile e senza importanza. Non c’era mai stato qualcosa che lei desiderasse più della libertà di poter uscire di casa come voleva, e l’unica volta nella sua vita in cui l’aveva fatto aveva trovato qualcosa che aveva scoperto di desiderare ancora di più della libertà. Si rese improvvisamente conto che i mille sogni che erano passati nel suo inconscio senza che la sua mente li esprimesse erano stati infranti ancor prima che potessero diventare ciò che avrebbero dovuto essere: desideri. Sapeva che non avrebbe mai potuto dimenticare quel ragazzo che per quella piccola frazione di tempo l’aveva fatta sentire così bene, così adatta, così in pace col mondo, quel ragazzo che le aveva provocato le sensazioni più forti che avesse mai provato. Jasmine non era mai stata innamorata in vita sua, e nessun ragazzo le aveva mai dato una benché minima emozione che non fosse ilarità o compassione. Ma questa volta sentiva che qualcosa era cambiato nel suo profondo, capì che per la prima volta nella sua vita il suo cuore batteva per qualcuno, agognava qualcuno, desiderava maledettamente qualcuno. Sapeva che nessuno era come Ali, quant’è che ogni singola goccia d’acqua è diversa una dall’altra. Sapeva che il suo desiderio non si sarebbe mai estinto e sapeva che non avrebbe mai potuto trovare qualcuno che le desse simili emozioni. Jasmine si era resa conto che improvvisamente non era più una bambina, e il suo corpo gliel’aveva urlato a pieni polmoni mentre era con il ragazzo che ora era in qualche cella. Jasmine lo desiderava non come una ragazzina desidera un giocattolo, ma come una donna desidera un uomo. Lo desiderava accanto a sé ogni giorno, desiderava il suo profumo speziato, desiderava ballare sensualmente davanti a lui, desiderava sentire il suo respiro sulle sue labbra, voleva sentire la sua bocca sulla sua, desiderava sentire il suo corpo, la sua pelle color caffelatte premuta sulla sua, desiderava, per la prima volta nella sua vita, fare l’amore con qualcuno. E all’improvviso aveva anche capito cosa significasse “quella cosa”, quello che stava facendo e ciò che le stava chiedendo il suo ventre quando stava per baciarlo.
Girò sui tacchi, che risuonarono sul pavimento di marmo della sala. Urtò suo padre, che si era girato a guardarla. Salì le scale velocemente, spalancò la porta di casa e poi quella della sua camera, che poi chiuse fragorosamente e a chiave. Si tolse la maglia, le scarpe, i jeans con forza e si lasciò cadere sul letto, piangendo lacrime amare di sconfitta.


Jasmine non si era ancora calmata quando suo padre bussò alla sua porta. Non sapeva che ore fossero, e non le importava. Era sdraiata sul letto da ore, minuti, giorni, non sapeva dirlo.
“Jasmine… gioia mia, fammi entrare” domandò suo padre con tono calmo e affettuoso. La ragazza non rispose. Rimase con la testa affondata nel cuscino. “Perla mia… ti prego… fammi entrare”.
“Non voglio vederti mai più” gracchiò lei “Mi hai rovinato la vita” sentì un sospiro dall’altra parte della porta di legno, poi sentì la chiave di scorta entrare nella serratura e aprirsi. Si ricordò improvvisamente che non aveva privacy nemmeno nella sua stanza. Si rese conto di essere controllata in ogni secondo. Suo padre entrò titubante. Rajah, che si era accoccolato vicino al fianco di Jasmine, saltò via e si diresse verso la cabina armadio.
“Ma, gioia mia… copriti” balbettò il padre notando che la ragazza era a petto nudo.
“Non ne ho voglia e non mi importa” rispose lei. Il Sultano sospirò e si sedette accanto a lei. “Non mi toccare” lo minacciò la ragazza. Lui si sedette con le mani intrecciate in grembo. Sospirò un paio di volte, poi decise di parlare.
“Vedi, gioia mia, quando è morta tua madre mi sono sentito talmente in colpa.” Mormorò “Mi sono sentito come un pesce fuor d’acqua, e l’unico senso della vita che mi era rimasto eri tu. Io ho sempre avuto paura che prima o poi qualcuno ti avrebbe portata via da me come era successo per tua madre. Io non volevo condividerti con nessuno. Non voglio che tu corra pericoli. Voglio che ti sposi con un uomo per bene, certo, ma non voglio che ti succeda qualcosa di male. Io non posso sapere se la persona che desidererai sposare un giorno ti tratterà male, abuserà di te in qualche maniera o ti tradirà. Io voglio solamente il meglio per te. È per questo che quando ho incontrato Jafar, così a modo, così ricco, così gentile e così attaccato affettivamente alla nostra famiglia ho deciso di prometterlo a te come sposo” Jasmine, sconvolta, si mise seduta indietreggiando verso il muro, senza curarsi di coprire i seni. Era inorridita. Jafar e lei? Quell’uomo che aveva il doppio dei suoi anni doveva diventare suo marito, l’uomo che lei avrebbe dovuto compiacere in ogni maniera?
“Tu non puoi…”
“Ho deciso così, Jasmine. E così tu farai. L’unica cosa che posso fare è aspettare che tu abbia la maggiore età, in quel momento firmeremo il vostro matrimonio, che tu lo voglia o no. È per il bene della nostra famiglia. Del ristorante. Tuo e mio.” Fece una pausa, poi si alzò e si avvicinò alla porta per uscire “Puoi andare a quella festa” disse infine.
Jasmine lo maledì mentalmente. Le aveva rovinato la vita in una notte. E l’ultima cosa che avrebbe voluto in quel momento era andare a quella stupida festa.
C’era una sola cosa che lei desiderava veramente in quel momento.
E quella cosa era Ali.













NdA: buongiorno a tutti! Mi cimento con una nuova storia, spero che vi piaccia e che lasciate un commentino ^.^ Non so ogni quanto aggiornerò, il tempo potrebbe andare dalle due settimane al mese. Abbiate pazienza! Cercherò almeno di essere costante! :) Ovviamente però non andrò avanti se non riceverò commenti; in quel caso via la storia e via tutto perchè sarebbe a dire che non è interessante :) Perciò se vi piace fate quel piccolo sforzo, per piacere.
Grazie per la lettura, spero a presto!
Nymphna

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Capitolo 2
*** 2 - Cindy. ***


 

Capitolo 2, Cindy.
(da sabato 12 a sabato 26 giugno)

 

 

La campanella dell’High School più prestigiosa dell’isola di Manhattan stava suonando e un’ondata di studenti stava salendo le scale di marmo diretta alle loro classi, tutti in divisa e perfettamente pettinati. Non c’era traccia di stanchezza nei loro visi, solo occhi luminosi e lucenti sorrisi per l’arrivo delle vacanze estive: era l’ultima settimana di scuola. C’erano quelli preoccupati, quelli paranoici, quelli ansiosi e quelli rilassati. Ma ce n’era solo una che aspettava con gioia quel giorno: quella ragazza era Cindy, che stava salendo le scale due a due sulle sue ballerine, trascinandosi dietro la borsa, leggermente scompigliata ma perfettamente in orario.
Cindy era pronta ai test finali da mesi, e aveva saltato la scuola abbastanza volte perché fosse costretta a presenziare agli ultimi test. Voleva godersi ogni minuto, ogni risposta e ogni sguardo delle persone intorno a sé quando sarebbe uscita dall’aula, perché metteva piede fuori da quella scuola per non tornarvi più, così come a New York. Sapeva che il giorno dei test avrebbe significato la sua libertà, la sua fuga, il suo nuovo mondo aperto a mille nuove aspettative e finalmente se ne sarebbe andata da quella casa tanto odiata quanto amata. E non vedeva l’ora.
Entrò in classe quando l’ultima nota della campanella si spense, si sedette al suo banco esattamente davanti alla cattedra e attese che il professore facesse l’appello. Quando giunse il suo nome alzò la mano con un gran sorriso, prese il suo quaderno e le sue penne e si mise a prendere appunti. Le piaceva studiare. I professori l’avevano sempre descritta come una ragazza attenta e attiva in classe, una che non lasciava spazio a dubbi e lacune, intelligente e pronta nelle risposte. Si erano chiesti molte volte perché la sua matrigna uscisse sempre da scuola col broncio, ogni volta che si sprofondavano in elogi per la figliastra, ma a Cindy tutto ciò non faceva effetto da un sacco di tempo.
Come ogni volta seguì la lezione con attenzione e dedizione, ponendo domande e fornendo risposte, guadagnandosi qualche altro commento dal resto della classe come “la secchiona”. Cindy non si sentiva affatto una secchiona, ma le piaceva molto essere chiamata così. Semplicemente, indicava che lei amava impegnarsi per la scuola e usufruire di quell’intelligenza vivace di cui disponeva da quand’era piccola. Suo padre l’adorava, quando ancora era in vita. E lei sapeva bene che la matrigna la trattava così male e aveva sempre qualcosa da ridire per il semplice fatto che la invidiava profondamente per essere venuta al mondo più bella, intelligente, spiritosa e talentuosa delle sue due figlie. Inizialmente, quando Cindy era piccola, aveva molto sofferto quando le avevano preso tutti i suoi vestiti più belli, i suoi piccoli tesori, la sua stanza e quando in seguito avevano cominciato a costringerla a fare le pulizie domestiche senza alcun aiuto, caricandola sempre più di doveri e trovando in lei la colpa della loro miseria sempre crescente. Quand’era cresciuta aveva capito che non doveva provare rancore nei loro confronti, ma solo pena e riserbo, perché non si accettavano così com’erano, rendendo la vita impossibile a chiunque avesse qualcosa in più.
Erano fatte proprio di un’altra pasta.
Cindy, dal canto suo, non invidiava affatto le persone più ricche o le ragazze normali, che non dovevano muovere un dito per togliere la polvere dal tappeto del salotto o per curare il grande giardino, piuttosto sperava che anche lei, un giorno, si sarebbe trovata con una casa tutta sua da curare quando e come voleva; sperava di avere un posto nel mondo in futuro e di non essere più trascurata come lo era stato per anni. Fortunatamente c’era anche la sua zia madrina canadese, che a volte le veniva a fare visita e le aveva promesso una stanza nella sua residenza di Vancouver. E la ragazza non vedeva l’ora che quella settimana finisse, perché a giorni se ne sarebbe andata via dalla matrigna e dalle sorellastre. Con un pensiero un po’ egoista pensò che finalmente avrebbero dovuto imparare a cavarsela da sole, ma si corresse subito mentalmente e si augurò che ce la facessero.
La campanella di fine ora suonò e, mentre usciva dall’aula di storia diretta in quella di francese, venne affiancata dalla sua unica amica Belle, una ragazza castana con un viso dolce e simpatico. Avevano cominciato a frequentarsi solo qualche mese prima, ma si erano trovate sulla stessa lunghezza d’onda e si erano piaciute. Cindy non aveva molto tempo da passare con lei, ma la ragazza non ne faceva un problema.
“Come va oggi?” le domandò gentilmente.
“Tutto a posto come sempre” le rispose Cindy con un sorriso “Oggi è un’altra giornata impegnata”
“Sta per finire tutto, comunque. E non vedo l’ora di andarmene da qua, non ce la faccio più.” sbuffò “Trovo le persone troppo banali, troppo stereotipate. Vorrei qualcosa di più… nouveau.” La bionda le sorrise e si fecero insieme largo fra la folla dei ragazzi che cambiava classe per andare a seguire la materia successiva oppure che andavano a rilassarsi in giardino o nella Sala Relax. Raggiunsero le scale. “Hai sentito ciò che si dice in giro?” le domandò la castana, e Cindy scosse la testa “Me l’ha detto una ragazza che fa storia con noi, la conosci? Si chiama Jane”
“Si, ce l’ho presente, è quella che sta sempre vicino alla finestra, giusto?”
“Esatto. È simpatica.” Commentò ancora Belle. Jane era un’inglesina arrivata all’inizio dell’anno scolastico, goffa e socievole, con grandi occhi blu simpaticissimi. “Comunque, ha detto che ha sentito dire che delle ragazzine del terzo anno stanno organizzando una festa. Dicono che inviteranno tutta la scuola”
“Seicento persone in una casa?!” esclamò Cindy sorpresa, guardando l’amica con stupore.
“Già, ma non è una casa, è un castello. Si parla di Aurora, la reginetta del ballo, la campionessa di pallavolo, la ricchissima ereditiera del consigliere politico Stefano, quell’italiano approdato in America qualche anno fa” descrisse mentre raggiungevano la classe.
“Sembra che sia proprio qualcosa in grande, allora” disse la bionda. Poi si separarono e si sedettero ognuna al suo posto per la lezione.
A Cindy il francese era sempre piaciuto, e riusciva a parlarlo con facilità. In fondo, sua madre era canadese e probabilmente le era rimasto qualcosa di quel posto, anche se lei non c’era più da moltissimo tempo. Era morta prematuramente, quando ancora lei era troppo piccola per potersela anche solo ricordare, da una terribile malattia che l’aveva strappata alla vita lentamente, con mille sofferenze. Ricordava che spesso il padre guardava le ciocche dorate dei capelli materni, piangendo e disperandosi, ricordando quando li aveva persi per quel terribile male. Ma la ragazza non aveva mai visto la madre nei suoi momenti peggiori, il suo unico ricordo erano le fotografie di una donna giovane ed energica, alta e snella, sempre sorridente, una maestra di scuola elementare con la pelle chiara, i capelli color oro e gli occhi verdi. Era l’unica cosa che Cindy non aveva preso da lei ma da suo padre: due grandi occhi azzurri.
Aveva sofferto molto nella sua vita, ma continuava a essere convinta che prima o poi tutto sarebbe andato al suo posto e lei sarebbe riuscita a trovare una casa, un impiego, magari anche l’amore e una famiglia. Tanti dicevano che non erano grandi pretese, ma a lei sembravano abbastanza ambiziose da avere delle difficoltà. Sapeva di tante ragazze che venivano lasciate dai loro fidanzati che fino al giorno prima confessavano amore eterno, e la ragazza si sentiva di affermare che solo andarsene dalla casa paterna era qualcosa di faticoso e sofferto, obiettivo che in breve avrebbe finalmente raggiunto.
Belle, accanto a lei, le passò un foglio rosa a quadretti, tipico dell’amica, su cui c’era una riga scritta nella sua maniera elegante. Come va con quel ragazzo?, le chiedeva il foglio. Bella domanda. In realtà non lo sapeva nemmeno lei. Erano ormai passate due settimane, ma solo a leggere quella definizione, “ragazzo”, Cindy sentì il cuore gonfiarsi di tenera passione. Sospirò, e senza volerlo cadde nei ricordi di una dolce sera primaverile.


Era una giornata luminosa, con un cielo azzurro che raramente Cindy aveva visto. Era in quella giornata che la sua matrigna e le sue sorellastre si erano imbucate a un’elegante festa dell’élite di Manhattan, a cui erano state invitate tutte le famiglie più in vista per conoscere lo scapolo dell’anno, il giovane Leroi, colui che avrebbe ereditato, alla morte del padre, un’agenzia petrolifera che gli avrebbe fruttato alcuni miliardi l’anno. A dire la verità, a quella cena era stata invitata Cindy in persona, ma la matrigna, invidiosa del suo invito personalizzato, aveva fatto di tutto per chiuderla nella sua camera per non farla uscire fino al loro ritorno, in modo da far conoscere al ragazzo le sue figlie. Cindy aveva già rinunciato all’idea di partecipare. Non che fosse stato il suo più grande desiderio, sperava solamente di potersi svagare un po’ per una volta, in fondo non era mai andata a una festa, e in quanto diciottenne aveva una gran voglia di conoscere il mondo fuori dalle quattro mura della sua casa. Quando si era trovata perfettamente pronta ma chiusa nella sua camera si era arrabbiata molto, ma aveva deciso di lasciar perdere: la vita le avrebbe dato un’altra occasione di sicuro. In quella aveva chiamato la sua zia madrina, che sapeva dell’evento e che aveva trovato decisamente ingrato, cattivo e disonesto che le sorellastre e la matrigna fossero andate alla festa senza portarla. Così, decisa a non lasciare la sua amata nipotina ai margini degli eventi, era riuscita a contattare un ladruncolo che aveva scovato chissà dove e l’aveva costretto a liberare la fanciulla, per poi scortarla personalmente all’hotel dove si teneva la festa. Per Cindy era stata un’esperienza turbolenta.
La festa si svolgeva in un attico in cima a un palazzo altissimo, dal cui balcone si vedeva tutta la città. Non era mai stata in un posto così alto ed elegante in vita sua. La stanza era stata tramutata in un Lounge Bar, e il bancone tondo era stato creato da un acquario in cui nuotavano pesciolini colorati. Il luogo era semplicemente favoloso, e la ragazza si era sentita goffa e sgraziata in confronto a tutte le ragazze che popolavano il piano. Sembravano tutte uscite da una rivista patinata con abiti di uno stilista famoso, e lei si era sentita un nulla al confronto. Ma poco dopo era scoccata l’ora della magia.
Mentre si aggirava per la zona, con un moscato in una flute in mano, guardando fuori dalle mura di vetro la città al tramonto, le si era avvicinato il ragazzo più bello con cui lei avesse mai avuto a che fare. Era un ragazzo di una quindicina di centimetri più alto di lei, con un perfetto fisico delineato e asciutto, due profondi occhi scuri e i capelli castano scuro. Aveva una voce gentile e si era comportato come il più galante dei principi con lei. Prima della fine della serata erano mano per mano, avevano ballato insieme per ore, si erano mormorati segreti divertenti e scabrose realtà, poi lui l’aveva portata in una stanza da letto adiacente e l’aveva baciata, lontano da tutti quanti. Il contatto con le labbra del ragazzo era stato una sorta di shock per Cindy, che aveva scoperto che esistevano ragazzi galanti e beneducati, che baciavano da dio e con i capelli scuri. Sarebbe voluta restare fra le sue braccia per sempre.
Ma mentre la situazione stava virando al bollente, la ragazza aveva sentito l’orologio digitale a fianco del letto che suonava la mezzanotte e si era resa conto che la sua matrigna e le sue sorellastre non sapevano che lei era uscita di casa, e se non l’avessero trovata avrebbe potuto dire addio a qualsiasi altra uscita per il carico di lavoro eccessivo. Così lasciò il ragazzo sul letto, ansante e con la camicia sbottonata, sbattendosi la porta dietro e correndo verso casa. Si accorse troppo tardi che nella foga della fuga aveva lasciato nella camera una scarpetta col tacco, il paio migliore che aveva, quelle che le aveva regalato sua zia. Mentre apriva la porta di casa per entrare silenziosamente, si era anche resa conto che non sapeva il nome di quel fantastico ragazzo che l’aveva lasciata senza fiato in mille modi, e si diede della stupida per non avergli nemmeno chiesto il numero di telefono, ma poi lasciò correre e pensò che probabilmente sperare di incontrarlo di nuovo sarebbe stato chiedere troppo. Ma non si era più dimenticata di quel ragazzo meraviglioso che le aveva fatto battere il cuore.
Si era ben presto accorta che quel ragazzo le tornava in mente a intervalli regolari ogni quattro o cinque secondi, che cercava il suo sguardo a scuola, passava minuti interi a guardare fuori dai muri a vetro del cafè in cui lavorava e lo sognava persino di notte. Quasi si vergognava, ma qualche volta, mentre era sola, si era sorpresa a intrattenere immaginarie conversazioni con lui sottovoce, bisbigliando parole e toni che avrebbero usato entrambi in quel caso. Ma poi si dava della sciocca e tornava a lavorare. Poi passavano quei due o tre minuti di tranquillità, quando qualcuno le faceva notare che stava canticchiando la canzone che avevano ballato insieme. Certo, non che Everytime we touch fosse una canzone priva di atmosfera, ma addirittura intonarla nel mezzo di una lezione di scienze!
Era così passata una settimana. Esattamente il settimo giorno dalla festa, un sabato, Cindy stava lavorando alla Dream’s House, il fast food – cafè – bar dell’angolo in cui lavorava come cameriera, e stava servendo due cheesburgher e due cole a due ragazzi che parevano maiali, quando aveva sentito il campanellino della porta suonare. Si era girata con un sorriso -era l’unica che serviva ai tavoli e che accoglieva i clienti, quel giorno- cosa che si era tramutata ben presto in un’espressione di sorpresa. Davanti alla porta di quel locale decente ma non certo elegante, in piedi di fronte a lei, c’era quel ragazzo. Le pareva ancora più bello di come lo ricordasse. I capelli si arricciavano delicatamente in fronte, formando un’onda ripiegata su se stessa, gli occhi scuri e ironici guizzavano sui tavoli cercandone uno libero, poi mosse le lunghe gambe muscolose e si avvicinò al tavolo che aveva scorto in un angolo, il più isolato, quello che solitamente sceglievano le coppie clandestine o innamorate, chi aveva affari privati da sbrigare e qualche ragazzo a studiare tranquillamente. Non poteva credere che proprio lui fosse lì in quel momento, che fosse seduto a quel tavolo. Doveva essere sicuramente una coincidenza. Doveva assolutamente essere un caso. Quel ragazzo non poteva essere lì per lei, si disse, cercando di scendere dalle nuvole. La sua mente era volata a una visione decisamente troppo romantica per essere la realtà. Si era vista prendere una pausa, sedersi davanti a lui con fare accattivante, vestita alla moda, con una sigaretta in mano e profumata di Chanel n°5. E lui ovviamente la pregava di dirle come si chiamava, dove abitava, cosa faceva… ma lei resisteva. Fu la visione fugace di qualche millesimo di secondo, perché il proprietario, Garth, un omone grande e grosso che comandava tutti a bacchetta, urlò qualcosa e lei fu costretta a muoversi. Si fece coraggio, sospirò profondamente, chiuse i pugni tenendo il vassoio sottobraccio e si avvicinò a passo di marcia al tavolo, perdendo decisione ogni dieci centimetri. Si rese conto di avere il viso stanco e gli occhi rossi, una semplice camicetta azzurra con le maniche troppo corte per poter arrivare al polso e un paio di pantaloni marroni che era riuscita a ricavare da una vecchia giacca del padre, le ballerine erano rotte e vecchie. Non era pettinata né tantomeno truccata, e proprio in questo modo si stava presentando al ragazzo dei suoi sogni. Decise di non pensarci, lui sicuramente aveva un’altra ragazza del suo rango, della sua eleganza, del suo stesso stile…
“Ciao, e benvenuto alla Dream’s House” lo salutò a macchinetta, senza guardarlo, prendendo dalla tasca del grembiule rosa acceso che faceva a pugni con tutto il suo vestiario una penna e un taccuino “Cosa vuoi ordinare?” il ragazzo soffocò una risata.
“In realtà non sono venuto perché ho fame” le rispose con la sua voce profonda ma non troppo, dolce, ironica, decisa, sensuale… Cindy cercò di frenare le emozioni e lo guardò con aria interrogativa “Sei la ragazza della festa, ti ho riconosciuta” disse ancora lui, mentre la ragazza spalancava gli occhi e deglutiva, ammutolita. Possibile che si ricordasse di lei? “Si, sono giorni che passo da queste parti per cercarti, una settimana intera che chiedo a tutti se ti conoscono. Per fortuna ti ho incontrata” le fece un sorriso quasi timido, mentre gli occhi brillavano. La ragazza boccheggiò.
“Io?” domandò infine. Non riusciva a credere che quel ragazzo stesse cercando proprio lei.
“Si, tu” confermò con gli occhi che scintillavano d’ironia e soddisfazione “Quella sera eri tu alla festa, no? E allora è te che cercavo. Ti riconoscerei fra mille. Non so nemmeno come ti chiami, so solo che desideravo parlarti ancora. E ciò che desidero solitamente ottengo… ricorda, sono io che ho in mano l’azienda petrolifera più potente d’America” la ragazza si schiarì la voce, cercò di trovare contegno e di ignorare le guance bollenti e lo specchio lì accanto, se avesse visto il suo viso paonazzo avrebbe perso qualsiasi freno.
“Allora… ordini qualcosa?” domandò ancora.
“Prendo un caffè macchiato e una ciambella alla crema, per piacere” rispose lui incrociando le braccia e lasciandosi scivolare leggermente sulla panca imbottita, guardandola con un’espressione da bambino a cui è stata negata una caramella, ma gli occhi dicevano ben altro.
“Arrivo subito” disse Cindy, poi corse verso Megan, la ragazza al bancone. “Una ciambella alla… alla…” la mora alzò un sopracciglio “Oh, merda” disse poi, porgendole il foglietto. Fece del suo meglio per non girarsi a guardare con che faccia la stesse guardando il ragazzo. Sentiva il suo sguardo divertito sulla schiena e non voleva assolutamente sapere con che occhi la fissava.
“Cindy!” esclamò la ragazza “Non ti ho mai sentita dire qualcosa di così volgare come ‘merda’. Che ti è successo?”
“Niente, dammi solo le cose e lascia perdere” continuò “Non è niente, mi è solo… sfuggita”. L’altra annuì e le consegnò il maxi bicchiere di carta che conteneva il caffè e un piattino con la ciambella. Cindy afferrò tutto e posò le cose sul vassoio, poi si incammino con un sospiro profondo verso il tavolo in cui il ragazzo aspettava. Senza una parola gli appoggiò la bevanda e il dolce davanti, mentre lui studiava con attenzione ogni suo movimento. “Fanno quattro dollari e trenta” disse poi, porgendogli il foglietto su cui aveva scritto velocemente il prezzo. Il ragazzo prese il portafoglio dalla tasca posteriore dei suoi jeans firmati Dolce&Gabbana, lo aprì e appoggiò sul tavolino una banconota da dieci dollari, senza togliere la mano. Cindy aspettò qualche secondo che lui distogliesse la mano, attenta a non guardarlo, poi si rese conto che la stava prendendo in giro e alzò gli occhi che si incrociarono con quelli di lui. Aveva un sorrisetto furbo che gli incurvava le labbra perfette. Deglutì.
“Pago solo se mi dici il tuo nome” la provocò.
“C – Cindy” balbettò lei. Il ragazzo lasciò i soldi e lei li afferrò stringendoseli al petto.
“Tieniti il resto, Cindy” disse lui garbatamente “In ogni modo, io mi chiamo Christopher, e sono lieto di aver fatto la tua conoscenza” le porse una mano. La bionda si strinse soldi e vassoio al petto come a nascondersi, poi si fece coraggio e gli porse la sua, piccola, fine, bianca. E Christopher la stupì per l’ennesima volta in una sola giornata, perché le prese delicatamente le dita nella sua mano forte e calda, le avvicinò alle labbra e le sfiorò. Non appena Cindy sentì il tocco della bocca di lui sulle sue mani si sentì mancare un colpo al cuore, si ritrasse velocemente e corse verso il bagno. Lasciò cadere a terra il vassoio, chiuse gli occhi e si appoggiò alla fredda parete di mattonelle, cercando di sbollire un po’. Si sentiva decisamente troppo calda. Tenne gli occhi chiusi per qualche minuto, respirando lentamente, cercando di calmarsi. Lasciò fluire i pensieri verso la parte del cervello che teneva chiusa ai suoi sogni almeno al lavoro e cercò di ritrovare una certa calma interiore in quelle sensazioni distruttive che Christopher aveva creato in lei. Christopher… era un nome stupendo, che si scioglieva sulla lingua come una caramella al miele, che le faceva ribollire lo stomaco, andare il cervello in stand – by, tremare gli arti e… si, e le dava quelle leggere vibrazioni al basso ventre che le capitavano sempre quando pensava a quella sera, in cui lui era quasi senza camicia, la cintura slacciata, e il suo vestito era aperto sulla schiena, aveva perso una scarpetta e… no.Non era proprio il momento di peggiorare la situazione. Per tutto il pomeriggio non si scambiarono più una sola parola, anche se la ragazza continuava a guardarlo. E quando tornò a casa, si sentiva più presa che mai. Non riusciva più a pensare ad altro che non fosse le parole di lui. Lui l’aveva riconosciuta. L’aveva cercata. Ma, soprattutto, l’aveva trovata.


La campanella frenò le sue fantasie, mentre si rendeva conto che per l’ennesima volta in quelle due settimane non aveva seguito molto della lezione. Accartocciò il foglio che le aveva passato Belle e mise i libri velocemente nella cartella, mentre l’amica la raggiungeva ancora una volta.
“C’è definitivamente qualcosa che non va, ma non è importante anche se non me ne parli. Lo farai quando ti sentirai” la rassicurò. Insieme si diressero fuori, verso il loro albero grande, per l’intervallo. Si sedevano sempre lì insieme, perché era un posto poco frequentato. Era anche lì che si erano conosciute. Quando si furono accomodate, Cindy decise di aprirsi alla sua unica amica.
“Da quando è venuto quella volta alla Dream’s House, in realtà, è venuto tutti i giorni” disse quasi timidamente “Credo abbia chiesto a Garth i miei turni, perché quando arrivo è lì, e quando esco, se non scappassi, mi inseguirebbe. Solo che non so ancora… se mi stesse prendendo in giro?” Belle le lanciò un’occhiata fra il tenero, il comprensivo e il riprovevole.
“Ti ha cercata per mezza New York, spiegami perché dovrebbe prenderti in giro!” esclamò poi, con un sorriso. Poi allungò una mano e mise a posto una ciocca che era scesa dalla fascia rossa che teneva indietro i capelli dell’amica “Non ti preoccupare, andrà tutto bene. Dovresti solamente rischiare un po’. Hai l’opportunità di conquistare il più ricco scapolo d’America, e tu ti fai problemi?” le fece l’occhiolino “Vai e approfittane. Per esempio, parlagli oggi quando viene da te. Ricordati che chi non risica non rosica… e se solo io potessi risicare! Oh, come vorrei vivere almeno un’avventura!”


Quel pomeriggio, Cindy arrivò alla Dream’s House in perfetto orario, e come sempre spaccò il minuto. Il suo orario iniziava alle quattro di pomeriggio e durava fino alle otto di sera, quattro ore di intenso lavoro… e di intense emozioni, almeno ultimamente. Entrò e fece un cenno di saluto a Garth, nella cucina, con le braccia muscolose incrociate sul petto come al solito. Lui le sorrise, e la ragazza si infilò nello sgabuzzino adiacente al bagno che serviva da spogliatoio per le ragazze che lavoravano lì. La sua collega di pelle scura stava uscendo e si scambiarono un saluto gentile. Quando fu entrata, lasciò cadere pesantemente la cartella sulla panca e afferrò dal muro il suo grembiule rosa con ricami azzurri sulla tasca (era veramente ridicolo, ma Garth era stato chiaro: prendere o lasciare) e si affrettò a raggiungere il bancone, legandosi i nastri di stoffa dietro la vita con un fiocco. Lanciò un’occhiata intorno e notò che Christopher non era ancora arrivato. Due emozioni differenti la sopraffecero. Da un lato era sollevata pensando che non l’avrebbe distratta durante il lavoro, ma dall’altra parte provava una cocente delusione. Si rimproverò per non avergli parlato prima, per averlo fatto aspettare. Sicuramente si era stancato di stare lì a guardarla lavorare. Certo, lei non lo aveva nemmeno degnato di uno sguardo! Ma Belle aveva ragione. Doveva farsi coraggio, se veramente pensava di esserne innamorata. E certamente lo era. Oh, quanto lo era.
Decise di non pensarci, scosse la testa e diede un’occhiata agli ultimi ordini ricevuti, poi si avvicinò alla cucina in cui c’era l’apprendista cuoco, un uomo sulla trentina, basso, stempiato e tarchiato che si dava arie da gran chef e che tentava sempre di allungare le mani per una palpatina quando sapeva che Garth non guardava, prese l’hamburger senza cetriolo e il cheeseburger della casa e cominciò a servire ai tavoli, evitando le mani dell’apprendista. Pensò per l’ennesima volta che quel lavoro era pesante e noioso, ma Cindy non era tipo da desiderare molto più di quanto la vita le offrisse e trovava sempre ciò di positivo che poteva esserci in ogni situazione, scacciò il pensiero e si dedicò ai clienti. Mentre usciva dalla cucina, Garth la chiamò indietro per presentarle il nuovo lavapiatti, un ragazzo dalla pelle olivastra e i capelli scuri di nome Ali, che Garth aveva trovato alla polizia per caso, arrabbiato col mondo e deciso a buttarsi in mezzo alla strada sotto un camion. Lo salutò gentilmente, notando gli occhi grandi e sinceri che avevano una nota di malinconia, poi passò al suo lavoro.
Per un buon quarto d’ora lavorò indisturbata, ignorando i clienti che l’apprezzavano per la sua bellezza, dopodiché, quando si girò sentendo il campanello, riconobbe la figura ormai familiare e sentì che non sarebbe più riuscita ad andare avanti a quel ritmo. Christopher era arrivato, attirando su di sé tutti gli sguardi delle ragazze nel fast food, come sempre. Quel giorno indossava pantaloni Prada, scarpe Luis Vuitton e camicia Calvin Klein, profumava di Abercrombie e teneva una giacca Dolce & Gabbana ripiegata ordinatamente su un braccio. Le passò davanti chinando la testa, con gli occhi luccicanti come sempre, sorridendole, per poi sedersi nel suo solito posto isolato. Cindy abbassò gli occhi, pensando che quel giorno era più schianto che mai. Un’idea folle le invase la testa, ma quando si rese conto che lo stava facendo davvero era ormai davanti al tavolino con il taccuino in mano.
“Cosa ordiniamo oggi?” domandò con una vena di ironia. Gli occhi di Christopher fiammeggiarono.
“Il solito” disse poi, lasciandosi scivolare come sempre sulla panca di qualche centimetro “Abbiamo finito con l’indifferenza?”
“Mi chiedevo se ti andrebbe di accompagnarmi fino alla metro, quando esco” disse lentamente, senza nemmeno capire bene ciò che stava facendo. La sua mente era invasa dal profumo e dalla voce di lui, dalla sua immagine, dalla luce di quegli occhi scuri, dalla voce di Belle che le consigliava di osare. Sapeva che ciò che stava facendo stava dando una svolta alla sua vita, ma non riusciva a smettere. Ormai era stregata.
“C’è da chiedere?” rispose lui, per poi fissarla dritta negli occhi. In quel momento Cindy sentì il disagio crescere, mormorò un ‘arrivo subito’ e si allontanò da lui, rendendosi conto che le orecchie le scottavano e che tutti la stavano guardando. Non poteva credere di averlo fatto sul serio. Portò come in trance il foglio dell’ordinazione a Megan e non lo guardò quasi mentre gli consegnava l’ordine, anche se lui stava chiaramente cercando di incrociare i suoi occhi per dirle qualcosa. Ma lei si sentiva di aver già detto troppo.
Si rese presto conto che il tempo non passava mai. Ogni volta che guardava l’orologio erano passati solo una manciata di minuti, e Cindy lavorava come non mai, cercando di non pensarci. Evitava accuratamente l’angolo in cui stava seduto il soggetto del suo nervosismo, cercava di non calpestare le mattonelle al di là della linea immaginaria che si era creata per resistergli e si concentrava sugli altri clienti. Garth le fece qualche battuta che non migliorò la situazione, mentre Megan allargava il suo sorriso ogni volta che Cindy andava a prendere un’ordinazione. E la giornata passò come sempre, fra caffè, hamburger, dolci, palpatine tentate, commenti sgraditi, ketchup e maionese.


“Fine, Cindy!” esclamò Garth col suo vocione che ben si adattava alla sua corporatura. Cindy gli sorrise grata e preoccupata. Nell’ultima ora e mezza aveva sentito salire sempre più un formicolio consistente nel basso ventre, sintomo di agitazione. Da un lato non si sentiva pronta. Si sentiva scoperta, vulnerabile, fragile senza il suo grembiule addosso. “Dai, vattene!” esclamò ancora, anche se con una nota di gentilezza nella voce “E se vedi Es per la strada, dille che la prossima volta che fa ritardo ha chiuso con questo posto!” Cindy gli fece cenno con una mano. Esmeralda era la ragazza che faceva il turno dalle otto a mezzanotte, si era diplomata alla sua stessa scuola e lavorava lì solo tre giorni la settimana. Cindy le aveva parlato raramente, e solo per informazioni di servizio, ma era sempre stata gentile, e le ispirava un buon carattere anche se un po’ forte.
“Lo sai che Es ha qualche problema in casa, Garth. Se arriva in ritardo non è solo colpa sua. Resto dieci minuti ancora, se non arriva potrai fare quello che vuoi” contrattò “E le mance, ovviamente, rimangono tue…”
“Va bene, maledetta ragazza, ma solo questa volta! Come si fa a negarti qualcosa?” sbuffò l’uomo sorridendole.
Garth era un uomo grande e grosso, un ex pugile che aveva abbandonato la carriera anni prima, quando era stato poco più che trentacinquenne, e aveva usato i suoi risparmi per aprire la Dream’s House, un’isola di sosta al centro di Manhattan in cui si fermavano quasi tutte le fasce sociali di persone, dai ragazzi che andavano semplicemente a fare casino la notte ai ricchi uomini d’affari che cercavano un boccone per pranzo. Il nome del locale derivava proprio dal fatto che Garth aveva sempre avuto il sogno di aprire un posto come quello, e ora che c’era riuscito considerava realizzato ogni suo desiderio. Sembrava un omone tutto muscoli e niente cervello, ma in realtà aveva un gran cuore e assumeva solo chi sapeva essere in difficoltà. Conosceva la situazione familiare di tutti quanti i suoi dipendenti e non mancava mai di concedere prestiti, favori, aumenti e diminuzioni di ore. La stessa Megan, la sua compagna ormai da molti anni, era una ragazza che cinque anni prima aveva tirato fuori dal tunnel della droga, offrendole un lavoro, una casa, protezione e soprattutto tanto amore. Garth era fatto così: faceva ogni giorno del suo meglio per tirare chi poteva fuori dalla strada. Ecco perché Cindy lo ammirava e gli era attaccata. E con un pizzico di sensibilità in più che aveva naturalmente, la comunicazione fra loro non aveva mai portato a litigi. Con una buona parola, era pronto a dare tutto.
Di Esmeralda, Cindy non sapeva quasi niente. Aveva solo sentito da qualche pettegolezzo di Megan che una sera Garth stava facendo la sua ronda, cercando qualcuno da aiutare, quando si era trovato davanti la diciottenne che si prostituiva, l’aveva riconosciuta come una ragazza della zona, l’aveva caricata in macchina e dopo una lunga chiacchierata lei era andata a lavorare lì tre sere a settimana, il turno di notte. La ragazza aveva lunghi e folti capelli neri, ipnotici occhi verdi e un corpo che avrebbe fatto gola al più casto fra gli uomini, il carattere forte di chi ha il fuoco nelle vene e un atteggiamento sfrontato. Purtroppo era anche una ritardataria, mentre Garth aveva poca pazienza. Proprio per questo il locale era spesso scenario di litigi che Megan scherzosamente definiva ‘da Titani’.
Il campanello tintinnò e una chioma nera fece capolino, seguita dal corpo abbronzato della ragazza. Cindy si girò verso il proprietario e alzò le spalle, lui fece un’espressione bonariamente contrariata e Cindy si affrettò a entrare nel camerino, impaziente e insicura. Si tolse il grembiule mentre Esmeralda prendeva il suo e lo legava dietro la schiena. Garth le stava gridando qualcosa dietro perché non aveva salutato e per il ritardo, ma l’indifferenza della mora era più forte. Prima di uscire, mentre Cindy guardava sconfortata le sue ballerine nuovamente macchiate di ketchup, la ragazza mora si girò e la guardò. La bionda se ne accorse e alzò gli occhi. L’altra le sorrise.
“Grazie. Sei una persona davvero per bene” le disse, per poi sparire dietro la porta. Cindy si strinse nelle spalle e afferrò la borsa, mettendola su una spalla, ma Esmeralda infilò nuovamente la testa nello sgabuzzino. “E, mi raccomando, grinta per sta sera” le fece l’occhiolino, e quando Cindy uscì un po’ imbarazzata dalla sua battuta, l’altra la stava già ignorando. Chissà come, sapeva esattamente ciò che era successo.
Si avvicinò titubante a Christopher che stava sfogliando svogliatamente un giornale, e si vide riflessa nello specchio. Quel giorno indossava una maglietta con le maniche troppo corte per lei, come sempre, a righine bianche e nere, un paio di jeans che aveva ricreato da un paio di una delle due sorellastre che le stavano fino a metà polpaccio (l’altra parte non era proprio riuscita a salvarla) e un paio di ballerine nere nuove, che era riuscita a comprarsi a cinque dollari in un negozietto per strada, contrattando con un nero per almeno un quarto d’ora. Fra i capelli aveva una fascia rossa perché non le dessero troppo fastidio mentre lavorava. Si domandò se fosse meglio toglierla, ma Christopher si girò a guardarla proprio mentre stava per farlo, così fece passare il movimento della mano come un riavviamento ai capelli.
“Sono pronta” annunciò poi. Il ragazzo le fece un gran sorriso, si alzò lasciando la rivista aperta, afferrò la giacca e la seguì fuori dal locale. L’aria serale, fresca, raggiunse la pelle di Cindy come un balsamo e lei la aspirò profondamente, cercando calma. Il sole stava tramontando, e le luci dei lampioni cominciavano a essere più evidenti. I due camminarono fianco a fianco per qualche tempo, senza parlare né guardarsi. Fu Christopher il primo a prendere l’iniziativa, e quando la ragazza meno se l’aspettava, sentì la propria mano venire stretta da un’altra, calda, forte e delicata insieme, che la spinse a girarsi e guardarlo con un groppo in gola. Lo scapolo più in vista d’America la stava guardando con occhi pieni di soddisfazione, desiderio, felicità.
“Sono settimane che desidero questo” bisbigliò piano il ragazzo, e Cindy staccò l’immagine pubblica che avevano di lui da tutto il resto, e vide solamente un ragazzo normale, un po’ impacciato e imbarazzato, con un gran desiderio di mostrarsi al meglio, e quasi le venne da ridere, quando si rese conto che in realtà erano perfettamente uguali. Tutti quei pomeriggi passati a guardarla, senza riuscire a chiederle di fare una passeggiata, quell’ironia ostentata, come un’armatura, servivano a nascondere la timidezza che in realtà lo aggrediva. Sapeva che lui si sentiva esattamente come lei, che quello che provavano era uguale e che i loro cuori battevano all’unisono.
“Anche io” mormorò in risposta. Christopher la guardò stupito, poi le sorrise e incassò per un momento la testa nelle spalle. Ma poi tornò subito dritto con la schiena e con la solita camminata decisa, a celare l’imbarazzo. Camminarono in silenzio, bagnati dal caldo sole che calava e dalla cacofonia di suoni confusi che arrivava dalla strada. Attraversarono grandi strade e scesero sottopassaggi per raggiungere la metropolitana, ma lui non la lasciò nemmeno una volta. E quando il treno arrivò, salì con lei. La tenne stretta nelle curve, si curò che non inciampasse nel gradino di uscita e la aiutò a salire le scale come un vero principe. Quando uscirono dalla metro c’era ancora un pezzo per arrivare a casa di Cindy, e Christopher fu presente, continuando a tenerle la mano. Ma una volta nel quartiere tranquillo si lasciò andare.
“Sai, quella sera, alla festa… io sono stato bene con te. Credo di non essere mai stato meglio con una ragazza” confessò “Sembrava che a te non importasse chi ero, cosa facevo e quanti soldi avrei guadagnato. Negli occhi di ogni ragazza leggevo avidità e desiderio di notorietà. Insomma, chi non vorrebbe essere ricco e famoso, un’icona di stile e magari anche un’ospite in tutte le più importanti trasmissioni americane?” Cindy evitò di dire che a lei non sarebbe piaciuto molto allontanarsi da una vita dignitosa per approdare in una circondata solamente da gossip e paparazzi. Evitò anche di dire che in realtà non sapeva nemmeno com’era fatto prima di sapere chi era, quella sera, non aveva idea che fosse il figlio del proprietario dell’azienda, Leroi, né che in realtà si era immediatamente innamorata del suo sguardo.
“Anche io non avrei mai pensato che esistessero persone come te” disse infine, in completa sincerità, e Christopher sembrò soddisfatto.
“Ma dimmi” disse poco dopo, mentre camminavano lungo un viale alberato “Dimmi della tua famiglia, di dove vivi. Questo non è il quartiere delle prime case ricche di New York?” Cindy annuì stringendosi nelle spalle.
“In realtà vivo nella villa di mio padre, con la mia matrigna e le sue figlie” mormorò “Io non so cosa ti aspettassi da me, ma la verità è che a causa degli sperperamenti della mia matrigna il patrimonio di mio padre è andato perso. Madame non lavora perché non ha nemmeno la licenza scolastica, viene da qualche paese dell’est Europeo. Le sue figlie vanno a scuola e non lavorano. Io vado in una scuola prestigiosa solamente perché mio padre aveva espresso questo desiderio, e la mia zia madrina, la sorella di mia madre morta, si è battuta molto perché venisse esaudito. Finita la scuola, se è rimasto qualcosa del patrimonio andrà a me, altrimenti vivo di mance. Così come la famiglia”. Si girò a guardare Christopher, a osservare che effetto gli avevano fatto le sue parole. Non riusciva a non essere sincera con lui, non poteva rimandare verità scomode, lo sapeva. Non avrebbe potuto tenergli sempre nascosta una cosa così grande, sempre in caso lui avesse continuato a frequentarla… ma nei suoi occhi Cindy lesse solamente ammirazione sincera, non sentì nemmeno per un momento compassione. Le strinse la mano leggermente di più con un sorriso.
“Se avrai mai bisogno di una mano, io ci sarò” le disse. Cindy annuì, perché sapeva che era la verità.
Arrivarono davanti alla sua casa, Cindy tirò fuori le chiavi dalla borsa per aprire il cancello e lasciò la mano del ragazzo, guardandolo con malinconia. Non avrebbe mai voluto staccarsi da lui. Cercò di racimolare qualche parola di congedo, ma quando vide il ragazzo a pochi centimetri dal suo viso e poco dopo sentì le sue labbra contro le proprie capì che con Christopher non c’era bisogno di parole. Lui la capiva, intuiva ciò che stava per dire, i suoi desideri… Cindy si aggrappò con urgenza alle spalle di lui, che strinse le braccia intorno alla vita sottile della ragazza e spinse la lingua fra le labbra in un bacio mozzafiato.
Quando si staccarono alla ragazza bruciavano le orecchie e si sentiva decisamente accaldata e spettinata. Christopher la guardò con gli occhi lucenti carichi di aspettativa, di soddisfazione e di desiderio, anche lui rosso in volto.
“Io…” cominciò Cindy sapendo di dover andare. Lui le afferrò entrambe le mani, facendole cadere le chiavi a terra.
“Io non me ne vado. Ti prego, dimmi dove posso aspettarti. Voglio vederti ancora” le mormorò. Cindy stava per rifiutare quando si rese conto che era esattamente la cosa giusta da fare. Raccolse le chiavi, le fece girare nella serratura e aprì il cancello. Lo guardò un momento, poi fece un cenno della testa e lo accompagnò fino alla stalla del suo vecchio pony e Tobia, il vecchio cane di suo padre.
“Aspettami qui.” Gli disse “Arriverò appena possibile. Avrò alcune cose da fare e non so quando riuscirò a venire.” Lui la attirò a sé “Ma voglio venire, e presto o tardi ci sarò. Aspettami…”
Christopher la baciò con passione, e Cindy seppe che avrebbe aspettato.


Quando entrò in casa e si vide allo specchio accanto alla porta d’entrata, Cindy trattenne un urlo strozzato a stento. Era completamente spettinata, rossa e sudata. Lasciò cadere la cartella nel salone e controllò l’ora, cercando di ricomporsi. Aprì poi la porta a sinistra dell’entrata e si trovò nel salottino della grande casa.
Era un bell’ambiente ampio, con un grande divano basso davanti alla televisione, grandi finestre si affacciavano sul giardino. Su un lato della stanza c’era una piccola scrivania apribile con una seggiolina. Al momento lì era poggiato un computer, ma Cindy ricordava che una volta quella scrivania era chiusa, e nei suoi cassetti c’erano tutte le carte del padre. Quasi poteva vederlo, intento a scrivere una lettera alla sua madrina, o mentre faceva i conti, una calcolatrice antiquata accanto ai fogli delle bollette, agli scontrini. Scosse la testa e decise di non perdersi in ricordi del passato, le avrebbero fatto troppo male.
Sul divano c’erano le sue sorellastre. Chiunque le incontrasse non storceva il naso per educazione, ma nessuno le aveva mai definite belle a parte Madame. La prima impressione che davano era di bruttezza e artificiosa educazione. La seconda era di terribile ignoranza e sgarbatezza. La terza impressione faceva scappare la maggior parte dei ragazzi che Madame invitava a intervalli regolari a casa loro, sperando di trovare un ricco fidanzato alle figlie. Nessuno era mai riuscito a esserne conquistato. Anastasia, con i lunghi capelli arricciati in boccoli rossicci, era sul divano, con le gambe stese davanti a sé, in braccio teneva il grasso gatto domestico che aveva preso i possedimenti di Tobia, carezzandolo. Genoveffa, la mora con i capelli mossi sulle spalle, mangiava a bocca aperta da un pacchetto di patatine alla cipolla, fissando la televisione come se fosse ipnotizzata. Cindy accennò un saluto gentile, ripetendosi ancora una volta che tutti avevano un lato buono, perciò anche le sue sorellastre, ma quando ricevette da parte loro qualche insulto e un urlaccio strinse le labbra e decise che non era il caso di rimuginare troppo. Passò alla seconda stanza, adiacente al salottino: la sala da pranzo. Corse in cucina e diede un’occhiata al foglio attaccato al muro lì vicino su cui era stampata la rigida dieta delle ragazze. Dieta che era costata a Madame almeno centocinquanta dollari ottenuti dal lavoro di Cindy e che le figlie non seguivano per niente. Accese il fuoco sotto l’acqua per la minestra e cominciò a pelare le carote e le patate con energia. Voleva riuscire a finire tutto il prima possibile e andare subito da Christopher, già sentiva la sua mancanza…
Venne distratta dai suoi pensieri quando sentì la porta della cucina che si chiudeva e si girò di scatto. Era solamente Anastasia. Si rilassò e continuò il suo lavoro.
“Dov’è vostra madre?” domandò gentilmente. La rossa si girò e la guardò, tirando fuori dalla dispensa burro d’arachidi e fette di pane da toast.
“Era uscita a fare compere” rispose con la sua voce da soprano totalmente nasale. “Comunque, tu devi fare una cosa per me, Cin.” Certo vossignoria. Ovvio vossignoria. Cosa vuoi, ancora?!, pensò Cindy prima di ricordarsi che non era educato.
“Cosa dovrei fare?” domandò, sperando almeno che la sorellastra non avesse una richiesta assurda come quella di Genoveffa di un mese prima. Le aveva chiesto di rubarle un abito in un negozio. Cindy si era rifiutata categoricamente, ma non aveva avuto scelta ed era andata lo stesso. Appena uscita dal negozio, però, era rientrata e aveva speso quasi tutti i suoi risparmi per pagare l’abito, pensando che c’era gente che lavorava duramente da mattina a sera per poterlo creare e per poter avere quel guadagno. Le era dispiaciuto, ma sapeva di aver fatto la cosa giusta.
“E’ una cosa seria” Cindy si voltò a guardarla. Già. Non si poteva proprio dire che fosse bella. Quando ci pensava, ogni tanto, le veniva in mente che il primo marito di Madame doveva essere stato veramente brutto per fare sì che nessuna delle figlie uscisse perlomeno carina. Erano totalmente diverse dalla madre, elegante, curata, con lineamenti un po’ spigolosi ma lo stesso armoniosi, il collo sottile e i capelli ormai grigi acconciati come una vera signora. La sorellastra che le stava davanti era spettinata come sempre, un garbuglio di boccoli era raccolto dietro la testa in una coda, gli occhi grandi e tondi da rana la guardavano, scrutandola con quel colore verdastro. Le guance gonfie erano arrossate e lentigginose, incorniciavano il naso a patata fin troppo evidente e la bocca sottile così vicina al mento da sembrare che fosse cascata giù dalla sua posizione. Le spalle erano mingherline, così come le gambe, ma la pancia rotonda era accentuata dalla sua posizione ricurva, quasi ingobbita, e si notava al di sotto della maglia rosa aderente. Si strinse nelle spalle e aspettò che parlasse.
“In realtà, devi trovare un modo per coprire la mia uscita. Soprattutto da quella stronza di mia sorella” annunciò poi. Cindy sbattè le palpebre una dozzina di volte, prima di riuscire a capire cosa le stesse dicendo. Coprirla a sua sorella? Non capiva. Le due erano sempre state unite, sempre vicine l’una all’altra anche se goffamente, ed era fermamente convinta che si volessero davvero bene. Ecco perché non riusciva a intendere il significato di ‘stronza’ e ‘coprirla’.
“Come?” balbettò. Anastasia sospirò, poi incrociò le braccia appoggiandosi al muro, guardandola con gli occhi castani.
“Te lo dico solo perché mi devi aiutare” disse minacciosa “Ma se osi dirlo a qualcuno, giuro che ti faccio fuori. Ho i mezzi per ricattarti” Cindy alzò le sopracciglia e si girò a continuare a pelare patate. Non le interessava sentire cosa dicesse contro di lei, aveva già ascoltato troppo durante tutta la sua vita. “Un ragazzo mi ha chiesto di uscire, e quella vipera vuole rubarmelo” la patata cadde di botto nella pentola ormai bollente ancora con la buccia, schizzando la bionda d’acqua calda.
“Un… cosa?!” ripetè stupita, correndo a prendere un cucchiaio per recuperare la patata. Quando vide l’espressione della sorellastra però tossicchiò e si corresse “Meraviglioso!”
“Per niente” biascicò l’altra “Quella maledetta di Genoveffa è sempre in mezzo alle palle. Non mi molla mai, ho sempre il suo maledetto sguardo addosso e non riuscirò mai a non farmi notare da lei quando esco di casa. Una volta che ci ho provato, l’ho vista sulla sua porta che mi chiedeva dove andavo, e cosa dovevo risponderle? Le ho detto che andavo a fumare. E così è venuta con me. Tu devi togliermela dalle palle, il prima possibile”. Cindy sospirò.
“Anastasia, io lavoro” cercò di dirle con calma “Lavoro, studio e faccio i lavori di casa. Non ho proprio tempo di passare una serata con tua sorella, e…”
“Allora dirò alla mamma che è colpa tua” sibilò minacciosa “Le dirò che è colpa tua se non siamo riuscite a trovare Christopher Leroi per tutta la serata. È stata colpa tua. Vi ho visti quando entravate in camera, puttanella da quattro soldi. Vi ho visti.”
Un brivido si fece strada nella schiena di Cindy. Se Madame avesse saputo che era lei che aveva rubato il cuore del ricco ereditiero, se avesse scoperto che aveva passato la serata con lui, che se ne era innamorata, che era scappata di casa per andare a quella festa… quando ancora non era capace a controllarsi e urlava alle provocazioni, veniva picchiata. Si ricordava dei calci delle sorellastre, del sorriso di Madame, dei graffi del gatto. Se ne ricordava ancora fin troppo bene. E non poteva permettere che finisse così. Guardò Anastasia negli occhi celando la sua ira. E l’idea le passò davanti come in uno schermo. La festa. Come diavolo aveva fatto a non pensarci prima? La festa che davano le ragazzine. Aurora, la ricca figlia del consigliere italiano e della sua segretaria. Non c’era una sola persona in tutta New York che non sapesse chi fosse Aurora. E quella sedicenne era la sua ultima speranza. Sospirò un momento per calmarsi.
“C’è una festa questo sabato.” Disse quindi “Digli di andare lì. Ci andremo insieme. Sarà affollato. E tu potrai stare con lui tranquillamente, senza Genoveffa che ti segue. Potrai sparire indisturbata.”
“Una festa?” domandò l’altra sospettosa.
“Si, una festa che organizza Aurora Reale, la figlia del consigliere italiano. È una della mia scuola” Anastasia sorrise maleficamente, mettendo in mostra i denti giallastri.
“La mamma ha ragione quando dice che ne sai una più del diavolo” commentò la rossa “Hai delle idee diaboliche e sei cattiva al punto giusto. Però è un’ottima idea. Il Diavolo risponde sempre alle richieste” concluse uscendo dalla stanza. Cindy era offesa e oltraggiata, sentendosi paragonare al Maligno in persona, ma cercò di non pensarci affatto. Sarebbe andata anche lei alla festa, altrimenti non avrebbero avuto il lascia passare. Non erano della scuola. Questo la rendeva libera, almeno per una sera. Continuò a pelare patate, pensando a farsi coraggio.


Quando Madame arrivò la cena era pronta come desiderava e si sedettero tutte e quattro intorno al lungo tavolo della cucina. Ovviamente, Cindy doveva stare vicino alla porta della cucina e portare in tavola il cibo non appena le altre avevano finito. Sperò di fare in fretta, perché non vedeva l’ora di uscire e trovare fuori Christopher, anche se cominciava a sospettare che fosse stato tutto un sogno, un’allucinazione dovuta all’essere troppo innamorata. Madame non le rivolse la parola per gran parte del tempo, mentre Anastasia parlava della festa della figlia del consigliere, dei ragazzi ricchi che ci sarebbero stati, che Cindy glielo voleva tenere nascosto e che l’aveva costretta a parlare. Genoveffa sembrava euforica quanto la sorella, Madame era più scettica, ma alla fine accettò di farle andare, cominciando la lunga serie di minacce alla figliastra nel caso in cui fosse successo qualcosa alle pargole. Cindy non rispose nemmeno, poi si alzò e pulì i piatti con una velocità da record, si congedò e uscì dalla porta secondaria per non farsi vedere. Attraversò quasi in corsa il suo amato giardino e raggiunse la stalla del pony in un baleno. Quando entrò quasi non poteva credere ai suoi occhi: Christopher era lì, appoggiato al muro, una gamba piegata e l’altra stesa, che alzò gli occhi che baluginarono nel buio. Cindy gli corse incontro, mentre il ragazzo si alzava in piedi.
“Hai fatto presto” disse con un sorriso, per poi abbracciarla stretta a sé.
“Volevo vederti” ammise lei quasi con tono di scusa, mentre lui si sedeva di nuovo, e lei accanto. “Non so quanto potrò rimanere senza farmi scoprire che torno in casa” disse poi.
“So trovare la strada maestra” scherzò lui, per poi baciarla con crescente passione. Cindy si lasciò andare, perché era esattamente ciò che voleva. Per giorni, per due settimane aveva fatto finta di niente, aveva ignorato tutto il bisogno che aveva di Christopher, dei suoi occhi luccicanti, della sua voce sensuale e del suo corpo perfetto. Il ragazzo la fece stendere sulla paglia delicatamente, posizionandosi fra le sue gambe ancora fasciate dai jeans. La ragazza lo sentiva contro di sé, sentiva la sua voglia di lei, sentiva che non era cambiato niente da quella sera alla festa e che l’urgenza l’uno dell’altro non si era estinta. Voleva ricominciare dal punto che aveva lasciato in sospeso, e gli sbottonò la camicia con foga, facendo saltare un bottone. Christopher rise di soddisfazione, poi le sfilò la maglia, le sganciò il reggiseno e avvicinò la bocca al petto di lei, leccandola delicatamente. E Cindy si sentì in paradiso.


Era passato qualche giorno da quando Cindy e Christopher si erano messi insieme, e sembrava ancora tutto solo un sogno. La routine continuava ma tutto sembrava completamente diverso. La scuola era più semplice e la ragazza si impegnava come mai per avere i voti abbastanza alti da non rischiare nemmeno un millesimo. I test si avvicinavano e in una settimana quasi tutti gli alunni dell’High School sarebbero stati riuniti in una grande stanza, forse in palestra, per compilare i fogli che occorrevano per uscire da scuola. Alla Dream’s House non aveva mai messo così passione nel servire ai tavoli, Garth scherzava sostenendo che fosse il suo futuro, ma in realtà sapeva benissimo che entro poco tempo non avrebbe mai più rivisto Cindy con il grembiule del fast food. Christopher andava lì tutti i pomeriggi a guardarla servire ai tavoli e ad accompagnarla fino a casa. E il giorno della festa era sempre più vicino.
Anastasia e Genoveffa non facevano che agitarsi. Avevano svuotato tutti e due i loro armadi alla ricerca dell’abito perfetto per quella sera, senza trovarlo, e Cindy aveva dovuto mettere tutto a posto. Erano corse in centro per fare acquisti ed erano tornate cariche di pacchetti e pacchettini contenenti gioielli, accessori, mollette, trucchi, abiti e scarpe abbinati fra loro, comprati vendendo un preziosissimo ciondolo d’oro e di pietre preziose della madre, che aveva urlato dietro a tutti finché Genoveffa non aveva avuto l’ottima idea di ricordarle che a quella festa ci sarebbero stati tutti gli scapoli più ricchi di Manhattan, cosicchè la donna abbandonò la guerra e la diede vinta per l’ennesima volta alle figlie, aiutandole a trovare l’abito adatto e forzando ancora di più la dieta. Studiavano tutti i pomeriggi l’acconciatura e il trucco giusti, che Cindy si sentiva troppo buona per giudicare. Alla fine avevano scelto internet come principale musa e avevano trovato ciò che faceva al caso loro, anche se non volevano mostrare le loro scelte alla madre arrabbiata e a Cindy a cui non importava.
La zia madrina aveva chiamato la nipote quando quest’ultima le aveva mandato un sms confidandole che si era fidanzata con Christopher Leroi, e aveva promesso di andare a far loro visita, anche se era chiaro che Madame non l’avrebbe mai accettata volentieri in casa sua. Alla fine, la zia arrivò lo stesso, vestita d’azzurro e con una grande valigia e quando scoprì che Madame faceva sgobbare la nipote come una sguattera si era infuriata e aveva chiamato a sue spese una donna delle pulizie perché facesse il suo mestiere. Cindy riuscì a trovare persino tempo di mettersi lo smalto.
Christopher arrivò a casa sua per conoscere la zia, e quando la vide non potè fare a meno di trovarla la persona più simpatica sulla faccia della terra, parlò con lei a lungo nella biblioteca quasi inutilizzata della casa e quando ne uscì con la zia aveva un sorriso da un orecchio all’altro: Cindy venne a sapere che aveva deciso di andare in Canada con loro per starle accanto, avrebbe amministrato l’azienda petrolifera da Vancouver e avrebbe contribuito al bilancio familiare. La ragazza non poteva essere più felice.


La sera della festa, Cindy era in camera sua e si stava pettinando i capelli quando entrò la zia con un sorriso, nascondendo qualcosa dietro la schiena.
“Ti ho preso un regalo, tesoro” disse piena di aspettativa “E’ importante che tu vada a questa festa, ti divertirai un po’ e starai bene. Ma ho notato che nel tuo guardaroba c’è più riciclaggio che abiti veri e propri… mi sono presa la libertà di comprarti questo” disse infine, porgendole un pacchetto. Cindy la abbracciò e la baciò sulle guance paffute, si sedette sul letto e scoprì il regalo. Era un abito che la lasciò senza fiato. Era di due diverse tonalità di azzurro, uno molto chiaro e uno più intenso, il corpetto stretto, esattamente della sua taglia, era senza maniche e decorato delicatamente da ricami floreali di filo argenteo sulla sinistra. Sulla destra era drappeggiata la stoffa leggera più scura. Scendeva sulla vita, stringendole delicatamente i fianchi, per poi scendere fino al ginocchio. La stoffa azzurro chiaro era coperta da un altro strato più scuro su un fianco, sempre decorata d’argento. Cindy lo guardò estasiata. Non aveva mai avuto un abito così bello in tutta la sua vita. Aprì anche la seconda scatola quasi timorosa, e scoprì un paio di scarpe con il tacco decisamente meraviglioso. Erano di pizzo bianco ricamato d’argento con gli stessi motivi floreali del vestito. Il tacco era coperto di piccoli diamantini che lo ricoprivano del tutto. Avevano inoltre davanti e su un lato delle deliziose farfalle sempre tempestate di diamantini. Se le provò, e le calzavano perfettamente. Guardò la zia con le lacrime agli occhi, vedendo che anche quest’ultima era commossa. La abbracciò forte, poi si tolse i vestiti che aveva utilizzato tutto il giorno per indossare quel vestito meraviglioso. La zia glielo chiuse sulla schiena, e quando si guardò allo specchio pettinata, truccata e con l’abito regalatole dalla zia addosso, per la prima volta in prima sua, si sentì veramente una principessa.
“Grazie, zia” disse con voce rotta “E’ il regalo più bello che tu potessi farmi”
“Non è finita, bambina” sospirò la donna, guardandola con le lacrime che le facevano rilucere gli occhi azzurri “Ho pensato a tutto… appena dopo la tua festa di laurea, la settimana prossima, verrai a Vancouver con me, saremo portate dal tuo Christopher e vivremo nel mio nuovo appartamento, tutti e tre… ho conosciuto suo padre di recente, e so che sarà un ottimo acquisto nella nostra famiglia… che ne dici? Potremmo portare Tobia con noi” Cindy quasi scoppiò in lacrime abbracciandola.
“E lo chiedi? Assolutamente… non avrei mai potuto immaginare un regalo di diploma migliore…” si asciugò le lacrime che rischiavano di rovinarle il trucco e sospirò, senza riuscire a smettere di sorridere. “Dopo tutto questo tempo in cui ho sofferto… dopo la perdita della mamma, poi del papà, tu eri lontana e non sapevo quando saresti arrivata, non pensavo di trovare un ragazzo come Chris, dopo essere stata picchiata, umiliata, insultata, trattata peggio di uno zerbino per diciotto anni… non ho mai smesso di sperare, e ora… ora i miei sogni diventano realtà!” la zia la abbracciò e la baciò sulla guancia, ma lo sguardo le cadde sulla sveglia della nipote.
“Forza, vai! E’ tardi, bambina! Le tue sorellastre ti aspettano giù dalle scale! Il tuo principe è davanti al cancello! Vai, tesoro, e divertiti!” esclamò accompagnandola di fretta giù dalla torretta in cui era la sua stanza. Cindy si sentiva felice. Felice come non era mai stata.


Quando arrivò all’ultimo scalone prima della porta, vide che le sorellastre avevano appena alzato gli occhi in un’espressione di invidia e stupore. Si, anche lei aveva lo stesso sguardo mentre guardava la sua figura sottile scendere le scale, riflessa nello specchio che per tante volte era stato testimone di insulti e di maltrattamenti.
Anastasia si era finalmente coperta il viso rosso con uno strato di fondotinta, i nodi erano stati districati e folti boccoli le scendevano sul petto e sulla schiena, ordinatamente divisi e tirati dietro la testa da una molletta brillante. Indossava un abito fucsia che scendeva morbidamente da sotto la vita, in modo da nasconderle la pancia sporgente e da valorizzare le gambe magre. Sulle spalle portava un golfino con le maniche che arrivavano fino ai gomiti dello stesso colore, con chiusure morbide e ai piedi portava delle scarpe con un tacco vertiginoso en pandant, con due laccetti che si chiudevano sulla caviglia. Genoveffa aveva preferito il verde: il suo abito era di un colore squillante, accollato, con le maniche corte. Fra i capelli pettinati accuratamente aveva un cerchietto con un grande fiocco blu, dello stesso colore delle zeppe fasciate di raso. Anche lei indossava un golfino in tinta, con ghirigori blu. Ma nessuna delle due, per quanto potesse stare bene nell’abito nuovo, poteva nemmeno avvicinarsi alla bellezza di Cindy, che si complimentò con loro per il nuovo look e le seguì fuori dalla porta di casa, salutando con affetto la zia e la matrigna, priva di qualunque rancore in quella serata così limpida, felice e illuminata dalle stelle. Quando uscì dalla porta d’ingresso vide che Christopher la stava aspettando fuori dal cancello che le sorellastre stavano aprendo. Il suo vecchio cane Tobia le si avvicinò con la lingua di fuori, scodinzolando. Cindy si piegò a fargli una grattatina alle orecchie e strofinò il naso contro il suo, poi si alzò e uscì dal cancello. Il suo ragazzo la stava guardando folgorato, i suoi occhi bruciavano. Le aprì la portiera della Alfa Romeo che li avrebbe portati sotto il castello di Aurora, lei salì e lui le si accomodò di fianco. La baciò con passione mentre Anastasia e Genoveffa litigavano su chi doveva stare dietro come passeggero, finchè non arrivò un urlaccio di Madame, innervosita dai loro capricci. Infine Anastasia si sedette accanto a Cindy e Genoveffa era davanti, imbronciata. L’auto partì.
“Mi raccomando” le sibilò Anastasia prendendole un braccio. Cindy annuì senza una parola.
Presto arrivarono davanti al castello della figlia del consigliere. Chiamarla ‘festa in casa’ era un perfetto eufemismo. Il giardino subito dopo il cancello era grande quanto il castello messo in piano, due file parallele di cipressi si susseguivano per tutto il vialetto fino alla reggia. Il portone era spalancato e musica moderna arrivava dal suo interno. I quattro ragazzi scesero dall’auto e videro che una ragazzina dai capelli rossi stava guardando alcune persone con aria sospettosa, dopodiché li fece entrare. Quando vide Cindy e Christopher rimase un momento a bocca aperta.
“Oh, mio Dio” mormorò “Entrate… entrate pure!” Chris scoppiò a ridere e le diede una pacca leggera su una spalla, poi tutti insieme si inoltrarono nel giardino. Cindy vide che tutt’intorno c’era una foresta in miniatura, un cane abbaiava da un grande recinto e un altro vialetto si snodava in mezzo agli alberi. La reggia di Aurora era gigantesca e divisa in due diversi blocchi: il primo era quello d’entrata, un edificio a tre piani visibili e uno sotterraneo in architettura moderna con spunti neoclassici: alte colonne di marmo circondavano i balconcini dietro cui blocchi ottagonali illuminati da finestre si sorreggevano l’un l’altro. L’ultimo balcone, il più alto, era di collegamento con la seconda costruzione, questa completamente moderna. Era un grande appalco con muri di vetro, completamente illuminato, retto da grandi colonne che sprofondavano in un’enorme piscina mosaicata d’azzurro, illuminata ai lati, in cui si stavano tuffando un centinaio di persone. La musica rimbombava tutt’intorno e un ragazzo stava urlando che il buffet era in una stanza gigantesca mezzo sotterranea.
Salirono i pochi gradini di marmo fino al portone, lo superarono e furono immersi nella festa.
La casa era più sfarzosa di quanto Cindy si fosse immaginata per tutto quel tempo. Quando fu nell’entrata si sentì totalmente insignificante, e cominciò a sospettare che suo padre in realtà non fosse così ricco come era sempre stata convinta. Il pavimento era tutto di marmo con decorazioni d’oro, sulla sinistra c’era un salotto illuminato soffusamente, con dei gran finestroni che si aprivano sul giardino, il camino in tinta col pavimento era decorato di legno scuro e le poltroncine sembravano d’epoca, così come i tavolini d’ebano. Davanti a lei saliva una scala che girava su se stessa che portava al piano di sopra, affollata da ragazzi ridenti, con una ringhiera di ferro e oro. Sotto alla scala stava un candelabro e due porte aperte, una mostrava un’immensa sala da pranzo con un tavolo decorato d’oro, l’altra una cucina in marmo bianco e pietra. Cindy si girò, rendendosi conto che il portone d’ingresso stesso era decorato finemente con oro vero.
In quella, una ragazzina con lunghi capelli biondi mossi, un dolce sorriso e aperti occhi azzurri afferrò Christopher per un braccio, Cindy si girò e riconobbe Aurora, la figlia del consigliere e la proprietaria di quella reggia.
“Christopher!” esclamò con voce simpatica “Sei venuto anche tu! Hai ricevuto il mio invito?”
“Certo!” esclamò lui “Ma in realtà sono stato invitato dalla mia fidanzata” Cindy si sentì fuori posto e molto in soggezione a essere presentata in quel modo a una delle persone più ricche d’America, ma Aurora scoppiò in una risata cristallina.
“Si, so chi è! Purtroppo non ci siamo mai conosciute direttamente… mi chiamo Aurora Reale” disse per poi porgerle la mano. Cindy la strinse.
“Io sono Cindy Tremaine” Aurora rise di nuovo.
“So chi sei, ovviamente, sono una tua grande fan!” Cindy sbattè le palpebre qualche volta. Una sua… fan? “Si, certo, sei la ragazza che a tutti i balli della scuola doveva vincere il primo premio… credimi non era mia intenzione prenderti il posto, ma quando ti hanno eletta Reginetta e tu non hai accettato, sono dovuta salire sul palco…” disse quasi sentendosi in colpa. Cindy le sorrise.
“Non è importante, io non volevo quel titolo. Tu sei molto più adatta” la incoraggiò. Aurora si dimostrò molto felice, dopodiché si volse verso le sorellastre di Cindy che si stavano guardando intorno sbigottite. “Loro sono le mie sorellastre” si affrettò a dire Cindy “Anastasia e Genoveffa”
“Oh, sono talmente incantata a fare la vostra conoscenza” si presentò Aurora senza traccia di ironia nella voce e negli occhi “Sono convinta che siete due persone splendide quanto la vostra sorellastra. Volete che vi mostri la casa?” domandò poi a tutti, ma Christopher declinò l’offerta.
“La conosco già… posso mostrargliela io. Sono sicuro che tu abbia tanto da fare, con tutta questa gente” disse affabile.
“Non potete nemmeno immaginare… Ariel ha contato quasi cinquecento persone! L’avrete vista, immagino” si affrettò poi a dire “E’ la ragazza rossa al cancello… in realtà la festa l’ho fatta per lei, le ho chiesto di smistare gli invitati per farsi conoscere un po’… sapete, lei non è di famiglia ricca…” mormorò poi con rimpianto. A Cindy rimase subito simpatica. Sembrava una ragazzina sì ricca, ma che non si rendeva conto minimamente delle differenze sociali, sembrava che le notasse solo come dettagli imperfetti nella società. E non solo la ricchezza, ma anche la bellezza: Cindy non aveva mai incontrato anima viva che riuscisse a trattare le sorellastre con tanta gentilezza. La osservò mentre parlava a Genoveffa e faceva una battuta per cui scoppiarono entrambe a ridere.
“Vieni, ti porto nel salotto principale” le mormorò Christopher, prendendola per mano e salutando Aurora.
“Dopo devi darmi il tuo numero di telefono, Cindy!” esclamò la ragazzina mentre Chris si faceva largo fra la folla “Non accetto un no, sappilo!” la ragazza le sorrise e salutò con una mano le sorellastre che erano rimaste incollate alle labbra della figlia del consigliere. Salirono le scale con fatica, senza parlare e senza sentire gli altri che stavano parlando e urlando sopra la musica assordante. La trascinò fino al salotto, ma era pieno. Era una stanza gigantesca, una delle più grandi che Cindy avesse mai visto, con un divano immenso da nove posti, color caffelatte. Davanti e dietro al divano si aprivano finestroni che mostravano il giardino ricco di piante. Anche lì c’era tantissima gente. Christopher sbuffò, poi aprì una finestra e Cindy si trovò sul balcone, su cui una trentina di ragazzi e ragazze fumavano parlando fra loro. Chris aggirò il blocco tondo che nascondeva una stanza dal balcone, aprì la finestra velocemente e Cindy si trovò in una camera da letto con le mura tonde e i mobili costruiti apposta per la stanza. Un armadio grande stava appoggiato a una parete e un letto matrimoniale con baldacchino che copriva il materasso tondo come la stanza era di fronte. Christopher tirò le tende per nascondere la stanza, poi scostò il tappeto e aprì una botola che mostrò una scala. Cindy era stupita.
“Cosa… cosa sarebbe questo?” domandò preoccupata. Christopher scoppiò a ridere.
“Non ti preoccupare, conosco questa casa quasi quanto la mia, anche se è molto diversa. Io e Aurora siamo amici d’infanzia. I nostri genitori si conoscono, e quando eravamo bambini ero spesso qua. Inizialmente volevano prometterci, ma poi si è intromesso un altro ricco e ha preso il posto. È il migliore amico del consigliere” disse “Questo non toglie che le famiglie sono rimaste molto unite. Ho vissuto qua, quando mia madre è morta” tirò su col naso e Cindy capì che la storia lo faceva ancora soffrire dopo molto tempo. “Da qua si scende in una stanza accanto alla cucina, e si può passare alla sala relax senza dover passare tra la folla, se vuoi divertirti…” Cindy scosse la testa.
“C’è un sacco di gente. Cinquecento persone sono tante.”
“Non vuoi ballare un po’?” domandò Chris “Poi mangiamo qualcosa e torniamo qua. Sai che mi piace ballare” Cindy lo sapeva, gliel’aveva rivelato la sera in cui si erano conosciuti. Non lo diceva mai a nessuno, ma per anni Christopher aveva frequentato un’accademia di danza. Solo i suoi familiari e pochi amici lo sapevano, ma lui aspirava a diventare un ballerino e la passione non si era mai spenta. Cindy, dal canto suo, quand’era piccola e suo padre era ancora in vita, aveva partecipato per anni alle lezioni di danza in una scuola, ma con la morte di Mr.Tremaine aveva dovuto dire addio anche alla danza. Ma le continuava a piacere, perciò aver trovato un fidanzato ballerino la rendeva più felice di quando sembrasse. Christopher le aveva promesso di insegnarle qualche balletto e che l’avrebbe iscritta a una scuola a Vancouver, e lei non vedeva l’ora.
“Andiamo” accettò infine. Scesero la scaletta fino alla stanza di cui aveva parlato Christopher, entrarono in cucina e superarono l’orda di ragazzi che stava ballando nella sala d’ingresso. Uscirono all’aria aperta e scesero sotto la piscina, dove una grande stanza con una porta con scritto ‘sauna’ e vari lettini per massaggi era stata trasformata in una discoteca. Luci colorate erano state attaccate ai muri e una palla stroboscopica al soffitto riflettendo i colori delle luci. Un ragazzo con un cappello a visiera degli Yankees stava sopra una cabina da dj, con un braccio in alto e una cuffia attaccata all’orecchio, mentre due ragazze gli si strusciavano contro e altri ballavano davanti a lui.
Sorridendo, Christopher portò Cindy nel bel mezzo della pista, e lei si perse nella musica, ridendo.


Quando Christopher le urlò che erano già le undici e mezzo Cindy non ci poteva credere: il tempo era passato fin troppo velocemente, ed erano stati in pista per almeno due ore piene se aveva fatto bene i calcoli. Si diressero verso un lato della stanza, al buffet, e mentre Cindy mangiava qualche pezzo di pizza Chris andò a prendere da bere. Quando tornò le porse un alcolico alla frutta, insieme brindarono alla serata, per poi mangiare insieme ancora qualcosa scherzando fra loro.
Finito di mangiare, Christopher prese per mano Cindy e la portò fuori da lì. Passarono vicino alla piscina e quando qualcuno si tuffò li spruzzò con l’acqua che odorava di cloro. Tornarono in casa, ripresero la scaletta e si ritrovarono nella stanza rotonda che il ragazzo le aveva mostrato. Aprì il baldacchino e si lasciò cadere pesantemente sul materasso. Cindy lo seguì più delicatamente e risero insieme.
“E’ davvero una bella festa” commentò la ragazza.
“Si, è vero. Spero solo che non abbia fatto entrare qualche brutta persona” rispose lui “Ma non mi sembra il tipo, non Aurora. Lei è una pulita. Al massimo ci sarà in giro qualche canna” Cindy scoppiò a ridere.
“Non ne ho mai provata una” ammise.
“No?” domandò lui stupito “Prima o poi ti farò provare, allora. A volte sembra quasi che abbia un potere terapeutico. Quando stavo male per la morte di mia madre, le uniche cose che mi tiravano su di morale erano le canne e la danza. Ma sarà un’altra volta”
“Si, ne avremo molte, di altre volte…” mormorò Cindy mentre lui la baciava con dolcezza “Chissà se Anastasia ha trovato il suo innamorato” si domandò poi. Christopher scoppiò a ridere.
“L’ho vista prima con un ragazzo sul bordo della piscina. Lei rideva e lui… beh… sembrava completamente preso” le disse “Non aveva gli occhiali, però… magari non l’ha vista bene in viso” Cindy ridacchiò e lo colpì leggermente.
“Dai, non essere così cattivo… nessuno merita di essere preso in giro”
“No, ma nemmeno di essere trattato come una serva” disse poi serio “Non dovrai più subire niente, te lo prometto”
“Lo so.” Mormorò lei, sincera, guardandolo. Gli occhi di Christopher baluginarono nella penombra, si avvicinò e si baciarono con passione. Cindy sapeva che d’ora in poi sarebbe stata bene, sarebbe stata al sicuro grazie alla zia e a Christopher Leroi. Si guardarono un momento breve, poi si lasciò andare alla passione del bacio del suo ragazzo. E si sentì felicissima, realizzata. I suoi sogni erano diventati realtà.










