Alice Keeper

di deepblueyes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Noia ***
Capitolo 2: *** La novantanovesima anima ***
Capitolo 3: *** Alice ***
Capitolo 4: *** Il patto ***
Capitolo 5: *** L'invito ***
Capitolo 6: *** Al party ***
Capitolo 7: *** Cinque minuti ***
Capitolo 8: *** Luna storta ***
Capitolo 9: *** Cappuccino ***
Capitolo 10: *** Pioggia ***
Capitolo 11: *** Iblis ***
Capitolo 12: *** Pedaggio ***
Capitolo 13: *** Sonno ***
Capitolo 14: *** Limbo ***
Capitolo 15: *** Verde d'erba ***
Capitolo 16: *** Guastafeste ***
Capitolo 17: *** Riunione tra le piume ***
Capitolo 18: *** Sorpresa. ***
Capitolo 19: *** Posto sicuro ***



Capitolo 1
*** Noia ***


CAPITOLO 1
Noia.



Immobile, ascoltavo il suono di quelle lancette che scandivano secondo dopo secondo la mia noia. Respiravo lentamente, senza neppure la voglia di addormentarmi: me ne stavo lì, sprofondato nel divano, sbirciando il soffitto con gli occhi semiaperti.
Questo tedio faceva parte della mia vita da qualche decennio, perché non riuscivo a trovare assolutamente nulla di divertente da fare, niente per cui valesse la pena muoversi o anche solo pensare.
In quel momento, la mia mente era completamente vuota, spenta, rilassata.
Ma non tanto da non percepire l'arrivo della mia cara coinquilina molto prima che le fiamme divampassero al centro della stanza, scacciando il buio in una vampata di rosso e arancione. 
Il profumo di Liel mi invase le narici, provocante, sensuale.
Se il mio peccato preferito era l'accidia, quello di lei era di certo la lussuria, il desiderio sfrenato di pelle, di calore: che appartenesse a un corpo umano o demoniaco, per Liel non faceva differenza. 
“Gabriel...” 
Quel sospiro mi fece sorridere appena: il mio gioco preferito, in quel periodo, era negarmi a lei, negarle il vanto di poter possedere il mio corpo. 
Facevo andare avanti questo giochino da secoli, in realtà.
E più io mi rifiutavo di concedermi, più Liel diventava possessiva e gelosa nei miei confronti, e aggressiva verso chiunque cercasse di avvicinarmi. 
E questo mi divertiva: ridevo nel vederla affannarsi nel tentativo di attirarmi nella sua ragnatela, ma, soprattutto, ridevo nel leggere la sconfitta e la rabbia nei suoi occhi quando, ogni notte, la respingevo, preferendo la mia noia alla sua compagnia. 
Ma anche Liel stava imparando. Sapeva che il mio olfatto era incredibilmente fine e che, quindi, mi piacevano molto alcuni aromi, alcuni odori in particolare, come quello degli agrumi, del mare, del sole sulla pelle, profumi che stava sapientemente diffondendo nella stanza, inebriandomi.
“Liel.. sei tornata presto” sussurrai, muovendo appena le labbra e chiudendo del tutto gli occhi. La demonessa si avvicinò al divano, lentamente, accompagnata dal rumore dei suoi tacchi che impattavano il pavimento, e si sedette nel poco spazio che trovò vicino al mio fianco, appoggiandosi al mio corpo. Cominciò ad accarezzarmi il viso, arruffandomi i capelli già spettinati, osservando famelica con i suoi affascinanti occhi gialli ogni dettaglio del mio viso, nonostante la penombra.
“Perché questa noia, Gabriel? Non ti sei mosso per giorni... non c'è proprio nulla che possa fare per farti tornare quello di un tempo?” chiese, sfiorandomi le labbra.
Sorrisi ancora di più.
“No... non ho voglia di fare niente.”
Liel sospirò, chinandosi a baciarmi le labbra, prima quello inferiore, poi il superiore, facendomi aprire appena la bocca: “Che tristezza... se solo me lo permettessi, potrei guarirti da tutto questo.”
Aprii gli occhi, e bloccandole i polsi la allontanai quel tanto che bastava per guardarla in viso: “Non hai niente da offrire che possa interessarmi.” sillabai, godendo dell'espressione offesa dei suoi occhi.
Si alzò, di scatto, dirigendosi verso il frigo-bar, cominciò a rovistarci dentro fino a trovare ciò che cercava: stappò la bottiglia, e la appoggiò sul ripiano.
L'odore metallico del sangue mi colpì, stordendomi un po'. Non riuscivo proprio a capire per quale motivo si ostinasse a berlo, dato che il nostro corpo non aveva bisogno di cibo o nutrimento di alcun genere per sopravvivere; e poi, gli umani erano esseri talmente insulsi. Il solo pensiero di avere qualcosa di loro dentro il mio corpo mi disgustava profondamente, e storsi il naso. 
Ma Liel non la pensava esattamente come me, e si versò del sangue nel bicchiere, nel silenzio di chi si sta leccando le ferite, forse cercando un modo per ribattere al mio insulto. 
Pur essendo innegabilmente bella e magnificamente crudele, Liel era davvero, davvero stupida. Per questo, soprattutto in momenti come questi, quando non volevo altro che la compagnia dell'orologio, la sua presenza era terribilmente fastidiosa, dato che il solo gioco che facevo con Liel non prevedeva attività in cui lei brillasse, come la conversazione. Era soltanto capace di sussurrare frasette provocanti inutili e idiote, per poi offendersi ogni volta che la ignoravo o lanciavo frecciatine. 
Una vera noia.
Tutti i giorni.
Da secoli.
Se ancora ero in quella casa, era soltanto perché non avevo voglia di spostarmi.
“Non Cacci nemmeno più”
Mi voltai di scatto a fissarla, vagamente sorpreso: “Come?”
Si girò a suo volta, puntando i suoi occhi felini nei miei. Senza battere neppure le ciglia, avvicinò il bicchiere alle labbra, sorseggiando il liquido denso.
“Le anime. Non tormenti più gli umani come facevi una volta.. i tuoi Contratti sono in bianco da parecchio”
Tornai a puntare la mia attenzione sul soffitto appena compreso che, come al solito, sparava cazzate: soltanto un demone di rango basso come il suo poteva essere ancora legato a questi vecchi rituali. Non Cacciavo più anime per l'Inferno, perché gli umani erano davvero scontati ormai. Era troppo facile, troppo noioso, per noi Nobili.
“Allora?” insistette, avvicinandosi di nuovo.
“Troppo facile.” sbottai, sperando che la piantasse e si tappasse la bocca. Volevo sentire soltanto l'orologio.
“Ma davvero? Ti dirò, invece credo di aver trovato un'anima davvero difficile da catturare...”.
Alzai gli occhi al cielo, prima di guardarla con la stessa espressione che avevo quando avevo visto quell'insetto idiota spiaccicarsi sulla mia finestra ore prima. 
“Ah, si?” risposi, alzando un sopracciglio.
“Mmm.. ti andrebbe di fare una scommessa?” propose, sedendosi di nuovo dove si era messa prima, e poggiando il bicchiere a terra. Non giudicai necessario sprecare il fiato per farla andare avanti; lo avrebbe fatto comunque, anche se non desideravo altro che tapparle la bocca, per godere di un po' di silenzio.
“Devi far firmare cento Contratti prima della fine del mese. Il centesimo, però, deve avere sopra il nome di Alice Keeper”.
Di nuovo, le sue dita tornarono tra i miei capelli, e lei si avvicinò, fino a sussurrarmi nell'orecchio: “ Se vinci, supererai il range che ti occorre per tornare in pianta stabile a casa. Se perdi... sarai mio.” 
La sua lingua, lentamente, seguì la curva del mio collo, finché la sua bocca non si trovò ancora sospesa sulla mia: “Allora.. che ne pensi?”
In tutta onestà, ero sorpreso. Non per quello che mi aveva proposto, né per il fatto che sapesse quante anime mi occorrevano affinché potessi varcare la Soglia.
No. Ero sorpreso perché l'accidia in cui ero sprofondato mi aveva annebbiato tanto da farmi dimenticare quanto fosse basso il numero di Contratti necessari affinché potessi andarmene dal mondo umano una volta per tutte. 
Che poi non fossi in grado di resistere alle competizioni, era risaputo.
“Dov'è che si trova questa... Alice?”
Il sorriso che fece mi sorprese un po'. Sembrava quasi.. furbo. E per una come Liel era ben strano.

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Capitolo 2
*** La novantanovesima anima ***


CAPITOLO 2
La novantanovesima anima.


Fissavo distrattamente il panorama immenso che mi si stagliava di fronte, lasciando consumare la sigaretta tra le dita, i gomiti appoggiati alla ringhiera. 
Ora che ci facevo caso, gli umani, soprattutto quando erano potenti e ricchi, avevano la tendenza a vivere e lavorare in edifici quanto più alti possibile: il grattacielo dove mi trovavo era davvero assurdamente enorme. 
Riuscivo a vedere l'intera città.
I passanti sembravano insetti minuscoli persino alla mia vista acuta, e le macchine somigliavano a dei piccoli modellini, dei giocattoli per ragazzini. 
Stranamente però, nonostante questa tendenza a costruire palazzi spaventosamente vistosi e a rischio di torcicollo, avevano sviluppato l'attitudine opposta per gli interni: erano flessuosi, in acciaio e vetro, o in plastica, semplici, asettici, in bianco, nero o grigio. 
Portai la sigaretta alle labbra, voltando leggermente la testa. 
C'era uno strano trambusto lungo il piano, qualcuno correva, qualcun'altro urlava.
Sorrisi, lentamente. Mi aspettavo che venisse.
Spensi la sigaretta e la lasciai cadere giù, poi rientrai, sistemandomi i polsini della camicia e chiudendo la cravatta che avevo allentato. Mi versai del brandy, appena due dita, ridacchiando alle urla di Catherine, la mia segretaria: “Signore, non può entrare senza aver preso un appuntamento, signore..!” e ancora “Luis! Luis! Per favore, porti via quest'uomo!”
“No! Io devo vedere quel maledetto! Mi lasci, mi lasci!” 
Sorseggiai il mio brandy e mi diressi verso la porta, lentamente, lasciando che l'uomo “senza appuntamento” venisse stropicciato un po' dal mio gorilla, cercando di trattenermi dal ridacchiare. 
Mi affacciai sul corridoio, illuminato dalla penombra della sera. 
Eh sì, ero uno stacanovista che lavorava fino a tardi.
“C'è qualche problema, miss Rosing?” chiesi, lasciando correre lo sguardo sul volto affannato e accaldato della segretaria, che aveva evidentemente appena corso a perdifiato sui suoi altissimi tacchi a spillo, su Luis, dalla pelle più nera del suo completo (che sembrava sul punto di scoppiare visti i pettorali che doveva contenere) e, infine, sul signor Jacob, Miles Jacob. 
Anche lui sembrava affaticato, visibilmente ingrigito e smagrito rispetto all'ultima volta che l'avevo visto: vestito in modo indecente, scuoteva la testa in scatti nervosi e si guardava intorno come un coniglio spaventato. 
Quando, poi, i suoi occhi incontrarono i miei, la sua bocca si spalancò e la sua espressione si riempì di sorpresa, facendolo afflosciare di colpo tra le braccia del gorilla, che si trovò a dover sostenere tutto il suo peso.
Sollevando un sopracciglio, riportai l'attenzione sulla donna, che, nel frattempo, aveva cercato di ricomporsi: “Signor Ross, le chiedo scusa, sono mortificata. Quest'uomo si è presentato con l'intento di incontrarla, ma non aveva un appuntamento. Perciò gli ho detto che era impossibile vederla oggi, e che forse la settimana prossima avrei potuto trovare un'ora libera per un vostro incontro. Poi ha cominciato a correre e urlare e...”
La zittii poggiandole una mano sulla spalla e le sorrisi: “Non si preoccupi, non c'è problema. Mi dica, signore, per quale motivo voleva tanto vedermi?” chiesi poi, rivolgendomi direttamente a Miles.
Luis lasciò andare l'uomo, che barcollò in avanti, balbettando: “Mi.. mi scusi.. io.. cercavo un avvocato, l'avvocato Jack Ross, mi avevano detto che l'avrei trovato qui ma forse mi sono sbagliato, io...”
“Oh no. No no. Io sono esattamente la persona che cerca” sorrisi, invitandolo con un gesto del braccio: “Vuole accomodarsi, signor Jacob?”
L'uomo rimase qualche istante immobile, a bocca aperta, con un'espressione talmente comica che mi fu quasi impossibile non ridergli in faccia, ma in qualche modo riuscii a mantenere un certo contegno. 
In fondo, ero pur sempre un attore professionista.
Miles Jacob barcollò dentro, senza mai staccare gli occhi dal mio viso.
La segretaria sembrava sorpresa, e aprì la bocca come per replicare, ma la interruppi: “Non preoccuparti Catherine, è tutto apposto. Torna pure alla tua postazione, sei stata preziosa. Grazie Luis, ti chiamerò se avrò bisogno nuovamente dei tuoi servizi.”
Detto ciò rientrai nella mia stanza, in compagnia del caro signor Miles, che se ne stava tutto tremante a fissarmi, ancora sconvolto.
Gli offrii del brandy, che accettò con mani incerte, e lo spinsi a sedersi sul divano in pelle nera, di fronte alla mia poltrona preferita, consapevole che i suoi occhi non si erano allontanati nemmeno per un istante da me, mentre la sua fronte si corrugava e poi rilassava, in maniera nevrotica. 
“Allora, signor Jacob, cosa vuole da me?” esordii, sedendomi anch'io, ma con molta più grazia del mio ospite. 
Rimase in silenzio per qualche altro istante, prima di rispondermi: “Come fa a conoscere il mio nome?”
Risi, rilassandomi sulla poltrona, e accavallai le gambe: “Ah, certo. Immagino che non mi abbia riconosciuto, con questo aspetto da nonno. Se non ricordo male, quando ci siamo conosciuti avevo qualche anno di meno, giusto?”
Il bicchiere gli scivolò dalle mani, bagnando il mio costoso tappeto con il liquido ambrato che conteneva. O meglio, macchiò il costoso tappeto del prestigioso avvocato che era morto dopo aver perso la sua anima in un Contratto con il sottoscritto, e del quale avevo assunto l'aspetto. Ora, mentre il mio viso ringiovaniva, i miei capelli tornavano neri e la pelle bronzea, liscia, tonica e giovane, ridevo dell'effetto che la mia trasformazione causò in Miles Jacob, che saltò in piedi tremante, puntandomi il dito contro.
“E' da maleducati indicare sai?” notai, mettendomi più comodo.
“Tu.. tu.. sei..” balbettò, incapace di pronunciare una frase coerente.
“Cos'è, credevi scherzassi quando abbiamo fatto quella bella chiacchierata per la tua anima? Sono un demone, e, in quanto tale, posso modificare le mie sembianze come più mi piace.”
Crollò di nuovo sul divanetto come un sacco di patate, con lo sguardo vacuo, le braccia molli lungo i fianchi. Deglutì, sussurrando: “Allora... allora io...ho venduto..”
“La tua anima a me? Si, esatto, e l'hai fatto senza esitazione, per la tua cara, piccola Sophie...” risposi, ridacchiando ancora.
Ebbe un sussulto al suono di quel nome, e riportò i suoi occhi nei miei, tremando come una foglia: “Ma... ma adesso lei.. lei è...”
“..Morta? Si, lo so.” 
Quando vidi i suoi occhi bagnarsi di lacrime, avrei voluto spararmi. O meglio, sparargli.
Questi umani erano davvero noiosi, deboli e prevedibili; bastava un niente, e scoppiavano in lacrime, a prescindere dall'età, dal sesso o dai soldi che avevano. C'era sempre un punto in cui finivano in ginocchio, chiedendo pietà, frignando e pisciandosi addosso. 
Mi disgustavano. Profondamente.
“ Perché? Avevi promesso che se ti avessi dato la mia anima, avrei potuto rivederla... perché é morta?”
Sospirai e, spingendomi in avanti con il busto, poggiai i gomiti sulle ginocchia e il mento sulle mani, osservandolo contorcersi nel dolore. Schioccai la lingua, prima di cominciare a parlare: “Vedi, sono cose che succedono, continuamente. È la fregatura dell'essere umani. Basta un attimo di distrazione, e.. puf! Sei morto.”
Mi alzai in piedi, misurando la stanza a grandi passi: “Poi, volevi vederla no? Ho solo cercato di farvi tutti contenti.”
Lo sentii chiaramente tendersi e trattenere il fiato, appena comprese appieno le mie parole. Mi versai dell'altro brandy, aspettando tranquillamente che si riprendesse, soffermandomi sul panorama visibile attraverso le tende.
“Che... che cosa vuoi dire con questo?”
Sorrisi, per l'ennesima volta: “Che l'ho uccisa io. Sono io che l'ho investita, mentre tornava a casa da scuola con sua zia.”
Sgranò gli occhi, boccheggiando. Scivolò in ginocchio, prendendosi la testa tra le mani, disperandosi. Finii il secondo bicchiere di brandy, avvicinandomi di qualche passo.
“Perché? Era soltanto una bambina innocente...” sussurrò, a voce troppo bassa perché un orecchio umano potesse percepirla. 
“Mmm.. si, era piuttosto giovane. Ma, vedi, in questo modo ho fatto felici entrambi. Il mio è stato un gesto altruistico.”
Alzò di scatto la testa, fulminandomi tra le lacrime, sconvolto dalle mie parole.
“Oh, si, te lo garantisco. L'ho fatto col cuore. Vedi, tu volevi disperatamente rivederla, ma lei non aveva intenzione di avere a che fare con te. Sai, hai fatto fuori sua madre, non so se mi spiego. Perciò, ho trovato un compromesso. Le ho... offerto... ciò che voleva, riuscendo in questo modo a permetterti di avere ciò che, a tua volta, desideravi”
Il suo respiro rallentò, gradualmente, mentre elaborava le mie parole. Riuscivo quasi a sentire il ronzio del suo cervellino che si sforzava. Poi capì. E riprese a tremare.
“Le hai... offerto.. ciò che voleva?”
Annuii: “Puoi immaginare quale fosse il suo più grande desiderio... voleva rivedere sua madre. Così, le ho offerto un Contratto, che ha accettato subito. In questo modo, tu hai potuto incontrarla di nuovo, anche se forse speravi in una compagnia un po' più... vivace, se così si può dire.”
Aveva ricominciato a frignare a metà del mio discorso.
Uno spettacolo davvero pietoso.
“Tu... come puoi parlare così.. non hai...”
“Cuore? No. Sono un demone. E poi, se vogliamo dirla tutta, la colpa è solo tua: avresti potuto specificare meglio i termini del tuo Contratto. Se ci tenevi davvero così tanto a tua figlia, avresti dovuto pensare che, magari, sarebbe stato più prudente tenermi alla larga da lei.”
Chinò il capo, tremando e continuando a bagnarmi il tappeto, raggomitolandosi su se stesso. Mi sforzai per trattenere una smorfia di disgusto. 
La lavanderia, poi, mi sarebbe costata un occhio della testa.
Sentii chiaramente mentre mi dirigevo verso la scrivania, essendo in possesso della sua anima, il mutarsi dei suoi sentimenti da tormentati e disperati a furiosi, e premetti il tasto di chiamata della sicurezza. 
Nel frattempo Miles Jacob si rialzò, con i pugni serrati, incapace di controllare i tremori del suo corpo. “Ti ammazzo... giuro... che ti ammazzo...”
“Oh, no.” dissi, riprendendo le sembianze del vecchio e ricco avvocato: “Se ci riuscissi, poi torneresti in prigione. Sarebbe triste, non credi? Anche perché potrebbero finire col giudicarti colpevole persino dell'assassinio di tua figlia. Mi sembra abbastanza ovvio che sei tra i sospettati, e, in una tale circostanza sarebbe molto, molto poco saggio aggredire l'avvocato che, molto generosamente, ha accettato di portare avanti gratis l'accusa nei tuoi confronti, accusa che ti è stata rivolta da tua sorella. Ricordi Helen, vero? Colei che si occupava di Sophie, fintanto che era in vita. Credo di aver ammaccato un po' anche lei quando ho ucciso la ragazzina... quindi è una testimone, no? E dato che la macchina che ho usato era dello stesso modello della tua, e l'autista ti somigliava parecchio...”
Sembrò afflosciarsi di nuovo, come un palloncino bucato, la bocca talmente spalancata che temetti gli cadesse anche quella sul tappeto: “Tu.. tu mi hai..”
“Fregato? Imbrogliato? Ingannato? Si. Ma in fondo, che ti aspettavi? Sono un demone senza cuore.”
E sulla mia battuta finale, con una precisione chirurgica e un effetto davvero teatrale, arrivarono i buttafuori, che gli furono addosso in pochi istanti.
“E' un pazzo, agenti. Sarebbe il caso di avvisare la polizia.” dissi, con fare distratto.
Subito, quelli obbedirono, anche perché quell'idiota aveva cominciato a urlare che ero un demonio, un mostro dalle sembianze umane, che aveva rubato la sua anima e ucciso sua figlia. 
Il che era assolutamente vero, ma loro non gli avrebbero certo mai creduto. 
Quando la porta si chiuse, attutendo le grida, sprofondai nella poltrona e presi i miei Contratti: li contai con assoluta calma, totalmente rilassato e appagato.
99.
Sorrisi. 
“Miss Alice Keeper... non vedo l'ora di fare la sua conoscenza...”

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Capitolo 3
*** Alice ***


CAPITOLO 3
Alice.