NdA: Eccomi di nuovo qua ^^ So che ci ho messo tanto, perdonatemi ma questo capitolo è stato particolarmente complicato da scrivere :) Ci vediamo appena possibile con il prossimo capitolo, che parla di Ariel (yeah, un'anticipazione!) A presto, e continuate con i commenti ;) Intanto ringrazio con tutto il cuore _BriciolaElisa_, Elelovett e petitecherie per aver commentato la mia storia e Elelovett, MoonLove, ninfa_marina94, petitecherie, Sissyl e _BriciolaElisa_ per averla messa nelle seguite! Continuate così ;)
Nymphna <3

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Capitolo 3
*** 3 - Ariel. ***




Capitolo 3, Ariel.
(da mercoledì 16 a sabato 26 giugno)


 

Ariel sbuffò sonoramente incrociando le braccia e battendo un piede per terra con fare irritato. Ancora una volta suo padre si era rifiutato di ascoltarla. Non ce la faceva più. Lei voleva essere libera, voleva andarsene da casa, voleva finirla con quelle buffonate. Il cane all’ingresso non si mosse di un centimetro. Ritrasse un momento la lingua, poi la tirò di nuovo fuori ansimando. La ragazza strinse i pugni e tornò in camera furiosa. Urlò lasciandosi cadere sul letto. Acquata alzò la testa castana dai libri e le lanciò un’occhiataccia.
“Mi stai distraendo” le disse con voce acida.
“Me ne frego” rispose la rossa “Me ne frego talmente tanto che adesso comincerò a fare casino senza smettere” decise, per poi appoggiare i piedi sulle toghe del letto sopra il suo e cominciare a sbatterli. Acquata sospirò chiudendo il libro di botto.
“Non si può stare in questa casa. Ho bisogno di studiare, e tu me lo impedisci. Lo dirò a papà!” minacciò, togliendosi gli occhiali e infilandoli in una borsa malmessa insieme al libro.
“Ariel, piantala, mi dai sui nervi” disse Andrina, sporgendosi dal letto.
“Scusa, ma questa qua rompe le palle anche quando sono arrabbiata!” esclamò di nuovo incrociando le braccia. In quella entrò nella stanza da letto comune per le ragazze anche Alana, mangiando uno yogurt.
“Che succede?” domandò infilandosi il cucchiaino in bocca.
“Ehi!” esclamò Arista da dietro un’anta dell’armadio “Perché tu stai mangiando quello yogurt? Papà non ci permette di mangiare cosa…”
“Io oggi ho lavorato e non ho fatto la pausa pranzo!” protestò Alana “Quindi posso mangiare qualcosa”
“Ragazze, la smettete di fare casino? Sto parlando al telefono” le informò Adella, indicando il cellulare che aveva in mano.
“E dov’è Attina?” domandò Acquata “Dovrebbe tornare da un momento all’altro, le avevo detto di andare a prendere due pizze da asporto… secondo me è andata al Bazar! Perché non mi ascolta mai?” in quel momento sentirono chiudersi la porta.
“Sono in casa!” urlò la voce di Attina “Ho portato le pizze!”
Ariel sbuffò. Odiava casa sua, eppure era praticamente imprigionata in quel caos, con le sorelle affollate tutte in una stanza. Voleva restare a letto a rimuginare, ma la fame ebbe la meglio e si alzò controvoglia. Si sedette al piccolo tavolo di legno illuminato da una lampadina e prese il suo pezzo di pizza. Acquata lasciò cadere la borsa su una poltrona e restò in piedi, quella sera toccava a lei.
L’appartamento in cui Ariel e le sue sorelle vivevano era piccolo e buio, si trovava in un gran palazzone squallido di periferia, con la pittura scrostata all’esterno, dieci rampe di scale e nemmeno un ascensore e tanti altri appartamenti che sentivano tutto attraverso le pareti che parevano di cartapesta. C’era un salotto attaccato al cucinotto, troppo piccolo per sette ragazze e il padre, senza sedie abbastanza per tutti, un bagno piccolo con una doccia che era più rotta che a posto e due camere: in quella piccola dormiva il padre, su una brandina, in quella grande stavano le sette figlie di Tritone, in tre letti a castello ammucchiati, con un armadio in cui tutto era di tutte, una piccola scrivania con specchio e una misera libreria. Ariel faceva finta di no, ma invidiava molto le persone come Jasmine e Aurora, che avevano una bella casa ampia, una camera tutta per loro, potevano permettersi di comprare qualsiasi cosa ed erano circondate da cose belle. Lei no. Non aveva nemmeno il letto personale, perché quando le sorelle tornavano ubriache dal Bazar non poteva aspettarsi che salissero le scalette dei loro letti.
“Che fate sta sera?” domandò Acquata alle sorelle, mentre cercava di gustarsi il più possibile il suo pezzo di pizza: ne avevano solamente due a testa.
“Io, Attina e Adella andiamo al Bazar” rispose Arista “Abbiamo da fare”
“Oh, non c’è dubbio” commentò sarcastica la sorella maggiore.
“Io vado a fare un po’ di sport” disse Andrina “Non contare su di me questa sera. Non resto io con Ariel”
“Rimango io!” esclamò Alana “Vai pure tranquilla a studiare in biblioteca.”
“Grazie, la prossima settimana ho un esame e non so proprio come fare…” disse Acquata, per poi afferrare l’altra fetta di pizza e sparire fuori dalla porta con la borsa a tracolla, salutando le sorelle. Non molto tempo dopo anche le altre uscirono, mentre Ariel e Alana restarono da sole in casa. Ariel si lasciò cadere su una poltrona con le braccia incrociate e lanciò le scarpe da tennis lontano da sé. In realtà amava profondamente le sue sorelle, una per una, ma a volte era impossibile sopportarle, soprattutto perché lei era la più piccola.
Acquata, la più grande, aveva ventitré anni e studiava a un’università locale come biologa marina, ma dato che passava tutto il suo tempo sui libri non lavorava e una grande parte dei soldi del padre andavano alla sua scuola, in modo da garantirle un futuro anche se purtroppo non aveva potuto prendersi una stanza all’università. Andrina aveva un anno in meno di Acquata, non studiava e faceva l’insegnante di aerobica in una squallida palestra di periferia. Ariel sapeva che aveva dovuto sacrificare molto per avere quel lavoro, ma lei sembrava felice e ogni tanto diceva che sarebbe andata a vivere con il suo storico ragazzo, un istruttore di fitness che veniva dal Guadalupe. Nessuno pensava veramente che lui l’avrebbe presa in casa. La terza sorella era Arista, ventun anni, che finita l’High School aveva creato al padre un sacco di problemi: aveva detto di andare all’università ma poi aveva usato i soldi per comprarsi begli abiti e per passare le giornate nel lusso. Non le era andata così male dal momento che si era trovata un ragazzo con cui stava da un bel po’ di tempo che le pagava praticamente tutto, ma il ragazzo in questione era un pusher che aveva reso sua sorella una drogata. Non di cose pesanti, ma aveva sempre una canna in bocca. Attina era nata dieci mesi dopo Arista, e frequentava anche lei una prestigiosa università di canto di cui nessuno sapeva niente se non che un produttore discografico le aveva messo gli occhi addosso. Adella aveva due anni in meno delle maggiori, ma era unita ad Arista come nessun’altra: ciò che faceva una doveva fare anche l’altra e non si separavano mai. Adella però ogni tanto portava a casa qualche decina di dollari che nessuno sapeva da dove avesse tirato fuori, ma il vecchio Tritone era ormai così amareggiato dalla vita e da com’erano cresciute quasi tutte le figlie da non volere nemmeno sapere da dove arrivavano. Probabilmente sospettava ma non voleva sapere. Alana era la penultima e aveva diciassette anni e mezzo, era la sorella preferita di Ariel ed era sempre pronta a sacrificarsi per le altre. Lavorava da un paio d’anni in un ufficio come segretaria e a volte era costretta a saltare la scuola per turni aggiuntivi, ma portava a casa un bel gruzzolo che divideva con il padre. E poi… c’era lei, Ariel. Capelli di fuoco che non erano appartenuti né alla madre né al padre, occhi azzurri come il cielo e una voce che andava molto oltre le possibilità della povera Attina, che studiava tutti i giorni per la scuola di canto. Ariel si considerava la più sfortunata delle sette sorelle. Per prima cosa aveva pochi e sfuocati ricordi della madre che era morta pochi anni dopo la sua nascita, anche se il padre non ne parlava mai. Sapeva solamente che aveva cercato di mettersi di mezzo in una situazione sgradevole in cui avrebbe dovuto stare zitta, e dopo aver testimoniato contro un ricco in tribunale era stata uccisa da qualche vicario. Ma le prove non c’erano mai state, così il caso era stato archiviato, il vecchio Tritone era rimasto con pochissimi soldi e sette figlie piccole da mantenere al meglio. Il desiderio della moglie era che frequentassero tutte quante l’High School di Manhattan, la più prestigiosa, quella a cui era andata lei stessa, così i soldi scarseggiavano ancora di più.
“Allora, dove volevi andare prima?” domandò Alana buttando in un cestino le due scatole di pizza.
“Volevo uscire” rispose Ariel evasiva.
“Si, ma dove volevi andare?” insistette la sorella.
“Volevo andare a trovare Jasmine, okay?” rispose sbuffando la rossa. Alana si girò con le mani sui fianchi e un’espressione di rimprovero sul viso. Ariel alzò gli occhi al cielo e si lasciò sprofondare nella poltrona.
“Lo saiche papà non vuole che frequenti quella gente” le ricordò “Dice che fanno venire strane idee in testa, i ricchi, che ti fanno nascere l’invidia nei loro confronti e…”
“Non m’importa!” esclamò Ariel alzandosi di scatto “Non m’importa niente di quello che dice papà! Lui non sa come sono Jasmine e Aurora! Non capisce che sono le persone migliori di questa terra, anche se Aurora è ricchissima! Mi ha pure proposto di farmi adottare!”
“Ti ha proposto di farti adottare?!” ripetè Alana sconvolta. Ariel annuì. Alana si lasciò cadere su una sedia “E tu cosa hai detto?”
“Secondo te cosa ci faccio ancora qui? Le avrò detto di no!” sbuffò scostandosi un ciuffo ribelle della frangia via da un occhio. “Ma avrei tanto voluto andare da lei. Loro possono avere qualsiasi cosa, addirittura un pasto decente, mentre noi siamo quasi costrette a soffrire la fame perché papà non ha i soldi” Alana sospirò e andò vicino a lei, spingendola dolcemente a sedersi sulla poltrona. La mora si accomodò sul bracciolo accanto a lei, abbracciandole le spalle.
“So che la situazione non è facile, ma migliorerà. Io, papà e Andrina lavoriamo. E un giorno Acquata avrà un sacco di soldi ogni mese, abbastanza da permetterci di…”
“Non mi importa” ripetè Ariel “Voi non potete capire. Non stavo uscendo perché volevo andare a crogiolarmi nella ricchezza, ma perché Jasmine adesso ha bisogno di me” sostenne, girandosi verso la sorella e guardandola con aria triste “Le è successo qualcosa… non viene a scuola da due giorni, non risponde al cellulare, nemmeno a casa, e suo padre è introvabile. Anche Aurora si sta preoccupando. Devo andare da lei.” Alana sospirò profondamente un paio di volte, poi volse lo sguardo verso la cornice che conteneva la foto della madre. Ariel sapeva che in tutta quella caoticità la sorella si era rimboccata le maniche anche se era una delle più piccole, si era messa a lavorare ed era stata la prima a fare le pulizie di casa e ad occuparsi di rimproverare le sorelle quando facevano qualcosa di sbagliato. Il padre faceva totale affidamento su di lei.
“Mamma, cosa dovrei fare?” mormorò piano fra sé e sé. Dopo qualche secondo in cui guardava malinconicamente la foto si girò verso Ariel e la guardò con aria materna “Va bene, ti faccio uscire. Ma solo per questa volta!” Ariel la abbracciò forte, poi si infilò le scarpe di ginnastica velocemente. Alana distrasse Sebastian e Ariel uscì dall’appartamento.
Corse velocemente giù per le scale, estraendo il cellulare dalla tasca dei jeans scoloriti, corse sulla strada adiacente al parco per fare prima e si inoltrò in una delle vie più conosciute di Manhattan. Digitò il numero di Aurora, poi schiacciò il pulsante di invio chiamata. La voce dolce e preoccupata dell’amica la accolse.
“Ariel!” esclamò “Dove sei? Sono sotto casa di Jas, ma proprio non mi ricordo quel passaggio nel giardino che mi ha detto lei…”
“Arrivo fra dieci minuti” rispose la rossa “Sei riuscita a parlarle?”
“No… e non mi va di entrare nel locale, secondo me centra suo padre…” disse preoccupata.
“Sistemeremo tutto. Tu aspettami” la incoraggiò Ariel, prima di chiudere il vecchio telefono e mettersi a correre.
Quando arrivò davanti alla casa di Jas era senza fiato. La aggirò respirando profondamente e vide Aurora che stava digitando qualcosa sul suo i phone nuovo di zecca. Quando la sentì arrivare si girò, infilando il telefono in borsa senza completare il messaggio.
“Ancora Eric?” domandò curiosa.
“Si… ci dovremmo vedere più tardi, sai…” disse quasi imbarazzata. Ariel le sorrise, poi si mise a frugare nei cespugli, finchè non trovò il cancello del retro, nascosto dalle piante dal Sultano. Non riusciva proprio a credere che avesse sottovalutato così tanto sua figlia, credendo che solo con un cespuglio sarebbe riuscito a nasconderle la seconda uscita. Lo aprì attenta a non fare rumore, poi si infilò nel giardino insieme ad Aurora. Strisciarono nel giardino fino a raggiungere la porta della cucina e lì si accucciarono un momento per controllare che non ci fosse nessuno: solitamente c’erano sempre un paio di cuochi che fumavano sigarette. Quando videro che la via era libera Ariel si aggrappò con entrambe le mani alla grondaia e si puntellò con i piedi sul muro salendo verso il balcone bombato dell’amica, e quando lo raggiunse si lasciò scivolare dietro la ringhiera. Aspettò Aurora che salì con qualche problema in più, poi guardò dietro la finestra che non ci fossero il Sultano o Jaff, il caposala, e bussò. Non ricevette risposta per qualche minuto, ma quando Aurora si domandò se Jas non fosse in casa, Rajah cominciò a miagolare finchè la loro amica non dovette aprire la finestra. Le guardò con occhi sorpresi e le invitò ad entrare.
Ariel si sedette sul suo letto senza tanti complimenti, Aurora si accoccolò su un cuscino prendendo in braccio Rajah e Jasmine si lasciò cadere sul letto. Era in biancheria intima e il letto era disfatto, ma non sembrava affatto malata. La rossa la guardò un po’, poi incrociò le braccia, stanca di non ricevere risposte.
“Allora?” domandò impaziente “Mi vuoi spiegare perché non ti sei fatta vedere né sentire per due giorni interi?” la mora restò in silenzio. “Dobbiamo organizzare la festa tutte insieme!” esclamò poi “E tu non ci sei!”
“Io non so se vengo” rispose Jasmine debolmente.
“Non lo sai nel senso che tuo padre non ti fa venire?” domandò Aurora con delicatezza.
“Oh, no. Mio padre mi fa venire” rispose Jasmine “Ma è successo un casino e io non so più cosa fare”
“Se ce ne parlassi, magari potremmo trovare una soluzione tutte insieme” disse Ariel “E’ così che fanno le amiche” l’amica la guardò con un debole sorriso e le prese la mano. Chiuse gli occhi per qualche lungo secondo, poi si alzò, prese il cuscino e stringendolo le guardò intensamente per qualche minuto. Aurora aspettava paziente, mentre la rossa batteva ritmicamente il piede a terra. Poi Jas parlò.
“Domenica sera non è vero che stavo andando a mangiare” raccontò “Mio padre mi aveva negato il permesso per la festa, e alla fine io ho deciso di fare come le sorelle di Ariel: se fossi scappata di casa e mio padre si fosse preoccupato, avrebbe capito che non poteva costringermi, così avrei potuto venire”
“E ha funzionato?” domandò la bionda presa.
“Praticamente si…” rispose Jasmine “Ma in realtà è successo molto altro. Sono stata al Bazar”
“Al Bazar?!” esclamò Ariel, un po’ amareggiata e delusa dal fatto che l’amica non avesse voluto andare con lei. Ma poi pensò che probabilmente anche lei avrebbe preferito andare da sola, così lasciò correre il problema.
“Si… è un casino. Banchi, donne che ballano quasi nude, concerti e un sacco di gente che non capisce niente” raccontò ancora “E poi in fondo c’è una stanza quasi chiusa in cui… credo… ci sia droga” Aurora trattenne rumorosamente il fiato “E io ho… ho fumato qualcosa” continuò gesticolando “Ho fumato qualcosa che non mi ha fatto capire più niente. Qualcosa che mi ha fatta volare. E poi, mentre mi stavo cacciando nei guai… è arrivato lui. Ali.”
“Ali?!” le fecero eco le amiche.
“Si, Ali. Un ragazzo bellissimo. Dolcissimo. Sincero. Gentile. Lui mi stava aiutando” gli occhi della mora cominciarono a colmarsi di lacrime “Lui mi capiva. Lui sapeva cosa provavo e voleva aiutarmi a stare meglio. Lui mi stava per baciare. Ma poi è arrivato Jaff, e me l’ha portato via. L’ha messo in galera. Ha detto che non c’è più speranza. E mio padre vuole che io mi sposi con Jafar, e…”
“Oh, mio Dio!” esclamò sconvolta Aurora, che non riusciva a comprendere quanta cattiveria potesse esserci al mondo “Ma dobbiamo fare qualcosa! Dove l’ha portato? Sai dirmelo? Oddio, Jas, dovevi dirmelo subito” Ariel la guardò sarcastica.
“E questo cosa avrebbe cambiato?”
“Mio padre è il consigliere del presidente!” esclamò con voce stridula la bionda “Dimmi dove l’hanno portato, Jas, e io te lo ritroverò” Jasmine si sfregò gli occhi con un braccio e la guardò incredula.
“No, non puoi farlo” disse lasciandosi ricadere sul materasso “Nessuno può. Sarà condannato a morte”
“Scemenze!” urlò Aurora “Nessun quasi fidanzato di una mia amica finirà su una sedia elettrica!” Ariel non aveva mai visto l’amica tanto determinata. Conosceva la bionda e sapeva che la sua bontà era superiore persino ai suoi soldi. Ma non sapeva che fosse anche determinata e con così tanto potere da poter tirare qualcuno fuori da una prigione. Ariel, dal canto suo, non avrebbe saputo che fare, e pensò che se fosse successa la stessa cosa anche a lei avrebbe reagito come Jasmine. Ma lei non era innamorata, e dell’amore non le interessava niente. Così decise di dare man forte all’amica.
“Dai, dicci dove l’hanno portato” disse con voce dolce alla mora.
“Non lo so” mormorò poi questa “So solo che è stato mandato alla polizia”
“Dammi cinque minuti” disse Aurora entrando nella cabina armadio di Jasmine con il cellulare in mano. Ariel guardò Jasmine scoppiare in singhiozzi. Non aveva mai visto l’amica piangere in tutta la sua vita, le sembrava così strano che adesso per un ragazzo tutta la sua sicurezza, la sua voglia di vivere, il suo spirito simpatico e ribelle fossero scomparsi nel nulla. Si somigliavano molto, e proprio per questo non poteva capire come mai reagisse così. Il pensiero che le attraversò la mente per primo fu che probabilmente quel ragazzo per lei era molto importante. Ariel non credeva nell’amore a prima vista, ma non essendosi mai innamorata in vita sua non poteva nemmeno escludere che esistesse.
Non sapeva come comportarsi. Sapeva che quando una delle sue sorelle stava male per amore, specialmente Arista e Adella, Alana era la prima a preparare una cioccolata calda con biscotti trasgredendo per una volta gli ordini di suo padre, e ne parlavano. Ma non aveva mai sentito di una sorella che si innamorava e che non aveva nemmeno il tempo di restare per un giorno col ragazzo prima che questo fosse portato via.
“Ci sarà una soluzione” disse, con la voce più convincente che riuscì a trovare “Ci sarà sicuramente. Non posso credere che abbia fatto qualcosa di male, non se ti ha aiutata… o no?” Jasmine la guardò col viso rigato di lacrime. Ariel sospirò preoccupata e nella stanza ricadde il silenzio, rotto da Rajah che si faceva le unghie sul tappeto della ragazza.
Passò una buona mezz’ora di silenzio, poi Aurora riemerse dalla cabina armadio. Rajah le corse incontro miagolando e lei lo prese in braccio.
“Ho parlato con papà, che ha chiamato il dipartimento polizia” Jasmine alzò la testa “Ha detto che in effetti domenica sera è arrivato un ragazzo di nome Ali, di diciannove anni… corrisponde?” la mora annuì piena di speranza “Ma non hanno trovato niente contro di lui, così il capo della polizia si è messo a cercare qualche crimine, dopodiché l’ha lasciato a un uomo molto muscoloso che l’ha preso con sé, dicendo che era un suo dipendente. Non è più in polizia, e tantomeno in prigione” Jasmine spalancò gli occhi nella penombra e si mise seduta.
“Hai saputo qualcos’altro?” domandò con voce stridula.
“Ancora no, ma papà mi chiamerà fra non molto per dirmi dove si trova, così potrai andare a incontrarlo” rispose Aurora con un gran sorriso. Poi si girò verso Ariel “Ma non riesco a incontrare Eric questa sera e ho il telefono occupato… per favore, Ariel, andresti da lui? Potresti spiegargli la situazione… digli di mandarmi un sms quando può” Ariel si morse un labbro.
“Perché proprio io?”
“Io devo rimanere con Jas. Scendo con te, farò finta di essere venuta a trovarla e di andare a fare una passeggiata, papà mi aspetterà qua fuori…” disse, per poi appoggiare Rajah a terra, che cominciò a miagolare “Ci vediamo fra poco, Jas!” esclamò uscendo sul balcone. Ariel la seguì. L’idea di entrare per un momento nel mondo dei ricchi, come se fosse stata una di loro, le piaceva molto. Ma d’altro canto avrebbe voluto restare con Jasmine, e poi sapeva di non avere molto tempo… in breve sarebbe dovuta tornare a casa o il padre avrebbe scoperto che era uscita. Seguì Aurora sul balcone, poi si lasciò cadere giù atleticamente, mentre l’amica era un po’ più impacciata. Uscirono dal cancelletto senza essere scoperte, dopodiché si separarono.
Ariel si incamminò verso la Dream’s House, uno dei fast food più economici ma conosciuti di Manhattan, dove quando Alana le dava qualche spicciolo si fermava a prendere un caffè e un hamburger con le sue amiche. Aurora le aveva detto che si doveva incontrare lì con Eric. Eric… come avrebbe fatto a riconoscerlo? Non l’aveva mai visto. Possedeva solamente le descrizioni dettagliate dell’amica. Sapeva che era alto sul metro e settantacinque. Sapeva che aveva diciassette anni. Che aveva capelli scuri con un gran ciuffo e occhi azzurro chiaro come il cielo. Sapeva che era ricco anche lui, quindi si aspettava anche che fosse curato, profumato e vestito con abiti di marca, come tutti i ricchi. Non poteva essere diverso. E tutti i ragazzi ricchi erano snob. Affondò le mani nelle tasche della felpa e pensò che forse avrebbe dovuto informarsi di più riguardo ai ragazzi e single e magari meno snob di altri di Manhattan, dato che fortunatamente viveva lì, anche se con mille invidie. Sotto le dita sentì qualcosa di sottile e stropicciato, e tirò fuori una mano dalla tasca. C’erano dieci dollari! Fantastico! Li guardò con un gran sorriso. Erano suoi. Tutti suoi, non ci poteva credere!
Svoltò una curva e arrivò davanti alla Dream’s House. Entrò e il campanello sopra la porta tintinnò allegro. Ariel si guardò un momento intorno. Una cameriera con folti capelli scuri la guardò un momento senza scomodarsi a salutarla, il proprietario muscoloso stava a braccia incrociate dietro la cassa, bofonchiando annoiatamente alla sua compagna, un’altra mora. Alla sua sinistra c’era un gruppo di ragazzi seduti a un tavolo che discutevano di videogiochi e un barbone era accovacciato su una sedia davanti al bancone. Verso destra c’era solo un tavolo occupato da qualcuno che stava di schiena. Ariel decise di avvicinarsi e vedere chi era.
Era un ragazzo molto bello, il più bello che Ariel avesse mai visto in vita sua. La pelle era abbronzata, come se passasse la maggior parte del suo tempo fuori al sole piuttosto che in casa a studiare. I capelli neri erano lucidi e leggermente ondulati e un gran ciuffo gli copriva la fronte e un pezzo di un occhio chiaro come il cielo. Il naso era dritto e il profilo impertinente le ispirò subito simpatia. Guardandolo meglio scoprì anche gli occhi chiarissimi e la bocca nascosta da una mano grande e forte: chiaramente non era il tipico ragazzo ricco. Sbuffò e il ragazzo si girò sentendola.
“Ehi” le disse “Ho occupato il tuo posto?”
“No…” rispose lei “In realtà stavo cercando un ragazzo, ma non credo di averlo trovato… avrebbe dovuto essere qui” gli lanciò un’occhiata. Per quanto potesse somigliare alle descrizioni di Aurora, non poteva essere lui. Questo ragazzo indossava una t – shirt scura, con alcuni disegni colorati, un paio di semplicissimi jeans e delle scarpe da ginnastica della Etnies.
“Anche io stavo cercando una ragazza… ma non l’ho trovata” ammise poi, avvicinando il caffè alle labbra e aspirandone un po’ “Che dici, ti offro un caffè? Non ne posso più di rimanere solo” Ariel quasi scoppiò a ridere, sedendosi davanti a lui.
“Vada per il caffè. Magari entrerà qui da un momento all’altro e potrò riferire il messaggio” rispose la rossa. Il ragazzo alzò una mano e chiese un altro caffè e due ciambelle che arrivarono subito dopo. La ragazza era stupita: aveva preso la ciambella al cioccolato, la sua preferita, quella ricoperta di caramellato e piena di pallini bianchi e marroni di cioccolato… “Scusami se ho ordinato anche le ciambelle, spero ti piacciano. Sono le mie preferite”
“Anche le mie!” esclamò Ariel stupita “Chi stavi aspettando?” chiese poi, mentre addentava il dolce.
“Una ragazza con cui esco” disse vago “E tu chi cercavi?”
“Il ragazzo della mia migliore amica che non può venire a incontrarlo… ci sono stati problemi con l’altra migliore amica” rispose con un sospiro.
“Mi dispiace. I problemi delle ragazze sono sempre così grandi! A volte quasi mi chiedo se lo facciate apposta” cominciò “A volte un brutto voto diventa due settimane di reclusione, un divieto una tragedia, un amore finito un ostacolo insormontabile…” Ariel annuì con decisione.
“Assolutamente” concordò “Alcune ragazze si complicano tutto con queste cose, ma non hanno idea di come sia la vita vera, dato che hanno sempre la pappa pronta. Non sanno cosa vuol dire non avere da mangiare quello che vogliono, pagare l’affitto, farsi passare i vestiti dalle sorelle…”
“Andare a lavorare per mangiare, avere la madre che è costretta a quasi non dormire per avere uno stipendio…”
“Le bollette, la scuola…”
“Non sentirsi mai a proprio agio fra i ricchi!”
“Ma si hanno sempre soldi per il cane!” conclusero insieme, per poi scoppiare a ridere. Ariel era stupita dal fatto che un ragazzo appena incontrato completamente per caso fosse così simile a lei, dalle ciambelle, alle sensazioni, a ciò che provava fino ad avere un cane insopportabile. Si trovava già a suo agio, sembrava che lui la capisse, avesse passato le stesse cose… e la sua risata era così contagiosa…
“I tuoi sono poveri?” domandò la rossa.
“No, ormai non più. Mio padre è riuscito a far fruttare il suo talento nella costruzione degli yacht e adesso ha una grande azienda” rispose con un sospiro “Anche se io sono cresciuto quasi alla fame. Il primo yacht gliel’ha comprato Stefano Reale, sai, il consigliere?” Ariel annuì sorridendo sotto i baffi. Aurora non voleva che dicesse ai quattro venti di chi era figlia per modestia, non voleva che gli altri la considerassero più ricca o potente di loro. Non potè non pensare che la sua amica era veramente una delle persone migliori dell’universo.
“Mio padre invece non è andato più in là della sua barchetta scassata.” Raccontò “E’ il vecchio Tritone, quello da cui tutti comprano il pesce, qua. Non so come faccia, sembra il re del mare! Sa sempre dove trovare questo o quel pesce, come fare a catturarlo, quanto lontano andare…”
“E’ molto famoso in zona” concordò il ragazzo mangiando la ciambella “E mi hai detto che anche tu hai un cane insopportabile?”
“Sebastian” confermò Ariel “Non mi molla un secondo. Quando sono in casa se cerco di uscire comincia ad abbaiare. Mio padre l’ha addestrato così per evitare che facessi le stesse cavolate delle mie sorelle. Sai, sono sei e le loro cose le hanno fatte anche loro…”
“Il mio si chiama Max” raccontò il ragazzo “Non è cattivo, semplicemente è sempre fra i piedi e non si scrosta un momento. Anche per me è impossibile uscire in incognito” Ariel sbuffò.
“E’ sempre così difficile…” cominciò, ma venne interrotta dal campanellino e da un urletto familiare.
“Ariel!” trillò Aurora, appena entrata nella Dream’s House “Che coincidenza, sapete, mio padre ha trovato Ali proprio in questo posto…” Ariel fece appena in tempo a vedere Jasmine che correva nelle cucine, che Aurora le fu subito accanto “L’hai trovato!” esclamò poi “Mi sono preoccupata, quando ho pensato che non avevi mai visto una sua foto… ecco, questo è Eric!” esclamò con un gran sorriso volgendosi verso il ragazzo moro davanti a lei, che aveva uno sguardo inebetito, come se avesse appena ricevuto una gran botta in testa.
“A – Aurora?” domandò mentre lei gli prendeva dolcemente una mano fra le sue “Cosa… lei è… tua amica?”
“Tu eri…” boccheggiò la rossa.
“Si, ma come, non l’avevi riconosciuto? Non mi dite che non vi siete nemmeno presentati” scoppiò in una risata cristallina “Come siete distratti!”
Ariel non riuscì a codificare ciò che stava provando. Sapeva solamente che era molto strano e non piacevole. Deglutì, si alzò in piedi e li guardò con un sorriso tirato.
“Scusate, ma io devo tornare a casa… se mio padre mi scopre mi fa una ramanzina che durerà secoli… buona serata!” balbettò, per poi dirigersi verso l’uscita.
“Ariel!” esclamò Eric, ma l’urlo si affievolì dietro la porta di vetro. Ariel si strinse nelle spalle, attraversò la strada e si diresse verso casa. Non capiva cosa fosse quella sensazione. Sicuramente non era nulla di buono. Era qualcosa che poteva somigliare alla delusione, alla speranza infranta, o forse era solamente malinconia. Seppe solo che gli occhi si stavano riempiendo di lacrime, e che l’immagine di quel ragazzo spigliato, normale e speciale le stava invadendo la mente. Si passò la felpa sugli occhi per asciugarli e affrettò il passo. Voleva allontanarsi dalla Dream’s House il prima possibile.


Qualche sera dopo Ariel era sdraiata sul letto lanciando noiosamente una pallina sul soffitto e riafferrandola quando rimbalzava. Non trovava nessun divertimento in ciò che stava facendo, semplicemente le serviva per non pensare a Eric. Alana si era resa conto che c’era qualcosa che non andava, ma aveva avuto il buon senso di non chiederle nulla dal momento che la vedeva particolarmente giù di morale. La ragazza era andata a scuola, ma non aveva rivolto quasi parola ad Aurora e a Jasmine, che ridevano e scherzavano tutto il giorno sui rispettivi ragazzi. La mora aveva finalmente trovato il suo Ali che lavorava alla Dream’s House, era stato preso dal proprietario che era passato quasi per caso in polizia e l’aveva assunto. Da quel momento il ragazzo si era dato un gran da fare nel fast food svolgendo tutti i carichi più pesanti. Quando arrivava una consegna era il primo a uscire e quello che portava più pacchi, era l’ultimo a chiudere il locale la notte perché si fermava a pulire tutto meticolosamente e i piatti non erano mai stati più luccicanti. Garth non poteva dirsi più soddisfatto. Quanto a Jasmine, passava spesso da lì prima di tornare a casa, a prendersi qualcosa da bere, e dopo qualche scomoda spiegazione le cose fra i due si erano risolte e ora erano così uniti da sembrare che si dovessero sposare il giorno dopo. Aurora aveva continuato a uscire con Eric, anche se quest’ultimo non era più allegro e divertente come prima, a detta sua, doveva essergli successo qualcosa ma non ne voleva parlare. Aurora lo accettava comunque, era felice di passare del tempo con lui anche se era strano. Doveva essere veramente innamorata.
I preparativi per la festa andavano ancora meglio delle storie delle due ragazze e nonostante il morale di Ariel fosse decisamente sotto i piedi, non poteva fare a meno di essere eccitata per l’avvenimento e non vedeva l’ora di andare. Si era appuntata mentalmente di riuscire a trovare un ragazzo qualsiasi alla festa e voleva ubriacarsi. Non l’aveva mai fatto e non sapeva cosa volesse dire, ma aveva sentito tante volte le sue sorelle parlarne e ne aveva dedotto che serviva a divertirsi. Ma per quanto pensasse ai suoi buoni propositi, non riusciva a capire come potesse esserci sempre quella cattiva nota che non le permetteva di andare fino in fondo… c’era qualcosa che non andava in tutta quella storia.
“Ariel, piantala con quella pallina” la avvertì minacciosamente Acquata “Hai rotto le palle con questo tap – tap. Vai a farlo da un’altra parte”
“E dove, di grazia?” domandò la rossa cinicamente “Il mastino è lì a farmi la guardia”
“Ti faccio uscire, d’accordo? E ti copro anche!” esclamò l’altra al limite dell’esasperazione “Ma ho bisogno che tu la smetta!”
“A questo punto si può fare” concesse l’altra, scendendo le scalette del letto a castello. Si infilò un paio di scarpe da ginnastica che trovò nella stanza, la borsa ancora colma di roba e incrociò le braccia, aspettando che la sorella le desse il via libera. Acquata volse gli occhi al cielo, dopodiché uscì e andò a tenere il cane lontano dalla porta. Ariel uscì facendogli una linguaccia, e si diresse verso la Dream’s House. Era l’unico posto in cui poteva andare a stare tranquilla. Di notte non le piaceva molto stare per strada da sola, sapeva che nonostante Manhattan fosse la residenza dei ricchi non era sicuro per una ragazzina come lei, così preferiva stare in un luogo chiuso.
Quando arrivò al fast food aprì la porta che tintinnò, sperando che non ci fosse Jasmine dentro. Le sue speranze furono ascoltate e Ariel si diresse verso il tavolo che aveva occupato con Eric quando si erano incontrati quella prima volta. Si sedette dov’era lui quella sera, e quando la mora arrivò a chiederle cosa desiderava prese un caffè e una ciambella. Aveva ancora i dieci dollari di quella sera ed era il momento di spenderli. Si sentiva così giù di morale che ne avrebbe spesi anche cinquanta per un po’ di cioccolato, ma doveva assolutamente tirarsi su di morale. Il caffè arrivò poco dopo insieme alla ciambella, e la ragazza cominciò a bere, dopo aver dato il dovuto alla ragazza che le portò il resto. Restò lì per un quarto d’ora pieno, dopodiché si rese conto che qualcuno si era seduto accanto a lei. Si distrasse dai suoi pensieri, quasi cadendo dalle nuvole, e riconobbe davanti a sé Eric. Abbassò nuovamente lo sguardo arrossendo lievemente.
“Cosa ci fai qui?” domandò.
“Potrei chiedere lo stesso a te” rispose lui, ordinando lo stesso di Ariel “Comunque, sono venuto qua per riflettere. Ci sono un po’ di cose che proprio non mi quadrano” lei lo guardò sarcastica.
“Cosa, avere una ragazza ricca quanto bella e brava? Oh, quello quadra tantissimo, altrochè”
“Invece non così tanto” rispose lui, per poi chiudersi nel silenzio. La rossa sospirò chiedendosi il perché di quelle parole senza trovarne una ragione plausibile. Da sempre a scuola loro tre erano abbastanza conosciute fra i ragazzi, specialmente Aurora. Certo, era normale. Aurora era bella, alta, bionda con due magnetici occhi azzurri, vestiva in maniera originale seppur elegante, sapeva ballare, cantare, era un’ottima attrice che partecipava al teatro della scuola, era una campionessa di pallavolo e per anni aveva fatto la cheer leader; come se non bastasse aveva ottimi voti ed era reginetta di tutti i balli della scuola da quando vi aveva messo piede. Non riusciva proprio a capire come un ragazzo potesse non avere le idee chiare con lei. Lei stessa, se fosse stata un ragazzo, avrebbe avuto gli occhi addosso all’amica. Lo guardò per qualche momento, accorgendosi di essere profondamente infastidita dalla sua presenza. Si rese conto che non avrebbe voluto vederlo, che avrebbe dovuto andarsene, lasciarlo stare e non voleva rivederlo mai più. Si alzò appoggiando le mani sul tavolo e finì rumorosamente il caffè.
“Beh, io me ne vado” annunciò. Lui alzò lo sguardo incredulo.
“Non puoi andartene” balbettò. Ariel afferrò la borsa e l’appoggiò a una spalla.
“Voglio proprio vedere come me lo impedirai!” esclamò poi, girando sui tacchi e uscendo quasi di corsa dalla porta. Quando si trovò nell’aria fresca della città di sera, chiuse un momento gli occhi, sentendo un’altra emozione salirle in cuore. Non era proprio convinta di fare la scelta giusta andandosene, ma non voleva proprio essere scoperta dalla sua migliore amica a parlare con il suo ragazzo, né da suo padre che tornava a casa. Sapeva che non erano scuse plausibili, ma non riusciva più a resistere in presenza di Eric, le provocava davvero fastidio vederlo. Si sentiva illusa, trascurata e delusa.
Riaprì gli occhi e si incamminò per la strada, immersa nei suoi pensieri, ma venne fermata poco dopo da Eric, che le aveva afferrato un braccio.
“Ariel, ti prego, non andartene” la pregò con gli occhi carichi di malinconia. Ariel avvertì una fitta al cuore.
“Lasciami” mormorò.
“Non andartene, io volevo parlarti, e quando ti ho vista passare da sola, immersa nei tuoi pensieri, beh…” cominciò lui senza lasciare il suo braccio. Ma la ragazza sentì le lacrime sopraggiungere agli occhi, e non se la sentiva nemmeno di guardarlo.
“Lasciami!” esclamò cercando di strattonare il braccio.
“No!” urlò lui, per poi attirarla verso di sé con un movimento secco, allungare una mano alla sua testa, stringerla e avvicinare velocemente il viso al suo. La baciò.
Ariel era seriamente sconvolta. In primo luogo non avrebbe mai immaginato di dare in questo modo il suo primo bacio. Si sarebbe aspettata un’atmosfera più romantica, più dolce e forse un po’ più elaborata, ma ormai la possibilità era persa. Poi si sentiva totalmente scombussolata. Eric, quel ragazzo meraviglioso con la risata contagiosa e il viso impertinente l’aveva appena baciata. Eric, l’unica persona da cui Ariel avrebbe voluto essere baciata. Si, perché se ne rese conto in quello stesso istante: era innamorata di lui. E al diavolo tutti i suoi pensieri sull’amore a prima vista inesistente, sul colpo di fulmine finto, sull’amore che viene per gradi. Veramente, al diavolo. Lei si era innamorata di Eric nel primo istante in cui l’aveva visto seduto a quel tavolo, dal momento in cui lui le aveva rivolto la parola e quando avevano bevuto caffè e mangiato ciambelle e parlato delle loro vite così simili e così diverse. Ma il terzo pensiero, sopra tutto ciò, fu il più insistente, e fu quello che la spinse ad afferrare con forza le spalle di lui e spingerlo via. Eric stava uscendo con la sua migliore amica. Con la sua ricca e buona migliore amica, con Aurora, che era sempre pronta a fare del suo meglio per gli altri.
Eric venne staccato da lei almeno di un metro dopo la sua spinta, barcollò e la guardò con occhi allucinati.
“Non dovevi farlo” mormorò Ariel, rossa in viso, sfregandosi le labbra con la manica della felpa “Era il mio primo bacio, e tu il ragazzo della mia migliore amica”
“Ma io in realtà… Aurora e io…” balbettò lui, ancora più sconvolto.
“Non voglio vederti mai più” disse lei.
Poi si voltò e corse via, col cuore infranto.


Era un tramonto arancione che illuminava la stanza di Ariel e delle sue sorelle quel sabato pomeriggio e la ragazza era sdraiata sul letto più alto a pancia in giù, il soffitto di vernice grigia sopra la sua testa. Un braccio penzolava giù dal materasso mollemente, insieme ad alcune ciocche di capelli. Erano giorni interi che Ariel aveva spento il suo vecchio Nokia e non lo riaccendeva, giorni che non parlava con le sue amiche e giorni che non usciva di casa, che nemmeno tentava di ribellarsi agli ordini delle sorelle e del padre. Un po’ era arrabbiata con Jasmine e Aurora, entrambe troppo impegnate con i rispettivi ragazzi per potersi occupare di lei, della loro migliore amica che invece per loro c’era sempre stata. D’altro canto non aveva per niente voglia di vederle. La mora le ricordava che aveva la fortuna di essere innamorata e ricambiata, la seconda che aveva colui a cui apparteneva il suo cuore.
Cercava di non pensare a Eric, al suo sorriso, alla sua voce, alla sua semplicità, ma soprattutto cercava di dimenticare quel bacio improvviso che le aveva sconvolto la vita. Ogni volta che pensava che la noia fosse riuscita a togliere i ricordi, ecco di nuovo la sensazione delle labbra sulle sue, delle farfalle nello stomaco, della rabbia e della frustrazione, della felicità e la comprensione dell’amore. Ma sapeva di aver fatto la cosa giusta.
Si, la cosa giusta per gli altri. Sapeva che lo voleva, che voleva prenderselo e godere solo lei della sua risata e dei suoi racconti. E non le importava proprio niente che fosse il fidanzato della sua migliore amica. Insomma, non stavano nemmeno insieme.
Ariel non aveva più messo piede alla Dream’s House. Quel luogo portava male, almeno alle sue amicizie, e nonostante non fosse una persona superstiziosa, il bisogno di trovare un perché agli eventi la resero ostile al fast food in cui una volta avrebbe passato le giornate. Ma ormai non più. E specialmente non a quel tavolo. Quel tavolo maledetto. Quella strada maledetta. Quel maledetto locale!
Qualcuno bussò leggermente alla porta chiusa, e Arista mugugnò qualcosa, avvolta nelle coperte. Era tornata quella mattina senza soldi, piena di lividi e puzzolente di sudore. Si era fatta una doccia e si era buttata a letto. Le sorelle avevano subito capito che era successo qualcosa di brutto, così l’avevano lasciata stare e avevano lasciato che passasse il tempo prima di domandarle cos’era successo. Acquata e Attina quel giorno erano rimaste a studiare all’università, Alana e Andrina lavoravano, Adella era uscita a incontrare presumibilmente il suo ragazzo.
La porta si aprì e ne entrò il vecchio Tritone, con la solita tuta con cui si vestiva per andare a lavorare. Ignorò la figlia dormiente e salì le scalette per andare a sedersi accanto ad Ariel. Tritone era un uomo grande e grosso, decisamente imponente, con grandi spalle muscolose e forti mani callose. I suoi occhi verdi erano sormontati da folte sopracciglia ormai grigie come la lunga barba ben curata. La guardò un momento malinconicamente, e Ariel ricambiò lo sguardo, poi le fece un buffetto su una guancia.
“Cosa succede alla mia piccola Ariel?” domandò con voce profonda e leggermente roca. La ragazza sospirò.
“Niente” rispose lei nascondendo il viso. Il padre le carezzò i capelli dolcemente. Quando lei si girò i suoi occhi erano velati dalla tristezza. La guardò per un lungo momento in cui la rossa si sentì in colpa per aver detto che non aveva niente.
“C’è la tua amica Aurora in salotto. È venuta a parlarti” disse lui tranquillamente. Ariel spalancò gli occhi.
“E tu l’hai fatta entrare? Ma lei… lei è una ricca”
“Non m’importa chi è ricco oppure no, bambina” disse con un sorriso malinconico il Tritone “A me non è mai importato. So solo che i ricchi a volte fanno più facilmente male alle persone che i poveri. Volevo preservarti dal male” Ariel trattenne il respiro “Non voglio perderti, piccola mia, ecco perché ti ho tenuta segregata in casa per tutti questi anni. Non voglio che tu te ne vada via come fanno i pesci, quando si accorgono di essere in trappola. La tua amica è venuta per parlare con me e poi con te. Mi ha chiesto di persona se puoi partecipare alla sua festa questa sera. Io ho accettato” Ariel lo guardò senza crederci “Vai, bambina, e divertiti” mormorò carezzandole una guancia, poi si voltò e scese le scalette.
“Papà!” esclamò Ariel prima che lui raggiungesse la porta della camera “Papà, non è vero che non ho niente. E’ che io…” gli occhi del Tritone si illuminarono, mentre lui alzava una grande mano zittendola.
“Non importa, bambina. Non importa. Non sentirti in colpa. Se vorrai, ne parlerai al tuo vecchio Tritone quando ti sentirai pronta. Fino ad allora, sappi che ti starò sempre accanto, piccola mia. Ti voglio bene” mormorò. Poi aprì la porta e uscì. Ariel rimase a fissare la vernice bianca e la maniglia che sbattevano ripetutamente contro lo stipite, udì la porta dell’appartamento chiudersi e seppe che il padre era uscito.
Si sentiva frastornata da quell’ultima chiacchierata. Non avrebbe mai pensato che al padre in realtà non importasse nulla dei ricchi o dei non ricchi. Scese velocemente la scaletta, si infilò un paio di scarpe da ginnastica e andò in salotto, dove Aurora la stava aspettando, grattando le orecchie al mastino Sebastian. Quando la sentì entrare si voltò e la guardò per un lungo momento.
Ariel vide con chiarezza che gli occhi della sua migliore amica erano velati, che erano leggermente rossi, che piccole gocce erano ancora impigliate nelle lunghe ciglia scure. Capì che Aurora aveva pianto. Le si precipitò incontro, la abbracciò forte. L’amica la strinse, fece un singhiozzo ma non si lasciò andare nemmeno per un momento. Le due amiche si guardarono.
“Ho provato a chiamarti migliaia di volte” le disse la bionda. Ariel estrasse il telefono dalla tasca della felpa e lo accese. Sullo schermo arrivò l’avviso di quattrocentonovantacinque chiamate dell’amica, e si sentì veramente uno schifo. Non ebbe nemmeno il coraggio di chiederle scusa per la sua mancanza. Aurora alzò le spalle, le fece un sorriso tirato, poi le consegnò la busta che aveva fatto lei stessa, rosa antico con una scritta più scura sopra. Sei invitato alla grande festa di Aurora Reale!. Annuì.
“Vengo. Mio padre mi ha dato il permesso” mormorò. Gli occhi di Aurora si illuminarono per un istante, per poi tornare velati. Poi si strinse nelle spalle cercando di sorridere, i capelli biondi a boccoli le ricaddero sulla schiena.
“Allora, ti va di andare a fare un po’ di shopping?” domandò. Ariel infilò le mani nelle tasche dei jeans tirando la stoffa fuori come simbolo.
“Non ho niente”
“Pago io.” Ariel non si era mai fatta offrire niente che andasse oltre un panino e scosse la testa ma smise quando vide l’espressione dell’amica “Ti prego” disse infatti. La rossa fece un lungo sospiro.
“Va bene. Ma niente Gucci, Prada e quella roba lì. Non l’accetto” l’amica le sorrise, la prese a braccetto e la scortò fuori dall’appartamento.


Il viaggio fino al centro commerciale fu silenzioso. Aurora non sembrava in vena di parlare, mentre Ariel non ne aveva il coraggio. Capiva che all’amica fosse successo qualcosa di brutto, ma se non le avesse parlato non le avrebbe tirato fuori nulla. In fondo, doveva sentirsela. In fondo al cuore, però, sentiva che in realtà voleva parlarne proprio a lei, perché fare un’uscita solo loro due? Perché andare a casa sua? Ariel si vergognava profondamente del trilocale in cui vivevano in otto, soprattutto davanti a una persona ricca come Aurora. Aveva qualcosa da confidarle, e presumeva che in questo qualcosa centrasse proprio lei. Quando arrivarono al centro commerciale per cercare i giusti abiti e accessori erano ancora in silenzio. Entrarono in un negozio in cui si diresse subito Aurora, che cercò di scherzare un po’ dando qualche abito ad Ariel, poi entrarono entrambe nelle cabine a provarsi vestiti su vestiti. Dopo almeno cinque cambi entrambe convennero che Ariel doveva assolutamente prendersi un abito verde di raso che enfatizzava i seni un po’ scarsi della ragazza e che era stretto in vita, in modo da fasciarle i fianchi magri. Aurora era indecisa fra tre diversi abiti, e dopo esserseli provati uno dopo l’altro per almeno tre volte, ne scelse uno rosa e azzurro fasciante, in raso ma largo sulla gonna, sotto la vita, con uno stile un po’ anni trenta. Le stava d’incanto. Quando uscirono dal negozio si sedettero su una panchina nel corridoio mangiandosi una cialda insieme. Dopo poco Aurora finalmente parlò.
“Volevo parlarti. Sono giorni che vorrei parlarti ma sei irraggiungibile” disse. Ariel si sentì in colpa per l’ennesima volta quel giorno e rimase in silenzio, aspettando che l’amica proseguisse. La bionda fece un sospiro, come se stesse aspettando una risposta senza averla ottenuta, poi proseguì “Ho rotto con Eric, sai. Qualche giorno fa mi ha detto che chiaramente non facciamo l’uno per l’altra. Io non potrò mai capire la situazione in cui si è trovato da piccolo, si sente inferiore quando è con me e via dicendo” concluse guardando a terra, mentre la rossa le lanciò un’occhiata di soppiatto “Si, ci sono stata male, ma proprio mentre mi diceva quelle cose mi è venuto in mente che in realtà stava dicendo un po’ quello che avresti potuto dire tu a un ragazzo ricco, così mi sono anche ricordata di quella sera in cui vi ho trovati alla Dream’s House e delle facce che avete fatto quando mi avete vista… insomma, si, mi piaceva molto. Ma non ti chiedo di dirmi perché mi hai rubato il ragazzo, Ariel.” Aurora si protese e afferrò le mani dell’amica nelle sue. E quando la guardò vide che gli splendidi occhi azzurri erano carichi di lacrime “Non te lo chiedo perché lo so già: siete voi che siete fatti l’uno per l’altra, non certo io e lui. Non ti chiedo nulla, è giusto che le cose vadano così. Volevo solo sapere se potresti perdonarmi per non aver capito” Ariel si sentì definitivamente l’ultimo rifiuto sulla faccia della terra. Non solo era stata sua la causa per cui i due si erano lasciati, non solo Aurora le stava chiedendo perdono per averli ‘ostacolati’, ma lei era anche felice della notizia. Si staccò bruscamente dalle mani dell’amica, poggiandosele in grembo “Non mi perdonerai…?” gemette Aurora.
“Vaffanculo” le disse Ariel, per poi fissare lo sguardo in quello dell’amica preoccupata “Vaffanculo davvero. Io non l’avevo nemmeno riconosciuto quella sera, e me ne sono innamorata pazzamente. L’ho rincontrato qualche sera dopo, ha detto che c’era qualcosa che non quadrava fra te e lui. E poi mi ha baciata, ma io l’ho spinto via perché volevo lasciarti la strada libera, volevo che tu fossi felice. E dopo che io mi sono addirittura innamorata del tuo ragazzo, tu mi chiedi perdono?” Aurora sembrò all’istante più sollevata.
“Ti voglio, bene, Ariel” disse poi “Troverò anche io il ragazzo dei miei sogni”. Le due amiche si abbracciarono, promettendosi fra le lacrime che non avrebbero più avuto segreti l’una per l’altra. E così fu.


La sera della festa Ariel ricevette i complimenti di tutte le sorelle. I capelli di fuoco erano rimasti sciolti, dello stesso colore delle labbra, gli occhi azzurri erano enfatizzati da un perfetto trucco grigio e nero che li cerchiava; l’abito verde le stava alla perfezione, le fasciava il corpo come un’amante, le scarpe rosse, con un tacco a onda, le chiudevano dolcemente le caviglie con un cinturino. Le sue unghie erano accuratamente laccate di rosso, in contrasto con l’abito e con la pochette di luminosi brillantini viola. Due orecchini dello stesso colore della borsetta facevano capolino fra i capelli, e il gioiello che le scendeva sul petto era a forma di stella marina. Il padre stesso l’accompagnò alla festa di Aurora.
Quando arrivò rimase davanti al cancello per smistare gli invitati, salutando gentilmente, piena di trepidazione in attesa di Eric, che aveva promesso che sarebbe venuto, e rimase a bocca aperta quando vide Christopher Leroi, lo scapolo più ricco d’America, arrivare alla festa con sottobraccio la ragazza più bella che Ariel avesse mai visto: ancora più bella di Aurora stessa. Era la ragazza che avrebbe dovuto vincere i vari premi a scuola ma che aveva lasciato il posto alla sua seconda, la sedicenne, e li seguì con lo sguardo mentre si incamminavano verso l’enorme villa dell’amica.


Quando fu abbastanza certa che tutti gli invitati fossero arrivati, Ariel decise di dirigersi verso la casa dell’amica, per salutarla e chiederle come andava ma anche per trovare Eric. Si inoltrò fra la folla, salutando gente a destra e a manca. Incontrò nuovamente i due bellissimi Christopher e Cindy che uscivano dalla cucina per mano, ridendo. Vide Aurora che rideva con degli invitati e decise di non disturbarla. Salì le scale con fatica, sgomitando. Voleva trovare Eric. In tutta quella caoticità non si rese conto che aveva aperto la porta di una camera da letto e si bloccò a occhi e bocca spalancati, quando vide sul letto Jasmine e Ali che si girarono verso di lei e cominciarono a urlare. Chiuse la porta di botto e si appoggiò un momento alla parete per riprendere fiato. Non era proprio ciò che avrebbe voluto vedere. Continuò la sua ricerca, ma di Eric nemmeno l’ombra. Quando scese di nuovo al pianoterra e passò dal salottino venne attirata da uno strano odore e si avvicinò a un gruppetto di persone che stavano fumando davanti al camino. Li guardò un momento, cercando di riconoscerli. Fra loro c’era una ragazza dai lunghi capelli neri, che non era sicura di conoscere. Guardò gli altri, e contò sette sconosciuti che si passavano una strana sigaretta odorosa e una ragazzina dai capelli scuri e dalla pelle bianca come la neve che sedeva in mezzo a loro. Non capiva cosa stessero fumando. Guardando più attentamente si rese anche conto che in mezzo a loro c’era una polverina bianca che uno dei sette uomini stava dividendo con uno specchietto rotto. Mentre stava cercando di ricordare dove avesse già visto una cosa del genere qualcuno le afferrò i fianchi, Ariel si girò e sorrise quando si ritrovò il viso simpatico e impertinente di Eric.
“Sei arrivato!” esclamò, dimenticandosi di odori strani, polverine e ragazze dai capelli scuri “Ti ho aspettato fin’ora!”
“Scusa il ritardo. Ti va di scambiare due parole?” Ariel annuì e lo seguì fuori dalla porta di casa. Il ragazzo non le tolse un secondo gli occhi di dosso e lei si sentì davvero fiera di se stessa, di com’era vestita e di come si era presentata alla festa. Lo seguì in giardino, per un vialetto che si inoltrava nel bosco. Sorpassarono ridendo alcune coppie in atteggiamenti chiaramente hot e una ragazza che urlava sotto un ragazzo, e arrivarono in una zona tranquilla. Lì si sedettero sotto un albero. Rimasero alcuni minuti in silenzio, poi Eric estrasse dalla tasca della camicia bianca un pacchetto di sigarette, lo aprì e ne offrì una ad Ariel, stupendosi quando lei accettò e ne infilò una fra le labbra. Le porse l’accendino, e quando aspirò, Ariel si sentì bruciare la gola e il fumo scendere verso i polmoni. Eric sbuffò un po’ di fumo dalle labbra, poi la prese per mano.
“Quella sera volevo davvero baciarti” ammise poi “Perché mi hai cacciato?”
“Perché stavi con la mia migliore amica, e non si bacia il ragazzo della migliore amica” rispose Ariel serissima. Eric scoppiò a ridere.
“Vi volete proprio bene, eh?” Ariel gli mostrò il suo bracciale. Era identico a quello delle altre due, citava in ciondoli differenti le parole ‘Best Friends Forever’, e lei aveva la parte del per sempre.
“’Best’ ce l’ha Aurora, perché ovviamente lei è la migliore fra noi tre” spiegò “E’ la più onesta, la più buona, la più bella e la più brava a scuola. La parola ‘friends’ ce l’ha Jas perché lei è la colla del gruppo. A volte io e Aurora litighiamo perché io sono troppo irruenta e lei invece è troppo gentile, e Jasmine è quella che ci accomuna e ci fa ragionare. E io ho la parte del ‘forever’, perché io ci sarò per sempre per loro, anche quando penseranno di no. Ecco perché ti ho spinto via. Perché per prima cosa ci sono Aurora e Jasmine, per sempre.” Eric la guardò sorpreso e ammirato.
“E’ un bellissimo significato” commentò.
“Si” confermò la rossa “E se vai a vedere, la festa di questa sera era per me. Perché non ne potevo più di essere l’ultima del gruppo, la meno conosciuta dalla gente, la meno considerata solo perché mio padre non guadagna quanto i loro. E quando l’ho proposto, Aurora è stata subito pronta ad accettare la proposta per farmi felice. E infatti è una bellissima festa”
“Si, hai ragione” concordò lui “Sei bellissima con questo vestito”
“Grazie. Anche tu stai bene in camicia” Eric fece una smorfia e scoppiarono insieme a ridere. Mentre ridevano, videro due ragazzi che passeggiavano insieme da quelle parti, e decisero di tornare verso la festa.
Il loro proposito si rivelò più difficile del previsto, perché il bosco era grande e non riuscivano a ritrovare il sentiero. Quando lo avvistarono, la pochette di Ariel vibrò e lei estrasse il vecchio Nokia. Era Jasmine.
“Pronto?” rispose subito “Dimmi tutto”
“Ariel” biascicò Jasmine “C’è qualcosa che non va. Io credo… io credo che la festa sia andata fuori controllo.” Ariel lanciò un’occhiata allarmata a Eric, e accelerarono il passo verso la villa.
“Fuori controllo? Cosa intendi dire?” domandò Ariel cominciando a preoccuparsi.
“Fuori controllo… nel senso che quando sono uscita dalla camera con Ali c’era il putiferio” disse velocemente “C’erano ragazzi ubriachi da tutte le parti, gente che urlava… sembrava ci fosse una rissa”
“Una rissa?” le fece eco la rossa.
“Si, sai, gente intorno che urlava…” si spiegò la mora “Ma non era così. Non c’era nessuna rissa… c’era una ragazzina mora nel salottino… una piccola, ha appena quattordici anni, così abbiamo letto nella carta d’identità… oh, Ariel, non ti puoi immaginare!”
“Cos’è successo?”
“L’hanno stuprata. Ed erano in sette”


Se Ariel si era sentita in colpa per la faccenda di Eric e Aurora, in quel momento si sentiva veramente il verme più terribile dell’universo. Alla festa che l’amica aveva organizzato per lei tutto era andato male, e la ragazza se ne accorse quando arrivò senza fiato dalla corsa sui tacchi ondulati davanti alla porta d’entrata. C’erano ragazzi e ragazze che uscivano in massa dalla casa, altri che discutevano in piccoli capannelli, altri ancora che correvano a destra e a manca cercando amici e chiamandoli, cercando di riunirsi per andarsene il prima possibile. Le uniche due parole che Ariel capì in tutto quel marasma furono ‘polizia’ e ‘ambulanza’, e tanto bastò per farle capire che era accaduto davvero qualcosa di grave. Si affrettò controcorrente, seguita da Eric preoccupato quanto lei, e mentre rientravano incrociarono Christopher e Cindy, quest’ultima che stava urlando due nomi: Anastasia e Genoveffa. Ariel non si chiese nemmeno chi erano. Non si ricordava assolutamente niente e la sua mente era focalizzata solo sul trovare Aurora. Quando riuscì a entrare nella casa si strinse contro il muro con Eric vicino, per non essere portati via dalla folla. Con lo sguardo cercò il salottino e la ragazzina, e la vista fu terribile.
Una ragazzina con il viso ancora da bambina, alta un metro e sessanta scarso, con una pelle bianchissima e dei capelli scurissimi era sdraiata a terra, fra le poltroncine, seminuda. Il suo abitino giallo, stretto sotto il seno da un fiocco, scendeva ormai disordinatamente lungo i fianchi ormai nudi, le gambe diafane erano spalancate e non si muovevano. L’abito, la ragazza e il pavimento erano sporchi di sangue. Lì intorno c’erano filtri di sigarette, una polverina bianca, foglioline e altri liquidi acquosi o meno sul pavimento. Intorno a lei non c’era nessuno, ma tutti scappavano fuori dalla porta, spaventati dall’arrivo della polizia.
Ariel non era certo il tipo da lasciare qualcuno nei guai, nemmeno se non lo conosceva. Si avvicinò alla ragazzina a grandi falcate e avvicinò l’orecchio alle sue labbra arrossate, cercando di capire se stesse respirando. Si rese subito conto che era molto grave. L’aria usciva a ritmo irregolare e flebilmente dal naso e dalla bocca semiaperta. Guardò Eric, e lui l’aiutò a metterle la testa all’indietro, sperando di liberarle le vie respiratorie. Il ragazzo allungò una mano sul collo scoperto della ragazza e attese qualche lunghissimo secondo, poi guardò Ariel terrorizzato.
“Batte?”
“Troppo poco”
“Falle il massaggio” ordinò la rossa sconvolta, lasciandosi cadere seduta su una poltroncina “Io non ce la faccio” il ragazzo annuì e cominciò a spingere fra i seni della ragazza a spinte regolari, concentrato. Ariel nel frattempo estrasse il cellulare dalla borsetta e chiamò Aurora.
“Dove sei?” le chiese subito la bionda.
“Sono nel salottino con la ragazza. Chi è che ha chiamato l’ambulanza e la polizia?” domandò Ariel preoccupata, guardando il soffitto per non permettere alle lacrime di scendere. Era in ansia. Totalmente in ansia.
“Meno male che ci sei tu!” esclamò l’amica “Io sono bloccata di sopra, si è creata una coda incredibile… e dov’è Jas?”
“Non lo so, mi ha chiamata prima ma non l’ho più vista!” esclamò Ariel con voce stridula, sempre più in ansia “Dobbiamo fare qualcosa, questa qua sta morendo e io non ho idea di cosa possa fare… Eric le sta facendo il massaggio… è in condizioni… assurde”
“Sto arrivando” disse Aurora con decisione “Tu chiama Jas, io cerco di fare il più veloce possibile”.
Ariel non aspettò un secondo ad eseguire l’ordine dell’amica bionda, chiuse la chiamata e digitò in fretta il numero di Jasmine. Lanciò un’occhiata fuori dalla finestra e scorse delle luci blu e rosse che si alternavano sulle case davanti e sulla strada, insieme all’ululato delle sirene della polizia e dell’ambulanza. Jasmine rispose.
“Dove sei, Ariel?!” esclamò, senza fiato.
“Sono nel salottino con Eric e la ragazza…” diede un’occhiata al ragazzo, che la guardò con disperazione.
“Non respira!” esclamò terrorizzato “Non respira, porca puttana, non ha più battiti!”
“Dov’è la polizia?!” gridò Jasmine nella cornetta del telefono “Ariel sto arrivando, ero di sotto al buffet! Sto arrivando, te lo giuro… Ariel, dille di non mollare!” la conversazione si spense e Ariel, presa dal panico, lanciò il cellulare sotto una poltrona e si avventò sulla ragazzina, tirandole un paio di ceffoni ben assestati.
“Non mollare, porca puttana!” gridò. Mani forti l’afferrarono tirandola indietro, mentre un mucchio di gente vestita d’argento fosforescente si accumulava intorno alla ragazza. L’unica cosa che Ariel riuscì a pensare fu ‘pronto soccorso’. Il capannello di uomini issò la ragazzina su una barella fosforescente quanto le loro tute, parlando concitati fra loro e impartendosi ordini a vicenda. ‘Fate piano’, ‘fate in fretta’, ‘muoviamoci, cazzo’. Ariel si guardò intorno spersa, cercando Eric con lo sguardo, e lo vide addossato al camino, che guardava la scena sconvolto. Un poliziotto si girò verso di lei e la guardò un secondo.
“Chi è questa ragazzina? La conosci?” Ariel scosse la testa, continuando a fissare il capannello di persone che si faceva largo fra la folla e usciva con la ragazzina a cui avevano messo una mascherina per l’ossigeno. Forse è salva, pensò stupidamente.
“Ariel!” esclamò una voce conosciuta, e Ariel alzò lo sguardo sulla scala.
Aurora stava scendendo in fretta, sgomitando. Il suo abito era strappato e i suoi capelli scompigliati. Zoppicava e la rossa ipotizzò che avesse perso una scarpa. La ragazzina stava urlando cercando di farsi spazio scendendo dalle scale. Urtò un ragazzo, che pestò il piede a un altro che cominciò a urlare. Questo si girò totalmente rosso in faccia e sferrò un pugno al ragazzo che Aurora aveva urlato. La ragazza non finì in mezzo per uno scalino. Si stava facendo strada il più veloce possibile, ma ancora le mancava una buona metà scalinata.
“Di chi è questa casa, ragazzina?” domandò un poliziotto. Ariel non riusciva a distogliere lo sguardo dall’amica bionda che era sempre più stretta fra la gente, e cercò di fare un passo per andarle incontro. Sapeva che Aurora aveva bisogno di un’amica in quel momento, e dove diavolo era Jasmine? Perché non potevano affrontare il problema insieme? Il poliziotto si mise in mezzo e la prese saldamente per le spalle, scuotendola violentemente. Ariel si girò a guardarlo come stordita, senza capire come mai l’avesse strattonata in quel modo. “Allora, mi vuoi dire di chi è questa casa?” domandò di nuovo bruscamente.
“Devo andare da Aurora” esclamò in faccia al poliziotto “Mi faccia passare! Devo andare dalla mia migliore amica!”
“La lasci andare!” urlò Eric, che era trattenuto da un altro poliziotto “Ariel!” tese il braccio allo spasmo verso di lei, ma il poliziotto che lo tratteneva era deciso a non farlo passare. Eric bestemmiò ad alta voce, alzando di scatto il ginocchio e assestando un forte colpo fra le gambe dell’uomo, che si piegò in ginocchio, tenendosi il cavallo dei pantaloni fra le mani giunte. Eric fece uno scatto e raggiunse Ariel, abbracciandola, ma lei si divincolò.
“Devo andare da Aurora!” urlò lei, con il viso ormai rigato dalle lacrime “Non ce la farà mai da sola!” il ragazzo cominciò una furiosa battaglia con il poliziotto, ma la rossa era in mezzo e non riusciva ad andarsene. Il suo sguardo venne di nuovo attirato dall’amica, che involontariamente aveva causato una rissa. I ragazzi sulle scale si erano messi a tirarsi pugni a vicenda, e altri poliziotti stavano entrando in casa, cercando di fermare l’orda di ragazzi che si riversavano sulla strada e di fermare la rissa. Un coraggioso si lanciò nella mischia, ma ne fu risputato urlante qualche secondo dopo, con il naso e la bocca inondati di sangue, raggomitolato in posizione fetale a terra.
Eric alzò un braccio e tirò un pugno che Ariel evitò lanciandosi a terra dove c’erano i pezzi di specchio rotti, che le ferirono le ginocchia nude. Non se ne curò e appoggiò a terra anche le mani, gattonando fuori dalla mischia fra il poliziotto ed Eric. Ma quando provò ad alzarsi le ginocchia cedettero e lei cadde pesantemente in terra. Si aggrappò a un decoro nel muro, si alzò in piedi e cercò di trovare Aurora con lo sguardo, ma la sua amica era sparita.
“Aurora!” urlò “Jasmine!” ma nessuna delle due rispose. Scrutò la scalinata in cerca dell’abito rosa e azzurro dell’amica, o della sua chioma bionda che si stagliava lucente fra la folla ma non la vide.
Poi, all’improvviso, l’abito strappato, Aurora si fece largo fra la folla, uscendone indenne. Sbucò fuori da due ragazzi che si stavano picchiando malamente, e barcollò qualche secondo prima di ritrovar l’equilibrio. Si guardò un momento intorno, vedendo la confusione che si era creata. Nonostante fosse lontana, Ariel nel suo sguardo lesse paura, dispersione, incomprensione e terrore. Aurora non era nel suo ambiente con tutto quel casino. Non lo era quanto se stessa e Jasmine, e lei si sentiva come un pesce fuor d’acqua. Cercò di alzare un braccio per farsi vedere, ma lo abbassò subito quando una fitta di dolore la cose. Diede un’occhiata all’avambraccio, scoprendolo ferito e sanguinante. Ma non demorse. Lo alzò di nuovo.
“Aurora!” urlo con quanto fiato aveva in gola “Aurora, sono qui!” la bionda si girò e la vide, e i suoi occhi si rasserenarono per un momento. Fece due passi lunghi per raggiungerla, ma proprio in quel momento entrò di corsa una pattuglia intera di poliziotti che cominciarono a urlare e a minacciare con pistole e il caos crebbe.
Ariel perse nuovamente Aurora fra la folla. Urlò. Ma i poliziotti non si fermarono vedendo che ormai il caos era diventato totale. Alcuni ragazzi correvano fuori, altri cercavano di scendere dalle scale, altri di risalire. Qualcuno finì quasi dietro la ringhiera delle scale, ma qualcun altro lo riafferrò. Ma Ariel guardò con terrore la scena che le sarebbe rimasta impressa nella mente per tutta la vita, come un fotogramma infinito.
Uno spintone solo, da qualcuno che era scivolato sulle scale. Un vaso di marmo in posizione precaria cadde. Si infranse contro il muro della scala, ma pezzi più o meno grandi schizzarono da tutte le parti. Sangue schizzò dappertutto. E fu allora che Ariel vide Aurora. Era proprio lì vicino, che si era girata spaventata sentendo il fracasso del vaso che si rompeva. E un pezzo di almeno venti centimetri la colpì dritta in fronte.
Aurora cadde a terra e non si mosse più.
Ariel urlò e cercò di correre verso di lei, ma cadde a terra quasi subito, senza riuscire a muoversi. Nella caduta sentì l’urlo di Jasmine, alto contro il suo. La ragazza stava cercando di entrare dalla porta principale, ma un poliziotto lottava contro lei e Ali, cercando di tenerli fuori dalla casa. La ragazza avvertì un altro gemito, e girandosi vide in maniera annebbiata Eric che cadeva a terra dopo una spinta del poliziotto.
Riguardò Aurora, e la disperazione prese il sopravvento.
Svenne.











NdA: ciao a tutti! Com'è questo capitolo? Vi è piaciuto? :D Si lo so è un po' drammatico. Scusate. In realtà non so se ho reso molto Ariel com'è nel film (per prima cosa è povera), ma almeno il carattere spero di averlo azzeccato almeno un po'... mi sono molto divertita a scrivere di Sebastian in versione cane e dell'impossibilità della ragazza a dichiararsi non per la mancanza di voce, ma per mancanza di possibilità, data la lealtà con Aurora... che è stata la "Vanessa" di turno anche se in realtà è buona. Anche descrivere il mondo dei ricchi che nel film era quello degli umani è stato un po' complesso, in realtà non sapevo se sarebbe uscito bene ma alla fine mi è piaciuta come idea. Tritone volevo fosse proprio così anche se è più malinconico. Il finale è un po' tragico! Ditemi la vostra :) Ah, quasi dimenticavo! Grazie mille a petitecherie, Elelovett, sissyl e _BriciolaElisa_ per aver commentato ^^ Prossimo capitolo su Belle! :D
Nymphna <3

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Capitolo 4
*** 4 - Belle. ***



Capitolo 4, Belle.
(da sabato 26 a mercoledì 29 giugno)


Si svegliò di soprassalto e il libro le cadde dalle ginocchia a terra. Si guardò un momento allarmata tutt’intorno, scorgendo al di là dei vetri della serra che la pioggia cadeva ancora forte. Sospirando si chinò a prendere il libro e cercò di riaggiustare la pagina rovinata nella caduta, poi prese il segnalibro creato da un pezzo di cartone e un fiore essiccato e lo infilò nella pagina, poi chiuse il libro carezzando la copertina. Les Miserables di Victor Hugo per lei era sempre stato fonte di ispirazione. La copertina del romanzo era scolorita, le pagine ingiallite dall’uso costante ed era stato rilegato almeno una decina di volte.
Belle guardò la tazza di tè accanto a lei, ormai fredda, prese la tazza e il libro e uscì dalla serra per trovarsi nella piccola casa in cui viveva col padre. Nel cucinotto c’erano il tavolo, quattro sedie di legno raramente tutte utilizzate e una poltrona rivestita da stoffa grezza azzurra, la sua preferita, quella che la madre aveva tessuto poco prima di andarsene. Belle fu colta dalla malinconia, così appoggiò il libro sul tavolo e si fece strada per il piccolo corridoio diretta alla stanza della madre, quella che suo padre, Maurice, diventato ricco e piuttosto famoso dopo una strana scoperta sulle tazze da tè, aveva abbandonato perché il suo cuore non ce la faceva più.
La ragazza aprì piano la porta e la stanza immersa nella penombra le parve piena di atmosfera e di magia. Per un battito di ciglia, le sembrò di rivedere sua madre, china sul grande telaio a tessere coperte, tappeti, tende, anche solo teli e soprattutto storie. Era cominciata da lì la passione della figlia per i libri. Intessere trame, storie, avventure pazzesche e mostri paurosi che dovevano essere sconfitti. Ma quando riaprì gli occhi, tutto tornò come prima: una stanza in penombra, con piccoli granelli di polvere che volteggiavano in aria, sospinti dalla porta che Belle aveva aperto. Il letto di legno a due piazze era accanto alla finestra con le tapparelle abbassate, solo piccole lame di luce illuminavano la coperta che il padre non aveva mai cambiato da quel giorno. Si avvicinò lentamente, fendendo l’aria che odorava di antico e di fiori ormai rinsecchiti, delle rose che stavano ancora nel vaso allungato sul comodino. La ragazza carezzò la federa malinconicamente.
“Mamma” mormorò, come un richiamo, come un’evocazione, come una richiesta. Le mancava. Le mancava moltissimo il suo dolce sorriso che la accoglieva tutte le mattine, le mancava la sua risata allegra, la merenda nella pasticceria appena uscita da scuola, i compiti insieme e le interminabili ore a raccontare di tappeti volanti, scarpette perdute e sirenette malinconiche. Sospirò leggermente, smuovendo altra polvere, guardando il piccolo quadro in cui l’immagine della madre sorrideva abbracciata al marito, il giorno del loro matrimonio. Si amavano tanto, mamma e papà, Belle lo capiva dai loro occhi, che si illuminavano sempre quando si vedevano. Lo capiva anche da piccola, quando aveva appena cinque o sei anni, ma l’amore era così limpido e chiaro che chiunque l’avrebbe capito. Avvertì una stretta al cuore, sentendo la pioggia scrosciante fuori dalla finestra, perché giornate così, vuote se non per un libro, non c’erano mai state quando la madre c’era ancora e le colorava di biscotti, di glassa, di tè alla vaniglia e di immagini di carta velina ritagliata, che insieme attaccavano ai vetri della casa.
Sobbalzò sentendo il cellulare vibrare nella tasca della felpa leggera in cui si era avvolta. Lo tirò fuori e uscì dalla camera, chiudendo la porta dietro di sé prima di rispondere. Vide sullo schermo che era la sua nuova amica Jane.
“Ehi” rispose, accendendo la luce della cucina.
“Belle! Cos’è questo tono triste?” domandò l’amica allarmata “Ti sarai dimenticata della festa di questa sera? Hai visto che ore sono?”
“Oh…” mormorò Belle. Già. Se n’era totalmente dimenticata, presa dal libro, dai ricordi, da pensieri vari che si erano intrecciati nella sua mente come una calda coperta della madre “Oh, si, me n’ero dimenticata” ammise “Ma, Jane, non ne ho proprio voglia, oggi io…”
“Come non ne hai voglia?” rispose l’altra cambiando improvvisamente tono di voce “Io ci avevo sperato così tanto…”
“Okay, okay” si arrese Belle lasciandosi cadere su una sedia “Va bene, a che ora ci vediamo?” Jane lanciò un urletto esaltato.
“Otto e mezza sotto casa tua! Passo a prenderti in macchina!” esclamò felice, per poi chiudere la conversazione. Belle si massaggiò le tempie. Non ne aveva per niente voglia, non di una festa, ma l’aveva promesso alla sua nuova amica, un pretesto per unirsi un po’ di più, un modo per condividere qualcosa, aveva pensato. Ma ora non aveva proprio voglia di mantenere la promessa. Guardò l’ora: erano le cinque e mezzo di pomeriggio, avrebbe fatto in tempo ad andare fino alla libreria per comprarsi quel nuovo libro che aveva ordinato.
Si alzò ed entrò nella sua camera ordinata, appoggiò Les Miserables sulla scrivania e si infilò un paio di ballerine marrone scuro, prese la borsa e un ombrello e uscì di casa, salutando il padre con un urlo per le scale dello scantinato.
Uscì nella pioggia, aprendo l’ombrello nel vialetto sterrato, aprì il cancelletto del giardino e arrivò in strada. Quasi non riusciva a capire come facessero qua e là alcuni giardinetti a spuntare nelle vie di New York, quella città caotica e moderna che lei tanto odiava. Sapeva bene che anche la sua amica Cindy non sopportava quella città, ma per motivi differenti. Belle non aveva nulla a che spartire con i grandi cartelloni luminosi, con i grattacieli di alluminio e vetro, con le grandi strade a otto corsie, con le migliaia di autobus che ogni giorno si intrecciavano in una ragnatela mortale. Non c’era niente che le potesse piacere a New York. Piuttosto, in breve sarebbe partita col padre per la Francia, l’Europa e quelle città e paesini pieni di fascino. Non stava più nella pelle. Non vedeva l’ora di visitare Parigi, Marsiglia, Lione, passeggiare per le campagne francesi, sentire l’odore di olio e vino e rimanere accecata da quei colori squillanti della Provenza. Mentre camminava, una macchina schizzò pericolosamente vicino ai suoi pantaloni bianchi, e lei gli augurò di essere schizzato lui stesso. Svoltò in una strada piena di bar, pedonale, ma qualche passo dopo si rese conto di aver compiuto uno sbaglio enorme: in quella strada era sempre appostato quel maledetto di un Gaston, che lei non avrebbe voluto vedere mai più. Cercò di confondersi fra la gente.
Gaston era uno dei ragazzi più belli della scuola, insieme a Herc e qualcun altro della loro combriccola, ma il moro era il più insopportabile di tutti. Innamorato follemente della sua immagine, dei suoi muscoli, della sua prestanza fisica, del suo cervello inesistente, era convinto di essere il più bello del mondo solo perché era diventato Mister New York l’anno prima. Se già Belle non poteva sopportare la sua vista prima che cominciasse i provini, dopo era stata davvero questione di giorni prima che lo trovasse decisamente detestabile. D’accordo, era alto, il viso era un po’ spigoloso ma da vero americano doc, la mascella era squadrata e le spalle grandi e muscolose non lasciavano dubbi sulle sue capacità in qualunque sport, era sempre vestito con abiti firmati (addirittura i calzini) e sempre all’ultima moda, ma nessuno era mai riuscito a capire perché si fosse interessato a Belle. Lui diceva che la ragazza era la più bella della scuola, cosa che lei non aveva mai considerato vera. Certo, probabilmente era diversa da Cindy, da Aurora Reale e da quelle oche che lo seguivano passo dopo passo, non era bionda e non aveva gli occhi azzurri, d’accordo, ma questo non bastava. Forse era semplicemente una fissazione, una scommessa fra amici, o l’aveva sentita parlare di qualcosa quando era stata rappresentante scolastica, ma nemmeno la buona Cindy era mai riuscita a svelare il mistero. Oh, si, l’aveva sentito parlare, eccome. Lo sentiva parlare una quantità di volte praticamente infinita, ma non aveva mai udito una frase intelligente (a meno che non fosse proprio costruita da altri) uscire da quella bocca. Da quando aveva messo piede alle superiori, l’aveva braccata come un animale e lei l’aveva sempre rifiutato. Certo, uno che riusciva a presentarsi come ‘il più bello del quartiere, Belle, sono sicuro che andremo d’accordo’, non aveva alcun interesse per lei. Tantomeno se era uno che beveva birra tutti i giorni, era stato arrestato più volte dalla polizia, maltrattava i ragazzi più deboli di lui, aveva fama di maltrattare donne e andava a prostitute mentre ci provava con lei e la perseguitava come uno stalker. Belle ne aveva proprio abbastanza.
Ma, immancabilmente, la testa mora del ragazzo fece capolino fra un gruppo di gente urlando il suo nome, scusandosi con gli amici e trotterellando verso di lei. Belle lo ignorò e continuò a camminare. Lui le si affiancò.
“Ciao, Belle” la salutò. Lei gli lanciò un’occhiata totalmente disinteressata, e vide che anche lui aveva un ombrello.
“Ciao, Gaston” disse atona lei.
“Dove stai andando? Di nuovo in libreria?”
“Sto andando in libreria, e in ogni caso non sono proprio affari tuoi” replicò lei. Lui afferrò un libro da una bancarella sulla strada, ignorando il povero proprietario che si mise a urlare.
“Ma come fai a leggere tutte queste cose?” domandò sfogliandolo “Insomma, non si parla di niente di interessante”
“Devi ridare quel libro all’uomo che ci sta rincorrendo. E in ogni caso, le persone leggono per piacere e perché i libri sono interessanti. C’è solo bisogno di un po’ d’immaginazione” Gaston lanciò il libro all’indietro, coperto dagli insulti del libraio.
“Sarebbe il momento di toglierti dalla testa tutta questa immaginazione e che ti occupassi di cose più importanti” dichiarò convinto di sè “Per esempio… di me” le sorrise a trentadue denti, ma lei non lo degnò di uno sguardo “Ormai ne parla tutta la scuola. Sanno tutti che questa sera ti concederai a me in segreto e che alla festa di laurea accetterai di stare con me. È tutto ciò che vuoi, e la tua resistenza è solo un preludio a…”
“Gaston, sei decisamente volgare” rispose Belle, svoltando in un’altra strada. Gaston le stava col fiato sul collo.
“Grazie, Belle!” esclamò lui sorridendole “Che ne dici di andare al bar con i miei amici e…”
“NO” disse lei perentoria “Decisamente no. Ho delle faccende da sbrigare”
“Come leggere?”
“Lasciami stare” concluse, correndo via più velocemente possibile. Non ne poteva più, davvero.
Entrò nella libreria come fosse un’isola in mezzo al mare e lei una naufraga, chiuse l’ombrello e sbattè i piedi a terra per non bagnare la piccola stanza. Non era una libreria come tutte le altre, quella era speciale. Era piccola, poco luminosa se non per le lampade di stoffa che scendevano nel dedalo di scaffali per illuminare i corridoi. I libri erano ovunque, sugli scaffali, sotto i tavolini, accanto alle poltroncine, nascosti negli angoli più improbabili e il libraio, un omino di nome Jeanne, con due grandi occhiali che rendevano i suoi occhi ancora più grandi, ne era sempre circondato e profumava di libro. Belle lo conosceva da moltissimo tempo, sua madre la portava già nella piccola libreria quand’era piccola, quando andava a caccia di nuove storie da raccontarle. Percorse lo stretto corridoio fino alla cassa mentre Jeanne abbassava gli occhiali accogliendola con un sorriso dolce. La ragazza notò che stava compilando un inventario e sfogliava delicatamente le pagine di un volume decisamente antico.
“Buongiorno, Jeanne” lo salutò con un sorriso.
“Buongiorno, Belle” le rispose lui uscendo da dietro la scrivania “Di cosa hai bisogno?”
“Vorrei comprare un nuovo libro, ma non ho ancora deciso di che genere” ammise la ragazza, cominciando ad adocchiare vari titoli fra i libri più nuovi. Jeanne ridacchiò, prendendo un’altra pila di libri e cominciando a scriverli sul librone. Belle si fece strada fra i libri, e quando trovò Le cronache della Tavola Rotonda sorrise, prendendo il libro e lasciandosi cadere su una poltroncina con la stoffa a fiori.
Quella libreria non era solamente un negozio molto vecchio e un po’ diroccato, come molti potevano pensare: in realtà era un po’ di tutto. Si, Jeanne vendeva libri, ma non solo. Lui li prestava. Li metteva a disposizione. Li comprava. Lasciava chiunque libero di sfogliarli, di leggerli, di portarli a casa e comprarli solo se erano veramente piaciuti, perché un libro era un valore inestimabile per lui e chiunque aveva il diritto di sceglierlo senza andare incontro a una delusione. Aprì il romanzo, trovando le famigliari immagini di cavalieri e principesse. L’aveva sempre affascinata quel libro, ma non era mai riuscita a leggerlo tutto. Ogni volta voleva cominciare da capo per assaporare ancora il gusto della leggenda, dell’avventura, della cavalleria… carezzò con le dita sporche d’inchiostro un Artù appena nato, in braccio a Lady Igraine in un grande letto di legno coperto di velluto. Fuori dalla finestra della torre c’era il panorama del mare, della luna, di una costa verde inglese.
Sobbalzò quando scoprì la figura di Jeanne dietro di lei, che le sorrideva affabile.
“Se ti piace così tanto, te lo regalo. Oggi leggo fretta nei tuoi occhi, cara, leggo impazienza e leggo novità” Belle lo guardò per un lungo momento, cercando di capire come facesse a leggere tutte quelle cose semplicemente oltre un paio di occhi colorati. Ma quello era parte del fascino di Jeanne. Si strinse il libro al cuore, a l’uomo annuì. Belle si alzò in piedi sorridendogli e corse fuori dal negozio.