Odiavo profondamente le sveglie. Soprattutto la mia.
Non ero mai riuscita a far capire a mia madre che una sveglia digitale è meglio di una normale, perché invece di farti aprire gli occhi con un insopportabile trillo infinito e monotono mi avrebbe permesso di alzarmi con la mia musica.
E non ero mai riuscita a farle capire che non doveva spostarla sulla scrivania, quella stramaledetta sveglia, perché non sarei mai riuscita a spegnerla prima che facesse svegliare tutti a casa.
“Alice! Spegni quell'affare, maledizione!”
Chiusi gli occhi, imprecando sottovoce, e scattai a spegnere l'aggeggio infernale: “Scusa papà!”
Mi passai una mano sul viso e tra i capelli, cercando di spannarmi il cervello, e vidi quel gatto sulla porta. Quello che mamma aveva avuto la brillante idea di portare in casa un paio di giorni prima.
Non che fosse brutto, anzi, era uno splendido gatto nero, snello ed elegante, ma anche terribilmente inquietante: non lo avevo mai sentito miagolare né lo avevo mai visto dormire o fare qualunque cosa un normale gatto facesse di solito.
Si limitava a fissarmi, perfettamente immobile, con quei conturbanti occhi verdi.
A volte, avevo l'impressione che lui si prendesse gioco di me, guardandomi apposta in quel modo da brividi.
Scossi la testa, scacciando quei pensieri idioti: era soltanto un gatto. Magari apparteneva a una strega o giù di lì, ma era pur sempre un gatto.
Spostai lo sguardo analizzando il disordine della mia stanza, e finii col guardare il mio riflesso sullo specchio a muro.
Sospirai.
Altra idea geniale di mia madre: diceva che alla mia età aveva sempre voluto uno specchio abbastanza grande da potersi guardare per intero, e me lo aveva comprato pensando che fosse anche il mio più grande desiderio. Mentre io non volevo altro che spaccare quel coso inutile.
E lo avrei fatto da tempo, se non fossi stata superstiziosa.
Raccolsi qualche libro da terra e mi avvicinai allo zaino, ma saltai indietro, sussultando: quel maledetto gatto s'era spostato, e adesso mi fissava con la solita aria si sufficienza, seraficamente appollaiato sulla mia tracolla.
“Via, levati!” gli agitai la mano davanti, sperando che se ne andasse, ma quello si limitò a inclinare leggermente il capo, senza staccarmi gli occhi di dosso.
“Uffa!” lo presi in braccio per poi mollarlo sul letto, e riempii la cartella cercando di frenare i brividi: toccarlo mi dava fastidio, sempre.
Recuperai dei jeans dall'armadio, una maglietta e una felpa, poi andai in bagno.
Lavata, profumata e pettinata, partii di corsa, in ritardo come al solito, urlando un “A dopo!” ai miei, tanto per informarli che non ero morta cadendo in bagno... anche se, molto probabilmente, non mi avevano neppure sentito.
Camminando, infilai le mani nelle tasche e recuperai le cuffie, sparandomi la musica al massimo nelle orecchie. Mi sentivo già molto meglio.
E fortuna che tutti pensavano che avere animali in casa facesse bene...
“Alice! Alice! Mi senti?”
Mi sentii afferrare da dietro e quasi urlai quando mi tolsero le cuffie stritolandomi in un abbraccio spacca-costole.
“Alice!! Non puoi immaginare quanto mi sei mancata!”
Tossicchiai, liberandomi: “Sun, sono appena ventiquattro ore che non ci vediamo...”
“Bè, mi sei mancata lo stesso... ho una marea di cose da raccontarti!”
Nonostante ci conoscessimo ormai da tre anni, Sun non era esattamente la mia migliore amica. Non che non le volessi bene, anzi, la adoravo, ma eravamo troppo diverse: persino il nostro modo di vestire era all'opposto.
Non credevo esistesse una gradazione di colore che non fosse sul suo vestito, spaventosamente corto e floreale, i suoi capelli erano riccissimi e biondissimi, il suo sorriso abbagliante.
E poi, lei parlava un sacco.
Non che mi dispiacesse, mi divertiva, ma aveva sempre così tanto da dire che io, alla fine, non le raccontavo niente di me o della mia giornata.
Non era necessario per far andare avanti la conversazione, e a me andava benissimo così.
Sentendola parlare del ragazzo che aveva conosciuto la sera prima, pensai che avrei voluto essere estroversa come lei, così forse avrei avuto il coraggio di parlare con... Nicolas.
Proprio mentre pensavo il suo nome, ci sfrecciò davanti in moto, prendendo posto nel parcheggio della scuola.
Mi sembrò che il tempo rallentasse, mentre scendeva e si toglieva il casco, spettinando i capelli che gli si erano appiccicati alla testa.
“Nick! Ehi, Nick!” lo salutò Sun.
Erano diventati amici quasi subito, loro due. Io non ero mai riuscita a dirgli neppure un misero, patetico “ciao”, ed erano tre anni che frequentavamo gli stessi corsi.
Nicolas si voltò, con sorriso talmente bello da togliermi il fiato: “Ehi, come va?”
“Benissimo, grazie... mi sono divertita un casino ieri!”
Io, semplicemente, mi dileguai, scivolando dentro le doppie porte del mio inferno personale: la scuola. Quella giornata sarebbe stata tremenda.
Avevo in programma tre compiti in classe e un'interrogazione, ma non avevo studiato niente di niente. Avevo pensato ad altro.
A Nicolas, principalmente. Come al solito.
Demoralizzata, mi preparai all'inizio dell'incubo. Raggiunsi il mio armadietto con la flemma di un bradipo, e realizzai che avrei avuto qualche problemino ad aprirlo: avevo dimenticato di nuovo la combinazione. Cambiavo spesso quei quattro numeri perché ero fissata con la mia privacy e convinta che, così facendo, nessuno avrebbe mai ficcanasato nel mio armadietto (per quanto si potesse desiderare di farlo).
Cazzo.
Perché ero sempre, irrimediabilmente distratta? Persi una marea di tempo a cercare di ritrovarla, provando diverse opzioni possibili, e solo quindici minuti dopo il suono della campanella riuscii ad aprire quell'affare. 
Corsi in classe, quasi suicidandomi sulle scale, e aprii la porta senza bussare: “Mi scusi tanto, io...”
Mi interruppi di colpo.
Vicino al professore c'era un ragazzo che non avevo mai visto: era alto, parecchio, soprattutto se paragonato al signor Hammond, il prof di letteratura. Aveva una carnagione scura, olivastra, e i capelli nerissimi e arruffati gli ricadevano tra le ciglia lunghe e scure, che evidenziavano gli occhi verde bosco, dal taglio affilato, felino.
Era davvero magro, ma muscoloso, e mi fissava con un sorriso strafottente, le mani ficcate nelle tasche e la tracolla appoggiata mollemente su una spalla.
Ma non era per quell'aria saccente che non riuscivo a smettere di fissarlo: quel ragazzo aveva un qualcosa di magnetico, sensuale, che mi fece tremare le mani e arrossire fino alla punta dei capelli.
Sapevo che mi stavano fissando tutti, ma ero incantata a guardarlo, dritto in viso, come non avevo mai avuto il coraggio di fare neanche con i miei amici.
Finché non mi fece l'occhiolino.
Sussultai e spostai lo sguardo sulla punta delle mie scarpe, trovandole di colpo molto più affascinanti dello sconosciuto.
“Si sieda, signorina Keeper. È già la terza volta che entra tardi alle mie lezioni, e sarò costretto a punirla se non comincerà a svegliarsi prima.”
Deglutii e borbottai delle scuse confuse sgusciando al mio posto ed eclissandomi, china sul banco. Le mie compagne mi fissavano, ridacchiando.
Che figura di merda, mamma mia.
“Fate silenzio! Come stavo dicendo prima che la signorina Keeper... irrompesse in aula..” fece una pausa, ridendo di me assieme ai miei compagni: “..questo è il vostro nuovo compagno, si chiama Gabriel Alleyn. Vedete di non farvi riconoscere subito, ok?”
Mentre Hammond si perdeva in chiacchiere, aprii il libro e tentai un ripasso last minute che mi permettesse di raggiungere almeno la sufficienza, cercando di tradurre i geroglifici di appunti che avevo frettolosamente preso a piè di pagina.
Poi sentii la sedia affianco alla mia spostarsi.
Alzai gli occhi di scatto, e incontrai quelli di Gabriel Alleyn.
“Ciao.” disse, con lo stesso sorriso che mi aveva rivolto appena entrata.
Persino la sua voce era sexy... ma da dove cavolo spuntava fuori questo tizio?
“Cos'è, il gatto ti ha mangiato la lingua?” chiese, sedendosi, voltando leggermente la sedia verso di me, senza mai smettere di osservarmi. Mi sentivo andare a fuoco.
“No... io.. ciao.” balbettai, con una voce che non sembrava nemmeno la mia.
“Volete fare silenzio là in fondo?”
Per la prima volta in vita mia, fui davvero grata al professore per aver interrotto quello stillicidio... il cuore mi batteva così forte da rimbombarmi nelle orecchie e non riuscivo a pensare a nulla di coerente.
“Signor Alleyn, per oggi è esonerato dalla verifica, ma si tenga pronto. Verrà interrogato in seguito.” aggiunse Hammond, distribuendo i fogli.
“Certo professore, nessun problema.”
Sollevai lo sguardo e sbirciai la sua espressione: non aveva perso quella nota di arroganza neppure mentre si rivolgeva direttamente al docente, che lo fulminò in risposta. Stava sbracato sulla sedia, con le gambe allungate oltre il banco.
Ma quanto cavolo era alto?
“Che c'è?” sussurrò, ridacchiando.
Accidenti... si era accorto che lo stavo fissando... di nuovo.
Non feci in tempo a rispondere, perché arrivò il professore con la mia condanna a morte: quando il foglio mi fu davanti, non riuscii a trattenere un gemito, sapendo che sarebbe stato la causa di lunghe settimane di punizione.
Non che di solito uscissi più di tanto, ma almeno potevo guardare la televisione e usare il PC...
“Serve una mano?”
Guardai alla mia destra, sorpresa: con la testa sulle braccia, appoggiato sul banco, Gabriel Alleyn mi guardava con un sorrisetto da Stregatto.
“Non ci crederai ma... adoro letteratura...” aggiunse, strizzando l'occhio.
Sorrisi: “Io non la sopporto proprio.”

Un'ora dopo, uscivo dopo aver fatto il più bel compito della mia intera vita. Me lo aveva passato tutto Gabriel, ma pazienza... non sarei certo stata insufficiente.
“Grazie mille, ero davvero in crisi.” dissi, appena ci trovammo al sicuro da orecchie indiscrete, appoggiando la schiena contro il mio armadietto.
Fece spallucce, senza perdere il sorriso: “Per così poco. Comunque piacere, sono Gabriel.” aggiunse, tendendomi la mano.
“Alice, piacere mio.” risposi, arrossendo, e presi la sua mano, stranamente fredda, ma piacevole.
“Alice... che nome carino... senti ti andrebbe di fare sega e farmi vedere la scuola?”
Rimasi un attimo interdetta, e mi guardai attorno, spaesata. La campanella era suonata, e io non me ne ero nemmeno accorta.
Il mio istinto da brava ragazza mi suggeriva di lasciar perdere e tornarmene in classe, che avevo il dovere di affrontare a testa alta gli altri compiti e di prendermi il voto che meritavo, come era giusto che fosse; inoltre, per quanto Gabriel fosse affascinante e divertente, aveva un non so che di spaventoso... mi inquietava un po'.
“Non so... non sono una gran guida, insomma, mi perdo sempre...” dissi, sapendo bene che era vero. Non ricordavo la combinazione dell'armadietto, figurarsi la strada più breve per arrivare alla palestra...
“Ah beh, sto messo male anche io, credimi... nel caso, meglio perdersi in due, no?”
Incontrai i suoi occhi, sorpresa. Mi stava fissando le labbra. Oh cazzo.
Poi rialzò lo sguardo, e ridacchiò, sembrando quasi imbarazzato.
Io non ci capivo più niente.
Nicolas. Pensa a... oh, al diavolo. Il mio cervello era K.O. Avrebbe potuto farmi qualunque cosa, in quel momento.
“Ok, andiamo allora.” dissi, cercando di modulare la voce in modo da non parlare in falsetto.
Si morse il labbro, facendomi rincretinire ancora di più, e si fece da parte:“Prima le signore”.

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Capitolo 4
*** Il patto ***


CAPITOLO 4
Il patto.

Aprii la porta, pianissimo, pregando che non ci fosse nessuno: se la bacheca era stata aggiornata correttamente, l'aula non avrebbe dovuto essere occupata a quell'ora, ma, nel dubbio, preferii sbirciare prima di entrare.
Buio. Non avevano neppure alzato le serrande.
Cercai a tentoni l'interruttore e accesi la luce, facendomi da parte.
“Eccoci qua. Questo è il laboratorio di biologia.”
Gabriel si infilò nel piccolo spazio libero tra me e la porta, guardandosi attorno con un broncio davvero buffo; non sembrava troppo convinto.
“Si, lo so. È piccolina come aula. Però, c'è tutto...”
Spostò lo sguardo su di me, con la fronte corrugata, poi cominciò a ridacchiare aggirandosi tra i banchi. 
Che tipo strano. Si comportava come se provasse una marea di cose opposte nello stesso istante e non fosse in grado di mascherarle tutte dietro la strafottenza. 
Guardandolo muoversi, capii perché mi aveva lasciato una strana sensazione di deja-vù addosso quando l'avevo incontrato quella mattina: mi ricordava tantissimo il gatto che mamma aveva portato a casa, per il modo in cui spostava l'attenzione da un oggetto all'altro, in silenzio, come inclinava il capo verso destra quando qualcosa lo incuriosiva.
Scossi la testa. Dormivo decisamente troppo poco.
Quando riaprii gli occhi, ebbi un sussulto. Gabriel si era avvicinato, senza farsi sentire, e adesso era proprio di fronte a me, vicinissimo; aveva lasciato la cartella sul pavimento, qualche passo indietro.
“Sai, non ti facevo così intraprendente... portarmi subito nella classe di biologia..” ridacchiò, facendo un altro passo verso di me e infrangendo senza preavviso quel confine fisico che permettevo di varcare solo a pochi amici. 
Indietreggiai di mezzo passo, ma mi trovai spalle al muro, senza via di fuga.
“Ehm... veramente io non intendevo... insomma, ci siamo capitati, ecco tutto.” balbettai, cercando inutilmente di non incantarmi a fissarlo.
Come cavolo aveva fatto a rendermi così inerme?
“Ma davvero? Mi era sembrato che la strada la ricordassi bene...” sussurrò, a un soffio dalla mia bocca. In quell'istante, percepii il suo odore, che mi ricordò il mare e il sole e le risate, e sentii un impulso estraneo che mi esortava ad annullare quella distanza, ad assaggiare la sua pelle.
Trattenni il respiro, cercando di allontanarmi: “Io... non ci conosciamo...”
Gabriel scoppiò a ridere, ma non nel solito modo: adesso, ogni traccia di divertimento sembrava svanita, e mi fece accapponare la pelle: “Ah, voi umani siete davvero incredibili!”
Tornò indietro, permettendomi di respirare di nuovo, e recuperò la tracolla dal pavimento, la ripulì e appoggiò su uno dei banchi, ma non riuscii a vedere altro perché mi dava le spalle.
Intanto, ripensavo alle sue parole... aveva detto “voi umani”: forse credeva di essere un qualche tipo di extraterrestre o giù di lì?
Sospirai, dandomi mentalmente una pacca sulla spalla.
Complimenti, Alice, sei riuscita ad attirare l'attenzione di un completo psicopatico, davvero notevole. 
“Ehm... Gabriel, io non...”
“Non sai di cosa stia parlando?” mi interruppe lui, lanciandomi un'occhiata da sopra la spalla. “Sto per spiegartelo. Di norma faccio tutto con molta più calma, ma purtroppo sono a corto di tempo, quindi dovrò farlo subito”.
Al sentire quelle parole, rimasi congelata.
Oh, no. Ti prego, ti prego, no. 
Dio, perché sono così stupida?

“Ah, merda!” imprecò di colpo, alzando la voce e stringendosi la testa tra le mani, quasi avesse avuto un improvviso attacco di mal di testa. 
“Non pronunciare mai più quel nome, chiaro?” 
Mi schiacciai ancora di più contro la porta, sconvolta, sempre più convinta che avrebbe tirato fuori un taser o qualcosa di simile e mi avrebbe fatto del male. 
Cercai la maniglia, lentamente, ricordandomi di distrarlo nel frattempo. 
In quel momento, fui profondamente grata a mia madre per la sua fissa per i polizieschi.
“Io non ho chiamato nessuno...”
“Ah, lascia stare. Sei soltanto una ragazzina, in fondo. E hai anche poca fantasia... andiamo, un taser? Sentito mille e mille volte.” osservò distrattamente, voltandosi così da permettermi di vedere cosa aveva in mano: un normalissimo foglio bianco e una penna.
Ma cosa diavolo...?
“Ecco, così ci sei già più vicina” ridacchiò, strizzandomi l'occhio.
Poggiò il foglio e la penna su uno dei banchi, poi si accomodò su una sedia, spostandosi verso la parete, piuttosto lontano da me e, apparentemente, senza alcuna intenzione di avvicinarsi di nuovo.
Provai ad abbassare la maniglia, sforzandomi di mantenere la calma: la situazione mi piaceva sempre di meno.
“Sono più vicina a cosa?” domandai, più per perdere tempo che per curiosità sincera. 
Quella fottutissima porta non si decideva ad aprirsi. 
Merda, merda, merda.
“A capire che cosa voglio da te. Riflettici, ci hai quasi preso. E piantala di fare così, la porta è chiusa a chiave, rischi solo di rompere qualcosa... e poi, i tuoi pensieri sono davvero volgari quando vai in panico. Perciò, vedi di prendere un bel respiro, ok?” rispose, sbadigliando leggermente, con fare annoiato.
Di nuovo, rimasi immobile. Era un pazzo furioso. Non c'era altra possibilità.
“I miei... pensieri?” ripetei, sperando di aver frainteso le sue parole.
Mi fissò, con un sopracciglio inarcato, cominciando a spazientirsi: “Si, ragazzina. Posso leggere i tuoi pensieri, anche se non mi sono ancora chiari quanto vorrei.”
Spalancai gli occhi: non potevo credere a quello che avevo appena sentito. 
Avrebbero dovuto rinchiuderlo in manicomio e buttare la chiave.
Non riuscii a trattenere una risata, nervosa e forzata: “Certo, come no. Gabriel, non si possono leggere i pensieri, lo sai vero? E adesso, per favore, aprimi la porta, così ti mostro il resto della scuola..”
Sorrise, rilassato, appoggiando la nuca contro la parete: “Ah, sei davvero uno spasso. Beh, smettiamola con queste cazzate però. Vedi di aprire bene le orecchie, ora: io sono un demone, un servo di Lucifero, e voglio la tua anima”
Per qualche istante non riuscii dire niente: quasi mi aspettavo che si rimettesse a ridere, dicendomi che mi stava prendendo in giro, che voleva soltanto vedere che faccia avrei fatto o qualcosa del genere. Ma non fece nulla di tutto questo. 
Era assurdo. La cosa più insensata e impossibile che potesse tirar fuori.
Continuavo a ripetermi che era un pazzoide maniaco e che avrei dovuto fuggire il più in fretta possibile da quella stanza e cercare di stargli ben lontana, magari chiedendo a qualcuno di fare cambio di posto nelle ore del professor Hammond.
Ma c'era una parte di me, una vocina nella mia testa, che mi diceva che quella era la verità.
E, anche se non avevo prove, anche se quello che diceva non aveva il benché minimo senso per me, la mia mano scivolò liberando la maniglia della porta, in una silenziosa vittoria della parte insensata e irrazionale della mia testa.
“Me che brava... e io che credevo ci avrei messo secoli a fartelo entrare in testa...” disse, guardandomi con il mento appoggiato sul palmo di una mano, giocherellando con la penna con l'altra. 
Il suo sguardo, adesso, aveva un'intensità strana. 
Curiosità, forse. Era molto più sorpreso di quanto avessero lasciato intendere le sue parole.
Strinsi le labbra, togliendomi lo zaino dalla spalla, che massaggiai un po'. Maledetti libri.
“Puoi dimostrarlo?” gli chiesi, per togliermi ogni dubbio e assicurarmi di non essere ancora più psicopatica di lui.
Non si mosse e non rispose, continuando a trastullarsi con la penna.
Poi, di colpo, proprio mentre cominciavo a pensare che non mi avesse nemmeno sentito, arse. Letteralmente, lo vidi accendersi come una torcia, in lingue di fuoco nere e violacee che, invece di bruciare il banco, lo sciolsero un po', come se fosse stato immerso nell'acido, facendone cadere a terra dei pezzi, consumando le piastrelle del pavimento.
Ma Gabriel sembrava illeso e divertito, probabilmente per la mia espressione.
Doveva essere comica, in effetti.
Ero scivolata lungo la porta, finendo rannicchiata, e sentivo chiaramente di avere la bocca spalancata e gli occhi sbarrati, ma non potevo farci niente. 
Stavo parlando con un demone. Uno vero.
Nonostante i miei genitori mi avessero battezzato, non ero mai stata praticante né, in tutta onestà, avevo mai riflettuto più di tanto sull'argomento, al punto che dopo la prima lezione di catechismo per la comunione mi ero tirata indietro, dicendo che non avevo voglia di andare tutte le domeniche in Chiesa. Mia madre si era lagnata un po', visto che lei, invece, ci teneva, ma con la mediazione di mio padre si era arresa presto.
Inutile dire che, ora, sarei tornata volentieri sui miei passi.
“Non avrebbe cambiato molto, posso assicurartelo” mi informò Gabriel, spegnendosi, e interrompendo il filo dei miei pensieri.
Il banco e il pavimento erano intatti.
Appena ripreso un po' di controllo sul mio corpo riuscii a parlare: “Hai detto... hai detto che vuoi la mia.. anima. Perché?”
“Ah, è una storia talmente lunga.” rispose subito, alzandosi in piedi e ricominciando a passeggiare qui e là per la stanza: “Diciamo che, fondamentalmente, voglio tornarmene a casa, e la tua anima è il mio... lasciapassare.”
“Ma... ci sono milioni di persone che...”
“Oh, non posso crederci. Non le sembra di essere un tantino egoista, miss Keeper?” rise, voltandosi verso di me.
Mi sentii subito arrossire, e abbassai gli occhi a terra, vergognandomi. 
Aveva ragione, però. Se avessi potuto scegliere, avrei preferito essere in classe adesso, lasciando volentieri il mio posto a qualche altro sfortunato. 
Probabilmente, non mi sarei nemmeno sentita in colpa.
“Comunque, non so perché vogliono che prenda la tua anima, e, francamente, non mi interessa. Voglio solo andarmene da questo schifo, perciò...” svanì, in attimo, da davanti a me, e ricomparve al mio fianco. Sentii il suo respiro solleticarmi l'orecchio: “Cos'è che desideri, miss? Fama, soldi, sesso... posso darti quello che vuoi. Posso renderti bella come una fata e potente come una regina... devi solo chiedere.” e poggiò le labbra dietro il mio orecchio, scansando i miei capelli.
Il cuore mi batteva fortissimo, e la mia testa era nel caos più totale: la sua voce, il suo odore, la sua vicinanza, mi confondevano. 
Anche volendo, non sarei mai riuscita ad allontanarlo.
“E... e se io non... non volessi niente?”
Sentii chiaramente il sorriso allargarsi sulle sue labbra, ancora premute sulla mia pelle: “Niente? È impossibile. C'è sempre qualcosa che voi umani desiderate da impazzire, più della vostra stessa esistenza. C'è sempre un prezzo.”
Mi girai e incontrai i suoi occhi, famelici e arroganti. 
Non ne avevo idea... la bellezza era inutile. Col passare degli anni, sarebbe svanita. Essere ricca o influente non mi aveva mai importato più di tanto, e, di certo, non gli avrei dato la mia anima per il sesso...
“Non so, io...” 
Allungò una mano, sfiorandomi una guancia, mi sollevò il mento, facendomi incontrare di nuovo i suoi occhi: “Ne sei proprio sicura?”
Ebbi un tuffo al cuore. C'era qualcosa che volevo. Che volevo tanto.
Ed era come se Gabriel lo sapesse già, come se ne fosse pienamente consapevole.
Io volevo Nicolas. E, da una parte, sapevo che poteva essere una scelta stupida. Ma io lo amavo. Adoravo il suo modo di fare, di parlare, il suo sorriso. 
“Visto? C'è qualcosa che vuoi.”
Mi prese la mano, aiutandomi ad alzarmi, e mi guidò verso il banco, delicatamente. 
Mi avvicinò la sedia, facendomi accomodare davanti al foglio: era bianchissimo e aveva una consistenza strana, era incredibilmente sottile, fragile. 
Mi sembrò anche di intravedere una filigrana che lo percorreva.
Gabriel mise la penna nella mia mano, con il suo solito sorriso furbo: “Adesso, devi soltanto scrivere i termini del contratto e firmare. Niente di difficile, no?”
Riportai gli occhi sulla carta, mordendomi il labbro, indecisa. 
Sapevo esattamente quello che volevo, ma avevo paura. Cosa sarebbe successo dopo?
“Puoi stare tranquilla. Una volta firmato il contratto, la tua anima sarà ancora in tuo possesso, non cambierà nulla. Solo dopo che sarai... morta, diventerà mia. Cosa che probabilmente accadrà tra parecchi anni. Nel frattempo, potrai stare felice e contenta tra le braccia del tuo Nicolas. Mi sembra un'offerta più che vantaggiosa, non credi?”
Sospirai. Mi tremavano le mani.
“Non c'è possibilità che tu possa prenderti l'anima di qualcun'altro e andartene uguale vero?” provai, pensando però di conoscere già la risposta. 
“Ho paura di no. Non capisco perché hai tutti questi dubbi. Si parla del ragazzo che ami, no?” 
Si, si parlava di Nicolas. E non avevo altro modo per averlo. 
“In che senso posso specificare i termini?” gli chiesi.
Gabriel si sedette sul banco, vicino a me: “Nel senso che puoi scrivere da sola le clausole, io non ci metto mano. Così, siamo sicuri che è esattamente quello che vuoi.” spiegò, facendo spallucce.
“Ah... ok.” dissi, iniziando a pensare a cosa scrivere.
Poi appoggiai la penna sul foglio:

Se Nicolas Rent e io, Alice Keeper, ci innamoreremo l'uno dell'altra e vivremo felici il resto della nostra vita insieme, alla mia morte, e solo se ogni termine del contratto verrà onorato, la mia anima diventerà proprietà del demone Gabriel James Alleyn. 

Firma del venditore: Alice Keeper 
Firma dell'acquirente: Gabriel James Alleyn

“Hai una grafia pessima!” osservò, appena finito di firmare.
Sbuffai, offesa: “Non è vero! Si capisce benissimo.”
Rise, facendo asciugare quello strano inchiostro di un rosso intenso. 
Mi venne il dubbio che quell'inchiostro non fosse affatto inchiostro, ma preferii non fare domande: non volevo sapere.
“Bene. E adesso, tocca al signor Rent. Camminerete presto mano nella mano, puoi credermi.”

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Capitolo 5
*** L'invito ***


CAPITOLO 5
L'invito.


Avevo sempre pensato che gli umani non avessero il minimo senso. 
Ma questo era il colmo. 
Me ne stavo raggomitolato sopra il cuscino di Alice Keeper, e la guardavo gongolare davanti alle foto del suo bello: scattava a ogni nuova pubblicazione, fremeva dal desiderio di commentare o che so io, poi scuoteva la testa e passava a sciogliersi sulla foto successiva. 
E pensare che, all'inizio, mi era sembrata vagamente interessante... invece, era solo una ragazzina in piena crisi ormonale, che aveva venduto l'anima per un ragazzo del quale a malapena conosceva il nome. 
Ebbene si, signore e signori. Alice non aveva mai rivolto la parola a questo fantomatico Nicolas. Neanche un innocuo “Ciao come stai?” o “Quella giacca ti sta davvero bene!”, niente, niente di niente, nonostante si conoscessero da un po' e affermasse di esserne innamorata.
Eppure, ogni volta che quel tipo si connetteva su Facebook, Messenger  o quello che era, lei fremeva sperando che un vaso gli cadesse in testa e lo spingesse a parlarle, per poi farlo innamorare perdutamente di lei. 
Roba da matti. Davvero, con questa ragazza il genere umano si era superato. Puah. 
Sbadigliai, alzandomi, e mi stiracchiai ficcando le unghie nella sua tracolla e bucacchiandogliela un po', tanto per gradire. Mi stavo proprio annoiando. 
Alice sentì il raschiare dei miei artigli sulla stoffa, e si voltò di colpo: “Ehi, che stai facendo? Smettila di rovinarmi lo zaino!” ordinò, sventolando la mano con l'intento di spaventarmi. La fissai alzando le vibrisse e storcendo l'orecchia. Che buffa umana.
“Alice! Ehi tesoro! Io e papà andiamo a fare la spesa, vieni?” le urlò sua madre dal piano di sotto. La ragazzina sbuffò, alzando gli occhi al cielo: “Non mi va! Resto a casa oggi!” rispose, quasi li stesse informando di una assoluta novità. 
Stava sempre a casa. L'avevo studiata per giorni prima di rivelarmi, e solo una volta era andata a farsi una passeggiata assieme a una biondina con la ridarella... Sunshine? Sunmoon? Non riuscivo proprio a ricordarmi il suo nome... Sun-qualcosa, comunque. 
Finalmente, sentii la porta di casa chiudersi e sbirciai la macchina allontanarsi lungo il vialetto: con mamma e papà fuori, potevo rilassarmi un po'. Non vedevo l'ora... tutto questo pelo mi faceva venire da starnutire.
Ripresi il mio aspetto preferito, lo stesso che conosceva anche lei, dell'umano dalla pelle scura. Ridacchiai immaginando cosa avrebbero pensato i suoi genitori se fossero entrati nella sua stanza in quel momento, dato che un ragazzo completamente nudo se ne stava sdraiato comodamente tra le lenzuola della loro figlioletta. 
“Voi umani siete uno spasso sai?” le feci notare distrattamente. 
Alice urlò, scattando in piedi e si voltò a guardarmi ma, realizzando che addosso non avevo niente, divenne più rossa dei suoi capelli (che lo erano parecchio) e mi diede subito le spalle, coprendosi gli occhi: “Che cosa... come.. tu...”
“Hey hey piano... quattro parole insieme sono troppo per te, non ti pare? Fai un passo per volta, che è meglio.”  dissi, sdraiandomi più comodamente, mettendo le braccia dietro la testa.
“Come cavolo sei entrato?” sbottò, appena riuscì a raccogliere abbastanza fiato per parlare.
“Entrato? Sono sempre stato qui, miss.”
Si mosse, come per girarsi, ma poi si fermò di colpo: “No, non è vero, prima c'era... O cielo! Tu sei...”
“Già... e devo dire che, in quanto gatto, non ho mai ricevuto tanto affetto come da quando sono in questa casa... davvero, sono profondamente commosso.” risi, fingendo di asciugarmi una lacrima con fare accorato.
“Non posso crederci!” disse, sconvolta. Riuscivo a vedere la sua espressione dal riflesso sulla finestra, ed era davvero da morire dal ridere.
“Aspetta... ma tu... tu hai dormito con mia madre!” 
Non riuscii più a trattenere le risate: “Bé... cerca di non informare paparino, ok?”
“Ma come ti sei permesso? Non posso crederci!”
“Preferivi dormissi con te?” chiesi, prevedendo la sua reazione a quelle parole. 
“No io... insomma, non intendevo dire... non...” balbettò, totalmente incoerente, gesticolando come una matta. 
E, in effetti, lo sembrava. Pareva stesse parlando con le tende, girata così. 
“Comunque, perché non ti volti? Così chiacchieriamo in maniera decente” 
“Non posso” scattò, quasi l'avesse punta un'ape.
“Perché?”
“Sei nudo!” disse, sbattendo un piede a terra come una bambina piccola: che tipetto comico che era... mi stava facendo divertire da morire.
“E allora? Non hai mai visto un uomo nudo?” 
“Cosa? No, certo che no!”
“Ah no? Nemmeno Nicolas, allora.” la stuzzicai, curioso di vedere la sua reazione. Trattenne il fiato prima di rispondere, diventando così rossa che le si imporporarono persino le orecchie: “Io... no, non...”
Ridacchiai di nuovo, mentre i vestiti si materializzavano attorno al mio corpo, e mi spostai in un attimo dietro di lei: “E non sei curiosa?” sussurrai nel suo orecchio, poggiando la mano sul suo fianco. Sentii il suo corpo tendersi e inarcarsi leggermente, ma non capii se per avvicinarsi o allontanarsi dal mio. 
Deglutì, lentamente: “Non mi sembrano domande da fare...”
Delicatamente, la abbracciai facendola appoggiare a me, e nascosi il viso nell'incavo del suo collo, tra i capelli, respirando il profumo della sua pelle: “Andiamo, a me puoi dirlo... non c'è niente di male.” 
Era rigida, ma sapevo che quel contatto non le dispiaceva per niente, lo sentivo dal suo odore, dal battito accelerato del suo cuore, dal calore sulla sua pelle... e, forse, non dispiaceva nemmeno a me. In quel momento, non era l'accidia a dominarmi.
“Non è il caso. E comunque, non mi sembra che tu ci tenga più di tanto alla mia anima.” sbottò, sorprendendomi.
“Che vuoi dire?” chiesi, allontanandomi un po'. 
“Sei qui, no? Non dovresti, che so, preparare un filtro d'amore per Nicolas o giù di lì?” chiese, voltandosi a guardarmi con un sopracciglio inarcato e una fastidiosa aria di superiorità. 
Schioccai la lingua, facendo un passo indietro e sedendomi sulla sedia girevole della scrivania: “Ah, voi umani non capite mai un tubo. Io non preparo filtri d'amore. Come nessun altro demone, del resto. Se vuoi prenderti quel bell'imbusto, devi fare da te... io do solo man forte.” la informai, stiracchiando un po' le gambe.
Con mia immensa soddisfazione perse subito quell'aria saccente che aveva assunto, e mi fissò abbandonando le braccia lungo i fianchi:“Cosa? Come sarebbe a dire che devo pensarci io? ” 
Presi una penna da un barattolo e me la rigirai tra le dita: “Vuol dire che dovrai farti avanti da te... e io ti darò una mano.”
“Ma... ma io non... non sono capace! Insomma, non so che cosa devo fare!”
“Si l'ho notato, credimi” dissi subito, mollando la penna. Era davvero brutta... con le mucche disegnate sopra e il tappo rosso con le piume. Che cosa diamine c'entravano le piume di struzzo con le mucche?
Alice cominciò a camminare su e giù per la stanza, parlando sottovoce tra se e se e alzando gli occhi al cielo ogni due passi: mi sembrò di sentire qualcosa come “Complimenti Alice, sei da Oscar!” e “Brava cretina, davvero, non ho parole!”
“Si, nemmeno io. Sei completamente pazza, vero?” le chiesi, scuotendo la testa.
“Smetti di fare l'idiota! È tutta colpa tua! Mi hai ingannata, vero? Sapevi che non sarei mai riuscita a stare con Nicolas, ma hai mentito per la mia anima!” mi accusò, avvicinandosi e piantandomi il dito a un centimetro dal naso. Nonostante gli occhi strabici, riuscii a risponderle: “Hey, io non ho ingannato proprio nessuno. Hai stabilito tu i termini, ricordi? Finché non avrai Nicolas, la tua anima non sarà mia... perché dovrei remarti contro?”
Lei mi guardò con l'espressione di un cane randagio bastonato, abbassando la mano, per la gioia delle mie cornee: mi aveva tenuto strabico così a lungo che temevo che gli occhi mi si sarebbero incastrati così per il resto della mia esistenza. E addio sex-appeal. 
Sconfortata, andò a sedersi sul letto, e nascose il viso tra le mani. Mi venne il dubbio che avesse le sue cose... un attimo prima era così... vivace. Adesso pareva uno zombie.
“Oh, andiamo... non mi pare il caso di fare così. Ti ho detto che ti aiuterò e lo farò. Sono qui per questo! Anzi, abbiamo fatto passi da gigante!” la informai distrattamente, studiando i disegnini che aveva fatto da bambina (almeno speravo che non fossero attuali, altrimenti eravamo messi davvero male) e che qualcuno (sua madre, sicuro) aveva incorniciato e appeso per la stanza. 
“Passi da gigante? Che significa? Non abbiamo fatto proprio niente!”
La guardai, sorridendo innocentemente: “Come no? Andremo al party in discoteca di Sunny, dove va anche Nicky. Una festa con tanta musica, divertimento e, soprattutto, alcolici. Ti sembra poco?”
Fu con somma gioia che vidi i suoi occhi spalancarsi mentre, incredula, realizzava di essere tutt'altro che disconnessa da Facebook e che io, approfittando della sua distrazione, avevo accettato l'invito che stava pensando di rifiutare. 
“Tu... tu hai... ” balbettò.
“Esatto miss. Vedrai, ci divertiremo da morire, noi due.” le dissi, spegnendo il PC e ritrasformandomi in gatto. 
“Alice?! Alice siamo tornati, ci sei?”
La ragazzina non rispose a sua madre, limitandosi a fissare sconvolta il suo innocente gattino che aveva gioiosamente ripreso a farsi le unghie sulla sua tracolla.

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Capitolo 6
*** Al party ***


CAPITOLO 6
Al party.


Quella settimana mi era sembrata... tranquilla. Molto, troppo tranquilla.
Forse perché la mia testa era stata sempre altrove, fuori dalle aule, fuori dalla mia casa, lontana persino dal mio corpo.
Ogni gesto che avevo compiuto, ogni frase che avevo pronunciato in quei giorni erano stati dettati dall'abitudine, dal seguire la routine: mentre mangiavo, non avevo idea di cosa stessi mettendo in bocca, lo studio si era ridotto al guardare le lettere stampate sulla carta senza focalizzarle davvero, guardare la TV uno scorrere di immagini prive di senso. 
E il tempo era volato.
Era già venerdì. Venerdì pomeriggio. Mancavano esattamente sei ore. Sei ore al party più atteso dell'anno, il party che Sun stava preparando da mesi.
Mancavano sei ore alla mia rovina. Perché sapevo, sentivo, che sarebbe stato un disastro. 
Io non ero il tipo di persona capace di vestirsi carina e andare a una festa circondata da sconosciuti, ridere e chiacchierare e divertirmi. Non ero mai stata brava ad avere a che fare con persone nuove... anzi, non sapevo cavarmela con le persone e basta.
Mi confondevano e mi irritavano, perché non riuscivo mai a capire se fossero seriamente interessate alla conversazione, interessate a conoscermi, o stessero solo cercando di scovare i miei difetti per sparlarne in giro, se la personalità che presentavano fosse reale o se stessero soltanto recitando una parte. 
Non sopportando di essere giudicata, né tantomeno di essere presa in giro, nelle poche uscite di gruppo a cui avevo partecipato avevo finito con lo starmene in silenzio da una parte, ascoltando i discorsi degli altri per cercare di capire qualcosa di loro. Alla fine, concludevo che una serata di osservazione non mi era mai sufficiente, ma nessuno mi invitava la seconda volta (magari a ragione, in effetti) e finiva lì.
Perciò non volevo neppure immaginare come sarebbe finita quella sera. 
Mi avrebbero presa in giro per il resto dei miei giorni.
E Nicolas avrebbe girato alla larga da me.
Guardando fisso a terra, seduta in mezzo a tutti i miei vestiti, scartati dal primo all'ultimo, cercavo disperatamente di non mettermi a piangere e di pensare a una scusa decente per tirarmi indietro. 
Potevo dire a Sun che mi si era allagato il bagno... o che mi era scoppiato un improvviso mal di testa... ecco forse un malore era più sicuro...
“Si può sapere che stai facendo lì per terra?”
Oh no. Ero fottuta. Non mi avrebbe mai permesso di evitare la festa.
Alzai gli occhi sulla figura longilinea e scura del demone, Gabriel, causa della mia attuale disperazione: se non avesse accettato quel maledetto invito, adesso mi sarei organizzata una super maratona di film horror con contorno di patatine, gelato e schifezze varie. Invece, stavo per essere vittima di un disastroso suicidio sociale.
“Oh no, ti prego. Non dirmi che vuoi tirarti indietro!” disse, passandosi una mano tra i capelli, un insopportabile sorrisetto di sufficienza sulle labbra. Avrei voluto picchiarlo. E io non ero certo un tipo violento, di solito.
“Non rompere, Gabriel. Io... non so davvero dove sbattere la testa. Se devi prendermi in giro, puoi anche levarti dai piedi.” sbottai, troppo arrabbiata persino per piangere, adesso. Ricominciai a frugare nell'armadio, sperando che saltasse miracolosamente fuori qualcosa di decente da mettere, e sforzandomi di ignorare la presenza di Gabriel dietro di me.
Possibile che non avessi niente di niente?! Cavolo, non ero una modaiola ma pur sempre una ragazza... qualcosa doveva esserci!
“Oh, maledizione, maledizione, maledizione!” imprecai, lanciando altre stampelle per la stanza, e prendendo a calci i vestiti sparsi sul pavimento. Ringraziai mentalmente che i miei non fossero a casa, perché altrimenti mi avrebbero messo una camicia di forza e spedita con un biglietto di sola andata in manicomio.
“Hey! Vuoi darti una calmata?” intervenne Gabriel, bloccandomi i polsi: “Che esagerata! Se ti stai preoccupando per il vestito, non c'è bisogno. Ci penso io.” aggiunse, strizzando l'occhio, proprio come aveva fatto il primo giorno che l'avevo visto. 
Per assurdo, nonostante fossi consapevole della sua natura oscura e malvagia e talvolta avessi paura di lui, per quanto spesso lo avessi trovato insopportabilmente immaturo e arrogante, riuscì a calmarmi. Gabriel, in qualche modo, riuscì a farmi riprendere il controllo di me stessa. 
E gliene fui grata.
Di riflesso, senza pensare, appoggiai la fronte contro il suo petto, chiudendo gli occhi, per riprendere fiato. Sentii il suo corpo irrigidirsi, al contatto.
“Ehm... Alice...”
Gli tappai la bocca con la mano, e lui tacque, sorpreso. Ma non quanto lo ero io. Non era da me dare tanta confidenza a qualcuno che conoscevo da un paio di giorni, avvicinarmi in quel modo, figurarsi chiudergli la bocca. Era anche vero, però, che non stava mai zitto.
“Grazie. So che può sembrarti stupido, ma ho davvero paura.” sussurrai contro la sua maglietta, sentendo ancora la gola secca, l'ansia attanagliarmi lo stomaco.
Gabriel mi accarezzò un braccio, delicatamente, e invece che prendermi in giro come credevo avrebbe fatto, cercò di tirarmi su il morale, anche se aveva un tono strano rispetto al solito: “Sta tranquilla. Andrà tutto alla grande. Come ho detto, ci divertiremo”.