La verità era che Belle non si era mai comprata un vestito degno di quel nome. A dire la verità non amava nemmeno andare a fare shopping e spesso comprava indumenti spaiati e decisamente originali ai mercatini delle pulci. Così, quando si ritrovò in un vialone pieno di negozi dai nomi pittoreschi, si sentì totalmente spersa e non riuscì a trovare di meglio da fare se non chiamare Jane, che sicuramente aveva più esperienza di lei. L’amica le consigliò di fare un salto da Silvian Heach, garantendole che sarebbe stato di suo gusto. La ragazza entrò nel negozio dubbiosa, stringendo a sé il libro, come per darsi coraggio, ma quando diede un’occhiata intorno si ritrovò in un mondo colorato, floreale e un po’ retrò che le piacque tantissimo. Adocchiò alcuni abiti che afferrò per poi lanciarsi in camerino. Si accorse ben presto che trovare il vestito giusto non era certo così facile come aveva sempre creduto. Sentendo Cindy dire che non aveva un abito da sogno e Jane sempre preoccupata di passare una giornata a cercare vestiti passando da un negozio all’altro, aveva sempre pensato che entrambe esagerassero. Ora le capiva fin troppo bene, e si scoprì a domandarsi se le stava meglio l’azzurro oppure il rosa. Lanciò il rosa sulla sedia pochi minuti dopo, sentendosi un ingombrante bon – bon. L’abito azzurro le stava meglio, ma era troppo corto e scollato secondo i suoi gusti, non voleva certo mettersi troppo in mostra. Anzi, avrebbe odiato ricevere qualche altro commento volgare da Gaston (ma insomma, non sapeva nemmeno cosa volesse dire ‘volgare’!). Si tolse l’abito azzurro incespicando un po’, poi se ne provò uno verde. Si, il verde le stava decisamente meglio del rosa, ma scartò quasi subito anche quell’abito. Fu l’ultimo che la costrinse a guardarsi allo specchio più a lungo degli altri vestiti e quasi ad apprezzarsi. Si mise in punta di piedi, sentendosi davvero una principessa con quell’abito.
Era giallo intenso, stile impero, con la scollatura non troppo profonda che ricadeva in deliziose pieghe sul petto. Sulla vita era cinto da un elastico color panna che delineava la sua altezza e il suo corpo sottile, chiudendosi davanti con un fiore che assomigliava molto a una rosa gialla e color panna. Da lì scendeva morbidamente fino quasi al ginocchio, permettendole di sedersi e piegarsi senza che si alzasse troppo. Provò a portarsi i capelli indietro con una mano, e per un momento pensò di essere davvero bella. Cercò di riscuotersi da quel pensiero. Lei bella? Insomma… però, guardandosi un po’ meglio… l’abito sottolineava le sue gambe sode, le sue braccia chiare, i suoi capelli creavano un delizioso contrasto e i suoi occhi con un po’ di trucco, forse sarebbero parsi ancora più dolci…
Prima che potesse cambiare idea, uscì dal camerino rivestendosi in fretta, pagò l’abito e uscì dal negozio. Chiamò nuovamente Jane per chiederle qualcosa per le scarpe, e venne a sapere che non lontano c’era un negozio di scarpe a basso prezzo, in cui avrebbe potuto trovare quelle adatte. Entrò titubante e si aggirò fra le pile di scatole di scarpe cercando qualcosa che le piacesse. Belle non si era mai messa delle scarpe con il tacco perché si trovava già alta, inoltre non avrebbe potuto camminarvi sopra per una serata intera. Una commessa allegra la intercettò, cominciando a mostrarle vari modelli più o meno comodi, si fece mostrare il vestito, raccontare che genere di festa era, come intendeva acconciarsi, cosa voleva mettere sopra il vestito, infine le fece provare un unico paio di scarpe. Avevano un sottilissimo tacco di dieci centimetri e il plateau, un cinturino delicato che si chiudeva alla perfezione intorno alla sua caviglia; erano fatte a sandalo e sulla fascia c’era una rosa di tulle, mentre tutto il resto era foderato di un tessuto rosa morbido. Belle azzardò qualche passo per il negozio e si sorprese scoprendo che in realtà erano scarpe molto comode. La commessa allegra si prese la libertà di offrirle anche una borsetta dello stesso tessuto e colore, per poi congedarla ricordandole di tornare presto. Sorridendo fra sé e sé, la ragazza pensò che non avrebbe potuto mancare.


Si guardò per minuti interi, in piedi davanti allo specchio dell’armadio della madre, quello in cui insieme si erano guardate moltissime volte. Era alta, Belle, almeno un metro e settanta, anche se quei tacchi la facevano svettare più in alto del solito. Ma si sentiva bellissima. I capelli castani e mossi erano tirati indietro in un piccolo chignon che ne lasciava libera la maggior parte che ricadevano delicatamente sulle sue spalle. Gli occhi erano cerchiati con un eye liner marrone scuro che li apriva ancora di più, le ciglia erano allungate da una buona dose di mascara e un leggero ombretto opaco, dello stesso colore del vestito, le copriva le palpebre. Si era addirittura arrischiata a mettere un rossetto che riprendeva il colore delle scarpe e della borsetta che stringeva al petto. L’abito mostrava il collo, ma le spalle erano state coperte da una leggera giacchina rosa che si era cucita da sola, completamente ricamata. Le gambe posavano elegantemente sulle scarpe, e quando si mosse leggermente le arrivò al naso un dolce profumo artigianale alla rosa che si era messa per completare l’opera. Un lieve rossore naturale le arrossava le guance.
Il padre bussò alla porta, e quando Belle si girò vide che sospirava con un sorriso, appoggiato allo stipite della porta, pulendosi le mani sporche d’olio in uno straccio. La guardò con occhi luccicanti per qualche momento.
“Sei veramente bellissima, Belle” le disse “Degna del tuo nome. Non c’è altro aggettivo che possa descriverti” la ragazza si avvicinò a lui e gli baciò la testa ormai quasi calva e i baffi folti del padre le sfiorarono il collo leggermente, facendola ridere. “E’ arrivata Jane alla porta” disse poi, prendendole una mano “Divertiti questa sera, pensa solamente a svagarti un po’” la ragazza annuì, gli sorrise e corse fuori dalla porta.
Jane la aspettava sulla sua macchina nera, lucidissima come sempre. La raggiunse in fretta, salendo dalla parte del passeggero e si allacciò la cintura automaticamente salutando il padre con una mano. Jane alzò il volume della musica e partì per la strada.
“Sarà una bellissima serata, vedrai” la incoraggiò. Belle annuì, sentendo l’adrenalina della festa cominciare a salire nel suo cuore. Era una nuova sensazione, strana e mai provata “Sono sicura che però verrà anche Gaston… spero solo che non ci sia Clayton” sbuffò “Quel ragazzo è ciò che di più ottuso possa esserci alla terra. Pensa solo a menare le mani, a pensare a pistole e altra roba del genere…”
“Ne parli a me?” domandò sarcastica Belle “Non è che Gaston sia molto diverso…”
“Sai chi mi sembra un po’ meglio?” domandò Jane, troppo assorta nei suoi pensieri per poter rispondere all’amica “Il biondo, Herc. Non ti sembra una brava persona? Si, certo, ha l’aria un po’ da tonto, ma quella si può rimediare, no?” Belle scoppiò a ridere.
“A me sembra addirittura più scemo di Gaston” sghignazzò “Ha proprio la faccia da uno che non è capace a fare due più due. Conta sempre che è un campione di pugilato. Sai quanti pugni in testa si deve prendere?” anche Jane scoppiò a ridere al pensiero, continuando a guidare tra le grandi vie della città. Belle non potè fare a meno di pensare che Jane fosse una vera forza della natura.
Jane era inglese, ma aveva acquisito da subito la fama di ‘più goffa della scuola’. Non era raro vederla cadere giù dalle scale perché non vedeva un gradino, immersa nei suoi pensieri, o che rimanesse in classe finchè qualcuno non le faceva notare che la scuola era finita da un pezzo, disegnando o scrivendo qualcosa. Ma la sua grande qualità, quella che Belle amava di più e quella che le aveva avvicinate, era la sua intelligenza pronta e aperta. Jane non era tipo da lasciarsi perdere qualche occasione, ancora meno da non riuscire a trovare sempre qualcosa di nuovo da imparare. L’aveva vista fermarsi per ore a studiare il comportamento di un uccellino o di uno scoiattolo, l’aveva incontrata al parco, con un cappellino alla francese e un pennello in mano, intenta a disegnare la fauna e la flora che vedeva. Per Jane non esistevano le fotografie: lei amava disegnare. Ma era anche molto curiosa, e scrivere era la sua passione. Scriveva per il giornalino scolastico, che però non le dava mai una grande credibilità a causa della goffaggine. Belle era pronta a giurare che fosse svalutata, e sentiva dentro di sé che la ragazza sarebbe diventata qualcuno di davvero importante in futuro. E sicuramente non prevedeva per lei una vita normale.
La ragazza parcheggiò sul retro della casa di Aurora Reale quando arrivarono, dopo aver chiesto informazioni a una ragazzina dai capelli rossi che stava al cancello, scesero insieme e si avviarono verso la festa. Quando arrivarono al cancello, mentre la ragazzina le squadrava facendole sentire decisamente in imbarazzo, Belle ne approfittò per guardare la casa davanti a lei. Era una residenza degna del consigliere italiano, grande e moderna anche se con un pizzico di storia e arte in ogni dettaglio. Quando Jane seguì il suo sguardo si esibì in un fischio.
“Mannaggia a queste persone” esclamò “E’ incredibile quanto sia grande questa casa, e ci vivono solamente in tre” le due si avviarono per il vialetto fino al portone, ma quando si resero conto della ressa che c’era all’entrata lasciarono perdere per andare verso la piscina, scoprendo lì vicino il buffet. Presero un analcolico alla frutta, mangiucchiando tramezzini e ridendo fra loro, quando videro Cindy in mezzo alla pista da ballo.
Belle non l’aveva mai vista così raggiante e soprattutto così bella. Era veramente stupenda. I capelli erano raccolti sulla testa, gli occhi dolci enfatizzati dal trucco, l’abito azzurro le stava a meraviglia e sembrava veramente una regina, con il suo principe accanto che ballava con lei. Sorrise, felice che almeno per quella sera stesse bene.
Presto, una mano si chiuse intorno al suo braccio, e Belle fu costretta a girarsi. Davanti a lei c’era Gaston, un’esagerata giacca rossa con decori d’oro e pantaloni bianchi che lo facevano sembrava una guardia reale inglese. La guardò per un momento, mentre la ragazza cercava di divincolarsi. Chiamò Jane, ma Clayton era riuscito a braccarla e le stava parlando bloccandola al muro. Decise di affrontare la situazione.
“Gaston!” esclamò “Che… che sorpresa!”
“Già, che sorpresa…” mormorò lui “Sapevo che saresti venuta. Ti voglio parlare” le fece cenno con la testa di uscire, e lei lo seguì lontano dalle enormi casse del dj che si stava dimenando nella cabina. Quando furono fuori, Belle inspirò profondamente l’aria fresca e si inoltrarono nel boschetto intorno alla casa. “Belle, questa è la sera in cui si realizzeranno i tuoi sogni”
“E tu che cosa ne sapresti dei miei sogni, Gaston?” rispose acida lei.
“So tutto!” esclamò il moro, mentre lei arricciava il naso al solo pensiero di Gaston che le leggeva nella mente “Immagina… un po’ di vodka… una cannetta… una camera tutta per noi… e poi sesso sfrenato fino…”
“Gaston! Temo di aver già sentito abbastanza, e…” cominciò lei. Ma il ragazzo si girò con degli occhi che non promettevano nulla di buono.
“Tu non hai sentito proprio niente” mormorò, per poi prenderle la spalle di forza e spingerla contro un albero, premendo le labbra sulle sue.
Belle si sentì talmente spiazzata, talmente spaventata e talmente presa alla sprovvista che non ebbe nemmeno il momento di capire che cosa stava succedendo. L’unica cosa che le venne in mente per divincolarsi fu alzare un ginocchio il più velocemente possibile, ma il suo tentativo di colpire i punti bassi di Gaston fallì. Lui ansimò qualcosa, forzando le sue labbra con la lingua, mentre Belle cercava di tenere la mascella serrata, ma lui l’ebbe vinta. Sentì la lingua dura e rigida del moro farsi strada nella sua bocca, riempirla quasi a soffocarla. Il corpo muscoloso di Gaston si strinse contro il suo, una mano di lui scese alla coscia, alzando il vestito. Belle si dibattè più forte che poteva, mentre il suo cervello le urlava ripetutamente di staccarsi, perché quel maledetto voleva farle del male. Quello squilibrato voleva addirittura violentarla! Sentì una mano di lui infilarsi sotto la stoffa della biancheria, e in quel momento riuscì a trovare la forza di staccare il viso dal suo e morderlo ferocemente a un braccio. Gaston urlò, lasciandola andare. Belle cadde a terra. Afferrò saldamente la pochette e corse via senza girarsi, senza curarsi del fatto che forse la stava seguendo. Le lacrime cominciarono a scenderle dalle guance. Era sconvolta. Fra gli alberi, improvvisamente vide una casetta piccola, sembrava quasi da bambole. Quando arrivò alla porta si soffermò solo per leggere velocemente la scritta sulla porta: ‘Casa dei giochi di Aurora Reale’. Aprì la porta con forza e la sbattè dietro di sé. Si lasciò scivolare fino al pavimento, poi girò la chiave. Voleva stare da sola. Tutto era successo troppo velocemente. L’unica cosa che sapeva, era che non voleva mai più vedere Gaston, nemmeno in fotografia. E se prima lui era stato solamente una presenza antipatica, ora quello che lei provava era proprio odio. Si strinse le gambe al petto cercando di calmarsi.
E quando alzò gli occhi, si accorse di non essere sola nella casetta.


Davanti a lei c’era una figura in piedi, alta e ricurva. Emanava un odore strano, una metà fra deodorante da uomo e qualcosa come… selvatico. La figura si piegò verso di lei e avvicinò una mano alla sua guancia, e Belle urlò spaventata. La mano si ritrasse di scatto. Lei lo guardò per un lungo momento, rendendosi conto che era un ragazzo e sicuramente non era Gaston. Lo guardò meglio, ma
era nascosto nel buio. L’unica cosa che poteva capire era che aveva i capelli lunghi che gli coprivano il viso. Si alzò ansimando da terra, allungò la mano sul muro e scoprì un interruttore che si affrettò a far scattare. Una lampada attaccata al soffitto si illuminò, e il ragazzo portò le mani a proteggersi il viso.
“Chi sei?” esclamò Belle, facendo schioccare il tacco facendo un passo minacciosamente verso di lui “Cosa vuoi?”
“Io mi stavo solo nascondendo!” esclamò il ragazzo più minaccioso di lei, quasi ringhiando “Mi hanno trascinato a questa stupida festa, cosa credi? Che io ci volessi venire? Mi fanno schifo tutte queste persone, capito? E tu pure!”
“Maleducato!” strillò Belle incrociando le braccia sul petto. Il ragazzo abbassò un braccio guardandola. I suoi occhi erano blu, aperti, e per un momento sembrarono quasi sorpresi e amichevoli. Ma quando il ragazzo arretrò di un passo avevano ripreso il loro atteggiamento ostile. La ragazza potè dargli un’occhiata per focalizzarlo.
Era un ragazzo molto alto che chiaramente rasentava i due metri, con una corporatura robusta e muscolosa nascosta sotto una felpa grande persino per lui. I suoi capelli erano lunghi fino al petto, castano chiaro, che chiaramente non vedevano un pettine da un bel po’. Il viso era arrossato e una lunga cicatrice gli attraversava la guancia sinistra, dal centro della fronte alla mascella. Le labbra carnose erano piene di sangue, il labbro inferiore era rotto, e i jeans larghi erano dentro a un paio di scarpe da ginnastica malmesse. Sembrava che fosse appena uscito da una rissa, e Belle venne scossa da un moto di compassione per lui.
“Ma cosa ti è successo?” gli domandò in un bisbiglio, facendo un passo verso di lui, che si ritrasse.
“Niente” ruggì girandosi e infilandosi nel corridoio ancora buio. Belle sospirò.
“Devi curarti quella ferita. Può infettarsi” disse con gravità, alzando le mani in segno di innocenza “Veramente, mi sembra una ferita profonda. Magari mi puoi raccontare cos’è successo” lui sembrò scrutarla un momento, poi scosse violentemente la testa. “Non voglio farti del male” disse Belle “Anche io esco da una situazione bruttissima. Mi hai fatto paura prima, tutto qua. Solo per l’esperienza che ho scampato” lui continuava a guardarla dubbioso “D’accordo, facciamo così. Io ti racconto ciò che mi è successo, e tu mi dici che cos’è successo a te” restarono uno davanti all’altro, come a squadrarsi su un campo di battaglia. Belle voleva veramente aiutarlo. Se non altro, per dimenticare Gaston e ciò che voleva farle. Rabbrividì solo al pensiero del suo corpo premuto contro il suo, deglutì e cercò di mantenere la sua posizione. Il ragazzo davanti a lei, nel buio, lentamente lasciò ricadere le braccia ai lati del corpo e si incurvò come sotto il peso di un macigno, poi crollò in ginocchio. Belle corse da lui e vide che stringeva i pugni, le unghie conficcate nella carne, il volto una maschera di sofferenza.
“Mi odiano” bisbigliò “E’ da sempre che tutti mi odiano. Mi vogliono uccidere. Mi hanno rovinato la vita. Mi hanno sempre lasciato da solo” la ragazza percepì come un’onda il dolore nei suoi occhi, l’odio, la frustrazione. Rimase senza fiato dall’intensità di tutta quella negatività, nonostante non capisse cosa fosse successo. Lo guardò per un lungo momento, accovacciata di fronte a lui, poi il ragazzo si sedette a gambe incrociate, appoggiandosi al muro bianco con la schiena “C’è dell’alcool in bagno”


Adam aveva urlato, quando Belle l’aveva disinfettato con acqua calda e alcool, per cercare di diminuire il bruciore della sostanza. Aveva addirittura trovato dei cerotti in bagno, e gliene aveva messo uno sul labbro, una volta che aveva finito di sanguinare. Poi gli aveva lavato accuratamente le mani che erano rimaste ferite quando aveva stretto i pugni. Dopodiché si erano seduti al tavolo del piccolo cucinotto della casetta e avevano passato molto tempo in silenzio. Lui aveva cominciato a raccontare. Belle aveva capito subito che ciò che le stava confidando era da tempo nascosto nel suo cuore e che non ne aveva mai parlato a nessuno, che era una terribile verità, che Gaston era molto peggio di quanto pensasse.
Adam era ricco. Molto ricco. Era uno di quei ragazzi nati da una famiglia di milionari grazie a un’importante azienda agricola, che aveva sempre avuto tutto ciò che potesse desiderare e che aveva imparato l’arroganza e la superiorità. Era così che aveva conosciuto Gaston e la sua gang e per un certo periodo era anche stato nel loro gruppo. Le raccontò che era stato il più bello di tutti, che ogni ragazza quasi sveniva ai suoi piedi, che era stato colui che era rimasto nella storia come il più bello di tutta l’High School. E ora che ci pensava, Belle si ricordava di aver visto addirittura nell’ufficio della preside la foto di un ragazzo bellissimo, mozzafiato, con uno sguardo carico di orgoglio e di consapevolezza delle proprie capacità, con lunghi capelli biondo scuro che scendevano fino alle spalle. Le raccontò che Gaston era stato geloso di lui. Così geloso da spingerlo, una volta uscito da scuola, a iscriversi a un’università lontana. Ma quando era tornato per fare visita ai suoi parenti, il moro si era attrezzato, spargendo orribili voci su di lui fra i suoi amici, e tutti si erano organizzati per picchiarlo, molestarlo e deriderlo. Gaston, il suo migliore amico, colui a cui Adam aveva confidato tutto, gli aveva voltato le spalle e non solo: oltre ad essersi ritrovato solo davanti ai suoi amici, si trovata anche sbugiardato nella sua stessa famiglia. Da allora era diventato il bersaglio preferito di Gaston e della sua combriccola. Lo aspettavano agli angoli, con mazze da Baseball. Avevano trovato il motel in cui era andato a vivere una volta senza soldi, il lavoro che aveva provato a fare, come meccanico. L’avevano sempre raggiunto. E una volta che si erano sentiti piuttosto violenti, gli avevano lasciato quella ferita. Le raccontò con voce rotta di quando aveva trovato la sua ex ragazza che si faceva toccare ovunque da quel mostro, le parlò di come si era sentito e di com’era cambiato. Ora non si voleva nemmeno più guardare allo specchio, dopo essere stato sfigurato. Non ne aveva più avuto il coraggio, e la sua vita era cambiata radicalmente da quando Gaston l’aveva ridotto così. Per impedirgli di infilarsi nuovamente le unghie nelle mani, Belle infilò le sue in quelle del ragazzo, che si mostrò stupito e preso alla sprovvista da un gesto del genere. La ragazza per contro gli raccontò che Gaston l’aveva sempre mirata, che aveva sempre voluto stare con lei ma che l’aveva sempre considerato uno stupido, ma lui era diventato ogni giorno più insistente finchè quella sera non aveva addirittura provato a violentarla. Adam abbassò gli occhi e si scusò con lei a nome dell’ex migliore amico che ormai odiava, promettendole che un giorno l’avrebbe vendicata e gli avrebbe fatto vedere chi era il migliore.
“Sai cosa faremo?” propose Belle, che era pienamente d’accordo con lui “Dovremmo chiamare Jane, la mia nuova amica, e ascoltando tutte queste testimonianze dovrebbe cambiare tutto, no? Ci sarà pur qualcuno che non era d’accordo con lui nel vostro gruppo”
“Qualcuno?” ringhiò il ragazzo “Si, qualcuno c’era… si chiama Herc. Ha la faccia da stupido e non è un cosiddetto genio, ma è un ragazzo buono, semplice e molto ingenuo”
“Potrebbe aiutarci” propose ancora Belle “Potrebbe dire la verità”
“Non ne dubito. Spero solo che non sia passato dalla parte del nemico” sbuffò Adam.
“Perché non provi a pettinarti?” domandò la ragazza. Lui ritrasse subito le mani e si strinse nelle spalle, incrociando le braccia sulla sua sedia, e lei rimase mortificata pensando che aveva detto qualcosa di sbagliato. aveva riacquistato la sua diffidenza, la sua maschera di dolore e di minaccia, lo sguardo scrutatore. Lei lasciò le mani dove le aveva prima, in quelle di lui.
“Cambierebbe qualcosa?” ringhiò. Lei scosse la testa.
“No, nel mondo no, ma magari cambierebbe qualcosa in te…” mormorò.
“L’aspetto non cambia. E si vedrebbe di più la cicatrice. Lascia stare. Non ho voglia di mostrarmi. Non più” soffiò lui. I due rimasero in silenzio a lungo, sentendo la musica arrivare dalle grandi casse nella casa, o sulla piscina. Belle si rese conto di non essere nemmeno entrata in casa di Aurora Reale. Ma probabilmente era meglio così. Ci sarebbe stata troppa gente conosciuta, e sarebbe stata preda facile di quel bruto di Gaston, che se già prima aveva il suo odio, ora la disgustava solamente. Non gli avrebbe mai dato nulla, nemmeno un pezzo di unghia mangiata, a quel bastardo. Dopo quello che aveva fatto ad Adam, poi… ripensò all’Amleto che cercava di insegnare che la vendetta non serve a nulla. Ma non riuscì nemmeno a convincersi di lasciar fare al Fato. Non pensava nemmeno che esistesse, il Fato. La vita ce la si costruisce pezzo dopo pezzo, mattone dopo mattone con ogni scelta, non poteva certo essere tutto casuale. Sospirò al pensiero de Les Miserables sul comodino della sua camera, rimpiangendo di non essere rimasta a casa a leggere, al caldo di una coperta di lana fatta dalla madre, sul letto morbido, a sorseggiare una calda tisana alla vaniglia, rispondendo pigramente ai messaggi di Jane che voleva tenerla aggiornata con la serata. Pensò di andarsene a casa.
Notò un movimento con la coda dell’occhio nella penombra e vide che Adam aveva allungato una mano a riprendere la sua, guardandola quasi come se fosse addirittura stupito da se stesso. Quasi sorrise guardandole.
“Hai le dita sporche d’inchiostro” disse poi, quasi dolcemente. Belle sentì un nodo in gola che ignorò. Lo guardò un momento per poi sorridere.
“Si, sono una scrittrice” disse poi “’Chi scrive vivrà cento volte, affrontando immaginazione e inventando fantasia; chi legge vivrà mille volte, volando nell’oceano e nuotando fra le nuvole; ma chi non legge o scrive, vivrà solo una volta, solo nella realtà’” citò. Adam sorrise fra sé e sé.
“Mi piaceva leggere, quando avevo ancora qualche libro fra le mani.” mormorò “Ora non avrei quasi nemmeno da mangiare, se il maggiordomo dei miei non mi conoscesse e non mi ospitasse a casa sua. Lui sa che sono innocente. Lui mi conosce.” Belle provò una profonda tristezza per lui, per una vita senza libri, ma questo le fece ricordare che lei conosceva un posto in cui i libri potevano essere letti, comprati, gustati pagina dopo pagina.
“Conosco un posto” disse poi con un sorriso, afferrandogli l’altra mano e sporgendosi verso di lui, felice di poter condividere con qualcuno che veramente valeva qualcosa la libreria di Jeanne “E’ una piccola libreria di un mio amico. È un anziano fantastico, ha pile e pile di libri e il suo negozietto non è solamente una libreria, ma fa anche da biblioteca… puoi anche leggerli lì i libri, ci sono le poltroncine, le luci, le coperte…”
“Sembra bellissimo” bisbigliò lui senza quasi che lei lo sentisse. In quella suonò il cellulare di Belle, che rispose subito. Era Jane.
“Belle! Dove cavolo sei?!” esclamò concitata. Come sottofondo Belle sentiva urla e passi e sirene.
“Sono… non lo so. Ma da Aurora” rispose lei lasciando con uno strano malincuore le mani di Adam che la guardò un momento stringendo gli occhi, diffidente “Che c’è?”
“E’ successo qualcosa di grave. Dobbiamo andarcene subito. C’è la polizia. Ma non so dove sei e ho la macchina sul retro, sto andando a prenderla! Con me ci sono anche Cindy, Christopher, Anastasia e Genoveffa” disse velocemente “Muoviti, vieni fuori, ti aspetto al cancello” le chiuse il telefono. Belle sbattè le ciglia un paio di volte prima di rimettere il telefono in tasca.
“La mia amica dice che è successo qualcosa di grave” disse alzando le spalle e spostandosi dal tavolo, mettendosi in piedi “Devo andare” Adam la scrutò con i suoi occhi profondi, allora Belle estrasse dalla pochette una penna e gli prese la mano, scrivendogli sul dorso il suo numero di telefono. Lo guardò con un sorriso, sperando ardentemente che la chiamasse presto “Chiamami” gli disse poi. Dopodiché uscì dalla casetta.


Il cellulare squillò, e l’allegra suoneria svegliò Belle dai suoi sogni. Aprì gli occhi lentamente, sbattendo le palpebre per qualche volta prima di rendersi conto che era il telefonino. Guardò un momento il soffitto della sua camera, ma il suo cervello ci mise qualche decimo di secondo a ricordare gli avvenimenti della sera prima in brevi flash scollegati fra loro. Le sue mani in quelle di Adam, la festa, Gaston che la spingeva contro l’albero, Adam che quasi sorrideva vedendo le sue dita macchiate d’inchiostro. Per un folle momento sperò che fosse lui, e aprì la conversazione piena di aspettativa. Si rimproverò con se stessa per così tanta attesa nei confronti di una semplice telefonata, ma sorrise lo stesso.
“Pronto?” domandò nella cornetta. Si rese conto che forse non aveva nemmeno guardato per prolungare la speranza che fosse lui anche solo per qualche secondo. Ma le sue aspettative vennero quasi subito distrutte quando sentì la voce allegra e un po’ profonda di Jane nel telefono.
“Belle! Non crederai mai a ciò che ti dirò!” esclamò, mentre la ragazza sospirava passandosi una mano sul volto, guardando la sveglia sul comodino e rendendosi conto che erano appena le nove di mattina. Ma se erano già le due quando erano tornate a casa, com’era possibile che fosse già sveglia? Dopo tutti quei giorni di scuola, oltretutto…!
“Che cosa mi dirai?” domandò Belle sapendo che era questo ciò che l’amica voleva sentirsi dire. Buttò le gambe giù dal letto e lanciò un’occhiata allo specchio davanti a lei, si vide in pigiama, con il viso stanco e i capelli scompigliati.
“Ieri sera. Ti ricordi che è successo un gran casino?” Belle fece un verso per dire che aveva capito “Ecco, è successa una cosa. Ieri sera alla festa c’era una ragazzina di soli quattordici anni. Blanche, si chiamava così. Blanche Woodson. È l’unica figlia di quel grande imprenditore che ha avuto un infarto il mese scorso. Viveva con la sua matrigna. Ecco, non so perché si è infiltrata alla festa, ma da quanto ho capito non era invitata, in ogni caso ha bevuto un po’ troppo, è stata drogata e stuprata da sette ragazzi diversi. Che sembra non fossero affatto ragazzi, ma uomini, capisci?! È terribile. E indovina la bella novità?”
“Cosa?!” protestò Belle “Non ci può essere niente di bello in tutto ciò, Jane, è mostruoso!”
“No, la bella novità è che la scuola ci pagherà per l’articolo che faremo sulla vicenda” concluse, mettendo l’accento sul plurale. Belle non trovava niente di particolarmente piacevole in tutta la vicenda e non riusciva a capire come l’amica avesse potuto mettersi a disposizione della preside. Ancora meno, la preside che voleva un articolo del genere sul giornalino scolastico? C’era qualcosa sotto. Decise che avrebbe indagato quando sarebbe stata a tu per tu con Jane. Lei non voleva essere di mezzo a certe cose. Okay, voleva andarsene e molte volte aveva ripetuto che avrebbe molto voluto un’avventura, ma proprio non si sentiva di imbarcarsi in qualcosa del genere. Era troppo grande. “Dobbiamo fare squadra, Belle. Ti prego. Io ho bisogno della tua abilità nello scrivere e tu del mio fiuto per le notizie. Vedrai, sarò una detective formidabile”
“Perché dovrei aiutarti?” domandò Belle, lasciandosi ricadere sul letto, attraversata da un pazzo pensiero: chiudere in fretta la conversazione per non far trovare il cellulare occupato da Adam, in caso avesse chiamato. Aspetta, ma cosa le prendeva? Perché una chiamata diventava così importante? Si passò una mano fra i capelli.
“Perché la preside ci ha promesso niente esami e raccomandazione alle università che vogliamo fare” ammiccò l’altra “E una spintarella per La Sorbonne non sarebbe così male, giusto?” la punzecchiò. Belle si arrese quando sentì il nome della celebre università parigina. Se solo avesse avuto anche solo una possibilità di entrare in quella scuola… era sempre stato il suo sogno, anche se essendo di oltreoceano non sapeva realmente quante possibilità avesse avuto fino a quel momento. Ma quando si sentì dire che la preside avrebbe potuto metterci una parolina… beh in quel caso sarebbe certo stato un po’ barare nei confronti di quelle centinaia di altre persone che volevano un posto lì, ma sarebbe anche stato giusto, dato che un articolo del genere le sarebbe fruttato molto… che volesse mandarlo a nome suo a qualche giornale famoso? Chissà, magari addirittura al New York Times.
“E tu cosa le hai chiesto, Jane?” domandò seria. La sentì bloccarsi un momento, restare senza parole e si preoccupò. Non era mai capitato che Jane non parlasse per più di un minuto. In quell’occasione, però, si accorse che era rimasta letteralmente senza fiato. Quando parlò, il suo tono di voce era serio e quasi rotto. Capì che ciò che diceva le stava costando molta fatica e che non avrebbe mai voluto cedere.
“In realtà… io non le ho chiesto nulla, Belle” disse poi Jane “Io non farò l’università, almeno penso… anche se mi piacerebbe molto. Almeno non qui. Sai com’è, mio padre fa un sacco di programmi sulla natura e cose del genere… non fraintendere, io amo questo posto, New York è la mia casa… ma mio padre è sempre mio padre, ovunque sia… e lui adesso non è qui. È in Madagascar. E io ho intenzione di andare da lui” un silenzio imbarazzato cadde sulle due al telefono, seppure a distanza “Ha già trovato una casa” disse poi la ragazza “E sta lavorando lì come biologo. Pare che abbiano trovato una nuova razza di Lemuri. Sono piccolissimi, i più piccoli del mondo. E mio padre serve per studiare le loro abitudini. Ha detto che mi verrà a prendere con il suo nuovo amico, che è un indigeno e fà fare escursioni ai turisti. Parla molto poco inglese ma si fa capire. Mi verranno a trovare dopo gli esami…!” disse con falsa felicità. Di nuovo silenzio. “Si, vorrei fare questo articolo con te per passare del tempo insieme, Belle, e per conoscere magari anche qualcun altro… insomma, mi dispiace andarmene di nuovo e avrei tutto il tempo di adattarmi alla partenza, stando in mezzo a tutti e pensando a qualcosa.”
Belle rimase senza parole a sentire i programmi di Jane per la sua vita. Non aveva mai considerato realmente di dividersi dalle sue amiche. In realtà aveva solamente Cindy e Jane, ed entrambe parevano partire. Poi spostò lo sguardo verso un poster in camera, una visuale della Tourre Eiffel, e si rese conto che anche lei stava per dire addio all’America per sempre. Si sentì euforica, malinconica, quasi triste di lasciare tutto quanto per i suoi interessi e si rese improvvisamente conto di come l’avessero presa Cindy e Jane quando gliene aveva parlato. Non era mai sembrato che sarebbero andate così tanto lontane. Pensò anche ad Adam, la sua nuova conoscenza. No, forse non si sarebbero mai conosciuti, forse non l’avrebbe mai portato alla libreria di Jeanne. Magari avrebbe chiamato quando ormai lei era in Francia e non si sarebbero trovati mai più.
“Okay” disse solo, prima di chiudere la conversazione. Si sentiva scossa, e aveva veramente bisogno che qualcuno le dicesse che tutto sarebbe andato bene. Si ricordò anche di Gaston per un breve momento, poi si lasciò cadere sul letto e chiuse gli occhi, cercando di illudersi che sua madre fosse ancora lì con lei.


Adam la chiamò più tardi, quel pomeriggio, con il telefono del suo maggiordomo. Parlarono al telefono a lungo, almeno due ore. Si confrontarono parlando di tutto ciò che amavano, parlarono della scuola, dell’università, dei loro progetti per il futuro, delle amicizie in comune, di ciò che era accaduto alla festa e di Jane. Parlarono della sera prima, del suo labbro spaccato, del loro progetto per vendicarsi contro Gaston, della cicatrice che aveva in volto. Parlarono di fiori, di modelli, di libri, di profumi. Parlarono di abiti e ricchezza e quando lei gli disse che il mese seguente sarebbe partita per la Francia con il padre lui si chiuse in un silenzio lungo minuti in cui Belle non seppe cosa dire. Quasi non si osava di chiedergli se allora si sarebbero visti oppure no, cercò di riflettere sull’effetto che le faceva la voce di lui e quando chiusero la conversazione si sdraiò sul letto pensando a lui, al suo sguardo, al suo tono di voce, al suo aspetto. Certo, non era bello, almeno non così conciato, ma quando chiuse gli occhi per un momento ebbe l’imbarazzante visione di se stessa spinta contro un albero come aveva fatto Gaston, solo che al posto delle labbra del moro c’erano quelle di Adam, c’erano le sue mani che le toccavano la coscia fino alla biancheria intima e… si scoprì con una mano che virava pericolosamente verso il bottone dei jeans e decise che era un ottimo momento per farsi una doccia fredda.
Pensò molto anche a ciò che aveva pensato di lui, ma niente cambiava quella visione che aveva avuto, quel sogno fuggevole che non avrebbe mai voluto fare. Si era quasi spaventata di se stessa, del suo desiderio, quasi della… libido. Afferrò un libro e cercò di leggerlo per calmarsi, ma ormai i suoi ormoni di diciottenne sembravano impazziti. Il libro non riusciva a toglierle dalla mente il pensiero del ragazzo.
Afferrò il telefono e cominciò a guardarlo come se fosse uno strano oggetto, mentre in realtà era solo un apparecchio elettronico che lei ben conosceva. Si sentì una stupida e andò a farsi un bagno caldo cercando di rilassarsi. Mise della musica rilassante e delle candele profumate, chiuse le imposte e riempì la vasca, dopodiché si lasciò scivolare nell’acqua calda, abbandonata al piacere del calore, sentendosi avvolta in un caldo abbraccio. Restò nel bagno per almeno un paio d’ore, dopodiché decise che era il caso di uscire dato che l’acqua si stava facendo fredda. Si avvolse in un asciugamano pulito e andò in camera tamponandosi i capelli col lembo di un altro. Si avvicinò al cellulare, e quando vide che c’erano cinque chiamate perse di Adam quasi non ci credette. Lo richiamò subito.
“Pronto?” rispose subito lui “Belle?”
“Si” disse lei con un nodo alla gola “Dimmi tutto”
“In realtà” disse Adam “Non era niente di importante. Vorrei parlarti faccia a faccia, che ne dici? Domani al parco?”
“D’accordo” disse lei “Magari ti porto anche alla libreria”
“Perfetto. Allora a domani” mormorò ancora il ragazzo, dopodiché chiuse come se avesse fretta la conversazione e Belle rimase colma di dubbi e di speranze. Quando si sdraiò nel letto quella sera e fu nel buio della sua camera si rese conto che in realtà pensava di provare qualcosa di molto forte nei confronti di quel ragazzo quasi selvaggio, e non le importava niente di quanto spettinati potessero essere i suoi capelli. Il padre quella sera le aveva detto che aveva ormai trovato la casa a Parigi e che sarebbero vissuti in un bellissimo attico non lontano dal Centre George Pompidou, che ormai era tutto pronto e che dovevano solo aspettare una sua conferenza tre settimane più tardi, poi sarebbero partiti. Capì che ciò che provava per Adam non era qualcosa di semplice, ma che indubbiamente lo desiderava. E aveva solamente tre settimane. E lo avrebbe avuto, costasse ciò che costasse.


Il giorno dopo Belle arrivò al parco in leggero ritardo rispetto all’ora che avevano deciso, ovvero le tre di pomeriggio. Aveva perso molto tempo a decidere come vestirsi e acconciarsi, non era mai abbastanza soddisfatta. Voleva esprimere se stessa ma nel contempo sembrare sexy ed elegante, senza esagerare. Il suo stile era semplice e non intendeva elaborarlo. Così, alla fine, si presentò all’appuntamento con una t – shirt verde con lo scollo squadrato, larga abbastanza da non far vedere le forme ma morbida, in modo che a ogni movimento queste venissero in rilievo, un paio di pantaloncini corti color panna dal momento che faceva molto caldo, delle ballerine in tinta con la t – shirt e una borsetta colorata da tenere appesa a una spalla con scritto ‘Shakespeare’s not an opinion’ in cui infilò un libro e le cose che le sarebbero potute servire. Osò indossando un paio di orecchini a forma di rosa come la collana lunga. Riunì i lunghi capelli dietro la testa in una coda di cavallo e quando uscì di casa si sentiva davvero molto bella. Raggiunse il parco con tre fermate di autobus, e camminò diretta alla fontana vicino alla quale si erano dati appuntamento. Quando vide Adam (aspetta, era veramente Adam?) alzarsi in piedi e guardarla, quasi non lo riconobbe. Da un giorno all’altro era cambiato tantissimo.
I capelli erano perfettamente pettinati e lasciati sciolti sulle spalle, ricadevano lisci e dorati fino a metà petto, scompigliati da un venticello leggero. Gli occhi non erano più minacciosi ma carichi di aspettativa, la cicatrice sul volto sembrava meno evidente, quasi cancellata da tutta la sua bellezza. Belle si accorse che addirittura profumava e che il labbro era coperto da un cerottino trasparente messo a regola d’arte. Indossava un paio di jeans neri stretti, che mettevano pericolosamente in evidenza le gambe muscolose e atletiche, ai piedi portava un paio di semplici scarpe da ginnastica. Aveva una camicia bianca leggermente aperta sul petto, che faceva intravedere qualche pelo biondo. Con sé aveva una giacca di jeans che sembrava stare alla perfezione anche solamente come ornamento al suo braccio. Belle rimase senza parole e lo guardò per qualche lungo momento prima di riuscire a trovare la somiglianza con il ragazzo del quadro nell’ufficio della preside e quello della sera prima. Era una stranissima mescolanza fra i due, ma l’unica cosa certa fu che appena Adam si alzò in piedi, tutte le ragazze lì intorno cominciarono a mormorare e presero i cellulari per digitare alle amiche la notizia che un bellissimo ragazzo sconosciuto, ma che ricordava qualcuno, era appena apparso nel parco.
“Sei… sei proprio tu” mormorò Belle stringendo gli occhi e avvicinandosi a lui. Adam sorrise e le sfiorò la mano che Belle si lasciò prendere, la guidò fino alla panchina e lì si sedettero insieme, in silenzio.
“Hai portato qualche libro?” domandò lui poi. Belle aprì la borsa e ne estrasse Giulietta e Romeo. Non si aspettava di aver preso proprio quello. Adam la guardò sorridendo dolcemente. La ragazza non riuscì a non pensare che era radicalmente cambiato, che non riusciva proprio a capire come avesse fatto da un giorno all’altro e che era bellissimo. Se già la sera prima ne era stata attratta, adesso era quasi innamorata. Almeno, lui le piaceva moltissimo.
Decisero di fare una passeggiata. Belle non riusciva a fare a meno di guardare la sua cicatrice, che le dava così tanto l’idea di un passato travagliato, di misteri e cospirazioni, di esotico e misterioso. Ogni tanto cercava di costringere i suoi occhi a fissarsi su qualcos’altro, perché se avesse continuato in quel modo Adam avrebbe capito che era una maleducata ed era l’ultima impressione che lei voleva dargli. Si stupì quando lui finalmente si girò, guardandola fissa negli occhi.
“Sono molto cambiato, per te” affermò con voce rotta “Volevo tornare quello di una volta. Quando sono tornato a casa, mi sono finalmente guardato allo specchio. E sai cos’ho visto?” Belle scosse la testa “Ho visto una specie di… bestia… così brutto, così trascurato, così… quasi lasciato andare. Non riuscivo a rendermi conto di essere veramente io. È stata come una rivelazione. È stato come un fulmine a ciel sereno. Io non voglio essere un mostro” concluse guardandola con occhi pieni di disperazione, rimorso, rimpianto…
“Non lo sei” lo rassicurò Belle distogliendo lo sguardo imbarazzata “Secondo me non lo sei. Sei solamente… diverso. E non è detto che sia un punto a sfavore” lui la guardò con un sorriso mozzafiato, e la ragazza, che aveva fatto due calcoli cercando di ricordarsi se l’avesse già visto, si rese conto che avevano passato un anno a scuola insieme senza che lei si accorgesse di così tanta bellezza. Più lo guardava, più si rendeva conto che solamente un ragazzo come lui avrebbe potuto crearle quel senso di aspettativa che non aveva mai provato.
Belle non era mai stata con un ragazzo. Aveva provato a uscire con qualche ragazzo, ma mai qualcuno le era risultato degno d’interesse. Non perché fosse superba, ma perché il loro primo appuntamento si svolgeva in discoteca, in un casinò, al cinema, in un pub o a una festa e lei non riusciva mai a parlare, a esprimersi, a scambiare opinioni. E quando ci aveva provato, i risultati erano stati mugolii o versi che facevano chiaramente intendere che Goethe, Nietzsche, Goldoni e Ken Follett fossero dei perfetti sconosciuti. Belle lo trovava profondamente snervante.
Adam, al contrario, quella sera era riuscito a sostenere la conversazione e aveva anche citato qualche brano di Shakespeare, che fosse Amleto o Otello. Sapeva di cosa trattava il Simposio, che cosa pensava Sant’Agostino e le teorie di Talete. A Belle non era importato dei capelli scompigliati, della cicatrice o degli abiti smessi, quando aveva capito che sotto tutta quella scena da ragazzo di strada non c’era solamente il ragazzo più bello che l’High School avesse mai avuto, ma anche un cervello attivo e un’intelligenza vivace, una voglia di apprendere impressionante e una ricerca della conoscenza. Si era subito trovata bene e se fosse stata superficiale avrebbe addirittura ammesso che era pronta ad andare a letto con lui, da quanto l’aveva colpita. Ma Belle non era certo una di quelle ragazze che pensavano solo a ‘quel coso’, a meno che non si trattasse di cervello. Doveva ammettere però, che Adam la attirava in maniera particolare e che sentiva una strana sensazione al basso ventre, qualcosa che non aveva mai provato e che cominciava a farsi strada cogliendola di sorpresa. Mentre camminavano, a volte, casualmente, le loro mani si avvicinavano l’una all’altra e riusciva quasi a captare l’elettricità che emetteva quella vicinanza. Si sentiva decisamente su di giri. Arrossiva spesso. A volte balbettava. Quando mai lei aveva balbettato, se aveva sempre avuto una dizione invidiabile? Da bambina aveva addirittura vinto diverse competizioni di spelling. Lo guardò sottecchi mentre stava parlando di qualcosa di cui lei non aveva per niente afferrato il senso. Lui si zittì a metà frase, sorrise e le prese la mano. Belle si sentì volare, decidendo di godersi quelle sensazioni. Presto, non ci sarebbero più state. E il trasferimento in Francia, così tanto agognato, improvvisamente le causava solamente una dolorosa stretta al cuore.


Le ore volavano, e i due avevano deciso di prendersi un caffè da uno Starbucks che avevano trovato vicino al parco. Adam sorseggiava dal bicchiere lentamente, scherzando allegro. Belle cercava di dargli corda, ma in realtà il pensiero che si stava per allontanare da lui per sempre le faceva male. Decise di parlargli della sua partenza, ma non riuscendo a trovare parole migliori concluse di parlare chiaro e tondo.
“Adam, Fra tre settimane parto. E… non torno più” l’espressione del ragazzo cambiò del tutto “Vado in Francia, con mio padre. È sempre stato il mio sogno e quando lui ha ottenuto un incarico a Parigi, beh… abbiamo subito accettato…” lui abbassò gli occhi.
“Va bene” disse tristemente “Ho capito”.
Nessuno dei due si alzò, guardò l’altro o fece rumore bevendo il caffè. Semplicemente, rimasero lì, seduti accanto alla vetrata guardando il sole che pian piano spariva oltre gli altissimi grattacieli di New York. Improvvisamente, Belle capiva che le sarebbe mancata. O almeno. Le sarebbe mancata la sua quotidianità. Avrebbe molto sofferto senza la sua casetta di legno, senza il ricordo di sua madre che aleggiava nell’aria, senza la stanza priva di vita, eterna dal momento della sua morte. Le sarebbe mancata la libreria di Jeanne, le letture che duravano pomeriggi e poi le corse a casa per studiare o prendere qualche soldo in più per pagarsi un libro. Le sarebbe mancata la sua serra piena di rose, il movimento al di là delle finestre, tutta quella grandezza della città. Sapeva che Parigi non era da meno, ma era diversa. Non per bellezza, ma per ricordi. E si rese improvvisamente conto che i ricordi erano tutto ciò che la legava a quel posto. Ma quando si domandò che ricordi avesse, vide fugaci immagini di bei voti, del viso di Cindy e quello di Jane, della sua casa, della libreria. Si accorse improvvisamente che non aveva alcun ricordo vivido, colorato. Aveva vissuto moltissime vite con i suoi libri. Alcune cariche di colori sgargianti come Chocolat, altre totalmente nere come I racconti del terrore. Aveva volato oltre le nuvole con La Storia Infinita e provato distruttive passioni in Cime Tempestose, aveva amato dolcemente e pazientemente come Fanny di Mansfield Park e aveva odiato profondamente insieme a Iago nell’Otello. Ma mai, mai aveva veramente provato una sola di quelle emozioni. La sua vita si era sempre svolta regolare, nella monotonia e nel grigio, sebbene lei si fosse sempre lamentata del fatto che non aveva opportunità. Si sentì improvvisamente una grandissima sprovveduta. Tutto ciò che aveva letto non le era servito proprio a nulla. Si rese conto che tutto ciò che quelle storie avevano cercato di insegnarle era di combattere vivendo la propria vita, cercando di cambiarla, di renderla migliore, di non arrendersi. Ma lei non aveva mai colto quel messaggio per qualche misterioso motivo. Non aveva niente tranne brevi spruzzi di luce nel grigiume. Non aveva mai amato. Non aveva mai osato. E lei voleva un’avventura? Lei chiedeva di avere qualcosa in più? Proprio lei, che non aveva mai fatto niente.
Decise che per quella volta non sarebbe più rimasta ferma. Decise di mandare il prima possibile un messaggio a Jane, dicendole che si sarebbero incontrate il giorno dopo per andare a parlare con quelle tre ragazzine da cui era nata la festa. Dovevano sapere tutto, passaggio per passaggio. Avrebbe finalmente provato il brivido del mistero, la felicità della scoperta. Avrebbe conosciuto nuove persone e avrebbe probabilmente incontrato personaggi singolari, ma lei non doveva più rimanere in quell’apatia, costasse quel che costasse. E quando alzò lo sguardo verso Adam, si rese conto che nemmeno con lui doveva stare a girarsi i pollici. Okay, probabilmente non era l’amore delle favole, ma in fondo non era mai stata davvero certa che l’Amore, quello con la ‘A’ maiuscola, nascesse da uno sguardo fra due estranei che si incrociavano per strada. L’amore, pensò, era qualcosa che nasceva lentamente e non era forzato, ma doveva esserci. Bisognava provare. Capì che l’amore non era un avvenimento che capitava a caso. Si rese conto che era una scommessa, che era una roulette russa. Capì che bisognava puntare su qualcuno, rischiare, scommettere, lasciarsi andare alle sensazioni e all’intuito e poi lasciar girare la ruota. E se la pistola avesse sparato la freccia di Cupido, sarebbe stata per gran parte fortuna.
Si alzò bruscamente in piedi, la sedia dietro di lei cadde rumorosamente e qualcuno si girò a guardare. Adam le rivolse uno sguardo sorpreso. Belle si rese conto che era rossa in viso, che aveva le lacrime agli occhi per bagnarli, che le orecchie stavano per scoppiare e che il sangue al cervello le offuscava la lucidità. Si avvicinò un po’ a scatti al ragazzo, gli afferrò il viso fra le mani, piegandosi verso di lui e lo guardò negli occhi per un lungo momento. Non c’erano vocine che disapprovavano il suo gesto, nella sua mente, solamente una sensazione strana e calda, che sembrava latte e miele che stava scendendo nelle viscere più profonde, il cuore che le pareva uno scoppio di fuochi d’artificio.
Premette le sue labbra contro quelle di Adam.
E no, non le importava assolutamente niente che tutti li stessero guardando, che alcune ragazze emettessero risolini imbarazzati e che qualche anziana signora borbottasse alla sua amica ‘della maleducazione dei giovani d’oggi’. A Belle sembrava di toccare il cielo con un dito. Le pareva che il sole fosse appena sorto da est, bagnandola con il suo raggio di calore dorato. Una pioggia di stelle cadenti colorate, rulli di tamburi e trombette celesti risuonavano dentro di lei. Un vortice impetuoso di emozioni non la faceva respirare, e quando si staccò dalle labbra di lui le sembrò che la realtà non fosse più così banale. Ogni colore era più acceso, ogni odore più presente, i rumori più assordanti e il gusto del caffè e della lingua di Adam le stuzzicavano piacevolmente le papille gustative. Il ragazzo sembrava sconvolto e si teneva una mano stretta sul petto come se il cuore gli stesse per scoppiare. Belle si sentiva completamente scema, ma scoppiò a ridere. E non ci volle molto prima che anche Adam si unisse a lei, per poi alzarsi in piedi, prenderla fra le braccia, farle fare una giravolta abbracciata a lui e poi baciarla di nuovo. Erano circondati da mormorii e dalla voce di Carly Rae Jepsen. Belle afferrò la borsa e insieme, mano per mano, uscirono dal locale, come ubriachi, ridendo.


Il mondo era diverso quella sera, Belle se ne rese conto. Erano diversi i libri di Jeanne quando andarono a dare un’occhiata, ogni storia sembrava gridare di essere letta, ma questa volta non mentalmente, bensì ad alta voce, per essere condivisa. Ogni libro sembrava nuovo, ogni vicenda una nuova avventura e niente, nemmeno il vecchio proprietario, ricordava la libreria piccola, fiocamente illuminata e un po’ malinconica di qualche giorno prima. Quando uscirono ridendo, era già tardi. Belle aveva la borsa che pesava quattro volte in più di quando era uscita e Adam aveva tre diversi libri sottobraccio: si era scoperto un amante del giallo e del thriller e aveva trovato la trilogia Millennium di suo gusto.
Decisero di mangiare insieme e andarono a casa di Adam: il maggiordomo Lumière non era lì quella sera per lavoro. Mentre assaggiavano un curiosissimo purè di patate fatto dal ragazzo, che si scoprì proprio incapace ai fornelli, parlarono molto anche della sua famiglia, e lui le assicurò che avrebbe provato a migliorare le cose. Decisero definitivamente di fare insieme quell’articolo su Gaston, perciò dovevano riuscire a parlare con Herc e Belle promise che se ne sarebbe occupata lei stessa.
Quando ebbero pulito la tavola e i piatti e andarono nel salotto per parlare, la ragazza cominciò ad avere una strana sensazione, come se qualcosa di importante stesse per accadere. Odiava essere all’oscuro di qualsiasi cosa essa fosse, ma da un lato si sentiva così viva per la prima volta nella sua vita che quasi avrebbe voluto sentirsi così per sempre. Accesero la televisione e si sedettero sul divano. Dopo poco, mentre nel film, qualcosa di Dario Argento, una bambola era appesa per il collo al soffitto e il suo sangue colava a terra, prendendo un colorito molto simile alla vernice, Adam le circondò le spalle con un braccio.
Il gesto durò poco. Senza aspettare altro, il ragazzo si spinse su di lei tenendole la testa rivolta verso l’alto e la baciò con passione, ardentemente, tanto da sembrare fuoco vivo sulla pelle della ragazza. Si rese conto di non essere imbarazzata da quel gesto, bensì di agognarlo da molto tempo, da quando lui era entrato nella sua vita. Una mano del ragazzo salì per il suo fianco sottile per fermarsi sul lato del suo seno, e Belle sperò con tutto il cuore che non sentisse il suo cuore battere all’impazzata. Si strinse a lui, e Adam rinforzò la stretta, sebbene senza farle male. Quando emise uno strano suono gutturale, la ragazza si staccò da lui sorpresa. Non aveva mai creduto che un ragazzo potesse fare un verso del genere. Lui tossicchiò imbarazzato e lei non potè fare a meno di trovarlo ancora più bello.
“Scusa…” mormorò il ragazzo, riaggiustandosi la camicia e cercando di ricomporsi “Non volevo andare troppo di fretta, ma pensare che tu… che tu fra sole tre settimane sarai già in un altro continente… scusa ma vorrei vivere tutto ciò che posso con te subito, e…” Belle non lo lasciò finire poggiandogli due dita sulla bocca.
“So che me ne andrò” disse, ma mentre pronunciava quelle parole, una gelida vocina nella sua testa cercava di imporsi “Anche io voglio vivere tutto con te. Non ne avrò più l’opportunità, e se tutto ciò che posso avere sono ricordi, allora ne voglio a centinaia” mormorò a bassa voce, guardando quel viso senza imperfezioni, quella lunga cicatrice più scura che gli graffiava la faccia senza imbruttirlo, i lunghi capelli castano chiaro, folti, che ricadevano sulle spalle forti e circondavano il collo taurino. In realtà qualcosa le diceva che non avrebbe dovuto farlo. Che l’avrebbe rimpianto. Che non avrebbe mai avuto la vera felicità, che sarebbe rimasta legata ai ricordi, che avrebbe trovato un francesino adatto a lei, ma… non riuscì a dare retta a quella maledetta parte di sé.
Adam non attese oltre. La baciò con passione, premendo il suo corpo muscoloso e alto contro di lei, schiacciandola dolcemente sul divano. Le baciò le labbra carnose, le solleticò il collo con la lingua, scese nell’incavo delle spalle e le sfiorò i fianchi con le dita, scostandole la t – shirt. Le scostò i capelli dal collo per poterlo assaggiare e lei fu presa da una foga sconosciuta. Si avventò sul suo collo, liberandolo dalla camicia cominciando a sbottonarla, succhiando e leccando quella pelle morbida e profumata. Adam ridacchiò. Si alzò, la prese per mano e la condusse nella sua stanza da letto. Era una camera piuttosto piccola, con un letto di legno chiaro su un lato e un grande armadio dall’altro, sotto la finestra, in un angolo, c’era una scrivania e un computer portatile chiuso. Una piccola libreria vuota era appesa sopra il letto. La trascinò fino a farla cadere ridendo sul materasso, le si gettò a fianco e si infilarono sotto la coperta leggera. Lì cominciò a lavorare sul bottone dei pantaloncini di lei, ma quando riuscì a farsi strada la ragazza gli afferrò la mano che si stava infilando nei jeans e lo guardò un momento con occhi preoccupati e sinceri. Lui la osservò attentamente per qualche momento, poi, quando capì il motivo dell’esitazione annuì e la baciò dolcemente.
“Non voglio forzarti. Andiamo pian piano” mormorò, e lei gliene fu grata. Si baciarono lentamente, scoprendosi a passi lenti. Belle scoprì una nuova realtà che non aveva mai considerato come qualcosa che potesse accadere in un futuro prossimo. Certo, Gaston le parlava costantemente di sesso, ma lei non aveva mai voluto pensarci anche per allontanare l’immagine di lui. Ma a diciassette anni e mezzo, Belle si sentiva in pieno diritto di avere la sua prima esperienza, nonostante non fosse mai stata una sua priorità e il padre l’avesse sempre messa in guardia.
Scoprì che il corpo maschile poteva essere spaventoso e stupefacente ma anche dolce e assolutamente non violento. Capì che il suo non era così male e che Adam fremeva ogni volta che le sfiorava un lembo di pelle. Si sentì presa alla sprovvista, ingenua, grande, piacente. Provò dolore, sensazione di pienezza, una specie di tensione che aumentava pian piano e infine non seppe bene dire come si sentì. Si ricordava solo qualcosa di paradisiaco e indecente, un’esplosione nel silenzio e la scoperta di sensazioni che non avrebbe mai immaginato di poter provare. Non era qualcosa di semplicemente bello. Era qualcosa che non poteva spiegare. Era qualcosa che aveva un nonsochè di selvaggio, di primordiale, di così giusto, soddisfacente e stancante che non avrebbe potuto spiegare con una sola parola.
Fu molto imbarazzata quando, alzandosi, si rese conto di aver sporcato il lenzuolo di sangue. Era solo qualche macchiolina, certo, ma non si sarebbe mai aspettata una cosa del genere e l’aver sporcato il letto di Adam la mandò quasi in crisi, finchè lui non scoppiò in una risata. La cullò fra le braccia, dicendole che era normale, che capitava quasi a tutte. Le raccontò a bassa voce della sua prima volta, di quando era stato un disastro e che non si era mai sentito bene come quella sera, con lei. Le disse che non avrebbe mai più voluto amare nessun’altra ragazza e lei gli credette quando le disse che con lei aveva provato emozioni che andavano oltre il limite del sopportabile, che l’aveva fatto impazzire, che si era sentito talmente bene da dimenticare persino la sofferenza. Le raccontò della sua cicatrice, che Gaston gli aveva causato facendolo cadere per terra, in una fabbrica abbandonata in periferia, e che un vetro gli aveva quasi preso l’occhio, ma per fortuna era solo passato sul naso. Le disse che nessuna ragazza l’aveva più guardato se non con disgusto, le confidò che non voleva lasciarla, non voleva che partisse, che tre settimane erano troppo poche. La pregò di portarlo con lei, di rimanere a Manhattan, che avrebbe messo tutto a posto e si sarebbe messo a lavorare. Le promise che l’avrebbe trovata anche a Parigi, che non se ne sarebbe mai andato sul serio, che l’avrebbe rincorsa ovunque sarebbe andata.
Quando Belle si addormentò, non pensò affatto a tornare a casa sua da suo padre, non si pose nemmeno il problema di avvisarlo. Il cellulare venne lasciato a vibrare solitario, nella borsa in soggiorno. Ma la ragazza non si pentì mai di quel gesto. Dormì bene, per una notte intera, per la prima volta da quanto si ricordasse non sognò la madre e quando aprì gli occhi a guardare Adam il mattino dopo, desiderò che esistesse una boccetta di vetro in cui mettere i ricordi più belli, in modo da poter tornare indietro e riviverli ogni volta che voleva. Pianse in silenzio mentre il ragazzo dormiva, il cuore rotto in due al pensiero che avrebbero dovuto separarsi. Non poteva credere alla crudeltà della vita, non voleva pensare all’ipotesi di non vederlo mai più. Si rese conto che se una volta non avrebbe confidato i suoi pensieri a nessuno, avrebbe voluto stare sempre sola, adesso non avrebbe più potuto farlo. Doveva distrarsi, doveva pensare ad altro.
Scosse Adam, che aprì gli occhi lentamente, stanco e con la bocca ancora impastata. Belle non aspettò altro, lo pregò e lo tirò verso di sé, abbracciandolo, baciandolo, provocandolo. Perché c’era un solo modo di distrarsi, di pensare che nessun momento era perso con lui ed era continuare a sentirsi così selvaggiamente bene, così unita a lui da pensare di essere parte di un tutt’uno e che Platone avesse fermamente ragione. Lei e Adam non potevano essere due persone distinte, pensò. Avevi ragione tu, nell’antica Grecia, Platone. In realtà un tempo eravamo una creatura unica. E io e Adam abbiamo compiuto la missione. Ci siamo ritrovati. E allora, perché ora il destino vuole dividerci di nuovo?










NdA: ciao a tutti ^^ ecco qua il capitolo che molti stavano aspettando :D vi è piaciuto? :) Ringrazio petitecherie, elelovett, merychan, _BriciolaElisa_ e Sissyl per i commenti allo scorso capitolo, grazie ^^ Al prossimo capitolo con Esmeralda ^^ un abbraccio,
Nymphna

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Capitolo 5
*** 5 - Esmeralda. ***



 

Capitolo 5, Esmeralda.
(da lunedì 28 a mercoledì 30 giugno)

 


Esmeralda aprì i suoi occhi verdissimi appena sentì battere alla porta. Non aveva mai avuto il sonno pesante e quel giorno non faceva eccezione, nonostante fosse tornata ubriaca persa dalla sera prima. Si alzò dal divano passandosi una mano fra i capelli scuri e folti, avvicinandosi alla porta. Lanciò un’occhiata fuori dallo spioncino. Là c’era un ragazzo sui trent’anni, biondo, con vispi occhi scuri e indagatori. Non che il suo viso le stesse antipatico, il problema era com’era vestito. La divisa di poliziotto lo rendeva immediatamente antipatico ai suoi occhi. Aprì la porta e si appoggiò allo stipite, ben consapevole di quanto fosse attraente per qualsiasi uomo. Le gambe lunghe e nude spuntavano sotto una maglietta extra larghe bianca che lasciava ben poco all’immaginazione. Incrociò le braccia sul petto e la maglietta si strinse, mettendo in evidenza i seni sodi e pieni. Il ragazzo le lanciò un’occhiata compiaciuta, poi le rivolse un sorriso che le parve più beffardo che altezzoso che la convinse definitivamente a non fidarsi di lui e a provocarlo in ogni maniera possibile.
“Cosa vuoi?” gli domandò con la sua voce profonda e roca, guardandolo con un sopracciglio alzato. Il biondino si fece largo e la sorpassò, entrando in casa sua “Ehi, ehi, chi ti ha detto che avevi il permesso di entrare?”
“Sono un poliziotto” le fece notare lui, indicandosi senza perdere il suo sorriso “Posso entrare in casa tua, invitato gentilmente come ora, oppure posso farmi dare un mandato e irrompere improvvisamente spaccando tutto” lei chiuse la porta dietro di sé e lo guardò per un lungo momento. Capiva che quel ragazzino era ben piazzato sulla sua posizione, che aveva un ruolo rilevante e che era chiaramente attratto dalle belle ragazze. Si avvicinò a lui suadente, muovendo sensualmente i fianchi. Quando gli fu davanti gli afferrò un ciuffo di barbetta e fece in modo da piazzare il suo sguardo nel lago smeraldo che le apparteneva.
“Ora dimmi, ‘poliziotto’, che cosa vuoi da me?” domandò in un soffio vicino alle labbra di lui. Il ragazzo la guardò un momento come incantato, poi le prese le spalle e la allontanò di qualche centimetro.
“Ehi, non allargarti troppo, potrei decidere di lasciarti già libera” disse “Devo portarti in centrale”
“Credi davvero che mi ci lascerò portare?” gli domandò lei sarcastica. Lui annuì energicamente.
“E’ ovvio. Altrimenti avrò un mandato e…”
“Si, e mi porterai dove vorrai, certamente” Esmeralda sentì la rabbia montare in sé. Perché i poliziotti dovevano sempre ottenere tutto ciò che volevano? E soprattutto, perché doveva sempre essere in mezzo lei? Sapeva che qualcuno ancora una volta aveva parlato e fatto il suo nome, ma chi poteva essere questa volta? Lei non aveva fatto nulla di male. Non si era nemmeno fumata una cannetta negli ultimi giorni. Okay, aveva bevuto, ma non potevano certo condannarla per aver fatto fuori una bottiglia e mezzo di rum in casa. “Cosa vuoi da me?” gli domandò nuovamente, più minacciosa. Il ragazzo la guardò quasi spiazzato dal suo cambiamento d’umore, ma recuperò presto la sua baldanza e si appoggiò una mano sul fianco, alzando le sopracciglia e guardandola come se fosse tutto ovvio.
“Beh, sappiamo entrambi come mai” le disse “Insomma, l'altra sera eri a quella festa e poco dopo una ragazzina è finita in coma. Qualcuno ti ha vista con lei e i suoi… diciamo… amichetti. Ti hanno rintracciata ed ora io sono qui da te.” Tirò su col naso facendo qualche passo in casa, soffermandosi sul poster di una cascata sopra la televisione “Le hai mai viste? No, intendo, le cascate.” Esmeralda lo mandò a quel paese nella maniera meno delicata possibile ed entrò in camera sua sbattendo violentemente la porta. Lo sentì bussare e cercare di aprire ma lei fece schioccare fulminea la chiave nel lucchetto. Si infilò un paio di jeans viola, il suo marchio, una camicia bianca decisamente sbottonata sul petto, in modo da mostrare un bel lembo di pelle abbronzata e un paio di sandali con giusto cinque centimetri di tacco. Si tirò indietro i capelli con una fascia dello stesso colore dei pantaloni e infilò la finestra dal lato opposto all’entrata, mentre il poliziotto ancora sbatteva il pugno sulla porta di legno.
I suoi braccialetti tintinnarono nella leggera brezza Newyorkese.
Esmeralda non aveva mai abitato a Manhattan, fra i ricchi, eppure era andata lì alle superiori. Una volta concluse, però, si era resa conto che nulla di ciò che le avevano detto per tutti quegli anni era vero. ‘Troverai subito lavoro, vedrai, diventerai ricca’. Tutte balle. Era un anno e mezzo che era uscita da lì e in tutto quel tempo non aveva mai avuto un lavoro decente. Era andata a chiedere di lavorare un po’ ovunque. Aveva bisogno di una casa, non poteva certo continuare ad arrotolarsi in leggere coperte nelle stanze vuote di un palazzone del Bronks. Ben presto aveva capito che se aveva una sola garanzia, e non era certo il diploma. Era andata con il proprietario del negozio di dischi, con il caposala di un ristorante, addirittura con un grasso cuoco. Poi aveva lasciato perdere e aveva cominciato a lavorare alla Dream’s House sentendosi colpita dall’ironia della vita: lì aveva fatto le superiori e lì ora lavorava. Garth era un uomo gentile, non le avrebbe mai chiesto di fare quelle cose che gli altri avevano ritenuto più importanti di un diploma. In ogni caso non era cambiata molto, la sua situazione: qualche sera al mese era costretta a concedersi agli uomini più disparati per arrotondare lo stipendio e riuscire a tenere la sua abitazione.
Si infilò in un vicolo fra due palazzi entrando nel quartiere più temuto della città, completamente fuori controllo. I ragazzi le lanciavano occhiate compiaciute, qualcuno le fischiò, ma Esmeralda non li guardò nemmeno e proseguì per la sua strada, decisa ad arrivare dal suo migliore amico, Clopin. Lei e Clopin erano sempre stati insieme. Non era veramente suo fratello, come tutti pensavano, ma avevano gli stessi occhi di smeraldo, gli stessi capelli scuri e la pelle abbronzata di chi ha passato giornate intere per strada. Avevano addirittura lo stesso cognome. E lui era il re del Bronks.
Lo raggiunse in un palazzone abbandonato, in una stanza vuota dove bivaccava solitamente con tutto il suo gruppo. Les Gitans, così si facevano chiamare. Quando entrò, Clopin era sdraiato su un tavolo abbandonato, con una pistola in mano che faceva girare annoiato sulle proprie dita. Esmeralda si appoggiò allo stipite della porta incrociando le braccia, e l’amico si girò sorridendole.
“E così siamo tornate all’ovile?” le domandò in tono di scherno.
“Sono solo di passaggio” rispose lei con la sua voce roca e profonda, avvicinandosi a lui. Vide un movimento dalla parte opposta dello stanzone, e lanciando un’occhiata si rese conto che Clopin non era solo. Con lui c’era il loro ultimo acquisto, un ragazzo che era cresciuto in una famiglia che da sempre lo maltrattava, figliastro di un giudice senza pietà dalla pessima fama fra i ragazzi di New York. Quentin, così si chiamava, era nato con una patologia terribile che gli aveva deformato la spina dorsale, rendendolo gobbo e di bassa statura. Il giudice, convinto che un allenamento militare gli avrebbe giovato, lo aveva costretto a fare esercizi costanti ogni giorno, finchè il povero ragazzo non aveva dovuto essere ricoverato di cuore. Dopodiché era scappato. Non se la sentiva più di sottostare ai maltrattamenti dell’uomo che l’aveva adottato.
Esmeralda lo aveva sempre considerato un ottimo amico. Sotto la sua gobba sempre più evidente, il suo fisico muscoloso, il viso deformato e una chioma di ispidi capelli color carota si nascondeva una mente vivace, attiva, sensibile, pronta a cogliere ogni dettaglio. Ma la cosa che le faceva più male era che Quentin l’amava da anni e lei lo sapeva. Non che non le facesse piacere, sapere che a qualcuno non interessava solamente il suo corpo, ma sapeva che non avrebbe mai potuto ricambiarlo. Certo, era un amico a cui molte volte si era confidata, l’unico che non si era mai approfittato di lei vedendola ubriaca e che invece l’aveva aiutata costantemente. Sapeva che non aveva mai fatto altro che toccarle un po’ i seni mentre dormiva, ma se questo fosse stato un crimine, le prigioni sarebbero state sommerse da uomini allupati. Lei desiderava altro. Aveva sempre sognato di avere un ragazzo, almeno da bambina, di sposarsi e avere una bella famiglia, di camminare tranquillamente e fieramente per le strade di un paesino americano, circondata da sguardi ammirati dei compaesani. Ma a tredici anni aveva capito che la vita era ben diversa.
Scosse la testa distogliendosi dai suoi pensieri e salutò Quentin con affetto, scherzò vedendolo arrossire e poi andò a sedersi accanto a Clopin, chinando le spalle e giungendo le mani.
“Allora, piccola pecorella smarrita, confessa il tuo peccato!” esclamò quest’ultimo. Lei lo guardò sorridendo per un momento.
“E’ arrivato un poliziotto oggi, a casa mia” disse poi “Un biondino che deve aver appena preso la licenza. Non gli do più di ventidue anni. In ogni caso, mi voleva portare in centrale”
“Cos’è successo?” domandò Quentin preoccupato “E’ qualcosa di grave?”
“Dice che una ragazzina minorenne era a una festa l’altra sera e che è finita in coma. Danno la colpa a me” spiegò lei alzando le spalle. Clopin si girò sul tavolo scendendo con un atletico saltello, facendo un cenno al rosso, che gli porse immediatamente un giornale. Il moro l’aprì e mostrò a Esmeralda una notizia di prima pagina, che continuava per altre cinque o sei facciate di giornale. La ragazza prese i fogli e si immerse nella lettura. Scoprì che la festa del sabato sera precedente era stata a casa di una ragazzina chiamata Aurora Reale, la figlia del consigliere italiano Stefano Reale, e che a un certo punto avevano scoperto che una quattordicenne, Blanche Woodson, la figlia dell’impresario mancato un mese prima, era in coma da due giorni interi, era stata stuprata da sette uomini diversi e avevano trovato tracce di LSD nel sangue. E quando Esmeralda lesse la cifra, quasi le cadde il giornale dalle mani “Una quantità simile uccide” commentò “Questa ragazzina è davvero fortunata ad essere ancora in vita” Quentin si strinse nelle braccia.
“Per quanto possa essere ancora in vita, è appesa a un filo. Non chiamerei proprio ‘vita’ l’essere in coma come lei. Dicono che potrebbe non svegliarsi più” commentò tristemente.
“E’ ovvio che non si sveglierà più!” esclamò Clopin “Sarei morto anche io! È solo che quella ragazzina è ricca e ha un culo che va oltre a quello della maggior parte delle persone!”
“Mi chiedo solo che cosa centro io!” esclamò a quel punto la mora “Io non ci sono nemmeno andata a quella festa. O meglio, si, sono stata fuori, ma solo perché Ali mi aveva chiesto di dirgli qual era il suo orario alla Dream’s House per oggi. Aveva chiesto la domenica libera ma poi si è dimenticato di chiedere a che ora doveva entrare oggi. Non so perché avrebbero dovuto sospettare di me. Sai quante ragazze di diciannove anni con i capelli neri ci sono in giro?”
“Sicuramente…” mormorò Clopin in tono teatrale “Ma il triste destino si abbatte sugli innocenti…” Esmeralda lo guardò male “D’accordo, allora, cercheremo di scoprire chi è stato. Fammi fare un paio di telefonate. Tu intanto cerca di stare lontana dai guai! La polizia ha occhi e orecchie ovunque” si raccomandò.
Esmeralda non era una novellina in quelle situazioni. Diverse volte, in vita sua, si era ritrovata a scappare da Clopin cercando di evitare la polizia e lui l’aveva sempre accolta e aveva sempre sistemato tutto. Non era mai stata al centro di cose gravi, in ogni caso. Il massimo che aveva rischiato, era perché l’avevano trovata con un po’ troppa marjuana addosso, ma mai per un omicidio, una sparatoria, o come in quel caso, per aver drogato una ragazzina. Cosa le sarebbe dovuto interessare? Il sabato sera era andata al Bazar e aveva scambiato qualche parola con il vecchio Joe, ma non aveva fatto niente di male. Okay, aveva bevuto qualche Chupito di troppo con Meg, ma poi se n’era tornata a casa a dormire, si ricordava bene. Sapeva dell’esistenza della famiglia Woodson solamente perché quando ancora viveva nell’orfanotrofio, l’avevano spesso portata lì a vedere i giardini dell’azienda come facevano tutte le scuole. Ma poi se n’era dimenticata. Non sapeva nemmeno chi fosse il proprietario, tantomeno che avesse una seconda moglie e non aveva mai sospettato nemmeno lontanamente che avesse una figlia.
Venne distratta dai suoi pensieri dal cellulare che squillava. Il numero era quello di Garth, il proprietario della Dream’s House, dove lavorava facendo i turni di notte. Aprì il vecchio Motorola e schiacciò il pulsante verde di risposta.
“Buona mattina, Garth” lo salutò, aspettandosi una richiesta di andare subito a lavorare.
“Esmeralda, mi vuoi spiegare perché un tizio della polizia, con una barbetta da capra e l’aria di mister America è appena venuto a cercarti qua?!” ringhiò il datore di lavoro dalla cornetta. La ragazza si morse un labbro sospirando. Quel poliziotto da quattro soldi era andato anche al fast food! Cercò di dominare l’istinto, che le suggeriva di recarsi alla Dream’s House, trovare la macchina del poliziotto e bucargli tutte le ruote.
“Non lo so” disse lei “So solamente che crede che abbia dato della droga a una ragazzina” rispose lei facendo dondolare le gambe.
“Che cosa?! Non mi dire che hai fatto una cosa del genere, altrimenti io…” minacciò l’altro.
“Ehi, Garth, ma cosa credi?!” esclamò lei inviperita “Cosa vuoi che me ne importi di drogare una ragazzina? A quella festa ci sono andata solamente per parlare con Ali, si era dimenticato a che ora doveva venire oggi, per questo te l’avevo chiesto sabato pomeriggio!”
“D’accordo, d’accordo” si arrese Garth, ricordando l’episodio “Allora trovami Ali al più presto, perché il ragazzo è introvabile! Ho provato a chiamarlo almeno cinquanta volte, se c’è lui come testimone ti lasceranno subito andare!”
“Come? È sparito Ali?” Esmeralda era stupefatta. D’accordo, conosceva Ali da più o meno una settimana, ma da subito si era resa conto che non era proprio il ragazzo che spariva all’improvviso senza avvisare. Ali era uno che aveva voglia di fare, di mostrare il suo valore, era pronto a passare al lavoro anche quattro ore in più di straordinari senza battere ciglio. Era il tuttofare del locale, e anche se una volta, per scherzare, Esmeralda gli aveva chiesto di pulire il bagno, lui si era armato di strofinaccio e sgrassante e si era dato da fare. Non poteva credere che fosse sparito.
“Certo che è sparito, non risponde nemmeno al telefono ed è in ritardo di due ore e mezza!” abbaiò Garth. Esmeralda boccheggiò.
“Ci sentiamo dopo” disse poi, chiudendo la conversazione. Si portò le ginocchia al petto pensando a cosa avrebbe potuto fare per uscire da quella situazione, rendendosi conto che in realtà non poteva fare niente. Pensò di andare a prendere i suoi pochi soldi e scappare da qualche parte senza farsi notare, idea che cadde immediatamente nel vuoto quando si rese conto che se fosse scappata sarebbe sembrata una colpevole e non solo: sarebbero andati a cercare tutti i suoi amici. E pensare a Clopin dietro le sbarre per possedimento illegale di armi e furti, Meg per prostituzione e droga e Quentin abbandonato a se stesso, alla mercé del suo patrigno giudice… no, non poteva proprio rischiare. Doveva andare alla polizia, far cercare Ali da Clopin e aspettare. Lei era sicura della sua innocenza e prima o poi le prove sarebbero saltate fuori. C’era gente che la conosceva a quella festa. Qualcuno doveva aver pur notato che non c’era. E poi, non era stata invitata. Saltò giù dal tavolo atleticamente e scosse un braccio di Clopin, che era ancora al telefono. Lui chiuse subito la telefonata e la guardò attento.
“Devo andare alla polizia” disse poi “Io sono pulita, Clopin, devi solo riuscire a trovare Meg e Ali. Ho passato la serata con loro, perciò possono testimoniare per mio conto. Se stessi nascosta la polizia vi troverebbe e non voglio che vi succeda niente di male” il ragazzo deglutì e Esmeralda lo vide preoccupato veramente per la prima volta in vita sua. Sospirò profondamente e uscì dal palazzone, sotto lo sguardo ammirato e preoccupato di Quentin.