Seduta in macchina, tenevo lo sguardo fisso sul cruscotto, respirando lentamente nel tentativo di calmarmi. Le luci multicolori del locale illuminavano a intermittenza l'interno dell'abitacolo, e il viso, rivolto verso di me, di Gabriel.
In penombra, la sua pelle sembrava ancora più scura e i suoi occhi più intensi, come se dal buio traesse sostanza, identità. Teneva una mano sul volante, l'altra sul cambio, e mi aspettava, immobile. 
Deglutii, gli occhi chiusi, e mi appoggiai contro lo schienale del sedile: la festa era iniziata da un'ora, e io odiavo i ritardi. Profondamente. Ma non riuscivo a spingere il corpo a obbedirmi e uscire.
Coraggio Alice. Sei davvero, davvero carina stasera. Puoi farcela. Coraggio. 
Mi ripetei tra me e me, continuando a inspirare ed espirare, piano.
“Accidenti... se devi fare tutto questo teatrino per scendere da una macchina, non oso pensare che farai al tuo matrimonio!” ridacchiò il demone, afflosciatosi sul sedile. 
E ti pareva. Stava zitto da un po' troppo in effetti. E, come al solito, le sue fastidiose frecciatine erano sempre spiacevolmente veritiere.
“Hai ragione. Andiamo.” esclamai, sperando di muovermi di riflesso. Ma non accadde nulla e rimasi ferma, ancorata con le mani al sedile, di nuovo rigida come un blocco di ghiaccio. 
“Ah, così non ce la farò mai...” borbottò a mezza voce, uscendo dalla macchina. Una folata di vento gelido mi fece rabbrividire quando aprì la mia portiera: “Forza miss. Iniziano le danze.” mi incitò, tendendomi una mano, con il suo tipico sorrisetto da Stregatto.
Per l'ennesima volta, provai quello strano senso di attrazione, fascino, di desiderio di toccare quel viso perfetto, le labbra scure, che mi fece accettare la sua mano e spinse il mio corpo a seguire il suo, all'esterno. Si avvicinò ancora, fino a trovarsi a un soffio da me, con il viso appena sopra il mio: non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi, magnetici, circondati da quelle lunghissime ciglia.
Lo scatto improvviso di chiusura della portiera mi snebbiò la mente, e sussultai, tirandomi indietro. Gabriel, quasi fosse consapevole delle mie sensazioni, si lasciò sfuggire un sorriso, infilando le mani nelle tasche, per poi farmi un cenno verso l'entrata. Mi venne il dubbio che avesse di nuovo letto i miei pensieri, e questo mi agitò: “Piantala.” sbottai, incespicando al suo fianco sui tacchi nuovi di zecca.
“Di fare che?” chiese, fingendo di non capire. Mi toccava quasi correre per stargli appresso, con quelle gambe lunghe.
“Di leggermi i pensieri. Mi dà fastidio” confidai, stringendomi le braccia addosso. Quella era una serata da congelarsi, accidenti.
Il demone scoppiò a ridere, rumorosamente: “Posso garantirti che non è stato necessario farlo per capire cosa pensavi!” 
Senza nemmeno che potessi rendermene conto, Gabriel mi spinse dietro un vicolo, contro un muro: le braccia ai lati del mio viso, stava chino in modo da guardarmi negli occhi, il corpo che quasi premeva sul mio. Il suo profumo mi distrasse, inebriandomi, scivolando con prepotenza tra i miei sensi.
Con una mano mi accarezzò una guancia, lasciando scorrere poi il pollice sul mio labbro inferiore: “Se c'è altro, oltre al signor Rent, che vuoi... basta chiedere.” sussurrò nel mio orecchio, facendomi rabbrividire con il suo respiro. 
Nonostante il desiderio che la sua vicinanza mi scatenava dentro, tenni le braccia incrociate sul petto per tenerlo lontano almeno un po': “Io... non posso. Per favore.”
Si ritirò subito, e quel calore che sentivo svanì assieme alla sua vicinanza: “Siamo in ritardo.” osservò, prendendomi la mano e trascinandomi dentro.
Ebbi un momento di disorientamento, una volta entrata: le luci nella sala si susseguivano in un turbine di colori in un ambiente basso, buio e molto largo. Sembravano esserci stipate una marea di persone, che si muovevano a ritmo della musica altissima o riunite in gruppi con dei bicchieri in mano. Da un lato, sul fondo della sala, il bar. Dall'altro, un palco, ancora vuoto. 
Poi, prima che potessi evitarlo, l'unico appiglio che mi aveva evitato un attacco d'ansia, svanì: Gabriel mi aveva lasciato andare, dileguandosi nella marea di corpi. D'improvviso, mi sembrò che l'ossigeno non fosse sufficiente per tutti, e feci qualche passo incerto mentre il panico mi assaliva.
Cosa devo fare?
“Alice! Oh Alice, finalmente sei arrivata! Non sai quanto sono felice che tu sia qui!” squillò una voce nel mio orecchio, prima che venissi stritolata in un abbraccio. Riconobbi quel frizzante profumo di menta, quella massa indomabile di ricci: Sun, la mia salvatrice.
Ricambiai l'abbraccio come non avevo mai fatto, maledicendo quel bastardo di un demone in tutte le lingue che conoscevo. Aveva promesso di aiutarmi, diamine!
“Sun! Non si capisce nien..” cominciai, ma dovetti interrompermi a metà frase. 
Dietro di lei, Nicolas mi guardava con un sorriso gentile, tenendo in mano due bicchieri, il suo e quello di Sun. Era così bello, con la camicia un po' aperta e i jeans scuri, quei capelli lisci in cui avrei tanto voluto affondare le dita, quegli occhi dolci e scuri: mi accorsi di essermi imbambolata a fissarlo, e avvampai, ringraziando che con quell'illuminazione non avrebbe mai potuto percepirlo. 
“Ah già! Cara amica, gran figo; gran figo, la mia cara amica! ” ci presentò ridente Sun, riprendendo il suo bicchiere dalle mani del ragazzo, che stava ridendo.
“Alice, giusto? L'asso della biologia. Io sono Nicolas, piacere.” mi sorrise, tendendomi la mano, che strinsi tremante. 
Sapeva il mio nome. Nicolas sapeva il mio nome.
“Piacere mio.” borbottai, con il cuore che mi scoppiava nel petto. 
Sun si riprese subito dalla sua pausa e riattaccò a parlare, ma non sentii una parola, troppo presa a guardare ovunque tranne che verso Nicolas, e nella mia distratta perlustrazione della sala, lo scorsi: Gabriel se ne stava in un angolo, appoggiato alla parete, chiacchierando con una bionda tutta curve che non ricordavo di aver mai visto. Erano troppo vicini perché si trattasse di una normale conversazione... come aveva fatto a rimorchiare in così poco tempo?!
“Alice! Allora, vieni o no?” chiese Sun, distraendomi dai miei pensieri.
“Eh? Ah, si.” risposi, senza nemmeno sapere di cosa stesse parlando, e tornai a rivolgere lo sguardo a quell'angolo; il demone, però, era sparito di nuovo.
Mi sentii trascinare per un braccio e scesi dal mio mondo sulle nuvole, accorgendomi che Sun si stava dirigendo a un tavolo vuoto con qualche bicchiere sopra. Ci accomodammo, e io mi resi improvvisamente conto che Nicolas era ancora con noi, talmente vicino adesso che avrei potuto sfiorarlo spostando semplicemente il braccio.
“Allora Nick, come vanno gli allenamenti?” gli chiese Sun, scolando il bicchiere.
“Bene, non mi lamento.” le sorrise lui, toccandosi distratto il collo: “E tu Alice? Fai qualche sport?” mi chiese poi, lasciandomi di stucco. Non potevo crederci. Stava parlando con me. Con me. Non con Sun, non con altri, con me.
“Ehm... no, non proprio. Cioè, faccio jogging tutti i giorni, ma a parte questo...”
“Davvero? E verso che ora vai?” domandò ancora, sembrando curioso, mentre si rigirava il bicchiere mezzo pieno tra le dita. 
“Beh, di solito verso le sei. Insomma, poi c'è scuola...” risposi, rossa perché, a causa del baccano, eravamo costretti a stare molto vicini per sentire qualcosa e conversare. Aveva una cicatrice sul sopracciglio. Non l'avevo mai notata prima.
“Alle sei? Ma sei matta? Devi svegliarti davvero prestissimo, accidenti!” si intromise Sun, guardandomi ad occhi spalancati e dandomi la strana sensazione che fosse un po' brilla.
“Davvero? Allora non mi sbagliavo... nel percorso che fai passi per il parco vero?” indovinò Nicolas, ignorando di nuovo Sun. 
Ero al settimo cielo.
“Ehm... si, ma tu come..?”  chiesi, anche se in realtà era una domanda retorica: sapevo che anche lui, all'incirca negli stessi orari in cui andavo io, si allenava in quello stesso parco che amavo da quando ero piccola. Ma la sorpresa nel mio tono era sincera: non credevo possibile che, come io avevo sbirciato quello che faceva, Nicolas avesse fatto lo stesso. 
Si ricordava di me. Non ero mai stata invisibile, per lui.
“Lo so perché la mattina vado anch'io lì ad allenarmi. Passi sempre alla stessa ora... sei un'abitudinaria, in un certo senso, no?” rise, alzandosi subito dopo aggiungendo: “Vado a prenderti da bere, ok? Non hai niente.”
“...Ok” dissi, mentre Nicolas si immergeva nella marea di ballerini. 
Ancora senza fiato, mi voltai a guardare Sun, presa a scrivere qualcosa sul cellulare, forse un messaggio. Sicura che non potesse osservare le mie reazioni, mi appoggiai le mani ancora fredde sulle guance, che invece erano bollenti, e mi sistemai i capelli dietro l'orecchio. Un brivido improvviso mi diede l'impressione di essere osservata: voltandomi di scatto, incontrai subito gli occhi del demone, intensi anche da quella distanza, e osservai le sue labbra distendersi in un lento sorriso soddisfatto, mentre se ne stava immobile a fissarmi dal centro della pista. Mi fece l'occhiolino, e, automaticamente, gli sorrisi anch'io. 
“Ehi, eccomi. Tieni, è per te.” disse Nicolas, tornato sano e salvo dalla ressa, con altri bicchieri pieni.
“Grazie mille.” gli sorrisi, sorprendendomi di quanto sembrassi tranquilla, nonostante il subbuglio interiore.
“Dimmi un po', come mai fino ad ora non ci siamo mai parlati, noi due?” aggiunse, bevendo un sorso senza staccarmi gli occhi di dosso.
Pensavo che quella serata sarebbe stata un incubo.
Invece, si stava trasformando nella  più bella della mia vita.

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Capitolo 7
*** Cinque minuti ***


CAPITOLO 7
Cinque minuti.


“Non saprei... insomma, magari è mancata l'occasione...” suggerii, con le mani tremanti attorno al bicchiere, incapace di staccare gli occhi da quelli nocciola di Nicolas: avevano delle sfumature più chiare, altre verdi. Erano bellissimi.
“Meglio tardi che mai... certo è buffo, però. Frequentiamo gli stessi posti, le stesse persone, eppure non abbiamo mai parlato.” ridacchiò gentilmente, avvicinandosi ancora a me.
Sun era corsa dietro altri suoi amici, e io ero rimasta sola con Nicolas, circondati da una tale confusione che per sentirci stavamo a un palmo l'uno dall'altra. 
Stranamente però, la vicinanza non mi rese ansiosa: ero euforica (ma forse quello che stavo bevendo aveva amplificato la sensazione), un po' nervosa, ma non ero spaventata. Nicolas aveva la capacità di mettere a proprio agio le persone.
“Sai, si dice che due sconosciuti abbiano almeno sei persone in comune.” gli dissi, ridendo anch'io, cercando di distrarlo da considerazioni varie sulle mie amicizie.
“Dici sul serio? Due completi sconosciuti?” chiese, incredulo e divertito.
“Oh, si. Praticamente, potrei trovare il mio postino alla festa di diploma di Sun!”
Nicolas scoppiò a ridere, e io mi beai di quel suono, per quanto poco riuscissi a sentirlo; per evitarmi di dire qualcosa di imbarazzante, bevvi ancora, sentendo le guance scottare. In quella sala si andava a fuoco... come facevano a ballare?
“Giuro, mai sentita una cosa del genere...”
Risi anch'io, coprendomi la bocca con la mano. Ancora non potevo crederci. Stavo parlando con Nicolas. E lui si stava divertendo. 
Mi appuntai mentalmente di ringraziare Gabriel, per l'idea geniale di venire a questa festa, e di scusarmi per essermi arrabbiata così spesso con lui. 
“Ma.. tu non sei mai venuta ad una nostra festa, vero?” mi chiese Nicolas, facendomi tornare con i piedi per terra. Avrei preferito che non lo chiedesse. Non volevo pensasse che fossi un povera sfigata che non va alle feste e se ne sta sempre a casa, anche se, in realtà, lo ero. Solo, avrei voluto che non si facesse influenzare da certi pregiudizi; ero timida, insicura e spesso poco socievole tra gli sconosciuti, ma sapevo anche divertirmi, ridere e scherzare con coloro a cui volevo bene. 
“Ehm... no. Non ne ho mai avuta occasione... sai, cose da fare.” risposi, cercando quanto più possibile di glissare la domanda, pregando dentro di me che non insistesse.
Nicolas bevve un sorso, senza perdere il sorriso: “Capito. Sei una donna impegnata.” ridacchiò appoggiando la guancia alla mano, guardandomi.
Risi anche io, stando allo scherzo: “Eh, purtroppo sì... troppo lavoro.”
“Già, beh... sono contento che tu sia venuta. È piacevole parlare con te, Alice.” rivelò, lasciandomi senza fiato. Non potevo credere alle mie orecchie... quello era il giorno più bello della mia vita, il più bello in assoluto. Sperai con tutta me stessa che Nicolas mi invitasse a ballare, immaginai di passare con lui tutta la sera, che poi mi riaccompagnasse a casa e...
“Nick! Nick! Guarda chi c'è!” Sun tornò verso il nostro tavolo, facendo implodere la mia piccola e meravigliosa bollicina privata, seguita da una ragazza e un altro suo amico. Nonostante la luce scomoda, riuscii a vedere chiaramente la somiglianza tra i nuovi venuti, che dovevano essere fratelli, se non addirittura gemelli. Lei, in particolare, sembrava una bambola: era alta, magra, con gli occhi grandi e le labbra a cuore, in un visino perfetto incorniciato da riccioli morbidi, che immaginai biondi.
“Il tuo amorino. Dì, non è una fata?” squittì Sun, ridacchiando come una matta, sicuramente ubriaca. Nicolas sorrise alla ragazza bionda, alzandosi, andò a salutarla, baciandola sulla bocca. 
Mi sembrò che il mondo mi crollasse addosso. Aveva una ragazza. Nicolas aveva una ragazza. E non ero io.
Oramai ero una maestra nel darmi alla fuga. E ci riuscii anche questa volta. Prima ancora che Sun potesse anche solo pensare a fare le presentazioni, io ero già nel mezzo della folla, cercando disperatamente l'uscita. Ma non la trovai, non riuscivo a orientarmi, c'era troppo movimento, troppo colore, troppo rumore, e, in qualche modo, sbucai dalla parte opposta all'entrata. Davanti al bar. 
Immobile, fissai le mani laboriose del barista per qualche istante, mentre miscelava, shakerava, finché non mi svegliò dalla trance: “Ehi, tesoro, vuoi qualcosa?”
Annuii: “Si. Qualcosa di forte. Voglio ubriacarmi”
“Ok, tesoro. Ogni tuo desiderio è un ordine” 
Appena mi passò il bicchiere, lo avvicinai alle labbra.
“Piano piccola. Non è mica acqua.”
Lo fissai, distrattamente, infastidita dal suo tono. Non ero mica una ragazzina. E Nicolas stava con un'altra. Buttai giù tutto d'un colpo, strizzando gli occhi al sapore forte, sentendo un giramento di testa. 
Cazzo, se è forte.
“Un'altro... per favore” chiesi, incapace di controllare i pensieri. 
Sono una stupida.
“Un altro”
Un'ingenua.
“Un altro”
Una sfigata.
“Un altro”
Mi sentivo già meglio, adesso, perché nella mia testa c'era una tale confusione che non riuscivo ad articolare un pensiero di senso compiuto, non capivo quasi nulla. Era come se un tamburo battesse al ritmo della musica e i miei pensieri lo seguissero, scivolando via dalla mente.
“Ok, tesoro. Questo te lo offre quel tipo laggiù.”
Bevvi anche quello, senza neppure guardare il barista o il tipo che mi aveva dato da bere, riconoscendo però un cambiamento nel gusto. Stavo bevendo qualcosa di diverso da prima, qualcosa di più dolce, fruttato. 
“Hey... che ci fa una bella bambolina come te tutta sola?” chiese una voce, estremamente vicina. Mi sentivo stordita, confusa, non riuscivo a capire più nulla. 
Mi sentii afferrare per il braccio. 
“Spiacente di rovinarti la festa, amico, ma questa è la mia bambolina. Gira al largo”
Quel ringhio aveva qualcosa di familiare, ma non capii di chi si trattasse. Chiunque fosse, mi trascinò via quasi di peso, continuando a borbottare imprecazioni a mezza voce.
L'aria gelida della notte, appena fuori, mi colpì come uno schiaffo, donandomi un po' di lucidità e la capacità di barcollare quasi autonomamente fino a una macchina, e mi accasciai sul sedile. 

Mi ero rilassato per cinque minuti. Cinque fottutissimi minuti, a bere un drink con una biondina tutta curve (spaventosamente somigliante a Liel, ora che ci ripensavo), divertendomi a farla sbavare un po', convinto che stesse andando tutto liscio. 
Era stato sufficiente amplificare il desiderio carnale (tipico dell'adolescenza) del ragazzo perché tutto fosse perfetto, persino Alice aveva bevuto quel tanto che bastava per sciogliersi un po' e almeno sembrare simpatica e adorabile... ma niente. 
Sunnyville, o come cazzo si chiamava, aveva dovuto portare al tipo la fidanzatina e aveva mandato a puttane tutto il mio lavoro. 
Merda. Non potevo crederci. A quest'ora, invece che su questa schifosa carretta, con il rischio che la ragazzina ci vomitasse dentro anche l'anima (che non sarebbe stato poi tanto male, infondo), potevo starmene a casa mia, a crogiolarmi tra le fiamme eterne, dimentico del freddo fottuto che faceva nel mondo umano. 
Ma mi ero distratto per cinque minuti, cinque, troppi per impedire a Sunbeach di raggiungere Alice; se solo me ne fossi accorto e l'avessi fermata, sicuramente Nicky l'avrebbe invitata a ballare e sarebbe stato molto difficile, a quel punto, trovarli in mezzo alla folla. 
Raggiunsi casa di Alice, ringraziando la mia fortuna sfacciata quando capii che i suoi genitori stavano già dormendo. 
La presi in braccio e la portai dentro, silenziosamente, resistendo con tutto me stesso alla tentazione di calcolare male qualche distanza e farle sbattere la testa contro uno o due stipiti. Arrivato nella sua camera tirai un sospiro di sollievo. 
Troppo presto. 
Cominciò ad agitarsi e mi fece inciampare contro la base del suo letto, spingendomi indietro; mi ritrovai sdraiato, con la testa precisamente sul cuscino, ed Alice che mi stava sopra, le dita strette attorno alla mia camicia, il viso nascosto contro il mio collo. Mi venne da ridere... se i suoi si fossero casualmente svegliati adesso...
“Grazie... Gabriel...”
Mi immobilizzai, smettendo di ridacchiare. 
Di nuovo. 
Mi aveva ringraziato di nuovo.
Perché? 
Avrei potuto togliermi facilmente, metterla sotto coperta e andarmene, magari per rovinare la serata a Sunnyday o a Nicolas, così che litigasse con la sua fidanzatina e mi rendesse più facile il lavoro. 
Ma non mi mossi. 
Rimasi lì, godendomi il tepore del corpo della ragazzina, ubriacandomi del profumo di quei capelli rossi come le fiamme che tanto amavo, accarezzandoli distrattamente, senza nessun motivo logico o sensato. Volevo soltanto starmene lì.
Alice Keeper.
Non è un caso se Liel vuole la tua anima, vero?

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Capitolo 8
*** Luna storta ***


CAPITOLO 8
Luna storta
.