Quando arrivò alla centrale di polizia, il ragazzo che era arrivato a casa sua la guardò ammirato e colpito. La ragazza capì subito che era l’ultima mossa che si sarebbe aspettato da parte sua. La guardò come inebetito per qualche momento, poi le fece un cenno della testa e allargò un bracciò con un sorriso, come a farle capire che non era ostile. La ragazza lo guardò storcendo il naso.
“Perché non mi metti le manette?” domandò stupefatta.
“Non ce n’è ragione” disse lui “Penso che una persona che si consegna spontaneamente alla polizia non abbia bisogno di manette, o sbaglio?”. Il ragazzo sembrava di buon umore e aprì una porta sul fondo dell’ufficio mentre tutti gli altri suoi colleghi lo guardavano stupefatti. Dietro la porta c’era un ufficio piuttosto grande, sebbene decisamente spoglio e triste. Le mura erano grigie e una sola, piccola finestra illuminava l’ambiente. C’era una piccola cella con un letto e una sedia davanti alla scrivania di legno chiaro, una sedia girevole, un paio di armadietti di ferro e un cumulo di cartacce in bilico l’una sull’altra. “Eccoci arrivati nel mio meraviglioso ed elegante ufficio” commentò il ragazzo mettendosi i pugni sui fianchi, come se stesse descrivendo uno yacht. Esmeralda lo superò e aspettò che gli aprisse la porta della gabbia. “Mm, forse ci sarebbe bisogno di qualche ristrutturatina” commentò poi il ragazzo “Insomma, sembra quasi una camera mortuaria” la ragazza tossicchiò e lui si affrettò ad aprire la porta. Le prese tutto ciò che aveva nelle tasche (il cellulare e qualche dollaro), dopodiché si sedette con la sedia girevole davanti a lei.
“Allora, per quanto tempo dovrò restare qui?” domandò lei.
“Non saprei. Dipende quando avremo trovato prove su di te” rispose il poliziotto.
“Allora non ne troverete. Comunque. Perché hai un ufficio tutto tuo?” chiese ancora. Il ragazzo sembrò preso alla sprovvista e si tirò un ceffone alla testa da solo, come se si fosse appena ricordato qualcosa di importante.
“Che maleducato!” esclamò “Non mi sono nemmeno presentato. Comunque, io mi chiamo Febo, in realtà non sono di qua. Vengo dal Massachussets. Comunque, sono il detective poliziesco più bravo della città, almeno così dicono, perciò sono stato assunto dalla famiglia Woodson per sapere che cosa ha mandato in coma la loro figlioletta quattordicenne. Ho ventisei anni e non ho mai lavorato in strada” la ragazza lo fissò stupita dalle sue parole. Un detective? E si comportava come un adolescente in piena crisi ormonale? “E, in caso ti interessasse, amo i cavalli e le torte di mirtilli”
“Molto rustico” commentò lei. Febo rise, poi prese dalla scrivania un taccuino e una penna, si schiarì la voce e la guardò profondamente per qualche secondo. Poi parlò.
“Bene, devo farti alcune domande di rito.” Disse poi “Allora, per prima cosa… dov’eri sabato sera dalle otto all’una?”
“Ero con la mia amica Meg in un bar, l'Hell’s Fire. Siamo arrivate lì alle nove, dopo mangiato, abbiamo giocato a biliardo e bevuto birra, poi ci siamo messe al bancone e abbiamo ordinato dei super alcolici. Ce ne siamo andate da lì alle undici e mezza.”
“Okay…” disse Febo mentre scribacchiava qualcosa sul taccuino “E dopo, dove sei andata?”
“Sono andata davanti alla casa di quella ragazza che faceva la festa, la figlia del consigliere italiano” rispose quasi annoiata “Un mio collega di lavoro, Ali, era lì con la sua ragazza e mi aveva chiesto di andare a dirgli gli orari di lavoro alla Dream’s House. Lavoriamo lì tutti e due”
“D’accordo” confermò il detective annuendo “E dopo ancora?”
“Dopo io e Meg siamo andate al Bazar, lei doveva lavorare e io sono andata con un uomo. Uno dei bodyguard di Ade. È il capo di Meg” disse ancora, sedendosi sul letto. Febo alzò lo sguardò.
“E’ il tuo ragazzo?”
“No, ci sono andata perché dovevo arrotondare lo stipendio, e quello ha soldi” rispose. Il ragazzo la guardò profondamente, e Esmeralda sentì per la prima volta nella sua vita una punta di dubbio. Aveva sempre pensato che fosse giusto così, che anche se era qualcosa di illegale, lo facevano in tante donne e perché avrebbe dovuto essere umiliante? L’importante era non farlo sapere a molte persone. Ma sotto lo sguardo attento del detective giovane e biondo, che dimostrava meno anni di quanti ne avesse in realtà, sentì veramente un senso di inferiorità addosso, come se avesse sbagliato tutto da sempre. Non si sentiva più convinta di ciò che faceva ma solo… davvero una merda. “Okay, lo so che non è una cosa giusta” disse poi, cercando di supplire la sensazione che era derivata da quel pensiero “Ma sono maggiorenne e posso fare anche queste cose, d’accordo? Non è un’attività vera e propria. È stata una mia scelta.” Il ragazzo chinò la testa e scarabocchiò ancora sul suo block notes.
“Ora dimmi” disse con voce meno allegra e insolente ma più amareggiata “Dove posso trovare queste persone che possono testimoniare la tua serata?”
“Non lo so. Meg sta con Ade, ma non so dove abita.” Rispose sinceramente, riuscendo a guardare Febo negli occhi per qualche secondo “Dovresti trovare lui, oppure la trovi al Bazar, praticamente tutte le sere. Sta là sotto a fare la cubista. Balla burlesque finché qualcuno non chiede di averla, va a chiedere a Ade e lui decide il da farsi. Ma non è colpa sua. Lasciala stare. È costretta” Febo annuì preso, sempre con gli occhi sulla carta “E Ali è sparito, così mi ha detto Garth, il proprietario della Dream’s House. Comunque, la sua ragazza la puoi trovare facilmente. Si chiama Jasmine, è la figlia del Sultano, il proprietario della Reggia del Sultano, il ristorante arabo più famoso della zona. Lui non fa altro che parlare di lei.”
“D’accordo, Esmeralda” disse alla fine, alzandosi e sospirando “Vado a fare una visitina ai tuoi amici. Tu resta qua.” Prese la giacca e la pistola, infilandola nella cintura, le chiavi della macchina e infilò il taccuino nella tasca della giacca “Ah” disse uscendo dalla porta “Non cercare di scappare, perché se riuscirai a sbloccare il lucchetto della porta, scatterà una sirena che attirerà qui tutte le forze armate Newyorkesi. E anche se non lo facesse, l’unico modo di uscire è dalla porta di servizio. E per arrivarci, dovresti passare in mezzo ai miei colleghi”. Chiuse la porta, e Esmeralda si lasciò cadere sul letto, col viso fra le mani. Che avesse fatto la scelta sbagliata?


Quando Febo tornò, sembrava nervoso e insoddisfatto. Esmeralda si stava annoiando a morte e quasi le risultò piacevole l’entrata del ragazzo dopo due ore. Inoltre, avrebbe tanto voluto una sigaretta e uno shottino. Il ragazzo lasciò cadere giacca, pistola, taccuino e penna pesantemente sul tavolo, poi si sedette e si prese la fronte con una mano.
“C’è qualcosa che non va?” domandò Esmeralda. Febo la guardò un momento profondamente, prese la sedia e la riportò davanti a lei, intrecciando le mani. Sospirò qualche volta prima di parlare.
“La situazione va complicandosi” ammise infine “Sono stato alla Dream’s House e ho parlato con un’altra ragazzina che lavora lì, una certa Cindy Tremaine che era alla festa, le ho chiesto di testimoniare anche al processo per te. Mi ha promesso che verrà in centrale con il suo ragazzo, anche lui era alla festa. Sembrava piuttosto agitata dalla situazione, credo che ti aiuterà molto” Esmeralda sentì un improvviso moto di gratitudine nei confronti della ragazza che l’aveva sempre coperta, in ogni occasione. “Ali non è ricomparso, e quando sono arrivato alla Reggia del Sultano è stato come essere catapultato in un uragano. Anche la figlia del proprietario è sparita, quella Jasmine. Non la trovano da giorni e la centrale gli ha detto che non possono denunciare la scomparsa prima di ventiquattro ore. Non erano ancora passate, ma ci sono abbastanza elementi da farmi prendere carico del caso, mi sembra annesso.” Esmeralda rimase a bocca aperta. Che fosse una fuga d’amore? Ali aveva detto che il padre di lei non era d’accordo con la loro unione, in effetti… “Sono andato quindi a chiedere della ragazzina ad Aurora Reale, scoprendo che anche lei è finita in coma in seguito a una botta in testa da parte di un vaso caduto. Era la sua migliore amica, e non si può chiederle niente. Sono andato dall’altra loro amica, Ariel Fiskehandler ma è praticamente in stato di shock dopo aver visto la sua migliore amica finire in coma. I media la stanno tartassando perché è lei che ha cercato di aiutare la Woodson quando l’hanno trovata già in coma, lei e il suo ragazzo, che non ha visto niente se non dopo, quando hanno cercato di rianimarla. La ragazzina però dice di aver visto una ragazza con lunghi capelli neri, una strana polverina e pillole strane, oltre alla ragazzina” Esmeralda sospirò. Maledizione, qualcuno con i capelli neri! E Ali e la sua ragazza erano introvabili!
“Quindi?” domandò.
“Quindi la situazione è molto più intricata di quanto potrebbe sembrare. In primo luogo, dobbiamo riuscire a trovare Ali e Jasmine, ma non si sa dove siano finiti, Ariel non ne sa niente, l’ultima volta che li ha visti stavano cercando di entrare in casa ad aiutarla con la ragazzina, ma non si parlavano da circa una settimana per problemi sentimentali fra ragazzine” disse sospirando “Per la tua amica Meg dovrò aspettare questa sera. Siamo davanti a un caso davvero complicato e un uccellino mi ha detto che tu centri con un certo Quentin, un gobbo?” Esmeralda sbiancò.
“Si, ma…” balbettò.
“Bene, il suo patrigno non ha dubbi sulla tua colpevolezza e sai chi è quest’uomo?” domandò, una luce preoccupata negli occhi. Esmeralda annuì deglutendo.
“E’ Frollo. Il giudice più influente della città” mormorò. Febo annuì e Esmeralda si sentì come un pesce fuor d’acqua. Si appoggiò contro il muro cercando un sostegno, se fosse stata in piedi sarebbe già caduta a terra dalle gambe molli. Già, Frollo l’aveva sempre odiata, sin da quando l’aveva vista parlare con Quentin. Quell’uomo aveva provato più di una volta a portarsela a letto, ma lei si era sempre rifiutata, schernendolo. Certo, a volte faceva queste cose, ma solo con persone che già conosceva o clienti fissi, non prendeva nessuno di nuovo da quando aveva trovato lavoro alla Dream’s House e da quando avevano trovato l’Aids a una ragazza che conosceva.
“Io personalmente credo che tu sia innocente” disse Febo alzandosi in piedi e stiracchiandosi, e la ragazza lo guardò stupita. Non poteva credere che un detective fosse dalla sua parte. Sospettò una presa in giro, ma quando incrociò gli occhi di lui si ricredette. “Credo solamente che tu abbia cercato di fare del tuo meglio per salvarti la pelle, negli ultimi tempi. Sono convinto fermamente che tu sia solo un’arrogante diciannovenne confusa e delusa dalla vita, ma soprattutto senza rispetto per se stessa. Chissà chi ti ha portata a essere così. Ma la verità è che tu non centri niente. Non saresti mai stata così stupida da fare un gesto così plateale per poi consegnarti alla polizia. Comunque, sto andando a prendere da mangiare. Preferisci hamburger o cheeseburger?”
Quando uscì dalla stanza, Esmeralda si accovacciò sul letto duro e scomodo. Le parole di Febo erano state dure, perentorie, veritiere. Aveva pensato di conoscersi fino a quel momento, ma quando si era sentita tante critiche addosso, lei che non ne aveva mai ricevute, si era sentita davvero uno schifo. Era già la seconda volta nel giro di poche ore che il ragazzo la faceva sentire peggio di come si fosse mai sentita, senza eccezioni. L’aveva colpita e affondata, e se aveva pensato fino a quel momento che fosse solamente un ragazzo arrogante come tanti, un buono a nulla, un antipatico sbruffone, ora cominciava a rivalutarlo. Febo aveva tirato fuori dal suo cuore le verità più nascoste. L’aveva capita più di quanto lo avessero fatto gli altri, perché ferendola in quel modo aveva tirato fuori la vera essenza della ragazza. Sapeva che era la verità. Nessuno, mai, aveva osato dire certe cose di lei. ‘Arrogante diciannovenne confusa e delusa dalla vita’. ‘Senza rispetto per te stessa’. Era come averle aperto il cuore. In realtà si sentiva così. Ma proprio per questo, in quel momento, si sentì legata a lui in un modo così strano da poter essere considerato intimo. E sentì che la sua presenza non gli dava fastidio. La sua franchezza le piaceva. E che voleva passare più tempo in sua compagnia.


Quel pomeriggio Esmeralda, colta dalla noia, si addormentò sul lettino dal materasso sottile, mentre Febo stava sbrigando alcune pratiche sul tavolo davanti a lei. Fu risvegliata da battiti alla porta e si tirò su di botto, mentre il detective la guardava colpito dalla sua prontezza di riflessi. Aprì la porta e nella stanza entrò la persona che la ragazza sentì di odiare di più al mondo: Frollo. Come ricordava, era alto e molto magro, il viso scavato e gli occhi sporgenti, carichi di astio. Le labbra erano sottili e venivano spesso bagnate dal passaggio della lingua, cosa che Esmeralda non sopportava. Aveva la tunica da giudice ma i capelli grigi erano scoperti, la parrucca sotto il braccio con una valigetta. Le lanciò un’occhiata compiaciuta nel vederla dietro le sbarre. Le scappò una smorfia di disgusto, ma non disse nulla. ‘Arrogante diciannovenne’, si ricordò. Era una delle cose che le piaceva di meno del suo carattere.
“Buongiorno, detective Sungood” salutò Frollo, stringendo educatamente la mano a Febo “Che piacere incontrarla… dovrei parlare in privato con lei e con la signorina Tzigane.” Il detective annuì e uscì dalla stanza discretamente, lanciando alla ragazza un cenno di saluto. Lei gli sorrise, poi si girò e si preparò ad affrontare l’uomo che aveva sempre voluto metterle i bastoni fra le ruote.
Non era una novità incontrarlo con quel modo di fare da grand’uomo, da chi sa di avere qualsiasi cosa sotto controllo. Febo le dava dell’arrogante, ma non aveva ancora visto in azione il giudice che la superava di un bel pezzo. L’uomo si avvicinò a lei lentamente, senza scomporsi, e quando le fu davanti alzò la testa con baldanza, guardandola dall’alto in basso. Esmeralda, dal canto suo, restò in piedi, i pugni chiusi intorno alle sbarre per cercare di calmarsi grazie al contatto del ferro freddo, senza spostarsi di un millimetro.
“Vedo che la situazione è andata peggiorando” commentò Frollo mellifluo “Questa volta l’hai combinata proprio grossa” la ragazza rimase in silenzio, ben cosciente di quanto le parole potessero avere effetto su una causa in cui si era in svantaggio “Drogare una ragazzina così piccola, così giovane, così fragile, e farla violentare dai tuoi amichetti…”
“Io sono innocente” disse Esmeralda “Non ho fatto niente e per quella sera ho due alibi. Non ce la farai a mettermi nel sacco nemmeno questa volta, Frollo. Come le altre volte. E capirai che in realtà chi sbaglia di continuo non sono io”
“Lo vedremo” commentò lui con voce bassa, guardandola penetrantemente “Al momento dietro le sbarre chi c’è?” allungò una mano e la infilò senza alcun moto di imbarazzo nella camicetta della ragazza, stringendole un seno. Lei non si mosse. “Mi hai portato via il mio figliastro, fottuta troia, e mi pare il momento di pagare per le tue stronzate! Se solo tu ti mostrassi… ragionevole…” mormorò fissandole il corpo visibile sotto la stoffa leggera “Potrei persino decidere di aiutarti” Esmeralda radunò impassibile un po’ di saliva in bocca, poi gli sputò in viso. Frollo urlò portandosi una mano all’occhio colpito, la porta si aprì rumorosamente e Febo entrò con la pistola in pugno. Sbattè qualche volta le ciglia prima di capire l’accaduto, notando Frollo che si puliva il volto con aria sconfitta e un lembo della camicia della ragazza più giù, a mostrare il reggiseno. Scoppiò a ridere.
“Che donna!” esclamò con ammirazione. Il giudice lo guardò malissimo per un momento, poi si ricompose e si avvicinò a lui, cominciando a confabulare a voce troppo bassa perché Esmeralda potesse capire qualcosa di ciò che dicevano. Li osservò con attenzione, cercando di afferrare anche solo un concetto, ma vide solamente il viso del detective che da rilassato si contraeva sempre più, fino a diventare una maschera di indignazione più palese a ogni parola del giudice. Infine sbottò:
“No. Non sono il tipo di persona che cade in questo genere di trappole. Ora, per cortesia, se ne vada. Non la voglio più vedere fino al giorno del processo”. Il tono di voce fu così perentorio che anche il giudice Frollo non potè fare niente per evitare l’ordine, così uscì dalla porta, lanciando un’ultima occhiata minacciosa e iraconda a Esmeralda.
“Vi ha incantato con le sue stregonerie, Sungood. Voi mi deludete” disse infine. Febo gli chiuse la porta in faccia. Poi si girò verso la ragazza e le si avvicinò sospirando. La guardò negli occhi per un lungo momento. Esmeralda era ammirata nei suoi confronti sempre di più ogni ora che passava. Si rese conto di non aver mai provato così tanta ammirazione nei confronti di un uomo (un poliziotto per di più) e gli concesse un sorriso.
“Stai bene?” domandò lui preoccupato “Voglio dire, non vorrei mai che…”
“Tranquillo. Sto bene” rispose lei con voce fiera. Febo la guardò ancora per qualche momento quasi in trance, poi tornò alla scrivania a scrivere le sue carte e la ragazza, sorridendo fra sé e sé si risedette sul letto.


Quando si svegliò nuovamente erano già le tre e mezzo del mattino. Febo stava rientrando in centrale e aveva un viso sconvolto. Non si era nemmeno accorta che fosse uscito. Si alzò con aria assonnata e lui la vide quando accese la lampadina da tavolo. La guardò un momento.
“Scusa, non volevo svegliarti” le disse. Lei scosse la testa, mentre il ragazzo tirava giù un letto apribile da un lato della stanza, prendeva un cuscino e una coperta da un cassetto e si accomodava. “Non badare al mio modo di dormire. Ormai praticamente vivo qua” si scusò. La ragazzo scosse ancora la testa, poi entrambi abbassarono la testa sul cuscino e si addormentarono.


Esmeralda schizzò in aria quando udì un colpo di pistola rimbalzare contro il muro accanto a lei e si ritrasse contro il muro, al buio. Non vedeva niente e nessuno si era curato di accendere la luce. Si guardò intorno confusa, cercando una spiegazione. Nell’aria non c’era nemmeno un suono. Era convinta di non aver sognato, e una sensazione di pericolo imminente prese possesso del suo cuore. Cercò di calmare il respiro e si tenne ferma dov’era, cercando di scacciare poco a poco quella fastidiosa sensazione. Ma all’improvviso, un ‘tac’ e la luce fu accesa.
Accanto alla porta, con una mano sull’interruttore e l’altra nella pistola, c’era Febo, un braccio insanguinato e una ferita visibile a un braccio, il volto contratto in una smorfia di dolore. Davanti a lui, fin troppo vicino a Esmeralda, c’era un'altra persona, con un passamontagna nero come i vestiti, con un’altra pistola in mano. La ragazza pensò che avrebbe potuto essere Clopin, ma era troppo muscoloso. Spostò preoccupata lo sguardo da uno all’altro, sentendosi in gabbia. Se durante la sparatoria uno dei due avesse sbagliato un colpo… la porta si spalancò e irruppero nella stanza altri tre poliziotti, le pistole davanti a loro contro la figura coperta, che alzò l’arma puntandola verso Esmeralda, che sentì il cuore battere all’impazzata.
“Ehi!” esclamò Febo “Ehi, non ci provare nemmeno!” fece il tempo a urlare, prima che lo sconosciuto schiacciasse il grilletto.
Esmeralda non conosceva gli effetti di un proiettile conficcato nel corpo e non aveva la minima intenzione di scoprirlo, davanti agli occhi in un breve momento rivide se stessa da bambina, in mezzo a tanti altri nell’orfanotrofio dove nessuno era mai andato ad adottarla. Si vide nella prestigiosa High School di Manhattan, dov’era stata mandata come ultima volontà dei genitori di cui non aveva mai saputo nulla. Si rivide per strada, una corta minigonna e un top che lasciava scoperta la pancia, alle superiori. Si rivide con gli uomini che l’avevano tanto agognata. Ricordò improvvisamente il suo primo ragazzo, colui che l’aveva resa donna, un certo Donald poi sparito nel nulla della città. E poi rivide davanti a sé Clopin, Quentin, Meg e infine Febo. Fece appena in tempo a pensare che non le sembrava proprio il caso di morire in quella situazione, in quel momento, accusata ingiustamente di crimini di cui non aveva saputo nulla fino alla mattina prima.
Si mosse fulminea e in un secondo si ritrovò schiacciata a terra, i lunghi capelli che puzzavano di bruciato e un’esplosione proprio dietro di lei. Rimase senza fiato e fece fatica a inspirare aria sufficiente da far scendere nei polmoni. Sentiva quasi il pavimento tremare dal batticuore, si sentiva stordita dalla paura e dal terrore. Qualche altro sparo, urla, e infine qualcuno che apriva la porta della prigione, subito dopo un corpo caldo che la stringeva a sé, mani grandi che le carezzavano delicatamente i capelli. Esmeralda non aveva mai perso la bussola dei propri sentimenti, ma in quel momento si sentiva confusa come non mai.
“E’ tutto a posto” le mormorò in un orecchio la voce rassicurante di Febo “Non è successo niente, stai tranquilla”.
“Ehi, capo, dobbiamo chiamare l’ospedale” disse qualcuno vicino alla porta.
“Cosa state aspettando?” esclamò il detective, alzando il viso di Esmeralda e guardandola un momento negli occhi. La ragazza lesse paura e sollievo, poi lo sentì accasciarsi fra le sue braccia.
“Febo!” esclamò, accorgendosi che dal braccio stava uscendo una quantità di sangue che non aveva mai visto prima. Cercò di girarlo supino, e quando vide il braccio senza un lembo di pelle mancò poco che vomitasse. Si morse un labbro mentre qualcun altro accorreva in suo aiuto, si tolse la camicetta senza pensarci due volte e la tamponò sulla ferita del ragazzo. Il poliziotto accanto a lei la guardò fra l’ammirato e il volgare. “Su, cosa stai facendo? Sei un poliziotto, dovresti sapere che bisogna bloccare l’emorragia!” l’altro, un ragazzo che sembrava più tonto che intelligente, annuì e strinse la stoffa intorno al braccio di lui. Esmeralda sentì le sirene fuori dalla polizia, quelle dell’ambulanza, poco dopo uomini che caricavano il detective su una barella e lo portavano via. I colleghi di Febo parlavano concitati, poi uno di loro le fece cenno di uscire con la testa. La ragazza titubante uscì dalla prigione. “Cosa…?” domandò.
“Vai. Sei libera per il momento. Non sei proprio accusata. Torna a casa, ti manderemo notizie al più presto” le disse un ragazzo. Esmeralda annuì e chiese una maglia, il poliziotto le diede una t shirt di almeno due taglie più grande della sua, riprese i suoi soldi e il cellulare e uscì nell’aria fresca della notte Newyorkese.
Arrivò a casa solo tre quarti d’ora dopo e la prima cosa che fece fu di afferrare la bottiglia di vodka mezza piena di fianco al divano e buttar giù tutto il rimanente in un sorso solo. Chiamò Clopin e gli disse che era uscita, che gli avrebbe raccontato un’altra volta, di non preoccuparsi ma che dovevano trovare Ali e forse anche Meg. Quando chiuse la telefonata, prese un Tennessee Wisky e ne ingollò due grandi sorsi. Poi ripensò a Febo e la preoccupazione prese il sopravvento. Si addormentò stupita di se stessa, della lacrima che le aveva appena rigato il viso.


Il giorno seguente, quando si svegliò sul tardi, il primo pensiero di Esmeralda fu che aveva saltato il lavoro. Credeva che Garth avrebbe capito, comunque, e riformando i pensieri ancora annebbiati del giorno precedente si ricordò tutto ciò che era successo. Pensò a lungo a Febo, distesa sul divano, la mano sul collo della bottiglia di liquore, indecisa fra il bere oppure no. Guardò il soffitto bianco e continuò a pensare a tutto ciò che l’aveva stupita di quello strano detective che dimostrava meno anni di quanti ne avesse realmente. Le aveva subito creduto e aveva fatto di tutto per scagionarla. Ma ora, cosa avrebbe potuto fare? Se lo immaginava disteso su un lettino di ospedale, gli occhi chiusi e un braccio fasciato… capì che non poteva fare proprio niente per aiutarla. E chi era poi quell’uomo che aveva irrotto nella stazione di polizia in piena notte, non visto e soprattutto con un passamontagna, che aveva cercato di spararle? Poteva essere qualcuno che centrava con Frollo, che voleva liberarsi di lei? Era sicura che fosse così. Si rigirò diverse volte sui cuscini, senza decidere cosa fare, poi si alzò, si chiuse a chiave in bagno e si immerse nella vasca fresca.
Doveva fare qualcosa, questo era chiaro. Doveva dimostrare al mondo di non essere ciò che aveva dimostrato fino a quel momento, perché non si sentiva più un’ ‘arrogante diciannovenne’. No, si sentiva totalmente cambiata in quell’unico giorno, ma la sua determinazione naturale non se n’era andata. Quando finì il bagno era sicura di se stessa. Non poteva rischiare di mettere Quentin e Clopin nella faccenda, così decise di lavorare da sola. Si infilò una minigonna viola, un paio di sandali e una maglietta verde e viola, a righe. Si legò i capelli con un nastro per tenerli indietro e si guardò un momento allo specchio. Doveva uscire da quella situazione. Doveva tenere lontani dai guai i suoi amici. Doveva scoprire chi aveva cercato di ammazzarla. E, soprattutto, doveva assolutamente trovare le prove prima del processo che Frollo avrebbe fatto contro di lei.
Si avviò alla porta stringendo i pugni e quando l’aprì si trovò davanti due ragazze che sembravano appena più piccole di lei, una con i capelli castani, un’aria buffa e un pugno alzato, evidentemente stava per battere alla porta, l’altra era leggermente più alta, dai lunghi capelli castani e un’aria vispa e intelligente. Si guardarono per qualche secondo.
“Ehm…” cominciò la ragazzina col pugno alzato. Esmeralda notò che aveva due stupendi occhi blu. Incrociò le braccia. Cosa volevano queste ragazzine adesso? Proprio ora che era decisa a fare un sacco di cose, queste la ostacolavano.
“Cosa volete?” domandò duramente.
“Vorremmo chiederti alcune cose” si affrettò a rispondere la ragazza dai capelli lunghi, che le porse una mano “Io sono Belle e lei è Jane. Siamo due studentesse dell’High School di Manhattan, siamo state incaricate dalla direttrice di scrivere un articolo sulla vicenda. Abbiamo saputo che tu centri qualcosa” Esmeralda non le prese la mano e lei ben presto la lasciò ricadere a fianco del corpo, un po’ delusa.
“Non centro niente” disse decisa.
“Invece si” la contraddisse Jane “Sappiamo che la polizia è venuta a cercarti. Come mai ti hanno fatto uscire?”
“E perché volete sapere queste cose? Non me ne frega niente di dire alla direttrice quello che mi è successo, non sono fatti suoi, d’accordo? Ora, tornate pure a giocare alle piccole detective, ma lasciatemi stare. Ho cose ben più importanti da fare” rispose con decisione, facendo un passo avanti e chiudendo sonoramente la porta alle sue spalle.
“Eravamo anche noi alla festa” disse Belle, inseguendola per il marciapiedi “Non abbiamo visto cos’è successo, ma ho parlato con una persona che è certa della tua innocenza!” la mora la guardò un momento, notando il suo rossore in volto e sogghignando di conseguenza.
“Sarebbe?”
“Non… non te lo posso dire, sono informazioni riservate” balbettò, perdendo tutta la sua aria intelligente e un po’ saccente. Tornò una ragazzina alle prime armi, dolcemente innamorata di qualcuno.
“Okay, allora facciamo così” decise la ragazza fermandosi, sapendo bene che se qualcuno sapeva qualcosa di lei avrebbe potuto essere un gran problema per la sua fedina penale e soprattutto per il processo. Qualsiasi informazione, nelle mani sbagliate, poteva diventare una tragedia. Lei lo sapeva bene. “Facciamo così” ripetè “Io vi dico quello che volete sapere, come ho passato la serata eccetera, ma voi mi dite chi vi ha parlato di me.”
“D’accordo!” esclamò Jane senza esitazione. Belle sembrava meno convinta, e Esmeralda la guardò con un sopracciglio inarcato e le braccia incrociate. “Dai, Belle! Cosa ti costa parlare di…”
“Va bene” disse Belle cercando di zittire l’amica “Adam. Adam Castle. Lo conosci?” Per Esmeralda fu come un pugno nel bel mezzo dello stomaco.
I suoi pensieri corsero indietro come fotogrammi impazziti e si ritrovò in un corridoio della scuola, nascosta dietro un armadietto per guardare ancora una volta quel bellissimo ragazzo famoso in tutta la scuola, quello dietro cui le ragazze svenivano. L’aveva visto molte volte, nascosta, poi aveva avuto il coraggio di parlargli e lui era stato garbatamente distaccato. ‘Ci conosciamo?’ le aveva chiesto con un sorriso, mentre lei provava a farlo cadere nella sua rete. Per niente attratto. Quante volte aveva cercato di stuzzicarlo, di farlo innamorare di lei, ma quando si era resa conto che era una battaglia persa se l’era presa con se stessa, con lui, con il mondo. Non era mai riuscita nemmeno a fargli venire nemmeno un po’ di voglia di lei, nemmeno quella volta che era ubriaco e che lei se l’era portato dietro al locale, nel buio, in mezzo alle macchine parcheggiate. Niente. Adam era rimasto inerte, guardando il soffitto della macchina, il cielo, finchè non le aveva sfiorato i capelli. ‘Proprio no. Le more non mi sono mai piaciute’, aveva detto con decisione, per poi alzarsi, chiudersi la cintura dei jeans e tornare al locale traballando, dai suoi amici. Era in quel momento che si era resa conto che lui era diverso da tutti gli altri del suo gruppo, quelli che facevano a gara per conquistarla. Soprattutto quel cretino, Gaston. Quel maledetto violento che si vantava di aver preso le donne con la forza. Il nipote di Frollo. “Esmeralda…?” la ragazza tornò al presente, sbattendo le palpebre varie volte. Si accorse che era Belle che l’aveva chiamata, quella che conosceva Adam, che se n’era andato anni prima e che lei non aveva più rivisto. Non poteva credere che fosse tornato. La cotta ormai era passata, d’accordo, ma rievocarla faceva comunque male.
“Si” disse alzando le spalle, cercando di celare l’esitazione “Si, lo conoscevo di vista. Gli ho parlato un paio di volte.” La ragazzina sembrava sollevata. Esmeralda non riusciva a capacitarsi di come Adam potesse affermare con tanta sicurezza che lei fosse innocente.
“Bene, adesso tocca a te” incalzò Jane, senza aspettare altro.
“D’accordo” sospirò la mora, per poi incamminarsi verso la metro. Doveva andare alla Dream’s House, prima di tutto, doveva sapere dov’era andato Ali e cercare di cogliere anche un solo piccolo indizio su di lui. “Sabato sera ero con una mia amica, si chiama Meg e ha frequentato anche lei l’High School. Eravamo molto amiche già da tempo e lo siamo rimaste. Siamo andate a bere a un pub, si chiama Hell’s Fire, anche se non mi aspetto che due ragazzine come voi possano conoscerlo” scoccò uno sguardo alle due, ma Jane sembrava impassibile e Belle non fece trapelare nulla dalla sua espressione. “Poi l’ho accompagnata al Bazar dove lavora e io sono andata alla festa per parlare con Ali, è uno che lavora alla Dream’s House, era lì con la sua ragazza Jasmine. Gli ho detto a che ora doveva presentarsi al lavoro e sono tornata a casa”
“D’accordo” annuì Jane “La polizia ti ha presa per questo?”
“Non mi ricordo di avervi detto che avrei raccontato i miei fatti personali” sbottò Esmeralda inviperita. Svoltò un angolo, ma le due le rimasero alle calcagna. Sembravano ben decise a scoprire la verità. “Mi volete lasciar stare?”
“Vogliamo andare dal poliziotto che ti ha presa, dobbiamo parlare anche con lui” rispose distrattamente Belle “Dovresti dirci come si chiama”
“Non vi importa, d’accordo?” la mora cominciò a scendere velocemente le scale per arrivare alla metro, ma Jane le fu subito davanti. La guardò per un lungo momento prima di aprire bocca.
“A me si.” Le disse, cogliendola di sorpresa “So capire quando c’è qualcosa sotto, ho fiuto, e mi sembra che non ci sia niente di normale in questa faccenda. Per prima cosa, il giudice Frollo ti conosce? E perché?”
“Non vi importa” insistette Esmeralda.
“Ti abbiamo detto di si invece” riprese Belle con più dolcezza “Ci abbiamo pensato insieme, e non mi sembra così casuale che tu non abbia fatto niente ma che sei stata lo stesso accusata, una ragazzina è andata in coma e la colpa è data proprio a te fra mille. Non mi sembra nemmeno normale che ti abbiano fatta uscire senza processo, comunque, che un’altra ragazzina sia scomparsa e la sua amica in coma. E vorremmo anche sapere chi sono quei sette che hanno… beh… la ragazzina.”
“Noi pensiamo che tu sia innocente” continuò Jane piena di determinazione “Ecco perché vorremmo aiutarti”
“Voi non potete aiutarmi” sibilò Esmeralda superandole e correndo nella metropolitana. Dietro di sé sentì i richiami delle altre due. Ma le ignorò.


Uscì dalla Dream’s House delusa. Garth non sapeva nulla di Ali e di dove fosse finito, non aveva idea di chi potesse sapere e non poteva testimoniare niente per conto suo: quella sera non l’aveva vista. Guardandosi intorno, seduta su una panchina, si rese conto che odiava profondamente New York e avrebbe voluto andarsene per non tornare mai più. Non si ricordava nemmeno più perché invece di prendersi una casa squallida come quella in cui viveva non aveva preso invece un biglietto del treno o dell’aereo. Non era mai stata oltre i confini della città e odiava questo fatto. Soprattutto in quel preciso momento, in cui era costretta a rimanere, altrimenti sarebbe stata giudicata colpevole e l’avrebbero cercata in tutto il mondo come una criminale, quando in realtà sapeva di non aver fatto nulla di male.
Il sole le batteva sulla testa e non sapeva più che fare. Sapeva solamente che le parole di Febo erano vere: Ali era sparito, Meg non si trovava (aveva provato a chiamarla almeno dieci volte) e non poteva contare che su Cindy, che nemmeno conosceva bene. Le tornarono in mente le due ragazzine di quella mattina, Belle e Jane. Pazze. Completamente pazze. Come potevano aver accettato di scrivere un articolo del genere? Non era un po’ troppo crudo per due ragazzine come dovevano essere loro? Si ritrovò a chiedersi quanti anni avessero. Ne dimostravano entrambe meno di diciotto, ma chissà. Forse gliel’avrebbe chiesto, se le avesse rincontrate. Alla fine, le sembravano simpatiche, anche se decisamente matte tutte e due.
Si rigirò i ricci fra le dita di una mano, e si rese conto che una ciocca di capelli era bruciata e molto più corta delle altre. Il suo pensiero tornò alla sera prima, al risveglio improvviso, al silenzio, al timore e infine agli spari, al sangue di Febo e al suo rilascio. Quasi le mancava starsene dentro la piccola cella, sdraiarsi sul letto scomodo, lasciare che il detective facesse tutto per lei. Le aveva persino pagato da mangiare, se così si poteva dire. Insomma, le aveva portato un buon cheeseburger. Le mancò anche quasi la sua acutezza e il suo intuito nel capire gli altri e realizzò che non avrebbe potuto esserci un altro mestiere per quell’uomo. Era nato così e probabilmente sarebbe stato abbastanza motivato da morire inseguendo un caso.
Morire. Spari. Occhi chiusi. Si domandò come stava. Non aveva mai pensato alla possibilità che Febo fosse addirittura morto. Non le sembrava che la sua ferita avesse colpito un punto importante o che avesse perso così tanto sangue. Anche se, ora che ci ripensava, il sangue era veramente tanto. Una fitta di preoccupazione le colpì il cuore e lei si afferrò stupita il petto. Non aveva mai provato una cosa del genere.
Si ricordava bene quando era stata preoccupata per la salute di Quentin, ma in quel caso era stata una rabbia cieca che l’aveva colpita, per portarla a irrompere nella sua villa elegante e a convincerlo a scappare da Frollo. E lui l’aveva vista. Era stata preoccupata di essere presa dalla polizia qualche volta, ma allora era stata solo una fuga precipitosa. Tante volte, invece di provare preoccupazione per se stessa, aveva invece una sorta di adrenalina, di bollore nello stomaco che la portava quasi ad essere eccitata dal senso dell’avventura. Quella volta no.
Si alzò in piedi senza avere bene chiaro cosa stava per fare, ma quando fu di nuovo sulla metro, quasi si rimproverò con se stessa per le sue intenzioni. Stava andando da Febo. Voleva trovarlo, voleva sapere come stava. Non per altro, ma anche solo per dirgli grazie per averla aiutata, per aver creduto in lei e per averle aperto gli occhi a se stessa.
Scese alla fermata dell’ospedale, salì le scale lentamente, incurante della folla attorno a sé e quando uscì sulla strada quasi non poteva credere a ciò che stava facendo. Si diresse nel parcheggio, poi entrò dalle porte scorrevoli. Non sapeva bene come comportarsi in quei casi, quando si andava a trovare una persona cara malata. Magari nessuno poteva andare a trovarlo perché era un detective, chissà. Prese una Sprite alla macchinetta automatica, poi si sedette su un divanetto lì vicino. Pensò che fosse meglio stare un po’ in sala d’attesa, se qualcuno fosse andato a chiederle qualcosa avrebbe risposto di essere sua cugina o qualcosa del genere. Dopo dieci minuti buoni che era lì si rese conto che probabilmente non era molto educato presentarsi a mani vuote, ma frugando nelle tasche si accorse di aver già speso quasi tutti i suoi soldi.
Si alzò in piedi cinque minuti dopo, non ne poteva più di restare ferma e seduta. Non sapeva cosa doveva fare, d’accordo, sapeva che stava andando avanti ad occhi chiusi, che forse Febo era morto o era in terapia intensiva. Si avvicinò al bancone. Un’infermiera con un caschetto rosso e un sorriso da un orecchio all’altro si girò verso di lei, disponibile.
“Dimmi pure, cara!” esclamò allegra.
“Stavo cercando Febo Goodson. È qui?” domandò, rendendosi conto che era andata nell’unico ospedale della città che conosceva per fama. L’altro non era lontano dal Bronks, era pubblico ed era convinta che nessuno avrebbe potato lì un poliziotto. L’infermiera cominciò a controllare, poi la guardò raggiante.
“Certo! Sei la sua ragazza?” Esmeralda cercò di scuotere la testa “Parla a tutti di te. Una ragazza dai capelli scuri e gli occhi di smeraldo, ecco le sue parole! Ne ha parlato anche a me, quando sono andata a portargli il pranzo. Hai mangiato, tesoro?” la ragazza scosse nuovamente la testa, mentre l’infermiera la accompagnava all’ascensore “Allora dopo ti porterò qualcosa da mangiare. Ah, comunque Febo è al settimo piano, giri a destra e vai dritta fino alla stanza privata numero settantacinque. Lui è lì. Io arriverò fra un’oretta…” la spinse dentro l’ascensore pigiando il pulsante del settimo piano, dopodiché le fece l’occhiolino, mentre la porta si chiudeva “Avrete sicuramente di che parlare”.
La porta si chiuse e Esmeralda non fu sicura che Febo avesse detto la verità. In ogni caso, sembrava che fosse sicuro del suo arrivo all’ospedale. L’ascensore si fermò con un trillo, la ragazza scese e seguì le indicazioni della rossa fino alla stanza che le aveva indicato. Si fermò un momento prima di bussare alla porta, sentendosi improvvisamente molto imbarazzata. Respirò profondamente un paio di volte, poi bussò.
“Avanti!” le rispose la voce conosciuta del ragazzo. Esmeralda premette la mano sulla maniglia e la porta si aprì. Quando la vide, il ragazzo la guardò un po’ stupito, per poi mascherare l’emozione con un sorriso “Ero certo che saresti venuta”
“Tant’è che l’hai detto a mezzo ospedale, aggiungendo che sono la tua ragazza” commentò lei, prendendo una sedia e posizionandosi vicino a lui, che la guardò divertito.
“Bella trovata, vero? Così avrebbero fatto venire solo te. Mi hanno detto che è arrivato anche il giudice Frollo” storse il naso “Se voleva di nuovo provare a corrompermi… ma io non sono uno che si piega facilmente, no!” esclamò dimenando un pugno in aria. Esmeralda fu colta da un improvviso moto di affetto nei suoi confronti, si sporse in avanti e lo abbracciò, stringendo il viso di lui al suo petto.
“Sono contenta che tu sia vivo” mormorò, guardandolo sottecchi. Il ragazzo sembrava decisamente felice di essere stato abbracciato da lei, e la ragazza si staccò con un sorriso ironico “Non fare troppe feste, però!” lo avvertì “In ogni caso, cos’è successo l’altra sera?” domandò poi riprendendo contegno. Lui le lanciò un’occhiata che voleva essere disinteressata alla scollatura, sorrise e parlò.
“E’ successo che Frollo ha mandato uno dei suoi scagnozzi a prenderci. Non sappiamo se quello volesse ucciderci oppure solamente ferirmi, perché adesso è in terapia intensiva qualche piano sotto di me” storse di nuovo il naso, e Esmeralda si rese conto che era proprio un tic “E’ frustrante sapere che chi ti ha mandato all’ospedale è sotto di te, da qualche parte. Dovrebbero inventare una legge per questo” la ragazza scoppiò a ridere di cuore, sollevata che Febo stesse bene, e si rese conto che era un sacco di tempo che non rideva più così bene, così spensierata. Lui la guardava quasi ammirato e affascinato e dovette ammettere che era veramente un bel ragazzo anche se indossava solo un pigiama e una benda al braccio gigantesca. Prese un bicchiere d’acqua e bevve un po’, poi le si rivolse di nuovo. “In ogni caso, ho immaginato che tu avessi qualcosa in mente. Ti volevo almeno mettere in guardia su un paio di cose prima che ti ficchi nei guai del tutto, okay?” lei annuì “Per prima cosa, niente sangue, niente morti e niente coma di gente varia, d’accordo? È importante, perché se succede qualcosa nel torto ci vai tu, in un modo o nell’altro. Seconda cosa, mi comunichi i tuoi spostamenti e aspetti che io ti abbia dato l’okay prima di fare cose stupide. Terza cosa, non farai cose stupide”
“D’accordo” disse lei incurante, guardandosi le unghie “Non è mica del mio ergastolo che stiamo parlando. Forse potrei anche avere la pena di morte, ma le cose stupide sono comunque vietate”
“Apri il mio cassetto” ordinò lui, e Esmeralda decise di eseguire. Dentro il cassetto c’era una pistola, la sua, quella che aveva usato per cercare di salvarle la vita la sera prima “Tienila” disse poi in tono dolce “Ma qualsiasi cosa succeda, se la userai e qualcuno potesse risalire al proprietario, nei guai ci finisco anche io. Ti ho capita bene, Esmeralda, e penso che niente e nessuno possa fermarti. Nemmeno io. E non voglio che ti accada qualcosa di male, non mentre fai cose stupide, cercando di uscire da questo casino da sola. Quindi attenzione, mi raccomando”
“Io non faccio cose stupide” protestò lei, guardandolo seria, la pistola che scivolava sotto la t – shirt “E comunque, devo andare a cercare Ali.”
“Appunto. Frollo sa chi sono i tuoi testimoni, e come ha cercato di farti fuori una volta, può provarci una seconda” storse il naso “Quel maledetto bastardo. Mi mette sempre i bastoni fra le ruote.” Le lanciò un’occhiata significativa, poi le fece cenno di avvicinarsi e le diede il suo numero di telefono scritto su un biglietto da visita “Mi raccomando, chiamami. Tienimi aggiornato sui tuoi movimenti. Io potrò subito mandare qualcuno”
“Non sei l’unico con degli amici” gli ricordò lei, poi lo ringraziò e gli fece un cenno di saluto uscendo dall’ospedale.
Quando fu fuori, il primo numero che compose fu quello di Clopin, che le rispose prontamente.
“Ci dobbiamo vedere oggi. Dobbiamo trovare Ali e Meg o io non avrò chi testimonierà per me al processo. E Frollo farà di tutto per mettermi i bastoni fra le ruote” disse decisa “Sai dove potrebbe essere?”
“Le mie orecchie e i miei uccellini dicono che non ha lasciato la città” rispose lui con voce melodiosa “Questo restringe il campo… anzi, sono quasi sicuro di sapere dov’è” affermò. Esmeralda non riuscì a trattenere un’esclamazione di sorpresa.
“E dov’è?” chiese.
“Ho scavato nel passato della sua ragazza! Ovviamente li ha rapiti il promesso sposo” commentò “Ma ne parleremo più tardi, all'Hell’s Fire”.
“Non c’è tempo. Devo salvarmi la pelle prima che possano buttarmi di nuovo il cella come sospettata. Dimmi dov’è” ordinò decisa. Non aveva intenzione di finire di nuovo dietro le sbarre, non per sempre e men che meno ci voleva finire per mano di Frollo. Quell’uomo l’aveva sempre odiata. Ripensò a Quentin, e decise che era valsa la pena di avere quel giudice contro anche se in quel momento quasi avrebbe preferito averlo dalla sua parte. Ricordò la sua stretta al seno, la sua proposta lussuriosa, pensò che se fosse stata proprio senza speranza avrebbe avuto un piano B. Poi ricordò anche lo sputo in viso all’uomo e cambiò idea. Nessun piano B. Non si sarebbe abbassata a chiedere scusa, non a lui. Non a quel bastardo che aveva tenuto Quentin in casa sua, sofferente, per anni, non per chi aveva condannato un sacco di suoi amici per piccoli crimini e non per chi aveva cercato di corrompere. Sentendo la legge anticorruzione dalla sua parte, sfiorò la pistola sotto la t – shirt e si avviò a passo deciso verso il luogo indicato da Clopin.


Quando arrivò davanti all’hotel a cinque stelle in cui viveva Jafar, il caposala della Reggia del Sultano, scorse fra le foglie della siepe Clopin che le faceva cenno di accostarsi a lui. Si avvicinò, e l’amico le fece cenno di restare in silenzio. Si diressero su una panchina lì vicino e lui cercò di far finta di leggere un giornale con aria disinvolta, mentre Esmeralda giocava al telefonino. Aveva mandato un messaggio a Febo per fargli sapere il suo numero ma non lo aveva chiamato e non aveva neppure risposto alle sue telefonate. Quello era un lavoro che doveva fare lei, un poliziotto, come lui le aveva opportunatamente ripetuto più volte durante il loro primo incontro, non può entrare in una proprietà privata non invitato e senza mandato. A lei e Clopin i mandati non erano mai serviti e nemmeno conoscere le persone che a volte derubavano. Piccoli furti, una cinquantina di dollari e una boccetta di profumo, ma la ragazza era abile con le mani e silenziosa con i passi e insieme avrebbero potuto svaligiare una banca. Ovviamente nessuno dei due ci aveva mai pensato.
Aspettarono per ore davanti all’albergo, finchè finalmente, verso le sei di sera, Jafar uscì dall’hotel.
“Come fai a esserne sicuro?” domandò Esmeralda a bassa voce, intendendo che proprio Jafar avesse rapito Ali e la sua ragazza.
“Fonti mi hanno detto che l’ha mandato alla polizia, prima” disse lui in un sibilo “Ha cercato di accusarlo di crimini che non aveva commesso e indovina chi voleva processarlo? In ogni caso, è arrivato prima Garth, l’ha salvato dalla prigione e dalla strada. Ah… che brav’uomo” sospirò infine “Dai, andiamo”. I due entrarono nell’albergo inosservati. C’era un sacco di gente nell’atrio e nessuno li vide. Salirono in fretta le scale, mentre il ragazzo controllava prima di lei e salutava garbatamente chi incontrava, come se fosse di lì e Esmeralda fosse solamente una sua conoscenza. Arrivarono al quinto piano, e la ragazza decise di domandargli come faceva a sapere la camera del giudice. Quando arrivarono nel corridoio giusto, col pavimento di velluto e un’elegante disegno di siluettes
alle pareti, Clopin tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un mazzo di chiavi. Lei sorrise. Erano quelle che aprivano qualsiasi serratura, quelle malleabili. La ragazza non sapeva come l’amico facesse ad averne così tante. Non gliel’aveva mai chiesto. Si fermarono davanti a una porta e il ragazzo trafficò con la maniglia velocemente, cercando di non farsi notare. Esmeralda sapeva che c’erano telecamere ovunque, proprio per questo dovevano stare girati in una certa maniera e attenti a ciò che facevano. Con le mosse giuste, davanti a un controllo, potevano tranquillamente essere degli amici che andavano a fare visita a Jafar. La porta si aprì sotto la chiave di Clopin, entrarono velocemente e il ragazzo chiuse la porta dietro di sé. Poi cominciarono a cercare.
Esmeralda non avrebbe mai pensato che un hotel fosse così lussuoso e che ci si potesse addirittura abitare, ma a quanto pareva da quelle parti era di moda. Girò nel cucinotto ordinato, tutto nero e rosso, così come il pavimento a scacchi, tenendo la mano pronta ad afferrare la pistola in qualunque momento, il cuore in gola. Una cosa che non aveva mai fatto e che non la attirava per niente era sparare a qualcuno, vedere il proiettile affondare nella sua carne, poi vederlo scivolare a terra inerte. Era si arrogante e decisa, ma sicuramente non era malvagia. In realtà si sentiva molto sensibile, sotto lo strato d’orgoglio. Entrò nella camera da letto, seguita da Clopin, ma appena sulla porta si accorse che una tenda si muoveva. Fece cenno all’amico di stare in silenzio ed estrasse la pistola, facendo scattare la sicura. Non sapeva sparare, ma sapeva com’erano fatte le pistole. Non pensava che sarebbe stato difficile.
“Esci fuori” esclamò a voce alta “Esci, o sparo”. Un uomo vestito di nero, il doppio di Febo in larghezza e muscoli, e almeno trenta centimetri più alto di lei, le si parò davanti, anche lui con una pistola. Esmeralda sentì il cuore battere forte e qualcosa che poteva essere sensazione di pericolo passarle per la testa, ma l’adrenalina ebbe la meglio. Avere qualcuno a cui puntare la pistola ed essere sotto tiro era una delle cose più eccitanti che avesse mai fatto. E non pensò a niente. “Dimmi dov’è Ali.” L’uomo grugnì qualcosa che sembrava una risata “Ho detto di dirmi dove sono Ali e la sua ragazza” ripetè.
“Non crederai mica che siano qua” rise lui. E mentre rideva, Clopin gli tirò qualcosa addosso, qualcosa che lui riuscì a evitare stringendo le braccia davanti al viso. Clopin non demorse, prese un libro da uno scaffale, una palla di piombo e tirò fuori dalla tasca una lacca spray. L’uomo scoppiò in una risata ancora più grande, mentre il ragazzo spingeva indietro Esmeralda, si faceva avanti e lo spruzzava di lacca. L’uomo cominciò a urlare e il moro non aspettò per tirargli il libro in faccia. L’altro ululò e Clopin afferrò Esmeralda per una mano e cominciò a correre verso la porta della stanza d’albergo. Si avvicinava a passi veloci, nonostante gli occhi rossi e le bestemmie. La ragazza aprì la porta, Clopin aspettò un momento prima di tirargli la palla di piombo sul naso. Si udì uno scricchiolio inquietante di ossa infrante, l’uomo mugghiò, il ragazzo spinse l’amica fuori, nel corridoio, dopodiché sbattè la porta in faccia all’energumeno per poi cominciare a correre per le scale. Questa volta li notarono tutti, un po’ perché correvano e un po’ perché lei aveva in mano una pistola. Scesero precipitosamente in gradini dell’albergo prima che qualcuno potesse fermarli e infine uscirono nell’aria fresca della notte. Non si fermarono. Continuarono a correre finchè non furono sicuri che l’uomo non avrebbe potuto prenderli, poi si lasciarono cadere senza fiato su una panchina. Esmeralda si infilò la pistola di nuovo nella gonna.
“Non c’erano” ansimò Clopin “Ci siamo sbagliati. Ali non era in quell’albergo”.
Esmeralda si sentì cadere il mondo addosso.


Rientrando all’ospedale dovette trattenere lacrime di frustrazione. Non solo non avevano trovato Ali e la sua ragazza, ma erano addirittura entrati in un appartamento con telecamere ed erano stati visti con una pistola in mano. Sperava solo che non avrebbe dovuto scontare una grande pena per questo, perché era certa che Frollo l’avrebbe fatta uscire fuori al processo. Entrò nella camera di Febo ma lui stava sonnecchiando. Quando posò la pistola sul comodino, però, lui si svegliò di colpo e la strinse forte a sé.
“Esmeralda…!” esclamò con voce preoccupata. Lei alzò lo sguardo e incontrò gli occhi di lui, che avvicinò il viso al suo e la baciò goffamente sulle labbra. La ragazza rimase stupita dal quel gesto, così tanto che non riuscì a capacitarsene sul momento e rimase in balia delle proprie emozioni. Sentì un fremito d’eccitazione percorrerla da capo a piedi, la mente offuscata da una strana nebbiolina rosa, il cuore mancare un battito. Si sentiva totalmente presa alla sprovvista, come se non ci fosse un senso logico, un accenno di realtà, era stordita come se fosse un sogno. Ma non poteva essere un sogno, perché le mani di Febo fra i capelli erano reali così come le sue labbra e la leggera pressione del ginocchio sul fianco. Non sapeva bene cosa stesse accadendo, l’unica cosa certa era che in quel momento avrebbe voluto essere totalmente diversa, avrebbe voluto cambiare.
Improvvisamente non voleva più lavorare alla Dream’s House, non voleva più la sua casetta nella periferia di New York, non voleva nemmeno più essere così indipendente. Si rese conto che non aveva mai ascoltato gli ordini di nessuno, ma che per una volta avrebbe voluto sentirsi dire ‘non farlo’, e non farlo davvero, di qualsiasi cosa si trattasse. Si sentiva colma di emozioni nuove che la riscaldarono e le arrossarono il viso abbronzato.
Si ritrovò a stupirsi del fatto che Febo non l’avesse nemmeno sfiorata in altri punti del corpo, quelli che avevano cercato sempre tutti. Lui era l’unico a cui erano interessate solamente le sue labbra. Lui le aveva subito creduto, aveva cercato di aiutarla. Dimenticò ben presto la sua avversione contro i poliziotti e contro gli uomini e l’amore, pensò solo al presente, non voleva riflettere sulle conseguenze e così fece. Si lasciò andare al bacio, stringendosi ardentemente a lui, inspirando il suo odore e lasciandosi sfiorare il collo, le spalle, le braccia, i fianchi. Dimenticò i fatti avvenuti precedentemente, il processo e Frollo. Voleva non pensare, per una volta.
Si rese conto che Febo le aveva fatto aprire gli occhi, che con lui era cambiata e che la sua trasformazione era appena cambiata. Non c’erano fate madrine o magia al mondo, ma sicuramente c’era qualcosa che l’avrebbe spinta per la strada giusta delicatamente, indicandole la strada e aiutandola nelle difficoltà. Ed era lui, il suo angelo. Esmeralda aveva sempre creduto negli angeli custodi e in quel momento era fermamente convinta che Febo fosse il suo.
Si lasciò andare, semplicemente. Finalmente libera.













NdA: Buonasera a tutti :) Eccomi con il nuovo capitolo finalmente ultimato di 'A Whole New World'! Spero vi sia piaciuto :) Statisticamente nessuno mi ha detto che gli piaceva Esmeralda (anzi :P) però spero che abbiate cambiato almeno momentaneamente idea :)
Ringrazio Elelovett, petitecherie, merychan, _BriciolaElisa_, Sissyl per l'affetto costante e per continuare a leggere e a supportarmi, ma specialmente _Uneksia_ per aver commentato ^^
Ringrazio anche le persone che hanno inserito questa storia nelle seguite e nelle ricordate :) Siete specialissimi ^^

Nymphna <3

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Capitolo 6
*** 6 - Aurora. ***



 

Capitolo 6, Aurora.
(da mercoledì 30 giugno a sabato 10 luglio)

 


Era in un corridoio molto lungo e soprattutto spoglio. Non c’era luce, ma era luminoso. C’erano solo porte a dire la verità, molte porte sulla destra e sulla sinistra, ma lei proseguiva dritta, sapendo con certezza che avrebbe trovato qualcosa, laggiù. Forse un’altra porta, forse delle scale o forse sarebbe solamente uscita. Non sapeva dire se fosse ciò che voleva veramente, ma in quel momento si sentiva talmente in apatia da non comprendere il suo volere. Si sentiva solamente un po’ confusa, con un leggero mal di testa e le membra pesanti. In ogni caso, continuò a camminare. Ne sentiva il bisogno e il dovere, come se fosse un ordine che le era stato dato e che lei approvava. Ogni tanto sentiva delle voci di sottofondo, ma non erano così chiare da poter capire che cosa stessero dicendo. Una volta le era sembrato di udire la voce di sua madre ma poi solo un leggero brusio. Non sapeva da quanto tempo fosse lì che camminava lentamente, ma sembrava che non importasse e che non ci fosse uno scorrere di secondi, minuti, ore. All’improvviso, però, le sembrò di sentire una folata d’aria fresca muoverle i capelli, un profumo conosciuto e antico e sorpresa si voltò cercando di trovarne la fonte. Dietro di lei il corridoio era buio anche se non le sembrava di essere mai stata in un posto con così poca luce, eppure era sicura di aver camminato per tanto. Improvvisamente sentì anche qualcosa che la richiamava indietro, come se fosse una voce, ma era solo una sensazione. Si fermò indecisa. Da una parte la luce la chiamava verso di sé ed era curiosa di andare lì. D’altro canto voleva tornare indietro e sentire di nuovo quella folata fresca con odore di montagna. Fece un passo dalla parte opposta alla luce. Le costò un’enorme fatica, ma improvvisamente sentì di nuovo il cuore pieno di emozione, di determinazione, di voglia di vivere. Continuò a camminare. E quando fu nel buio più assoluto… le sembrò di non trovare più terreno sotto i piedi e si sentì cadere giù, giù…


Aurora Reale si svegliò di soprassalto, urlando. Sentiva goccioline di sudore gelido scenderle dalla fronte e ci mise un po’ a calmare il respiro affannoso. Poi girò la testa e si guardò intorno. Era in camera sua. Le tende semi trasparenti di colore rosa erano drappeggiate davanti alle finestre per non far entrare la luce del tramonto, ma la sua vista fu attirata da qualcosa che vide con la coda dell’occhio. Si trattava di uno strano marchingegno bianco che emetteva strani suoni. Bip… bip… bip. Lo guardò meglio e con terrore si rese conto che serviva a misurare i battiti del suo cuore. Non fece in tempo ad accorgersi di altro che, fragorosamente, i suoi genitori e le sue tre zie irruppero nella sua stanza sbattendo la porta.
“Aurora!” esclamò suo padre, correndo verso di lei e baciandole la fronte “Sei sveglia!” venne spostato bruscamente dalla madre, Regina, una bellissima donna che dimostrava la metà dei suoi anni, con lunghi capelli biondi a boccoli che la guardò per qualche secondo con le ciglia impregnate di lacrime. Aurora la guardò sentendosi in colpa per qualunque cosa avesse fatto.
“Mamma” gracchiò con una voce che non riconosceva aver mai avuto.
“Oh, tesoro!” esclamò sua madre abbracciandola forte. La strinse per molto tempo, finchè la ragazza non riuscì a divincolarsi con un sorriso. La guardò un momento.
“Mamma, non sono più una bambina” disse infine. Il padre si stava asciugando le lacrime con la punta di un lungo dito e la madre lo abbracciò scoppiando a piangere sulla spalla del marito. Si fecero avanti le tre zie, l’una con l’aria colpevole, l’altra sciolta in lacrime e l’ultima furiosa.
“Stai bene piccola mia? Non dovevamo permetterti di organizzare quella festa, non dovevamo proprio” sbottò Flora, la più anziana delle tre, stretta nel suo abito rosa shocking. Aurora la guardò senza capire. Festa? Quale festa? Ricordava di doverne organizzare una con Ariel e Jasmine, ma non era certo già passata. Mancava sicuramente ancora quasi una settimana e si ricordava bene che proprio quel giorno ne avevano parlato insieme.
“Massì, tesoro!” esclamò Fauna, abbracciandola e bagnandole la camicia da notte di lacrime “La festa a cui volevi invitare quasi tutta la scuola!”
“Non puoi certo non ricordare!” strillò Serena “Hai rischiato la vita!”
“Ma certo, ma certo” balbettò Regina scostandosi dal marito e asciugandosi le guance “Ragazze, andate per favore, il medico ha detto che avrebbe potuto dimenticare qualcosa… siamo già fortunatissimi perché si è risvegliata. Andate a riposare” Serena cercò di opporsi, ma Flora la afferrò per la cintura che le strizzava la vita e la trascinò fuori dalla porta.
“Mamma, non capisco…” mormorò la ragazza.
“Chiamo subito il dottore!” esclamò imperioso Stefano, il padre di Aurora, uscendo dalla stanza. Regina si accomodò sul letto vicino a lei e le appoggiò una mano sulla gamba.
“Tesoro, qual è l’ultima cosa che ricordi?” le domandò con dolcezza.
“Io ricordo che era l’ultima settimana di scuola e io, Ariel e Jasmine ci stavamo mettendo d’accordo per organizzare…” si fermò un momento, ricordandosi che i suoi genitori non dovevano sapere niente, abbassò la testa arrossendo violentemente.
“Non ti preoccupare tesoro, sappiamo della festa” disse la madre “Continua, fidati di tua mamma, come da piccola” Aurora ci pensò un po’, ma se sua madre sapeva che stava organizzando la festa, allora non c’era bisogno di nascondere la verità.
“Va bene… stavo organizzando una festa, ho pensato che dal momento che tu e papà eravate dall’altra parte d’America per andare a prendere quei vostri amici, e Ariel voleva diventare popolare, avrei potuto organizzare una grande festa per lei” spiegò, con la sensazione di togliersi un macigno dal cuore e di tradire qualcuno “Ma non è ancora il giorno della festa, no? Manca ancora una settimana” Regina le prese una mano fra le sue, delicatamente, e la guardò tristemente per un momento, si accostò ancora un po’ a lei e sospirò profondamente.
“In realtà, tesoro, oggi è il mercoledì dopo la festa.” Aurora scosse la testa senza capire. La madre le posò con delicatezza due dita sulle labbra “Ascoltami piccola mia. La scuola è finita, sei in vacanza e sei uscita con ottimi voti senza dover fare gli esami finali, ti sei impegnata tanto e te lo meritavi. Tu, Ariel e Jasmine avete fatto la vostra festa. E’ stata grandissima e c’era un sacco di gente, ma proprio per questo sono entrate delle persone molto cattive che hanno fatto del male a una ragazzina che avevate invitato. Lei è in coma adesso. E tu stavi cercando di trovare le tue amiche, quando un pezzo di vaso ti ha colpita alla testa… sei rimasta… in coma… oh, tesoro… per tutto questo tempo!”
“Cosa?!” non poteva credere a ciò che la madre le diceva. Ma quando Regina si alzò per dirigersi verso il marito, lo sguardo le cadde sulla scrivania laccata di rosa, in fondo alla stanza. Sopra c’erano un sacco di oggetti portati come in un ospedale. E capì che era la verità.


Ariel andò a farle visita quel pomeriggio, accompagnata da Eric. Aurora non ricordava che fossero diventati amici, ma probabilmente li aveva presentati alla festa. L’amica aveva gli occhi stanchi e si vedeva che era distrutta. La camicetta era spiegazzata e il trucco leggermente sbavato, come se avesse pianto. Eric sembrava un po’ imbarazzato alla sua presenza, forse perché non era mai entrato in casa sua e non conosceva i genitori e le tre zie.
Il dottore le aveva tolto tutte le flebo che l’avevano tenuta in vita in quel breve periodo di coma, e dopo aver mangiato un brodo al pollo fatto da Fauna, Aurora si sentiva di nuovo in forze. Quando Ariel entrò, si sentì felice perché l’amica non l’aveva abbandonata e quando vide Eric subito dopo di lei sentì un tuffo al cuore come al solito. Forse era vero che si era innamorata, come dicevano le amiche… si stupì di non vedere Jasmine insieme a loro. Sorrise cercando di alzarsi dal letto, ma l’amica con un sorriso tirato le fece cenno di sdraiarsi e Aurora le fu mentalmente grata perché non si sentiva ancora in grado di stare in piedi. Entrambi si sedettero accanto a lei, Eric su una sedia e Ariel sul letto vicino a lei, la abbracciò forte e scoppiò in lacrime. Aurora cercò di consolarla, anche se non capiva perché stesse piangendo.
“Scusa se non ti sono stata più vicina” singhiozzò.
“Cos’è successo?” domandò Aurora quasi spaventata. Ariel si ridiede un contegno, e questa volta notò che lei e il ragazzo si erano presi per mano. Forse erano diventati molto amici, o forse erano stati vicini l’un l’altro mentre lei stava male… non poteva perdonarsi per aver lasciato le sue amiche e il ragazzo che frequentava in una situazione così disperata all’improvviso.
“Sono successe mille cose… le tue zie dicono che non ricordi nulla della settimana passata” disse Ariel, asciugandosi gli occhi e lanciando un’occhiata allarmata ad Eric. Chissà cos’è successo, si domandò Aurora, per fare in modo che si guardino così.
“No, non ricordo nulla. Ricordo solo domenica scorsa. Quando abbiamo fatto i biglietti.” Rispose. Ariel sospirò e cominciò a raccontare.
All’inizio fu come il ricordo di un sogno già fatto altre volte, come se Ariel le avesse dato l’input per farle ricordare la sequenza. Man mano che andava avanti gli episodi e le immagini cominciarono a dispiegarsi davanti ai suoi occhi, anche se ancora confuse, ma ricordò con sicurezza che i suoi stavano per partire per andare a prendere i loro amici e il figlio, Uberto, Mia e Filippo. Si ricordò il suo sdegno pensando che un ragazzo avrebbe dovuto stare nella sua seconda camera da letto (e almeno sperava che i suoi avessero avuto il buon senso di spostare le sue cose da un’altra parte), si ricordò di Jasmine, che non aveva visto per giorni per poi entrare in camera sua con Ariel, ricordò addirittura che lei ed Eric si erano incontrati alla Dream’s House, dopo che era riuscita a trovare Ali, il ragazzo di Jasmine.
Quando Ariel le disse come si era comportata nei confronti di Eric e lei, la fece interrompere con la scusa di dover andare in bagno, racimolò tutte le sue ultime forze e si alzò dal letto. Barcollò fino al bagno e si lasciò cadere con sollievo sul water. Non poteva credere di aver detto alla sua migliore amica che le aveva lasciato il ragazzo perché era stata lei a mettersi di mezzo, addirittura chiedendo scusa. Capì che aveva fatto la cosa giusta, ma il cuore, da qualche parte, protestava. Certo, lei aveva sempre sacrificato tutto per le sue amiche, ma addirittura il ragazzo di cui si stava innamorando… certo, era molto da lei. Sapeva che l’avrebbe fatto mille volte per Ariel e Jasmine, ma anche per chiunque altro. C’era qualcosa dentro di lei che le diceva che però aveva sbagliato. Si rendeva conto di essersi affidata alla sorte completamente. Capiva che per lei non c’era niente. Guardandosi le mani come ipnotizzata, si rese conto che non poteva assolutamente continuare così. Aveva lasciato il ragazzo di cui era quasi innamorata alla sua amica, che nonostante tutto, inutile negare, non le era mai stata vicina quanto lei. L’aveva lasciato andare senza lottare.
Si alzò con fatica, reggendosi al lavandino, e guardandosi allo specchio decise che non doveva più essere così passiva nelle cose. Doveva smetterla di dire sempre “sì”, e se per una volta voleva fare di testa sua, tanto meglio. Anzi, adesso era il momento di non essere più la fragile principessina. D’accordo, era la figlia del consigliere italiano e di una madre di nome Regina, avrebbe accettato la sfida. Strinse il bordo del lavandino fino a far diventare le nocche pallide, poi uscì dal bagno lentamente, a passi corti e misurati, in modo da non sembrare affaticata. In ogni caso, quando arrivò al letto, nascose un sospiro di sollievo. Ormai non poteva fare nulla per salvare la relazione con Eric, ma ciò che le era cominciato a girare in testa mentre tornava in camera era che mentre era addormentata aveva sentito con chiarezza qualcosa che la trascinava indietro. Non sapeva che strana forza fosse, ma magari era l’amore della sua vita che la aspettava. Certo, sicuramente era lui, altrimenti non avrebbe avuto senso.
“Continua pure” disse all’amica.
Ciò che Ariel le raccontò dopo sembrava fuori dal mondo per quanto era orribile. Una catastrofe dopo l’altra, un susseguirsi di maremoti fin sulla spiaggia, terribili e devastanti. La festa era cominciata bene, certo, ma c’era stato qualche infiltrato. Qualcuno con capelli neri e folti che aveva propinato a una ragazza addirittura della droga e che si era lavato le mani della faccenda quando sette uomini avevano stuprato la ragazzina. Ariel disse che si chiamava Blanche Woodson, e Aurora pensò che fosse la fine peggiore che potesse fare una ragazzina. Ricordava i suoi quattordici anni, e di certo non pensava al sesso. Seppe che Ariel non era con lei quella sera perché stava aiutando la ragazzina e proprio in quel momento era arrivata la polizia, peggiorando la situazione. Seppe che da quella sera Jasmine non era più stata vista da nessuno, era sparita con Ali. L’amica rossa scoppiò a piangere con queste parole, e Aurora pensò che si sentiva davvero in colpa con se stessa per aver lasciato tutti in quel modo, specialmente la rossa, che era rimasta sola a fronte di poliziotti, giornalisti e compagnia. Ma cosa sto pensando?, si disse subito dopo, ricordandosi il suo proposito. Certo, poteva anche sentirsi in colpa, ma lei era rimasta in coma per tre giorni interi, appesa a un filo, senza sapere se sarebbe vissuta o se non avrebbe mai più rivisto la luce del sole. Non poteva certo rimproverarsi per questo. Solo, dato che la festa alla fine era stata colpa loro, di tutte e tre, sua, di Ariel e di Jasmine, era il caso che loro tre rimettessero a posto ciò che era successo. In realtà non sapeva come, ma forse parlando con qualcuno che era presente alla festa ne avrebbe saputo qualcosa in più.
Espose ad Ariel la sua idea, e quest’ultima le disse che si era trovata in amicizia con Cindy Tremaine, la cameriera della Dream’s House che si era fidanzata con Christopher LeRoi, il famoso ereditiero, e le propose di chiamarlo. Aurora acconsentì, ma voleva farlo da sola, quando si sarebbe sentita più in forze. Quando Ariel ed Eric se ne andarono, rimase a lungo ad occhi socchiusi, nella penombra, in dormiveglia, pur pensando a tutto ciò che era successo che lei non si ricordava. Ripensò alla sua ultima decisione, convincendosi che fosse quella giusta, e quando si addormentò era sfinita dal troppo pensare. Non si svegliò nemmeno per cena.


Tre giorni dopo, Aurora stava camminando in giardino, con accanto il suo cane Sansone, un alano tedesco più grande del normale, che le arrivava alla vita da seduto. Era il suo fido compagno di molti anni, erano stati bambini insieme ed ora era diventato un compagno affidabile e protettivo, bianco con qualche chiazza nera sul dorso e una sul testone. Ricordava che gliel’aveva portato proprio la famiglia di Umberto, Mia e Filippo per il suo decimo compleanno.
Aveva incontrato gli amici dei suoi, e non riusciva a capire come facessero a vivere insieme, nonostante fosse una comica ogni volta che Umberto e Stefano si incontravano. Erano uno l’opposto dell’altro: il padre di Aurora era alto quanto l’amico basso, magro quanto l’altro grasso, scuro di capelli come l’altro ormai bianco… c’era sempre qualcosa che non andava, ma Regina era una mediatrice nata e faceva sempre in modo che bevessero un bicchiere di vino in più, in modo che diventassero abbastanza allegri da concludere che avevano discusso per “bagianate”. Mia era molto dolce e gentile, di almeno vent’anni più giovane del marito, bella quasi quanto la madre, con gli stessi capelli castani del figlio Filippo.
Ragazzo che Aurora non aveva quasi mai visto. L’aveva incrociato una volta per il corridoio e ciò che le era rimasto più impresso era stato il suo odore dolce di bagnoschiuma al pino, che l’aveva investita con una folata leggera. Eppure, le era rimasto così dentro. Le avevano detto che studiava molto. Il sogno del ragazzo era diventare veterinario e frequentava un’ottima scuola newyorkese. I genitori erano profondamente fieri di lui.
Svoltò nel sentiero con Sansone a fianco che trotterellava con la lingua di fuori, scodinzolando, finchè non arrivarono davanti alla sua casetta. “Casa dei giochi di Aurora Reale”, c’era scritto su una targhetta. La ragazza spinse la porta ed entrò.
La prima cosa che notò della sua casetta fu che era invasa da un odore che non era il suo, alla rosa. Sapeva di muschio, di pulito, di doccia fresca e di libri nuovi. Quando guardò verso il tavolo, quasi gli sembrò di vedere un quadro: Filippo era seduto, leggermente sbilanciato in avanti, reggendosi il mento con la mano sinistra, la destra appoggiata sul tavolo a scarabocchiare qualcosa su un foglio di carta bianca, una gamba in avanti e una leggermente indietro, i piedi scalzi sul legno, i capelli castani scompigliati dal vento. Lo guardò per un momento, mentre Sansone andava verso di lui scodinzolando e il moro alzava la testa.
“Aurora” la salutò alzandosi sorridendo “Vedo che ti sei ripresa” si avvicinò a lei e le porse la mano. La ragazza un po’ in imbarazzo la prese e a sorpresa, Filippo le fece il baciamano. Ridacchiò vedendo che arrossiva.
“Cosa stai facendo qui?” domandò Aurora, sapendo che era una domanda stupida e ovvia, ma senza preoccuparsene troppo.
“Studio” disse lui alzando le spalle “Ma posso fare una pausa. Sai, qui mi concentro molto… bene” concluse facendole l’occhiolino e facendola arrossire ancora. “E tu?”
“Questa è la mia casetta dei giochi, l’unica in cui posso stare tranquilla” improvvisamente si rese conto che stava confidando ad un estraneo cose chiuse nel suo cuore, specialmente riguardo alla sua casetta, quella in cui passava pomeriggi interi a studiare e a pensare, a volte a disegnare. Realizzò che quell’estraneo era lì, e che stava invadendo il suo spazio privato. Si scostò da lui, ma Filippo rinforzò la presa. Aurora capì che non le aveva ancora lasciato la mano da quando gliel’aveva stretta.
“Cosa c’è?” le domandò, notando ostilità nei suoi occhi.
“Vai via” disse solamente lei con voce bassa. Non voleva apparire troppo aggressiva, ma rivoleva la sua intimità, la sua casetta. Non voleva certo condividere le sue cose con un estraneo…
“Perché? Sono forse un estraneo?” Aurora trattenne il respiro, perché lui aveva detto esattamente ciò che lei stava pensando. Filippo non si era mai curato di lei. Certo, essendo più grande di qualche anno era andato al suo battesimo, da piccoli a volte giocavano insieme, ma quando lei e Christopher si lanciavano in avventure mozzafiato nelle scale e nel bosco di casa sua, il moro non partecipava mai. Preferiva passare il tempo da vero aristocratico qual’era, senza giochi futili e sporcizia infantile: Filippo era un vero principe azzurro. Sapeva andare perfettamente a cavallo, giocare a tennis e a golf, indossava abiti firmati ed era sempre perfettamente profumato. Era proprio questo che la stupiva tanto: come poteva sapere di pino anche quando aveva sudato e fatto sport? Annuì lentamente, quasi incantata dai suoi occhi da cui non riusciva proprio a staccarsi. “Ma io non sono un estraneo. Ci conosciamo da sempre! Ti ricordi? Quand’eravamo piccoli giocavamo spesso insieme, prima che i miei si trasferissero.”
Aurora ricordava quei tempi. Ancora prima che smettesse di giocare con lei e Chris, quando aveva solo quattro anni e lui dieci, costruiva teatrini di marionette per lei, si esibiva in corse a perdifiato e in piroette e capriole. Poi se n’era andato, e con lui quel bambino simpatico col naso un po’ a patata che la faceva ridere tanto.
“Lo so. Ma ora non più. Sono trascorsi molti anni”
“E le lettere?”
“Quali lettere?” domandò Aurora stupita da quella nuova rivelazione. Lei non aveva mai ricevuto lettere, né tantomeno ne aveva inviate. Le cartoline ad Ariel e Jasmine, forse, ma non aveva certo mai inviato lettere.
“Certo, quelle che ti ho inviato in tutti questi anni”. Aurora notò che Filippo diceva la verità. Non poteva mentire, i suoi occhi erano carichi di speranza e aspettativa. Capì che non era un caso se si era trasferito a New York, che lui aveva sempre saputo che a lei era mancato e che gli voleva bene, intuì che però qualcuno le aveva nascosto qualcosa.
Non era difficile capire chi. Il padre era troppo impegnato per guardare nella posta e la madre non si sarebbe mai intromessa. Piuttosto, sarebbe stata felice e avrebbe parlato con la figlia del ragazzo bello, ricco e gentile che le mandava lettere. Non avrebbe certo preso le lettere. Eppure, in casa c’erano solo altre tre persone che giravano, ed erano le sue zie. Non poteva credere che Flora, Fauna e Serenella avessero nascosto delle lettere per lei da un amico di infanzia. Cosa avrebbe dovuto esserci scritto di così importante da nasconderle? Filippo non era certo un agente FBI in copertura. Lo guardò ancora un momento, e quando realizzò che le erano state nascoste delle cose del passato, che altre non le ricordava nemmeno lei perché era finita in coma, che aveva quasi distrutto casa per una festa, che sotto la sua responsabilità una quattordicenne era finita in coma e che la sua amica Jasmine era sparita insieme al suo ragazzo Ali non ce la fece più. Scoppiò a piangere e corse via. Non ne poteva più di essere lasciata da parte in tutti gli avvenimenti. Anche lei doveva avere una vita. Corse, con Sansone che le uggiolava a fianco, seguita dal suo nome urlato al vento da Filippo, rimasto in piedi sulla porta della casetta.


Aurora si sedette sul suo letto e portò le ginocchia al mento. Voleva riprendersi la sua vita, voleva essere lei a decidere, a muovere le cose. Prese un block notes e nella sua grafia elegante scrisse tutto ciò che aveva intenzione di fare per rimettere a posto le cose, e una delle prime era cercare di capire qualcosa di quello che era successo e chiedere scusa a chi poteva. Alzò la cornetta del telefono e chiamò Cindy. Decise di far finta di non aver perso la memoria, e se si fosse dimostrata educata e sveglia, non avrebbe fatto domande. Digitò il numero lentamente e attese con ansia che Cindy rispondesse. Forse era al lavoro, pensò. Ma Cindy rispose.
“Pronto?” domandò con voce squillante e chiaramente felice.
“Ciao Cindy, sono Aurora… ci siamo conosciute alla festa, ricordi? Sono Aurora Reale” Cindy ebbe un momento di esitazione.
“Si, certo, ricordo! Dimmi pure, hai bisogno di qualcosa?” domandò allegramente.
“In realtà si, per favore. Vorrei sapere cos’è successo. Mi hanno detto che una ragazzina è in coma, dopo la festa” disse piena di aspettativa. Cindy sospirò sonoramente.
“Si, ma nessuno sa chi possa essere stato. Girano alcune voci, dicono che è stata Esmeralda Tzigane, la conosci?” Aurora le disse di sì “Ecco, lavora qua alla Dream’s House, ma io sono certa che non è stata lei. Non farebbe mai una cosa del genere. D’accordo, è un po’ particolare, chiusa in se stessa e aggressiva a volte, ma non andrebbe mai a drogare una ragazzina di quattordici anni, non è stupida”
“No, certo. Sai mica se posso parlarle?” chiese ancora Aurora.
“Non credo proprio… sai, è venuta addirittura la polizia a cercarla e ha chiamato mercoledì mattina per dire che non si sarebbe avvicinata se c’erano giornalisti o poliziotti in giro. Così Garth la sta proteggendo” spiegò semplicemente “Comunque, accetta che venga solo un poliziotto. Febo Sungood… credo ci sia molto feeling fra loro. Se vuoi parlarle però, forse io posso aiutarti… sono l’unica con cui parla, ultimamente. È molto preoccupata anche lei per l’accaduto”
“Certo” confermò Aurora. Voleva assolutamente scambiare due chiacchiere con lei e sapere chi era stato a rovinare tutto. C’era solo un’imbarazzante verità… “Potreste venire a casa mia, non so, venerdì pomeriggio? I miei mi hanno messa in punizione. E domani dovrei uscire, è l’unico giorno alla settimana in cui ho via libera”
“Gliene parlo e ti richiamo questa sera” confermò Cindy con la sua voce dolce “Ci sentiamo. Ciao!” Aurora la salutò, poi scese in salotto e vide che la madre, Mia e le tre zie stavano parlando. Le raggiunse con discrezione e le offrirono gentilmente dei biscottini col tè. Li rifiutò. Voleva parlare con loro. Aveva capito che Filippo era sincero quando le aveva detto che le aveva inviato molte lettere e voleva saperne di più.
“Volevo parlarvi di una cosa” disse, versandosi del tè.
“Certo, cara, sai che puoi dirci quello che vuoi” le rispose la madre incoraggiante. Mia fece finta di dover andare in bagno, capendo al volo che era una situazione intima, e le lasciò sole.
“Perché Filippo mi ha inviato molte lettere e io non ne sapevo niente?” osservò con attenzione gli sguardi delle donne davanti a lei. Regina era sinceramente stupita e la guardò come se non avesse inteso la domanda. Furono i visi delle zie a farle capire che aveva azzeccato. Flora, i seni prosperosi scoperti da una scollatura rosa fin troppo ampia per una cinquantenne come lei, la guardò come se Aurora l’avesse scoperta con le mani in un vasetto di Nutella. Fauna si portò una mano davanti alla bocca e le sue gambe magre tremarono leggermente. Serenella balzò in piedi, rimettendosi a posto con foga la gonna di satin azzurro.
“Oh, lo sapevo che avreste dovuto smetterla con queste cavolate!” sbottò “Aurora è troppo intelligente perché non capisca questo genere di cose, e soprattutto che se adesso Umberto e Mia sono qui è colpa nostra!”
“Colpa vostra?” balbettò Regina “Ma cosa avete fatto?”
“Queste maledette mi hanno costretta…” cominciò Serena.
“Smettila, Serenella!” la rimproverò Flora “Abbiamo solo pensato che tenendo nascosta ad Aurora la promessa con Filippo, sarebbe stata più libera di crescere e scegliere cosa fare nella vita”
“Io sono…cosa?” domandò Aurora senza capire.
“Oh, ti prego, perdonaci” piagnucolò Fauna “Noi non volevamo che tu ti sentissi legata a qualcosa di troppo grande all’improvviso, senza essere pronta… volevamo solamente che scoprissi da sola di essere innamorata di Filippo!”
“Innamorata di Filippo?” domandò Aurora con la voce più alta di due ottave. Un sospetto incredibilmente inquietante stava prendendo forma nella sua mente. Si girò a guardare la madre “Quindi voi mi avete fidanzata a Filippo… e non avevate intenzione di dirmelo? E’ per questo che non eravate felici quando frequentavo Eric? È per questo che ora loro sono qui?” la madre la guardò senza capire.
“Io… io non ho mai deciso di fidanzarti con nessuno!” squittì intimorita “Io avevo solamente detto, un giorno lontano, che sarebbe stato bello se tu e Filippo vi foste sposati, ma è stato solamente un commento casuale…” si guardò intorno spaventata. Sembrava terribilmente Fauna in quei momenti. “Io non ti avrei mai costretta a fare qualcosa che non ti rendesse felice, bambina mia! E non avevo idea che Filippo ti mandasse lettere!”
“Certamente!” esclamò imperiosa Flora “Infatti è stato tuo padre Stefano, insieme ad Umberto, a prometterti al ragazzo. Era il partito migliore, molto migliore di Christopher LeRoi. Stava per fidanzarti a lui!”
“Cosa?!” esclamarono in coro madre e figlia. Regina saltò in piedi e cominciò a fare grandi cerchi intorno alle poltrone del salottino.
“Dovremo fare una bella chiacchierata con Stefano” decise infine “Ha omesso qualcosa specialmente a me, per anni! Ha sempre saputo che non tollero le bugie!” il suo bel viso, così simile a quello della figlia, prese un’espressione tipica di Serenella. Era la figlia minore dei genitori, la più bella e quella che aveva più preso dalle sorelle. Era uno strano miscuglio di imperiosità, capacità decisionale, capricciosità, timidezza e bontà. E in quel momento ogni sfumatura del suo carattere le passava sul volto come una maschera. “Lo chiamerò subito! Deve tornare subito a casa e…” in quel momento tornò Mia, i corti capelli castani un po’ spettinati, guardando Regina a bocca aperta.
“Quindi tu non sapevi…” cominciò “Non sapevi che i nostri figlioli erano fidanzati?”
“Tu lo sapevi?!” strillò Regina puntandole il dito contro. Aurora comprese che c’erano state più di un’omissione e che ora stava per succedere qualcosa di decisivo nella sua vita e nella loro. Perse la pazienza. Molte cose erano state fatte contro di lei e a insaputa di sua madre, che sapeva tutto di lei, addirittura senza chiederle un parere. Si rese improvvisamente conto che se non avesse incontrato Filippo in quel frangente, non l’avrebbe mai scoperto e un giorno suo padre l’avrebbe accompagnata all’altare senza nemmeno dirle dove stava andando.
“Finitela!” esclamò alla fine. Le altre donne smisero di becchettarsi “Siete più infantili di quanto pensassi!” strinse i pugni, girò i tacchi e uscì dalla porta principale. Proprio lì fuori incontrò Filippo, con il bel viso tirato.
Lo guardò per un lungo momento, in cui lui cercò di tirare fuori un bel sorriso. Aurora alzò le spalle.
“Ho appena scoperto che avremmo dovuto sposarci” disse infine, senza sapere che altre parole andassero bene. Filippo sbatté le palpebre un paio di volte. La guardò spalancando gli occhi, poi disse:
“Che cosa?!” e Aurora sentì la tensione che si scioglieva, la rabbia svanire, l’irritazione diventare talmente piccola che non fu più presente, si sentì invece pervadere dall’ilarità: Filippo era un bellissimo, perfetto sconosciuto venuto a New York solamente per studiare, dopo un commento ingenuo della madre i padri avevano deciso di fidanzarli a insaputa di tutti, o forse avevano solamente bevuto un po’ troppo e ne avevano parlato, mentre le zie avevano invece capito che fosse una cosa seria. Sarebbe stato talmente tipico. Aurora scoppiò a ridere sonoramente e Filippo la seguì poco dopo, lì, sulle scale. Si sentiva libera da qualcosa che non aveva mai avuto, si sentiva completamente sorda alle urla che ancora provenivano dalla loro casa e improvvisamente capì che la famiglia Ducati era lì per errore. Mia non sapeva niente di ufficiale, era solo qualcosa che i genitori avevano sempre sperato. Risero finchè non si dovettero sostenere a vicenda, poi cominciarono a parlare.
Aurora gli raccontò che le sue tre zie erano sempre state dietro di lei, l’avevano sempre controllata e protetta, anche se a volte in maniera eccessiva, gli raccontò di Ariel e Jasmine, di ciò che era successo con Eric, della sua scuola, di ciò che avrebbe voluto fare dopo, gli raccontò di Sansone, della Dream’s House, della festa, dei ragazzi che andavano a scuola con lei, di ciò che le piaceva fare. Gli parlò delle sue passioni, di ciò che aveva fatto in tutti quegli anni, dello sport, delle ragazze cheer leader, che non si era mai sentita parte di loro. E Filippo le disse che da piccolo si era preso una cotta per lei e che era convinto che lei se ne fosse accorta, che era per questo che le aveva scritto tante lettere, le raccontò che a scuola aveva avuto degli amici un po’ bulli, delle sue corse per Los Angeles di notte, del viaggio di diploma a Las Vegas, le raccontò della relazione che aveva avuto con una professoressa, di essere stato eletto Mr. Los Angeles una sera in cui aveva bevuto troppo.
La ragazza lo trovò brillante, simpatico e divertente, intelligente e con la battuta pronta. Pensò che fosse un ragazzo davvero perfetto anche se aveva fatto le sue scorrerie con la banda di amici. Decisero di andare al cinema insieme, perché scoprirono che avevano gli stessi gusti in fatto di film, di libri, di musica, di materie scolastiche preferite, di passioni. Usavano lo stesso shampoo ma diverso bagnoschiuma, scoprirono addirittura di avere gli stessi pensieri in campo di politica, scuola, affari, amicizie, amore.
Rientrarono in casa che era ora di cena, e forse anche un po’ più tardi, ridendo. La cena fu allegra. Regina e Mia furono contagiate dalle loro risate e dalle loro battute e dimenticarono il loro scontro del pomeriggio, Umberto e Stefano non riuscivano a capire cosa fosse successo ma accettarono di buon grado l’ilarità e parteciparono con scherzi e barzellette e quando Aurora andò a dormire pensò che non passava un pomeriggio così bello da settimane.
Si era accoccolata nel letto da poco, quando sentì qualcuno che bussava alla porta. Disse di entrare e si stupì vedendo Filippo che chiudeva piano la porta sul corridoio buio. Le si avvicinò, illuminato solamente dalle luci della strada che filtravano attraverso le finestre. Si sedette sul letto accanto a lei e la guardò un momento.
“Come mai ti sei svegliata?” domandò. Aurora capì che stava parlando del coma. Lei a dire la verità non ricordava nulla e anche se aveva ben capito che era una cosa seria e aveva rischiato di morire, alla fine era contenta di essere in vita e non si era fatta molte domande.
“Ho sentito una folata d’aria” rispose senza pensare “Ho sentito una folata d’aria e un odore di pino che mi chiamavano. Li ho seguiti”
“Ero io” sospirò Filippo a bassa voce e la ragazza lo guardò con aria interrogativa. Filippo le prese il viso fra le mani e la baciò dolcemente, sovrapponendo le labbra alle sue, facendole capire tutto il suo sentimento. Uscì subito dopo e Aurora rimase nel letto, chiedendosi se il bacio fosse stato reale oppure no. Pensò che Filippo fosse fantastico. Poi si chiese se fosse innamorato di lei, e capì che la risposta era si. Poi si chiese se lei fosse innamorata di lui, e non seppe darsi una risposta. Si addormentò col dubbio.


Il giorno dopo Aurora si infilò un paio di jeans chiari che le arrivavano sopra il ginocchio, una t shirt rosa e fucsia un po’ larga, un paio di sandali bianchi leggermente rialzati, una borsa a tracolla, una collana a forma di gufo, si pettinò i lunghi capelli lasciandoli sciolti e andò a fare pranzo, dato che si era svegliata tardi. Fu felice di constatare che Filippo non c’era, si sarebbe molto imbarazzata. Appena dopo pranzo uscì di casa e si diresse a grandi falcate verso casa di Ariel. La madre avrebbe preferito non farla uscire così presto da casa da sola, ma Aurora non aveva voluto sentire ragioni. C’erano cose che dovevano essere fatte e anzi avevano già atteso fin troppo tempo. Bussò con energia alla porta della casa di Ariel, finchè questa non venne ad aprirle, coperta solo da una t shirt extra large. Sembrava arrossata e imbarazzata e Aurora capì che con lei c’era Eric. Difatti spuntò poco dopo, in jeans mezzi slacciati, rosso in viso anche lui. La bionda sorrise cordialmente.
“Aurora…!” balbettò Ariel “Che sorpresa! Dovevi avvisarmi…”
“Già” disse Aurora sempre sorridendo “Sono venuta a fare due cose che avrei dovuto fare tempo fa.” Guardò Ariel negli occhi profondamente per un lungo momento, finchè questa non si sentì in soggezione. “Sei una stronza” disse infine “Sei una maledetta stronza perché sapevi che io frequentavo Eric, e non hai idea di quanto ci sia stata male in quei giorni in cui ho capito che eri innamorata di lui. Sono la tua migliore amica e certe cose le capisco. E il bene che ti voglio non mi ferma. Perché ti sei comportata veramente da puttana nei miei confronti” Ariel si morse il labbro inferiore. Aurora era calma e non aveva pronunciato una sola parola con stizza o rabbia. Era calmissima anche per il fatto che per la prima volta in vita sua aveva detto delle parolacce, che aveva insultato la sua migliore amica. Capiva anche però che Ariel se l’aspettava molto tempo prima e che da un lato sentiva di meritarselo. Aurora rivolse la sua attenzione ad uno sconvolto Eric, gli sorrise cordiale e gli tirò un ceffone che gli lasciò il segno rosso delle cinque dita sulla guancia. “Anche tu sei stato un bastardo, più tu che Ariel, perché non hai nemmeno avuto il coraggio di parlarmene. Ti sei comportato da bastardo doppiogiochista e ora hai ottenuto quello che volevi, spezzando il mio cuore. Bene. Buona giornata” li salutò poi con un sorriso sincero.
Mentre si incamminava verso la Dream’s House pensò a ciò che aveva appena fatto. Chiaramente Ariel se l’aspettava. Capiva di aver pensato troppo agli altri e troppo poco a se stessa ed ora aveva bisogno di una sorta di rivincita, anche se non intendeva riprendersi Eric. Oltre alla rabbia e al cuore spezzato, non era più innamorata di lui, lo sapeva. Si, non le era piaciuto il suo gesto e il suo tradimento era stato vergognoso, non solo mentirle, ma innamorarsi della sua migliore amica! In ogni caso, pensava che sarebbero stati felici insieme e non avrebbe mai messo fra loro un dito. Filippo le aveva fatto chiaramente capire che si era totalmente dimenticata del moretto. Dopo il bacio della sera prima, poi! E la frase che lei non aveva capito del tutto, quella che diceva esplicitamente che era grazie a lui che si era svegliata? A cosa si riferiva? Cosa le aveva fatto?
Le si affacciò alla mente l’imbarazzante pensiero di essere stata baciata contro la sua volontà da un ragazzo bello come Filippo, che aveva tutto ciò che poteva farlo sembrare un principe.
Entrò nel locale sorridendo, era felice e al contempo un po’ confusa, si sedette a un tavolo e aspettò che una ragazza dai capelli corti castani andasse a prendere l’ordinazione. Rimase seduta a lungo, crogiolandosi al pensiero di lei e Filippo insieme, dell’estate appena cominciata, delle chiacchierate e delle risate con il ragazzo. Lo sentiva talmente vicino, come se lo conoscesse da sempre… eppure si rendeva conto che per anni non si erano visti né sentiti. Insomma, non si conoscevano. Pensò che fosse strano che un ragazzo come lui, di qualche anno più grande di lei, si potesse interessare a una ragazzina. Però capiva anche che non le importava nulla. Da un lato si sentiva felice di avere la testa così piena del pensiero di lui, perché le sembrava un sogno diventato realtà. Si rendeva conto che aveva sempre sognato un ragazzo come lui. Alti, mori, affascinanti e divertenti… e avevano anche gli stessi gusti!
“Aurora!” esclamò una voce familiare. La bionda si girò come presa di sorpresa e si rese conto che vicino a lei c’era Cindy, con una graziosa fascia fra i capelli e una camicetta azzurra. Si sedette davanti a lei al tavolino e la guardò sorridendo per qualche momento, poi le afferrò la mano. “Sei innamorata, vero?!” disse con trasporto “Oh, te lo vedo in faccia! Chi è il fortunato?”
“Oh, ehm…” balbettò Aurora imbarazzata, distogliendo le mani gentilmente dalla stretta “Di… un… forse… beh, per ora è un estraneo”
“Oh, ti si legge in viso! Ti stai innamorando! Ma non c’è rimedio, non c’è cura…” mormorò sognante, lasciando sprofondare il viso nelle mani. La ragazzina rise dolcemente, passandole una mano davanti agli occhi. Cindy si riscosse e le sorrise dolcemente, arrossendo.
“Credo che dovremmo fare un’uscita tutti insieme” decise poi Aurora “Sai, con te e Chris e Filippo. Si chiama così. È un vecchio amico di famiglia… cioè, i suoi sono amici, lui ha qualche anno più di me. Potrebbero essere coetanei” Cindy era entusiasta.
“Ma certo! Perché no? Magari venerdì porto anche Chris, se posso, a casa tua.” Propose timidamente.
“Potremmo guardare un film, e mangiare cibo italiano” rincarò Aurora “Mi sembra un programma fantastico”
“Allora siamo d’accordo. Comunque cercherò di portare anche Esmeralda, almeno per chiarire la questione della festa. Però ti avviso” disse Cindy mordendosi un labbro “Non è una molto loquace”


Il venerdì Aurora ebbe modo di confermare l’avviso di Cindy. Esmeralda non era una di quelle persone naturalmente amichevoli, simpatiche e amabili che raddolciscono il cuore di chiunque. Quando citofonarono e Aurora andò ad aprire loro, si stupì di quanto sembrasse svogliata da ciò che stava facendo. Aveva una camicetta rossa e le braccia incrociate sul petto prosperoso, gli occhi verdi guizzavano da una parte all’altra come in cerca di fuga e la squadravano diffidenti. Aurora fece del suo meglio per farla sentire a suo agio e guidò le due ragazze verso la sua casetta nel giardino. Aveva chiesto a Filippo di andare a studiare da qualche altra parte e lui gentilmente e senza fare domande aveva acconsentito, promettendole che quella sera ci sarebbe stato. Si sedettero al tavolino della cucina e la ragazza tirò fuori biscotti e tè freddo, patatine e dolcetti. Cindy si servì di una brioche alla crema, ma Esmeralda non prese nulla. Parlarono un po’ di banalità, finchè Esmeralda, con tono autoritario, non ruppe il loro discorso.
“Allora, vogliamo arrivare al punto?” Aurora si stupì che proprio lei avesse cominciato l’argomento. Si schiarì la voce imbarazzata.
“Io volevo solo sapere che cos’è successo alla festa.” Le disse, stropicciandosi le mani “Vedi, dopo che è successo… insomma, tutto… io sono finita in coma, e da allora non si trova più una delle mie migliori amiche e vorrei mettere tutto a posto. So che sei stata accusata ingiustamente, e non voglio assolutamente causare altri problemi” le disse. Esmeralda la guardava con interesse “Beh, se me lo permetti, vorrei pagarti un avvocato. È successo tutto per colpa mia, e Umberto Ducati è il più influente… so che il giudice Frollo vuole accusarti ma non penso che sia stata tu… vero?” la ragazza era diffidente e alzò le spalle.
“Io non centro niente. Ero con Meg, e lei e Ali possono testimoniare a mio favore, ma guarda caso sono spariti entrambi” disse acidamente.
“Sono molto preoccupata per Ali” mormorò Aurora con le lacrime agli occhi “La mia migliore amica è la sua ragazza. Ed erano così felici…”
“Oh, no, tesoro, non piangere!” esclamò Cindy allarmata “Li ritroveremo!”
“Ho già attivato un detective privato…” mormorò.
“Ha trovato qualcosa?” chiese Esmeralda improvvisamente meno fredda “Potrebbe cambiare tutto.”
“Niente.” mormorò Aurora scuotendo la testa “Per ora mi ha detto solo che dopo la festa Jasmine e Ali non sono andati a casa di lei. Cioè, lei non è mai tornata a casa, ha spento il cellulare e non si è più fatta sentire da nessuno. Penso che Ali sia con lei. Però non so dove possa essere andata… non ne ha parlato né a me né ad Ariel”
“Ali è sparito con lei, perché non è andato a lavorare lunedì” commentò la mora.
“Vorrei tanto sapere dove si sono cacciati… non vorrei che avessero fatto qualche cavolata” bisbigliò Cindy, che riusciva a provare compassione anche per chi non conosceva affatto.
“E’ una con la testa sul collo” disse Aurora “Ma non si sa mai”
“So che non li ha presi Jafar.” Disse infine Esmeralda, come se si stesse liberando da un peso “Insomma, sono entrata in casa sua e… non c’erano. Non ha niente da nascondere. Io credo che sia una fuga d’amore”
“Una fuga d’amore?” domandò Cindy incredula “Ma non avrebbe avuto più senso andarsene in un altro momento? In questo modo danno la colpa ad Aurora”
“No, ha senso” disse Esmeralda convinta, allungando la mano per prendere un pacchetto di patatine piccanti “Perché così nessuno avrebbe notato che se n’è andata per lungo tempo. Hanno potuto approfittare della confusione” Aurora trovò l’idea perfettamente sensata, ma non riusciva a capacitarsi del fatto che Jasmine se ne fosse andata a quel modo con Ali. Non capiva che senso avesse. Così le difficoltà si sarebbero solo moltiplicate. Sia per Esmeralda, che ovviamente aveva un gran problema ad aspettarla, sia per il padre, sia per lei stessa. Si sentì tremendamente il colpa per un momento, poi ricordò il suo proposito di non sentirsi più responsabile per ciò che facevano gli altri e decise che doveva cercare di rimediare agli errori che erano nati dalla sua festa.
“Okay” disse infine “Dobbiamo fare qualcosa per migliorare questa situazione. Dobbiamo trovarla. Dobbiamo fare qualsiasi cosa. Sapete se qualcun altro sa qualcos’altro?” Cindy sorrise, Esmeralda storse il naso. “Chi?”
“Belle e Jane!” esclamò la bionda “Le chiamo, posso chiedere loro di venire qui?”
“Certo” acconsentì Aurora, che non conosceva le due ragazze.
“Sono due rompiscatole invadenti” commentò Esmeralda. Ma Cindy non l’ascoltò, stava già chiamando una delle due.
Arrivarono dopo circa un quarto d’ora, felici di poter dare una mano all’articolo e all’amica. Aurora le guardò sorridendo, mentre le guidava alla sua casetta. Belle era veramente una bella ragazza, molto semplice ma con un’aria terribilmente intelligente, mentre Jane era buffissima, si fermava ogni tre o quattro passi a osservare un fiore o una foglia, commentando e inciampando. Arrivarono alla casetta e Cindy le abbracciò.
Jane raccontò che stavano facendo l’articolo perché la preside gliel’aveva chiesto, disse che avevano avuto qualche informazione e che erano state da Blanche Woodson, la cui matrigna non sembrava così affranta dal dolore, tanto che si era comprata una pelliccia nuova. Aurora si chiese come si potesse essere tanto crudeli da pensare allo shopping mentre una familiare era in coma. Le raccontarono che erano anche state a casa di diverse persone che erano state alla festa, compresa Ariel, ma tutti avevano solo saputo dire che la ragazza che era stata vista con Blanche aveva i capelli scuri e folti. Esmeralda sbuffò.
“Sai quante ragazze con i capelli neri e folti ci saranno a New York?” domandò aggressivamente a Jane, che si mortificò “Almeno migliaia. Nessuno l’ha vista in faccia, e nessuno può dire che sono io.”
“E’ ovvio che ti vogliono incastrare” disse Belle alzando le spalle “A qualcuno interessa che tu sparisca dalla scena. Qualcuno di chiaramente influente, perché non si sarebbero messe in giro queste voci se non lo fosse stato” la mora guardò Belle con aria di compiacimento.
“Finalmente qualcuno lo capisce” Jane incrociò le braccia, sostenendo che lei l’aveva già capito molto prima “In ogni caso, questo qualcuno è chiaramente Frollo” Cindy e Aurora trattennero il fiato, Belle e Jane si protesero verso di lei.
“E perché?” domandò quest’ultima, gli occhioni blu spalancati.
“Perché ce l’ha con me” disse semplicemente la mora “Perché anni fa ho incontrato il suo figlio adottivo. Si chiama Quentin ed ha i capelli rossi, la gobba e il viso deformato. Frollo lo stava uccidendo. Pensava che mandarlo a fare il militare avrebbe migliorato il suo fisico, mentre gli ha solo spezzato il cuore. Lo trattava peggio di quanto trattereste uno straccio. Gli ho parlato, e lui ha deciso di venire con me e il mio amico Clopin. Loro due non sono proprio ottimi amici, ma vivono insieme e ora Quentin è felice. E io ho presenziato alla corte che accusava Frollo di maltrattamento, ho provato spesso a ostacolarlo e quando mi ha messo le mani addosso gli ho rotto il naso.”
“Sei veramente una forza” commentò Jane. Belle la guardò con aria severa.
“Potrebbe avere qualcuno che l’ha aiutato?” domandò invece.
“Ovviamente, qualcuno che ha sparso la voce e qualcun altro che chiaramente ha drogato la ragazzina” disse Esmeralda alzando le spalle.
“Sarà qualcuno che ti somiglia, sicuramente.” Commentò Belle “Ma non capisco chi potrebbe essere stato. Dev’essere qualcuno che conosce Frollo e sa come sei fatta. Sai se ha un’amante?”
“Ovviamente no, dato che ha cercato di irretire me” disse Esmeralda “Che schifo, mi ha addirittura toccata”
“Oh mio dio” cominciò Cindy preoccupata “E’ da processare”
“Prima deve confessare” fece notare Jane “Così lo togliamo di torno e non potrà più fare danni, no?”
Si trovarono tutte d’accordo. Non molto tempo dopo, mentre ancora facevano progetti di vendetta, arrivò Christopher e Aurora dovette salutare le strane e pittoresche ragazze che aveva conosciuto quel pomeriggio, ripromettendosi che avrebbe cercato di mettersi in contatto.
Le stavano tutte simpatiche, anche se la loro differenza era notevole. Cindy era calma e tranquilla, anche se decisa e sensibile, voleva sinceramente bene ad Esmeralda e chiaramente voleva aiutarla con tutti i mezzi a sua disposizione. Quest’ultima era un vero vulcano: imprevedibile, irruente, impulsiva e scoppiava di continuo, da un momento all’altro. Il suo carattere forte e deciso non era però aggressivo e Aurora capiva che stava cercando di contenere al meglio l’arroganza. In ogni caso, era chiaro che avesse molto sofferto nella vita e che voleva invertire la tendenza. La ragazzina la capiva, proprio per questo la voleva aiutare e la sentiva vicina: anche lei stava cercando di cambiare la sua vita a partire da se stessa. Certo, avrebbe rimesso a posto le cose, ma non era affatto disposta a perdersi nuovamente solo dietro agli altri: voleva il suo lieto fine. Belle aveva una personalità complessa che però le piaceva. Era intelligente, pronta a criticare le idee con grazia e a proporne di nuove. Sembrava piena di vita e non era noiosa come a volte venivano definite le persone che andavano troppo bene a scuola. In quanto a Jane… si, era veramente una ragazza particolare. Sui suoi appunti c’erano mille schizzi fedelissimi e Aurora pensava sinceramente che avrebbe potuto essere un’ottima pittrice. Ma aveva capito in quel paio d’ore passate insieme che in realtà aveva mille interessi e progetti, era sempre entusiasta e pronta a fare di tutto per arrivare fino in fondo. Era veramente una persona fantastica e capiva perché fosse amica di Belle e Cindy, nonostante fossero molto diverse.
La serata passò allegramente. Regina e Mia avevano cucinato delle buonissime pizze che i ragazzi apprezzarono molto. Filippo e Christopher si trovarono da subito molto amici e cominciarono a parlare di un sacco di cose da uomini, partendo dalla loro squadra di football, argomento che si protrasse a lungo, dal momento che tifavano per due storiche rivali newyorkesi. Cindy e Aurora ne approfittarono per parlare fra loro di argomenti femminili che invece variarono dallo shopping alle amiche ad alcuni pettegolezzi.
Ad Aurora faceva una strana sensazione, pensare di avere una nuova amica, perché nonostante fosse sempre stata una ragazza ammirata a scuola e stimata, una delle più popolari, non aveva mai avuto intorno persone sincere a parte Jasmine ed Ariel. Si sentì un po’ in colpa per ciò che aveva detto ad Ariel e temette che non le scrivesse più, ma quando guardò nel cellulare si rese conto che invece le aveva scritto almeno tre messaggi nel pomeriggio e lei, come al solito, si era dimenticata di controllare gli sms.
Dopo cena si sedettero sul divano del piano di sopra e guardarono un film. Decisero per “Pirates of Caribbean” che accomunava i gusti di tutti: c’era la storia d’amore per Aurora, le fughe e i rapimenti romantici per Cindy, l’azione per Filippo e le risate per Christopher. Il film era lungo e appassionante, e ben presto Cindy appoggiò la testa sulla spalla del suo ricco fidanzato che ogni tanto le dava un dolce bacio.
Aurora si sentiva un po’ a disagio. Improvvisamente non riuscì più a seguire la trama del film, anche se l’aveva già visto centinaia di volte, ma cominciò a concentrarsi sempre più, involontariamente, sul pensiero delle labbra di Filippo sulle sue. Guardava Cindy e Chris accanto a lei, che non degnavano gli amici di uno sguardo e lanciava di soppiatto occhiate al suo coinquilino, bello come sempre, che guardava il film con aria presa, ridendo alle battute e trattenendo il fiato quando la scena si faceva carica di tensione. Pensò che fosse molto bello, e che avrebbe anche potuto essersene innamorata, anche se ancora non l’aveva ammesso a se stessa.
Quasi sobbalzò quando il ragazzo appoggiò un braccio al sedile del divano passandolo proprio dietro le sue spalle. Si domandò se fosse un gesto fatto apposta oppure casuale. Da un lato sperava che il fatto non centrasse nulla, ma il cuore le batteva all’impazzata e arrossì, sperando che nessuno se ne accorgesse. Poi Filippo cominciò ad accarezzarle una spalla, e Aurora smise del tutto di guardare il film, la sua testa era solo piena di una strana nebbia che le rendeva difficile pensare. Lo guardò un momento, ma sembrava che fosse tutto casuale. Pian piano, senza che quasi se ne rendesse conto, si trovò appoggiata al petto di lui, che sorrideva di una battuta di Johnny Depp.
Si sentiva benissimo. Non sapeva che fare. Ma era felice.
Il film finì troppo in fretta e quando Aurora si tese a spegnere la televisione il ragazzo tolse il braccio dalle sue spalle. Cindy e Christopher ringraziarono educatamente e uscirono dalla casa della ragazza. Lei si congedò frettolosamente da Filippo e si diresse verso la sua camera, ma lui le afferrò la mano prima che potesse andarsene. Si girò.
“Vuoi già andare a dormire?” lei annuì. Lui la guardò profondamente “Di già? Speravo potessimo parlare qualche minuto”
“D’accordo” disse infine Aurora, riluttante. Si sedettero nuovamente sul divano accanto alla tv ma rimasero per lungo tempo in silenzio. La ragazza era imbarazzata e non sapeva bene cosa dire, Filippo fissava un punto indefinito sulla parete bianca. Passarono circa dieci minuti e la bionda ne stava avendo abbastanza. Non poteva rimanere tutta la sera su un divano senza spiccicare parola. Così alla fine domandò:
“Mi dovevi dire qualcosa?”. Filippo la guadò un momento in tralice poi sospirò.
“In realtà si.” Sospirò profondamente “Ricordi quel bacio che ti ho dato in camera tua, poche notti dopo che ti eri risvegliata?” Aurora annuì “Ecco… mi è rimasto nel cuore. Io non pensavo che… insomma, sono già stato innamorato e so cosa vuol dire, ma questa volta non è come le altre. È diverso. Non so nemmeno se sono veramente innamorato, perché quando sono con te non provo affatto un istinto… come dire… sessuale? Ma solo voglia di abbracciarti” Aurora si sentì ferita e insultata dalle sue parole.
“Bene, è tutto qui?” domandò acidamente.
“Temo di non essermi spiegato bene” cominciò Filippo, ma la ragazza ne aveva abbastanza. Sciocca. Com’era stata sciocca! Certo che a lui non importava nulla di lei, ora la vedeva chiaramente quasi come una sorella. Che senso aveva provare infatuazione nei suoi confronti? Nessuno, ecco. Ormai vivevano insieme non come due famiglie distinte, ma quasi come se fosse una unica. Si alzò divincolando la mano da quelle del ragazzo.
“Vado a dormire” annunciò di nuovo. Poi si diresse a passo di marcia verso la sua camera. Chiuse la porta a chiave, si lanciò sul letto e si accorse che le guance erano bagnate di lacrime.


Si svegliò verso l’una e mezza, così diceva l’orologio sul comodino, illuminato dalla luce della luna, da qualcuno che bussava alla porta. Inizialmente trasalì, poi si ricordò che a casa sua c’erano vari antifurto a prova di ladri e si tranquillizzò. Pensò che doveva essere sua madre che le voleva dare la buonanotte, sicuramente era rimasta a guardare un film. Si avvicinò alla porta e girò la chiave, abbassò la maniglia e si affacciò sul corridoio. Davanti a lei c’era Filippo. Tutto il dolore che l’aveva sopraffatta poco prima riprese possesso del suo cuore e fu tentata di urlargli qualche brutta parola, chiudergli la porta in faccia a chiave e tornarsene a dormire.
Invece gli fece cenno di entrare. Chiuse la porta di nuovo a chiave, questa volta per evitare che suo padre la beccasse con il ragazzo (chissà cos’avrebbe pensato), poi si girò verso di lui.
La stava osservando attentamente. I capelli erano leggermente scarmigliati, la canotta che portava addosso lasciava le braccia muscolose nude, libere di mostrare i muscoli guizzanti da spadaccino, il collo fine e i pantaloni nascondevano miseramente le lunghe gambe perfette. Distolse lo sguardo. Filippo si fece avanti e le prese il viso fra le mani e prima che Aurora potesse fare qualcosa, la baciò sulle labbra. La ragazza si scostò bruscamente e lo spinse via da lei. Il ragazzo la guardò sconvolto.
“Cosa sei venuto a fare?” sibilò “Mi stai prendendo in giro?”
“No” mormorò lui, deciso “Non potrei mai farlo. Prima non hai capito cosa ti stavo dicendo. Io per tutto questo tempo ti ho sempre immaginata diversa… insomma, più bambina. Poi arrivo qua e trovo una ragazza matura, okay, forse un po’ confusa e sulla via giusta per diventare splendida, una persona magnifica e… bellissima.” Si avvicinò di nuovo e le prese le mani fra le sue “Aurora, io mi sono innamorato di te. E non come con tutte le altre… quella era infatuazione. Questa volta no. Solo amore” lei lo guardò senza credergli. Filippo la lasciò e si prese la testa fra le mani. Fece un giro su se stesso, cercando di calmarsi, poi la guardò di nuovo “Come faccio a dimostrartelo?”
“Sei tu stesso che prima…” cominciò lei.
“Prima mi sono spiegato male. Adesso per niente. Mi sono innamorato di te, e voglio essere il tuo uomo.” Aurora sentì il cuore batterle all’impazzata. “So che ci conosciamo da relativamente poco tempo, ma tu sei davvero… tutto ciò che desidero. Per favore. Non rifiutarmi” fece due lunghe falcate e la baciò di nuovo. Questa volta, Aurora decise di lasciarsi baciare. La richiesta di Filippo era chiara, ma lei doveva capire se lo voleva davvero oppure no. Socchiuse la bocca e lui, dopo averle sfiorato il labbro inferiore con la lingua, la insinuò in lei, che si sentì sciogliere e avvampare. Sentiva un calore dentro di sé inarrestabile, che le fece pensare di stare andando a fuoco per un momento. E poi c’era una strana tensione, qualcosa che le si muoveva nel basso ventre, che si attorcigliava nelle viscere e che le sembrava più caldo e più freddo insieme. In ogni caso, era dolce.
Come se non riuscisse più a controllarsi, insinuò le mani sotto la canotta del ragazzo, con la destra si aggrappò alla sua schiena, tastando la spina dorsale, i muscoli, la pelle calda; con la sinistra scese a sfiorare l’ultimo pezzo della schiena. Una piccolissima vocina nella sua testa le diceva che stava sbagliando, ma lei non se ne curò minimamente. Sapeva, da qualche parte dentro di sé, che una ragazza per bene qual’era non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Sapeva che non avrebbe dovuto baciarlo così e toccarlo in quel modo e… una calda mano del ragazzo si infilò fra i suoi capelli attirandola verso di sé, l’altra la spinse contro di lui. Si trovò quasi perfettamente aderita al suo corpo, le bocche incollate, le lingue intrecciate, i seni premevano sul petto di lui e il bacino… sentì con spavento e qualcos’altro di deliziosamente indecente che il desiderio che Filippo aveva per lei. Non si fermò, piuttosto si strinse ancora di più a lui, che fece ancora un passo facendola cadere sul letto. Lei lo tirò con sé, e sentì il suo peso premerle addosso. Si sentì perfettamente a posto. Una gamba del ragazzo era fra le sue e Aurora alzò quella libera, appoggiando il polpaccio al retro delle cosce di lui. Lo sentì ansimare quando si staccò dalle sue labbra e quando le baciò il collo avvertì di aver emesso un mugolio che non aveva mai pensato di poter fare. Le venne in mente uno di quei film che guardavano sempre i ragazzi, ricordò quello che aveva trovato nella doccia della scuola, ad aspettarla, per vederla nuda, ma non provò assolutamente paura, perché sapeva che Filippo non lo faceva con cattive intenzioni. Poi capì che stava andando oltre con il pensiero, che stava già pensando al ragazzo che la vedeva nuda e lo giustificava. Sbalordita, lo allontanò da sé, e lui si lasciò cadere, confuso e ansimante, accanto a lei.
“Tu mi vuoi vedere… senza vestiti!” ansimò inorridita. Lui la guardò stralunato.
“…si!” esclamò poi. Aurora gli fece cenno di abbassare la voce e lo guardò come se fosse pazzo. Lui ricambiò l’occhiata per un istante. “Cioè” si corresse “Lo vorrei tanto. Ma se non vuoi, va bene lo stesso. Rispetto la tua decisione. Non voglio… non voglio che tu ti senta obbligata, perché questa volta…” si interruppe “Non posso credere, dopo il bacio che mi hai dato… le mani… la gamba… insomma, dopo questo non posso credere che tu non vorresti vedere me senza vestiti, e non posso nemmeno credere che non hai pensato a fare…”
“Ehi” alzò le mani Aurora “Io non ho detto che voglio fare certe cose… sono indecenti, e…”
“Indecenti?” domandò lui divertito “Ancora meglio. Ti posso giurare che non lo saranno.” lei arrossì violentemente. Filippo allungò una mano e le mise una ciocca di capelli dietro a un orecchio. “Comunque, se non vuoi, io non ti obbligherò a fare proprio nulla.” Le prese una mano e le fece il baciamano. Aurora non pensò più a niente. Non pensò alle parole di sua madre, che le aveva sempre detto di aspettare il matrimonio, di non fare cose del genere con un mezzo sconosciuto, di fare attenzione in caso… gli afferrò i polsi e si mise a cavalcioni su di lui, lo baciò con passione con i capelli che le scendevano ai lati del viso, quando si rese conto che era così sorpreso da non muoversi, gli infilò le mani sotto la canotta e gliela tolse, gli baciò il collo e il petto, mentre lui ridacchiava lentamente e le toglieva la sua. Poi, con un colpo di reni di Filippo, si ritrovò sdraiata sul letto, mentre il ragazzo cominciava a scendere con le labbra.
Non capiva se si sentiva bene, male, in ansia, se lo faceva perché lo amava, perché il momento l’aveva coinvolta, perché doveva sfogarsi in qualche modo dello stress degli ultimi giorni. Non capiva più niente. Si rese conto che ormai era preda dei sensi e che non aveva mai desiderato altro. Che era bello. Che Filippo le stava facendo qualcosa di meraviglioso. Si sentiva solo in colpa perché aveva il dubbio di non amarlo.
Ma quando lui entrò in lei, forse un po’ troppo in fretta, facendole male, capì che non c’erano dubbi, che non avrebbe mai voluto fare la stessa cosa con nessun altro. Capì che l’unico sarebbe stato proprio Filippo. E, passato il dolore, si lasciò andare.


Il mattino dopo si svegliò verso le nove, nuda, raggomitolata sotto le coperte. Accanto a lei c’era ancora Filippo, con il viso rivolto verso l’alto, che dormiva. Ma lei aveva sentito la vibrazione del suo cellulare sul comodino, si sporse e lo prese. Si coprì i seni con la coperta, sentendosi in imbarazzo, poi rispose, senza guardare chi era, ancora assonnata.
“Aurora” disse una voce conosciuta dall’altra parte della cornetta. Aurora fece un balzo e scattò fuori dal letto, aprì le tende e guardò la luce del giorno, facendo un verso di sorpresa. Era Jasmine.
“Jasmine! Oh, Dio. Dov’eri finita? Dove sei? Finalmente chiami… cos’è successo?” la mora rise.
“Sono tornata a New York” disse.
“Tornata?” domandò la bionda “Perché, dov’eri?”
“Ero in Texas”
“In Texas?” Aurora era sbalordita. Cos’era andata a fare Jasmine in Texas?
“Ti prego, vediamoci fra poco, devo parlarti e quando tornerò a casa di mio padre credo che non vedrò la luce del giorno per qualche decina d’anni” borbottò.
“Arrivo. Dimmi dove” rispose Aurora, dirigendosi verso la cabina armadio, notando Filippo assonnato che si grattava la testa aprendo gli occhi. “Mi vesto e considerami lì”
“Sono al parco, davanti alla fontana” rispose Jasmine. L’amica chiuse l’i – phone, non degnò il ragazzo di uno sguardo e agguantò un paio di mutande e un reggiseno. Afferrò una t – shirt azzurra e un paio di jeans e andò in bagno, aprendo l’acqua della doccia. Si bagnò e si lavò il più velocemente possibile, insaponando approssimativamente i lunghi capelli biondi. Quando uscì, si asciugò fulminea, lasciando i capelli bagnati si vestì e tornò in camera, trasferendo portafoglio, chiavi di casa e poche altre cose in una borsa. Filippo la stava guardando. Sbadigliò.
“Dove stai andando?” domandò.
“Da Jasmine. È tornata” rispose. Gli mandò un bacio al volo e corse, con un paio di sandali in mano, verso la porta.


Quando arrivò al parco era senza fiato dalla corsa, i capelli mezzo asciutti le cadevano disordinatamente intorno al viso struccato e la scollatura della maglietta era messa storta. Si fermò un momento, appoggiandosi alle ginocchia, ansimando. Si guardò intorno e finalmente vide Jasmine su una panchina. Si avvicinò cercando di riprendere fiato, ma quando la raggiunse non si era ancora ripresa del tutto. La mora alzò lo sguardo e le sorrise raggiante. E’ cambiata, pensò Aurora, è cambiata molto in poco tempo. La risposta le arrivò quasi subito, perché la ragazza alzò la mano sinistra e mostrò un anello d’argento all’anulare. La bionda rimase senza parole. A bocca aperta. Jasmine si era forse sposata? Era questo che cercava di dirle? Boccheggiò qualche volta, poi si lasciò cadere sulla panchina e la guardò incredula.
“Ho sposato Ali” disse, bella come il sole, splendente di felicità “Dopo che mio padre mi ha detto che dovevo sposare Jaff una volta arrivati i diciotto anni, ho pensato che sposando prima Ali, non avrebbe potuto costringermi. Ora prima dovrebbe riuscire a farmi divorziare, ma da quando ho sedici anni ho qualche diritto anche io, e non lo lascerò mai. E’ qualcosa di lungo e complesso e mio padre non può farci troncare tutto ora. Ci sono le firme. Ho anche trovato mia zia. È stata lei a firmare il consenso”
“Tu hai… oh, mio Dio” mormorò Aurora, sconvolta.
“L’ho sposato, Aury! Non dovrò mai sposare Jafar!” esclamò felice Jasmine prendendola per le spalle e scuotendola “Sei la prima a cui lo dico. Mi fido tanto di te. Fra non molto vado anche da Ariel a dirlo! Mi sento così felice!”
“Sei davvero… davvero sicura che non vi lascerete mai?” le domandò Aurora seriamente, con il respiro quasi di nuovo normale.
“Non ci lasceremo” le disse Jasmine, prendendo un viso serio che la bionda non le aveva mai visto addosso. L’amica sembrava cresciuta di una decina d’anni, sicura di ciò che voleva nella vita, certa della sua decisione, piena di fiducia e speranza come di consapevolezza e serietà. Capì che aveva ragione, che una legge non poteva semplicemente dire che due ragazzi non potevano sposarsi solo perché uno dei due era minorenne e capì improvvisamente cos’era l’amore e cosa voleva lei. Jasmine le aveva aperto gli occhi.
“Sono felice per te” disse sinceramente “Ma ora vieni qui, fatti abbracciare!” esclamò, stringendo le braccia intorno all’amica. Era così felice di vederla. Era così contenta per lei.
Capì che il ritorno di Jasmine simboleggiava moltissime cose. Si rese conto che tutto stava per cambiare, ma altre cose stavano per tornare come prima. Loro tre, migliori amiche per sempre, lo sarebbero nuovamente state. Capì che da allora in poi tutte e tre sarebbero state libere e soprattutto amate, che l’affetto non sarebbe mai mancato. Capì che l’amicizia era stata più forte della volontà di scappare e capì anche che il suo obiettivo stava per essere raggiunto. Una pedina stava per essere aggiunta al puzzle di ciò che era successo alla festa. Esmeralda aveva il suo testimone, colui che avrebbe detto che era innocente. Ormai né Frollo né nessun altro poteva mettersi di mezzo. Ormai poteva essere felice di aver rimesso tutto a posto. Si sentì talmente felice da sentirsi quasi svenire.
“Ti accompagno a casa” disse a Jasmine “Abbiamo un sacco di cose di cui parlare”
Si rese conto improvvisamente di cos’era successo quella notte, e sorrise fra sé e sé. Prese il cellulare e scrisse a Filippo. Gli assicurò che sarebbe tornata presto, che avrebbe passato volentieri il pomeriggio con lui nella casetta nel giardino, lontano da casa e dai genitori.
“Perché sorridi?” domandò la mora.
“Ora ti racconto” disse Aurora, i capelli sciolti che si muovevano al vento “Anch’io ho trovato l’amore”

 











Oddio, non posso crederci! Finalmente ce l'ho fatta a postare il sesto capitolo! E' stata dura, scusatemi... se ci sono un sacco di errori, perdonatemi ma l'ho scritto in più tempi anche abbastanza separati... scusate, davvero >.< Spero continuerete a seguire ^^ Comunque, rigraziamenti a merychan, Sissyl e petitecherie per aver commentato, a Elelovett, merychan, MoonLove, ninfa_marina94, petitecherie, Sissyl e _BriciolaElisa_ per avermi messa nelle seguite e Dora93 che l'ha messa addirittura nelle preferite! D: Dora93, se leggi queste parole, sappi che leggo le tue storie e mi piacciono molto! Devo andare presto a commentare! :)
Nel prossimo capitolo scopriremo il buffo mondo di Jane ;)
A presto, un abbraccio a tutti! :)
Nymphna <3

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Capitolo 7
*** 7 - Jane. ***


 

Capitolo 7, Jane.
(da domenica 11 a martedì 13 luglio)

 


Jane stava mordicchiando la gommina della matita con aria meditativa. Certo, non era certo Sharlock Holmes, ma sicuramente in tutta quella storia c’erano più di un paio di lacune. Cambiò la disposizione di alcuni foglietti su cui aveva scritto i nomi dei coinvolti. “Esmeralda” doveva necessariamente essere accerchiata da “Giudice Frollo”, “Quentin”, “Detective Sungood” e da un lato doveva esserci anche “Cindy”.
Lasciò ricadere la testa sul pavimento di marmo, con un tonfo preoccupante.
“Ahia” borbottò, massaggiandosi la fronte. Il soffio d’aria aveva fatto spostare il nome di Blanche vicino ai foglietti di “Esmeralda” e “???”. Li guardò un momento come stranita, e capì improvvisamente di aver avuto un’illuminazione. Si alzò in piedi, corse giù dalle scale e si fermò solo davanti al cellulare. Telefonò a Belle tempestivamente. Aspettò il tu – tuu familiare…
“Pronto, Jane!” esclamò l’amica con tono seccato.
“Ho avuto un’illuminazione!” esclamò la ragazza “Chiunque ce l’avesse con Esmeralda, doveva avercela anche con Blanche Woodson, per forza. E sai perché? Perché non penso sia proprio un caso che sia stata l’unica ragazzina quattordicenne della festa, e guarda caso, proprio a lei succedono certe cose che la fanno finire in coma, in bilico. Io… non so ancora chi può essere stato, ma sicuramente è qualcuno che ce l’aveva con lei, e unendo il voler estirpare la giovane vita della povera Blanche… ecco che si può insinuare qualcuno che somiglia ad Esmeralda. Ma dal momento che il giudice Frollo non conosceva nemmeno la ragazzina, mi viene da pensare che chi ha organizzato tutto questo non fosse solo” prese un profondo respiro, aspettando di sentire la voce dell’amica, rendendosi conto che aveva detto tutto d’un fiato.
“Io penso che tu abbia qualcosa di geniale in quella testa” disse Belle sinceramente colpita “Anche se la maggior parte delle volte non lo mostri”
“Grazie!” sorrise Jane “Comunque, io vado da Sungood a dire la mia. Magari non ci ha pensato”
“Okay. Facciamo che ci vediamo alle sei. Ora sono con Adam” disse dolcemente. Jane capiva l’amore di Belle, proprio per questo non le chiedeva di essere sempre insieme. Era molto triste per il fatto che si dovessero separare, perché lei partiva per la Francia mentre lui aveva una vita in America, ma sperava di poter rimediare in qualche modo. O almeno, offrire un’idea. Chiuse la conversazione, scrisse velocemente su un block notes ciò che le era venuto in mente e afferrò la borsa. Uscì di casa sbattendo la porta.


Quando arrivò alla centrale di polizia e venne indirizzata verso l’ufficio di Sungood, non si aspettava di trovarsi davanti Esmeralda e un ritrattista. Fece un verso di sorpresa, facendosi notare, poi si sedette silenziosa su una panca. Sapeva che il detective aveva rischiato la vita mentre la ragazza era lì, ma lo aveva conosciuto abbastanza bene in quei cinque o sei incontri da capire facilmente che non era uno che demordeva, ecco perché era tornato nello stesso ufficio di prima. Il ritrattista guardava Esmeralda e disegnava il suo viso. Jane capì che Sungood aveva chiaramente pensato che la ragazza che aveva drogato Blanche doveva essere simile all’amica. Era perfettamente lecito quindi farle un ritratto e cercare fra le persone simili. E ora, forse, lei stava per restringere il campo…
“Cosa sei venuta a fare?” domandò Esmeralda acidamente. Jane non replicò. Sulle prime, appena si erano conosciute, ci rimaneva male, ma ora che la frequentava da circa una settimana pensava che in realtà non fosse così terribile. Non era facile da prendere, ma Jane pensava che nessuno fosse facile. Piuttosto, era convinta che ognuno fosse complesso da capire e lei si divertiva a scoprire i lati più reconditi di ogni persona.
“Sono venuta a comunicare un’idea che mi è saltata in testa proprio una mezz’oretta fa” disse guardando la sua pelle olivastra “Credo abbia fondamento. So anche come restringere il campo. Belle ha detto che è un’idea geniale”
“Non vedo l’ora di sentire la tua intuizione” sorrise Sungood, per poi rivolgersi al ritrattista. Prese un tono di voce autoritario, quello che usava per scherzare con le ragazze e per fare il serio con i suoi sottoposti “Ritrattista, sparisci!” l’uomo obbedì subito, mentre Jane scoppiava a ridere ed Esmeralda sogghignava. “Dai, dimmi la tua intuizione” la ragazza si avvicinò al tavolo insieme alla mora.
“Ho pensato” cominciò “Che la persona che ha incastrato Esmeralda, deve avercela per forza con Blanche Woodson. Non è possibile che le due siano collegate in altra maniera, perché Blanche non aveva amiche alla festa, era l’unica sotto i sedici anni e Esmeralda non centrava assolutamente niente, è stata prima con la sua amica e poi con Ali”
“Meg” sottolineò la mora “La mia amica si chiama Meg”
“Si, certo, Meg” ripetè Jane “In ogni caso, è chiaro che sono tutti collegati in qualche maniera. E dal momento che l’unica persona che vuole fare per forza del male ad Esmeralda è il giudice Frollo… allora questo qualcuno centra proprio con lui” il detective sembrò illuminarsi.
“Tu sei un genio!” esclamò con un sorriso, per poi diventare serio “Hai mai pensato alla carriera poliziesca?”
“So che andate d’accordo, ma non è il momento di perdersi in chiacchiere” tagliò corto Esmeralda “Abbiamo capito che è qualcuno che ronza intorno a Frollo, ma chi è e perché dovrebbe andare ad ammazzare proprio Blanche?”
“Perché è una ricca ereditiera” dissero insieme Jane e Sungood. La mora alzò le mani in segno di resa.
“Okay, okay detective Sungood e Porter, so che siete amici e telepatici ma spiegatemi. Io sono solo una ragazza” disse con un sorriso innocente.
“Hai presente il patrimonio dei Woodson?” domandò il detective “E’ praticamente immenso. Hanno miliardi di dollari da qualche parte in banca, una cifra così esorbitante da far vivere chiunque, anche con gli eccessi più eccessi di tutti, per tutta la vita, senza fare assolutamente niente. Tutto ciò che spendi ti tornerà, perché le aziende sono state impostate così bene che sarebbe impossibile guadagnare di meno anche con la peggiore delle crisi.”
“Perfetto, chi non vorrebbe un patrimonio così?” disse Esmeralda stupita. Il detective alzò tre dita.
“Ora, madre morta quando Blanche era ancora piccola” abbassò un dito “Padre morto d’infarto non molto tempo fa” abbassò un secondo dito “Muore la bambina, e chi sta scritto nel testamento prende tutto il patrimonio”
“Se non sbaglio, il vecchio Woodson si era risposato” suggerì Jane “Magari la nuova moglie potrebbe essere la fortunata destinataria” il detective la guardò stralunato.
“Te l’ho già detto che sei un genio?” esclamò. Jane gli sorrise. “Se procediamo su questa strada…” aprì una pagina internet e cominciò a cercare. Esmeralda tirò fuori da una tasca dei pantaloni una sigaretta, se la mise in bocca e l’accese, avvicinandosi alla finestra per sbuffare fuori il fumo. Era molto bella, pensò Jane. Aveva il naso dritto, un profilo fiero, le labbra carnose che la rendevano sensuale da morire, i capelli scompigliati sembravano la criniera di un leone e gli occhi verdi potevano trapassarti da parte a parte. Sospirò, pensando che non sempre bellezza e buona sorte andassero insieme. Le tornò alla mente anche Cindy. Sapeva che c’erano molte cose che le nascondeva, ma non voleva saperne niente se lei non parlava. Jane non era proprio il tipo da mettersi negli affari altrui più di quanto pensasse fosse lecito, da brava inglese.
“Accidenti!” esclamò il detective attirando l’attenzione delle due ragazze “Ha i capelli neri, ma non sembra affatto giovane. Si, è una bella donna, ma non le daresti meno di venticinque anni. Tutti hanno descritto quella che era con Blanche come una teenager.”
“Che si sia servita di qualcuno?” domandò Jane.
“Ovviamente, sennò sarebbe ricaduta tutta su di lei, la possibilità” fece girare la rotellina del mouse, per poi schioccare le dita “A-ha! Una falla. Conosce il giudice Frollo. E’stato lui a presenziare al matrimonio suo e di Woodson. E non solo, è un suo amico, le scrive pure commenti e messaggi su facebook.”
“Si, ma non era nemmeno lui, era una donna!” obiettò Jane “E se non era lei, chi può essere stato? Una sua amica? O una domestica, forse”
“No, hanno solo tre donne delle pulizie, due bionde e una castana” commentò il detective mordendosi un labbro e cercando sul computer una qualche corrispondenza con i fatti “Un giardiniere e un maggiordomo. Li avessi io! Le amiche di Grimilde Woodson sembrano troppo altolocate per andare a una festa di ragazzine, truccate e vestite come loro”
“E se avessero chiesto a qualcuno di farlo?” domandò Esmeralda.
“Ovviamente” concluse il detective “Ma non riesco a pensare a chi, anche pagato, andrebbe a una festa colmo di droga, rischiando di farsi scoprire dalla polizia” la ragazza lo guardò per un lungo momento.
“Qualcuno che non ha niente da perdere.” Disse alla fine, per poi spostare lo sguardo fuori dalla finestra. Jane e il detective si lanciarono un’occhiata, ma presero la teoria per buona. Effettivamente, Jane non sarebbe mai andata a una festa imbottita di droga proprio perché non voleva perdere una certa stima, la libertà, la reputazione. E poi, non avrebbe rischiato di non vedere più la luce del sole solo per soldi, per quanti essi fossero. “Esistono tre generi di persone che non hanno niente da perdere” continuò Esmeralda, senza guardarli ma catturando tutta la loro attenzione “Uno è quello dei mercenari, chi uccide solo per il gusto di uccidere, i serial killer o semplicemente chi non ha scrupoli e viene assoldato da qualcuno di potente per compiere il gesto estremo. Il secondo è quello dei drogati, di chi ha bisogno di una dose e per quella è disposto a dare la vita, la libertà, se stesso, il proprio corpo e le persone amate. E poi, c’è il gruppo delle prostitute. Che dignità c’è in una donna che offre il suo corpo a uomini diversi, solo per soldi? Loro possono maltrattarti, stuprarti, ucciderti, ma tu devi sempre avere l’espressione da ‘mi piace, continua’. Devi farglielo capire con ogni gesto, ogni movimento. Ma alla fine, hai i tuoi soldi.” Tacque.
Jane rimase un momento ferma a pensare alle parole della ragazza. Capì che ne aveva passate tante, che parlava di quei generi di persone solo perché li conosceva. Sapeva benissimo cosa potevano fare, perché. Non li avrebbe distinti così bene se non fosse stata nel giro. Provò un moto di compassione nei suoi confronti, le dispiaceva terribilmente che una ragazza della sua stessa età dovesse subire simili trattamenti. Esmeralda aveva diciannove anni, eppure aveva indossato tante volte una maschera per scappare dalla sua vita. Jane si sentì viziata e fortunata.
“Quindi” disse il detective interrompendo il silenzio “Quindi, chi pensi abbiano assoldato?”
“Non lo so” rispose Esmeralda criptica. Jane si sedette davanti a lui.
“Bene, se questa persona era simile a Esmeralda vuol dire che chiaramente non era una drogata” commentò “I drogati hanno tratti caratteristici, e per essere arrivati a fare qualsiasi cosa per una dose, vuol dire che si è al limite. Chi l’ha vista, avrebbe chiaramente capito che era a quel punto, o no?” il detective annuì, scrivendo le tre parole (drogato, mercenario, prostituta) su un foglio di carta e cancellò la prima.
“Quanto al mercenario” disse picchiettandosi il mento con la matita “Hanno un altro genere di azione, nessuno userebbe una droga. Insomma, è troppo facile essere scoperti, capisci? Se c’è una grande quantità di, non so, eroina, la polizia, quando la trova, sa che questa e quella gang ne fanno particolare uso. Così il campo si restringerebbe troppo e rischierebbe di far scoprire se stesso o il suo datore di lavoro. E se uno mette in pericolo queste informazioni, non è un mercenario. Dev’essere qualcuno che non si riesce a trovare. Qualcuno che ha anche amicizie maschili, perché sette uomini in un colpo solo, scusate ma dev’essere davvero dura riuscire a trovarli”
“Rimane solo una parola” gli fece notare Jane “Prostituta”
“Quindi si tratta di una prostituta assoldata?” domandò Sungood “Sembra proprio strano, ma così tanto da poter quadrare” si appoggiò allo schienale dietro di lui “Serve uccidere una ragazzina, ma prima bisogna attirarla a una festa. E chi avrebbe potuto farlo se non una sua amica? Per essere in confidenza con una ricca quattordicenne devi essere giovane e con un carattere come si deve.” Si prese la testa fra le mani “Allora non abbiamo più una pista” disse infine, demoralizzato.
“Perché?” domandò Jane, sentendosi impotente.
“Perché le prostitute non sono catalogate. Non possiamo andare a cercare fra tutte quelle di New York.” mugolò.
Jane uscì poco dopo. Era sicura che ci fosse un’altra risposta, non poteva finire tutto lì. Certo, cercare prostitute in tutta la città, che corrispondessero al profilo, sembrava piuttosto improbabile. Si chiese troppo tardi se esistessero associazioni con un capo che concedeva le ragazze a ricchi acquirenti. Non poté scendere perché il taxi su cui era salita per andare alla Dream’s House, luogo d’incontro con Belle, era già partito e lei aveva già pagato. Prese il block notes e si annotò tutte le novità, compresa la domanda che voleva fare a Esmeralda.
Se avesse conosciuto qualcuno che avesse sotto di sé svariate ragazze per offrirle all’acquirente migliore, avrebbero ristretto il campo. Ma forse, pensò, forse poteva fare qualcosa anche lei. Conosceva per sentito dire un posto che pullulava di quella gente. Era un luogo non troppo lontano, facilmente accessibile. Quel posto era il Bazar.


Sbattè la porta di casa e si diresse verso la sua camera da letto, ma appena arrivò in cima alle scale si trovò faccia a faccia con uno sconosciuto. La prima reazione che ne seguì, fu che Jane cominciò a urlare, mentre il ragazzo incuriosito le si avvicinava sempre di più. La ragazza brandì il cellulare.
“Non ti avvicinare… non ti avvicinare!” chiuse gli occhi, immaginando ciò che il ragazzo avrebbe potuto farle… ma le mise solamente una mano sul cuore. Jane aprì gli occhi sbalordita.
“Tuo cuore batte forte” disse il ragazzo. Jane lo osservò meglio, cercando di stare calma. Se non l’aveva ancora attaccata, non poteva essere tanto terribile. Era molto alto, un metro e novanta di sicuro, la superava di venti centimetri buoni. I suoi occhi erano blu-verdi, incredibili in un ragazzo dalla pelle abbronzata come lui. Ebbe la sensazione che il ragazzo che le stava davanti fosse in realtà americano, di certo non africano. Aveva conosciuto persone di diverse etnie, seguendo il padre nei suoi viaggi, e questo ragazzo non era certo del Madagascar. Lo guardò profondamente negli occhi, sembrava concentrato a capire cosa lei stesse pensando.
In quel momento spuntò il padre di Jane, un ometto basso e smilzo con un simpatico paio di baffoni sotto il naso, ormai bianchi, così come i radi capelli. Indossava un paio di pantaloncini di flanella che gli arrivavano al ginocchio, alti calzini di cotone e una camicia infilata nei pantaloni. Proprio uno stile da vecchio, pensò Jane illuminandosi. Scostò bruscamente lo sconosciuto e si lanciò ad abbracciare il padre.
“Oh, mia cara Jane!” esclamò il professor Porter “Come stai, tesoro mio?”
“Sto bene, papà! Com’è andata in Madagascar?” domandò Jane con le lacrime agli occhi dall’emozione.
“E’ andata benissimo, tesoro mio, ho il lavoro a tempo indeterminato. Quei dolcissimi primati mi stanno succhiando tutta l’energia” rise “E ho un’altra notizia fantastica per te, Jane: ho contattato un professore che ti può far fare la facoltà universitaria di etologia attraverso il computer… questa maledetta tecnologia è molto meglio di quanto pensassi” Jane era entusiasta “In ogni caso, mia cara Jane, ti presento il nostro nuovo amico, colui che conosce scimmie e primati del Madagascar meglio di chiunque altro! Devi sapere che è l’unica persona che viene accettata nella famiglia di quelle creature. Ecco, lui è Tarzan!” Jane guardò di nuovo lo sconosciuto.
Li stava guardando con una strana aria incredula, come se non fosse abituato a vedere contatti fra gli umani. Aveva le folte sopracciglia castane aggrottate e una piega all’attaccatura del naso, pensoso. Gli occhi erano profondi e colorati, il naso con una leggera gobba gli dava un’aria intelligente. Le labbra erano fini e il collo taurino. Le spalle erano grandi e muscolose… tutto il suo corpo era quasi sproporzionatamente muscoloso. Jane notò che ogni singolo muscolo allungato del ragazzo era anche gonfio e potente senza essere stimolato, la prima impressione della ragazza fu che fosse sempre cresciuto in maniera molto diversa da tutte le persone normali. Ripensò a Clayton, quell’antipatico ignorante amico di Gaston, che frequentava ogni giorno la palestra per sembrare più bello. Era così vanitoso da amarsi più di qualsiasi altra cosa, e con una sorta di malizia Jane pensò che sarebbe stato fantastico mostrargli come un altro ragazzo, uno come Tarzan, potesse avere i muscoli così sviluppati senza essere mai andato in palestra.
Si avvicinò a Tarzan porgendogli la mano per presentarsi, ma lui la guardò senza capire. Jane scambiò uno sguardo con il padre, poi ritirò la mano per appoggiarla sul suo petto.
“Jane” disse sorridendo. Lo straniero la guardò un momento, poi abbozzò un timido sorriso.
“Tarzan” disse indicando se stesso. Allungò una mano verso di lei “Jane”. La ragazza annuì. Tarzan spostò la mano verso il professor Porter “Papà”. Jane scoppiò a ridere. Era divertente sentire la pronuncia del ragazzo ed era fantastico notare come riusciva a captare informazioni qua e là. La ragazza pensò che avesse un’intelligenza sensibile e attenta, forse, addirittura, di tipo imitativo. Lo squadrò ancora un momento. Si, Tarzan poteva essere proprio definito un bel ragazzo dall’aria esotica, complici i rasta che gli scendevano fin sotto le spalle.
“Sai, cara” disse il professor Porter appoggiandole una mano sul braccio “Tarzan non è mai vissuto con gli umani. Per quanto possa sembrarti strano nel ventunesimo secolo, da piccolo è stato abbandonato nella foresta e solo di recente ha cominciato ad avere contatti con quelli come noi. L’ho trovato proprio io, mentre saltava da un albero all’altro proprio come un primato” si portò una mano al mento “Non si sa chi potrebbe averlo abbandonato, bisogna essere proprio senz'anima… i bambini oggi giorno non vengono lasciati così, al loro destino!” guardò Jane con un brillio negli occhi. “Cara, io in questi giorni sarò impegnato in ufficio per tutti i preparativi. Cosa ne dici di prenderti tu cura di lui, nel frattempo? È molto intelligente, sai. Tarzan?” il ragazzo si girò a guardarlo goffamente “Tarzan, saluta Jane… non è buona educazione non salutare” lui aggrottò nuovamente le sopracciglia, poi si girò verso la ragazza.
“Buongiorno, Jane” disse con una strana pronuncia. Jane era estasiata.
“Buongiorno, Tarzan!” rispose sorridendo. Il ragazzo sembrava felice. Lei si girò verso il padre. “Papà, sono piena di impegni. Non sai cos’è successo qualche sera fa, e mi hanno chiesto di scrivere un articolo e…”
“Resterebbe solo…” singhiozzò il professor Porter “Ti prego, non puoi fare uno sforzo?” Jane sospirò.
“Va bene, va bene… però non dovrà causare guai. Capito, Tarzan?” disse rivolgendosi a lui.
“Capito, Tarzan?” ripetè lui con la sua buffa inflessione. Jane rise. Pensò che sarebbero andati perfettamente d’accordo.


Il pomeriggio passò tranquillo. Il professor Porter andò in ufficio, mentre Jane e Tarzan rimasero a casa. Lei telefonò a Belle per proporle il suo piano di andare al Bazar per cercare risposte, per trovare la ragazza somigliante ad Esmeralda. Belle disse che quella sera aveva un appuntamento con Adam e Jane capì perché l’amica preferiva passare il tempo con lui. A breve se ne sarebbe andata e non credeva che sarebbe riuscita a continuare la storia con il ragazzo. Decise di portare Tarzan con sé, per sicurezza. Con tutti quei muscoli, avrebbe intimidito persino un lottatore di Sumo.
Provò a insegnargli il nome di svariati oggetti e scoprì che il ragazzo capiva qualcosa di inglese anche se non era molto bravo a parlare. Suo padre aveva fatto un ottimo lavoro. Notò che ciò che Tarzan non riusciva proprio a capire era la modernità. Odiava indossare abiti, ma Jane lo costrinse a tenerseli, non sopportava le scarpe e si spaventava ogni volta che sentiva il cellulare vibrare. A cena Jane preparò una pizza surgelata, ma Tarzan non ne aveva mai vista una e fu una vera impresa convincerlo che era commestibile. In ogni caso, quando l’ebbe assaggiata, gli piacque moltissimo.
Jane si preparò con una maglietta bianca e una mini gonna bordeaux, pensava di dover essere un minimo vestita bene per andare al Bazar, ma quando vide il paio di tacchi grigi che aveva indossato alla festa di Aurora Reale ricordò anche il dolore e si infilò un semplice paio di All Star. Afferrò la borsetta e l’immancabile block notes, per poi andare a cercare Tarzan. Gli aveva detto di indossare un paio di pantaloni beije e una maglietta nera e fu piacevolmente sorpresa scoprendo che sapeva indossarli. Il problema fu portarlo in macchina.
“Tarzan” disse Jane cauta “Siediti qua”
“Perché? Cosa questo?”
“Si chiama ‘macchina’” gli disse “E’ facile: ‘macchina’. Serve a muoversi” gliene indicò una che passava per strada “Così”
“No piante?” domandò lui perplesso. Jane ridacchiò.
“No, no piante a New York” rispose, indicandogli il sedile “Siediti” Tarzan si sedette e Jane chiuse la portiera. Il ragazzo urlò. Jane spalancò la porta “Per l’amor di Dio, cosa succede?!” Tarzan sembrava sconvolto.
“No aria!” la guardò con occhi imploranti. Jane abbassò il finestrino, poi chiuse nuovamente la portiera. Il ragazzo si stava guardando intorno studiando l’auto. Lei salì dalla parte del conducente e si infilò la cintura di sicurezza. Tarzan urlò di nuovo. “Cosa!”
“Si chiama ‘cintura di sicurezza’” spiegò “Se macchina contro macchina, tu no vola” disse cercando di aiutarsi gesticolando. Lui la guardò senza capire. Lei gli mise la cintura “No paura” gli disse rassicurante. Appena accese il motore e la macchina rombò, Tarzan strillò. “No paura!” esclamò Jane, a cui cominciavano a saltare i nervi.
“Rumore!”
“Macchina fa rumore. Tu parli. Macchina fa rumore” disse lei, partendo e immettendosi in strada. Il ragazzo restò in silenzio per qualche momento, per poi domandare il solito ‘perché’. “Perché macchina parla così” spiegò. Tarzan intavolò una strana conversazione con il cruscotto, arrabbiandosi quando non otteneva risposta. Jane ridacchiava vedendolo così stranito.
Parcheggiò vicino a un bar che non la ispirava affatto ma che le ricordava qualcosa di importante che le era passato di mente, l’Hell’s Fire. Andò in aiuto di Tarzan che non riusciva a sganciare la cintura e si diresse verso il poco lontano Bazar. Aspettò in coda, spiegando al nuovo amico che doveva fare il bravo e non intromettersi quando lei parlava, che doveva stare in silenzio ma stare attento agli altri. Lei doveva fare una cosa importante.
La verità era che Jane al Bazar non c’era mai stata. Ne aveva sentito parlare spesso, al più da Clayton e i suoi amici, ma non si era mai posta il problema di andarci. Non le interessavano affatto i posti come quello, in cui c’erano troppa gente e troppa droga che giravano. Scese le scale lentamente, guardandosi intorno, stretta al corrimano per far passare gli altri ragazzi che si riversavano nel locale.
Era gigantesco e Jane sentì con chiarezza di non essere al suo posto. Si sentiva totalmente sbagliata, così tanto diversa che era a disagio. Non le capitava spesso, ma quella volta… mentre scendeva le scale sentiva urla, musica, odori diversi e mai sentiti, parole volgari così tanto in contrasto con la realtà della sua scuola che quasi non sembrava di essere ancora a New York.
Arrivò in fondo. Le persone si spintonavano a vicenda cercando di passare, di farsi largo verso varie attrazioni. Jane si guardò intorno. C’erano un sacco di bancarelle che vendevano merce rubata. Riconobbe la giacca che era sparita a una ragazza che conosceva e capì che quello era il luogo perfetto in cui riciclare soldi. Si avviò per il lungo corridoio con Tarzan alle spalle che ogni tanto borbottava qualcosa con aria di rimprovero.
Doveva trovare Meg. Sapeva com’era fatta grazie alle foto di Esmeralda. Sapeva anche che ballava per Ade, colui che teneva il primato di maggiore capo della prostituzione newyorkese. Non sapeva come fosse fatto (a dire la verità non lo sapeva nessuno), ma lei se l’immaginava come un uomo grosso e grasso, pieno di soldi e con abiti firmati, occhiali da gangster e un’espressione di scherno stampata in volto. Dopo aver girato per un po’ nel locale, con la coda dell’occhio riuscì a intravedere delle ballerine su un palco. Si avvicinò. Una folla di uomini urlavano amenità, incitandole a spogliarsi ancor più di quanto fossero già. C’era una ragazza con corti capelli neri che sembrava godere di tutte quelle attenzioni e Jane si chiese se per caso non le piacesse. Non aveva mai messo in dubbio che chi faceva certe cose dovesse essere obbligato da qualche motivo che andava oltre il risolvibile, che fosse per mancanza di soldi, perché stavano morendo di fame… non certo per divertimento. Eppure pareva che a lei piacesse. Guardò le altre. C’era una ragazza che sicuramente non aveva più di diciotto anni piuttosto grassa, con la pancia e i seni prosperosi che si muovevano a ritmo di musica. Era straordinariamente agile per la sua mole e anche a lei sembravano non dispiacere le urla degli uomini eccitati. C’erano altre due ragazze, una con un’alta coda bionda e l’altra con lunghi capelli color platino. C’era solo un tubo che era rimasto vuoto, e Jane si chiese se proprio lì non ci fosse stata Meg. Chissà dov’era. Doveva assolutamente capire come funzionava quel mondo per lei sconosciuto.
Decise di restare lì sotto, captando i discorsi degli uomini. Con Tarzan alle calcagna, riuscì a infiltrarsi nel gruppo, dietro a due uomini che stavano proprio discutendo delle ragazze. Guardandoli meglio Jane si stupì così tanto che rischiò di soffocarsi con la propria saliva. Davanti a lei c’erano Clayton e Gaston, con le camice semi aperte, che discutevano animatamente. Tossicchiò, ma a causa del casino non la guardarono nemmeno. Ma a lei servivano quelle informazioni e sarebbe stata pronta a tutto pur di saperne qualcosa.
“Ehi!” esclamò. Clayton sobbalzò e la guardò un momento stupito, prima di sfoderare un sorriso storto di denti perfetti.
“Jane!” disse “Cosa ci fai qui? Non è un posto adatto ad una ragazzina sola”
“Io non sono sola” ribattè lei “Sono con Tarzan” indicò il ragazzo con la fronte corrucciata. “E’ un nuovo amico. Arriva dal Madagascar e non capisce molto della nostra lingua. L’ha portato qui papà per farmelo conoscere” Clayton annuì con aria di superiorità, poi fece scivolare un braccio intorno alle spalle della ragazza, portandola in avanti e dando le spalle a Tarzan, che non proferì parola.
“Cosa stai facendo qui?” domandò. Jane pensò velocemente. Le serviva dire qualcosa di intelligente ma che le desse le giuste informazioni, senza far trasparire nulla di tutto ciò che aveva pensato fino a quel momento. Clayton era il nuovo migliore amico di Gaston, erano sempre insieme e ormai sembravano quasi in simbiosi. Sicuramente erano a pari a livello d’intelligenza, pensò, prima di tornare a concentrarsi sul problema. Gaston era il nipote preferito del giudice Frollo e non aspettava altro che dire qualcosa che potesse incasinare ancora di più Esmeralda. Jane si domandò se non ci fosse qualcosa sotto, ma accantonò il pensiero e decise che era una problematica futura.
“Non sono mai stata al Bazar e prima di partire definitivamente volevo vederlo” disse infine “E’ molto famoso” Clayton e Gaston la guardarono sorpresi e Jane si ricordò di non aver mai detto a nessuno di loro che se ne sarebbe andata. Inizialmente pensò di aver sbagliato risposta, ma ben presto capì invece che era proprio la migliore: Clayton avrebbe parlato di più.
“E cosa ti piacerebbe fare qui al Bazar?” domandò Gaston, con aria ebete e ancora stupefatta.
“Stavo cercando di capire chi sono queste ragazze” affermò indicando le ballerine, con l’aria più innocente possibile. Loro la guardarono con un’aria strana e fin troppo subdola secondo il suo parere. Però le risposero.
“Sono delle ballerine di burlesque. A volte fanno anche lap dance” rispose Clayton “Sono tutte belle. E poi non le stai solo a guardare. Finchè non sei pronto puoi farlo, ma poi vai dai due bodyguard là e chiedi di avere una delle Muse. Sono cinque ogni sera, e oggi ne manca una. Sai, le controlla Ade.”
“Oh” commentò Jane, appuntandosi mentalmente le informazioni “E chi è Ade?”
“E’ il capo. Ma nessuno l’ha mai visto. Dicono che sia ricchissimo e che una delle ragazze lavori direttamente per lui. Deve aver fatto qualche patto strano con lui, sai…” rispose, incerto sull’ultima frase. Jane era sempre più curiosa.
“E che patto sarebbe?” domandò candidamente. Gaston e Clayton si guardarono.
“Te lo dico perché tanto non ci capisci niente” disse poi Gaston “La ragazza era in difficoltà economica con la sua famiglia, e sua madre gliel’ha venduta per avere soldi e adesso lei non se ne può andare dalle sue grinfie. Lavora da quando ha quattordici anni. Poi si è innamorata di un ragazzo che però l’ha solo illusa, si chiamava Adam Castle, ha cercato di uscire dal giro per lui, ma Ade l’ha beccata ed ora è messa peggio di prima. Deve passare tutta la vita con lui, altrimenti Ade toglie tutti i soldi che ha dato a sua madre e sarà costretta a fare la puttana qualsiasi.” Jane impallidì.
“Quindi questa ragazza… cioè queste ragazze… cosa devono fare con gli uomini?”
“Quello che vogliono i maschi, ovviamente, come dovrebbe essere in ogni civiltà!” disse Clayton, che chiaramente ignorava concetti come ‘civiltà’, ‘maschilismo’ e ‘parità di diritti’. “Se un uomo vuole portarla con sé solo per fare un giro davanti agli amici o trombarci o picchiarla o toccarla e basta può farlo. Però cambia il prezzo” Jane deglutì. Era terribile. Però, pensò, se avesse potuto pagare per avere una di loro e farla parlare…
“Chi è la ragazza che manca?” domandò ancora, mentre la sua mente elaborava un piano.
“Non so come si chiama” rispose Clayton “So solo che è una ragazza con i capelli lunghi e castano – rosso, con gli occhi viola. Per lei Ade chiede delle somme esorbitanti. È molto bella. È alta, magra, con le tette a punta…” Jane capì subito che stava parlando di Meg. Quegli occhi viola non potevano essere dimenticati da nessuno, una volta visti anche solo in fotografia. Anche Clayton era riuscito a ricordarsene.
La ragazza trovò una scusa e si allontanò un po’ con Tarzan, con la scusa di andare a prendere qualcosa da bere. Aveva un’ottima idea. Tarzan era oltremodo confuso, ma Jane decise che gli avrebbe spiegato tutto più avanti, per il momento era stato importantissimo che tenesse la bocca chiusa. Aveva un piano, e lui era la punta di diamante. Gli avrebbe dato dei soldi e un foglietto di carta con la richiesta di una delle ragazze. Doveva pagarla solo per parlare, poi l’avrebbe portata fuori, in un locale, dopodiché avrebbe potuto chiederle ciò che voleva su Meg.
“Tarzan” disse “Porta questo a quelle persone là, per favore” Tarzan assentì e prese i soldi nella carta piegata che Jane gli porgeva, poi lo guardò sparire fra la folla. Quando tornò, dieci minuti buoni dopo, con lui c’era la mora dai capelli corti.
“Io non capire” disse Tarzan, dando a Jane il resto “Perché preso lei?” la ragazza li guardò entrambi stupita.
“Cosa? Per una ragazza?” poi sorrise maliziosa “Mmm, sei carina, magari potrei non dire che ero con te a fare altro…” allungò una mano per palparla, ma Jane si scostò quasi con violenza, la guardò un momento e fece un passo in modo da averla davanti.
“No. Voglio solo parlare con te. Usciamo da qua” prese per mano Tarzan e la ragazza e li condusse fuori, si sedettero in macchina e guidò silenziosamente fino alla Dream’s House. Prese un tavolo e vi si sedette, offrì alla ragazza un hamburger e prese per sé una piadina, per Tarzan un pezzo di pizza che lo rese felicissimo.
Scoprì che la ragazza si chiamava Talia e aveva ventiquattro anni. Lavorava lì da cinque e non avrebbe mai voluto cambiare mestiere.
“Gli uomini sono facili da gestire” disse con un accento molto marcato “Alcuni hanno storie imbarazzanti alle spalle, come un cazzo molto piccolo oppure una paralisi, altri vengono solo per sfogarsi o per un’esperienza diversa per rompere la monotonia. Non hai idea di quanti ragazzi vengano da soli per un po’, e un paio di mesi dopo con la ragazza. Altri sono vecchi che non hanno più donne ma solo ricordi e altri ancora sono ragazzini in cerca della prima esperienza. Il sesso non è un reato, ma un’arte”. Jane aveva molto da obiettare, ma non era il momento di fare un gran discorso sul sesso.
“Vorrei sapere qualcosa su Meg. La conosci?” Talia si accese una sigaretta e aspirò a fondo, giocherellando con i semi di sesamo sopra il pane dell’hamburger. Jane aspettò pazientemente.
“Era di questo che volevi parlarmi?” la ragazza annuì “Beh, non ne so molto nemmeno io, sai. Meg è una che non parla molto. Una volta ci vedevamo tutte le sere in camerino, ma lei non faceva altro che vestirsi, salutare e dire due parole. Non rideva, non scherzava. Vuoi sapere l’impressione che mi ha dato? Che in realtà avesse il sogno di essere solamente una bambina, anche solo per un giorno. Credo sia molto infelice della sua vita. Lei è bella, è intelligente, sa come muoversi, sa che mosse fare per attirare gli uomini. La definirei una famme fatal, se solo lo volesse. Io farei di tutto per avere la sua sensualità. Ma sai, alla fine lei è cresciuta facendo questo, quindi non saprei nemmeno come potrebbe uscirne. Ormai fa parte della sua vita. Anche se lei non lo sa, nell’animo resterà sempre una prostituta.”
“Sai se ha dei parenti, delle persone ancora in vita?” domandò Jane ancora, stupita dalla perspicacia di Talia. Sembrava una stupida, ma non lo era affatto.
“So che ha una madre.” Rispose “So che è molto ricca. So anche che si è risposata ed è anche vedova. Ho sentito a volte che ne parlavano. È la vedova di Woodson, sai? Quello che è schiattato di infarto qualche tempo fa.”
I pezzi del puzzle si riunirono vorticosamente nella mente di Jane. Ecco perché. Ora molte cose si erano rimesse a posto. Ecco perché si era rivolta ad Ade per trovare una ragazza che potesse ammazzare Blanche, ecco perché voleva ucciderla! Voleva avere i soldi tutti per lei, senza dover più dipendere da nessuno, anche se chiaramente la figlia non era nei suoi piani e nelle sue preoccupazioni. Povera Meg, pensò Jane.
“Mi sai dire qualcosa su dov’è adesso?” domandò ancora.
“D’accordo, ma prima rispondimi tu. Perché tutto questo interesse per Meg?” chiese Talia interessata. Jane era combattuta. Non sapeva se parlargliene oppure no. Alla fine decise di si, non le sembrava il tipo di persona che andava a strombazzare notizie del genere ai quattro venti.
“Sto scrivendo un articolo che parla di ciò che è successo a Blanche Woodson” ammise “E’ stata accusata una ragazza di nome Esmeralda che in realtà non ha alcuna colpa. Meg doveva essere la sua testimone principale dal momento che hanno passato la serata insieme, ma poi è sparita” Talia si mise entrambe le mani sulla bella bocca carnosa, spalancando gli occhi verdi.
“Oh, mio Dio!” strillò “Spero che non le sia accaduto nulla di male… oh, mio Dio. Ora ti racconto tutto. Ma sono cose che io non dovrei sapere, potrei perdere la vita per questo. Dio solo sa se sono grata di avere una curiosità innata”, disse, e cominciò.