Aprii gli occhi di scatto, percependo quel profumo che conoscevo, l'odore della salsedine e del sole misto a quello del fumo che si sprigiona in un incendio. Se qualche tempo prima quella fragranza mi aveva attratto, in quel momento mi disgustò tanto da farmi svegliare. Ma le mie reazioni non furono pronte come al solito, e fu con lentezza che mi trasformai in fumo, denso e scuro, per alzarmi senza svegliare la ragazzina. 
Erano secoli che non dormivo. 
Non ricordavo nemmeno più quale fosse la sensazione di sprofondare nel buio, rilassare il corpo e la mente, sognare. Mi ero sempre limitato a uno stato di dormiveglia, troppo pigro persino per lasciarmi andare al sonno. 
Fissai il viso rilassato di Alice, che non si era scomposta nonostante mi fossi tolto da sotto il suo corpo, mentre un brivido mi attraversava la schiena al ricordo del calore della sua pelle, del ritmo del suo respiro, del battito regolare del suo cuore. Mi ero sempre chiesto, in secoli e secoli di vita, per quale motivo alcuni demoni adorassero giacere con gli umani, che avevo sempre ritenuto creature troppo egoiste e codarde per meritare tanto. 
Quella notte, lo avevo capito. 
Le sfiorai i capelli, con la punta delle dita, senza sorprendermi più di quanto fosse rilassata, abituata, ormai, alla mia presenza.
Gabriel.
A quel richiamo tornai vapore, denso e scuro, e scivolai tra le fessure della finestra, che Liel non poteva attraversare. Non aveva il permesso per farlo.
Liel. Cosa ci fai qui?
Generalmente, odiavo intrattenere dialoghi mentali con chiunque, figurarsi con una Succube, soprattutto se col carattere di Liel. Avrebbe curiosato quanto più possibile nella mia testa, e avrei dovuto sforzarmi il doppio per impedirglielo. Evviva, sprizzavo gioia da tutti i pori. 
Sospesi nell'aria, invisibili all'occhio umano, ci studiavamo attentamente, io annoiato e lei divertita, a quanto pareva. Quel sorrisetto che aveva mi infastidì a tal punto che fui tentato dall'idea di colpirla abbastanza forte da strapparle la mascella, giusto per ricordarle chi era il più forte tra noi due.
Non sembri di buonumore. La Caccia non prosegue bene, forse?
Sollevai un sopracciglio alle sue parole, mentre il prurito alle mani aumentava. Volevo sinceramente tanto colpirla, ma mi trattenni. Che fosse venuta perché credeva avessi bisogno di aiuto? Stupida. Io non avevo bisogno dell'aiuto di nessuno.
Sta andando tutto secondo i piani. Puoi anche andartene.
La demonessa scoppiò ridere, guardando distrattamente i suoi lunghi artigli violacei. Non avevo mai notato quanto fosse brutta nella sua vera forma demoniaca, né quanto fosse acuta e sgradevole la sua risata fino a quel momento. Storsi il naso, infastidito.
Ma davvero? Mancano poco allo scadere del tempo. Conoscendoti, pensavo ci avresti messo molto meno. 
Feci spallucce. Non mi importava niente di quello che pensava. Mancava ancora qualche giorno. Perché correre, quando potevo prendermela comoda e divertirmi il doppio?
Nah. Ho avuto un piccolo... contrattempo, o avrei concluso stanotte.
Liel si spostò velocissima, riuscendo quasi a cogliermi di sorpresa; non mi aspettavo che si avvicinasse tanto, né che riuscisse ad arrivarmi alle spalle. Sentii i suoi artigli poggiarsi sulla mia pelle, le dita a circondarmi il collo, il suo respiro nell'orecchio. Girai leggermente il volto verso il suo mentre, reagendo in automatico, i miei denti si trasformavano in zanne e la mia pelle, attorno agli avambracci, cominciava a tingersi di nero, gli artigli ad allungarsi. Se si fosse mossa troppo, l'avrei fatta fuori prima ancora che potesse rendersene conto. 
Ridacchiò nel mio orecchio: “Che hai, non ti fidi più di me?”
“Nessuno si fiderebbe mai di te, Liel”
“Oh, così mi ferisci... è per questo che non mi vuoi?” sussurrò, leccandomi il collo.
Reagii d'istinto, svanendo tra le sue mani e spostandomi lontano da lei, in modo da poterla avere di fronte. Avevo uno strano, brutto presentimento. C'era qualcosa di inusuale nella sua presenza lì, qualcosa che non andava. 
La demonessa rise, di nuovo, prendendosi gioco di me: “Cos'è, non ti piaccio? Forse io non sono il tuo tipo... ma lei sì, non è vero?”
Insinuò, mentre cambiava aspetto: la sua pelle divenne liscia e bianca come il latte, le labbra piccole e rosa, gli occhi grandi e verdi, i capelli crebbero e si tinsero di rosso.  
Indietreggiai, d'istinto. Alice.
“Non essere ridicola. È soltanto una ragazzina ingenua, che ha venduto la sua anima per nulla. Mi disgusta, come tutti gli umani, del resto.”
“Ma davvero? Strano... non mi sembravi disgustato, accanto a lei, prima. Piuttosto direi che.. bruciavi dal desiderio.” sussurrò, mentre si sfiorava il collo, poi la spalla, con le dita, scoprendo la pelle. La pelle di un corpo che non era il suo. Una pelle di cui conoscevo l'odore, il calore, la morbidezza. Una pelle che desideravo toccare tanto che, in quel momento, riuscii a contenermi soltanto perché sapevo che quella non era Alice. 
Portai le mani alla testa, cercando di snebbiarmi la mente. Cosa diamine mi stava succedendo? Era soltanto un'umana, maledizione. Una patetica umana. 
“Vedi che la vuoi? E puoi averla, lo sai. Puoi avere il suo corpo, poi la sua anima. Ma ricorda, il tempo corre, Gabriel.”
Capii che se ne era andata soltanto quando non percepii più il suo odore, ma non mi mossi. Non rientrai nella casa, rimasi sospeso e immobile, le mani a coprirmi gli occhi, tornando persino visibile all'occhio umano. In quell'istante, realizzai di stare inconsciamente contando i battiti del cuore di Alice dall'arrivo di Liel. 
Cosa mi stava succedendo?

Mi svegliarono i raggi del sole, che giocavano a infilarsi di tanto in tanto tra le tende, mosse da un vento leggero. Mi stiracchiai, senza aprire gli occhi, e sbadigliai. Stavo così bene, e non avevo nessuna voglia di districarmi dalle coperte. 
Poi sentii il cellulare vibrare. Uffa.
Mi allungai e agitai per raggiungerlo e alla fine riuscii a recuperarlo dal comodino. Un messaggio:
 

Ehi! Come stai? Spero che tu ti sia ripresa... Non ti reggevi in piedi, quindi Gabriel ti ha portata a casa. Senti un po'... sbaglio o tra voi due gatta ci cova? Voglio sapere!!! Oggi, se non sei troppo presa a vomitare l'anima dopo la sbronza di ieri, usciamo e mi racconti ok? Xoxo 

Sun doveva essere impazzita. Se avesse saputo chi era veramente Gabriel... mi veniva da ridere al solo pensarci.
“Cosa c'è di tanto divertente?”
Sobbalzai, spaventata. Ma perché doveva sempre apparirmi alle spalle così d'improvviso? Ma dopo poco la paura sparì, e tornai a ridere. Doveva essersi fatto la doccia da poco, perché i suoi capelli erano incasinati e umidi, e aveva un broncio da bimbo in faccia: “Sembri un gattino annaffiato!” sbottai, incapace di trattenermi.
Mi guardò di traverso e raggiunse la finestra, senza aprire bocca.
“Hai la luna storta per caso?” chiesi, sbrogliandomi a fatica dalle coperte: “O forse, un diavolo per capello, eh?” aggiunsi, ridendo tra me e me, pur sapendo di aver fatto una battuta pessima.
Stavolta, però, la sua risposta non si fece attendere: “Sembri stranamente contenta per aver visto appena ieri il tuo Nicky sbaciucchiarsi una biondina tutta curve.”
Rinunciai a recuperare la scarpa da sotto il letto e rimasi seduta sulle ginocchia a fissarlo; definirlo privo di tatto era riduttivo: “Tante grazie, Gabriel. Ora sì che sto meglio.”
Avevo sinceramente cercato di non pensarci appena sveglia, sebbene fossi curiosamente vivace e attenta, senza il benché minimo mal di testa, e, quindi, perfettamente in grado di ricordare ogni dettaglio della sera prima. Sospettai che fosse grazie a un qualche suo incantesimo, ma non gli chiesi nulla. Mi aveva fatto arrabbiare proprio. Se si era svegliato dal lato sbagliato del letto, non aveva il diritto di farlo pesare a me.
“Allora, che hai intenzione di fare adesso?” domandò ancora, con un insopportabile tono di superiorità. 
Tornai a guardarlo male, e lui sostenne freddamente il mio sguardo.
“Senti, non è colpa mia se Nicolas ha una ragazza. Anzi, tu avresti dovuto saperlo, no?” sbottai, arrabbiata. Non capivo cosa gli stesse prendendo: non che di solito fosse amabile, ma neppure così insopportabile. Nemmeno mi guardava negli occhi, e gli stavo parlando direttamente. Maleducato.
“Tu non avresti dovuto perdere il controllo in quel modo, invece. Eri in uno stato pietoso.”
Scattai in piedi, non potendo credere alle mie orecchie: “In uno stato pietoso? Per colpa tua, che non sei capace nemmeno di spiare qualcuno e raccogliere informazioni! Ero ferita, non sapevo che fare. Avevi promesso che sarebbe andato tutto alla grande, e invece sei sparito e... ”
“Tsk, cos'hai, due anni, che hai bisogno di frignare tra le sottane di tua madre? Non sono il tuo babysitter, e se ti sforzassi di comportarti in maniera normale invece di fare la pazza asociale forse qualche amico da cui andare l'avresti, no?” ribatté, spostatosi di colpo a un centimetro dal mio naso. 
Non riuscivo credere che lo avesse detto. Se mi avesse schiaffeggiato, probabilmente mi avrebbe fatto meno male. 
Le conoscevo, quelle parole. Me le avevano già sputate addosso, in passato.
Strana.
Asociale.
Infantile. 
Non avrei voluto piangere, ma sentii comunque gli occhi riempirsi di lacrime, e quasi il bisogno fisico di urlargli contro e prenderlo a schiaffi.
“Oh no, non...”
“Sta zitto. Sta zitto e vattene.” 
Il demone non si mosse subito, ma cercò prima di avvicinarsi a me, forse per scusarsi, non lo sapevo e non mi interessava scoprirlo: “Ti ho detto di andartene.” ripetei, scandendo bene ogni parola e indietreggiando di un passo. 
Gabriel lasciò ricadere le braccia lungo il corpo, poi uscì dalla stanza. Sentii i suoi passi lungo le scale, la porta di casa sbattere. 
Ci volle poco perché raggiungessi di nuovo il letto e mi ci buttassi sopra. Senza pensare, agendo di riflesso, scrissi a Sun:


Sto bene, avrei voglia di uscire. Ci vediamo alle tre al caffè?

Lasciai ricadere il cellulare per poi riprenderlo in mano subito dopo. Aveva risposto subito:

Perfetto, a dopo!

Sospirai, raggomitolandomi sotto le coperte, e premetti la faccia sul cuscino. Dopo poco, lo percepii. Il suo odore. Il profumo della sua pelle. Gabriel aveva dormito con me?

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Capitolo 9
*** Cappuccino ***


CAPITOLO 9
Cappuccino.


Al parco dove correvo abitualmente c'era una caffè che adoravo per almeno un milione di motivi: intanto, trovandosi, per l'appunto, al centro del parco, era circondato dal verde degli alberi e dei cespugli, e siccome era abbastanza isolato dalla strada l'unico suono percepibile oltre alle risate degli avventori era il cinguettio degli uccelli. 
Mi piacevano i gestori, una padre di due bambini e sua madre, sempre pronti ad accogliere chiunque con un sorriso e a metterti a tuo agio. Mi piaceva l'atmosfera calda, quel sapore di casa, quelle pareti dai colori chiari e quei tavoli piccoli e rotondi, quei disegni incorniciati fatti dai bambini, pieni di colori. 
Mi piaceva il profumo del caffè e dei cornetti, le arance dalla buccia granulosa di cui bevevo sempre una spremuta dopo aver corso, alla mattina presto. 
C'era una strana, piacevole intimità in quel posto, che mi spingeva, sia in inverno che in estate, a rifugiarmi lì, con una fumante cioccolata calda con la panna o un tè ghiacciato, studiando o leggendo un libro nella calma più assoluta, scambiando di tanto in tanto due parole con i proprietari. 
Negli ultimi tempi, da quando avevo cominciato a frequentare Sun e a conoscerla meglio, era diventata nostra abitudine quella di andare lì, quando uscivamo. Parlavamo del più e del meno, dei ragazzi con cui usciva o delle amiche con cui litigava, oppure ci portavamo i libri e studiavamo insieme, per quanto riuscissimo a concentrarci. 
Perciò era ovvio che, anche quel giorno, ci saremmo viste lì. 
Camminavo piano tra l'erba del parco, ignorando il vento leggero che mi scompigliava i capelli, ancora immersa nei miei pensieri. Era stupido che mi sentissi in quel modo per le parole di Gabriel: infondo, lui non era importante per me. Doveva soltanto aiutarmi, non era certo un amico o un confidente, ma poco più di un estraneo, perciò non aveva senso rattristarsi in quel modo. Certo, mi aveva ferito con quel discorso, ma avrei dovuto semplicemente smettere di pensarci, come se non avesse aperto bocca. Solo che non ci riuscivo.
“Alice! Alice! Siamo qui!” 
Mi girai verso quel suono familiare e sorrisi a Sun, che stava sbracciandosi da uno dei tavolini all'esterno del caffè, cercando di farsi vedere oltre le siepi che lo circondavano. Imboccai la stradina d'entrata e mi diressi verso il tavolo, senza sorprendermi più di tanto della presenza di altre persone: stranamente, registrai quegli estranei distrattamente, senza andare in panico. Avevo ancora la mente altrove.
“Ehi, Sun! Ho fatto tardi, per caso?” chiesi, togliendomi la giacca e appoggiandola allo schienale dell'unica sedia rimasta libera.
“Un po', ma niente di che. Ho portato degli amici, ti dispiace?”
“No affatto. Ciao a tutti, ragazzi!” sorrisi agli altri, realizzando che qualcuno dovevo averlo già visto, forse a scuola.
“Ciao, io sono Jhon”
“Hilary”
“Sam”
“Marina!”
Mi allungai a stringere la mano a tutti, senza mai smettere di sorridere, tanto che temetti mi prendesse una paralisi facciale, e dimenticando puntualmente ogni nome appena dopo averlo sentito.
“Ehi, noi ci conosciamo già, sai?” mi fermò l'ultimo ragazzo a cui stavo per presentarmi, e sussultai, riconoscendo la voce: come avevo fatto a non accorgermi che Nicolas era lì?
“Ah, è vero! Scusami, non ti avevo riconosciuto” dissi, confusa.
“Non preoccuparti” mi rispose, facendomi l'occhiolino. 
Mi sedetti e spostai i capelli su una spalla, appoggiando gli avambracci sul piano del tavolo, ascoltando appena le parole degli altri seduti con me. 
Anche Gabriel mi strizzava sempre l'occhio...
“Alice! Oh cielo, sta di nuovo sognando!” 
La voce di Sun spezzò per l'ennesima volta il filo dei miei pensieri, e stavolta le fui davvero grata di averlo fatto. Ma cosa andavo a pensare?
 “Cosa?” chiesi, scendendo dalle nuvole.
Con un cenno della testa, Sun indicò Marco, il gestore del caffè, che sostava pazientemente accanto a me, con un taccuino e una penna in mano, aspettando la mia ordinazione.
“Ah, ehm, un cappuccino, grazie”
Scrisse rapidamente, senza smettere di sorridere: “Sempre sulle nuvole.. che ci sarà mai di bello lassù, devi ancora spiegarmelo” scherzò Marco, ammiccando.
“Sono più alte, si vede tutto” risposi, stando al gioco.
Lui ridacchiò, finendo di appuntare qualcosa qui e là: “Sicura di non volere qualcosa da mangiare, sognatrice? Sono arrivate delle crostate deliziose”
“No, ti ringrazio, va bene così”
“Ok. Vi porto gli ordini ragazzi”
Lo ringraziammo tutti, poi tornammo a chiacchierare, e io mi sforzai di stare attenta, questa volta.
“Allora? Che è successo con Isabel, Nick? Non sembravate troppo contenti alla fine della festa...” chiese Sun, facendomi perdere un battito o due. Non ci voleva una mente geniale per immaginare chi fosse questa Isabel: cosa era successo quando me ne ero andata?
Nicolas si passò una mano tra i capelli, sembrando incupirsi: “Mah, non lo so... era strana, ieri. Anzi, è da un po' che è strana, nervosa. Abbiamo litigato.” 
“Oh, mi dispiace! C'era per caso qualcosa di sbagliato alla festa, che le ha dato fastidio?” si preoccupò Sun, appoggiando una mano sul braccio di Nicolas.
Nel frattempo, arrivarono le nostre ordinazioni, e quando ringraziai di nuovo Marco mi accorsi dello sguardo di Nicolas sul mio viso. Insolitamente, però, non mi sentii in imbarazzo né arrossii. Rimasi tranquilla, calma, più attratta dal mio cappuccino che dai suoi occhi.
“No, non preoccuparti. La festa è stata fantastica, vero, Alice?” 
Mi bloccai mentre versavo lo zucchero, ritrovandomi di colpo con sei paia di occhi addosso: “Ehm... si, un spasso, davvero!” esclamai, non trovando niente di meglio da dire. 
Eppure, gli altri non mi guardarono storto per l'uscita poco originale, ma si misero a ridacchiare e commentare qualche avvenimento della sera prima, ridendo anche per uno (di cui non percepii il nome) che sembrava essere bloccato a casa, preda del mal di testa post-sbronza, forse in punizione.
“Oh, e tu, Alice? Insomma, eri ridotta maluccio ieri...” chiese Sun, come se se ne fosse ricordata all'improvviso, facendomi quasi strozzare col cappuccino.
“Ah... no, sto bene. Non sono molto abituata ai superalcolici, ecco..”
“Certo, immagino. Ma i tuoi? Non si sono mica arrabbiati?”
“No. Non se ne sono accorti. Dormivano quando Gabriel mi ha...” ebbi un attimo di incertezza nel pronunciare il suo nome, ma mi spinsi a proseguire: “ ..riportata a casa”
Notai subito come Hilary e Marina si guardarono appena sentirono nominare il demone, velando un sorrisino malizioso: “Gabriel Alleyn, intendi? Ti ha riportata a casa lui?” chiese la seconda, sporgendosi sul tavolino verso di me.
“Si, insomma.. mi ha accompagnata lui, alla festa” risposi, senza capire il perché di tanto interesse.
“Ti ha accompagnata lui?” ripeté l'altra, sgranando gli occhi: “Per caso, voi due...” ma si interruppe, lasciando la frase in sospeso, e guardandomi come se stesse cercando di comunicarmi qualcosa di essenziale.
“Noi due... cosa?”
“State insieme?” si inserì Sun, fissandomi con tanto d'occhi. Evidentemente, la cosa incuriosiva anche lei.
“Oh. No. No, no. Non è così, noi... siamo.. amici” balbettai, masticando appena l'ultima parola.
Di nuovo, le due si sorrisero. Cominciavano a darmi sui nervi.
“E sai se.. per caso.. abbia una ragazza?”
Trattenni a stento un sospiro: ero venuta proprio per cercare di non pensare al demone, e invece mi trovavo in mezzo a due che sembravano proprio sue ammiratrici e che, probabilmente, erano venute soltanto per scoprire qualcosa in più su di lui. 
“No, non lo so” risposi, bevendo un sorso dalla mia tazza e sperando che bastasse a farle stare zitte.
“Ah, ok. È così figo, però... pensi che potremmo piacergli? Almeno una di noi... insomma, tu li conoscerai i suoi gusti almeno un po', no? Siete amici”
Le guardai, sforzandomi di mantenere un'espressione educata e di non rispondere come avrei voluto. Quel discorso mi stava stancando: “Non saprei, sinceramente. Comunque, anche se non mi ha mai detto niente esplicitamente, sta spesso al telefono con una ragazza, quindi... immagino sia quantomeno impegnato”
“Ah” commentò una delle due, rabbuiandosi. 
“Mi dispiace signorine, ma dovrete accontentarvi di me, anche se non sono figo quanto Alleyn!” esclamò uno dei due ragazzi, non ricordai se Sam o Jhon, circondando con un braccio le spalle di Hilary. O Marina? Gabriel mi aveva attaccato quella sua fastidiosa abitudine di dimenticare i nomi, per caso?
“E tu, Alice? Una ragazza carina come te dovrà averlo, un ragazzo” mi chiese l'altro ragazzo, seduto vicino a me, sorridendomi. Mi piaceva, come tipo. Aveva un'espressione gentile.
Risi anche io, abbassando gli occhi sulle mie mani bianche, strette attorno alla tazza.
“Scusa, non volevo essere invadente” disse subito, pensando forse d'aver esagerato.
“Ma no, figurati. Io... beh, ho un gatto. Vale?” scherzai, sorridendogli.
“Certo che vale, c'è da chiedere? Come si chiama?”
Gabriel. "Mia madre lo chiama Virgola, ma non so perché. È tutto nero” risposi, spostando una ciocca di capelli dietro l'orecchio. 
Il ragazzo girò la sedia verso di me: “E tu come lo chiami?”
“Rompiscatole”
Ridacchiò, senza smettere di fissarmi dritto negli occhi. Cominciai ad avere l'impressione che ci stesse provando con me, ma la repressi subito. Mi stavo facendo troppi film, in quei giorni.
“Capisco che intendi... io ho un cane, e ne fa di tutti i colori!”
Stavo per chiedergli a mia volta il nome del suo cucciolo, ma Sun si intromise nella conversazione, chiedendomi se sapessi qualcosa di un compito in classe di lunedì.
“Si, dovrebbe esserci il compito di trigonometria se non sbaglio”
Alle mie parole seguì la sua disperazione, perché non ne aveva idea e non sapeva come fare, perciò mi chiese di studiare insieme e io accettai, dicendole di stare tranquilla, dato che trigonometria era una delle poche materie con cui non facessi a pugni.
In quel preciso istante, percepii una strana sensazione, simile a quella che si ha quando si sta per cadere, seguita da un lieve capogiro, e la vista mi si appannò.
Era successo tutto talmente in fretta che nessuno al tavolo sembrò accorgersi di nulla, mentre io riprendevo pian piano a respirare. 
C'era qualcosa che non andava. 
E avevo la spiacevole certezza che Gabriel avesse a che fare con tutto questo.
“Ehm... Alice, va tutto bene?” 
Nicolas mi guardava preoccupato, e immaginai fosse perché avevo cambiato espressione. Mi sforzai di rilassare la fronte e di tornare a sorridere: “Si ho... ho soltanto avuto un capogiro. Credo... credo sia meglio che torni a casa.”
“Ti accompagno” disse subito, alzandosi dalla sedia e raggiungendomi.
“No, davvero, non è necessario, io...”
“Insisto” mi interruppe, lasciando sul tavolo il pagamento per il mio cappuccino e la sua cioccolata, prendendomi la giacca e aiutandomi a metterla.
“Alice, sei sicura che sia tutto a posto?” mi domandò Sun, con un cipiglio preoccupato in viso, facendo come per alzarsi anche lei.
“Si, non preoccuparti. Sarà stanchezza. Io vado adesso, mi ha fatto davvero piacere stare con voi, ragazzi” sorrisi, mentre la sensazione di prima si trasformava in uno spiacevole groppo in gola.
“Anche a noi! Dovremmo riuscire insieme, qualche volta” propose il ragazzo del cane, alzando il bicchiere verso di me.
“Certo. A lunedì, se non ci vediamo prima” salutai io.
“Ciao!”
“Ciao Alice!”
“Ehi, Alice, magari stasera ti chiamo ok?” 
“Certo Sun, va bene. Ciao a tutti!”
Appena fuori, mi diressi verso casa, di colpo consapevole di una cosa: ero sola, con Nicolas.
Ma se il mio cuore stava battendo all'impazzata, non era per la sua presenza.

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Capitolo 10
*** Pioggia ***


CAPITOLO 10
Pioggia.



Nicolas proseguiva al mio stesso passo, abbastanza vicino da potermi acchiappare nel caso svenissi, ma troppo lontano perché ci fosse un vero e proprio contatto tra di noi; adesso cominciavo a sentirmi un tantino a disagio.
Era piuttosto imbarazzante, visto che nessuno dei due sembrava intenzionato a parlare. Io non sapevo che dire, distratta al pensiero di cosa potesse essere successo a Gabriel, e Nicolas sembrava troppo preso a calciare i sassolini per terra, la mente occupata da altro.
Mi ritrovai a sperare che casa mia si fosse avvicinata, nel frattempo.
“Come va? Stai meglio?”
“Eh? Ah.. si, si sto bene. Non preoccuparti” gli sorrisi, per poi tornare a puntare l'attenzione verso le mie scarpe. Ma sentivo i suoi occhi ancora addosso.
L'aria aveva cominciato a farsi frizzante, e il sole stava calando, tingendo le foglie degli alberi, mosse da un vento leggero, di un arancio tenue. Persino quel paesaggio così quieto mi agitava. Sapeva tanto di pace prima della tempesta, e mi spinse ad accelerare leggermente il passo.
“Perché sei scappata?”
Mi fermai di colpo, voltandomi a fissare Nicolas: scappata? Insomma, avevo velocizzato un po' l'andatura, ma ero ancora lì, non aveva avuto problemi a tenermi dietro. 
Forse intuì che non avevo capito a cosa si riferisse, perché aggiunse: “Ieri alla festa. Per caso... non so.. ho detto o fatto qualcosa che non avrei dovuto?”
Cacchio. Se ne era accorto. E adesso?
Dovevo inventarmi qualcosa, e alla svelta, o avrei fatto la figura della maleducata. 
O meglio, già che se ne era accorto, la figura l'avevo fatta, ma almeno potevo provare a rimediare: “No... no, io... mi era parso di vedere... un amico che... beh, volevo salutarlo. Poi.. sono arrivata al bar e...”
“E il resto è storia, no?” rise, infilando le mani nelle tasche e riprendendo a camminare. Lo seguii, non del tutto certa che l'avesse bevuta, ma grata che non avesse continuato con le domande. Mi venne il dubbio che oggi fosse venuto soltanto per chiedermi questo, ma era assurdo: per quale motivo avrebbe dovuto pensarci tanto? Insomma, eravamo poco più che conoscenti, non aveva nessun senso. E se invece... se avesse sempre notato le mie “fughe” alla sua presenza? In tal caso, probabilmente credeva di starmi antipatico o qualcosa del genere. Cacchio. 
“È carino sai, quel caffè. Lo conoscevo ma non c'ero mai stato prima” notò, senza staccare gli occhi dalle sue scarpe, con un tono che mi ricordò quello che si assume quando, in cerca di un argomento di conversazione, si commenta il tempo che fa, forse perché impacciato dal silenzio che era sceso di nuovo tra noi.
“A me piace tantissimo. Ci vado spesso” risposi, sorridendogli in un tentativo di allentare la tensione, sperando intimamente che l'argomento delle mie sparizioni non si ripresentasse più.
Nicolas tornò a guardarmi, con il suo solito sorriso gentile, e io mi accorsi che, stranamente, quello stesso sorriso pulito che mi aveva sempre fatto sciogliere ora mi scivolava addosso senza lasciare traccia: “Si, Sun me l'ha detto... ci andate insieme qualche volta, vero?”
Annuii, prima di chinarmi a raccogliere una margherita, vicina al cancello verde del parco, e alzai gli occhi scorgendo il tetto di casa mia. C'ero quasi, e il mio stato di nervosismo continuava ad aumentare. Che diavolo poteva aver combinato Gabriel?
“A che pensi?” 
Spostai i capelli dietro l'orecchio e mi morsi la lingua per non rispondere con qualcosa come “fatti i cavoli tuoi”. Che cosa strana: Nicolas, il ragazzo per il quale avevo venduto l'anima, mi stava accompagnando a casa ed io, invece che fare i salti di gioia e desiderare che il vialetto d'entrata non finisse mai, non volevo altro che stesse zitto e mi lasciasse andare in fretta. Che mi stava succedendo?
“A niente... sono solo stanca” gli sorrisi, cercando di riacquistare un minimo di razionalità e smettere di pensare a quel maledetto demone. Rigiravo nervosamente il fiorellino bianco appena raccolto tra le dita.
“Le feste di Sun sono distruttive, eh? Anche se più divertenti non se ne trovano.” sentenziò Nicolas, facendomi l'occhiolino. In un lampo, al suo viso si sovrappose l'immagine del volto di Gabriel, di quella sua espressione maliziosa mentre ammiccava nella mia direzione, e il mio cuore perse un colpo. Rimasi a fissarlo anche dopo che quell'illusione era svanita, confusa dallo scompiglio che aveva causato tra i miei pensieri, come anche dalla voglia insensata e stupida di vedere quel demone, nonostante le parole che mi aveva sputato addosso poche ore prima. 
Forse avevo fissato Nicolas un po' troppo a lungo e con un'espressione poco incoraggiante, tanto da spingerlo a chiedermi, con un tono esitante: “Ho detto... qualcosa di strano, per caso?”
Mi ripresi subito da quella sorta di trance: “No. No, no, assolutamente. Scusami, oggi sono proprio distratta...”
Nicolas sorrise, rilassandosi: “Ok, ho capito. Senti, mi chiedevo se ti andasse... non so, di correre insieme qualche volta?”
Eravamo fermi davanti a casa mia, in piedi uno di fronte all'altra, ed io non potevo credere alle mie orecchie: dopo mesi che lo guardavo da lontano, erano bastati due giorni perché mi chiedesse di uscire. Aveva una ragazza e voleva soltanto correre, certo, ma lo aveva comunque fatto, perciò, nonostante le situazioni imbarazzanti, doveva essere davvero interessato a conoscermi. Eppure, non sentii nemmeno un briciolo dell'emozione che mi ero sempre aspettata di sentire.
“Certo, sarebbe forte. Ora però è meglio che entri”
“Ok... allora, ci rivediamo”
Gli sorrisi, presi le chiavi ed entrai in casa.

Fottuta pioggia. Mi aveva inzuppato i capelli e i vestiti, e mi colava negli occhi, fastidiosa come non mai, offuscandomi la vista e i sensi. Mi sembrava di avere appesantita ogni singola piuma.
“Sta zitto e vattene.”
Mi fermai di colpo, rimanendo assolutamente immobile. Non riuscivo, in nessuna maniera, a cancellare quelle parole dalla mia testa. Le avevo detto semplicemente la verità, eppure... eppure per la prima volta nella mia esistenza sentivo con tutto me stesso il desiderio di strapparmi la lingua. O di tornare indietro nel tempo per darmi una botta in testa prima che aprissi bocca.
Non capivo cosa mi stesse succedendo: sapevo di stare precipitando giù, attraversando le nuvole gelide, ma avevo a malapena la percezione del mio corpo. La mia testa non riusciva a cancellare l'immagine del suo viso, la sua espressione ferita.
Prendevo velocità.
Alice. 
“Ti ho detto di andartene.” 
L'impatto con il suolo fu duro. E doloroso, anche. 
Ringraziai la mia fortuna sfacciata che mi aveva fatto atterrare in piena campagna, lontano da centri abitati e sguardi indiscreti, nel pieno di un temporale, così che il boato potesse essere confuso con il rombo di un tuono.
Rimasi lì, immobile, in una buca di fango ed erba, ignorando le gocce che continuavano a cadermi addosso.
Lei non mi voleva.
Era un pensiero idiota, assurdo, stupido e umano. Ma non riuscivo a liberarmene. Quel tormento insensato che provavo mi premeva addosso da quando avevo varcato la soglia della casa della ragazzina, occupando con tanta prepotenza i miei pensieri da avermi fatto perdere il senso dell'orientamento. Non avevo idea di dove fossi finito, né avevo mascherato in alcun modo il mio aspetto tutt'altro che umano. Ma non mi importava.
Io volevo Alice. Con tutto me stesso.
“Vattene.”
Non avevo mai davvero capito cosa sentissero gli umani quando provavano dolore. Quel peso che soffocava, si diffondeva nelle vene e paralizzava ogni muscolo, rendendoti inerme. Ora che lo stavo provando pensai che, infondo, avevo sbagliato a valutarli, gli umani.
Portai una mano al viso, per proteggermi dalla pioggia e percepii qualcosa di più denso, più caldo, su una guancia. Corrugai la fronte portando le dita davanti agli occhi: sangue. 
In tutta la mia lunga esistenza, non avrei mai creduto di poter piangere.
“Hai fatto un passo falso, Iblis.”
Merda.
Scattai, rannicchiandomi, pronto ad attaccare. 
Ma non era uno solo. Ne avvertii chiaramente la presenza soltanto in quel momento. 
Non avevo speranze di cavarmela, questa volta. Mi lasciai cadere sulle ginocchia, ignorandoli mentre mi accerchiavano, e chiusi gli occhi alzando il viso al cielo. 
Mi dispiaceva solo di non poterla vedere un'ultima volta. 

Chiusi la porta e mi ci appoggiai contro per qualche secondo, chiudendo gli occhi. La sensazione che fosse successo qualcosa si era amplificata e peggiorava il mio mal di testa. Il letto mi attendeva, con la compagnia di un'aspirina. Ne avevo davvero bisogno.
Mi tolsi la giacca, dirigendomi in salotto, sorpresa che i miei non fossero ancora tornati a casa, tanto assorta nei miei pensieri da scontrarmi contro qualcosa, che mi sorresse impedendomi di cadere. Sollevai gli occhi, spaventata.
“Nonno? Ma... che ci fai qui? E come diamine sei entra...” cominciai, ma mi zittii di colpo.  
Al centro della stanza, legato su una sedia, Gabriel mi guardava fisso, con il suo solito sorrisetto sulle labbra, circondato da individui che non avevo mai visto prima.
Ma cosa cazzo stava succedendo?!

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Capitolo 11
*** Iblis ***


CAPITOLO 11
Iblis.


Il nonno parlava al telefono da quasi un'ora ormai, nella stanza accanto. 
Seduta rigidamente sul divano, avevo cercato di percepire almeno qualche parola, ma senza riuscirci, e non solo perché parlava a voce davvero bassa: in quel momento mi sentivo troppo a disagio per concentrarmi a dovere.
Dieci paia di occhi erano fissi su di me da quando avevo messo piede nel mio salotto, rendendomi più rossa di un pomodoro maturo e spingendomi a studiare con grande attenzione i decori geometrici del mio tappeto. 
Non avevo mai notato davvero quanto fossero ingarbugliati. Eppure, abitavo lì da quando ero nata.
Sospirai. Una piccola parte di me era davvero curiosa di capire chi fossero quegli individui che accompagnavano il nonno, ma non avevo nessunissima intenzione di alzare gli occhi. Perché avrei incontrato i suoi. 
I bellissimi occhi verdi di quel maledettissimo demone. 
Che sapevo, sentivo, fissi su di me.
Cominciai a mordicchiarmi l'interno della guancia, spostando l'attenzione verso la finestra, dalla quale filtrava la luce rosata del sole pomeridiano. 
La sensazione di malessere era svanita e adesso, al contrario di poco più di mezz'ora fa, non volevo altro che poter stare fuori casa, lontano da quella strana e imbarazzante situazione.
Il nonno non aveva risposto nemmeno alla metà delle domande che gli avevo subito rivolto e, fissandomi con aria austera e vagamente accusatoria, si era limitato a dirmi di sedermi, anzi, quasi a ordinarmi di farlo. 
Avevo obbedito solo perché non avevo voglia di mettermi a discutere troppo: insomma, c'era un demone legato in salotto. Non mi pareva il momento.
Dopo aver chiesto distrattamente ai suoi compagni che io e Gabriel venissimo tenuti d'occhio, il nonno si era dileguato nell'altra stanza.
Non avevo mai sopportato quell'uomo, sin da bambina. Non era mai stato amorevole né comprensivo, non aveva mai giocato con me e non si era fatto vedere quasi mai ai miei compleanni. 
Crescendo, avevo cominciato a pensare che, semplicemente, ci stavamo reciprocamente sulle scatole. Per fortuna, abitava a chilometri e chilometri di distanza, perciò non era stato tanto difficile riuscire a evitare di incontrarlo: non lo vedevo da quando avevo tredici anni. 
E pensavo che la cosa andasse benissimo a entrambi. 
Per questo era stato praticamente uno shock trovarmelo in casa, senza alcun preavviso, e, soprattutto, con quella combriccola. 
Subito mi venne in mente un sospetto. E se anche il nonno...
Mi girai di nuovo, e guardai Gabriel. Per la prima volta da quando avevo messo piede in casa, lo fissai apertamente, incontrando i suoi occhi, ironici e conturbanti. 
Stava seduto in maniera scomposta, le scapole poggiate allo schienale della sedia di legno, le gambe allungate, ancora con un vago sorriso sulle labbra. 
Aveva i capelli umidi e spettinati, la maglietta lacera e le scarpe a pezzi. 
Mi chiesi dove se ne fosse andato in quelle ore per ridursi in quello stato. 
Eppure, non sembrava ferito: la sua pelle scura era assolutamente perfetta e bellissima, sempre liscia e fredda come vetro, al tatto. 
Avvampai subito a quel ricordo. Cavolo, dovevo piantarla di rimuginarci su. 
Gabriel ridacchiò, facendomi arrossire ancora di più. Sperai intensamente che non stesse leggendo i miei pensieri.
“Cos'hai da ridere, Iblis?”
Sussultai, girandomi verso la porta: il nonno fissava Gabriel in maniera davvero inquietante. Come lo aveva appena chiamato..?
Ma Gabriel lo ignorò e rimase in silenzio, come se il nonno fosse ancora al telefono nell'altra stanza, e continuò a guardarmi, tanto intensamente da non battere nemmeno le palpebre. Che cosa impressionante.
“Ti ho fatto una domanda, Iblis.” insistette il nonno, con la sua solita voce piatta che mi lasciava sulla pelle la stessa sensazione del grattare di unghie sulla lavagna. 
Da brividi. 
Di nuovo, Gabriel rimase in silenzio, e sbadigliò leggermente. Chinò la testa di lato, sempre stranamente preso a fissarmi. Non sembrava affatto preoccupato dal fatto di trovarsi legato in mezzo a tipi dall'aria poco cordiale, anzi avrei detto che si stesse annoiando a morte piuttosto che inquietarsi. 
Il nonno si spostò e venne a sedersi vicino a me, ma senza sfiorarmi neppure di striscio.
Mi voltai a studiare quei tratti duri, quel naso un po' storto e le guance incavate, le piccole e poche rughe che segnavano il suo viso, incorniciato da capelli grigi come il mare in tempesta, e quegli occhi... quei freddi e spenti occhi neri, che cercavo di evitare da quando ero bambina. 
La tentazione di alzarmi e allontanarmi quanto più possibile da lui fu difficile da ignorare. Per assurdo, avrei preferito che ci fosse il demone seduto al suo posto.
“Sai che non sopporto i convenevoli, vecchio. Chiedi quello che ti interessa davvero, invece che perdere tempo.” disse Gabriel, sempre senza voltarsi a guardarlo. 
Stavolta fu il nonno a rimanere in silenzio per qualche istante, prima di parlare: “Cosa vuoi da mia nipote, Iblis?” 
Gabriel scoppiò a ridere sonoramente, gettando indietro la testa: “Oh, andiamo. Vuoi farmi credere che non riesci a percepirlo, pennuto?”
“Questo è troppo, bastardo!” si intromise uno dei quattro sconosciuti attorno al demone, una donna dai lunghi capelli castani e una voce dura, incredibilmente alta e muscolosa. Muovendosi con una velocità incredibile, colpì Gabriel con tale forza da fargli scattare la testa di lato e spaccargli un labbro, mentre la sedia capitolava a terra. 
D'istinto, scattai verso il demone, ma una mano mi fermò, stringendosi dolorosamente attorno al mio polso: il nonno mi guardava furioso, e mi spinse di nuovo a sedere.
Tolsi la sua mano dal mio braccio e, mentre altri due rimettevano in piedi la sedia, chiesi, arrabbiata: “Si può sapere che succede? Dove sono mamma e papà? Cos'è Iblis? Che cavolo ci fai tu qui? Gabriel non ha fatto niente, lasciatelo stare!”
Lo schiaffo che ricevetti mi tolse il fiato e quasi mi fece cadere dal divano.

Cassandra era molto, ma molto più forte di quanto ricordassi. 
Mi aveva rintronato il cervello, accidenti. 
E tutto per un paio di innocenti epiteti... che poi, era davvero un vecchio pennuto: era avanti con l'età, e aveva una caterva di piume. Mica avevo detto niente di così terribile. 
Eppure, la cara Cassy non aveva gradito, e mi aveva spedito a un tête-à-tête con il pavimento, alquanto duro, freddo e sgradevole. 
Era la seconda volta in un giorno che davo una testata tremenda, e la cosa cominciava a rompermi alquanto i coglioni.
Non furono neanche tanto delicati a tirarmi su e mi sballottarono a sinistra e a destra, con il rischio di farmi vomitare qualcosa: e che diamine, dovevo insegnargliele io le buone maniere?!
Neppure Alice sembrava tanto contenta del trattamento riservatole: “ Si può sapere che succede? Dove sono mamma e papà? Cos'è Iblis? Che cavolo ci fai tu qui? Gabriel non ha fatto niente, lasciatelo stare!”
Ci fu un momento di black-out nel mio cervello quando sentii quelle parole. 
Alice si preoccupava per me, cercava di proteggermi... ma allora... allora forse non mi odiava, non voleva davvero che me ne andassi, lei...
“Sta zitta, stupida ragazzina! Hai venduto la tua anima, quanto c'è di più prezioso, a questo demone fedifrago!” tuonò il vecchio, colpendola forte sul viso, tanto da stordirla e farla cadere a terra. 
Alice. La mia Alice.
Non riuscii a trattenermi, spezzai le catene e mi scagliai contro quel vecchio bastardo, lasciandomi guidare da quel perverso desiderio di sangue che mi animava da quando ero nato. Rabbrividii di piacere: lo avrei fatto a pezzi, una volta per tutte. 
Cassandra si scagliò di nuovo contro di me, cercando di bloccarmi, ma evitai la sua stretta e la colpii in pieno viso, scagliandola contro il tavolo, che finì in pezzi. 
Penetrai nella mente di un'altro di quei bastardi, il più debole, un idiota che non riuscì a respingermi nemmeno per un secondo, e lo feci piegare in due dal dolore. 
A un passo da quel vecchio bastardo tirai indietro il braccio, per strappargli la faccia ad artigliate, godendo della sua espressione sgomenta al vedermi libero e pronto a cambiargli i connotati.
Percepii un'improvvisa stretta alla gola, poi mi sentii bruciare. 
Mi inarcai indietro, finendo in ginocchio, mentre le catene benedette si stringevano con forza attorno al mio collo, facendomi rantolare. 
Non avrei mai immaginato che fossero così dolorose. Mai. 
Mi contorsi, maledicendo il fottuto bastardo che mi aveva messo i bastoni tra le ruote. Il secondo che avrei fatto a pezzi. Lentamente, un arto alla volta.
“Gabriel! No! Lascialo, lascialo stare!” Alice urlava contro qualcuno alle mie spalle, sfiorandomi il viso e il collo. 
Era buffo come la sua presenza mi calmasse, nonostante stessi soffocando e la mia pelle si stesse lentamente consumando.
“Fermo Cameron” ordinò il vecchio, con un tono strano. Sembrava quasi... meravigliato, sorpreso da qualcosa. 
Ripresi a respirare, a fatica, quando le catene si ritirarono, e rilassai i muscoli. 
Guardai l'unica persona che avessi mai veramente odiato in tutta la mia esistenza, che mi fissava a sua volta con gli occhi sbarrati, incapace di mantenere la sua consueta espressione glaciale. Ci misi poco a capire il perché: nell'impeto di rabbia avevo abbassato le difese, e lui si era insinuato nella mia testa. 
Ora scandagliava i miei ricordi più recenti, le mie emozioni. Lo cacciai brutalmente fuori, ma sapevo che era tardi. Aveva capito qualcosa di cui avrebbe dovuto rimanere all'oscuro, e questo era un bel problema.
“È per questo che hai siglato il contratto. La vuoi per te.” 
Chiusi gli occhi, percependo tratti delle emozioni di Alice. 
Una volta, avrei detto di si, avrei mentito e finto per divertimento, per confondergli le idee. Ma in quel momento, non ci riuscii. 
Mi specchiai nei grandi occhi verde chiaro di Alice, mi persi nelle onde di quei capelli color sangue, nella curva delle sue labbra: “No. Era per gioco. Una scommessa”
“Scommessa?”
Passai veloce la lingua sulle labbra, sdraiato immobile sul pavimento, inchiodato dallo sguardo offeso di Alice. Fu quasi un dolore fisico vedere la sua espressione, ma mi costrinsi ad andare avanti: “Io... mi annoiavo. Volevo divertirmi e ho accettato di catturare cento anime per poi lasciare il mondo umano. Mi dispiace.”
Alice mi guardò per un altro istante, poi distolse lo sguardo per rivolgersi al vecchio: “Come fai a sapere che Gabriel non è umano? Perché lo chiami Iblis?”
Il pennuto rispose con molta più calma che in precedenza: “Iblis è il suo nome. Il suo vero nome, quello con cui lo conosce chi abita l'Inferno. Io so molto più di quanto immagini, su di lui. Cerco di ucciderlo da quasi mille anni.”
Alice corrugò la fronte: “Mille anni? Ma come è possibile, dovresti..”
“Essere morto? No. Io sono un angelo, Alice. Un angelo caduto.” 