Jane arrivò alla centrale di polizia il giorno dopo totalmente sconvolta. Dopo il racconto di Talia non le era sembrato nemmeno di sapere più quanto a fondo stesse andando a cercare. Belle l’accompagnò, mentre Tarzan restò a casa con il padre.
“Ho scoperto che è tutta un’organizzazione particolare” disse Jane “E Meg sarebbe la punta di diamante di tutta la faccenda. Mi dispiace aver scoperto cose così terribili. È andata in un modo che non potete nemmeno immaginare.”
“Cos’è successo?” domandò Belle che ancora non sapeva niente, curiosa e ignara.
“Partiamo dal principio” disse lei sospirando “Per prima cosa, immaginatevi una situazione come molte, una ragazzina, cioè Meg, bella e intelligente che viene corteggiata da un ragazzo… Gaston” Belle trattenne il respiro “Meg l’ha rifiutato anni fa, e da allora lei e sua madre sono cadute in miseria a causa dell’organizzazione di Frollo, che voleva fargliela pagare per aver rifiutato il nipote preferito. Allora ha cercato di metterle in contatto con Ade, facendo loro capire che fosse l’unica speranza di uscirne bene. Ade ovviamente non era interessato a Grimilde, ma a Meg, che è stata subito usata per avere soldi, dato che nel frattempo Frollo aveva capito che la madre era solo interessata all’alta società.”
“Perciò praticamente tutto è partito dalla sua avarizia.” Riassunse Febo, con la fronte appoggiata a una mano e con l’aria attenta.
“Esatto” confermò Jane “Ma quello è stato solo l’inizio. Dopo aver comprato la ragazzina, Ade ha dato alla madre il trenta per cento di ciò che guadagnava da lei, una cifra esorbitante dal momento che Meg era solamente una quattordicenne all’epoca…”
“Ma questa è prostituzione minorile!” strillò Belle, profondamente turbata.
“Non sapevi esistessero certe cose?” chiese Esmeralda con il suo solito tono un po’ aggressivo.
“E’ illegale!” protestò Belle “Potrebbero essere puniti per legge, anzi… dovrebbero finire in galera e…”
“Dimentichi che dalla loro hanno un giudice. Anzi, il giudice più influente di tutta New York.” le fece notare Febo alzando le sopracciglia. “Non sarà facile andar loro contro. C’è altro?”
“Ovviamente…” mormorò Jane “Questo era solo l’inizio. Alla fine Grimilde era riuscita a sposare Woodson, che era ricchissimo e ha voluto uccidere la figlia per avere i soldi tutti per sé, ma questo ovviamente lo sappiamo. Ciò che invece non sapeva nessuno… era che Grimilde, grande amica di Frollo, gli ha chiesto una mano per uccidere la ragazzina, e ovviamente lui ha accettato, dato che una parte dei soldi sarebbe finita probabilmente a lui, e hanno chiesto ad Ade, che li ha portati a casa sua e gli ha fatto scegliere tranquillamente chi usare. Hanno deciso di utilizzare una ragazza di cui non so il nome, che somiglia ad Esmeralda per due motivi…” la ragazza le piantò gli occhi verde smeraldo addosso senza battere ciglio “Il primo, ovviamente, è che Frollo ti odia. Ma il secondo… è che Ade vuole te” disse poi rivolgendosi direttamente all’interessata “Vuole usarti per fare ciò che fa fare alle altre, aveva già messo gli occhi su di te da tempo… è proprio per questo che Meg ti si è avvicinata. Perché se fosse stata con te, avrebbe potuto consigliarti di rivolgerti a lui.” Gli occhi della mora lampeggiarono.
“Non è possibile. Meg mi voleva bene” mormorò, con una punta di dolorosa incertezza che colpì Jane profondamente.
“E’ proprio per questo che Ade l’ha fatta sparire” disse mordendosi un labbro “Lui ha capito che si era affezionata a te e che probabilmente ti avrebbe difesa in tribunale se tu gliel’avessi chiesto. Sapeva che avrebbe potuto dire molto più di ciò che avrebbe dovuto ed ecco perché, quando ha fiutato il problema, ha deciso di toglierla di mezzo”
“Non è possibile” disse Esmeralda “Non può esserle successo nulla. Non può averla uccisa”
“Non l’ha fatto” la rassicurò Jane “Non l’ha assolutamente fatto. Solo che l’ha segregata in casa” rimasero tutti in silenzio per lunghi minuti, poi Febo tossicchiò.
“Jane, ora mi dovresti dire chi ti ha detto tutte queste cose. Faremo di tutto per lei.” Mise una mano sulla sua “Se avrà bisogno di una scorta, di nascondersi, faremo di tutto. Ma dobbiamo sapere chi è. Deve aiutarci. Potremmo far saltare in aria una delle associazioni a delinquere più pericolose della città.” I suoi occhi chiari non avevano secondi fini, pensò Jane. Erano solo chiari, limpidi e decisi come un ruscello di montagna. E volevano davvero aiutare Esmeralda, che li stava guardando con il fiato sospeso. Jane pensò che non poteva tradire Talia, ma nemmeno lasciar cadere tutto quanto. Non poteva far finta di niente. Sospirò.
“Gliene parlerò” assicurò infine.


Tornò il giorno dopo. Tarzan era andato di nuovo con lei fino al Bazar ed era andato a prendere Talia. Jane si era ormai affezionata alla silenziosa presenza del ragazzo e ormai se lo portava dappertutto, perché le dava un senso di sicurezza che non aveva mai provato. Talia era combattuta, ma quando Jane le ebbe raccontato tutta la storia acconsentì. Decise di sparire dalla faccia della terra, affermando che per lei non sarebbe stato difficile cavarsela, si assicurò che anche Jane e Tarzan avrebbero avuto sicurezza e andò con loro al commissariato il giorno dopo.
Quando entrò nella stanza cadde un’insolita aura imbarazzata fra i presenti. Esmeralda la guardava calcolatrice, Febo con l’aria di chi tiene tutto sottocontrollo anche se in realtà gli tremavano le mani dalla tensione, Tarzan che era andato con loro era curioso e continuava a fare domande e a guardarsi intorno, Belle si mordeva le unghie e Talia sembrava l’unica tranquilla. Depose la sua denuncia parola per parola e affermò che sarebbe stata al processo, che avrebbe fatto attenzione e che non l’avrebbero rivista fino ad allora. Abbracciò Jane ed Esmeralda e le assicurò che Meg stava bene, poi, poco prima di andarsene, si fermò a fumare una sigaretta nel cortile interno e fu lì che chiese di parlare con le tre ragazze in privato.
“Scusate, ragazze, io non posso parlare di queste cose davanti a un poliziotto” affermò prima di cominciare “Vi devo dare alcune informazioni, prima. Per prima cosa, Ade abita qui a Manhattan, in una casa il cui indirizzo è scritto qui” porse un biglietto a Jane “Potete andarci, ma prima vi consiglio di fare un salto all’Hell’s Fire, lì solitamente Ade passa i pomeriggi. Da ciò che ho capito origliando le sue conversazioni, Meg è a casa sua e Dio solo sa cosa deve subire. Qualunque cosa abbiate in mente di fare, fate attenzione.”
“Aspetta” disse Esmeralda, fermandola prima che se ne potesse andare “Perché sai tutte queste cose? E perché ce ne parli?”
“So tutte queste cose perché ho un amante all’interno della cerchia di Ade, ma nemmeno lui lo sa” disse “E ve ne parlo perché, dopo quello che mi avete detto, ho capito che la società di Ade sta veramente sbagliando e facendo molto più di ciò che dovrebbe. Sono spaventata da ciò che ho scoperto e per la prima volta vedo ciò che c’è sotto la facciata. Non trovo che andare a letto con diversi uomini sia un reato. Ma cercare di uccidere una ragazzina per soldi si. E vorrei prendere per una volta la scelta giusta.”


Quando Jane arrivò a casa era preoccupata. Esmeralda aveva proposto di andare a fare un salto a casa di Ade con il suo amico Clopin, e lei non si sentiva molto dell’opinione. Belle era talmente sconvolta che probabilmente non sarebbe riuscita a entrare, ma aveva confermato che avrebbe dato loro una mano, qualsiasi cosa avessero voluto fare. Salutò il padre e Tarzan distrattamente, poi si lasciò cadere sul letto e cominciò a scarabocchiare sul block notes. Disegnare l’aveva sempre aiutata molto a riflettere e decidere, ma quel giorno sembrava confonderle le idee ancora di più. Certo, aveva accettato di fare quell’articolo per Belle, ma d’altro canto non si aspettava di cadere in una situazione simile, che le sembrava molto più di ciò che una ragazza di appena diciotto anni come lei avrebbe potuto sopportare. Non sapeva cosa fare, perché avrebbe potuto essere veramente rischioso. Certo, per una come Esmeralda probabilmente una semplice incursione in una casa non era niente di strano. Aveva detto molte volte che non aveva nulla da perdere e il che le facilitava le cose, ma lei, Jane, pensava che cose da perdere ne aveva anche se non riusciva a definirle. Forse era solo la paura di perdere la vita o l’allegria, per lei le cose fondamentali.
La porta della sua camera si aprì scricchiolando e quando si girò, Jane si trovò sulla soglia Tarzan, che camminava un po’ impacciato, chiudendo la porta dietro di sé. Jane rimase stupita, perché il ragazzo non chiudeva mai nessuna porta per paura di rimanere bloccato.
“Jane preoccupata” disse poi, sedendosi sul letto vicino a lei a gambe incrociate. Lei lo imitò lasciando perdere i disegni, in un moto di tenerezza nei confronti del ragazzo.
“Jane preoccupata, si” confermò lei, guardandolo profondamente. Sembrava confuso.
“Jane pensa di fare cosa pericolosa” disse ancora il ragazzo, capendo perfettamente ciò che lei provava. Jane si stupì per la sensibilità di Tarzan.
“Si” affermò solamente. Lui la guardò corrucciato ancora un momento.
“Jane deve fare giusto” continuò poi con convinzione “Jane deve fare giusto. Papà dice sempre giusto è cuore seguito. Jane segue cuore e Jane fa giusto”
“Si” mormorò Jane “E’ che non so cosa vuole il cuore” Tarzan allungò una mano e le sfiorò il petto con attenzione, per poi mettere una mano a sentire i suoi battiti, chiudendo gli occhi concentrato.
“Cuore dice segue amici” affermò poi “Jane brava. Jane segue amici. Tarzan vuole aiutare Jane, Tarzan non può.” La ragazza lo guardò confusa. “Tarzan no amici New York. Tarzan solo Jane. Jane segue amici.”
Jane capì. Lui voleva vederla felice e sapeva che se non fosse andata con Belle e Esmeralda ad affrontare la realtà della storia con Ade, Frollo e la vedova Woodson si sarebbe mangiata le mani per il resto della vita. Inspirò profondamente.
“Vedi, è molto complicato” spiegò “Se seguo gli amici, potrebbe succedere qualcosa di brutto. Qualcosa di molto brutto. Ma non so cosa, è proprio per questo che è terribile. Non so cosa potrebbe succedere. Esmeralda è così decisa, lei non si chiede cosa succederà fra un mese, un anno o quando avrà cinquant’anni, ma io si, e questa è la mia debolezza. Io voglio andare in Madagascar con te e con papà, a studiare i lemuri, le scimmie e i primati… però d’altro canto devo aiutare i miei amici ed è l’ultima opportunità di farlo. Potrebbero prendermi. Potrei perdere papà e… te” lo guardò un momento. Aveva l’aria assorta e probabilmente non aveva capito una parola di ciò che lei aveva detto. Era inutile illudersi, perché Tarzan non capiva l’inglese e tantomeno non aveva mai avuto a che fare con situazioni del genere. Era stato uno strazio dovergli spiegare cos’era successo, ma Jane aveva pensato che fosse giusto perché Tarzan era stato con lei e l’aveva aiutata. Era stato così terribile perché lui, ogni volta che lei gli spiegava un concetto, le diceva che secondo lui non era giusto. Jane lo sapeva. Non era giusto niente di tutto ciò che era successo, dal vendere una figlia ad Ade al cercare di ammazzare una ragazzina come Blanche. “Se seguissi ciò che penso” disse la ragazza interrompendo il silenzio “Se seguissi ciò che realmente farei, andrei da Esmeralda e comincerei ad organizzarmi. Non mi piace questa storia, ma proprio perché non è giusto niente vorrei cercare di fare io la cosa giusta. Ma il mio dubbio è che se Ade e Frollo mi scoprissero, avrebbero loro il coltello dalla parte del manico, non certo io. E potrebbero anche uccidermi, o ricattarmi come hanno sempre fatto con Meg. Io non voglio perdere la libertà. Ma soprattutto non voglio perdere papà. E nemmeno te”.
Fu quello il momento in cui Tarzan fece un gesto che Jane non si sarebbe mai aspettata, un gesto che finalmente le chiarì ciò che avrebbe voluto nel suo futuro e la sua decisione nei confronti di quella terribile situazione. La baciò. Le prese il viso fra le mani e la baciò con trasporto anche se solamente labbra su labbra. La rese febbricitante, attiva, decisa, quasi invadente quando rispose abbracciandolo e stringendosi a lui. Sentì che non era solo simpatico, non gli voleva solamente bene, ma era quasi innamorata di lui in un modo incancellabile e indistricabile. Capì che Tarzan era il grande amore della sua vita in quel momento. Comprese che Tarzan aveva voluto dirle una marea di cose con quel gesto, cose che non avrebbe saputo esprimerle altrimenti. Ma soprattutto le voleva dire che non l’avrebbe mai perso, nemmeno seguendo il suo cuore. Jane accettò la cosa con sorprendente facilità. Tarzan la guardò sorridendo.
“Vorrei restare, Tarzan, davvero…” cominciò lei “Ma devo andare a fare la guerra con i cattivi”


Si incontrò con Esmeralda e Belle in un luogo in cui non aveva mai messo piede. Entrò nel Bronks con Esmeralda in macchina e nessuno le disse niente. Era spaventata e le tremavano le mani mentre alzava il freno a mano, ma si impose di essere decisa, si mise a tracolla la borsa e scese dalla macchina. Seguì le due amiche fino a un palazzone spoglio, che non era stato finito, a cui mancavano le finestre, e poi salirono le scale insieme, senza dire una parola. Arrivarono infine in un grande stanzone in cui c’erano due ragazzi che stavano parlottando fra loro.
Era incredibile come i due fossero diversi. Clopin era alto e molto magro, le ossa si vedevano anche sotto la t shirt scura che indossava, quando si muoveva. Aveva una cintura con una pistola e una massa di capelli scuri che gli coprivano la testa, i movimenti del corpo erano estremamente flessuosi e sinuosi, tanto che sembrava un grande gatto nero. il ragazzo con cui stava parlando invece era basso, gli arrivava appena al petto, con i radi capelli a spazzola arancione carota, aveva la gobba e il fisico robusto, indossava una maglia larga verde scuro e un paio di jeans, sembrava molto preoccupato. Si girò lui per primo quando entrarono nella stanza.
“Esmeralda!” urlò, andando incontro all’amica “Esmeralda… non devi andare! Ti uccideranno!” Clopin rimase impassibile.
“Ho scoperto che è una società molto peggiore di come pensiamo. Dobbiamo essere ben organizzati, ecco perché ci occorrerà anche un poliziotto in borghese.” Disse il moro. Dall’ombra uscì Febo accompagnato da Talia. Jane era stupita. Ecco dov’era andata a rifugiarsi la ragazza!
“Ciao, ragazze” le salutò con aria seria “Sono una vecchia amica di Clopin e ho pensato che avrebbe potuto aiutarmi in questa brutta situazione. Purtroppo non posso venire con voi… se mi scoprissero sarebbe la fine” disse. Esmeralda e Febo si abbracciarono.
Uscirono tutti insieme poco dopo, lasciando nel palazzone Quentin, il rosso, e Talia. Gli altri salirono in macchina con Jane, che guidava più lentamente del solito, immersa nei suoi pensieri.
“Dobbiamo andare prima all’Hell’s Fire” stava dicendo Clopin. “Lì lasceremo Belle e Febo, non vi conoscono e potrete essere tranquilli e protetti, mentre noi tre andremo a casa di Ade. D’accordo?” Jane non lo era molto ma annuì deglutendo. Aveva una paura cieca.
Arrivarono all’Hell’s Fire e Belle e Febo scesero, entrando con disinvoltura. Esmeralda si era messa d’accordo con il poliziotto che le avrebbe mandato degli sms per tenerla aggiornata su ciò che stava succedendo all’interno del bar. Ne arrivò uno quasi subito, che diceva che erano tutti in fermento perché non trovavano più una prostituta, Ade era in una stanza privata con altra gente e Meg non era da quelle parti.
“Ovviamente penserà di avere protezioni abbastanza resistenti intorno alla casa, perché altrimenti non avrebbe mai lasciato la ragazza da sola” commentò Clopin dopo aver letto il messaggio “Andiamo a casa sua” disse poi. Ripartirono.
Jane era stupita per la rapidità con cui si stavano susseguendo gli eventi da quando era entrata a far parte di quella storia e dell’intelligenza di persone su cui non avrebbe mai contato prima. Clopin era organizzato ed un infallibile scassinatore e quando arrivarono alla casa di Ade non ci mise molto prima di trovare il cancello sul retro e scassinare la serratura per entrare nel giardino. Jane rimaneva in macchina per fare il palo, davanti alla casa. Clopin e Esmeralda si intrufolarono nella villa e la ragazza rimase ad aspettare.
Pensava che fosse una storia davvero incredibile. Non riusciva a capacitarsi che fosse tutto reale. La sua vita, prima così tranquilla, sembrava approdata su un altro pianeta e non le pareva nemmeno di essere sulla Terra. Ripensò a Tarzan e un sorriso le spuntò involontariamente sulle labbra. Non vedeva l’ora di tornare a casa e abbracciarlo, baciarlo di nuovo, e chissà, magari un giorno avrebbero addirittura fatto l’amore… si rese conto dell’aria ebete che aveva preso solo quando le suonò il cellulare, avvisandola di un sms in arrivo, distraendola dalle sue fantasie romantiche. Era Belle. Diceva che erano tutti sempre più arrabbiati perché ne era sparita una e che Febo stava facendo un ottimo lavoro per far credere di essere nel giro da anni.
Per quel che lo conosceva, Jane era fermamente convinta che non sarebbe esistito nessuno che fosse più adatto a fare il detective di Febo. Era felice di averlo incontrato ed era per lei fonte di ispirazione per la sua intelligenza e prontezza, e perché sembrava che avesse tutto sotto controllo.
Jane prese la penna e se la picchiettò sul mento mentre guardava la casa. Non riusciva proprio a capire perché delle persone potessero anche solo pensare a fare certe cose a una ragazzina come Blanche Woodson ed era profondamente indignata. Decise di andare da lei, una volta finito tutto e quando fossero stati tutti a casa, con o senza Meg. Blanche era il fulcro della faccenda, e lei voleva almeno vederla una volta.
Pensò che fosse veramente una strana concatenazione di eventi e si chiese se per caso non ci fosse stato un secondo fine oltre ai soldi di Grimilde ma forse c’era solamente l’affermazione sociale e la sete di potere. Da quanto vedeva nei film, spesso ciò che causava tragedie del genere erano sciocchezze legate alle manie umane e le pareva perfettamente credibile che Frollo facesse tutto quello solo perché a lui sarebbe arrivata una consistente somma di denaro o perché ce l’aveva con Esmeralda. Sicuramente voleva che finisse fra le grinfie di Ade perché era lei che voleva da un sacco di tempo.
Si domandò come aveva fatto Meg, per tutti quegli anni. Non riusciva a capire come potesse una ragazza come lei, bella e sensuale, intelligente e spiritosa, a finire sotto il controllo di Ade senza riuscire ad andarsene. Ma forse, la realtà era solo che le aveva fatto crescere un complesso psicologico non indifferente. Se l’avesse mai incontrata, pensò, le avrebbe consigliato di andare da uno psicologo. Era sicura che Meg non avrebbe mai voluto tutto questo.
Un altro messaggio la distrasse dalle sue riflessioni. Era un altro di Belle, che le diceva che Ade era uscito dall’Hell’s Fire e che stava venendo verso casa, disse che Febo aveva avvisato Esmeralda che però non aveva risposto. Le mandò un messaggio a sua volta e attese, mentre l’ansia aumentava sempre più. Non sapeva esattamente cosa pensare, ma un brutto presentimento si faceva strada in lei e cominciava a temere per Esmeralda e Clopin, anche se chiaramente non erano persone che si facevano mettere i piedi in testa. Aspettò la risposta di Esmeralda mentre si rendeva conto che i minuti si erano dilatati talmente tanto da sembrare che ci fosse un’ora fra uno e l’altro e non sessanta secondi. Cominciò a tamburellare le dita sul cruscotto, il piede sul tappetino e a mordersi le labbra fino a strapparsi una pellicina che la fece sanguinare. Jane si abbassò per prendere un fazzoletto di carta nella borsa e quando alzò lo sguardo, con orrore, si rese conto che Ade in persona stava digitando un codice sul cancello principale per entrare.
Non era come se l’era immaginato. Era molto alto, questo si, ma non era affatto grasso, anzi, molto magro e vestito con una camicia nera e un paio di jeans scuri. Non era né pelato né con l’aria da boss, solamente aveva gli occhi svegli e attivi e in testa i capelli erano sparati verso l’alto, blu elettrico. Sembrava molto giovane e pensò che non poteva avere più di quarant’anni. In ogni caso, la sua presenza incuteva soggezione.
Aspettò ancora qualche secondo, poi mandò un altro messaggio ad Esmeralda, chiedendole di uscire perché Ade stava entrando in casa. Non sapeva cosa stesse succedendo là dentro, ma sicuramente stava per scoppiare l’inferno e nessuno ne era ancora uscito. Era passata più di mezz’ora da quand’era rimasta da sola in auto, e stava cominciando a preoccuparsi.
Che fosse suonato l’allarme? Impossibile, dalla macchina l’avrebbe sentito. Che avessero trovato qualcuno dentro? Beh, Clopin alla fine aveva una pistola alla cintura. Che avessero chiamato la polizia, o Frollo, per infrazione?
Il sollievo le fece quasi perdere i sensi quando vide che dal cancello del retro uscivano, correndo bassi, tre ragazzi. Clopin era quello più indietro e sollecitava le altre due a muoversi. Jane mise in moto la macchina e si avvicinò a loro. Il ragazzo aprì la portiera e spinse dentro Esmeralda e… Meg! La ragazza era tremante e spaventata, attaccata a Esmeralda come avrebbe potuto esserlo a uno scoglio, alla sua unica salvezza. Sembrava che non stesse molto bene perché era molto pallida, ma quegli occhi viola un po’ a mandorla perforarono quelli di Jane quando la guardò, facendola restare a bocca aperta. Clopin la fece trasalire sbattendo la porta del passeggero.
“Parti, cavolo, o questi ci ammazzano!” esclamò il ragazzo. Jane inserì la prima e schiacciò l’acceleratore.


Alla Dream’s House, poco dopo, Meg venne consegnata a Febo e Esmeralda, che non le tolse più gli occhi di dosso. Jane e Belle si sentirono importantissime per essere riuscite a dare una mano nella più grande avventura delle loro vite, e scoprirono molte altre cose raccapriccianti. Meg non era scappata perché non aveva mai saputo del contratto della madre con Ade e non si sarebbe mai aspettata che in realtà fosse stata proprio lei a tradirla, a lasciarla nelle mani di colui che l’aveva sempre ricattata dicendo che se non avesse fatto ciò che lui voleva avrebbe ucciso Grimilde. Non aveva mai saputo nulla di ciò che era successo nei cinque anni precedenti ma voleva dire tutto ad Esmeralda, proprio per questo era stata trattenuta a casa di Ade. Raccontò a Febo, davanti a una cioccolata calda offerta da Cindy, che non sapeva niente della situazione ma che non voleva interferire fino al giusto momento, che Ade l’aveva sempre sfruttata, che l’aveva violentata numerose volte, che però poteva ancora avere figli e il suo più grande desiderio era stato scappare, ma che non aveva potuto.
Fu un sollievo per Jane vederla sorridere quando per sbaglio, dallo stupore, inspirò troppo forte il caffè dalla cannuccia e gliene uscì un po’ dal naso. Si augurò che stesse bene e che per lei fossero finite le sofferenze, perché quella ragazza dai capelli rossi e marroni, dagli occhi viola ipnotici e dal sorriso dolce le sembrava molto più di ciò che sembrava.
Quando uscì dalla Dream’s House con Belle le sembrava quasi di essere riuscita a risolvere un rebus fin troppo complicato. In ogni caso era finito. Il processo sarebbe stato a giorni, perché Febo aveva chiesto di farlo subito e tutti si erano offerti di testimoniare contro Ade, Frollo e Grimilde. Jane accompagnò Belle a casa, sentendosi stravolta e stanchissima, ma prima voleva fare ancora una cosa. Voleva andare a trovare Blanche.


Parcheggiò davanti all’ospedale e quando entrò si sentiva al limite delle proprie energie, così si fermò a prendere un altro caffè da una macchinetta. L’ospedale era il più costoso di tutta la città e probabilmente anche d’America, perché un semplice bicchiere di caffè le venne a costare cinque dollari. Lo bevve con sollievo, pensando che purtroppo la storia non era ancora finita ma che finalmente avevano tutte le prove per cui i buoni avrebbero potuto vincere. Le emozioni provate quel giorno l’avevano stordita talmente tanto da chiederle un sonno di almeno tre giorni.
Domandò a un’infermiera gentile e bionda, un po’ grassa, dove fosse Blanche Woodson, affermando di essere una sua amica che voleva sapere come stava. L’infermiera le fece un gran sorriso.
“Sono davvero felice che finalmente qualcuno si fa vedere” disse, mentre la guidava verso la stanza “Sai, ero sicura che Blanche avesse delle amiche, ma non è mai venuto nessuno… solo un ragazzo ogni tanto, sai, ma non era venuta nessuna ragazza… certo, posso capire che c’è stata la scuola e tutti quei problemi lì… ah, che bella età la vostra, in cui non avete altro a cui pensare se non al fidanzato e a un voto sufficiente a scuola!” Jane non disse nulla, ma non era molto d’accordo con la signora gentile. Quando entrò nella stanza bianca, con una finestra socchiusa che muoveva le tende, si sentì il cuore andare in pezzi, ma aspettò che l’infermiera fosse uscita prima di prendere una sedia, accostarsi al letto della ragazzina e scoppiare a piangere. Aveva bisogno di sfogarsi e capiva che nonostante avesse detto a tutti ciò che era successo, anche se aveva vissuto quella storia con più leggerezza rispetto a lei, si sentiva distrutta. Guardò quella ragazzina bassa, intorno al metro e cinquanta, con i piccoli seni ancora acerbi e l’espressione del viso angelica e rilassata. Blanche non aveva bisogno di mascherine per l’aria o flebo in più se non quelle per rimanere idratata e nutrita, il suo aspetto si vedeva benissimo.
Era una ragazzina bellissima, che preannunciava di diventare una donna magnifica. La pelle era molto chiara, quasi eterea, gli occhi erano chiusi ma le ciglia erano lunghe e scure e sembrava che gli occhi non esprimessero altro che dolcezza. I capelli scuri come mai Jane ne aveva visti erano ordinatamente posizionati sotto la testa, come se qualcuno avesse cercato di darle più contegno possibile. Le labbra erano naturalmente rosse, in contrasto con la pelle chiarissima. A Jane scesero copiose lacrime pensando che la ragazza avesse subito una fine del genere quando non se lo meritava affatto.
“Ora sei nelle mani della polizia” mormorò. E accadde qualcosa che la stupì. Le labbra di Blanche si incurvarono in un sorriso fiducioso, come se avesse capito perfettamente ciò che le aveva detto. Quasi spaventata, Jane chiamò l’infermiera, che accorse allarmata dal tono di voce di Jane, ma poi le spiegò con dolcezza che la ragazza capiva benissimo ciò che le si diceva, perché era stata tanto forte da sopportare tutto ciò che le era successo. Jane le chiese informazioni dettagliate.
“La ragazzina è stata drogata pesantemente di extasy” disse gravemente “Una dose del genere avrebbe potuto uccidere anche un dipendente da anni. Aveva anche tracce d’alcool nel sangue e questo aumenta solo la possibilità di morte… dopodiché è stata lacerata da sette uomini diversi che hanno abusato di lei, fortunatamente abbiamo trovato tracce di dna… quei porci non si sono nemmeno degnati di indossare un preservativo!” esclamò indignata “In ogni caso, le lacerazioni sono state così profonde che la piccola ha solo cinque possibilità su cento di riuscire a concepire un figlio. Spero vivamente che ce la faccia, perché ha il viso adatto a diventare una mamma amorevole e buona. Sono terribilmente furiosa con chiunque le abbia fatto del male. Spero che venga vendicata dalla legge”. Jane non riuscì più a trattenersi.
“Lo sarà” disse “Lo sarà, perché io e altri amici siamo riusciti a fare qualcosa. Siamo riusciti a scoprire perché è successo tutto questo e anche se non sappiamo chi siano i sette uomini, la scientifica presto lo dirà. Siamo riusciti a far saltare in aria un sistema di cattiveria pura in poche settimane, e tutto per lei”
“Dio vi benedica” rispose l’infermiera con le lacrime agli occhi, sorridendole.


Quando tornò a casa, Jane salutò distrattamente il padre, non toccò cibo e si diresse subito verso la camera da letto, lasciandosi cadere sul materasso comodo. Aveva un po’ di paura di trovarsi uno scagnozzo di Ade in camera all’improvviso, qualcuno che la volesse uccidere e farla tacere, così chiuse le imposte e la finestra, ma non accadde nulla. Scrisse un messaggio a Belle, che era da Adam, ma le rispose immediatamente dicendole che le voleva bene e di stare tranquilla.
Quando la porta scricchiolò poco dopo, per poco non si spaventò a morte, ma erano solamente Tarzan e suo padre che le portavano dei biscotti che avevano fatto quel pomeriggio.
“Cara, mi sembri molto stanca” commentò il padre.
“Lo sono” confermò Jane.
“Rimanderemo la partenza di qualche giorno, in modo che tu possa riprenderti per bene, piccola” disse dolcemente “Tarzan mi ha detto che sono state giornate molto pesanti per te e hai bisogno di riposare” Jane si domandò cosa Tarzan avesse detto al padre, ma non chiese niente.
Quando l’uomo uscì, Tarzan le sorrise.
“Jane sta bene” disse felice.
“Si, per fortuna” commentò la ragazza sorridendogli in risposta.
“Jane segue cuore e cuore dice giusto. Tarzan detto” disse lui fiero di se stesso “Tarzan contento di Jane”
“Anche Jane contenta di Tarzan. Tarzan imparato molte cose” gli disse. Lui sembrava felicissimo.
“Tarzan pensa che vuole restare con Jane.” Disse corrucciandosi di nuovo “Jane importante e Tarzan vuole lei in Madagascar. Ma quando Jane sta bene” la ragazza gli sorrise e lo abbracciò e lui ricambiò stringendola a sé.
Fra le sue braccia, cullata dal suo profumo esotico, Jane si sentì a casa. E si sentì come se non fosse mai successo nulla di brutto, come fosse ancora bambina. Poco dopo, Jane si addormentò, cullata dalla dolcezza di Tarzan, sorridendo.



 








NdA: Ciao a tutti! Come state? :D Questo capitolo è stato scritto a velocità record e devo dire che mi è piaciuto molto, anche se mi sembra che dopo la metà Jane sia diventata un po' meno Jane ma più personaggio originale, in ogni caso mi è piaciuto moltissimo scrivere di lei. Quante avventure. Avremo finalmente salvato Meg? E Blanche si risveglierà? Tutti quesiti che vedremo nelle prossime tre puntate (eh si, perchè i capitoli sono solo dieci!). In ogni caso non mi sarei mai aspettata di riuscire ad arrivare fin qui. Questa storia è davvero bella e importante per me, mi appassiono da sola xD Comunque, ho cercato di scrivere più veloce possibile perchè domani parto per la Germania e resto lì per una settimana, torno lunedì prossimo e il capitolo non era ancora finito, così... sarebbe stato tutto troppo lungo. Spero di trovare tante belle recensioni al mio ritorno :P
Passiamo ai ringraziamenti! Ringrazio di cuore marychan, Sissyl, petitecherie e Dora93 per le recensioni :) e alle persone che hanno messo questa storia fra le preferite/seguite/ricordate :) Un bacio a tutti!
Nymphna <3

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Capitolo 8
*** 8 - Meg. ***


 

Capitolo 8, Meg.
(da martedì 13 a domenica 18 luglio)

 


Meg si stava pettinando annoiata i capelli guardandosi nello specchio della ribaltina. A diciannove anni, non aveva alcuna intenzione di proseguire la sua vita. Avrebbe voluto morire anni prima. Ursula, accanto a lei, si alzò e le andò alle spalle. Le sorrise. Anche lei aveva gli occhi viola ma i capelli erano scuri e folti come quelli di Esmeralda. Meg sapeva che Ade voleva averle tutte e tre, che erano le sue preferite. Meg sapeva anche che c’era una sola cosa che Ade voleva più di quel trio che stava creando: la libertà legale, non doversi nascondere. Sarebbe stato in guai seri.
Ade era simpatico e alla fine non la trattava male, ma essere costretta a ballare mezza nuda per degli uomini arrapati, andare a letto con i suoi amici, essere usata come una bambola senz’anima… Meg ne aveva abbastanza ma non poteva fare nulla per evitarlo, perché a diciannove anni, era costretta a farsi usare per far sì che sua madre sopravvivesse.
“Andrà tutto bene” mormorò Ursula dietro di lei, credendo che stesse pensando alla faccenda di Blanche Woodson “La storia sparirà come sabbia, vedrai”
“Forse sparirà dalla faccia della terra, ma di certo non dalla mia coscienza” ribatté appoggiando la spazzola, sospirando “Avete commesso un omicidio.”
“Non è morta, quella ragazzina” commentò la mora incrociando le braccia, con un’espressione fra il preoccupato e l’offeso.
“Grazie a Dio” ribatté Meg, per poi alzarsi e andare a sedersi accanto alla finestra della grande stanza. Ciò che più avrebbe desiderato, ciò che più avrebbe voluto, era riabbracciare sua madre e riavere la sua libertà. Ma sapeva che non le sarebbe mai stato concesso.
Improvvisamente sentì una porta chiudersi, anche se leggermente, al piano di sotto. Ursula aveva ricominciato a parlare, e prese il suo posto davanti allo specchio quando la rossa si alzò. Si avvicinò silenziosamente alla porta accostata e sbirciò fuori. Sentì un altro rumore, un passo leggero, e capì che in casa c’era qualcuno e che doveva fare qualcosa. “Scendo a prendere un bicchiere d’acqua” avvisò. Poi aprì la porta e si trovò sul pianerottolo della villa. Scese le scale lentamente, con il respiro tirato, piena di ansia, timore e … cos’era quell’altra cosa? Desiderio di libertà? Speranza? Se fosse stata la polizia e avesse detto la verità … forse avrebbe potuto finalmente essere libera.
Arrivò in fondo alle scale e quando si girò, quasi urlò dalla sorpresa: davanti a lei c’erano Esmeralda e Clopin, abbigliati di scuro, che alzarono lo sguardo su di lei simultaneamente, come gemelli. Li guardò un momento, portandosi la mano alla bocca.
“Meg!” sibilò Esmeralda, andandole incontro e abbracciandola “Meg, stai bene! Eravamo preoccupati. Dobbiamo andare via”
Nella mente della ragazza vorticarono così tante cose che anche la testa cominciò a girare, si appoggiò al muro e si lasciò scivolare fino a sedersi sul primo scalino. L’amica mora si accovacciò accanto a lei, mentre Clopin andava a rovistare chissà dove. Dobbiamo andare via, le aveva detto Esmeralda. Andarsene. Via. Lontano. Fuggire, e non doversi più concedere a uomini diversi per volere di Ade, non avere più alcun patto con lui, andare dalla madre e fuggire insieme … e poi … c’era anche Herc, ma non l’avrebbe mai ammesso a se stessa. Poteva andarsene? Guardò l’amica piena di speranza per un momento, ma poi desistette.
“Non posso” bisbigliò con voce rotta “Non me ne posso andare. Tu non capisci. Ade ha …”
“Capisco meglio di te” la interruppe Esmeralda prendendole una mano fra le sue, olivastre “Capisco tutto. Sono venuta per portarti fuori da quest’incubo, perché hai bisogno di qualcuno che ti aiuti a capire la verità. Sei sempre stata circondata di bugie, Meg, e tu non te ne rendi ancora conto.” Si sedette accanto a lei, con l’aria di una che ha molto da raccontare. “E so che non te ne andrai da qua finchè non ne sarai convinta. Perciò ecco qua la storia. Tua madre ti ha ingannata” Meg trattenne il respiro.
“Non è vero”
“Certo che si. Beh, all’inizio no, in realtà, è vero che lei aveva bisogno di soldi e ti ha venduta ad Ade per averne” Meg provò una fitta al cuore sentendo parole tanto vere e tanto dure “Ma quando ti ha data a lui tu eri minorenne. Prostituire minorenni è contro la legge. E quindi ti ha sempre venduta a cifre esorbitanti. Tua madre in un anno è diventata parecchio ricca” a Meg mancò il fiato. Non aveva mai pensato a questa possibilità, essere venduta a più caro prezzo. Le avevano sempre detto che era uguale a tutte le altre, che non era speciale. “Lei si è arricchita, e ha sposato Maximilian Woodson, il padre della ragazzina che è stata quasi assassinata”
“Non è vero” ripeté Meg sentendosi mancare l’aria. Sua madre non poteva essersi risposata con un uomo miliardario dopo aver abbandonato lei nelle grinfie di Ade… lasciandola a prostituirsi per tutti quegli anni. Non poteva essere vero. Sua madre sarebbe tornata da lei appena avesse avuto i soldi per cavarsela. Non poteva essere vero.
“Te lo posso dimostrare” insistette Esmeralda “Ma non qui. Non abbiamo molto tempo. Siamo venuti a prenderti, perché Ade ti terrà sempre qua. Ci sono dei contratti dietro tutta questa faccenda, delle promesse e degli interessi.”
“Cosa? Dimmi cosa. Io non me ne posso andare. Per mia madre” ripeté Meg deglutendo. Esmeralda sospirò profondamente.
“Tua madre è guidata solamente dall’ambizione” le disse poi “Si è sposata con il miliardario Maximilian Woodson, e quando lui è morto d’infarto, lei non ci ha pensato due volte: voleva tutta l’eredità per sé, quindi ha organizzato un modo di uccidere la figliastra, Blanche.”
“Non può averlo fatto”
“No, non lei. Proprio per questo ha chiesto ad Ade di aiutarla. Tu non ne sai proprio niente?” domandò, con gli occhi smeraldo piantati nei suoi. Meg abbassò lo sguardo. Tutto stava diventando chiaro, i pezzi del puzzle si stavano riunendo per formare l’immagine finale. Le sembrava finalmente tutto molto più chiaro. Ursula le aveva parlato di una donna che le aveva commissionato il lavoro, e c’erano state delle visite in casa, ma lei era sempre stata tenuta all’oscuro. Non credeva potesse trattarsi proprio di sua madre. Sua madre era sempre stata buona e aveva lavorato duramente per sfamarla quand’era piccola e il padre le aveva lasciate… ora che ci pensava, era vero che in effetti suo padre aveva lasciato una buona somma che in breve tempo era sparita in pellicce, aperitivi e serate fra i vip, ma la madre diceva che tutto ciò era per lei, per mostrarle il mondo più bello di tutti…
“Ursula” mormorò, la bocca secca. Esmeralda la guardò un momento seria, poi proseguì.
“Ha chiesto ad Ade di aiutarla perché aveva bisogno di una ragazza giovane, magari della scuola di Blanche, in modo da poter avere l’invito alla festa di Aurora Reale. Questa ragazza doveva abbindolarla, ma soprattutto doveva essere simile a me, perché in quel caso, davanti alla scelta fra una vita dietro le sbarre di una prigione e una semi libertà, sapeva che avrei scelto lui. Sapeva che non avrei potuto rifiutare la sua offerta, perché ci conosce troppo bene. E così, il giudice Frollo, l’amico di tua madre, avrebbe potuto avermi.” Meg la guardò con sguardo vacuo, senza riuscire bene a capire cosa stava dicendo. Sembrava un meccanismo così complicato, così freddo, così disumano… ma d’altro canto, le sembrava così realistico.
“Sei sicura?” bisbigliò “Mia madre non mi ha mai realmente voluta?” lo sguardo deciso di Esmeralda vacillò.
“Non è così che dovresti prenderla” disse infine, prendendole una mano “Se verrai con noi, io prometto che tu riavrai la tua vita, indipendente, libera e senza problemi con tua madre, Ade o chissà chi altro. L’unica cosa che dovrai fare è presenziare a due processi”
“No” rispose istintivamente la rossa “I processi no”
“Un processo è per me” la disse con slancio Esmeralda “Un processo è per me! Mi stanno imputando, capisci? Frollo, Ade e tua madre vogliono far ricadere la colpa della condizione di Blanche Woodson su di me. La ragazza che hanno usato per attirare la ragazzina alla festa era simile a me, e ora Frollo, che presenzierà all’accusa, vuole accusarmi e spingermi verso la scelta di cui ti ho parlato prima. Io sarei qua come te, come tante altre ragazze. Non potrei più uscirne, perché se non facessi ciò che vuole Ade, allora finirei automaticamente in galera. È un ricatto, capisci? Un ricatto esattamente come quello che sta imponendo a te. Ma tu non puoi vivere ancora qua dentro, Meg. Tu non puoi finire qua i tuoi giorni, fra uomini che pagano cifre esorbitanti solo per averti.”
“Voglio delle prove” mormorò Meg sentendo un lancinante mal di testa “Non ci posso credere” Esmeralda la prese saldamente per le spalle e la scrollò leggermente.
“Non ci vuoi credere. È diverso. Tu non vuoi crederci perché vuoi ancora bene a tua madre. Ma senza di te, io finirò qui. Tu rimarrai qui. La ragazza che ha drogato Blanche sarà impunita. I sette uomini che l’hanno stuprata, lacerandola e togliendole quasi l’opportunità di avere figli non saranno messi in galera. Blanche resterà in coma per sempre, e quando si risveglierà, vostra madre troverà un modo per liberarsene. Perché no, facendola sembrare pazza e chiudendola in un ospedale psichiatrico.” Disse duramente “Vorrei solo che tu mi dessi un’opportunità. Vieni con me adesso, e se non ci crederai, potrai sempre tornare”
“Es” chiamò Clopin avvicinandosi a loro col cellulare in mano “Mi dicono che Ade se n’è andato dall’Hell’s Fire. Sta venendo qui” la mora guardò Meg urgentemente.
“Dobbiamo andare. Vieni con noi. Ti prego” la implorò, stringendole forte le mani.
“Meg?” chiamò Ursula dal piano di sopra “Sei morta in cucina?”
“No, va tutto bene, ora arrivo!” esclamò Meg, non seppe nemmeno bene perché avesse mentito. Guardò Esmeralda confusa.
“Se non è la verità, mia madre …”
“Se non è la verità, allora tu andrai di nuovo con tua madre e troverete un altro modo per salvarvi. Te lo prometto” disse Esmeralda “La strada da seguire non è solo quella di mandare la figlia a prostituirsi. Non è questa la via. Tua madre la incontrerai al processo. Le potrai parlare. E se vorrai, anche prima.”
“Potrò chiederle perché mi ha fatto questo?” domandò Meg ancora confusa, ma quasi convinta a fuggire. Il cellulare nella tasca di Esmeralda vibrò.
“Certo. Potrai chiederle qualsiasi cosa. Saremo liberi. Ma tu dovrai aiutarci”
“Es, si sta facendo un problema serio” le interruppe di nuovo Clopin “E’ arrivato” Esmeralda lo ignorò deliberatamente e si rivolse all’amica.
“Allora, vieni?”
“Vengo”


La strana compagnia si fermò a prendere qualcosa da mangiare e bere alla Dream’s House. Oltre a Meg, c’erano Esmeralda e Clopin, felici ed elettrizzati per avercela fatta e per essersi salvati al pelo, una ragazza con grandi occhi azzurri che la scrutava incuriosita e un po’ preoccupata, un poliziotto biondo con una barbetta da capra e un’altra ragazzina, dai lunghi capelli castani, che sembrava essere stata al limite dell’infarto.
“Okay, ora ti presento i nostri amici” disse Esmeralda gentilmente, appoggiando una mano sul braccio di Meg “Questa è Jane, è stata lei che ha avuto tutte le intuizioni e che ha scoperto quasi tutto.” Jane fece un sorriso sghembo e alzò la mano in cenno di saluto, “Questo è Febo, il detective che si è preso carico di tutta la faccenda. Sembra stupido, ma in realtà è un bravo ragazzo”, Febo storse il naso, “E questa è Belle …” trattenne il respiro un momento “La ragazza di Adam Castle”
Per Meg fu un po’ come essere colpita al cuore da una pallottola. Ricordava cos’era successo pochi anni prima con Adam Castle, e certamente non era un episodio che amava ricordare. Era da quel momento che si era veramente resa conto di essere prigioniera, e che probabilmente non sarebbe più uscita dal giro. Persino in quel momento, ancora non si sentiva libera. La guardò un momento con interesse. Non sembrava affatto la ragazza che potesse piacere all’Adam che aveva conosciuto lei. Aveva gli occhi castani decisi e grandi, sormontati da lunghe ciglia che le conferivano un’aria da cerbiatto, i capelli castani mossi, lunghi, i tratti regolari, vestita bene, poco appariscente. Sembrava il prototipo della ragazza secchiona, quella che a scuola ha tutte “A+”. Si chiese cosa fosse successo ad Adam in quegli ultimi anni. Perché, da come lo ricordava lei, o la stava usando, o era solo una copertura per qualcos’altro.
“Adam Castle?” domandò, fissandola negli occhi. Belle mantenne lo sguardo. Per Meg fu un’esperienza insolita. Tutti distoglievano sempre gli occhi dai suoi, quando li guardava in modo penetrante. Sapeva che i suoi occhi viola perforavano l’anima. Quella ragazzina doveva essere veramente innamorata, per reggere il suo sguardo senza battere ciglio. “Da quant’è che state insieme?”
“Due settimane e mezzo” rispose l’altra. Meg sorrise quasi sprezzante.
“Dovrei fare una bella chiacchierata con lui”
“No, prima la fai con me” la contraddisse la ragazzina “Non hai niente da dirgli che non possa sentire anche io, ne sono sicura.”
“Perfetto” accordò Meg “Ma se non ti piacesse cosa sentirai, non dare la colpa a me”
“Ehi, ragazze” le interruppe Febo “Non scannatevi qui, è un luogo di pace. Meg, mi dispiace per ciò che ti è successo. Ora cercheremo di rimediare. Per prima cosa, cercherò di mettermi in contatto con tua madre, se la vorrai vedere. E poi, per favore, vorrei anche che frequentassi una psicologa per un po’ di tempo… la chiamerò io appena tornato in caserma. Provvederò a farti dire a che ora e quando, d’accordo?” Meg annuì “Avrai una scorta, ovviamente. Metterò alcuni dei miei uomini sempre intorno a te.”
“E dove starò?” domandò la rossa.
“Potresti venire a casa mia” propose Esmeralda “E’ sempre stata aperta per te” Meg le sorrise.
Lei ed Esmeralda erano uguali, ecco perché erano diventate amiche tanto facilmente. Entrambe avevano due lati di loro stesse. Uno era quello che mostravano al mondo, quello arrogante, autoritario, quello che le proteggeva. Ma poi, prese nel modo giusto, erano in realtà fragili e sensibili. Meg era contenta di passare
del tempo dall’amica, nel futuro prossimo. Sapeva che ci sarebbero stati discorsi spinosi, lacrime e sofferenza, ma non aveva intenzione di mollare. Questa volta era decisa a scoprire la verità su sua madre. Non aveva mai chiesto nulla, certa che ciò che le diceva Ade fosse vero. Certo, l’aveva insospettita il fatto che non le avesse mai mandato lettere o regali o cartoline, e ancora di più non era mai andata a trovarla, ma aveva sempre pensato che fosse perché era una donna impegnata a sopravvivere, senza tempo superfluo per cartoline d’auguri o visite da Ade. Aveva pensato che forse si era sentita inadeguata al posto, a disagio, o… si rendeva conto solamente adesso che erano tutte scuse che si era data nel corso degli anni. Esmeralda era arrivata ad insinuarle il dubbio, che si stava facendo sempre più forte, man mano che realizzava che era seduta a un popolare bar del centro con un poliziotto, che questo le aveva chiesto di andare da una psicologa per un tempo indeterminato e che avrebbe avuto una scorta nascosta da qualche parte dietro di lei ovunque andasse. Non si sentiva braccata, solamente in una situazione tremendamente seria.
Tornarono a casa verso sera, Esmeralda e Meg insieme, ma alla rossa non sfuggì il bacio nascosto che si erano dati l’amica e il poliziotto, e che si erano sfiorati le mani affettuosamente, fin troppo per essere solamente soci.
“Allora, con questo poliziotto?” domandò mentre Esmeralda apriva la porta di casa con le chiavi. Sorrise.
“Beh, mi piace.” Disse poi alzando le spalle “E’ intelligente, intuitivo, molto più aperto di idee rispetto a chiunque altro. Ha la sua testa e con quella ragiona, ha le sue idee e le rispetta. Certo, sarà anche un pallone gonfiato, a volte, un viziato, uno che crede di avere il mondo in mano … ma alla fine è gentile e farebbe di tutto per le persone a cui tiene. Mi ha salvato la vita, sai. Sotto la divisa, ha ancora le fasciature della pallottola che si è preso nel braccio per salvarmi.” Meg era a bocca aperta “Frollo aveva mandato un sicario per uccidermi, dopo che avevo rifiutato di concedermi a lui, sai. Ma non aveva calcolato che Febo sarebbe rimasto con me.”
“E’ una bella storia” commentò Meg entrando in casa.
Il piccolo appartamento di Esmeralda era disordinato ma accogliente. Davanti alla tv c’era un divano su cui erano buttate coperte e cuscini, dietro il quale c’era un piccolo tavolino rotondo con qualche sedia spaiata. Lì dietro, in una stanzetta a parte, c’era il cucinotto, accanto il piccolo bagno e in fondo alla stanza la camera di Esmeralda. Meg sapeva che l’amica non dormiva quasi mai nel suo letto, testimone era il divano disfatto.
La mora chiuse a chiave la porta, poi entrò in cucina e cominciò a preparare qualcosa da mangiare. Meg si lasciò cadere sul divano e fissò il soffitto, pensando che era una vita che non guardava un telegiornale. Accese la televisione e ascoltò le notizie che arrivavano dalla Siria, dal Texas. Ragazzo scomparso in Florida. Rapina in una banca a Washington. Manifestazione in Wall Street.
“Ed ora parleremo ancora del caso della ricca ragazzina ereditiera finita in coma meno di un mese fa.” Disse la voce della giornalista col caschetto nero che presentava le notizie “Siamo in collegamento con l’ospedale in cui è tenuta la ragazzina, a te la linea, John”
“Si, eccomi, Mary” disse un uomo con una camicia beije e un’orribile cravatta rossa sopra “Siamo davanti all’ospedale di cui non faremo il nome per privacy, la ragazzina è qua dentro e le infermiere dicono che è ancora in coma. La ricca ereditiera Woodson è in condizioni sommariamente buone, respira da sola e reagisce agli stimoli. Non è così, dottoressa Swann?”
“Esattamente, John” rispose l’infermiera “Sta bene, abbiamo speranza che si risvegli entro un breve lasso di tempo. Pensiamo che sia una ragazzina davvero forte, e ringraziamo tutti i ragazzi che le hanno mandato regali e testimonianze del loro affetto: le date molta forza”
“E in quanto agli uomini che l’hanno stuprata, sapete qualcosa?” domandò ancora John. Meg si mise seduta e si sporse in avanti. Non riusciva a credere che Ursula, la sua compagna di stanza, la ragazza che viveva con lei da anni, avesse fatto una cosa del genere.
“Si, stiamo lavorando sugli ultimi due dna. Hanno eiaculato all’interno della ragazzina, non è stato difficile trovare i residui e analizzarli. Ovviamente la polizia sta già lavorando sul caso e li sta cercando, stiamo mandando i risultati al commissariato di Manhattan e confidiamo nel lieto fine” concluse l’infermiera bionda, per poi ritirarsi.
“Bene, ed ora parliamo con il detective Sungood, che segue l’intera vicenda in prima persona.” Febo comparve nello schermo e Meg si morse un labbro. Chissà cos’avrebbe detto … se avrebbe parlato di lei. “Allora, detective, a che punto sono le indagini?”
“Abbiamo una buona pista” disse il ragazzo con un tono serio che Meg ancora non aveva sentito “Abbiamo trovato un testimone, ma rimarrà anonimo finché sarà suo desiderio rimanere tale. Stiamo risolvendo il mistero, ma ricordatevi solo questo: nulla è come sembra”
“Quanto gli piace fare queste battutine da film …” mormorò Esmeralda dietro di lei, facendola sobbalzare.
“Il testimone sono io, vero?” domandò Meg. L’amica alzò le spalle, passandole un piatto con degli involtini primavera e dei ravioli cinesi.
“Ovviamente. Ma puoi fidarti di lui, non dirà mai il tuo nome”
“Lo spero” disse la rossa mordendo un involtino.


Il giorno dopo fu per Meg decisamente traumatico, perché venne svegliata da Esmeralda che le annunciava che l’avrebbe accompagnata dalla psicologa, Febo le aveva dato il numero e l’indirizzo e aveva già preso appuntamento.
Meg non era mai stata da uno psicologo prima, ma se li aspettava davvero diversi. Si era immaginata una donna abbigliata con colori neutri, occhialini sulla punta del naso, capelli raccolti e l’aspetto trascurato dei topi di biblioteca. La psicologa Juno non era affatto così.
La accolse una donna alta un metro e ottanta abbondante, magra e slanciata come una modella, con una camicetta a mezze maniche di un intenso color fucsia infilata in eleganti pantaloni Prada. Lunghi boccoli biondi le cadevano sulle spalle come nuvole e gli occhi azzurro intenso davano alla sua espressione qualcosa di vibrante e vivo. Le tese la mano con unghie perfettamente curate e in tinta con l’abito e l’invitò ad accomodarsi. Meg entrò, sentendosi in imbarazzo in quello studio tanto luminoso e bello, arredato in maniera impeccabile e che rendeva perfettamente l’idea della personalità della dottoressa Juno.
“Vieni, cara, accomodati pure” disse indicandole una sedia imbottita, girevole “Sono felice di conoscerti. Io sono Aileen Juno, il detective Sungood mi ha chiesto di fare qualche incontro con te per discutere del tuo passato, aiutarti a superare il trauma e ricominciare una nuova vita.”
“Grazie” mormorò Meg incrociando le braccia, sentendosi terribilmente a disagio.
“Oh, tesoro!” esclamò la donna portandosi una mano alla bocca “Non farmi quell’espressione così ostile. Non voglio mica tirarti fuori il cuore, insomma! Vorrei solo sapere come stai, e se mi vuoi parlare di qualcosa. Dammi pure del tu, per favore. Vuoi una caramellina?” Meg declinò l’offerta, sentendosi ancora peggio. Si schiarì la voce riaccomodandosi sulla sedia.
“Sto… bene. Credo” disse poi “Insomma, non sto male”
“Sono contenta” sorrise la dottoressa Juno “Come ti sei trovata a casa di Esmeralda? Siete amiche da molto tempo?”
“Si, un bel po’.” Disse Meg. Avrebbe voluto trattenersi, non parlare, ma dopo aver trattenuto il respiro le parole le uscirono come un fiume in piena. La dottoressa le infondeva calma e sicurezza, come una figura materna mai avuta. Non assomigliava affatto alla madre, anzi, ma era terribilmente tranquilla e sembrava che non l’avrebbe giudicata. “Ci siamo conosciute un anno fa, poco prima di prendere il diploma insieme. Ade mi aveva detto che voleva anche Esmeralda nel suo trio. Ci chiamava le sue Parche… eravamo diverse dalle altre. Loro venivano chiamate Muse solo per farle sentire importanti, noi lo eravamo davvero. Vivevamo con lui, nella sua casa. Provvedeva lui a tutto. Ci dava nomignoli, anche, come “la tenditrice” o “la tagliatrice”. Non so perché avesse questa fissa, ma voleva me, Ursula e Esmeralda. Esmeralda non era così stupida da cadere nella sua rete come me, e nemmeno così ambiziosa come Ursula. Lei aveva sempre rifiutato di fare società con lui. Poi è successo il fatto di Adam, e da allora siamo diventate molto più amiche. Ade voleva che la portassi dalla nostra parte, a lavorare con noi, ma io non volevo, mi sono ribellata. Volevo parlarle, dirle di scappare, che mi stava per chiudere in casa per qualche motivo che non avevo capito… ma non ne ho avuto il tempo”
“Ho capito” annuì la dottoressa “Allora siete amiche da tempo. Mi hai parlato di un certo Adam … vuoi raccontarmi di lui?”
“Io …” mormorò la ragazza. Deglutì. Era una parte del passato di cui non voleva avere ricordi.
“Non sei costretta, se non vuoi”
“Lui era il ragazzo più bello della scuola” mormorò Meg “Era bellissimo. Aveva quei capelli lunghi, biondi, color miele, gli occhi magnetici, un corpo da favola. Era il migliore della scuola, aveva voti ottimi, varie borse di studio … era veramente una persona fantastica. Io me ne innamorai. Ero pazza per lui. Avrei fatto qualunque cosa pur di tenermelo accanto. Sapevo che piaceva anche a Esmeralda, e anche lei ci aveva provato con lui, forse in maniera più diretta… io un giorno, al Bazar, quando lo vidi che sceglieva una ragazza, lo portai nella stanza delle droghe e gli chiesi di fare l’amore con me. Gli offrivo il mio corpo gratis, in cambio di un po’ d’amore. Lui accettò. Ma poi non venne più per molto tempo. Non mi diede l’amore che desideravo, quello che gli avevo chiesto. Non venne mai da me. Così, un giorno, scappai dalla casa di Ade e andai a cercarlo. Lui mi disse che non aveva avuto tempo, che era stato via, all’università. Sembrava confuso, sembrava che non capisse cosa stesse succedendo. Io gli ho chiesto di portarmi all’università con lui, che sarei stata buona, che avrei lavorato. Gli dissi che l’amavo, che volevo stare con lui. Adam accettò di nuovo, poi mi disse di aspettarlo davanti alla scuola a mezzanotte. Andai lì e lo aspettai. Lo aspettai fino all’alba, poi, stanca, delusa ma ancora speranzosa, andai a cercarlo. Lo trovai al parco, perdeva sangue e non mi voleva parlare. Io lo aiutai. Lo portai all’ospedale e gli feci medicare la ferita che gli aveva inferto Gaston con dei vetri, penso. Per pagare l’operazione, rubai in una piazza. Poi, quando lui fu guarito, andai a trovarlo. Ma lui non mi voleva vedere, e quando mi gettai a terra, in ginocchio, supplicandolo di parlarmi, mi schiaffeggiò così forte da farmi uscire sangue dalla bocca. Tornai al bazar. E Ade mi punì. Non avrei mai più avuto la libertà, così mi disse.”
“E’ una storia molto triste” sussurrò la psicologa con le lacrime agli occhi “Oh, povera piccola … e ti è rimasto questo mostro nel cuore, adesso?”
“Lui è fidanzato” rispose Meg “E’ passata. E io…” la guardò di sottecchi. Non osava parlare di Herc. Non poteva parlare di lui. Se ne avesse parlato, ciò che provava per lui sarebbe diventato dannatamente vero. Ma lei sapeva che lui non avrebbe mai potuto ricambiarla, non Herc. Quel ragazzo era di buona famiglia, ricco, un ragazzo che andava bene a scuola, un campione di boxe, con uno stuolo di ragazze ai piedi. L’aveva visto qualche volta, da lontano, ed era sembrato così sperso, così gentile. Non le pareva che fosse cattivo. Forse, solo un po’ ingenuo. Ma un ingenuo, forse un po’ sempliciotto come lui, non poteva certo amare una ragazza come lei, complicata e con un passato oscuro alle spalle. “Io sono … beh, c’è un altro ragazzo.”
“Oh, che meraviglia. Vuoi parlarmi di lui? Ne sei innamorata?” domandò Juno, di nuovo allegra.
“No. Non sono innamorata di lui. Lui è solo uno dei tanti. Non credo sia diverso” disse alzando le spalle.
“Perché non provi a parlargli?” la incoraggiò la psicologa.
“Perché lui è un campione, è bello, è buono, è di buona famiglia, è ingenuo e… un megafusto. Un megafusto che non rivolgerà mai i suoi occhioni di zaffiro su di me. E comunque, non ho mica detto che sono innamorata”
“No, certo” confermò sorridendo la donna “Ascolta, Meg, io penso che ci dovremmo rivedere presto, che ne dici? La prossima volta potremo ancora parlare di questo megafusto e di come sta andando la tua vita. E, magari, parleremo anche un po’ della tua famiglia, d’accordo?” Meg annuì “Preferisci incontrarti qui o da un’altra parte? Per me va bene ovunque. Vuoi venire a casa mia?” il suo viso si illuminò “Potrebbe piacerti. È molto bella. Potrei offrirti la mia specialità, i biscottini con la gelatina di fragola. Ti piacciono i biscotti?” Meg sorrise. Quella donna le piaceva. Era gentile, disponibile. Le sembrava una mamma calorosa.
“Va bene” acconsentì “Posso avere l’indirizzo?”
“Oh, certo, certo” disse l’altra con un gran sorriso sulle labbra “Ecco qua”. Le consegnò un biglietto da visita con scritto sul retro l’indirizzo di casa “Che ne dici di dopodomani?”
“Okay”
“Allora ciao, Meg, a dopodomani!” la salutò con un abbraccio. Mentre Meg raccoglieva la borsa, alla psicologa squillò il telefono e corse a prenderlo nella borsa. La ragazza aprì la porta. “Oh, ciao tesoro. Si, tutto bene. Dopodomani viene a casa una paziente, una ragazza adorabile. Mi raccomando, non fare brutte figure!” Meg uscì, immaginando che stesse parlando col figlio. Sentì una fitta al cuore e uscì dalla stanza. Per la prima volta, nella sua vita, si sentiva terribilmente sola.


Esmeralda quella sera la portò a mangiare alla Dream’s House e poi in un tranquillo bar jazz in fondo a una strada di cui Meg non aveva mai sospettato l’esistenza. Febo le aveva accompagnate per assicurarsi che andasse tutto bene e per svagarsi, per una sera, così come anche Belle, Jane, uno strano selvaggio che continuava a chiedere “perché” di qualsiasi cosa, una ragazza di nome Cindy col viso gentile, il suo ragazzo Christopher, incredibilmente in tiro nonostante fosse una serata qualsiasi e Adam. A Meg non andava a genio la sua presenza. Non era più innamorata di lui, chiaramente, ma era ancora offesa. Il ragazzo, saggiamente, fece finta di non conoscerla. La salutò solo con un semplice ‘ciao’ quando si incontrarono. Quando si furono sistemati, Febo, Christopher e Adam andarono a prendere da bere, mentre il ragazzo che scoprì chiamarsi Tarzan rimase sotto il controllo di Jane. Meg si appoggiò a una mano guardando le cinque donne che cantavano sul palco. Erano abbigliate in modo strano, anni venti o trenta, e cantavano appassionatamente qualcosa che parlava di un eroe di tempi antichi. In quella, le si avvicinò discretamente Belle.
“Meg, Adam mi ha raccontato cos’è successo fra di voi” le disse timidamente “Mi dispiace molto. Vorrei dirti perché si è comportato così”
“Si è comportato così perché è come tutti gli altri, d’accordo? Mi basta solo questo” tagliò lei.
“No, non proprio. Non sei l’unica a cui sono successe cose orribili” Meg le rivolse un’occhiata annoiata.
“Non è lui la vittima, d’accordo?” Belle inspirò profondamente.
“Lo è stato. Permettimi di spiegare” Meg incrociò le braccia e si lasciò andare all’indietro, appoggiandosi allo schienale. La guardò. “Lui era amico di Gaston. Sicuramente saprai chi è. Gaston l’ha spinto ad andare all’università lontano, e quando lui è tornato per venire a trovare i suoi genitori, Gaston l’aveva diffamato davanti a tutti. La sua famiglia non lo riconosceva più, i suoi amici non lo volevano più nel loro gruppo, le ragazze lo guardavano come se fosse disgustoso, non aveva più proprio nessuno. I suoi migliori amici lo andavano a cercare per picchiarlo, capisci? Ecco come si è procurato quella cicatrice. So che sei stata tu a curarlo, ed è proprio per questo che lui …” frugò un momento nella borsa e tirò fuori una busta “Voleva darti questi. Sono i soldi dell’intervento” glieli porse, e Meg venne colpita dalla nuova consapevolezza del cambiamento di Adam. Si rese conto che per tutto quel tempo aveva pensato male di lui, mentre anche il ragazzo stava passando un periodo terribile. Guardò la busta e scosse la testa.
“Non c’è problema. Non mi servono soldi. Io l’ho fatto solo per amore” concluse, per poi alzarsi, lasciando Belle a bocca aperta, pronta a ribattere qualcosa che non disse mai. Meg decise di uscire un momento, aveva bisogno di un po’ d’aria, e magari di una sigaretta. Esmeralda gliene aveva comprato un pacchetto quella mattina, e un accendino con sopra dei disegni carini raffiguranti teschi e cuori. Appena uscita si appoggiò al muro dietro di sé e si accese la sigaretta. Aspirò il fumo a fondo, cercando di ritrovare il suo equilibrio emotivo. Gli eventi di quel giorno l’avevano sconvolta. In quel momento la porta del retro si spalancò ed uscì un ragazzo che subito si sedette a terra, nell’ombra della notte. Meg lo guardò un momento, senza riuscire a distinguerlo per il buio. Lì dietro c’era solo un piccolo giardino e una luce scarica sopra la porta. Il ragazzo sospirò.
“Atmosfera pesante, lì dentro, eh?” domandò Meg, senza sapere bene perché avesse parlato. Il ragazzo si girò e la guardò, e lei colse la sfumatura bionda dei suoi capelli ricci.
“Troppo. Avevo bisogno di prendere un po’ d’aria” ammise lui “Sai, non sono più convinto che i miei amici siano molto amici. Sto cominciando a farmi delle domande”
“Pessimo inizio” sorrise lei “Farsi domande sugli amici porta inevitabilmente alla rottura”. Seguì un momento di silenzio.
“E tu? Come mai avevi bisogno d’aria?” domandò poi il ragazzo.
“Perché la gente è meno peggio di ciò che pensassi” rispose lei evasiva.
“Non dovrebbe essere una buona cosa?”
“No, se ti sei prefissato di non contare più su nessuno” disse Meg sorridendogli. Il ragazzo si alzò e le si avvicinò.
“Comunque io sono Herc, piacere” disse tendendole la mano. Meg ammutolì. Herc. Proprio lui. ‘Merda’ fu l’unica parola che riuscì a trovare per definire come si sentiva in quel momento. Si umettò le labbra, deglutì, abbassò gli occhi cercando di non sembrare troppo impacciata e si fece avanti. Lo osservò per un lungo momento prima di infilare la mano nella sua, sorridendogli. Era veramente bellissimo. La forma del viso era già da uomo, con una fossetta sul mento e il naso dritto, il labbro inferiore leggermente più grande di quello superiore e un leggero accenno alla barba bionda sulle guance. Ma i suoi occhi chiari, i suoi occhi erano ancora da ragazzino, e vedevano il mondo ancora con semplicità infantile.
“Meg” disse lei stringendosi nella felpa leggera per il fresco dell’aria della sera. Quando arrivò alla luce, Herc la guardò trattenendo leggermente il respiro, poi le sorrise dolcemente, rendendo la sua espressione ancora più tenera. ‘Diglielo’, disse qualcosa nel profondo del cuore di Meg, ma lei non cedette e staccò la mano, aspirò un po’ di fumo e si appoggiò nuovamente alla parete con una spalla, sorridendo impacciata.
“Allora, Meg … mi sembra di averti già vista da qualche parte” attaccò bottone lui intrecciando le mani fra loro e mostrando i muscoli guizzanti dei pettorali. La ragazza deglutì.
“A scuola” disse poi “Andavamo alla stessa scuola. Eri piuttosto famoso. A che anno sei, adesso? Al secondo?”, erano parole che non avevano molto di gentile, un po’ per difendersi dall’emozione che le causava sapere che Herc non solo le stava parlando e le si era presentato, ma addirittura l’aveva notata da qualche parte, un po’ per scherzare, ma sembrò che lui ci fosse rimasto male, perché la guardò con i chiari occhi velati dalla tristezza, alzando le sopracciglia verso l’alto. Sembrava un cagnolino bastonato. ‘Oh, al diavolo’, si disse Meg, ‘Non puoi fare così. Non con me’.
“Ho finito questo mese” disse lui.
“Ah, complimenti. Hai intenzione di fare l’università?”
“No, vorrei continuare con la boxe.” Disse lui nuovamente felice, illuminandosi “Ho già fatto diverse gare, ma adesso comincerò seriamente. Ho diciotto anni ormai, sono nel mondo degli adulti” scherzò. Meg gli sorrise.
“Boxe. Meraviglioso. Ascolta… adesso devo andare” disse buttando la sigaretta a terra “I miei amici mi daranno per dispersa. Sono andati a prendere da bere, sai… magari ci vediamo dentro okay?” mise la mano sulla porta e si girò a guardarlo da sotto le ciglia lunghe “A presto, megafusto”
Il resto della serata era passato meglio di quanto pensasse. Adam e Belle se n’erano andati prima per passare un po’ di tempo da soli, mentre gli altri avevano intavolato un’assurda discussione dettata dall’alcool basata su elefanti rosa e bolle di sapone. Si divertì un mondo. Al momento di tornare a casa, quasi le dispiacque di lasciare la compagnia, perché in fondo si era trovata bene. Si addormentò col sorriso sulle labbra, sospirando, felice di aver parlato con il ragazzo di cui era innamorata da così tanto tempo.