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Capitolo 12
*** Pedaggio ***


CAPITOLO 12
Pedaggio.


Ero di nuovo obbligato a quella dannatissima sedia, la più scomoda che avessi mai provato, chiedendomi per quale stupido motivo non l'avessi direttamente fatta a pezzi nel mio impeto di rabbia, piuttosto che limitarmi a liberarmi e attaccare. 
Forse, se l'avessi fatto, adesso mi sarei trovato imbavagliato alla poltrona o a uno dei letti, magari quello matrimoniale: molto più piacevole. 
Alice si era ripresa il suo posticino sul divanetto, i gomiti poggiati sulle ginocchia e la testa tra le mani. 
Con tutto quel silenzio, mi sembrava quasi di sentire il ronzio dei suoi pensieri, che si agitavano impazziti nel suo cervellino cercando risposte che, da sola, non sarebbe certo riuscita a trovare. 
Doveva essere stato un bel colpo per lei... insomma, lo era stato per me sentirle pronunciare la parola “nonno” rivolta a quel pennuto bastardo, figurarsi per lei sentirsi dire che era nipote di un angelo. Probabilmente, stava progettando di schiaffeggiarsi o pizzicarsi, convinta che si trattasse di un brutto sogno, non desiderando altro che svegliarsi. 
Il suo amorevole nonnino non sembrava minimamente preoccupato per lei, neppure la degnava di uno sguardo, distratto dal panorama fuori della finestra. 
Le nuvole cariche di pioggia erano arrivate fino a qui, spinte dal vento, e adesso il cielo era grigio e la temperatura sempre più bassa. 
Tremai un po'. Avevo sempre odiato il clima nel mondo umano, quel gelo pungente, la pioggia, le nuvole grigie che rendevano i colori freddi e smorti. Neppure in estate faceva mai sufficientemente caldo, per me.
“Mamma e papà. Dove sono andati?” 
Percepii a stento la voce di Alice perché aveva parlato senza alzare il viso, nascosto dai lunghi capelli rosso scuro. Non ero abituato a sentire quel suono basso e spento provenire da lei, completamente diverso dal suo solito modo un po' timido e allegro di parlare. Decisamente non aveva apprezzato la scoperta.
“Li ho portati dove sono al sicuro, ben lontano da qui. Non devi preoccuparti.” le rispose freddamente il vecchiaccio. 
Ogni volta che lo avevo incontrato nel corso della mia lunghissima esistenza, la voglia di strappargli la faccia si era fatta sempre più intensa, ma ancora più spiacevole di quella rugosa e pallida espressione era quella sua fottutissima voce atona, disinteressata, fredda e tagliente come un pezzo di ghiaccio. Mi risultava così dannatamente insopportabile che, in quel momento, fantasticai di liberarmi, saltargli addosso e strappargli la giugulare a morsi. Godetti soltanto a immaginare la scena.
“Quindi... quindi loro sanno che tu non sei.. umano?”
“Si.”
Alice sollevò il viso e fissò suo nonno, che ancora le dava le spalle, con un'espressione ferita e arrabbiata, forse un po' stupita, anche. Con la mano si sfiorò distrattamente la guancia dove poco prima il vecchio l'aveva colpita, riportandomi in mente che avrei dovuto restituirgli il favore quanto prima. Stronzo.
“Non mi avete mai detto nulla.”
Finalmente, il pennuto decrepito si decise a guardarla, ma con lo stesso sguardo con cui si osserva la più disgustosa delle pustole: per Alice dovette essere peggio che ricevere un altro schiaffo. Ma si fece forza, e non abbassò gli occhi.
“Credevamo che non fosse necessario. Educarti a dovere avrebbe dovuto bastare a proteggerti dalle insidie e dagli inganni di queste infide creature ma... tua madre è sempre stata una donna debole. Ti ha accontentato quando non hai più voluto venire da me, come pure quando hai deciso di non voler più celebrare il giorno del Signore. Non è poi così sorprendente che tu sia stata facilmente abbindolata dalle frottole di questo disgustoso ladro di anime.”
Non avevo ascoltato una parola del noiosissimo monologo del volatile, troppo preso a osservare i riflessi sui capelli di Alice, la curva del suo collo, le ciglia lunghe. Forse cominciò a sentirsi osservata, perché si girò e incontrò il mio sguardo: avvampò subito e tornò a prestare attenzione al vecchio. Stavo per ridacchiare quando mi sentii appellare “disgustoso ladro”. Questo era un colpo basso.
“Hey, io non sono affatto un ladro. Sono un commerciante, offro qualcosa in cambio di altro... non rubo proprio niente!” obiettai, sinceramente offeso. E che cazzo, poteva dirmele tutte, bastardo, bugiardo, cafone, persino brutto o idiota (cose assolutamente non vere, ci terrei a precisarlo) ma ladro proprio no. Non potevo accettarlo.
Tutti e cinque gli angeli mi guardarono storto, ma la faccia di Alice mi distrasse, perché era davvero, davvero comica. Sembrava sconvolta dalla mia obiezione, ma non capii il perché: era una replica assolutamente pertinente, quella.
“A questo proposito. Lo voglio.” il dolce nonnino fece un passo verso di me, la mano tesa, mentre le catene che mi tenevano stretto liberavano i miei polsi.
“Io neanche un po'. Non te la prendere, sai che ho una pessima opinione del matrimonio.” ribattei, facendogli l'occhiolino. 
Al solito, non mostrò alcuna reazione alla mia provocazione, ma rimase immobile, in attesa. Con la coda dell'occhio, notai gli altri angeli avvicinarsi ad Alice. Trattenni a stento una smorfia di disgusto: il bastardo era persino disposto a farle del male pur di avere quello che voleva.
Schioccai le dita, e il Contratto firmato di fresco da Alice mi apparve in mano in uno sbuffo di fumo nero. Lo passai controvoglia al vecchio, che sciolse il nastro rosso che lo teneva chiuso e lo aprì, leggendone rapidamente il contenuto: fu la prima volta che vidi così tante emozioni diverse attraversargli il volto.
Capii al volo le sue intenzioni, e riuscii a infilarmi tra lui ed Alice, bloccandogli il braccio prima che riuscisse a colpirla di nuovo: “Non pensarci nemmeno.” ringhiai, più demone che umano, in quel momento. La mia pelle si era annerita, sentivo i denti più affilati in bocca e percepii i miei artigli incurvarsi, mentre i miei sensi si amplificavano ulteriormente. 
Alice stava immobile al riparo del mio corpo, ma immaginai che fossero i suoi gli occhi che il vecchio guardava fisso, dato che aveva lo sguardo puntato proprio dietro di me. 
Tutti gli altri angeli stavano immobili, in tensione, aspettando un segnale da parte del loro capo che indicasse loro cosa fare, se attaccare o limitarsi ad assistere.
“Tu... tu hai... venduto la tua anima ...per uno sciocco ragazzo??” 
Alice rimase in silenzio, ma potevo percepire il battito accelerato del suo cuore, il respiro veloce, la vergogna che le premeva da sotto la pelle. Probabilmente, quello che stava vivendo era il giorno più brutto di tutta la sua vita.
Dopo pochi istanti il pennuto abbassò il braccio e stese bene il Contratto davanti a sé. 
Lo fissò ancora per qualche minuto, pensando chissà cosa, poi, con un gesto rapido, lo strappò in due. 
Smisi di respirare.
Soltanto il demone che aveva stilato un Contratto o un angelo caduto di eguale potenza poteva annullare un patto simile: nel primo caso, la cosa non costituiva un grosso fastidio per il demone, poiché si separava volontariamente dal parziale possesso dell'anima in ballo. Nel secondo, invece, la separazione era forzata. Mentre per l'umano era fonte di sollievo, per il demone era come ricevere una frustata tanto intensa da togliere il fiato. 
Per la seconda fottutissima volta in quel giorno, mi trovai in ginocchio davanti al pennuto, piegato dal dolore. 
“Gabriel...” sussurrò Alice.
“Il suo nome è Iblis. Non merita certo di portare il mio.” la corresse suo nonno, lasciando trasparire un vago accenno di fastidio. 
Ridacchiai.
“Il tuo... il tuo nome?” chiese lei, senza capire.
“Si... andiamo, fai tanto il sostenuto... ma infondo, Gabriel, ti piace che usi il tuo nome, non è vero? Sapere che tutte le vite che mi prendo, tutte le anime che strappo, ogni incidente che causo sono un tributo in tuo onore, non ti fa sentire... importante?” risposi, mettendomi a sedere con la schiena poggiata al divano alle mie spalle. 
Gabriel, l'angelo caduto, non aprì bocca, ma gettò a terra il Contratto, che si consumò e divenne polvere.

Stavo rannicchiata vicino a Iblis, come il nonno lo chiamava, sorpresa dal fatto di non aver nemmeno mai saputo il nome di battesimo di quell'uomo che conoscevo da quando ero nata. Ero stanca e confusa, e la presenza di tutti quegli individui pericolosi non mi aiutava affatto: avevo paura di Gabriel, mio nonno, di tutti i suoi compari, di quella strana situazione, di tutte le cose che non sapevo, di non rivedere mai più i miei genitori. Dov'erano di preciso adesso? 
Per assurdo, mi sentivo un po' più tranquilla con il demone vicino, nonostante le parole inquietanti che aveva appena pronunciato e la natura teoricamente più raccomandabile degli altri ospiti presenti: cosa sarebbe successo ora?
“Quindi... hai raccolto novantanove anime più una per vincere una scommessa, giusto? Non ti credo. Non credo che tu abbia quasi rubato l'anima della nipote di un angelo per puro caso.” riprese il nonno, sedendosi pacato sulla poltrona. 
Gabriel (facevo ancora fatica a chiamarlo diversamente) teneva gli occhi chiusi e la testa all'indietro, con la nuca poggiata alla seduta del divano. La sua risposta, diversamente da quanto mi aspettavo, non si fece attendere: “Non ho mai detto questo. L'anima di Alice era l'unica espressamente richiesta per vincere la scommessa, l'unica obbligatoria.”
Al sentire quelle parole mi voltai di scatto verso di lui, sorpresa. La domanda mi sfuggì dalle labbra prima ancora che me ne rendessi conto: “Perché?”
Gabriel sospirò, girandosi verso di me: “Non lo so. Stupidamente, non me lo sono mai chiesto prima d'ora. Volevo soltanto tornarmene all'Inferno.”
Per quanto mi sforzassi, continuavo a non afferrare il senso di tutto quella storia: “Non capisco.”
“Ecco... per entrare e uscire dall'Inferno... insomma, per attraversarne la Soglia, è necessario pagare un pedaggio, una sorta di imposta in anime. Si propone la quantità di anime che si vuole strappare, e se questa viene considerata sufficiente si ottiene il consenso per uscire. Il demone rimane nel mondo umano fino a che non salda il conto, poi deve tornare indietro” mi spiegò Gabriel, cercando evidentemente di semplificare il discorso quanto più gli era possibile. 
“Quindi avevi bisogno di cento anime per tornare... indietro?”
“Si”
“E devi farlo per forza scommettendo?” chiesi ancora, guardandolo sempre più incuriosita. Avevo sempre creduto che il suo mondo fosse privo di regole da osservare: fu un'autentica sorpresa scoprire che mi sbagliavo di grosso.
“No... non necessariamente. Ho fatto continuamente avanti e indietro dall'Inferno al mondo umano durante la mia esistenza, pagando tranquillamente il tributo. Ma ultimamente mi sono.. impigrito, diciamo. Non avevo voglia di raccogliere anime o di fare qualunque altra cosa. La scommessa è servita per scuotermi dal torpore. Sai, sono un tipo competitivo.” mi disse, facendomi l'occhiolino e abbandonandosi al suo solito sorrisetto da Stregatto. Sorrisi anch'io, di riflesso. 
Nell'istante in cui restammo a guardarci in quel modo, mi sembrò che tutti i miei guai svanissero, come non fossero mai esistiti. 
Ma quando si girò, tornai bruscamente alla realtà: “Non capisco come abbiate fatto a trovarmi. Ho agito con cautela, come avete fatto a percepirmi?” chiese Gabriel, rivolto a mio nonno.
“Sono io che faccio le domande, demone.” gli rispose, e aggiunse: “Perché volevano proprio l'anima di mia nipote? Rispondi.”
Gabriel sospirò, e lo osservò con un sopracciglio alzato: “Ripeto: non ne ho idea. Se rispondi tu alla mia di domanda, forse qualcosa mi verrà in mente.”
Gabriel e il nonno si squadrarono per qualche istante, poi il nonno si decise: “Non sapevo che ci fossi tu. Volevo solo assicurarmi che Alice stesse bene, ma poi ho percepito la tua presenza e ho agito di conseguenza.”
Il demone aggrottò le sopracciglia e inclinò leggermente la testa verso sinistra, senza smettere di fissarlo: “Fammi capire, fai periodicamente questi controlli e mi hai beccato per colpo di fortuna?”
“Veramente no. Non ho mai ritenuto necessario controllare mia nipote.”
Gabriel spostò lo sguardo verso la finestra, senza rilassare la fronte, come se stesse rimuginando su qualcosa. Aspettò ancora qualche istante prima di parlare di nuovo: “Ma allora perché farlo adesso?”
Incontrò di nuovo gli occhi del nonno, con un'aria assorta, ma anche vagamente allarmata. 
“Perché non sarebbe stata l'unica discendente di angeli privata dell'anima nell'arco di queste settimane.” 
Il demone trattenne il fiato a quelle parole, sembrando quasi sconvolto: non lo avevo mai visto così. Cosa stava succedendo?
“Quanti?”
“Due.”
“E quanti ce ne sono in tutto, di discendenti?”
“Cinque. Per quale motivo tutte queste domande, Iblis?”
Gli occhi di tutti nella stanza erano puntati su Gabriel, che fissava il vuoto come sotto shock. Il cuore mi batteva così veloce che temetti mi saltasse fuori dal petto.
“Iblis...”
“Vogliono aprirle.”
“Cosa? Cos'è che vogliono aprire?!” la voce dell'unica altra donna della stanza, Cassandra se non ricordavo male, esplose, infrangendo quella calma carica di tensione. 
Allora non ero l'unica che se la stava facendo addosso.
“Vogliono aprire le Porte dell'Inferno.” chiarì il demone.

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Capitolo 13
*** Sonno ***


CAPITOLO 13
Sonno.


Aprii lentamente gli occhi e mi ritrovai a fissare il soffitto chiaro della mia stanza: raggi di luce soffusa fendevano l'aria, offrendo un palcoscenico al pulviscolo, libero di danzarvi dentro senza una precisa coreografia. 
Era così rilassante da osservare, mentre si muoveva leggero e lento nell'aria, minuscolo e impalpabile.
Sentii d'improvviso un forte rumore di vetri infranti provenire dal piano inferiore, e scattai a sedere, tutt'altro che intontita. Cosa stavano combinando là sotto?
Mi alzai velocemente dal letto e mi avvicinai alla porta: poggiai l'orecchio a contatto con la superficie di legno cercando di percepire altri rumori, chiedendomi se si fossero messi a litigare e avessero finito col rompere qualcosa. Che qualcuno fosse rimasto ferito?
Ma il silenzio era assoluto, tanto che riuscivo a sentire il battito accelerato del mio cuore rimbombarmi nelle orecchie. 
Persino il cigolio che fece la porta quando la aprii mi sembrò quasi assordante con tutta quella calma... mi sporsi fuori con la testa e diedi un'occhiata lungo il corridoio: dovevano aver abbassato tutte le serrande, perché l'intera casa era in penombra. 
Non riuscivo a capire il motivo di quel silenzio... dubitavo che fossero andati tutti a dormire. Anzi, probabilmente non ne avevano neanche il bisogno, di dormire... non erano mica umani. 
Avanzai insicura nel buio, dirigendomi lenta verso le scale, e quasi mi sembrò che il corridoio si fosse fastidiosamente allungato... da quando era così grande?
Quando raggiunsi finalmente le scale, mi fermai di nuovo, e fissai per qualche istante i gradini che svanivano nel buio. 
Anche al piano di sotto doveva essere tutto chiuso, il che era davvero strano. Cosa mai stavano facendo laggiù?
Cercai di percepire qualcosa, un suono, una voce, un altro schianto. Ma non avvertii nulla. Solo il silenzio, che rendeva quell'oscurità ancora più densa e impenetrabile. Rabbrividii, con la vaga idea di tornare in camera e chiudermi dentro.
Mi voltai indietro pronta a tornare sui miei passi, quando sentii qualcosa sbattere di sotto, forse in salotto... che fosse la porta o una delle finestre, non riuscii proprio a capirlo, ma fu abbastanza da spingermi a scendere.
Un gradino alla volta, stringendo forte il corrimano, reprimevo l'istinto di chiamare il nonno o Gabriel: non volevo fare la figura della fifona inutilmente. 
Arrivata alla fine della scalinata, un vento freddo mi spettinò e fece cigolare sinistramente una delle porte. Sentendo un'improvvisa ansia addosso mi guardai alle spalle, ma non c'era nulla: le scale erano completamente vuote e scure.
Camminando all'indietro attraversai l'ingresso e raggiunsi la porta del salotto. 
Era chiusa. Che stessero discutendo ancora?
Delicatamente abbassai la maniglia, aspettandomi di trovare la porta chiusa a chiave; ma mi sbagliavo, si aprì senza fare nemmeno un cigolio. 
Anche il salotto era in penombra, e vuoto.
Il fischio del vento gelido che entrava dalla finestra spalancata, facendo ondeggiare le tende, era il solo rumore presente. Corsi subito a chiuderle, a fatica per la forza del soffio d'aria che veniva da fuori.
Appena le ante sbatacchiarono una contro l'altra e lo scricchiolio della maniglia che ruotava cessarono, sentii uno strano sibilo. 
Un respiro affannoso.
Piano, pianissimo, mi voltai verso il centro della stanza, rivolgendomi a quel suono che mi faceva accapponare la pelle. A tentoni, gli occhi sbarrati, trovai l'interruttore della luce e la accesi.
Riverso a terra, in un caos di piume scure e imbrattato da un denso liquido nero, Gabriel mi fissava senza battere le palpebre, gli occhi completamente bianchi, rantolando.
“Alice... ”
Terrorizzata, guardai intorno a me nella stanza, ma non c'era nessuno.
“Alice...”
Tremavo, cercando freneticamente di liberarmi di quella voce, e feci per portare le mani alla testa, ma le bloccai a mezz'aria: lo stesso, catramoso liquido nero che colava dagli occhi, dalle orecchie, dalla bocca di Gabriel, scivolava lungo il mio polso e sporcava le mie mani.
“Alice...”
Non riuscivo a respirare, mi mancava l'aria...