Si presentò davanti alla casa della psicologa con un paio di jeans viola di Esmeralda e una camicetta bianca in perfetto orario. Erano le tre precise quando bussò alla porta. La dottoressa Juno le aprì. Era più bella dell’ultima volta, con i boccoli raccolti in un morbido chignon e un grembiule intorno alla vita. Sembrava circondata da un’aura dorata.
“Oh! Cara, come sei puntuale. Entra pure!” disse, aprendole la porta e affrettandosi a sciogliere il nodo del grembiule “Non pensavo arrivassi così puntuale, devo ammetterlo… io sono una ritardataria… ma entra pure, tranquilla. Vado a tirare fuori i biscotti dal forno. Stavo preparando una limonata dolce, ne vuoi un po’?”
“Grazie, dottoressa”
“Ti ho detto di darmi del tu” le disse con aria fintamente imbronciata, mettendosi i pugni sui fianchi “Ah, ma questi ragazzi d’oggi sono troppo beneducati … ai miei tempi, dare del tu a un’insegnante o a un dottore era d’obbligo, per sentirsi un po’ trasgressivi. Tesoro!” urlò dalle scale “Scendi, è arrivata la nostra ospite!” attese un momento ma non arrivò nessuna risposta dal piano di sopra. “Herc!!”
Meg venne assalita da una terribile sensazione. Herc. Aveva appena chiamato suo figlio Herc. Si guardò intorno come a cercare una via d’uscita, e venne colpita da una foto di famiglia. I tre erano sulle scale dell’entrata, in una bellissima giornata di sole, dietro di loro la villetta stile greco, candida, si stagliava contro il cielo blu. E poi c’erano loro. A sinistra, il padre, un omone che sembrava essere stato un sollevatore di pesi, con due braccia che erano quasi il doppio di quelle del figlio e un’altezza ancora superiore: rasentava chiaramente i due metri. Aveva una ricciuta barba bionda tenuta bene e aveva un caldo sorriso felice. A sinistra, Aileen Juno, la psicologa, raggiante nella sua camicetta di seta rosa pallido, che stringeva una spalla del figlio. E lì, proprio in mezzo a loro, c’era Herc. Bellissimo, con quei occhi da ragazzino divertiti. Era stato chiaramente colto nel bel mezzo di una risata. Meg provò il bruciante bisogno di fare dietrofront e andarsene da casa. Ma quando rivolse il suo sguardo alle scale lo vide lì, stupito quanto lei, con pantaloni di una tuta blu e una t shirt bianca, i piedi infilati in un paio di infradito, una fascia sulla fronte. Rimasero entrambi a bocca aperta per un lungo momento.
“Meg?” esclamò poi lui per primo. Meg sorrise debolmente.
“Eh, già. Com’è piccolo il mondo, eh?” disse, cercando di resistere all’impulso di mettersi a urlare e strapparsi i capelli, non sapeva bene se per il panico o per la gioia.
“Oh, ma allora vi conoscete già!” esclamò la madre di buon umore “Andate pure in salotto, cari, io vi porterò i biscotti!”. Sparì in cucina.
“Meg!” esclamò Herc passandosi una mano fra i capelli, disordinandoli in maniera talmente sensuale da far asciugare la bocca alla ragazza “Che sorpresa. Eri proprio tu allora, la ragazza di cui ha parlato tanto mamma… come va?”
“Bene, tutto bene. A te?” domandò lei cercando di sembrare felice.
“Tutto bene.” Sorrise imbarazzato “Vieni, andiamo in veranda. Farà più fresco che in salotto.” Meg lo seguì in una verandina meravigliosa. Era sopraelevata rispetto al giardino ben curato, di marmo e mattone, con delle comode poltrone intrecciate e candidi cuscini, una tenda li proteggeva dal sole ed effettivamente si stava da dio. Herc si sedette su un divano da due posti e Meg prese posto su una poltrona singola, sfregandosi le mani, cercando di trovarsi un po’ meno in imbarazzo.
“Allora… a tua madre piace cucinare, eh?” domandò.
“Si, moltissimo. Quando abbiamo ospiti a cena si scatena” ridacchiò “Una volta ha preparato un pasto da ristorante a cinque stelle, solo perché veniva un collega di mio padre a cena da noi! Una volta dovresti venire” Meg gli sorrise “Tua madre non ama cucinare?”
“Tasto dolente” disse Meg alzando le mani, cercando di sviare dal discorso, che stava andando sul pericoloso “Non mi piace parlare di mia madre”
“D’accordo, scusami” disse lui, e fra loro cadde un ennesimo silenzio imbarazzante.
Furono salvati dalla dottoressa Juno, che arrivò portando un vassoio gigantesco carico di dolci e limonata. Parlarono tranquillamente fra di loro, e Meg constatò di essere stata davvero stupida a non rendersi conto prima che fossero madre e figlio, perché erano perfettamente identici. Avevano gli stessi capelli biondi, gli stessi occhi azzurri giovani e luminosi, lo stesso portamento,lo stesso modo di cambiare umore in un secondo in base a ciò che veniva detto, la stessa risata. Erano veramente simili. Meg si sentiva un po’ un’estranea, quando si rese conto di quanto quella famiglia dovesse essere unita e quanto affetto doveva esserci fra di loro. Si sentiva tremendamente diversa, pensava quasi che fossero di due universi paralleli. Madre e figlio avevano una sintonia perfetta, finivano le frasi l’uno dell’altra ed avevano lo stesso modo di esporsi.
Dopo che il piatto di biscotti fu vuoto e la caraffa di limonata quasi finita, la dottoressa chiese ad Herc un po’ di privacy e il ragazzo andò al piano di sopra promettendo che si sarebbe messo ad allenarsi un po’ e non avrebbe spiato.
“Siete una famiglia così bella” commentò Meg quando se ne fu andato “Ora capisco molte cose di lui. Capisco perché è così buono, così fanciullesco, così gentile.”
“Oh, sono troppi complimenti” si schernì la dottoressa “Non abbiamo fatto niente. Io e Jupiter abbiamo solo cercato di fare le cose al meglio per farlo crescere corretto e onesto, e specialmente nel rispetto altrui. Non pretendiamo altro, e anche se è uscito da scuola con una ‘B’ invece che con una ‘A’, siamo felici perché sappiamo che ce l’ha messa tutta”
“Avrei voluto anche io avere dei genitori come voi” mormorò Meg.
“Vuoi parlarmi della tua famiglia? E di Ade?” domandò Aileen.
“Non ho un granchè da dire” ammise Meg stringendosi nelle spalle “In realtà mio padre sparì quand’ero ancora piccola, andò solo via, lasciando a mia madre un’eredità buona. Mia madre usò tutti i suoi soldi per comprarsi pellicce e andare a feste e aperitivi qui a Manhattan, dicendomi che era tutto un gioco per me. Questo finchè i soldi non sono finiti, e lì sono cominciati i problemi. Usciva ogni settimana con un uomo diverso, lo accompagnava a ricevimenti o feste e tornava a casa la mattina presto, stanca e spettinata. Non si prendeva nemmeno il disturbo di portarmi a scuola. Quando ho compiuto quattordici anni mi ha mollata ad Ade, dicendo che lui mi avrebbe fatta lavorare e che i soldi che guadagnavo l’avrebbero aiutata a sopravvivere. Io sono andata a vivere da lui, aveva il contratto della mia custodia, perciò stavo nella sua villa. Di mia madre non ho più saputo nulla fino a quattro giorni fa, quand’ho scoperto che è una puttana assassina” la dottoressa si esibì in un sospiro sconsolato, scuotendo la testa.
“Quanto mi dispiace. Queste cose non dovrebbero accadere al mondo. Ecco perché faccio la psicologa, per aiutare le persone a ricominciare dopo un’esperienza così terribile” commentò “E di Ade, vuoi dirmi qualcosa?”
“Ade non era cattivo con me. Mi portava regali. Faceva ridere. Era un po’ un esaltato” disse Meg “Gli piacevo moltissimo, e io sono stata la prima delle Parche. Mi ha garantito un’istruzione e una vita decente per il giorno, ma la notte cambiava tutto. La notte diventava irritabile, a volte violento. Ci portava in macchina fino al Bazar e ci costringeva a ballare per gli uomini. La prima volta che sono dovuta andare con uno di loro ero terrorizzata. Poi, col passare del tempo, tutto è diventato normale. Dovevo solo ricordarmi ogni tanto di fare finta di ansimare o di provare piacere. Tutto qua.”
“Ti andrebbe di fare una visita ginecologica, un giorno di questi? Per verificare che vada tutto bene?” Meg assentì “Mi hai parlato di Parche, e mi ricordo che nella mitologia greca erano tre donne che gestivano la vita delle persone. Tu che ruolo avevi?”
“Quella che tagliava il filo” disse Meg “Ade diceva che posso essere letale” seguì un breve silenzio.
“Meg, vorrei parlare con te ancora di una cosa” le disse gentilmente la dottoressa “Ma è molto importante. La prossima settimana, martedì alle nove in punto, si aprirà il processo per ciò che è accaduto a Blanche Woodson. Il detective Sungood sostiene di avere tutte le prove e i testimoni necessari e io confido in lui. Ma c’è bisogno di te, lì. Come Esmeralda ti avrà detto, lei è accusata di aver drogato Blanche, e tu e un altro ragazzo siete gli unici a poter sostenere il contrario. Te la senti di partecipare?”
“Si, l’ho già detto a Esmeralda. Testimonierò a suo favore.” Disse Meg.
“Voglio essere sincera con te, Meg” disse Aileen sospirando e appoggiando i gomiti alle ginocchia “Dopo questo processo non sfumerà tutto nel vento come quando si tratta di un semplice furto. Dopo questo processo ne nasceranno altri, perché verranno fuori realtà scomode per Ade, Frollo e tua madre, Grimilde. Anche loro saranno imputati, ma con l’aiuto tuo e di altre persone, potremmo riuscire a fermare il male almeno una volta. Potremmo avere un lieto fine. Ma ci sarà bisogno che tu, Meg, racconti tutto. Abbiamo bisogno che racconti la tua storia davanti a un tribunale.”
“Come andrà a finire?” bisbigliò la ragazza.
“Se intendi come andrà a finire per te, spero che sarai libera di gestire la tua vita come meglio credi” sospirò la donna “Ma per loro finirà male. Ade avrà l’ergastolo, insieme a Frollo, mentre Ursula, che il detective Sungood ha trovato, e tua madre credo avranno la pena capitale. So che è dura, Meg, è per questo che ti chiedo se te la senti di presenziare anche ai successivi processi”
“La pena capitale…?” mormorò improvvisamente sentendosi senz’aria.
“Si… vedi, ci sono diversi crimini imputati a entrambe” prese alcuni fogli e cercò quelli giusti “Tua madre ha venduto una figlia, ha ordinato un omicidio e presumibilmente ha anche ucciso Maximilian Woodson. Hanno trovato nella sua autopsia delle tracce di farmaci letali per lui, malato di diabete. Ha trattato con un’attività di prostituzione minorile e ne ha guadagnato soldi, riciclandoli con il matrimonio. Quanto ad Ursula, lei ha compiuto l’atto. Blanche è in coma, perciò non sappiamo se sarà ergastolo oppure pena capitale, dipende tutto da ciò che succederà alla piccola. Solo allora potranno decidere. Ma se morisse… oh, non voglio nemmeno pensarci. Quanto ai sette uomini, finiranno anche loro in carcere, li hanno trovati. Era un’associazione conosciuta da Ade.”
“E io?” domandò Meg, confusa “E Blanche Woodson? Blanche si troverà senza una famiglia.”
“C’è una via d’uscita, ma…” si morse un labbro “Non sarà facile, Meg, voglio essere sincera con te. Davvero. A essere onesti, è un’opportunità che nemmeno io mi sentirei in grado di accettare così su due piedi. Vedi, tu e la piccola Blanche siete legalmente sorellastre. Se tu accettassi la sua custodia, lei sarebbe automaticamente affidata a te, e voi sareste una famiglia. Ma devi già ricostruire la tua vita pezzo per pezzo, non credo che tu te la senta anche di prendere a carico la vita di una ragazzina.”
“Hai ragione” mormorò Meg “Ma vorrei pensarci un po’”
“D’accordo, hai ragione. In ogni caso, hai tempo. Vedi, il primo processo sarà martedì, ma poi passerà del tempo prima che ci siano anche gli altri. Quindi pensa pure tranquillamente. Hai diritto di scelta, bambina” disse sorridendole.
“Quando ci rivedremo?” domandò Meg alzandosi, un po’ turbata.
“Dopo il processo, che ne pensi? Così potrai parlarmi delle tue impressioni. In fondo, il processo è solamente martedì, e oggi già siamo a sabato. Goditi il week end mi raccomando” disse sorridendole. Meg annuì e si avviarono verso la casa. Quando furono nell’entrata, la dottoressa urlò ad Herc di scendere a salutare e lui si precipitò di sotto inciampando nelle infradito, leggermente sudato.
“Allora ciao, Meg. A presto. Herc, accompagnala al cancello” la salutò “A presto, cara” poi tornò in cucina. Herc la guardò sorridendo, alzò le spalle e la accompagnò.
“Ti sei trovata bene?” domandò poi.
“Molto. Hai proprio una bella famiglia” si complimentò la ragazza. Herc le aprì il cancello, poi vi si appoggiò con un braccio.
“Meg, volevo sapere… ti andrebbe di… ecco… potremmo… come dire… uscire insieme, un giorno” Meg sorrise arrossendo leggermente, ma nascondendosi abbassando lo sguardo.
“Va bene” acconsentì “Domani? È domenica, potremmo andare al cinema”
“Ottima idea. Ho visto un nuovo film che è uscito, ed è veramente forte!” esclamò il ragazzo felice.
“Perfetto. A domani allora.”
“A domani”


L’indomani Meg era così nervosa che anche Esmeralda se ne accorse, e quando si vestì con un abitino lilla e si guardò allo specchio, trovò che fosse stato un peccato non aver vissuto un’adolescenza come quella di tutti gli altri. Era bello sentire l’emozione del primo appuntamento, che non implicava niente che centrasse col sesso, ma solo quelle strette nel basso ventre, quella voglia di sentire la mano di Herc intorno alla sua e… sorrise e si sentì quasi bene. Da un lato, sapeva che non gli avrebbe mai detto che a lui ci teneva. Però era bello cullarsi nell’illusione che tutto sarebbe andato bene. In fondo, ne aveva bisogno. Doveva sentirsi almeno un po’ normale.
Herc la passò a prendere con la sua Ford bianca alle cinque e andarono tranquillamente fino al cinema, dove lui le pagò l’ingresso e le offrì i pop corn. Meg non seguì una parola del film, non le interessava affatto. Continuava a lanciare sguardi ad Herc, a desiderare di parlargli, ma si accorse di essere stata un’incosciente a uscire con lui con quella facilità. Chi le garantiva che non l’avrebbe ferita, che non l’avrebbe delusa? Chi le diceva che non aveva un secondo fine? Chi le diceva che non voleva qualcosa di più che una semplice uscita? Perché Meg, paradossalmente, dopo aver avuto così tanti rapporti, si era resa conto di avere una paura pazza ad averne uno. Non se la sentiva di mostrarsi senza vestiti a un ragazzo meraviglioso come Herc, si sentiva quasi solo in colpa per offuscare la sua luce. Lui era un ragazzo così meraviglioso, con una vita così bella e perfetta, mentre lei era così incasinata e piena di problemi.
Finito il film doveva avere un viso che non prometteva nulla di buono, perché Herc non le parlò molto. Doveva essersi accorto che c’era qualcosa che non andava. Alla fine decisero di andare a fare un giro al parco, e uscendo dalla macchina lei inciampò e quasi cadde, se lui non l’avesse sorretta. Lo guardò con un timido sorriso, poi si andarono a sedere su una panchina.
“Domani ho un incontro di boxe” esordì Herc, con un sorriso.
“Oh. Meraviglioso” asserì Meg “Buona fortuna”
“Grazie” disse il ragazzo sorridendole “Sai, quand’ero piccolo capivo di essere un po’ speciale… nel senso, fortunato. Avevo una bella famiglia, una passione, andavo abbastanza bene a scuola, ma ero una frana con le ragazze. Avrei tanto voluto essere un ragazzo… più banale, pur di conquistarne una” Meg non poteva credere alle proprie orecchie. Si strinse nelle spalle.
“Meglio così. Almeno non sei come tutti gli altri: meschino e disonesto. I ragazzi non badano mai ai sentimenti altrui” protestò veementemente.
“Non tutti sono così!” protesto Herc convinto.
“Si, lo sono”
“No, non è vero. Tu non lo sei.” Disse con un sorriso incoraggiante “Tu sei la più meravigliosa ragazza che io abbia mai conosciuto, davvero. Sei splendida. D’accordo, probabilmente hai avuto un passato che non ti meritavi, ma sei veramente… fantastica. Una forza”
“No. Sono tremendamente sola” le sfuggì, per la prima volta in vita sua “Mi sento terribilmente sola. Non ho mai avuto intorno qualcuno che mi volesse realmente bene. Certo, Esmeralda me ne vuole, ci somigliamo molto e sicuramente diventeremo grandi amiche, ma… per me è ancora distante. Io ho bisogno di un… un…” gesticolò in cerca delle parole giuste.
“Un punto di riferimento?” le suggerì Herc, colpendo nel segno. Meg assentì.
“Tutti mi hanno sempre tradita oppure usata per qualche scopo. Non ho mai potuto scegliere ciò che volevo, non ho mai avuto la libertà. La mia stessa madre mi ha venduta pur di avere soldi e…” il ragazzo le mise la mano sulla bocca, e Meg alzò lo sguardo su di lui.
“Io non voglio sapere niente di ciò che ti è successo, se tu non vuoi dirlo, se non ti senti pronta ad affrontarlo.” Le disse, infondendole un senso di calore che non aveva mai provato “Meg, io non potrei mai, mai fare una cosa del genere. Vorrei solo… cercare di essere il tuo punto di riferimento, ecco.” Meg si sentì tremendamente commossa. Herc le aveva preso le mani per enfatizzare le sue parole e lei si sentiva persa e all’orlo delle lacrime insieme. Lo guardò negli occhi, accorgendosi di avere i lucciconi.
“E io non voglio usare te” disse con enfasi “E soprattutto non voglio ferirti né rovinarti la vita. Quindi penso che dovremmo…” cominciò, cercando di trovare le parole migliori per dirgli addio. Perché non potevano stare insieme, erano troppo diversi, anche se le parole del ragazzo l’avevano colpita profondamente nell’anima. Ma lui la bloccò, sporgendosi in avanti e sfiorando le labbra con le sue, leggermente, come un sospiro, facendole capire quanto il suo sentimento fosse grande. Quando si staccò, i suoi occhi erano carichi di una tenerezza indescrivibile.
“Meg, a me non importa.” Disse poi “Tu non mi rovineresti mai la vita e io lo so. Mi sono… mi sono innamorato di te dal primo momento in cui ti ho vista, tanto tempo fa. Ho solo avuto in mente te, per tutti questi anni. Meg, quando sono entrato a scuola il primo giorno, e tu mi sei passata a fianco io… io mi sono innamorato. Senza che nemmeno tu te ne accorgessi. Quando eri innamorata di Adam, io ero lì ad osservarti da lontano. Quando Adam se n’è andato, io ho sofferto perché tu soffrivi. Ed ora…”
“Anche io” lo interruppe Meg, incapace di contenere oltre i suoi sentimenti “Anche io mi sono innamorata di te, come una pazza. Lo so che morivo dietro ad Adam, ma ero solo una ragazzina e non capivo niente della vita. Ho fatto follie per lui, si, ma le persone… le persone fanno sempre cose pazze, quando sono innamorate. E io ho fatto la mia per lui. Ma poi sei arrivato tu. Tu sei accecante, luminoso, caloroso e…”
“E innamorato di te” disse lui con un sorriso. I suoi occhi dolci erano disarmanti e ben presto Meg si ritrovò, oltre ogni previsione, a stringersi al petto del ragazzo, disperatamente, con foga, come se lui fosse realmente la sua unica ancora di salvezza. Si sentì ben presto carica, come un vaso, e quella fu l’ultima goccia.
Meg cominciò a piangere. Non pianse solo per la commozione, per la felicità, ma pianse anche per sua madre, per essere stata abbandonata, usata, sfruttata, per essere stata costretta a diventare una persona fredda e passiva, pianse perché finalmente era libera, perché aveva capito che non esisteva solo il male al mondo ma perché ora sapeva che c’erano anche le persone che combattevano contro il male, persone come il detective Sungood, persone come Aileen Juno, persone come Herc. E queste persone ne avevano trascinate altre nel vortice della loro bontà. Esmeralda era capitolata davanti a Febo, Clopin l’aveva seguita, e ora anche lei.
Fu quello il momento in cui capì che essere buoni non era facile e non era privo di responsabilità. Capì quanto rischiavano tutti quanti e fu quello il momento in cui capì che se lei non avesse fatto qualcosa, Blanche Woodson non avrebbe mai avuto una famiglia, non avrebbe mai sorriso e non avrebbe più avuto affetto. Non se la sentiva da sola, chiaramente, doveva mettere a posto i frammenti della sua vita, ma era ciò che doveva fare anche quella ragazzina. Ed era il momento di assumere le sue responsabilità. Era il momento di passare dalla parte delle persone buone, coraggiose, quelli che rischiavano anche la vita pur di portare un po’ di felicità e un po’ di giustizia al mondo. Pianse perché finalmente aveva trovato il suo posto nel mondo. E quel posto era accanto ad Herc e a quella ragazzina a cui era stato strappato un pezzo di vita.


Aileen Juno non si mostrò troppo sorpresa quando Herc si presentò a casa all’una e mezzo di notte, con Meg con il trucco chiaramente colato e le guance ancora appiccicose dalle lacrime. La accolse gentilmente, le offrì una fetta di torta e le diede un pigiama e una vestaglia che le andavano perfettamente. Si sedettero tutti e tre in veranda e la psicologa tirò fuori dalla tasca del pigiama un pacchetto di sigarette che Meg non si sarebbe mai aspettata di vedere fra le mani della donna. Ne offrì una alla ragazza, Herc rifiutò cordialmente e le due si misero a fumare.
“Allora, che avete visto al cinema?” domandò la madre, ma notando il silenzio dei ragazzi capì che erano state ore inutili al fine della comprensione del film. Si mise a ridere “Sapete, anche Jupiter mi aveva portata al cinema al primo appuntamento” dichiarò “Eravamo così giovani… avremo avuto si e no la vostra età!”.
Chiacchierarono tranquillamente per una mezz’oretta, poi la dottoressa disse ad Herc di farle vedere dov’era il bagno e di darle due asciugamani puliti in caso avesse voluto farsi una doccia, dopodiché sparì nella camera dove russava il marito. Il ragazzo le mostrò tutto e Meg lo seguì col sorriso. Si rese conto che era la prima volta che sorrideva a lungo dopo anni e si sentì davvero soddisfatta.
“Ma tua mamma… cioè… non dice niente, che irrompo così in casa tua e ora mi fermo anche a dormire qui?” domandò intimidita, entrando nella stanza a tetto spiovente di Herc, al terzo piano. Il ragazzo socchiuse la finestra e poi la guardò teneramente.
“Io penso che se l’aspettasse. È una psicologa, capisce la nostra mente meglio ancora di noi” le ricordò. Meg annuì e si fece avanti nella stanza in colori azzurro e blu, forse un po’ infantile, ma tremendamente da lui. C’era un sacco da boxe appeso nel bel mezzo della stanza. Il ragazzo le fece cenno di avvicinarsi al letto e Meg provò un primo fremito di paura, prima di avvicinarsi e prendergli la mano. Si sedette, Herc si sporse e la baciò. La sentì probabilmente più rigida, quindi sorrise e le permise di sdraiarsi. “Se hai qualcosa in contrario, vado a dormire sul divano” disse esitante.
“No. Resta” disse Meg, e quando furono sdraiati, abbracciati, e la ragazza si accorse che Herc aveva autocontrollo e che il suo respiro era rimasto regolare, nonostante la vicinanza, e che non la sfiorava nemmeno, si sentì al sicuro. Lo abbracciò e lui fece altrettanto e la ragazza si addormentò felice, fra le braccia del ragazzo più splendido sulla faccia della terra.


Il giorno dopo Meg si sentì in dovere di incontrare sua madre, così chiese al detective Sungood di fargliela incontrare. Si videro nel suo ufficio. La donna era dietro le sbarre e la ragazza si sedette davanti a lei, sulla sedia di plastica. La guardò a lungo, ma Grimilde sembrò non riconoscerla, anzi, non le rivolse la parola fino alla fine. Meg ebbe il tempo di esaminarla, nel frattempo. I capelli corvini erano stretti dietro il capo in uno chignon, gli occhi verdi, della stessa forma di quelli della figlia, erano circondati da trucco pesante. Il rossetto era rosso scuro, quasi viola. Indossava un elegante tailleur Dolce&Gabbana, e delle Jimmy Choo con un tacco spaventosamente vertiginoso. I gioielli erano chiaramente Gucci. Meg si sentì offesa profondamente. Rimase in silenzio finchè la madre non si girò, stufa di essere fissata.
“Allora, che vuoi? E chi sei, ragazzina?”
“Divertente” commentò Meg “Non ti ricordi nemmeno più chi ti ha portata a tutto questo”
“Che domande, mi ci sono portata da sola.” Ribattè la donna. Meg si stava infuriando, ma cercò di mantenere la calma.
“Certo, mamma” sottolineò tagliente la ragazza. E fu quello il momento in cui Grimilde si girò verso di lei e la osservò per la prima volta, boccheggiando. Si soffermò specialmente sui suoi occhi e sul suo corpo incredibilmente magro, poi si alzò e si aggrappò alle sbarre.
“Meg? Sei veramente tu?” bisbigliò.
“Si. Sono io.” Confermò la ragazza stringendo la mascella.
“Meg… io… io non pensavo che… io stavo venendo a prenderti!” esclamò infine. Ma a Meg non sfuggì quell’esitazione, non le era scappato un solo gesto della madre, non aveva perso di vista nemmeno un secondo i suoi occhi, così chiari. Si alzò per essere alla sua stessa altezza, e si rese conto di essere più alta di lei, perché riusciva a raggiungerle gli occhi senza tacchi. Puntò gli occhi nei suoi.
“Smettila con queste stronzate” sibilò Meg, furiosa e implacabile “La sappiamo tutte e due la verità. Tu mi hai venduta, perché sapevi che ci avresti guadagnato qualcosa. E dopo esserti arricchita grazie alla prostituzione di tua figlia minorenne, dopo esserti sposata con un brav’uomo miliardario, non hai saputo resistere ad avere qualcosa in più, perché sei troppo ambiziosa per saperti dare un limite. Tu hai ucciso quell’uomo e stavi uccidendo sua figlia, di quattordici anni, la stessa età che avevo io quando mi hai venduta ad Ade” Grimilde boccheggiò ancora, impallidendo “Io ho creduto in te per tutti questi anni, ho sempre creduto che ti stessi battendo strenuamente per la vita, per venirmi a prendere e invece sono stata solo un’illusa, perché mentre io soffrivo e perdevo la mia adolescenza, tu stavi a goderti i tuoi soldi. Ed ora, cosa credi che faccia? Che lasci perdere? No. Io ti manderò dove meriti di stare, perché hai già seminato troppo dolore. Sai perché ho voluto incontrarti oggi? Non per dirti addio. Ma per dirti che non è finita. Non è finita qui. Voglio mostrarti chi è che è dietro le sbarre, adesso, chi è che ha perso. Io prenderò la custodia di Blanche Woodson per darle una famiglia, non per i suoi soldi. E tu, tu finirai solo dove avresti meritato di andare anni fa” concluse con rabbia. Poi si girò, fece un cenno di saluto a Febo e uscì, senza curarsi del pianto disperato della madre, che l’aveva illusa, che aveva finalmente capito di essere stata battuta e che non poteva più farci niente. Un’unica cosa Meg sperava: che soffrisse almeno quanto aveva fatto soffrire lei.


Si diresse all’ospedale in cui era ricoverata Blanche. Voleva vederla almeno una volta, prima di diventare la sua tutrice legale, sperando che si risvegliasse. E se non si fosse svegliata, Meg non sarebbe entrata nella sua proprietà. Non le avrebbe preso un soldo. Non si sarebbe concessa nulla di ciò che si era permessa sua madre. Entrò nella sua stanza e la vide sdraiata, lì, i capelli ordinati sotto la nuca, un dolce sorriso sulla labbra. Prese una sedia e si sedette accanto a lei, poi le prese una mano fra le sue, sospirando.
“So che ti senti distrutta” mormorò “Mi dispiace. È tutta colpa di mia madre. Ma io mi prenderò cura di te, se ti sveglierai. Te lo prometto. Ti farò da sorella maggiore così come avrei dovuto fare molti anni fa. Ti aiuterò come nessuno ha mai aiutato me. Ci riprenderemo la nostra vita, d’accordo?” Blanche sospirò e Meg quasi si spaventò, ma poi capì che era solo un segno del fatto che l’aveva sentita. “Stiamo sistemando tutto. Ah, che stupida. Non mi sono ancora presentata. Io sono Meg. Piacere di conoscerti” la ragazzina strinse le dita nelle sue e Meg si sentì accettata da lei, si sentì già legata a questa sorellastra con la vita semi distrutta. “Svegliati, ti prego” mormorò ancora una volta, per poi alzarsi e baciarle la fronte. Ciò che la stupì di più, quando si alzò per andarsene, fu che Blanche stava sorridendo fiduciosa. E non era solo un’impressione.


L’ultima tappa di Meg in quella giornata impegnativa fu la palestra in cui Herc stava per disputare il suo incontro di boxe. Aveva avvisato Aileen che avrebbe fatto un po’ tardi, lei non aveva fatto domande e le aveva raccomandato di chiamarla una volta che avesse finito con i suoi impegni.
Raggiunse la palestra proprio quando il ragazzo stava per salire sul ring e si andò a sedere in prima fila accanto ai genitori, vedendo per la prima volta Jupiter, che era un nome che calzava a pennello a quell’omone dalla voce tonante ma gentile. Si presentò con un sorriso e una poderosa stretta di mano, un pacco di pop corn appoggiato sulle ginocchia.
Quando Herc salì sul ring e vide Meg, le rivolse un grande sorriso. Aileen balzò in piedi urlando incoraggiamenti, mentre Jupiter battè un pugno sul proprio ginocchio esclamando: “Eccolo, il mio ragazzo!”. Meg si limitò a sorridergli. Ma a lui questo sembrava bastare.
Il duello cominciò. Herc aveva il casco azzurro come la dentiera e i guantoni, mentre calzoncini e scarpe erano bianchi con due righe abbinate al resto della divisa. Il suo avversario era un nero addirittura più grosso di lui, ma la ragazza non ci mise molto a capire che era uno svantaggio: il biondo era più agile e veloce e nonostante i pugni dell’altro fossero pesanti e ben calibrati, lui riusciva a saltellare da una parte all’altra e schivare i movimenti dell’altro. Il round non durò molto, prima di decretare al giovane diciottenne la vittoria sull’afroamericano.
Gli altri due round andarono ottimamente e il ragazzo ne uscì con qualche livido ma nulla di più, e quando alzò le braccia al cielo e rivolse un sorriso alla sua famiglia, Meg si sentì scaldare il cuore: era di nuovo fiduciosa.


 

Quella sera andarono tutti insieme a mangiare in un ristorante famoso e molto rinomato a Manhattan, la Reggia del Sultano, per festeggiare la vittoria del ragazzo su tutti i rivali: aveva perso solamente un match. Era veramente un campione. Meg era felice di trovarsi fra loro: si sentiva circondata d’amore e di affetto, nei suoi confronti e in quelli degli altri. Le sembrava di essere in una meravigliosa rete dorata in cui voleva restare. E quando brindarono al successo, pensò che per lei non era solo quello di Herc, ma anche il suo, quello del bene contro il male, quello della fine di un’epoca buia. E in quel momento, sentì che la giovane Blanche si era risvegliata. Se lo sentì nelle ossa, e per poco non scoppiò a piangere dalla felicità. Quella notte dormì nuovamente dalla famiglia Juno, fra le braccia del suo campione, del suo megafusto. Del suo punto di riferimento.

 











Nymphna's Space: Ciao a tutti! :) Come state? Ci tenevo tanto a postare questo capitolo oggi e ho passato le ultime ore a scrivere, ho fatto una maratona anche per questo capitolo di Meg xD Domani parto e per qualche giorno non sarò a casa, vado in Sardegna :) Comunque. Meg è un personaggio che è stato difficile da prendere ma facile poi da usare. Non so perchè ma per tutto il tempo sono tornata una persona negativa e ho avuto paura di commenti negativi. Speriamo di no, perchè io ci ho messo tutto l'impegno ^^ So che Meg è un po' diversa da com'è nel film, so anche che di Ade non si è parlato moltissimo, ma ho preferito concentrarmi sui primi passi della rinascita di Meg, della sua consapevolezza e soprattutto del lieto fine, perchè nel prossimo capitolo parlerò di Blanche e quindi non avrei potuto quasi parlare dei processi e delle conseguenze. Almeno credo. xD In ogni caso, spero che il capitolo sia piaciuto lo stesso.
Ehi, ma ci credete che questa fic è quasi finita??? O.o Io mi sento come fossi in punto di morte, veramente xD Ma preferisco non pensarci troppo per ora. In ogni caso, abbiamo solo ancora due capitoli dopo questo!! Ma bando alla nostalgia. Grazie a Sissyl, Merychan e Dora93 per le vostre affettuosissime recensioni, sono felice che Jane vi sia piaciuta ^^
Un bacio a tutti, e buon Natale anche se in ritardo ;)
Alla prossima!
Nymphna <3

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Capitolo 9
*** 9 - Blanche. ***




Capitolo 9, Blanche.
(da giovedì 22 a venerdì 30 luglio)

 

Blanche era sveglia da due giorni ed era profondamente amareggiata e triste. Si sentiva totalmente cambiata, non solo mentalmente ma anche fisicamente. Si toccava di continuo il ventre, molte volte senza rendersene conto, e in quei momenti capiva quanto anche il suo istinto fosse diverso. Non lo diceva a nessuno, ma a volte le scendeva una lacrima giù dalla guancia, delicata ma inesorabile, quando pensava a ciò che aveva detto l’infermiera, dopo la visita di controllo appena si era svegliata. ‘Non potrai più avere figli’. ‘Tua madre ha cercato di ucciderti’.
A quattordici anni d’età, Blanche non aveva mai pensato di avere dei figli nell’immediato futuro, ma ora si rendeva conto che ne desiderava uno così tanto da farla quasi impazzire. Sapeva che sette uomini l’avevano violentata e lacerata, rovinandole l’apparato riproduttivo. Era la cosa che le pesava di più, uscita da quel coma di ventotto giorni. Sapeva che tutte le sue lacune sarebbero state colmate. Sapeva che sarebbe riuscita a farsi di nuovo le trecce e a legarsi le scarpe, con un po’ d’allenamento, sapeva che avrebbe recuperato le capacità mentali e un giorno avrebbe potuto di nuovo correre in giardino. Ma ciò che le faceva più male, era la convinzione che non avrebbe mai avuto un figlio.
L’altra cosa che l’aveva ferita di più, la notizia che non avrebbe mai voluto ricevere, era quella che le aveva dato un avvocato, quella mattina. Le aveva detto che era ormai orfana, che la sua matrigna avrebbe finito la sua vita con un’iniezione letale dentro uno stanzino, che tutto ciò che era successo era colpa sua e che lei era solamente la vittima dell’ambizione di quella donna. Inizialmente non aveva voluto crederci. La sua matrigna, Grimilde, si era sempre comportata bene con lei. Le aveva sempre regalato giocattoli e l’aveva accompagnata a scuola. Le aveva fatto i complimenti per i bei voti e l’aveva aiutata a studiare. Aveva parlato con lei come una madre alla figlia dei ragazzini che le piacevano, avevano scherzato e riso ed erano andate tante volte a fare shopping oppure in vacanza un paio di giorni insieme. Ciò che poteva dimenticare di meno, era quel week end sul lago che avevano passato loro tre insieme, Blanche, suo padre Maximilian e la nuova moglie Grimilde. Avevano giocato sulle sponde del lago, a tirarsi la palla e a racchette, avevano nuotato insieme e mangiato sulla barca a vela del padre. Le era sembrato di avere una famiglia normale. E poi, gli eventi erano precipitati.
Non riusciva a credere alla malvagità della donna. Non riusciva proprio a comprendere come avesse potuto uccidere suo padre, dandogli qualche sostanza che gli faceva del male. Non poteva credere che le avesse presentato una prostituta incaricata di ucciderla alla festa di Aurora Reale, alla quale si era imbucata speranzosa, come ogni ragazzina della sua età, di vedere il ragazzo che le piaceva, Floriant. Non si rendeva ancora bene conto nemmeno di ciò che era successo. Sapeva bene che c’era della crudeltà al mondo, ma proprio non capiva come sette uomini avessero potuto approfittarsi di una ragazzina di quattordici anni, drogata, e stuprarla uno dopo l’altro fino a rovinarle la vita e a farla cadere in coma per ventotto giorni. Non riusciva nemmeno a pensarlo. Ma non tanto per se stessa, perché alla fine non ricordava quasi nulla, ma non le sembrava una cosa che potesse essere fatta. Non riusciva nemmeno a capacitarsi che fosse accaduto proprio a lei.
L’orologio digitale accanto al letto suonò le tre, e proprio in quel momento si rese conto che qualcuno stava discutendo con un’infermiera per poter entrare a parlarle, sostenendo che fosse importante. L’infermiera ribatteva che stava dormendo. Blanche lasciò scivolare le gambe giù dal letto e scostò la coperta. Sapeva ancora camminare per qualche metro, prima di sentirsi affaticata, così, lentamente ma con decisione, si avvicinò alla porta e l’aprì. Davanti a lei c’era la sua infermiera, una bionda che sembrava più una modella, e una ragazza, alta più di un metro e settanta, con lunghi capelli castano – rossi e magra a rasentare l’anoressia. Le due ragazze si guardarono, e gli occhi viola colpirono la ragazzina come un fulmine. Si sentì subito soggiogata e incantata dalla strana persona che le stava davanti.
“Signorina Woodson…!” protestò l’infermiera.
“Se mi deve dire qualcosa di importante, perché non può entrare?” domandò Blanche candidamente. L’infermiera si arrese subito ai suoi occhi da cerbiatto e raccomandò loro di essere discrete, perché se il capo l’avesse scoperta sarebbe finita nei guai. L’accompagnò di nuovo nel letto, sorreggendola con un braccio e se ne andò, lasciando le cortine della stanza chiuse per dar loro privacy. La rossa si sedette sulla sedia di plastica vicino alla finestra e rimase in silenzio per qualche lunghissimo secondo, scrutando Blanche sottecchi. Sembrava esaminarla e la ragazzina si sentiva a disagio sotto quello sguardo, ma non le diede fretta. Aveva capito che non era facile parlare con una persona che era stata ridotta come lei, un po’ per pena, un po’ per tenerezza e a volte per ribrezzo.
“Sono Meg” disse la ragazza alla fine, porgendole la mano con un sorriso tirato “La prima figlia di Grimilde” la ragazzina le strinse la mano stupita e confusa dall’affermazione della ragazza.
“Blanche” rispose meccanicamente “Ma non capisco come tu possa essere la figlia della mia matrigna, lei non ci ha mai parlato di te”
“Lo so” rispose Meg amareggiata “Non ama parlare di come ha rovinato la vita degli altri, sai. Comunque, ne parleremo un’altra volta. In realtà sono venuta a presentarmi, perché io sono la tua sorellastra e ho accettato i documenti per la tua tutela. Sono felice che tu ti sia svegliata” a Blanche non sembrava che stesse facendo i salti di gioia, però pensò che fosse perché anche lei era giovane. La guardò un momento e constatò che in effetti qualcosa di simile avevano. La forma del fiso, se fosse stata più piena, sarebbe stata identica a quella della madre, così come la forma degli occhi. Alcune espressioni del volto erano identiche, come le labbra arricciate quando si parlava di qualcosa di sgradevole. Si domandò cosa le avesse fatto Grimilde. In un certo senso, si sentì sollevata sentendosi dire che lei aveva accettato i documenti per la tutela, perché voleva dire che non era totalmente sola. Ma dall’altro canto si vide davanti un’altra difficoltà, perché avrebbe dovuto imparare a conoscere una persona che probabilmente aveva avuto tanti problemi quanti ne aveva avuti lei e che con ogni buona probabilità avrebbe dovuto rimettere a posto i cocci della sua vita.
“Anch’io” disse Blanche, senza sapere bene cos’altro aggiungere. Passò qualche momento di silenzio.
“Quando potrai uscire?” domandò ancora Meg.
“In realtà non lo so. Sto abbastanza bene, comunque. Credo che fra qualche giorno potrei già tornare a casa” la ragazza annuì.
“La riabilitazione?”
“Va bene. Riesco già a fare un sacco di cose, ho solo ancora un po’ di torcicollo” Meg assentì.
“Mi dispiace” disse poi, con un profondo sospiro “Mi dispiace che tu abbia dovuto subire tutto questo. Anche a me è successo tutto quando avevo quattordici anni, sai. Mia madre mi ha abbandonata a una specie di bordello di lusso” fece una faccia schifata “Comunque, per fortuna, è passata. Sono riuscita a uscirne, grazie a persone fantastiche che vorrei presentarti appena starai meglio. Alcune di loro stanno per partire e andarsene di qua per sempre.”
“Per colpa mia?” domandò titubante Blanche. Meg le sorrise dolcemente.
“No, affatto. Avevano anche loro dei progetti per le loro vite, e finalmente riescono a realizzarli.” Alzò le spalle “In ogni caso, oggi pomeriggio dovrebbe venire qualcuno. Sai, è successo un bel casino a quella festa. Abbiamo rischiato tutti grosso. Sono arrivata adesso dal tribunale, volevo venire a trovarti prima di tornare a casa.”
“Dal tribunale?” ripetè la ragazzina, che stava cominciando a rendersi conto della grandezza della situazione.
“Si, oggi c’è stato il secondo processo, ma io ho dovuto solamente testimoniare a favore di un’amica. Davvero non sai nulla di ciò che è successo quella sera?” Blanche scosse la testa, e Meg cominciò a raccontare. Partì dall’accusa di una sua amica di nome Esmeralda, molto simile a quella che credeva la sua amica Vanessa, ma che in realtà era una prostituta incaricata di ucciderla, proseguì col coma di Aurora Reale e suo, con la sua liberazione, con una ragazzina accompagnata da un selvaggio di nome Jane che aveva scoperto la verità su ciò che era accaduto. Le sembrava tutto così strano, così irreale, così fuori dal mondo … così come capiva benissimo che era tutta la verità. “Vogliono venire tutti a trovarti. Chi per chiederti scusa, chi per portarti solamente un po’ d’affetto” sorrise in un modo molto dolce che colpì molto la ragazzina “Sei fortunata che tutte queste persone si siano mosse intorno a te, per renderti la vita migliore, per darti giustizia e per far vincere il bene”, disse seriamente. E quelle parole sembrarono colmare il cuore di Blanche, che improvvisamente si sentì piena d’affetto e di riconoscenza per persone che non aveva mai conosciuto.


Più tardi, quel pomeriggio, quando Meg se ne fu andata, arrivarono a trovarla tre ragazzine strane e simpaticissime che le strapparono la prima vera risata della giornata. Le riconobbe tutte e tre, a scuola erano molto famose. La più bassa era mora e con i capelli molto lunghi, gli occhi grandi e a mandorla sprizzavano felicità e allegria, e al dito portava un anello. Quando entrò, stava sospirando esasperata, guardando male le altre due che si becchettavano. La più alta era Aurora Reale, Blanche la riconobbe subito: alta, bella, bionda e con lunghi capelli a boccoli, indossava una camicetta rosa molto elegante e quando si muoveva sembrava danzare. Stava discutendo su chissà cosa con l’ultima, quella a metà, che aveva una chioma di capelli rossi naturali che sembravano quasi tinti e le arrivavano a metà schiena. La mora fu la prima a interrompere la discussione tossendo sonoramente per far capire alle altre due che lei era sveglia e le stava ascoltando. Blanche scoppiò a ridere di gusto, quando vide le espressioni delle ragazzine. Si sedettero accanto a lei tutte e tre e per prima cosa Aurora domandò scusa per ciò che era successo alla festa, sostenendo che fosse colpa sua ciò che era successo, lei doveva fare più attenzione a chi entrava alla festa e agli invitati, ma ce n’erano così tanti che non era riuscita a tenere d’occhio tutto; si mostrava pronta a qualsiasi cosa e la capiva, perché anche lei era stata in coma per qualche giorno per una botta alla testa, aveva perso la memoria e… la rossa la interruppe, sostenendo che parlava troppo.
Si presentò dicendo di chiamarsi Ariel, che era stata lei a trovarla e a cercare di aiutarla per prima, con il suo ragazzo Eric.
“Mi hanno parlato di una ragazza che ha cercato di aiutarmi” disse Blanche “Ma non pensavo fossi tu”
“Vedi, non hai l’aria da gran salvatrice!” esclamò Aurora, incrociando le braccia.
“Pensa un po’ te, non hai nemmeno l’aria da ragazza normale” le rispose animatamente la rossa “Sembri più che altro la fotografia di un manichino su una rivista patinata!”.
“Non preoccuparti” disse Jasmine, la mora, notando l’aria preoccupata di Blanche “Fanno sempre così. Vuol dire che vanno d’amore e d’accordo. Più che altro, mi preoccuperò il giorno in cui le vedrò a braccetto. In realtà si vogliono molto bene” la ragazzina annuì divertita “Comunque, quando uscirai da qua, potremmo uscire insieme, qualche volta, che ne dici?”
“Volentieri!” esclamò Blanche, felice di avere finalmente delle amiche. Dal momento in cui era arrivata all’High School nessuno le si era rivolto amichevolmente se non per i suoi soldi. L’unica persona che le si era avvicinata era Vanessa… che in realtà si chiamava Ursula e l’aveva drogata. Per un momento si sentì tirare giù di morale dai ricordi, ma lanciando un'occhiata verso Aurora e Ariel che stavano ancora discutendo, sorrise e decise di accantonare i brutti pensieri. Quando le due ebbero finito di litigare, finalmente, le raccontarono che il giovedì sarebbero dovute andare a un processo per testimoniare di averla salvata, specialmente Ariel sarebbe stata nel banco dei testimoni. Aurora non era stata giudicata colpevole, anche se aveva dovuto restituire una somma consistente di denaro alla ragazzina. In ogni caso non l’aveva presa a male e le confidò che i suoi genitori in quegli ultimi tempi la stavano tenendo meno in casa e la stavano perdonando, dato che dimostrava una condotta ineccepibile. Ariel menzionò un’altra festa in preparazione, questa volta solo con persone che conoscevano e senza alcool. Blanche cominciò a capire che a causa sua si era formato un gruppo di persone che aveva cercato di trovare una soluzione ai suoi problemi e di vendicarla in base alla giustizia. Le parlarono anche loro di Jane ed Esmeralda, come aveva fatto Meg, ma aggiunsero anche una ragazza di nome Cindy e un’altra che si chiamava Belle e le promisero che le avrebbero fatto conoscere tutti, anche i loro fidanzati.
Ariel si interessò alla sua situazione amorosa e volle sapere se c’era qualcuno che le piaceva.
“In realtà” disse Blanche arrossendo violentemente “In realtà c’è un ragazzo che mi interessa…”
“Chi, chi?” domandò Ariel sporgendosi verso di lei, gli occhi azzurri carichi di curiosità.
“Puoi fidarti di noi” confermò Aurora.
“Magari lo conosciamo” affermò Jasmine.
“Si chiama Floriant Prince.” Mormorò Blanche. Le tre si guardarono l’un l’altra con mezzi sorrisi sulle labbra. “Lo conoscete? Oh, vi prego… non tenetemi così sulle spine!” scongiurò la ragazzina, che cominciava a sentirsi prossima al collasso.
“Si, lo conosciamo” disse Aurora dolcemente “E sappiamo che si è molto interessato alla storia… cioè, è venuto spesso da te, mentre eri addormentata” Blanche arrossì ancora di più e la guardò sorpresa.
“Si, è quel ragazzo con i capelli castani, no?” domandò ancora Ariel “Quello che fa equitazione”
“Proprio lui” confermò Aurora.
“Ma allora, l’ho visto qua intorno molte volte!” esclamò Jasmine, per poi girarsi maliziosa a guardare i fiori ormai secchi sul comodino vicino al letto “Non è che quelli li ha portati lui?” Blanche si sentì mancare.
“Non lo dire, ti prego!” le tre la guardarono stralunate, chiaramente non aspettandosi affatto una reazione del genere. Aurora rise dolcemente, capendo che la ragazzina era timidissima.
“Vorresti incontrarlo? Oppure preferisci di no?” la mora scosse la testa. Aurora le sorrise “Hai anche tu bisogno dei tuoi tempi, è normale”.
Le tre restarono un paio d’ore, raccontando dei loro rispettivi ragazzi. Ariel sembrava particolarmente felice e confidò che lei e il suo Eric erano una coppia parecchio avventurosa e che non si facevano frenare da nulla se decidevano di fare qualche cosa. Le disse che andavano spesso a fare esplorazioni in palazzi abbandonati e in quartieri semi sconosciuti insieme, era la loro occupazione preferita. Le promise che l’avrebbe portato, assicurandole che si sarebbero trovati bene insieme. Jasmine le raccontò che era scappata di casa per sposarsi con il suo Ali, che lavorava ormai nel suo ristorante come cameriere, le confidò che il padre era stato soggiogato dal caposala che voleva avere tutto per lui ma che erano riusciti ad averla vinta ed ora Jafar era stato licenziato e loro vivevano insieme felici e contenti. Aurora le parlò invece del suo Filippo. Sembrava quella più sognante fra le tre e qualche volta si perse nei suoi pensieri interrompendo il discorso nel bel mezzo di una frase. Blanche capì che erano tutte e tre molto innamorate ed era quasi invidiosa sapendo che erano ricambiate con altrettanta passione. Sperava di sentirsi come loro, un giorno, magari proprio con Floriant, con il quale non aveva mai parlato.
Mentre le tre ragazzine le raccontavano di come erano riuscite a mettersi con i rispettivi ragazzi, però, si accorse che tutte e tre avevano dimostrato coraggio e avevano rischiato, chi più chi meno, di perdere qualcosa. Pensò che forse era solo quello il modo di conquistare la persona amata, e decise che ci avrebbe pensato su riguardo a Floriant. Lui le piaceva davvero molto ma non sapeva se si sentiva pronta a rischiare chissà che con lui. Si trovò ancora una volta un pochino invidiosa, perché anche a lei sarebbe piaciuto avere il coraggio di rischiare, di provare con il ragazzo di cui era innamorata, e quando pensò che Jasmine addirittura era scappata di casa per potersi sposare, in modo da essere legata al suo Ali indissolubilmente davanti alla legge, capì che forse ne valeva veramente la pena.
Quando le tre ragazzine se ne andarono e lei si trovò nuovamente sola, si ritrovò con un sacco di cose a cui pensare. Per prima cosa aveva appena scoperto di avere una nuova famiglia composta da una ragazza di diciannove anni con il passato compromesso quanto se non più di lei. Non era preoccupata, ma si chiedeva come avrebbero potuto loro due, ragazze tristi e con un brutto trascorso, rimettere a posto le loro vite. Ma forse avere accanto qualcuno che sapeva cosa voleva dire essere traditi e abbandonati l’avrebbe aiutata più che qualcuno che non avrebbe potuto comprendere il suo stato d’animo. Pensò nuovamente a ciò che era successo con Grimilde. Ripensò che era stata tradita dalla sua stessa matrigna, da una componente della sua famiglia, l’unica che le era rimasta dopo la morte del padre, la persona con cui aveva pianto sopra la tomba di Maximilian. Le vennero le lacrime agli occhi, pensando che se il padre fosse stato ancora vivo, tutto ciò non sarebbe mai successo, che lei non sarebbe affatto andata a quella festa perché lui gliel’avrebbe proibito. Ma poi ripensò anche che era stato ucciso e sentì il cuore rompersi, mentre si chiedeva come poteva aver fatto quella donna cattiva a credere di passarla liscia non solo per l’assassinio del padre, ma anche il semi – assassinio suo. Cercò di farsi forza, pensando che comunque si era risvegliata dal coma, che si, non aveva più una famiglia, non avrebbe potuto avere figli, era troppo timida per parlare a Floriant ed era rimasta in quel letto per un mese senza aprire gli occhi, quasi uccisa da una prostituta assoldata da sua madre pur di avere i soldi di suo padre, ma che tutto poteva ancora avere un lieto fine, che le cose avrebbero ancora potuto mettersi a posto… ma non ci credeva molto in quel momento. Scoppiò in lacrime, e dopo ore che piangeva, sola, nella sua stanza, si addormentò profondamente.


Quando si svegliò il giorno dopo, la mattina molto presto, verso le quattro e mezzo, capì subito di non essere sola per il peso caldo sulle sue gambe. Aprì gli occhi e accese la piccola abat-jour accanto al lettino e vide che sulla sua gamba, appoggiata a un gomito e con gli occhi chiusi, il respiro leggero che scostava leggermente ciocche di capelli rossastri, c’era Meg. Si sentì molto commossa da quella visione. Quando si guardò intorno quasi si spaventò, perché dietro a Meg, appoggiato allo schienale della sedia, le mani intrecciate sugli addominali, c’era un ragazzo biondo e molto muscoloso che lei non aveva ancora mai visto, che dormiva a bocca aperta, russando leggermente. Ci mise qualche minuto a focalizzarlo e a rendersi conto che quel ragazzo era Herc, il più bello della scuola, quello che faceva boxe. Capì immediatamente che era il ragazzo a cui aveva accennato Meg il giorno prima e concluse che anche loro dovevano essere molto innamorati, per addormentarsi insieme in un ospedale. E soprattutto, dovevano tenere molto anche a lei. Si sentì commossa e quasi le scese qualche lacrima, ma in quel momento capì che Meg stava cercando in tutti i modi di riappropriarsi della propria vita, prendendosi cura della sorellastra come nessuno si era curato di lei. La osservò a lungo. Osservò i suoi tratti magri e quasi spigolosi, le ossa delle spalle che fuoriuscivano dalla maglietta viola, i piedi affusolati nelle zeppe di sughero e le gambe quasi troppo magre avvolte nei jeans. Guardò l’espressione malinconica che aveva nel sonno e ascoltò i suoi versetti tristi di tanto in tanto. Forse, pensò, vorrebbe tornare bambina. Quando i suoi occhi furono stanchi della luce li chiuse nuovamente e si riaddormentò.

Quando si svegliò erano le nove del mattino e Meg non c’era più. Sul comodino accanto a lei, però, c’erano dei fiori freschi e un’infermiera stava uscendo con quelli vecchi.
“Ehi!” chiamò. L’infermiera bionda si girò a guardarla con un’espressione gentile.
“Si, cara? Buongiorno” la salutò.
“Buongiorno… ascolti, chi ha portato quei fiori?” domandò.
“Un ragazzo… è venuto per tutta la tua permanenza. Ora se n’è già andato. È rimasto qua una mezz’oretta, ma quando ha visto che ti stavi svegliando se n’è andato di fretta. Ha lasciato questi fiori nuovi. Sono belli vero?”. Blanche si voltò per osservarli meglio, e notò che erano fiori d’acacia e di biancospino. Domandò all’infermiera di essere portata, dopo colazione, nella stanza dove c’era l’internet point e quando fu seduta davanti allo schermo di un computer cercò il significato di quei due fiori e quando lo lesse rimase quasi commossa nuovamente. L’acacia era simbolo di amore platonico e disinteressato, mentre il biancospino era simbolo di speranza. Erano entrambi bianchi e su internet quello era il colore particolarmente indicato per i due significati. Si domandò se fosse stato veramente Floriant, e presa da un’improvvisa euforia andò a cercare qualche notizia di lui su social network vari. Scoprì che sua madre componeva bouquet, e si sentì imbarazzata ma felice di questa scoperta. Forse, pensò, non tutto sarebbe andato a rotoli.


Tornò a casa all’inizio della settimana seguente e fu un’impresa. Saggiamente, Meg aveva ingaggiato Febo per il trasferimento e si rivelò un’ottima idea: un sacco di giornalisti e paparazzi stavano intorno alle ragazze per sapere tutti i dettagli dell’accaduto. Meg strinse la mano di Blanche con decisione e la ragazzina corse nella macchina della polizia mentre ancora il detective diceva a destra e a manca che non aveva intenzione di parlare con nessuno. Le raggiunse in macchina e sgommò via.
L’enorme proprietà le sembrava tutto tranne che casa sua, in quell’assolato mercoledì di fine luglio. Entrò dalla porta principale e in un primo momento si sentì terribilmente spersa, guardandosi intorno. Meg si espresse con un fischio.
“Che casa!” esclamò impressionata. Blanche le sorrise e le mostrò la camera che avrebbe occupato, mentre Febo portava le valige al piano di sopra. La ragazzina entrò in camera sua, bianca e rossa, di cui aveva scelto i mobili proprio insieme a Grimilde, per festeggiare il suo arrivo nei teenager, quando aveva compiuto tredici anni.
Le sembrò la camera di qualcun altro, perché era piena dei suoi ricordi, della sua vita prima della festa.
Erano arrivati da poco quando si sentì il telefono squillare. Blanche andò in corridoio, mentre Meg sporse la testa dalla stanza guardandosi intorno in cerca della cornetta. La mora, che sapeva esattamente dov’era, vi si diresse e rispose.
“Pronto?” domandò.
“Signorina Woodson?” domandò la voce di una donna dall’altra parte della conversazione.
“Si, sono io. Chi parla?”
“Mi chiamo Megan Johannson, una giornalista, volevo chiederle di fare una dichiarazione sugli uomini che l’hanno così brutalmente stuprata e le hanno rovinato la vita e…” Blanche impallidì. Meg, che aveva supervisionato il discorso, le strappò la cornetta di mano.
“Vai a diavolo!” urlò, per poi riporre il telefono “Cosa ti ha detto?”
“Niente. Mi ha chiesto di parlare di quello che…” cominciò, ma il telefono squillò di nuovo. La ragazza l’afferrò.
“Che c’è?”. Blanche capì che non era abituata a rispondere alle telefonate. Qualche secondo dopo arrossì di rabbia “Ma la volete smettere? Dio santo, è una ragazzina appena tornata dall’ospedale!” buttò giù l’apparecchio nuovamente, poi si rivolse a Febo, al piano di sotto, urlando attraverso le scale “C’è un modo di bloccare questa cavolo di linea telefonica?”
“Detto fatto, dolcezza!” esclamò il poliziotto “Ci vediamo più tardi con un esperto, ora devo andare in centrale, ma tornerò dopo pranzo!”. Uscì e Meg e Blanche rimasero da sole nell’enorme casa. La ragazzina si piazzò davanti alla televisione, stanca e un po’ scioccata per tutti quei giornalisti che continuavano a chiamare e a suonare alla porta, che lei non apriva. Sperava si stancassero, prima o poi. La sua nuova coinquilina fece un giro della casa per farsene un’idea, poi cominciò a preparare da mangiare e dopo pranzo si rinchiuse nell’ufficio che era stato di Maximilian: aveva deciso di ragionare sull’economia di quel posto per poterlo portare avanti finchè la ragazzina non fosse diventata maggiorenne, e per non lasciare l’azienda a qualcun altro che avrebbe potuto approfittarsene. Ormai non si fidava più di nessuno.
Blanche, dal canto suo, aspettò l’arrivo di Febo, lo fece entrare con l’uomo che staccò la rete telefonica della casa e offrì loro qualche dolce che era rimasto in dispensa, chiamò con il cellulare un negozio di consegne per farsi portare la spesa e la sistemò, dopodiché, per la prima volta dopo tanto tempo, si sedette davanti al computer con la pagina di un social network davanti. Si creò immediatamente un nuovo profilo e aggiunse solo chi conosceva. Decise anche di chiedere l’amicizia a Floriant, in fondo poteva essere una cosa normale cercare un contatto con un compagno di scuola… si mise poi d’accordo con Ariel, Aurora e Jasmine, che sarebbero andate a trovarla il giorno seguente, e passò la serata con Meg, guardando un film d’amore in tv che lasciò la rossa incantata fino alla fine, dopodiché andarono a dormire.


Il giorno dopo Meg le annunciò che aveva chiesto alla sua psicologa, che era anche la madre del suo ragazzo, di andare a far loro visita. I medici le avevano consigliato di sottoporla ad alcune cure psicologiche dopo il coma e i vari traumi, così Blanche accettò, fidandosi del giudizio della ragazza. In solo qualche giorno aveva capito la personalità della tutrice e si era resa conto che non avrebbe consegnato nessuna informazione nelle mani di alcuno, a meno che non fosse davvero degno di sapere. Così decise che la dottoressa Juno, così l’aveva chiamata, avrebbe potuto essere un aiuto anche per lei.
La dottoressa e il figlio, chiaramente impaziente di vedere la fidanzata, arrivarono verso le quattro del pomeriggio, portando dolci e pasticcini che mangiarono insieme. Meg ed Herc le lasciarono sole in salotto.
“Ciao Blanche” la salutò la dottoressa “Io sono la dottoressa Aileen Juno, dammi del tu, per favore”
“D’accordo” acconsentì la ragazzina un po’ turbata, nervosa a trovarsi davanti a una persona che sapeva potesse interpretare in maniera fin troppo esatta ogni suo atteggiamento. Si sentiva scombussolata e un po’ punta sul vivo, non aveva intenzione di farsi scoprire così da una donna adulta, anche se doveva ammettere che la psicologa era la quintessenza della cordialità e della fiducia. I lunghi boccoli biondi, i chiari occhi azzurri e il sorriso aperto la facevano sembrare una ragazzina e pareva che irradiasse raggi luminosi dal suo essere.
“Come stai?” le domandò, servendosi di un pasticcino alla panna.
“Non lo so … ogni tanto mi sento quasi contenta, a volte molto triste” ammise stringendosi nelle spalle.
“Capisco, penso sia perfettamente normale, povera cara… mi immagino tutto ciò che hai dovuto passare! Mi dispiace tanto. E fisicamente, come ti senti? Va meglio?”
“Molto. Riesco già a comporre i numeri sul cellulare da sola, anche su una tastiera piccola, e a legarmi i capelli” disse con voce piatta. La dottoressa le sorrise in un modo che la fece sentire comunque fiera di se stessa per il risultato.
“Ma è meraviglioso! Riesci già a fare tutto questo! Sono sicura che non manca molto anche al resto. Che brava!” Blanche arrossì imbarazzata “E dimmi, come ti trovi con Meg?”
“Bene, è un po’ strana ma è una brava ragazza. Mi ha detto che anche lei non ha avuto un bel passato”
“Si, hai ragione, è una bravissima persona” concordò Juno “E’ solo un po’ difficile da prendere, ma devi pensare che lei è fatta così: la sua vera essenza sta dentro un recinto, a volte la fa uscire per andare incontro agli altri perché è molto dolce, ma non fa avvicinare nessuno. Ha bisogno dei suoi spazi. Io non avrei mai detto che ti avrebbe fatto da tutrice, ma a quanto pare l’hai colpita proprio molto. Penso sarà un’ottima sorellona” la ragazzina sorrise, colpita dall’esempio banale eppure perfettamente coerente della psicologa. “E per il resto? I tuoi amici?”
“Io non avevo amici …” sospirò lei “Ma dopo il coma mi sono trovata intorno un sacco di persone, e Meg dice che ci sono anche altri che mi vogliono incontrare, e vuole organizzare una festicciola per il mio risveglio, per farmi conoscere tutti”
“Davvero?” esclamò la dottoressa “Ma è magnifico! Spero lo farà il prima possibile! Ora, Blanche, vorrei solo parlarti di un paio di cose, anche se non sono molto belle… e poi passiamo a qualcosa di più piacevole, ma sono cose che bisogna dire. Per prima cosa, non so se ti hanno detto che hanno trovato chi sono i sette uomini che…” si fermò con il viso preoccupato, sospirò profondamente e prese un altro pasticcino “Ecco, li hanno trovati tutti. Sono ragazzi piuttosto giovani in effetti, sono disoccupati da quando hanno finito la scuola, la loro età è compresa fra i venticinque e i diciannove anni. Sono stati messi in prigione e non ne usciranno per una ventina d’anni ciascuno.” Blanche si sentì un po’ indispettita perché avrebbe preferito che stessero lì dentro per sempre, invece si rese conto che dopo quella ventina d’anni avrebbero ricominciato a riapparire nei suoi incubi. Non avrebbe più potuto dimenticare quella sera. “E l’altra cosa… Grimilde adesso è imputata. Dopodomani ci sarà il processo contro Ursula e spunterà fuori anche lei. Ora è in prigione con gli altri.” Le appoggiò una mano su un ginocchio “Mi dispiace davvero che tutto ciò sia accaduto proprio a te, bambina. Mi spiace tanto. Se mi vorrai parlare, in qualsiasi momento, troverò il modo di venire subito da te.”
“Grazie” disse la ragazzina a bocca secca.
“Ed ora parliamo di cose più allegre. C’è qualcuno che ti piace, che ti interessa? Un ragazzino, forse?” le strizzò l’occhio e Blanche prese un pasticcino a sua volta, un bignè. Lo mangiò tutto imbarazzata al rispondere.
“Si, ce n’è uno” disse con una sicurezza che non capì bene da dove arrivava, pur arrossendo e sentendo il fiatone il suo tono di voce era deciso “Si, si chiama Floriant Prince e mi ha portato moltissimi fiori mentre ero all’ospedale.”
“Ma è bellissimo! Perché non lo inviti quando farete la festa?” domandò allegra la donna. La ragazzina scosse la testa.
“No, non gli ho mai parlato.” La conversazione cadde lì e la dottoressa se ne andò, mentre Meg ed Herc rimasero insieme, e poco dopo arrivarono Ariel, Aurora e Jasmine a farla ridere un po’. Sembravano sincere e Blanche ebbe la sensazione di aver finalmente trovato delle vere amiche.


Un paio di giorni dopo, Blanche era davanti alla finestra più grande della casa e guardava fuori, sognando Floriant. Ricordava la prima volta che si erano incontrati, o meglio, la prima volta che l’aveva visto. Era a scuola, e stava mettendo a posto i libri nel suo armadietto, quando, chiudendolo, aveva visto che due o tre sportelli più in là c’era il ragazzo più bello che lei avesse mai visto: capelli castani ed occhi castani, niente di particolare, ma con tratti del viso dolci e il nasino alla francese che lo facevano sembrare un ragazzino, nonostante i muscoli delle gambe e le mani dalle lunghe dita. Aveva una leggera peluria sotto il naso, che si continuava a strofinare, chiaramente a disagio. Indossava un paio di normalissimi blue jeans e una camicia blu scuro, sotto la giacca grigia della divisa e quando si era voltato, chiaramente sentendosi osservato, la ragazza aveva visto grandi occhi leggermente a mandorla sormontati da lunghe e dolci ciglia. Si era immediatamente innamorata.
E poi aveva saputo che era stato proprio lui a portarle i fiori quasi ogni giorno. Che scema a non aver guardato subito il significato dei fiori che lui le portava! Sorrise al pensiero degli ultimi due che aveva ricevuto. Acacia e biancospino. Amore platonico e speranza. E l’amore platonico era qualcosa di talmente forte e superiore alla materialità che solo il pensiero la faceva arrossire e capire che probabilmente era il ragazzo giusto per lei. Sapeva bene che se avesse avuto lui, non avrebbe mai più voluto nessun altro, perché per lei era già il massimo, e avrebbe fatto di tutto per tenerselo, qualsiasi cosa. Si domandò se fosse veramente questo l’amore.
Fu proprio allora che, distratta dalla sua domanda dal pensiero di Floriant che arrivava in camera dell’ospedale e le posava i fiori sul comodino, si chinava e le dava un dolce bacio, le suonò il cellulare. Era un numero sconosciuto. Per un momento le venne il timore che fosse qualche giornalista che per l’ennesima volta voleva torturarla parlando di ciò che era successo, ma poi pensò che i giornalisti non avevano il suo numero e che in caso avrebbe anche potuto cambiare scheda del telefono, così schiacciò il pulsante verde per accettare la chiamata.
“Pronto?” domandò con voce flebile, in attesa di una risposta.
“Ciao” le disse una voce che riconobbe subito, che la fece arrossire, ansimare e quasi svenire. Sentì il sangue andarle velocemente alla testa e per un momento vide tutto appannato e non capì bene ciò che stava succedendo. Ci mise qualche momento a capire ciò che le era stato detto (un semplice ‘ciao’, ma le sembrava qualcosa di estremamente complicato), assimilarlo e capire cosa doveva rispondere. Floriant.
“C – ciao…” disse infine, travolta dall’emozione.
“Come… come stai?” domandò lui, che pareva imbarazzato quanto la ragazzina.
“Bene… bene, e tu?” chiese lei, che provava l’impulso di alzarsi e mettersi a camminare per il corridoio per scaricare la tensione, ma si rendeva conto nello stesso momento che se si fosse messa in piedi le gambe non l’avrebbero retta.
“Bene, grazie… Aurora mi ha dato il tuo numero… sai, siamo amici… mi ha detto che sarebbe stato educato chiederti come stavi e quindi… quindi ho chiamato” Blanche si sentì cadere il mondo addosso con quelle parole. Pensò che probabilmente Floriant era innamorato di Aurora, ecco perché si era sentito in dovere di chiamarla quando lei gliel’aveva proposto. Si sentì tradita e triste e avvertì un brivido di freddo nonostante fosse ormai la fine di luglio, quando avvertì tutto il calore del sangue alla testa ridiscendere vertiginosamente.
“Ah” commentò “Beh… grazie per i fiori. Sei stato tu, vero?”
“Si… hai mica… visto il significato?” domandò titubante. Blanche si sentì illusa e presa in giro. Certo che aveva visto il significato, era ovvio! Ovvio che aveva visto cosa significavano ed ovvio che ci aveva creduto! Invece lui era come Grimilde, come Aurora… erano tutti dei bugiardi e nessuno in realtà teneva a lei.
“No, non ci ho proprio pensato. Avrei dovuto?” domandò con una punta d’acidità.
“Beh… volevo esprimere con i fiori ciò che volevo dire ma che non riuscivo e…”
“Oh, vai al diavolo!” esclamò, ripetendo le parole di Meg, sapendo che si sarebbe così fatta rispettare. Floriant non rispose, lei fece cadere il telefono a terra e si rannicchiò accanto a lui, mentre sentiva la voce dolce di Floriant che la chiamava. Dalla porta dell’ufficio spuntò il viso di Meg, sempre immersa nel suo studio.
“C’è qualcosa che non va?” domandò gentilmente. Blanche non la lasciò nemmeno finire, si alzò e corse giù dalle scale, dalla porta del retro uscì in giardino e corse fuori, nella città, incurante di Meg che la richiamava, dei giornalisti che tentarono di seguirla, delle raccomandazioni dei medici di non correre e di non farsi del male. Incespicando, cercò disperatamente un luogo in cui potesse stare da sola.


Si fermò al tramonto, nel parco, si sedette sotto un salice piangente e si appoggiò al tronco, sentendo il cuore battere aritmicamente troppo forte, le tempie pulsare e i polmoni dilatati. Ansimava e si sentiva terribilmente sudata dal caldo e dalla corsa. Si accorse di non avere portato proprio nulla con sé, aveva solo una maglietta a righe gialle e bianche, i jeans blu fino al ginocchio e delle scarpette gialle, delle ballerine, abbinate alla maglietta. Nient’altro. Sentì la pelle delle gambe e delle mani contro l’erba e si sentì quasi a posto. Guardando le scarpe, si rese conto che il fiocchetto su una delle due si era sciolto, piegò la gamba per raggiungere il piede e provò a legarlo, ma le mani non le rispondevano, non sapeva come andare avanti, non riusciva a legare agilmente e nemmeno lentamente. Dopo una decina di minuti esasperati lasciò perdere e si appoggiò al tronco dell’albero. Le veniva da piangere. Niente nella sua vita stava andando bene, dalla morte del padre. Tutto stava diventando una catastrofe e lei non sapeva come uscirne, che cosa fare, come reagire. Non riusciva nemmeno ad allacciare un fiocco sulle scarpe. Immerse la testa fra le braccia e le venne da piangere, cercò di trattenersi ma la fatica e la stanchezza non glielo permisero.
Venne distratta da un tocco caldo e gentile su una spalla. Alzò la testa e si trovò davanti Floriant. Arrossì violentemente e cercò di alzarsi ma lui si sedette accanto a lei.
“Speravo di farti piacere con quei fiori” affermò. Lei si morse un labbro, sentendo in gola il sapore amaro della delusione. Non lo guardò nemmeno, concentrandosi sulle foglie che si muovevano al vento.
“Mi hai chiamata solo per far piacere ad Aurora, vero? Sei innamorato di lei” lui la guardò con gli occhioni spalancati, senza capire.
“Di Aurora? Ma lei è solo una compagna di classe che mi è amica. Mi ha mandato lei il tuo numero perché ha detto che ti avrebbe fatto piacere dato che sa… ecco… sa che…” Blanche si girò a guardarlo un momento, sentendosi sopraffatta nuovamente dalle emozioni. Sentì anche il cuore battere sempre più forte e irregolare. “Che…” balbettò lui. Ma la ragazzina non sentì la fine del discorso. Svenne.


Si risvegliò in un lettino dell’ospedale, con l’abat-jour accesa e si rese subito conto di non essere sola. Sentiva passi che andavano e venivano sempre per lo stesso percorso davanti a lei e una voce bisbigliare qualcosa al telefono, freneticamente. Aprì gli occhi e vide Meg, la coda scompigliata, che parlava velocemente al telefono. Quando si girò e la vide salutò di fretta e chiuse il cellulare. Le si avvicinò.
“Come stai?” domandò ansiosamente.
“Bene” disse Blanche, sentendosi terribilmente in colpa per essere finita nuovamente all’ospedale.
“Perché ti sei messa a correre? Lo sai che hanno detto i medici che non devi. Non dovevi nemmeno uscire di casa. Per fortuna che ho raccolto il tuo telefono e che quel ragazzo è andato a cercarti, mi ha chiamata quando sei svenuta, e non sapeva che fare” la ragazzina si sentì ancora più in colpa.
“Mi dispiace” mormorò “Io pensavo che lui fosse innamorato di Aurora e quindi…” Meg incrociò le braccia ma non disse niente. Si diresse solo verso la porta.
“Vado a prendere qualcosa da mangiare” le disse poi “Stanno arrivando Febo ed Esmeralda”. Blanche si mise seduta e si rese conto di essere stata davvero stupida per ciò che aveva fatto. Che senso aveva scappare al parco per farsi del male, sapendo di non poterlo fare, svenire davanti al ragazzo di cui era innamorata, che le aveva confermato di non essere innamorato di Aurora? Che stupida era stata a pensarci, ma capiva che una ragazza come lei, bionda, alta, intelligente, simpatica e di buona famiglia piacesse molto più di lei. Si rese conto di aver rischiato in ogni caso la propria salute, di aver rischiato di comprometterla.
Si rese conto ancora una volta di quanto stava male. Capiva che la sua vita era totalmente rovinata, che non aveva più nemmeno una certezza e che quei giorni erano passati come un sogno. Non sapeva bene nemmeno lei come avesse fatto a sopravvivere quei giorni a casa sua, solo con Meg. Non si era aggrappata a nulla e ora si rendeva conto che doveva decidere se andare avanti e cadere nel baratro della tristezza oppure cominciare a contare su se stessa e tirarsi su.
Proprio mentre stava riflettendo su queste parole la porta della stanza d’ospedale si aprì ed entrò una ragazza che le mozzò il fiato: era bellissima. Capì immediatamente che era Esmeralda. Alta, la pelle olivastra, penetranti occhi verdi e una chioma leonina di capelli scuri. Indossava grossi orecchini a cerchio, un paio di jeans rossi e una maglietta bianca, così come le scarpe da tennis. Dietro di lei c’era il poliziotto che l’aveva accompagnata a casa il giorno che era uscita dall’ospedale ed entrambi sembravano un po’ preoccupati.
“Ciao” la salutò la ragazza “Io sono Esmeralda, l’amica di Meg. Mi ha chiesto di venire a conoscerti e di stare un po’ con te, oggi. Vi farò un po’ compagnia. Come mai sei scappata?” Blanche si rese subito conto di quanto fosse diretta quella ragazza e si sentì un po’ in soggezione. Le disse che voleva restare sola e la ragazza si chiuse in uno strano silenzio. Febo scherzò per sciogliere la tensione, ma senza grande successo. Poi tornò Meg e mangiarono insieme.
“Torniamo a casa fra non molto, devono solo farti dei controlli. E tu devi assicurare che non correrai più finchè non stai bene, e soprattutto che baderai a te stessa. Non puoi permetterti di fare cose stupide in questo momento.” le disse la rossa porgendole un panino “Ci sono i giornalisti che non vedono l’ora che tu esca di casa per aggredirti di domande, e possono essere davvero stressanti. I paparazzi non aspettano altro che beccarti in una situazione imbarazzante. E poi il processo non è ancora finito, non sappiamo se Grimilde e Ade hanno ancora contatti là fuori. Hai una casa che è una specie di piccola città, per un po’ di tempo sarà meglio che ti adatti a stare lì, poi quando la faccenda sarà scemata, cominceremo a uscire.”
“Va bene. Scusami. È solo che… avevo bisogno di stare sola” ripetè la ragazzina.
“Puoi stare sola in molti modi diversi, non solamente scappando di casa” commentò Esmeralda, guardandola in un modo che sembrò penetrarla “Credimi, io e Meg in questo siamo due specialiste. Devi abituarti a stare da sola con te stessa, non materialmente. Perché in un mondo di sette miliardi e mezzo di persone, credimi, non sarai mai sola.” Blanche memorizzò le sue parole e decise di farne tesoro, perché avevano un senso vero e grave.
Tre ore dopo, in seguito ai vari controlli di routine, i quattro uscirono dall’ospedale e si diressero verso la casa di Blanche. Arrivarono che i giornalisti sembravano moltiplicati, ma Meg, Febo ed Esmeralda si frapposero fra loro e la ragazzina e riuscirono ad entrare in casa senza particolari problemi. In quel momento, la mora si rese conto che stavano veramente facendo un lavoraccio per lei e che non poteva permettersi di correre ancora rischi così grandi. Appena arrivata si chiuse in bagno e si immerse nella vasca idromassaggio, sospirando e pensando. Ripensò a cosa le aveva raccontato Meg e alle sue nuove amiche, Jasmine, Aurora ed Ariel. Cercò di ricordarsi i nomi di tutte le persone coinvolte nella vicenda. Pensò ad Aurora, che aveva organizzato la festa per le sue amiche, senza sapere che sarebbe accaduta una catastrofe e che invece si era ritrovata in coma lei stessa e con un’altra ragazzina sulla coscienza. Pensò ad Ariel, che l’aveva trovata e aveva cercato di rianimarla, che le era stata accanto e si domandò cosa potesse aver provato vedendola priva di sensi, drogata e stuprata. Pensò a Jasmine, che in tutta la situazione era riuscita ad andarsene per inseguire i suoi sogni per poi tornare e proporsi sua amica, con grande coraggio. Pensò a Belle e Jane, le ragazze che avevano investigato sulla vicenda, scoprendo che la verità non era solo una festa andata male, ma che c’era ben altro dietro. Pensò ad Esmeralda che, innocente, era stata incolpata di crimini mostruosi, che aveva rischiato di finire all’ergastolo. Pensò a Cindy, la ragazza che lavorava con Esmeralda, l’unica che si era sempre schierata dalla sua parte, che non aveva mai abbandonato la parte della verità. Pensò a Meg, che per anni era stata illusa e presa in giro e che appena l’aveva scoperto, era stata così sensibile e buona da prendersi la responsabilità della sua vita, della sorellastra che le era stata nascosta per anni. Si sentì uno schifo. Erano tutte persone meravigliose, e lei era l’unica che non sapeva cosa fare, che non aveva combinato nulla per loro, che non aveva fatto proprio niente per aiutare nessuno, era stata lì, semplicemente ad essere salvata. Passiva. E non voleva più esserlo.
Uscita dalla vasca si asciugò e indossò un abitino rosso che le stava molto bene,un paio di ballerine in tinta e scese per la cena. E si stupì.
Il salotto era gremito di persone che parlavano freneticamente fra loro, c’era un grande tavolo con cibi di ogni sorta che mandavano odorini sfiziosi, palloncini colorati erano arenati sull’alto soffitto o erano attaccati a sedie e tavoli, tutti erano vestiti a festa.
“Che succede?” domandò, e in quel momento una ventina di visi sorridenti si girarono a sorriderle, esclamando insieme ‘Ben tornata’. Scese le scale come in un sogno e Meg le andò incontro e la abbracciò calorosamente, con un gran sorriso che le era quasi estraneo. Blanche la guardò. Era bellissima con i capelli sciolti sulle spalle, lunghi e ramati, l’abito viola a costine le fasciava il corpo pallido e sottile e gli occhi viola circondati di nero erano ancora più in risalto.
“Ti avevo promesso una festa” le bisbigliò “Questa sera pensa solo a divertirti, non voglio musi lunghi né nient’altro, okay? A problemi, ringraziamenti eccetera pensiamo domani” poi la lasciò e si fece avanti la coppia più bella che Blanche avesse mai visto. Non aveva mai incontrato Cindy Tremaine e Christopher Leroi insieme, ma sembravano usciti da un giornale patinato di vip. Lui era abbigliato con un elegante completo grigio fumo di Londra, lei, in abitino bianco di pizzo ricamato, con le maniche che le arrivavano fino al gomito e alte scarpe col tacco, in tinta con la borsetta color pelle. La guardò con dolcezza e la baciò sulle guance.
“Siamo così felici che tu ti sia risvegliata… sono stata in ansia per tutto il tempo, e abbiamo anche posticipato la partenza per il Canada quando ti sei risvegliata! Volevamo salutarti…” disse velocemente, come se troppe parole le stessero arrivando alle labbra “Però siamo così contenti di essere rimasta… ti auguriamo una vita piena di gioia e felicità, anche se il passato non è dei migliori… mi raccomando! Ci sentiremo, ti farò avere il mio numero, d’accordo?” la ragazzina frastornata da tanta sincera felicità e interesse annuì come in trance. Chris le fece l’occhiolino e lei arrossì: era pur sempre un ragazzo bellissimo. Notò Esmeralda che la salutava sorridente, appoggiata a un muro accanto al buffet, Febo che le cingeva un fianco e che parlava con Herc, che controllava ogni minuto dove fosse Meg. Poi fu soffocata da un fortissimo abbraccio.
“Oddio, ti sei svegliata, eravamo tutti così preoccupati! Sono venuta a trovarti mentre dormivi!” quando la persona si staccò, Blanche potè vedere che si trattava di una ragazzina dai capelli castani e bellissimi occhi fra il blu e il grigio. Dietro di lei, un ragazzo alto, con lunghi rasta ed espressione corrucciata li guardava dubbioso.
“Perché Jane urla e stringe?” domandò.
“Ma come perché, Tarzan!” esclamò Jane “Perché si è svegliata! E’ per lei che abbiamo fatto tutto quel lavoro! Sai, quando siamo andati al Bazar, alla polizia, all’ospedale…”
“Ah… capisco” disse lui, con intonazione strana, come se l’avesse copiato da qualcuno. Blanche scoppiò a ridere.
“E dai, Jane, lasciala respirare!” esclamò ridendo un’altra ragazza castana, che le porse timidamente la mano “Io sono Belle… ho aiutato Jane, anche se non moltissimo” le sorrise, indicandole il ragazzo dietro di lei, che sorrideva. Aveva una spaventosa cicatrice in viso, ma la ragazzina lo riconobbe immediatamente: c’era una sua foto molto grande in presidenza, era il ragazzo di cui tutta la scuola, a distanza di anni, parlava, il ragazzo più bello della scuola, quello con i voti migliori, che aveva vinto un sacco di borse di studio. Si sentì mancare.
“Piacere…” balbettò. Mentre si stringevano le mani spuntarono anche Jasmine, che trascinava per mano un ragazzo moro dalla pelle olivastra, che capì essere Ali, suo marito (che strano pensarlo, a quattordici anni), Ariel seguita a ruota da un altro ragazzo moro con gli occhi chiari e Aurora, poco distante, con un ragazzo per mano, castano e bellissimo.
“Ci siamo anche noi!” esclamò Ariel “E ti abbiamo portato una sorpresa. Non sopportavamo non farne nessuna, sai, alla fine è normale, ti sei appena svegliata e dovevamo festeggiare, così abbiamo pensato di…”
“Ariel, respira” la interruppe Jasmine. La rossa eseguì e Blanche scoppiò nuovamente a ridere. Non poteva credere che persone tanto simpatiche si fossero interessate a lei, e capì in quel momento che tutti loro si sarebbero sempre sentiti legati profondamente dal filo dell’amicizia.
“Insomma, abbiamo una sorpresa per te, ma te la vuole far vedere Aurora, perché, come al solito, vuole farsi vedere” concluse Ariel.
“Non cerco di farmi vedere!” esclamò Aurora poco dietro di lei.
“Invece si!”
“No, invece, sei tu la solita egocentrica!”
“Egocentrica io?!”
“Si, chi è che sta strillando per tutta la casa? Sei a una festa, non in un pollaio!”
“Mi stai forse dando della gallina?”
“Okay ragazze, è l’ora di smettere!” si intromise Jasmine, facendo scoppiare tutti a ridere.
Blanche passò una bellissima serata. C’erano proprio tutti. Scambiò il suo numero con tutti i presenti, parlò e rise e lasciò le preoccupazioni in un angolino indisturbato del cervello, come aveva detto Meg, perché voleva godersi il primo momento di felicità dopo essere uscita dal coma. Capì che tutti in quella stanza avevano un carattere ben definito che si andava ad intrecciare perfettamente con quello degli altri, che erano tutte persone per bene e che a causa sua qualcuno aveva avuto del filo da torcere. Pensò però che quella festa era bellissima. Non come la sua prima, in cui era finita in coma. Ora non c’era nessuno ad intaccare la sua serenità: ora non c’era Grimilde che tramava alle sue spalle, non c’era Vanessa – Ursula che si fingeva sua amica per poi drogarla, non c’erano uomini che volevano stuprarla. Poteva stare tranquilla e poteva godersi l’affetto che quelle nuove amiche le davano. Si sentiva felice e sentiva la sincerità nelle parole e negli sguardi delle altre.
La serata era quasi finita, quando Aurora le si avvicinò e la prese a braccetto, cominciando a passeggiare per il grande salotto.
“Mi hanno detto che hai avuto una terribile svista” le mormorò “E ieri sei scappata pensando che Floriant ti avesse chiamata perché gliel’avevo chiesto io, giusto?” Blanche arrossì violentemente. La bionda ridacchiò. “Non temere, non ti prenderò in giro. Volevo solo chiarire questo punto, dato che adesso siamo amiche. In realtà io ho scritto a Floriant il tuo numero perché sapevo che era venuto ogni giorno in ospedale a portarti i fiori, e vuoi dire che non mi sono accorta di quanto fosse innamorato di te? Lo conosco da anni, quasi tutti i corsi a scuola li facciamo insieme” fece una breve pausa “Proprio per questo pensavo di farti una bella sorpresa, facendoti chiamare da lui. Mi spiace che tu abbia frainteso.”
“Io… è solo che tu sei molto bella e intelligente e io…” balbettò la ragazzina, mentre Aurora rideva di gusto.
“Ma dai, smettila! Essere bionde, alte e ricche non vuol dire niente sai, almeno in quel campo” sospirò profondamente “Sai, prima che Filippo arrivasse qui per l’università, io ero innamorata di Eric, ci frequentavamo già da un po’ quando un giorno lui e Ariel si sono incontrati ed è nato l’amore. Inizialmente l’ho accettato, ma dopo essermi risvegliata dal coma non ricordavo nulla… è stato un momento terribile perché le mie migliori amiche non mi erano accanto, il ragazzo di cui ero innamorata si era preso una cotta colossale per la mia migliore amica e io mi sono resa conto che la festa era stata un disastro e che a una ragazzina, cioè tu, erano accadute cose terribili. Sono andata dritta da Ariel e l’ho insultata pesantemente, dopodiché mi sono sentita molto meglio.”
“Ma lei non se l’è presa?” domandò Blanche colpita dal racconto di Aurora. Non avrebbe mai pensato che fra quelle tre fossero successe tutte queste cose, tutti questi problemi. Sembravano così unite.
“Certo che no, in fondo se l’aspettava dal principio” disse la bionda ridendo “Abbiamo fatto pace pochi giorni dopo ed ora sono più che felice che la storia con Eric sia andata così, perché la mia migliore amica è felice, il suo ragazzo anche e io ho trovato qualcuno che mi merita ancora di più, perché non si distrae con le amiche” scherzò “In ogni caso, ti ho raccontato questo per farti capire che non importa di come sei esteriormente, perché le persone sono tutte diverse e come a Filippo o a Christopher piacciono le bionde, Eric preferisce le rosse, Adam ama gli occhi da cerbiatto e il detective Sungood preferisce il fascino zingaresco. È tutto soggettivo. Non è detto che dato che mi ha nominata, Floriant preferisca me.” Blanche arrossì ancora. “Anzi, ti consiglio di dare un’occhiata al cellulare” disse poi, staccandosi da lei e sorridendole “Io vado a vedere cosa combina il mio principe”, poi Aurora andò via, leggiadra e bellissima. Blanche rimase sola in mezzo alla sala, estrasse il cellulare da una tasca dell’abitino e vide che le era arrivato un sms un quarto d’ora prima. Il numero era sconosciuto e quando l’aprì e lesse le prime righe, non potè che rimanere senza fiato. L’aveva inviato Floriant, le scriveva che l’aspettava nel suo giardino, se avesse voluto, che voleva parlarle e spiegarsi. La ragazzina rispose precipitosamente di si, che si sarebbero visti subito, che stava uscendo di casa.
Disse a Meg che sarebbe uscita in giardino a prendere una boccata d’aria e si lasciò la festa alle spalle. Appena fuori si rese conto di essere stata una stupida: il suo giardino era gigantesco, molto più grande della casa, e sicuramente il ragazzo non l’avrebbe trovata. Tirò nuovamente fuori il cellulare, allontanandosi abbastanza dalla finestra per non farsi vedere dagli altri e quasi andò a sbattere contro qualcuno. Sobbalzò spaventata e si allontanò di un passo, ma quando la luce del telefonino le mostrò il viso di Floriant, si tranquillizzò. Notò che anche questa volta aveva in mano un fiore, che era in tinta col suo abito per uno strano gioco del destino. Glielo porse imbarazzato.
“Questo è per te. È solo un fiore, perché non ne servono molti” disse impacciato “Si perderebbe il significato” Blanche prese delicatamente lo stelo in una manina pallida, guardò il ragazzo rossa in viso e molle nelle ginocchia, ma gli sorrise e trovò il coraggio di parlare.
“E qual è il suo significato?” domandò in un sospiro.
“Questo è un tulipano rosso” le rispose il ragazzo, che parlando di fiori sembrava molto più sicuro di sé “E significa ‘dichiarazione d’amore eterno’.” La ragazzina sentì il cuore palpitare nel petto, caldo e dolce, qualcosa di nuovo le riempiva l’anima.
“Peccato che non ne abbia nel mio giardino” disse poi “Avrei potuto regalartene uno anche io”
Floriant le sorrise, e Blanche sentì il cuore librarsi fuori dal corpo, quasi in cielo. Lo guardò un momento, con dolcezza, e si capirono in un istante. Il ragazzo le appoggiò dolcemente la mano su un braccio e si avvicinò a lei per baciarla. Il tocco delle labbra fu leggero, sottile come il battito delle ali di una farfalla e a entrambi sembrò di finire in un altro mondo. Era qualcosa che andava oltre l’umano, molto oltre, qualcosa che riempì la ragazzina di una felicità nuova, e quando le labbra si staccarono, si trovò travolta dall’emozione e con le lacrime agli occhi. Non seppe frenarsi e scoppiò in lacrime, lasciandosi scivolare a terra, fra l’erba fresca.
“Che succede?” domandò Floriant preoccupato. Blanche non riuscì a trovare le parole per esprimere tutte le sue emozioni, riuscì solamente a dire:
“Sono felice”, e il ragazzo l’abbracciò.
Non si era mai sentita così ed era certa che non avrebbe provato mai più qualcosa del genere. Si rendeva conto che tutto il mondo in cui aveva vissuto aveva smesso di esistere nel momento in cui suo padre era morto. Le mancava molto, capiva che senza la sua guida tutto era andato a rotoli, la sua vita aveva preso una pessima piega e le peggiori disgrazie si erano abbattute su di lei. Poi tutto era cambiato, e si era accorta in quel preciso momento che aveva subito una metamorfosi, come una farfalla. Era stata un bruco, un bruco in mano alle bestie, in pericolo di vita ma protetto, non era stata colpita da nessun male, ma poi era arrivato il momento di cambiare, e la trasformazione era stata dolorosa. Ma quella sera il baco si era aperto e ne era uscita una meravigliosa farfalla. Capiva che poteva essere felice. Capiva che nonostante non avesse più un padre giusto e buono né una madre affettuosa, ora aveva una sorellastra magnifica che cercava di fare del suo meglio per starle accanto. Capiva che aveva l’affetto che desiderava, che aveva delle amiche, delle persone accanto, addirittura un ragazzo, e non un ragazzo qualsiasi, ma uno innamorato di lei. Capì che ormai il male era passato e che se aveva dovuto subire così tanto alla sua giovane età, il destino doveva starle intessendo una trama meravigliosa, libera da ogni difetto e bruttura e che finalmente poteva essere felice. Capiva che il bene aveva vinto sul male. Lei non era morta, la perfida Grimilde era in galera e non avrebbe più fatto del male a nessuno, la falsa Vanessa – Ursula era in prigione anch’essa, i ragazzi che l’avevano stuprata erano in carcere. Suo padre avrebbe voluto la sua felicità, e lei l’avrebbe soddisfatto. Sapeva che non avrebbe potuto avere figli, ma ciò non le impediva di provare, di tentare, di lottare con tutte le sue forze. C’era quel cinque per cento di possibilità e tanto bastava.
Floriant le asciugò le lacrime e lei si lasciò abbracciare dolcemente, poi si alzò in piedi.
“Stiamo facendo una festa, ti va di fare un giro?” lui annuì, i due ragazzi si presero per mano e rientrarono. Aurora le fece l’occhiolino, mentre quasi tutte le altre ragazze le andarono incontro per farle i complimenti e per sapere com’era andata.
La serata proseguì fantastica. Blanche si sentì finalmente felice.
E sapeva di avere un intero nuovo mondo davanti a sé.












Nymphna's Space: Ciao a tutti ^^ Eccomi finalmente con il penultimo capitolo di "A Whole New World". Che fatica! So che ci ho messo moltissimo a scriverlo, è stato un vero parto di capitolo, perchè dovevo parlare di tematiche abbastanza pesanti di cui fortunatamente non ho esperienza, sviluppare la storia e poi, soprattutto... questa è quasi la fine. Cavolo, non pensavo di riuscire ad arrivare fin qua, quando, nella ormai lontana estate 2012 progettavo questa storia. Eppure, è venuta fuori. E' nata ed è cresciuta bene, direi. Ho amato scrivere questo racconto. In principio la storia finiva qua. Poi ho deciso di aggiungere un altro capitolo. Abbiamo visto le avventure di tutte le nostre eroine, ma com'è andata a finire? Beh, ma questo lo vedremo quando avrò finito il prossimo, che sarà decisamente più complesso da scrivere, ma non temete, non vi abbandonerò!
Quando a Blanche. E' cresciuta. Si è dovuta rendere conto delle cose troppo presto, ma per fortuna ha accanto persone fantastiche (da diversi punti di vista). Beh, fatemi sapere se vi è piaciuto e che ne pensate della storia della piccola Blanche...
Ah già, volevo fare un appunto sul nome di Prince Charming. Ci sono diverse voci a riguardo. Alcune dicono Ferdinand, altre Floriant e molti altri nomi, ma pensando al personaggio, Floriant sa più di fiori, e quindi del tema della loro storia d'amore, perciò ecco qua il nome, anche se è solamente un'ipotesi.
Ringrazio moltissimo _BriciolaElisa_, petitecherie, Sissyl e Dora93 per i commenti, e anche Babykikokikka che non ha commentato lo scorso capitolo ma i primi tre si e quindi mi pare lecito ringraziarla ^^ Alla prossima :D
Nymphna <3

Ps: Vi lascio solo un link, quello della mia pagina Facebook, in caso foste interessati ^^ Se vi andasse di fare un giro mi farebbe piacere, ma questo è a vostra discrezione: http://www.facebook.com/NymphnaEfp?ref=ts&fref=ts

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Capitolo 10
*** 10 - A Whole New World. ***



 

Capitolo 10, A Whole New World
(giovedì 30 luglio
)



Era una giornata soleggiata a New York e il caldo cominciava a farsi sentire insistente. I clacson delle automobili e dei taxi per la strada non erano affatto cambiati negli anni. Jasmine aprì gli occhi, svegliata dalle allegre urla del figlio Ahmed che giocava con Rajah, ormai invecchiato e raddolcito. Si girò su un fianco e vide accanto a sé suo marito, l’uomo fantastico che l’aveva presa per mano una volta, al Bazar, quando non era altro che una ragazzina, e non l’aveva più lasciata. Dormiva con gli occhi chiusi, le palpebre che si muovevano velocemente nel sonno, la bocca leggermente aperta e una mano appoggiata sopra il petto. La donna si alzò dal letto e scivolò in bagno, decidendo di concedersi una veloce doccia prima di andare a dedicarsi della famiglia e dell’importante giornata che si sarebbe svolta alla Reggia del Sultano. Quando si fu liberata della maglietta e della biancheria, si guardò allo specchio, come quella mattina di dieci anni prima. Non era cambiata poi molto. La gravidanza non aveva avuto effetti sul suo corpo ed era rimasta tonica e magra, forse per la mole di lavoro che ogni giorno aveva davanti. I capelli erano sempre più scuri e lunghi, gli occhi dolci e maliziosi avevano preso una certa dolcezza in più, ma non si era alzata di un centimetro. Ridacchiando delle sue fissazioni passate aprì l’acqua e si lasciò scivolare via il sudore notturno.
Quel giorno era importantissimo, perché era la decima volta che lei e tutte le altre ragazze ormai legate dall’indissolubile filo dell’amicizia si incontravano per festeggiare la rinascita di Blanche Woodson.
Jasmine aveva ricevuto molte mail, fotografie e telefonate e sapeva benissimo cosa stavano facendo tutte quante, ma non si incontravano mai, per un motivo o per l’altro. In fondo erano cresciute e ormai ognuna aveva i suoi pensieri, non poteva certo distrarsi con le feste.
Per quanto la riguardava, a ventisei anni, Jasmine era perfettamente felice. Per quanto avesse odiato quella casa e quel ristorante del centro di Manhattan, aveva imparato ad amarli, a dare la vita per i clienti e per i tavoli e non avrebbe mai permesso che qualcuno di diverso dal figlio si prendesse cura di quel nido. Capiva finalmente tutti i timori e le paure di suo padre, che era andato in Texas dalla zia, ma sperava che Ali si sarebbe dimostrato più indulgente nei confronti del piccolo Ahmed. In caso contrario, ci avrebbe pensato lei.
Uscì dalla doccia avvolgendosi in un asciugamano ma si bloccò sulla porta sorridendo quando vide il figlioletto, seguito a ruota dal gatto, entrare nella camera di soppiatto e saltare sulla pancia del papà, che tossendo spaventato subì l’agguato di prima mattina.
“L’ho preso, mamma, l’ho preso!” esclamò il bambino “Ho preso papà, proprio come Rajah prende il topolino finto!” Jasmine scoppiò a ridere e si avvicinò a entrambi, diede un bacio sulla fronte di Ahmed e uno sulle labbra di Ali, dando loro il buongiorno, per poi andare a vestirsi, mentre il marito ringhiava al figlio e i due cominciavano un inseguimento per la casa. Alzò gli occhi al cielo, prevedendo un vaso rotto entro pochi minuti. A volte non riusciva proprio a capire chi fosse più bambino fra i due, se il figlio o il marito. Ma in fondo, pensò, non li avrebbe amati così tanto se fossero stati due persone serie da morire.
Si infilò un paio di morbidi pantaloni azzurri e una t shirt in tinta, si legò i capelli e andò verso la cucina. Li trovò a rovistare nel frigo insieme, li spostò ridendo e preparò per tutti latte e cereali. Ahmed li amava, e da bravo bambino adorava specialmente quelli al cioccolato, magari ripieni e croccanti. Mise il cibo sul tavolo e mentre Ali e il bambino aspettavano, Jasmine rovesciò un po’ di cibo nella ciotolina di Rajah che faceva le fusa e fece due grattini al gatto, poi si unì alla famiglia per la colazione.
“Oggi è una giornata importantissima” annunciò “E il ristorante rimane chiuso” Ahmed la osservò con gli occhioni scuri spalancati.
“Pecchè?” domandò con il suo accento ancora infantile. La donna gli fece un buffetto sul naso.
“Perché oggi è il giorno in cui mamma fa la festa con tutte le sue amiche. Verranno Ariel, Aurora, Blanche, Meg, Esmeralda… ma questa volta ci saranno anche Cindy, Jane e Belle, che arrivano da molto lontano” disse, mentre l’espressione del bimbo cambiava e diventava felice. Jasmine sapeva che adorava Melody, la figlia di Ariel, della sua stessa età. Era stato così strano sapere della vivace rossa che aspettava un figlio, ma ancor più sorprendente era scoprire com’erano diventati lei ed Eric: da buffi, divertenti e avventurosi erano diventati quasi seri nel seguire il loro tesoro, e una volta avevano addirittura ammesso di pensare a un altro bambino.
“Ti serve una mano a liberare il piano di sotto?” le domandò Ali con un gran sorriso. Jasmine annuì.
“Non ho mica la formidabile forza dei miei due ometti” scherzò.
Quand’ebbero finito di mangiare e si furono vestiti, tutti e tre si diressero al piano di sotto, per spostare tutti i tavoli contro il muro, in modo da avere un grande spazio libero al centro della sala. Jasmine si diresse in cucina, per quel giorno aveva chiesto ai cuochi di lavorare e andò a controllare. Erano arrivati i due chef che aveva chiamato per l’occasione con i loro aiutanti e l’aspettavano in attesa di direttive, mettendosi il grembiule. La mora porse loro dei fogli che aveva stilato, che comprendevano tutti i cibi preferiti di ognuno degli invitati da fare in abbondanza, in modo che potessero mangiare da pranzo a sera senza interruzioni e senza mancanza di cibo.
Quando tornò in sala cominciò a dare una mano al marito a spostare i tavoli, e anche il piccolo Ahmed aiutava trascinando le sedie da una parte all’altra. Jasmine sperò che crescesse nel suo cuore ancora infantile un amore incondizionato per il ristorante, a differenza dell’odio che l’aveva legata per anni della sua vita.
Quando la stanza fu libera lanciò un’occhiata all’orologio e quasi si spaventò quando vide che erano già le undici e mezzo di mattina.
“Oh, cavolo! Ali! Ti prego controlla gli chef! Devo prepararmi! Ahmed, tesoro, vieni con mamma!” esclamò, per poi scappare con in braccio il bambino al piano di sopra. Era una giornata importante e non poteva permettersi di avere nemmeno un capello fuori posto. Finì di asciugarsi i capelli e si truccò attentamente, sottolineando i suoi occhi scuri a mandorla, poi indossò un elegante abito di seta con le maniche corte, che le scendeva fino sopra il ginocchio, decorato ai bordi con ghirigori d’oro, in contrasto con il lilla del vestito, calzò delle eleganti scarpette con il tacco alto color oro, con un fiocchetto sul davanti, si pettinò meglio i capelli, infilò una collana e un bracciale e andò a preparare il figlio, abbigliandolo con un paio di pantaloncini scuri e una camicetta bianca che seppe già sporca entro la serata.
Quando tornò al piano inferiore, Ali la guardò scendere dalle scale a bocca aperta, arrossendo lievemente, e Jasmine gli volteggiò fra le braccia. Il marito l’abbracciò forte.
“Sei bellissima, come sempre” commentò baciandole la fronte.
“E tu boccheggi ancora quando scendo vestita bene, come una volta”
“Perché non è cambiato niente da allora, dalla prima volta che ti ho vista. Tu sei sempre meravigliosa” le bisbigliò, per poi darle un bacio sulla guancia e andare anche lui a prepararsi per la giornata.


Cindy pose il piede calzato in una scarpetta con dodici centimetri di tacco, argentata, sul marciapiede davanti alla Reggia del Sultano a mezzogiorno in punto. Scese dal taxi con un movimento fluido e si portò una mano a coprire gli occhi per la luce del sole, sorrise guardando il familiare caos del centro di Manhattan, dopodiché si voltò con un sorriso verso Chris, che la seguì fuori dall’auto sorridendole, tenendo fra le braccia l'ovetto nel quale dormiva un bimbo di appena tre mesi, che già aveva una folta chioma dello stesso colore del papà, mentre gli occhi erano tutti quelli della mamma. Cindy era tornata velocemente in forma, grazie alla scuola di danza che aveva aperto a Vancouver, in cui teneva corsi per quasi tutto il giorno, e si era potuta permettere di indossare un aderente abito argento scuro per l’occasione, le maniche fino ai gomiti e una profonda scollatura sulla schiena. Guardandosi allo specchio dell’albergo non si era affatto trovata fuori forma.
“Siamo arrivati in perfetto orario” commentò Chris, cingendole la vita in un abbraccio “Come sempre grazie a te, tesoro mio” Cindy gli sorrise guardandolo negli occhi: era incredibile come la magia che era nata fra loro quella sera della festa non fosse affatto mutata in dieci lunghi anni.
“Entriamo? Fa un gran caldo, non vorrei che Noah ne soffrisse” propose poi, sbirciando la testolina del figlio adagiata tranquillamente sul cuscino. Era un bambino così dolce. Chris e la zia dicevano che aveva preso tutto da lei, ma Cindy non era d’accordo: somigliava molto più a Chris, e crescendo l’avrebbe dimostrato.
Il marito le aprì la porta galantemente, e appena entrata Cindy sospirò dal sollievo: l’aria condizionata era accesa. La seconda cosa che la fece sorridere fu il buffo bimbo di Jasmine e Ali, Ahmed, che non vedeva da due anni, che la guardò molto seriamente per poi dirle:
“Benvenuta signora!”. Cindy si chinò e lo guardò divertita.
“Grazie, signor Ahmed. Mi farebbe l’onore di darle un bacio?” Ahmed arrossì un po’ annuendo, la bionda lo circondò con le braccia e gli stampò un sonoro bacio sulla guancia piena. Jasmine si fece allora avanti, abbigliata con la consueta eleganza, che non aveva mai perso sin da quand’era solo una ragazzina. Le due ragazze si abbracciarono e una lacrimuccia minacciò di far colare il trucco a Cindy, che l’asciugò subito. “Da quanto tempo!” esclamò felice, baciando sulle guance Ali, mentre Chris si curava di appoggiare Noah su un tavolo e rimboccargli il lenzuolino.
“Caspita, Cindy, sembri ancora una ragazza! Non sei affatto cambiata nonostante la gravidanza e tutti i chili in più che ne derivano!” esclamò Jasmine, ma la bionda pensò che fosse un commento inutile, perché anche lei sembrava al massimo della forma.
“Grazie, ma è tutto dovuto solo al mio lavoro. Comunque, New York non cambia mai, eh? Sempre la solita metropoli!”
“Non per niente la chiamano la Grande Mela.” Le strizzò l’occhio Jasmine, per poi andare a congratularsi con Chris per il bambino e ad ammirarlo. Cindy si avvicinò a un muro e si sedette su una sedia, pensierosa. Tornare nella sua città natale le faceva sempre scaturire ricordi orribili, ma una volta l’anno si sforzava di intraprendere il viaggio per andare a trovare le sue amiche e la sua famiglia.
Sì, Cindy ancora andava a trovare la matrigna e le sorellastre. Ciò che le avevano fatto non aveva intaccato minimamente il suo buon cuore e nonostante i dolorosi ricordi le andava a trovare. Proprio quella mattina si era fatta portare da un taxi davanti alla vecchia residenza dei Tremaine ed era quasi rimasta scioccata notando il giardino incolto e pieno di erbacce secche, la polvere sulle persiane e le finestre incrostate di sporco ormai indelebile. Era entrata e la casa non profumava certo di pulito. Madame era seduta al tavolo, reggendosi il viso con una mano, abbigliata con la consueta eleganza ma decisamente trascurata: nascondeva i rattoppi del vestito con la fierezza incrollabile che la contraddistingueva. Anastasia da tempo se n’era andata, a quanto stava alle lettere che aveva ricevuto, si era alla fine fidanzata con il ragazzo della festa e un anno e mezzo dopo aveva lasciato il nido con lui. Si erano stabiliti in qualche città minore dello stato di Washington. Genoveffa invece era a casa anche quella mattina, sdraiata sul divano. Cindy non ci aveva messo molto a capire che non erano in una situazione facile, perché nessuna delle due si “abbassava” a lavorare. Così si era chiusa nella biblioteca con la matrigna e avevano deciso a tavolino che Cindy avrebbe passato loro una certa cifra di soldi al mese, che bastassero per il cibo, i vestiti e una donna delle pulizie, per poter vivere una vita dignitosa insomma. Madame aveva dovuto accettare la sua proposta, con grande umiliazione perché aveva sempre detto che non si sarebbe mai abbassata a chiedere la carità, ed era esattamente ciò che Cindy stava facendo. Le dispiaceva, ma d’altro canto capiva che prendere soldi dalla persona che aveva sempre umiliato e maltrattato era una punizione sufficiente, e la ragazza si era imposta di essere il più discreta possibile. Così le aveva dato i soldi in contanti, in una busta argentata, quella mattina stessa.
Chris non era stato affatto d’accordo con la sua scelta, ma l’aveva capita e accettata. Lui era più radicale di lei, e giustamente pensava che chi l’aveva fatta soffrire in quel modo avrebbe anche potuto andarsene all’inferno. Ma Cindy era troppo buona per lasciare la sua famiglia nei guai, nonostante tutto ciò che aveva subito.
“Ehi, tesoro” la chiamò Chris, sedendosi accanto a lei e cingendole le spalle con un braccio “Va tutto bene?” Cindy gli sorrise.
“Si, stavo solo ripensando a questa mattina, e alla mia vita prima di te. Mi è venuta un po’ di malinconia” ammise, appoggiandosi a lui. L’uomo, il suo uomo, dal giorno in cui si erano sposati, la strinse a sé, comprendendo le sue emozioni e dimostrandole che poteva contare totalmente su di lui.
“Sono tempi passati, Cindy” le disse piano “So che oggi siamo di nuovo a New York, siamo di nuovo in mezzo alle persone che hai conosciuto in quel momento e ricordiamo un avvenimento che ci sforziamo di rendere gioioso nonostante la sua drammaticità. So che stiamo festeggiando delle vite che sono cambiate totalmente e che inevitabilmente pensiamo a ciò che avevamo dietro, prima della svolta. Ma ora abbiamo un intero nuovo mondo davanti a noi. E nessuno ha il diritto di distruggercelo. Rendiamo
piacevole anche questo evento”.
Cindy lo guardò negli occhi e pensò che un uomo così bello non l’avrebbe mai trovato da nessun’altra parte. Pensò che Chris aveva ragione e che lui era stato il fratto fra un mondo di sofferenza ed umiliazioni, di sogni e restrizioni e uno di gioia e felicità, di sogni realizzati e libertà. Lo baciò dolcemente sulle labbra sentendo il desiderio ancora presente anche dopo dieci anni, gli sorrise con dolcezza e si alzarono per accogliere Ariel ed Eric che entravano dalla porta del ristorante, felici.


Ariel non aveva realizzato che un desiderio adolescenziale. Non era diventata ricca, anzi. Ora viveva in Florida, a Jacksonville, e campava su un negozietto che vendeva un po’ di tutto vicino a un benzinaio. Non era nemmeno diventata famosa. Certo, non era facile dimenticarsi della sua chioma rossa, dei suoi vispi occhi blu e della sua inesauribile vitalità, ma non poteva dire di avere la fama di Aurora. Non viveva in una villa, bensì in un appartamento che era sì accogliente ed elegante, ma pur sempre al secondo piano di un palazzone. Non era parte dell’élite: era semplicemente una proprietaria di un negozietto da cinque anni. Però aveva trovato l’amore e l’affetto di Eric, e vivevano gioendo della vita, del mare di Jacksonville, della caoticità di una città della Florida. D’estate uscivano la mattina presto, prendendo i surf, e si lanciavano fra le onde. La sera partecipavano a falò sulla spiaggia e a feste sulla sabbia e d’inverno non faceva mai freddo. E poi, era nata la luce dei loro occhi, che aveva riempito ancor più di felicità la loro vita: Melody, la loro prima figlia, che ora aveva quasi cinque anni e sgambettava sul marciapiedi, chiaramente non vedendo l’ora di arrivare a destinazione e giocare con qualche altro bambino. Ariel non era proprio sicura che si ricordasse di Ahmed, ma sperava che i bambini fossero talmente incuranti di quelle inutilità da diventare subito amici per la pelle.
Il cane che aveva al guinzaglio la strattonò.
Ebbene si, da quando se n’era andata da New York aveva cominciato a sentire la mancanza di quel rompiscatole di Sebastian e Eric di Max, così avevano preso altri due cani e non ne avevano più potuto fare a meno.
Si fermarono un momento davanti alla porta d’ingresso del ristorante e Ariel si girò a squadrare figlia e marito, che si somigliavano come due gocce d’acqua. Si accertò che la camicia di Eric fosse ben messa e non avesse macchie e che la bambina non si fosse ancora sporcata giocando, le sistemò i capelli scuri nel cerchietto e le diede un sonoro bacio su una guancia, mentre Eric apriva la porta.
“Prima le principesse!” dichiarò, mentre Melody sfrecciava oltre la porta.
“Allora prima io!” esclamò la bambina. I cani la seguirono e Eric scoppiò a ridere.
“Il caratterino è tutto di sua madre!” Ariel lo guardò con una finta aria di rimprovero, poi, quando sentì le grida e le risate dall’interno precedette il marito ed entrò nel ristorante. Sembrava tutto pronto: la sala da pranzo era stata totalmente sgombrata per loro, dei tavoli allineati al muro cominciavano a popolarsi di piatti profumati, Jasmine stava comandando a bacchetta un paio di camerieri e il povero Ali, che sghignazzava alla vista della moglie così affaccendata, i cani saltellavano intorno alla stanza e Melody e Ahmed stavano già litigando per un pupazzetto. Ariel pensò che non sarebbe potuto andare meglio di così. L’inizio era già di per sé un successone.
“Ariel!” esclamò Cindy vedendola e sorridendole garbatamente, nonostante non fossero mai state in rapporti stretti.
“Cindy, ma che piacere vederti! Come stai?” domandò Ariel baciandole le guance e notando, con un pizzico di invidia, che la ragazza sembrava ancora più bella di quando l’aveva vista l’ultima volta, quando ancora era incinta di pochi mesi. Aveva una forma invidiabile. Lei, invece, aveva preso qualche chiletto.
“Io bene, perfettamente. Ma sei una meraviglia! E come sei abbronzata! Il sole di Jacksonville splende tutti i giorni, eh?”
“Sempre, mai una giornata nuvolosa” confermò la rossa, per poi voltarsi verso Jasmine. Quanto le era mancata. La abbracciò stretta e le due si sorrisero con affetto. Certo, almeno una volta al mese cercavano di vedersi, e si chiamavano a giorni alterni. Ma la migliore amica è la migliore amica, e quando si vedevano, Ariel si rendeva sempre conto di quanto le fosse mancata la mora.
“Oh, Ariel, mi sei mancata molto” esclamò infatti Jasmine.
“Anche tu” confermò lei. La guardò un momento e scoppiarono a ridere, come da ragazzine.
“Aurora dovrebbe essere qui a momenti. Ha detto che questa mattina aveva qualcosa da fare, e che forse sarebbe arrivata in ritardo, ma non credo tarderà di molto… non è da lei.” Commentò la mora. Ariel annuì, poi Jasmine la lasciò momentaneamente per andare a dirigere ancora un po’ i camerieri, la rossa si avvicinò di soppiatto al tavolo con i cibi e si infilò in bocca una polpetta fumante. Si guardò intorno con aria innocente, mentre masticava più in fretta possibile, constatando quanto fosse buono il cibo del ristorante dell’amica, pensando che fosse addirittura migliorato, e incrociò lo sguardo di Eric, che ovviamente l’aveva vista. Lui alzò le sopracciglia come per dire “sapevo che avresti fatto qualcosa del genere” e lei alzò le spalle, come simbolo di “non è niente di sconveniente”. Si sorrisero.
Il rapporto con Eric era sempre stato splendido. Lei lo amava con gioia e passione e lui altrettanto. Il loro amore non era sdolcinato come quello di molte altre coppie, ma dinamico e pieno di risate, originale a modo suo. Ariel sapeva che avevano entrambi l’animo che sarebbe per sempre rimasto infantile, e questo era fantastico. Tornò per un momento indietro con il pensiero ai giorni in cui si erano conosciuti, e constatò che in effetti l’accoppiata Eric – Aurora non sarebbe durata molto: l’amica era matura per la sua età, e molto sensibile; non avrebbe mai tenuto il passo degli scherzi e delle ribellioni del ragazzo. Lui, d’altro canto, non avrebbe mai provato lo spirito d’avventura e di libertà che sua moglie gli offriva da sempre. Pensò che lei non aveva mai deciso di sposarsi, anzi, avrebbe voluto rimanere single per il resto della vita, ma che poi quando Eric gliel’aveva chiesto, portandola in barca a fare un giro, illuminati da piccole luci sull’acqua, le era sembrato così naturale accettare che non si era nemmeno ricordata dei suoi buoni propositi. Ma Ariel era fatta così, le idee andavano e venivano come la marea.
Pensò che avrebbe dovuto andare a visitare le sue sorelle prima o poi, ma quando ripensò alle loro vite decise che andare a fare un salto dal padre e da Alana sarebbe bastato e avanzato.
Le vite delle sorelle erano andate quasi tutte peggio della sua, ecco perché Ariel era così soddisfatta del suo destino. Acquata, che ora aveva trentatré anni, era diventata la responsabile di un acquario e si era sposata con un anonimo notaio, in ogni caso era quella che aveva fatto più strada fra tutte ed ora viveva in una villetta a due piani deliziosa, aveva due figli e tre gatti. Probabilmente aveva fatto molto bene a studiare all’università, perché si era così disegnata una vita migliore, o sicuramente con più denaro in cassa. La situazione di Andrina, invece, non era cambiata molto: insegnava sempre aerobica in qualche anonima palestra, l’unica differenza era che alla fine aveva capito che il suo ragazzo del Guadalupe era un bugiardo e aveva almeno tre amanti sparse per la città e dintorni, non si era quindi sposata con lui né era andata a convivere ed ora era single da anni, e secondo Ariel stava diventando una vecchia e antipatica zitella. Arista, che sembrava quella che avrebbe concluso meno di tutti, aveva invece mollato il ragazzo che faceva da pusher, ma si era guadagnata abbastanza soldi per entrare nell’élite, ed ora veniva mantenuta da un sessantenne che andava a casa sua solo per andarci a letto. In ogni caso, lei non si lamentava e ne era felice, così tutti avevano cominciato a pensare che forse non era stato così male come destino. Attina non aveva mai sfondato nel mondo della musica. Finita l’università nessun produttore discografico le aveva messo gli occhi addosso ed ora era ancora single e viveva cantando nel locali, la sera. Ariel pensava che fra tutte le sue sorelle fosse quella più insoddisfatta. Adella, quando Arista era diventata l’amante del veccho, era stata abbandonata e da quel momento si era trasferita da qualche parte del Kansas di cui nessuno sapeva niente, ogni tanto mandava a casa un po’ di soldi e una lettera dicendo di stare bene. Una volta la rossa le aveva lette tutte, e ne era risultato che aveva una fattoria, che si era sposata e aveva tre figli. Ad Ariel sarebbe piaciuto conoscere i suoi nipoti. L’ultima sorella, quella più unita ad Ariel, che molte volte andava a trovare, Alana, era rimasta invece a casa con il vecchio Tritone, si era sposata con un ragazzo onesto ma dolce e aveva avuto un bambino, Justin, che Ariel conosceva e che era un adorabile birichino con i capelli castani che era l’orgoglio del nonno, così come la sua Melody. Tritone andava ancora a pescare, ma se prima era amareggiato e stanco di vivere, quando aveva visto le sue due figlie preferite sistemate e con degli adorabili nipotini era cambiato totalmente ed ora era allegro e gioviale. Ariel non l’aveva ancora detto a nessuno, ma lei e Eric stavano segretamente tenendo da parte dei soldi per comprarsi una villetta che avevano visto a Jacksonville, in un quartiere elegante e semplice, con un vicinato delizioso e i marciapiedi con la corsia per le biciclette, e avevano tutta l’intenzione di andare a vivere lì con il padre di Ariel e la sorella con la famiglia. Eric stava aspettando trepidante che il padre lasciasse a lui la sua azienda, che li avrebbe portati ad avere i soldi necessari per vivere molto più agiatamente di adesso.
Ma Ariel non si lamentava. Mentre ancora era immersa nei suoi pensieri, la porta si aprì, e seguiti da un “oohh” generale entrarono Belle e Adam.


Belle entrò nel ristorante con Adam, e si accorse subito che il suo arrivo appariva una sorpresa. La cosa la fece ridere. Era vero che per tre anni di seguito non era riuscita a partecipare alla festa, e solo quell’anno lei e Adam erano riusciti a liberarsi dagli impegni, a prendere l’aereo e affrontare il faticoso viaggio fino a New York. Alla fine erano scusati, arrivavano da un altro continente.
“Belle!” esclamò subito Cindy, con un’espressione che faceva chiaramente pensare che qualcuno le avesse appena tirato uno schiaffo in pieno viso. Belle si morse un labbro, rendendosi conto di essere stata davvero antipatica a non aver detto all’amica che sarebbe venuta. Cindy era sempre stata buona e gentile con lei, aveva sempre cercato di starle accanto, l’aveva invitata più volte a Vancouver e non aveva mai mancato di farsi sentire. Poi la bionda scoppiò in lacrime e si nascose il viso fra le mani. Belle si sentì ancor più una schifezza. Certo, aveva una giustificazione a tutto, ma… corse incontro a Cindy e l’abbracciò forte.
“Cindy mi dispiace” esclamò, mentre nella stanza era sceso il silenzio “Mi dispiace di non essermi fatta sentire, mi dispiace di non essere venuta a trovarmi, ma ora se ancora lo vuoi resterò qui per un mese intero, d’accordo? Alla fine non mi sopporterai più…” la bionda ricambiò l’abbraccio e anche Belle si rese conto di avere le lacrime agli occhi. Quando si staccarono l’un l’altra, Belle si affrettò a salutare anche Jasmine, l’organizzatrice, e Ariel, rimasta a bocca aperta.
“Scusateci davvero se non siamo venuti prima, ma non è stato facile l’ultimo periodo” disse Adam, avvicinandosi a lei e prendendola per mano “Negli ultimi tre anni siamo stati molto impegnati a Parigi”
“Lo capisco” disse Cindy, con il sorriso, nonostante le lacrime le stessero ancora rigando il viso. Chris prese un fazzoletto e lo porse alla moglie. “Ora mi farebbe molto piacere se veniste con noi a Vancouver per un po’.”
A Belle dispiaceva davvero non aver mantenuto l’amicizia con Cindy per tanto tempo. In realtà da quando si erano visti tutti per la prima festa per Blanche, dieci anni prima, era tornata solo un paio di volte a New York. Il giorno dopo la festa era partita con il padre per l’Europa, lasciando Adam in America. Aveva sofferto moltissimo per quella partenza, perché la sera prima, facendo l’amore, il ragazzo aveva pianto tutto il tempo, senza fermarsi mai. Lei aveva capito quanto ci teneva, ma non poteva rinunciare a tutto proprio in quel momento, ne andava anche della vita di suo padre, che ormai negli USA non avrebbe più avuto un lavoro. Cindy e Jane avevano versato lacrime di tristezza e malinconia quando le aveva abbracciate per l’ultima volta e per molto tempo non aveva più voluto nemmeno sentire nessuno d’oltremare, perché sentiva il cuore spezzato e non riusciva a rendersi conto di essere così lontana da loro. Era stata arrabbiata con se stessa perché era partita, perché non aveva trascorso prima abbastanza tempo con loro, perché le mancava Adam e perché non era rimasta con lui. Poi si era infilata nuovamente nel suo bozzolo di insensibilità e aveva cominciato a studiare come una matta. Per mesi interi non aveva fatto altro che studiare e leggere, ma si era resa conto che anche i libri le ricordavano la sua vita negli Stati Uniti e si era ritrovata in lacrime più volte di quante ne avesse voluto.
Un giorno era cambiato tutto. Davanti alla Sorbonne si era scontrata con un ragazzo alto e dai capelli chiari che non si era spostato per chiederle scusa quando si erano scontrati. Lei aveva alzato gli occhi e si era resa conto che il ragazzo aveva una cicatrice che partiva dal naso e arrivava fino alla mascella, una cicatrice che lei conosceva fin troppo bene. Adam l’aveva presa fra le braccia e le aveva giurato che non l’avrebbe fatta mai più fuggire. L’aveva detto e l’aveva fatto, perché da quel momento si era trasferito a Parigi, aveva imparato il francese e aveva frequentato un’università di economia, aveva fatto pace con i suoi genitori e finalmente si era fatto giustizia denunciando Gaston e l’aveva così fatto finire in prigione per qualche anno, si era ripreso i soldi che i suoi gli avevano negato e amministava qualche azienda del padre. Poi aveva comprato una libreria, l’aveva ritrasformata ed era diventato un libraio, luogo in cui lavorava insieme a Belle, ed erano stati assorbiti per un paio d’anni da studi e libreria. Belle per i primi cinque anni in Europa non si era fatta viva in America, e raramente si faceva sentire, presa dai suoi impegni. Il sesto anno, una volta presa la laurea, era andata alla festa per Blanche, ma solamente di passaggio. L’anno dopo, il settimo, aveva cominciato a lavorare come insegnante universitaria di letteratura francese e nel tempo libero aiutava Adam, così non si erano mossi da Parigi. Durante gli anni successivi in quel periodo avevano fatto una vacanza in Italia e l’anno prima si erano sposati d’estate. Si vergognava un po’ di non aver invitato Cindy e Jane. Poi era tornata, e si sentiva terribilmente in colpa. Ancor di più notando che Cindy non ce l’aveva affatto con lei.
“Mio Dio, la mi amica Belle si è sposata…” mormorò la bionda, commossa. Le prese la mano sinistra e guardò l’anello. “E’ splendido. Sono così felice che alla fine anche voi abbiate fatto il grande passo… spero vivamente che vi porti moltissimo amore e felicità, anche se solo a guardarvi siete stupendi” Adam abbracciò Belle mettendole un braccio intorno alle spalle.
“E i figli? Avete pensato ai figli?” domandò subito Ariel, la solita curiosa. Belle sorrise imbarazzata, arrossendo, e fu Adam a rispondere.
“Non abbiamo ancora in progetto di averne, ma chissà cosa deciderà il destino…” disse felice. Sicuramente ci sperava e Belle ebbe l’impulso di dirgli di andare in quel preciso momento da qualche parte e concepirne uno, ma si controllò.
“Sarebbe bellissimo” aggiunse, per fargli capire le sue intenzioni.
“Inoltre ora siamo sistemati economicamente, abbiamo un bellissimo appartamento a Parigi, lavoriamo…” continuò lui. Cindy rise.
“Sarà la vostra più grande avventura.” Si scostò e Belle notò che dietro lei e Chris c’era un bambino che dormiva nonostante il caos e si avvicinò cauta, notando che era il bambino più bello che avesse mai visto.
“Oh mio Dio… ma questo è…” balbettò, confusa. Non sapeva nemmeno che Cindy avesse avuto un figlio!
“Si chiama Noah” lo presentò Chris con una dolcezza nella voce che Belle non aveva mai sentito prima “Ha solo tre mesi, ed è adorabile”
“Non ne dubito”
“E sta soprattutto resistendo al casino che fa una certa bambina affamata!” esclamò Ariel puntando lo sguardo sulla figlia mora, che assunse un’espressione del tutto uguale a quella materna. La rossa alzò un sopracciglio e Melody, che Belle aveva già conosciuto, posò immediatamente la polpetta di cui si era appropriata di soppiatto. Eric stava guardando divertito la scena e la ragazza non ci mise molto a capire che madre e figlia si assomigliavano in modo impressionante.
“Sapete mica se c’è anche Jane questa volta?” domandò incuriosita, ora che aveva rivisto le sue vecchie conoscenze aveva voglia di rincontrare tutti. Jasmine annuì.
“Jane viene ogni anno” confermò, per poi dire due parole al marito e sparire nella cucina. Era tipico di Jane, pensò Belle, affrontare viaggi pazzeschi ma restare accanto agli amici sempre e comunque. Si domandò quanto le vite di tutti fossero cambiate e si sentì veramente male pensando che non c’era stata per nessuno. Capì di essere stata egoista ed era decisa a rimediare.
“L’anno prossimo potreste venire tutti a Parigi” propose “E’ una città splendida”
“Oh, sarebbe meraviglioso!” esclamò Ariel con un gran sorriso “Solo, dovremmo cominciare a risparmiare già adesso. Ma so che ne varrà la pena!”
“Ali!” esclamò Jasmine uscendo dalla cucina di corsa “Stanno arrivando Esmeralda e Febo!”


Esmeralda doveva dire di essere soddisfatta della sua vita. Da quando era successo tutto quel casino della festa, tutto era cambiato radicalmente e inizialmente le era parso di finire in un vortice senza uscita di banalità e prevedibilità, aveva avuto paura e aveva avuto l’impulso di fuggire, ma pensava che non sarebbe mai stata così felice se l’avesse fatto davvero. Un paio di volte ci aveva addirittura provato, quasi dimenticando che Febo era un detective intelligente e intrepido che nel giro di qualche giorno l’aveva ritrovata e riconquistata. Non riusciva a capire come quell’uomo, quel poliziotto, riuscisse sempre a farla cedere.
Esmeralda era diventata tutto ciò che nella vita non avrebbe mai pensato di diventare, anzi. Per prima cosa adesso aveva una bella casa in periferia che avevano scelto insieme, una villetta bianca con le persiane verdi che metteva sempre allegria, e viveva lì con Febo. Poi si era resa conto di essere diventata, nei mesi e in seguito negli anni, una fidanzata dolce ed entusiasta, che aspettava il fidanzato sveglia e che tremava quando lui le regalava qualcosa. Addirittura, un giorno, Febo le aveva chiesto di sposarlo e così era stato. Esmeralda non si sarebbe mai immaginata in abito bianco, velo e bouquet, davanti a un prete, per annunciare al mondo che avrebbe per sempre amato ed onorato un poliziotto. Accanto a lei, quel giorno, c’erano Meg, Quentin, Clopin e addirittura Cindy, che a quanto pareva le si era affezionata. Quel giorno aveva capito che l’Esmeralda trasgressiva e sensuale di una volta non ci sarebbe stata mai più. Dopo la luna di miele alle Hawaii aveva cominciato a pulire casa, a cucinare, ad andare a fare la spesa, a rifare i letti. Era diventata una mogliettina attenta e premurosa ai bisogni del marito: ogni giorno gli cucinava la cena in perfetto orario, gli faceva i massaggi alle spalle mentre lui si svagava guardando rugby alla tv e poi lo trascinava a letto, dove facevano l’amore con passione.
Se doveva essere sincera, nonostante non si fosse mai immaginata in quel modo, Esmeralda capiva che così era felice, che finalmente si sentiva accettata e protetta, sicura di sé e dei suoi affetti, serena. Ogni giorno si svegliava con un sorriso, per dedicarsi con gioia alle occupazioni della casa e della cucina. L’alcool era stato sostituito dall’amore, le sigarette dall’affetto e non provava più alcun bisogno di trasgredire la legge. Piuttosto, si preoccupava sempre più per Febo. Ogni tanto guardava telefilm polizieschi il pomeriggio, mentre stirava, ed era terribilmente in ansia pensando che al marito avrebbe potuto accadere qualcosa del genere, così cambiava canale e guardava qualcosa di stupido come American Best Dance Crew che perlomeno non la faceva preoccupare.
Poi, un mattino di cinque anni prima, quasi all’improvviso, aveva cominciato ad avere terribili nausee mattutine e un insolito male ai reni che la portava a passare sempre più tempo a letto. Andare a fare la spesa era diventato faticoso, così non andava più in centro ma si accontentava di un luogo in periferia. Dopo un paio di settimane, Febo, preoccupato, l’aveva portata da un dottore che con gioia le aveva annunciato che aspettava un bambino. Febo era stato al settimo cielo e lei aveva pianto di nascosto dall’emozione. Da quando Zefir era nato, Esmeralda era cambiata ancora ed era diventata una madre attenta e dolce con il figlio, fin quasi a viziarlo troppo. Aveva capito che lei non aveva avuto nulla e ora tutto ciò che desiderava era dargli quello che lei non aveva mai avuto, compreso l’amore di una madre e di un padre.
Zefir somigliava moltissimo a Febo e per lei era una gioia chiamare a tavola i suoi “ometti”. Si sentiva sempre più completa e felice, ma non si era resa conto del cambiamento finchè un giorno Meg non le aveva fatto notare che ora rideva sempre più spesso.
La famigliola arrivò alla Reggia del Sultano un po’ in ritardo perché Zefir aveva piantano un gran capriccio proprio prima di uscire, e ancora in macchina aveva urlato e sbraitato finchè il padre, con una pazienza incrollabile ma i nervi a pezzi, gli aveva intimato di smettere o non l’avrebbe fatto uscire di casa per tutta l’estate. Zefir si era zittito.
Scesero dalla macchina e Esmeralda prese per mano il bimbo che ancora faceva l’offeso con papà, e quando arrivarono la ragazza si stupì trovando anche Belle alla festa.
“Oh, chi si vede!” esclamò Febo abbracciando Adam e baciando Belle sulla guancia.
“Ciao, Belle” la salutò lei a sua volta, poi si chinò vicino a Zefir e gli disse all’orecchio: “Guarda, quella bambina ha la tua stessa età e si chiama Melody. Io la trovo molto bella e scommetto che è una principessa. E quello lì vicino invece è Ahmed e ha dei poteri magici. Forse non te li ricordi, ma abbiamo spesso giocato con loro”
“Mi ricordo di Melody” disse Zefir storcendo il naso esattamente come faceva il papà e incrociando le braccia come la madre, quando qualcosa lo contrariava “Voleva fare tutto quello che voleva lei”
“Vuoi un trucco, soldato?” si intromise Febo. Esmeralda gli sorrise. “Dai alle donne tutto ciò che vogliono, e vedrai che tu otterrai ancora di più”.
Forte dei consigli dei genitori il biondino si fece avanti e attaccò bottone. Febo abbracciò la moglie.
“Come sono ingenui” ridacchiò. Poi si girò a parlare amichevolmente con Chris. Belle e Cindy si avvicinarono a lei sorridenti, sembrava che la bionda avesse pianto e sospettava che fosse a causa di Belle, che si era presentata lì dopo anni in cui non si era nemmeno fatta sentire. La salutò comunque amichevolmente: con gli anni il suo carattere si era un po’ raddolcito e calmato, non poteva certo dire di essere una di quelle donne che si lasciavano andare ad ogni emozione o troppo sdolcinate, affatto, aveva mantenuto la faccia tosta e la fierezza, ma era mutata, forse solamente maturata.
“Ciao, Belle, che piacere vederti!” esclamò, e la mora la guardò stupita.
“Cavolo, che cambiamento. Sei totalmente diversa dall’ultima volta che ti ho vista.” commentò Belle abbracciandola. Esmeralda si rilassò e scoppiò a ridere.
“Sono cambiata un po’, si, ma nella vita si cambia, no? Anche tu mi sembri diversa” disse gentilmente.
Proseguirono a chiacchierare ancora un po’, mentre Jasmine cominciava gli ultimi preparativi sul tavolo e comandava con un dito alzato due o tre pazienti camerieri. I bambini correvano per la stanza seguiti dai cani e sembrava che Zefir e Melody fossero ormai amici per la pelle, seguiti a ruota dal trotterellante Ahmed che faceva di tutto per star loro dietro. Le venne da sorridere per la tenerezza, non le sarebbe affatto dispiaciuto avere un altro figlio, magari questa volta una femmina. Sapeva che Febo ci pensava già da un po’, era solo lei che non aveva ancora dato il via libera perché non si sentiva ancora pronta. Si domandò se in realtà fosse solamente perché non pensava di poter dividere l’affetto che provava per Zefir con qualcun altro, ma quel giorno, notando i tre che si rincorrevano, pensò che non fosse una buona scusa e decise che quella sera avrebbe comunicato la sua decisione al marito. Ne sarebbe stato felice.
Per l’ennesima volta si stupì del suo cambiamento: era proprio una donna nuova. Non pensava che sarebbe mai arrivata a pensare di avere più di un figlio, per di più volendolo, anzi. Aveva sempre detto a Clopin che di figli non ne voleva.
Ma nessuno, nemmeno fra i suoi amici era rimasto lo stesso, per primo Clopin, che aveva improvvisamente smesso di rubare e vivere nel Bronks al limite della legge per comprarsi una casa e fare lì sotto un negozio d’armi da fuoco i cui affari andavano davvero a meraviglia. Non si era sposato, anzi, Esmeralda sapeva che aveva tre o quattro donne diverse che andavano a far visita a casa sua, ma lei non lo giudicava. Clopin inoltre era innamorato perso di Zefir: quel bambino gli aveva rubato il cuore e lo chiamava ‘zio’, convinto che fosse veramente il fratello della mamma. E lei non faceva proprio niente per dissuaderlo da quell’idea, perché per lei Clopin era il suo fratello gemello, punto e basta. Anche Quentin ora aveva un lavoro: si era scoperto un eccellente orefice che lavorava a collane e anelli, orecchini e piccole statuette in un ricco negozio a Manhattan. Grazie al lavoro aveva conosciuto una ragazza di nome Madeleine, che l’aveva subito colpito per la sua bontà e ingenuità, così si erano frequentati per un po’ ed infine si erano sposati. Esmeralda era davvero felice per loro. Anche Meg era cambiata molto, ma la loro amicizia era andata sempre più aumentando. Proprio mentre la pensava sentì il cellulare che squillava. Rispose al volo, vedendo che era proprio la sua amica.
“Meg!” esclamò “Dove sei? Siete in ritardo di una ventina di minuti” le disse lanciando un’occhiata all’orologio della stanza.
“Scusa, Es, volevo proprio chiederti se potresti dire agli altri che non tarderò ancora molto, al massimo di un quarto d’ora… abbiamo trovato un traffico pazzesco questa mattina! Mi dispiace!”
“Ora avviso gli altri, non ti preoccupare. E non metterci troppo!”
“Tranquilla” le disse la rossa, poi chiuse la conversazione. Esmeralda andò da Jasmine e le annunciò il ritardo di Meg.
“Oh, grazie al cielo. Siamo in ritardo colossale anche noi. Non ci manca ancora molto, e tutto sarà pronto. Speriamo che tutti arrivino entro l’una… avevo detto a Blanche di venire a quell’ora, così tutto sarebbe stato pronto…” mormorò, poi corse verso la cucina, seguendo un Ali ridacchiante e i camerieri ormai spazientiti.
Qualcuno bussò alla porta in quel momento, e pochi secondi dopo ne entrarono Filippo e Aurora, belli come due divi del cinema.


La mattinata di Aurora Reale era stata piena, come tutti i suoi giorni da quand’era uscita dall’università. Alla fine aveva studiato moda ed era diventata una stilista di abiti da sposa piuttosto famosa e ricercata, posava per diverse copertine e faceva sempre un sacco di interviste. Filippo era invece diventato un famoso veterinario che tutte le celebrità chiamavano per curare i loro animaletti. Ad Aurora piaceva moltissimo la vita che avevano costruito insieme: vivevano in una bella casa che avevano comprato sempre a Manhattan e non mancava loro niente. L’unica cosa che non le piaceva molto era che lei e Filippo, che quattro anni prima era diventato suo marito, non riuscivano a stare insieme per tutto il tempo che avrebbero voluto: era proprio per questo che avevano intenzione di prendersi una vacanza. Avevano bisogno di passare un po’ di tempo insieme.
Quella mattina l’aveva passata ad illustrare a una sarta i suoi nuovi modelli per l’autunno futuro. Non era troppo presto e le sfilate certo non aspettavano. Quando se n’era andata dall’ufficio per la festa per Blanche, quando Filippo era passato a prenderla con la limousine, la sua organizzatrice l’aveva chiamata e non l’aveva più mollata finchè non le aveva sbattuto il telefono in faccia per dedicarsi ad un appassionato bacio con il marito. Aveva spento il cellulare.
Quando entrarono nella stanza notò con gioia che c’era Cindy con il suo bimbo. Erano rimaste in contatto e spesso si andavano a trovare a vicenda, erano ormai amiche strette, ma le faceva sempre piacere incontrarla. C’erano anche Ariel con la bocca piena come al solito, Belle che le sorrideva e che fu particolarmente contenta di vedere, Esmeralda e Jasmine che dirigeva tutti affacciata nella cucina, ma Aurora l’abbracciò pur interrompendola, per poi salutare anche tutte le altre. Si affacciò sull’ovetto di Noah e gli sfiorò una manina, mentre Filippo e Chris, da bravi uomini, si davano pacche sulle spalle a vicenda, coinvolgendo ben presto anche Eric, Adam e Febo.
“E’ davvero bellissimo” mormorò guardando il piccolo che dormiva beato “Come piacerebbe averne uno anche io, peccato non avere nemmeno un po’ di tempo”
“Ah, te ne ruba moltissimo” commentò Cindy teneramente.
“Come stai, Aurora? È da molto che non ci vediamo” le disse Belle, con una lieve inflessione francese che nessun altro sembrava aver notato. Aurora sorrise fra sé: non si vedevano da moltissimo tempo e si vedeva che ormai la ragazza non aveva più nulla di americano. Le prese le mani fra le sue e le baciò una guancia.
“Sto benissimo e sono davvero felice di vederti”
“Caspita, ma sei bellissima!” esclamò poi, guardando il suo abito un po’ anni Cinquanta, rosa chiaro costellato di pois bianchi, con una cinturina con fiocco rosso come le scarpe, che riprendevano la borsetta.
“E’ la mia nuova linea di abbigliamento, un po’ retrò. Ha qualcosa di francese?” rise la bionda, volteggiando.
“Assolutamente si. Devi farmi avere il catalogo!”
“Ultimamente ci serviamo tutti da lei” confidò Cindy “E’ la nostra stilista di fiducia”
“Anche a me piacciono molto le sue creazioni” aggiunse Esmeralda “Questa t-shirt è sua, per esempio” disse, mostrando la sua elegante camicetta. Le altre si sprofondarono in complimenti e lei si schermì. Ariel le si avvicinò e cominciarono a parlare della loro prossima vacanza: Aurora e Filippo volevano passare almeno un fine settimana a Jacksonville, dai loro amici, e dovevano decidere la data e le cose da fare. Sicuramente lei voleva tornare con un po’ d’abbronzatura. Lo fece presente.
Alla fine lasciò tutti ai loro discorsi e decise di dare una mano a Jasmine a preparare tutto, si arrampicò su una sedia incurante dei tacchi dodici centimetri e cominciò a mettere i festoni brillanti per accogliere Blanche.
Aurora pensava che quell’adunata annuale fosse uno degli eventi che aspettava con più trepidazione di tutti, insieme al Natale e al suo anniversario con Filippo. Le sembrava che fosse bellissimo riunirsi con tutte le sue amiche, le persone a cui teneva e voleva più bene e festeggiare qualcosa che era sì stato drammatico ma anche stupendo, perché quel giorno aveva segnato la rinascita di una ragazzina di quattordici anni che sembrava distrutta. Lei stessa aveva visto Blanche cambiare sempre più, evolversi, superare il dolore che le aveva causato quel tragico evento, guidata da Meg, dalla dottoressa Juno e da Floriant. Si era diplomata col massimo dei voti e aveva preso subito in mano l’azienda di suo padre, lavorando e studiando economia, per poi cominciare ad aprire varie filiali anche in Canada e in Alaska, espandendo il mercato dei suoi prodotti, sempre richiestissimi. Era stata in grado di finanziare ricerche scientifiche e ora aveva anche una linea di prodotti d’erboristeria che andavano a ruba. Quello era il suo lavoro preferito. L’ultima volta che si erano sentite al telefono, un paio di settimane prima, Blanche le aveva confidato di avere una grande sorpresa e di volerla annunciare proprio alla festa. In ogni caso sembrava al settimo cielo. Da un paio d’anni ormai non si vedevano più perché lei e Floriant si erano trasferiti a Toronto, città di cui si erano innamorati durante una breve vacanza che si erano concessi un’estate. Così per lei non era stato così facile vedersi, erano entrambe piene di impegni.
Ma quel giorno finalmente l’avrebbe riabbracciata.
Aurora era anche molto contenta di rivedere Belle, anche se si sentiva un po’ offesa con lei, da qualche parte nel cuore, perché da quando era partita non si era più fatta sentire e si era fatta vedere solo poche volte. Capiva che potesse avere le migliori giustificazioni del mondo, però non le era sembrato giusto né onesto ignorare gli inviti ai matrimoni delle amiche, soprattutto di Cindy. Sapeva che ci era rimasta molto male e per un certo periodo di tempo, nonostante si fosse fatta forza, non era riuscita a trattenere le lacrime quando si nominava la sua ex migliore amica ora inghiottita dall’Europa. Era stata Aurora che le era rimasta accanto in quel periodo e proprio grazie a lei si era ripresa. In quell’occasione erano diventate quasi inseparabili.
Finì di sistemare lo striscione fatto e inviato da Ariel qualche settimana prima: l’amica rossa non aveva perso il suo spirito artistico.
Aurora pensava che non avrebbe mai potuto lasciare New York: era la sua patria e lì aveva tutti i suoi affetti e non li avrebbe mai abbandonati.
Scese dalla sedia aiutata da Filippo che la prese per la vita e la baciò furtivamente prima di lasciarla scivolare a terra.
“Quando torniamo a casa, non voglio parole né squilli di cellulare” le bisbigliò all’orecchio. Aurora arrossì leggermente, ma era perfettamente d’accordo con lui: avevano preso la mezza giornata libera e libera doveva essere. Lo guardò un momento e ripensò che una volta nemmeno lo voleva conoscere, ma poi scacciò quel pensiero concludendo che sarebbe stato il più grande spreco della sua vita, poi si voltò quando si aprì la porta e ne vide entrare Jane, che immediatamente inciampò e finì a terra, creando una risata generale nella stanza.


“Corri, Tarzan, corri! Siamo in ritardo!” incitava Jane, ma in realtà era l’uomo a trascinarla per mano per arrivare al locale di Jasmine. Erano in ritardo di mezz’ora buona, perché appena arrivati alla stazione della metropolitana erano stati affascinati nuovamente dalla città e si erano messi a guardarsi intorno come se fosse la loro prima volta a New York. In realtà tornavano lì tutti gli anni per la festa, visitavano gli amici, facevano il giro di qualche museo e se ne tornavano in Madagascar con i lemuri, ma un anno intero in un paesino come quello in cui vivevano li portava anni luce dalla caoticità e dalla frenesia delle città come quella.
Jane aveva vissuto in molti paesi dalla sua nascita: per i primi otto anni di vita era stata in Inghilterra, a Cambridge, poi si era trasferita in Canada, a Regina, per tre anni, dopodiché suo padre era stato assunto in Giappone e Osaka era stata la sua casa per cinque anni, poi era tornata ancora un anno a Londra e infine era stata a New York. Nessun luogo era comparabile nemmeno vagamente al Madagascar, che lei amava appassionatamente, così come Tarzan. Era la loro casa.
Era lì che era nato il piccolo Willy, il loro primo figlio di due anni, portato nello zainetto da Tarzan, che sfrecciava qua e là per evitare la gente che si affollava per le strade newyorkesi.
“Eccolo, eccolo!” esclamò Jane indicando l’insegna. Tarzan virò con forza a sinistra facendole perdere l’equilibrio, Jane fece per reggersi alla maniglia che si abbassò, lei sentì la porta cedere e si ritrovò lunga distesa sul pavimento del ristorante. Sentì i presenti scoppiare a ridere. Tipico. Era sempre lei che faceva certe figure. Si rialzò spolverandosi il vestito giallo che aveva comprato apposta per l’occasione, poi si guardò intorno.
La prima persona che vide e che le fece scoppiare per un momento il cuore fu Belle, tornata dalla Francia dopo chissà quanti anni. La guardò a bocca aperta, metà instupidita e metà felice di rivederla. Si domandò perché fosse tornata proprio in quel momento, ma concluse che non era il momento di pensarci, le corse incontro e l’abbracciò forte, dicendole quanto le era mancata.
“Sei mancata anche a me, signorina detective” le disse Belle con affetto, sciogliendo l’abbraccio.
“Non sono più una signorina, ora sono legalmente sposata con un selvaggio!” esclamò ridendo Jane, indicando Tarzan. L’attenzione dell’amica si focalizzò sul bimbo che veniva trasportato dall’uomo e che venne messo a terra. Willy accennò qualche passo incerto verso la mamma e Jane lo prese in braccio fiera del suo ometto. “Questo è Willy, e ha due anni fra nemmeno un mese”
“Oh, santo cielo, è stupendo!” esclamò Belle, guardandolo. Il bambino la scrutò ben bene, poi si mise a ridere. “E’ identico a te, ha ereditato tutto il tuo carattere”
In quel momento altri tre bambini si radunarono intorno a loro. Jane li conosceva tutti: il biondino era Zefir, il figlio di Esmeralda e Febo, con i capelli del padre e gli occhi della madre. Non sapeva se si ricordava ancora di lei e Willy, forse all’epoca erano troppo piccoli l’uno per l’altro. La bambina che era con lui sembrava la fotocopia di Eric ed era Melody, la figlia di Ariel, da cui aveva ereditato il carattere. E il terzo bimbo, che stentò a riconoscere, sembrava proprio Ahmed, il figlioletto di Jasmine e Ali, bello più che mai. Si rese conto che era cresciuto moltissimo.
“Chi è lui?” domandò Zefir prendendo la parola.
“Lui? Lui si chiama Willy. Può giocare un po’ con voi?” lo presentò Jane.
“Va bene, però solo se fa il soldato insieme ad Ahmed” decise Melody. La donna scoppiò a ridere lasciando scendere Willy dalle sue braccia. Sembrava decisa, la bambina.
“Ma certo. E voi cosa fate?” domandò.
“Io sono la principessa, e lui il principe” disse indicando prima se stessa e poi Zefir.
“Penso che quando saranno abbastanza grandi per capire si sposeranno” commentò allegramente Febo, che già guardava in avanti. Ma lui era fatto così, non si guardava mai indietro ed era sempre ottimista. Lui e Tarzan si salutarono.
“E’ davvero un piacere rivedervi” disse Tarzan “Procede tutto bene?” l’inglese dell’uomo era migliorato enormemente da quando viveva stabilmente con Jane e suo padre, che era rimasto all’albergo per lasciare ai ‘ragazzi’ l’opportunità di uscire con i loro amici indisturbati. Sembrava quasi che non l’avesse mai imparato ma sempre saputo, a parte qualche lieve inflessione che ogni tanto prendeva. Aveva anche imparato il francese.
“Jane!” esclamò Ariel “Ti ho vista in un programma tv qualche settimana fa! Hai fatto un programma sui lemuri!”
“Si, è vero” confermò Jane, per poi venire inondata dalle domande di ‘quando’, ‘su che canale’, ‘voglio vederlo’. “Ho fatto un documentario su una nuova specie di lemuri che abbiamo scoperto da pochissimo tempo… sono delle creature intelligentissime che hanno una società molto complessa. Sono veramente interessanti da studiare…”
“Che bello, allora hai coronato il tuo sogno” sospirò Cindy intrecciando le mani con aria sognante “Sei diventata alla fine un’etologa famosa!” Jane si sentì per un momento in imbarazzo.
“In realtà è una società in cui lavoriamo io, papà e Tarzan… siamo etologi tutti e tre” si schermì senza grandi risultati. Le sue amiche parevano estasiate.
“E’ fantastico” disse Jasmine “Dev’essere interessantissimo studiare gli animali nel loro ambiente naturale, no?”
“E’ affascinante perché si scopre il loro vero valore” spiegò Jane “Se tenuti in cattività perdono alcuni dei loro istinti e dei loro impulsi, invece in questo modo riescono tranquillamente a mantenere intatte tutte le qualità. Noi non facciamo che trattenerli per mettere loro un microchip e fare delle cure mediche in caso di bisogno, tutto il resto è lasciato a natura e computer. Mio padre ormai si è appassionato”
“E Willy? Che meraviglia, crescerà in un ambiente del genere!” esclamò Aurora, pensando agli animali che erano una delle sue passioni.
“Si, beh, probabilmente dovremo trasferirci ad Antananarivo quando diventerà più grande, ma non smetteremo di occuparci dei primati” dichiarò Tarzan con serietà. Aveva preso il suo lavoro molto seriamente da quando Jane era andava in Madagascar, e si era sinceramente appassionato alla scoperta di nuove specie di lemuri. Entrambi speravano che anche il figlioletto si sarebbe appassionato prima o poi.
“Ehi, ma non ci siamo tutti o sbaglio?” domandò Jane guardandosi intorno “Manca l’ospite d’onore!”
“Certo, le ho detto di venire più tardi, così avevamo il tempo di preparare tutto” spiegò Jane, per poi guardare soddisfatta la tavola finalmente pronta. “Spero che Meg arrivi in fretta, non vorrei mai che Blanche anticipasse un po’… sapete com’è, a lei piace arrivare in anticipo”
“Già, speriamo…” mormorò Ariel.
“La chiamo” decise Esmeralda. Prese il telefono e digitò il numero dell’amica. Jane ricordava ancora bene quel giorno in cui aveva aspettato Esmeralda, Clopin e Meg fuori casa di Ade, quando erano spuntati all’ultimo momento, erano saltati in macchina e lei era sgommata via col cuore in gola, terrorizzata al pensiero che Ade e qualcuno dei suoi scagnozzi uscissero fuori per sparare alla macchina, come nei film, spaccando i vetri e sgonfiando le ruote… ancora ora tirava un sospiro di sollievo ogni volta che ci pensava.
“Dice che è all’angolo” esclamò allegramente Esmeralda chiudendo il cellulare dopo una breve discussione. Jane si girò appena in tempo per vederla entrare seguita da Herc, ovviamente, e da un bimbo. Ne aveva un altro in braccio. Però, evidentemente i due si erano dati da fare!, pensò.


Meg sapeva di essere in ritardo colossale e le dispiaceva moltissimo, ma aveva assistito a una gara di Herc molto importante per la sua stagione sportiva. Il ragazzo aveva già ventisette anni e la sua carriera stava andando in discesa, essendo sopraggiunta la nuova generazione. Era proprio per quel motivo che la ragazza pensava fosse il caso di andare ancor a più spesso a supportarlo in tutti i modi: così non si sarebbe buttato giù perché ormai non aveva più i riflessi di una volta. Per lei rimaneva lo stesso sempre un megafusto.
Vedendo le persone che popolavano la stanza, Meg pensò che lei e Esmeralda probabilmente
erano le persone che erano cambiate di più fra tutte quante e sapeva che era tutto a causa del loro passato turbolento che ora avevano trovato la tranquillità e la banalità, e come qualcuno cercava di liberarsene, loro ci sguazzavano felici.
Lei ed Herc erano sempre rimasti insieme ed insieme, con l’aiuto della dottoressa Juno e di Jupiter avevano cresciuto Blanche al meglio, l’avevano aiutata a reagire al fattaccio che l’aveva vista protagonista e l’avevano vista diventare donna. Meg e la ragazzina erano diventate molto più che solamente sorelle, ora erano anche migliori amiche, madre e figlia. Erano una famiglia, l’una per l’altra. E, ovviamente, Herc e Floriant facevano parte del loro piccolo nucleo, e c’erano sempre stati l’uno per la propria ragazza. La cosa che le pareva strana era che non si vedevano ormai da un paio di mesi: Blanche non era voluta tornare a New York da Toronto sostenendo di essere troppo occupata e Meg non sarebbe mancata per nulla al mondo quel giorno, perché voleva rivederla a tutti i costi. Lei ed Esmeralda si erano spesso interrogate sul perché, senza trovare una risposta.
La vita della rossa era cambiata anche grazie alla nuova influenza della ragazzina che si era trovata a dover crescere, ma si erano fatte forza e insieme, lei, Blanche ed Esmeralda, avevano raccolto i cocci delle proprie vite insieme, si erano supportate a vicenda e si erano date una mano quando avevano avuto paura. Avevano ripreso la rotta e finalmente potevano dirsi tutte e tre felici.
Meg aveva fatto moltissimi sforzi, perché nulla era stato facile per lei da quando era uscita dalla casa di Ade. Innanzitutto si era trovata nelle mani un’azienda agricola con la portata di miliardi di dollari l’anno e memore delle ultime amministrazioni non se l’era sentita di lasciare tutto alle decisioni di qualcuno che avrebbe potuto tranquillamente fregare lei e la sua sorellastra e appropriarsi di chissà quanti soldi. No, lei si era messa a capo dell’azienda e aveva fato in modo di mantenere la rotta. Aveva studiato economia con passione e ne aveva fatto la sua vocazione, arrivando ora a possedere una parte delle aziende di Blanche, che amministrava decisamente bene. Le metteva un nonsochè di inquietudine, quando pensava che il fiuto per gli affari l’aveva ereditato da sua madre.
Grimilde era morta per un’iniezione letale una settimana dopo l’ultimo processo, ma né Blanche né Meg avevano voluto partecipare, nonostante avessero ricevuto una domanda dal carcere. Si erano semplicemente rifiutate: una persona che le aveva fatte soffrire così tanto non meritava nemmeno di essere vista mentre moriva, nessuna delle due voleva darle la soddisfazione di vedere quanto le loro vite fossero distrutte e avevano preferito fare le cose per conto loro, illudendosi di non aver mai avuto una madre così.
In ogni caso, con l’aiuto onnipresente della dottoressa Juno, che si era dedicata anima e corpo ad aiutare le due ragazze, senza curarsi dei soldi ma per semplice spirito di partecipazione, erano riuscite a rinascere e a superare le loro crisi. Meg si era fidanzata con Herc un anno dopo che si erano messi insieme, esattamente la sera in cui c’era stata la loro prima volta. Per Meg era stata un’emozione enorme che non aveva mai provato: si era sempre concessa agli uomini che Ade sceglieva per lei, ma mai prima d’allora aveva sperimentato cosa volesse dire ‘fare l’amore’ e c’era voluto un anno prima che si sentisse pronta a provare con il suo ragazzo. Ma Herc era stato d’una dolcezza indicibile e da allora ogni paura della ragazza spariva quando lui l’abbracciava facendola sentire al sicuro. Era proprio per quel motivo che sette anni prima, quando avevano solamente ventun anni lei e venti lui si erano sposati e avevano deciso di mettere su famiglia. Avevano capito che non volevano altro dalla vita se non una famiglia tutta loro. Dalla loro unione erano nati due splendidi bambini: il più grande, Alessandro, di tre anni e mezzo, che aveva l’età di Ahmed e ne era il migliore amico, e la più piccola Cassandra, di appena due mesi. Alessandro era identico a Herc, se non per gli occhi che aveva preso dalla madre, mentre la piccola era stranamente uscita con gli occhi blu.
Quando entrarono, Meg notò subito la presenza di Belle, che non vedeva da almeno otto anni e si domandò come mai fosse lì proprio quel giorno. Sapeva che non si era più fatta viva per moltissimo tempo, ma sapeva anche che la vita portava continui cambiamenti e che non stava a lei giudicare la sua condotta. Herc sorrise ad Adam e cominciarono a ridere insieme e a parlare, loro erano rimasti amici e in contatto, ecco perché Meg aveva avuto negli anni qualche informazione di Belle. Sapeva difatti che ora era diventata una giovanissima professoressa universitaria, che aveva una libreria con Adam a Parigi e che gli affari andavano a gonfie vele. Sapeva anche che si erano sposati, infatti non pose domande sulla sua vita, conoscendone già le risposte.
“Siete arrivati, finalmente!” esclamò Ariel, avvicinandosi a loro, per poi addolcirsi notando Cassandra in braccio a Meg. “Com’è carina” commentò. Meg la ringraziò: anche lei la trovava stupenda. Herc le porse l’ovetto e lei ce la infilò con i giochi ma le rimase vicino perché non si era ancora addormentata, nonostante l’avesse allattata durante il viaggio in auto.
“Allora, siamo pronti? Manca solo Blanche. Qualcuno ne sa qualcosa?” domandò Jasmine guardando verso Meg, supponendo chiaramente che lei ne sapesse di più, ma la ragazza alzò le spalle.
“Non l’ho più sentita da ieri sera, ma ha detto che sarebbe arrivata puntuale. E puntuale per lei vuol dire in orario. Sarà quasi arrivata” concluse guardando l’orologio appeso a un muro.
Le piaceva quel ristorante, e quando poteva ci andava con la sua famiglia, figli e suoceri inclusi. Aveva stretto una buona amicizia anche con Jasmine, che si era rivelata molto intelligente e un’organizzatrice impeccabile. Meg l’apprezzava molto. I cibi, a suo parere, erano migliorati da quando la gestione era paterna e infatti le sembrava anche che la media delle persone che frequentavano la Reggia del Sultano fosse più ricca di prima. Lei stava bene grazie a ciò che le fruttavano le aziende, ma la parte più grande del ricavato andava a Blanche. Anzi, stare bene era un eufemismo: ora era ricca, e non ci credeva nemmeno lei. Proprio quel giorno indossava un abito di seta viola che le stava ancora a pennello. Non era ingrassata nemmeno dopo le due gravidanze, era invece rimasta perfettamente uguale a una volta. Il cellulare suonò nella borsetta, guardò il messaggio che le era arrivato ed annunciò:
“Blanche sarà qui fra cinque minuti”.


Blanche Woodson era felice. Sì, poteva dire di sentirsi al settimo cielo, e non vedeva l’ora di dire perché a tutte le sue amiche. Da quel terribile mese in cui era rimasta in coma si era sentita felice molte volte, ma mai così tanto e mai in quella maniera. Anche Floriant sembrava camminare a un metro da terra ed entrambi non vedevano l’ora di arrivare, difatti erano in anticipo di dieci minuti.
La ragazza si era curata di infilarsi in un morbido abito nero che mostrava tutte le sue forme, anche se forse le rendeva il viso un po’ più smorto, ma non era quello l’importante.
“Siamo quasi arrivati, amore mio” disse Floriant trepidante. Blanche annuì sorridendo, guardando fuori dal finestrino della sua limousine. Era eccitatissima.
La sua vita non era stata facile dall’estate di dieci anni prima. Amareggiata e delusa dalla vita aveva cominciato la sua scalata per tornare a essere una persona normale aiutata da molte persone di cui in un certo momento non aveva capito l’affetto profondo, ma che pian piano l’avevano profondamente segnata diventando per lei praticamente essenziali. Al primo posto per amore provato avrebbe messo senza alcun dubbio Floriant, anche solo per il fatto che l’avesse accettata nonostante tutto ciò che le era accaduto, nonostante l’umiliazione, nonostante le ferite, nonostante il suo blocco nel fare l’amore con lui anche dopo anni. Lui aveva sempre aspettato e amato con dolcezza, con pazienza, riempiendola di baci, amore e fiducia. Era proprio il ragazzo perfetto per lei, e Blanche non avrebbe potuto chiedere di meglio.
Al secondo posto c’era Meg, che aveva veramente fatto qualsiasi cosa per lei. Pensava che alla fine si somigliassero molto per esperienze vissute e per ciò che era successo loro. Le era stata accanto come una tutrice, come una madre, come una sorella e come un’amica, ecco perché Blanche provava nei suoi confronti un grande affetto e un grandissimo debito. Sapeva che lei non se ne rendeva conto, perché Meg era fatta così: lei faceva le cose che le venivano naturali, ma non si rendeva affatto conto di quanto ciò che faceva contasse per gli altri. Lei si limitava a starle accanto, anche se ora erano due mesi che non si vedevano, ovviamente per un motivo ben particolare.
Blanche era contenta perché Ariel le aveva mandato un messaggio dicendole che c’era anche Belle, che non vedeva da moltissimo tempo. Belle non era mai stata una persona particolarmente importante nella vita della ragazzina, però era ugualmente legata a lei da un profondo affetto, perché era una di quelle persone che avevano lottato per lei, per la giustizia, per scoprire la realtà, per i fatti. E anche per questo Blanche sarebbe stata profondamente grata a lei.
La limousine si fermò davanti al ristorante, i due sposini salutarono l’autista e si avvicinarono alla porta.
Blanche e Floriant si erano sposati ad appena vent’anni, quattro anni prima, perché stavano già insieme da sei anni e perché avevano capito che non ci sarebbe stato nessun altro. Spesso Blanche pensava a suo marito come ‘l’unico e il primo’. Non aveva mai baciato nessuno né prima né dopo quell’adorabile ragazzo con gli occhi nocciola che componeva bouquet, non aveva mai amato nessuno e non avrebbe mai fatto l’amore con nessun altro. E poi, Floriant era stato in grado di donarle la più grande gioia che mai avrebbe potuto provare.
Aprirono la porta e appena fu dentro quasi le si mozzò il respiro vedendo tutta quella gente, il cartellone su cui era scritto ‘Dieci anni di rinascita: un intero nuovo mondo per te, Blanche’, e sentendo urla e applausi da bambini e adulti, l’abbaiare dei cani, notando il delizioso buffet su un lato della sala del ristorante e avvertendo tutto l’affetto di quelle persone che avevano tenuto a lei dal primo momento, senza nemmeno conoscerla. Le lacrime le salirono agli occhi, e scoppiò a ridere quando Ariel fu la prima a notare la novità.
“Ehi, ma cos’è successo alla tua pancia?” domandò. Blanche fu presa di nuovo dalle lacrime, che ormai incontrollate le scendevano per le guance e per il collo. Floriant le passò un braccio intorno alla vita.
“Sono incinta… ci siamo riusciti. Sono incinta, aspetto un bambino!” esclamò fra le lacrime, troppo emozionata. Ci fu un momento di silenzio, poi tutti cominciarono a parlare contemporaneamente. Meg aveva un sorriso che partiva da un orecchio e terminava all’altro, boccheggiava e aveva gli occhi umidi. Esmeralda le sorrideva felice e batteva le mani. Jasmine era rimasta a bocca aperta e le guardava la pancia come se fosse un miracolo divino. Ariel rideva sbigottita, colta dalla felicità. Aurora, le lacrime agli occhi, si copriva la bocca con le mani trattenendo il respiro. Jane sembrava estasiata ed esultava. Cindy scoppiò in lacrime di gioia. Belle le fece le sue congratulazioni.
“Complimenti, Blanche, ce l’hai fatta… questo si che è l’inizio di un intero nuovo mondo!” esclamò.
Blanche rise, seppur piangendo. Erano lacrime di gioia. Gioiva perché ora aveva tutto ciò che avrebbe mai potuto desiderare. Aveva l’affetto, l’amore, il calore di quelle diciassette persone che le stavano intorno, aveva il suo Floriant che la stringeva a sé e che le aveva donato una nuova vita, che aveva reso il suo desiderio più grande reale. Si sfiorò la pancia sporgente.
“Sono al quinto mese” bisbigliò.
“E come si chiamerà? È maschio o femmina?” domandò Jane.
“E’ una femmina, e si chiamerà Rose” disse Blanche con più sicurezza. “E voglio che questo sia il suo mondo. Quello che ho avuto io dal risveglio. Quello che ho oggi. Un mondo nuovo di gioia e felicità. Grazie a tutti, davvero. Vi voglio bene” concluse, asciugandosi con un fazzolettino. Guardò il cielo fuori dalla finestra. Il sole brillava. E lei era davvero felice. Davvero.












Nymphna's Space: GENTE! E' finita ç.ç Allora, come vi sembra questa fine? Degna? In realtà l'ho scritta perchè volevo farvi sapere che cosa è accaduto dopo. Durante il pezzo dedicato a Blanche mi sono molto commossa... devo dire che questa storia è stata una grandissima avventura che va avanti da circa sei mesi, ma che mi ha divertita, appassionata, a volte stressata, ma soprattutto ho adorato condividerla con voi. Detto ciò, non mi resta che passare ai ringraziamenti :)
Per prima cosa, ringrazio di cuore Elelovett, _BriciolaElisa_, petitecherie, Sissyl, merychan, _Uneksia_, Dora93, LaStellaNera e Babykikokikka per aver recensito uno o più capitoli della mia storia, mando soprattutto un abbraccio forte a chi ha avuto la pazienza di recensirli tutti (o quasi), senza di voi non avrei mai finito questa storia, veramente. Grazie.
Ringrazio moltissimo poi Dora93 e Chiaretta92 che mi hanno fatto l'onore di inserire questo racconto fra i preferitiiii *-* Che meraviglia, non sapete quanto ciò mi renda felice e fiera di me stessa!
Un grazie anche ad Alice_Wolf che ha inserito questa storia nelle ricordate, spero ti sia piaciuta ^^
E poi... grazie ancora a Elelovett, LaStellaNera, Marina94, merychan, Moonlove, petitecherie, Sissyl, Veronika87, X_LucyW e _BriciolaElisa_ per aver messo questa storia nelle seguite :) Grazie davvero moltissimo!
I ringraziamenti non sono ancora finiti! Un grazie ENORME a Lucia, che ha ascoltato le mie prime svarionate per questa fanfiction in afosi pomeriggi di luglio, che mi ha supportata ed incoraggiata e soprattutto mi ha voluto tantissimo bene (so che non è facile xD) e mi ha così dato il coraggio di scrivere quel famoso primo capitolo e poi anche di pubblicarlo. Ringrazio il mio ragazzo con tutto il cuore, anche lui ha fatto la sua grandissima parte ascoltandomi e standomi accanto, dicendomi che andava tutto benissimo anche se non ha mai visto un film Disney volentieri xD Grazie amore :) Un enorme ringraziamento lo do anche ai miei genitori, che mi hanno cresciuta a pane e Disney... mi avete fatto scoprire un mondo che mi porto dietro ancora oggi :) Grazie di avermi trasmesso questi valori. Ovviamente ringrazio anche Mr. Walt Disney e la sua azienda, perchè senza di loro, nonostante ormai io sia in un'età in cui i sogni ormai dovrebbero essere accantonati, non avrei la fantasia che ho e non sarei rimasta un po' bambina!
Con questo vi saluto.
Un bacio a tutti, spero di incrociarvi in una mia altra o futura storia ^^
Nymphna <3

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