“Alice! Maledizione ragazzina, vuoi deciderti a svegliarti o no?!”
Aprii di scatto gli occhi e mi ritrovai a un centimetro dalla faccia di Cassandra, che mi fissava spazientita con le mani piantate sui fianchi. 
Ci misi qualche istante a rendermi conto che non mi trovavo più a casa mia, ma sul sedile posteriore di una delle costose auto del nonno, non più immersa nel buio ma circondata dalla luce del sole e da una vegetazione stranamente familiare.
Appena i miei occhi si adattarono a tutto quel bianco e smisi di avere la vista annebbiata da pallini scuri, studiai subito le mie mani: la pelle era perfettamente bianca e pulita. 
Mi rilassai subito, abbandonandomi contro il sedile. 
Un incubo. Soltanto un incubo, non c'era niente di reale in ciò che avevo visto. 
“Oh no, non provare a riaddormentarti! Forza, bisogna andare. Non ti porto certo di peso in casa!” insistette Cassandra, facendosi indietro per lasciarmi uscire dalla macchina, sempre più seccata dalla mia lentezza.
Con un sospiro, mi feci coraggio e scesi. 
Riconobbi quasi subito quell'enorme giardino pieno di fiori e alberi, come l'immensa villa bianca che mi si stagliava di fronte. 
Erano anni che non ci venivo, qui. A trovare il nonno.
Storsi il naso quando distinsi il profilo della piccola cappella a fianco della casa: il nonno mi costringeva ad andarci tutti i giorni per un paio d'ore. L'incubo di quand'ero ragazzina.
Non ero entusiasta all'idea di trovarmi di nuovo in questo posto, nemmeno un po'... ma, a quanto pareva, qui sarei stata al sicuro. O meglio, lo sarebbe stata la mia anima.
Dalla seconda auto i passeggeri erano già scesi, e seguii con lo sguardo il nonno dirigersi frettolosamente alla porta principale, che era stata aperta da qualcuno all'interno; il mio entusiasmo, se già prima non era alle stelle, crollò vertiginosamente sotto i tacchi. 
Ne avevo visti già anche troppi di angeli in quelle ore, ed era stato abbastanza traumatico da bastarmi per il resto della mia vita.
“Allora, che vuoi fare? Restare qui fuori fino a domattina?”
Mi voltai indietro e lanciai un'occhiataccia a Cassandra: ma che problemi aveva?
Con un altro sospiro, mi incamminai verso l'odiata villa, sperando con tutta me stessa che tutto quel casino si risolvesse in fretta e che, perché ciò fosse possibile, il nonno dovesse sbrigare una marea di affari fuori da casa sua e restasse, quindi, ben lontano da me.
Mentre raggiungevo la porta principale, seguita a pochi passi da Cassandra e dal tipo tenebroso, che, se non ricordavo male, si chiamava Cameron (con il sospetto sempre più concreto che li avrei avuti intorno abbastanza spesso, in quei giorni), mi costrinsi a rendermi conto di cosa stava succedendo: quando Gabriel si era intromesso nella mia vita, aveva subito messo in chiaro la sua natura. Sì, il gioco di prestigio che aveva fatto nell'aula di biologia, prendendo fuoco, unito a quel suo fascino magnetico, tentatore, avrebbe convinto molti a dubitare che stesse semplicemente scherzando, anche se probabilmente avrebbe spinto altri a credere di essere usciti di testa.
Per quanto riguardava me invece... gli avevo creduto all'istante, mi ero lasciata abbindolare e avevo firmato quella friabile e inquietante pergamena. Quasi subito dopo che l'inchiostro si era asciugato avevo cominciato a rendermi conto del peso del mio gesto, e alla fine avevo capito che, infondo, per quanto fosse carino, dolce e gentile Nicolas non valeva la mia anima. 
Eppure, non avevo nemmeno provato a dire a Gabriel che avevo cambiato idea, che non mi importava più.
Soltanto ora, dopo aver scoperto che nemmeno la mia famiglia, come tanto meno il mondo in cui vivevo, erano come avevo sempre creduto che fossero, normali e umani, capii davvero il perchè: nel profondo, sapevo che se fosse svanito il Contratto, lo avrebbe fatto anche il demone. 
E io non volevo che se ne andasse. Non volevo.
Ero talmente presa dai miei pensieri che non mi accorsi di essere entrata in casa finché non sentii la porta sbattere alle mie spalle. L'immenso ingresso era esattamente come lo ricordavo, con il pavimento di parquet scuro e l'enorme scalinata posta di fronte alla porta, anch'essa bianca, col corrimano dello stesso legno dei pavimenti. 
Cassandra puntò a sinistra, diretta, lo sapevo, verso uno degli intimi saloni del nonno, tutto vecchie poltrone rigonfie, tavoli rotondi e finestre, la TV sempre spenta e l'aria austera. Capii di doverla seguire perché Cameron rimase immobile dietro di me finché non cominciai a camminare.
Per tutto il tragitto avevo fissato la punta delle mie scarpe, mentre una domanda mi rimbalzava in testa, sempre la stessa: dove sei Gabriel?
Quando entrammo nel salone, il brusio che lo animava si spense di colpo, e la decina di individui all'interno mi puntarono gli occhi addosso, con un'aria tutt'altro che accogliente.
Il nonno si allontanò dal tipo con cui stava parlando (che, da quanto sembrava arrabbiato, non doveva stare gradendo troppo la conversazione) e si rivolse a me senza nemmeno guardarmi: “Alice, ricordi dov'è la tua stanza?”
“Si, certo.” risposi, guardandolo storto. 
Per essere un angelo, era un vero stronzo, dovevo riconoscerglielo.
“Bene. Non sarai sola in stanza. Muoviti e sali, vi farò chiamare quando il pranzo sarà servito e potrete scendere.”
Sollevai un sopracciglio, mordendomi la lingua per non rispondergli a dovere, memore dello schiaffo di qualche ora prima, mi voltai e tornai sui miei passi, fino a raggiungere l'ingresso e salire l'enorme scalinata. 
Se non altro, non avevo quei due alle calcagna.
Ricordavo che la porta della mia stanza era bianca, con sopra letterine colorate a formare il mio nome. Quando la raggiunsi, esitai, perché il legno era spoglio, senza l'allegra e colorata scritta “Alice” sopra, tanto che mi venne il dubbio d'aver sbagliato camera. 
Poi sentii chiaramente delle risate all'interno: il nonno aveva accennato al fatto che non sarei stata sola...
Bussai leggermente, poi entrai.
Seduti su quello che anni fa era stato il mio letto, due ragazzi, probabilmente miei coetanei, si voltarono sorpresi e smisero di ridere. 
Stavano giocando a un qualche gioco che non conoscevo.
La ragazza aveva corti capelli neri e grandi occhi scuri da cerbiatta, esile come un giunco e con il viso magro ed espressivo; lui doveva essere parecchio alto, dal fisico allenato, capelli spettinati biondo miele e un'aria allegra e spensierata.
Lei fu la prima a riprendersi dalla sorpresa: “Ciao!” esclamò con voce gentile, alzandosi e avvicinandosi a me: “Tu devi essere la nipote del signor Rain. Io sono Marlene, piacere di conoscerti!” sorrise, tendendomi la mano.
“Alice.” risposi semplicemente, stringendogliela.
L'altro ragazzo si alzò subito dopo dal letto e si avvicinò sorridente: “Axel, un vero piacere!”
Dopo aver stretto anche la sua mano, li osservai attentamente per qualche istante: “Anche voi due siete... angeli?”
Axel e Marlene scoppiarono a ridere: “No, ma certo che no. Siamo discendenti di angeli, proprio come te.” mi rispose lei, col suo tono dolce. 
“Sapreste spiegarmi cosa significa, di preciso? E che ci fa tutta questa gente qui?” chiesi, sperando che il nonno non avesse ordinato loro di tenermi allo scuro di ogni cosa. Sapevo che ne sarebbe stato capace, visto quanto già sapevo.
“Davvero non lo sai?” si sorprese Axel, ridacchiando.
Io mi limitai a fare cenno di no con la testa, scrocchiandomi le dita dal nervosismo.
“Bé, sediamoci allora, così ne parliamo.” aggiunse, dirigendosi di nuovo verso il letto e togliendoci da sopra il gioco, così che potessimo starci comodi tutti e tre.
“Ok, grazie.” dissi, sorridendogli, e sprofondai nel materasso.

Qualche ora prima, presso casa Keeper.

Con la testa reclinata indietro, ascoltavo il suono delicato del suo respiro, nella sua stanza al piano di sopra, sprofondata nel letto che ormai conoscevo più che bene. Era il lento, profondo, rilassato sospiro di un sonno senza sogni, un sonno che distende le membra e confonde i sensi.
Ora che ci pensavo bene, non ero mai entrato in uno dei suoi sogni. Nemmeno una volta. Chissà perché... 
“Chi sono?”
… forse credevo che il viaggio attraverso il suo subconscio non sarebbe stato poi così interessante. Oppure, mi era semplicemente mancato il tempo, visto che stavo sempre a vagare per la noiosissima e monotona testa di quel Nicolas la notte, così che la sognasse. Storsi il naso al pensiero di quell'umano. Non riuscivo a capire cosa ci avesse trovato Alice di così affascinante da arrivare a vendermi la sua anima per averlo.
“Iblis, rispondimi! Chi vuole aprire le Porte dell'Inferno?”
Smisi di fissare a vuoto il soffitto e rivolsi gli occhi al vecchio pennuto di fronte a me. Possibile che ogni fottuta volta doveva interrompere il filo dei miei pensieri? Erano secoli che faceva così, secoli. Che cosa fastidiosa. Fastidiosa all'inverosimile, accidenti.
“Non ne ho idea.” ribattei annoiato, tornando a impegnare la mente su cose più piacevoli della sua brutta faccia grinzosa. Ma quando cavolo si sarebbe deciso a crepare anche lui? Vero che il mandato angelico per scendere tra gli umani era in genere più lungo di quello demoniaco, ma diamine mi stava sempre tra i piedi. Perché non si decideva a tornarsene in Paradiso e mi lasciava in pace? 
“Bugiardo.”
Sorrisi: “Bé, devo pur avere qualche difetto no?”
Percepii chiaramente le catene benedette di Cameron tintinnare una contro l'altra, scorrendo verso la sedia alla quale ero stato costretto per la terza volta, quella notte. Non distolsi lo sguardo però e rimasi a fissare l'angelo dritto negli occhi, anche se con la testa ero rivolto ai suoni ovattati del piano superiore.
Lasceresti davvero Alice in pericolo? 
Percepii a stento la sua voce nella mia mente, tanto cercavo di difendermi da intrusioni esterne, ma la sentii. 
E mi venne da ridere. Risi di gusto, anche se non c'era nulla di cui essere felice. 
D'altronde, erano angeli. 
E gli angeli non badavano alla protezione di uno solo, al bene dei pochi che gli erano più vicini, ma obbedivano  al compito di proteggere l'intero genere umano. E se per salvare tutti gli altri si fosse rivelato necessario che uno morisse, non si facevano scrupoli a lasciare che ciò accadesse. 
Erano angeli caduti, Angeli Neri, lontani dalla luce del Paradiso. E più tempo ne rimanevano all'ombra, più diventavano freddi e crudeli. Era il prezzo che dovevano pagare per scendere al fianco degli umani.
“Non posso credere che tu l'abbia detto... complimenti, mi hai spiazzato. Sembra quasi che tu sia sempre meno... angelico, o sbaglio?” osservai, inclinando il capo a sinistra.
La sua espressione, se già prima era dura, si irrigidì ulteriormente per appena un attimo, ma fu sufficiente a farmi capire che le sue ali non dovevano più essere candide e luminose come una volta.
“Comunque sia, ancora non so risponderti con certezza, i miei sono solo sospetti. Ma so chi potrebbe dirmi di più.” aggiunsi, liberando le mani da quelle corde inutili che mi tenevano ancorato a quello scomodo pezzo di legno. Avevo recuperato la mia energia, finalmente.
Mi alzai in piedi, e subito i quattro angeli minori si affiancarono al vecchio, temendo forse che mi lanciassi di nuovo contro di lui come avevo fatto poco prima; ma Gabriel aveva capito che non ne avevo l'intenzione, e non era minimamente allarmato.
“Mi stai dicendo che dovrei lasciarti andare dove ti pare?” chiese, al solito espressivo come una pianta in un vaso. 
Mi ero sempre detto che avrei dovuto insegnargli l'esistenza del linguaggio del corpo e delle espressioni facciali.
“Più o meno si. Ho un Limbo o due a cui fare visita.”risposi, togliendomi quel poco che era rimasto della mia camicia malmessa e liberandomi anche delle scarpe, davvero inutili in volo. 
Quindi dovrei fidarmi e basta.
Lo guardai negli occhi per qualche secondo. Si, e sai anche il perché, no? 
Poi misi la testa indietro e scrocchiai il collo, rilassando i muscoli: far spuntare le ali non era mai né facile né piacevole, soprattutto se lo si faceva poco dopo averle ritirate in seguito a un atterraggio di fortuna. La pelle formicolava, mentre perdevo la maschera umana che avevo dovuto mantenere fino a quel momento. 
Un doloroso schiocco anticipò lo spuntare delle ali, dalle piume nere come quelle dei corvi e talmente grandi da farmi sentire ristretto in quel salottino. Forse avevo sdraiato la sedia, allargandole.
Immagino non resterete qui. Dove la vuoi portare? 
Parlare con le zanne non era la cosa più comoda della storia, perciò preferivo dialogare con la mente in forma di demone.
Mi mostrò una grande villa bianca, in un giardino sterminato, una zona benedetta in ogni angolo. Stare lì sarebbe stata una tortura, per me.
Capito. Vi raggiungo prima che posso.
Svanii in una fiammata nera e mi spostai all'esterno, più in alto delle nuvole, così che nessun umano potesse notarmi. Rimasi ancora qualche istante sospeso a mezz'aria, fissando il punto sotto le nubi dove sapevo esserci la casa di Alice.
Poi mi voltai e andai. Avevo un sacco di lavoro da fare.

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Capitolo 14
*** Limbo ***


CAPITOLO  14
Limbo.


Avevo dovuto spaziare il cielo per ore, in lungo e in largo, prima di percepire la pulsione emanata da quel buco; e quando l'avevo sentita e me ne ero associato, era stato da brividi. 
Chiusi gli occhi per un istante, beandomi del bruciore che mi si diffondeva sulla pelle. 
Era una sensazione tremendamente familiare, così simile a quella di perdizione e selvaggia attrazione che mi si scatenava dentro ogni volta che rimettevo piede nell'Inferno.
Sapevo bene che chi abitava quell'enorme, perverso Limbo, era perfettamente consapevole della mia presenza, e non appena le difese attorno alla dimora nascosta svanirono mi lasciai scivolare al suo interno, precipitando nel buio. 
La stanza in cui mi ritrovai era spoglia e così fredda che il mio respiro si liberò in un denso vapore bianco; accostai le ali al corpo, cercando di conservare il calore, mentre con gli occhi scandagliavo l'ambiente circostante. 
Pochi passi davanti a me una lampada, poggiata su di uno sgangherato tavolo di legno scuro, illuminò l'ambiente di una tenue luce aranciata. 
Pensai che il chiarore sarebbe stato notevolmente più intenso se non fosse stato soffocato dalla quantità di roba che riempiva il tavolo: carne, pesce, enormi torte e pinte di birra, panini pieni da scoppiare, qualunque tipo di schifezza unta e gocciolante, tutto ammassato nel più totale disordine. Dall'altro capo della mensa stava il più grosso, flaccido e grasso demone che avessi mai visto, un ammasso di carne informe del quale faticai a distinguere la faccia.
Feci una smorfia, cercando di reprimere il disgusto; dei sette peccati capitali, l'unico che mi nauseava troppo per potermici abbandonare era proprio la gola. 
Dregol invece, qui di fronte a me, ne era sempre stato incantato, tanto da ridursi in uno stato così pietoso che riuscii a riconoscerlo a malapena. Che schifo.
“Da che parte?” chiesi, cercando di non fissare il cibo che si rimescolava nella sua bocca mentre masticava. 
Fu difficile per me trattenermi dallo sbeffeggiarlo, ma sapevo sarebbe stata una pessima idea; nonostante l'aspetto e le abitudini piuttosto vomitevoli, Dregol era un demone del quale non conveniva scatenare l'ira, se non si voleva finire a pezzi nel suo stomaco. 
Un ottimo cane da guardia, senza dubbio.
Continuando a ingozzarsi con una mano, tese l'altra verso destra, per poi riprendere la sua attività con entrambi gli arti. 
Mi defilai quanto più velocemente possibile da lì, seguendo le indicazioni che mi erano state date. 
Man mano che proseguivo lungo il corridoio, rischiarato da una luce lontana, la temperatura diventava sempre più alta. Ritirai le ali, e raggiunsi l'aula principale del Limbo. 
Il calore lì dentro era soffocante.
Mi fermai pochi passi oltre la porta; l'arredamento della stanza era costituito da un unico pezzo, un immenso letto dalle lenzuola nere, pieno di corpi nudi ammassati uno sull'altro, bocche fameliche e arti brulicanti, ansiti e urla, nell'aria fumosa di incensi.
Decisamente, quel posto somigliava molto all'Inferno.
Riconobbi subito la padrona di casa, in quel mare di corpi: era l'unica che, assolutamente immobile, fissava il suo ospite appena entrato. 
Avevo dimenticato quanto fosse meravigliosa e terribile da guardare, Xadje: la pelle candida come la neve, il corpo magro e flessuoso, vibrante di energia, quel viso sottile circondato da onde di capelli bianchi, quasi argentei, e quegli occhi neri fissi nei miei, ardenti come lo era la lussuria che la dominava. 
Anche lei, come Liel, era una Succube, una demonessa abbandonata principalmente al peccato della carne; diversamente della gallina con la quale avevo scommesso, però, Xadje era dannatamente pericolosa. 
Ma il tratto che veramente mi affascinava in lei, più che i suoi poteri, era la sua curiosa, incomprensibile mente: era capace di lealtà, Xadje. 
E si fidava di chi aveva accanto, umano o demone che fosse, se non ciecamente, quasi. 
Per quanto mi intrigasse questo suo modo di fare, sapevo che prima o poi l'avrebbe messa a rischio; quando le mie supposizioni si concretizzarono, decenni fa, le salvai la vita. 
Mi doveva un favore, quella spaventosa albina dagli occhi d'inchiostro. Un favore non da poco.
Iblis...
La sua voce si insinuò nella mia mente in un sussurro delicato, mentre allungava una mano verso di me, invitandomi a raggiungerla in mezzo a quel caos di corpi. Sorrisi appena e la accontentai, scivolando alle sue spalle, lasciando che si appoggiasse al mio corpo e premesse le labbra sul mio collo. 
Mi sei mancato così tanto... dove sei stato per tutto questo tempo?
Infilò le dita tra i miei capelli, permettendomi di abbracciarla. Avevo completamente dimenticato quanto mi stordisse l'odore della sua pelle.
A casa, più che altro... ad annoiarmi. 
Mi morse il collo, piano, in un gesto che interpretai di ammonimento.
Bugiardo... mi sono giunte voci molto diverse. Ho temuto che ti avessero ucciso...Perché, Iblis? Trovi che non sia in grado di farti divertire con gli umani?
Xadje non si trovava nel mondo umano esclusivamente come cacciatrice di anime, anzi, la riteneva un'occupazione alquanto futile e noiosa. 
Lei teneva sotto controllo il traffico demoniaco al di fuori degli Inferi, indirizzava i demoni più inesperti e ricacciava indietro chi non tornava all'Inferno dopo aver raggiunto il numero stabilito di Contratti. 
Veniva informata delle mosse di ogni demone, comprese le trame di Liel, a quanto pareva.
No, certo che no. In realtà, mi hanno... incastrato, in questo casino. E vorrei tanto sapere chi c'è dietro tutto questo. Non mi piace essere preso per il culo, lo sai.
La baciai sulla fronte, scansandole i capelli al viso, e incontrai i suoi occhi scuri e magnetici; non feci resistenza quando entrò nella mia mente, sfilando tra i miei pensieri, curiosa di sapere nel dettaglio cosa mi fosse successo. 
Risalì tra i ricordi della conversazione con i pennuti, del mio volo solitario, la scommessa con Liel, la mia accidia... Alice. Si soffermò a lungo sui miei ricordi di lei, su cosa provavo nel guardare il suo viso, quando sentivo il suo profumo, ogni volta che la sua pelle incontrava la mia. 
Xadje mi sfiorò il volto con una mano, trattenendo il respiro.
È bellissimo... 
Non dissi nulla, appoggiando la fronte contro al sua. 
Un'altra cosa strana di Xadje, contraria alla sua natura, era il suo costante desiderio di essere coccolata. L'avevo sempre trovato buffo, in lei che sembrava così fredda, a guardarla. 
Ho bisogno del tuo aiuto, Xadje.
Mi chiedi di collaborare con degli Angeli... 

Se io non li soffrivo i pennuti, Xadje li odiava a morte. 
No. Non li avrai attorno, te lo prometto. Non più di tanto almeno.
Annuì, anche se non sembrava per niente entusiasta, e rimase in silenzio per qualche istante, pensando a chissà cosa: preferii non tentare di leggerle la mente, per non farla innervosire.
Posso vederla? Una volta sola...
Capii subito a chi era rivolta la sua curiosità e mi irrigidii. 
L'immagine di Alice, piccola e indifesa, vicina a Xadje, non mi entusiasmava nemmeno un po'. Ma quella che stringevo tra le braccia non era Succube da contraddire, soprattutto non quando era necessario avere lei e tutti i suoi sottoposti dalla mia parte; sarebbe stato idiota, da parte mia.
Certo. Quando avremo risolto, te la farò conoscere.
Sorrise appena, e si voltò un istante a osservare i corpi brulicanti attorno a noi, assorta. 
I tuoi sospetti non sono infondati: Liel e alcuni altri demoni si stanno muovendo per spalancare le Porte. Ma ho ragione di credere che qualcuno li guidi, probabilmente dall'Inferno stesso. Per esserne più sicura devo aspettare che le mie creature tornino con le informazioni che ti interessano, però.
Come immaginavo, anche Xadje aveva concluso che non potesse trattarsi soltanto di un passatempo ideato dai pochi demoni ancora nel mondo umano; c'era qualcos'altro, sotto. Qualcosa di pericoloso, che avrebbe sconvolto l'equilibrio e portato al Caos.
Ti ringrazio. Ti spiace se resto qui finché non saprò tutto quanto mi occorre? 
Mi guardò un momento, gli occhi neri animati dal sorriso.
No, mio Iblis. Ma non vuoi tornare da lei?
Senza aspettare la mia risposta, Xadje scivolò sopra di me, lentamente, lasciando scorrere le mani sul mio corpo, mi leccò il collo fino all'orecchio.
Mi abbandonai a lei.
Ma la mia testa era altrove.

Intanto, presso villa Rain...

Al buio, stesa immobile nel mio letto, fissavo assorta il soffitto chiaro della mia camera. Non riuscivo proprio a prendere sonno, e la presenza di Marlene non mi aiutava; per quanto fosse silenziosa, la consapevolezza di non essere sola mi impediva di rilassarmi. 
Benché fossimo in primavera, il clima era diventato decisamente estivo in quei giorni, tanto che avevo dovuto lasciare aperta la finestra per far entrare un po' d'aria.
Ripetevo a me stessa che stavo cercando di concentrarmi per evitare di passare una terza notte insonne, ma sapevo bene che non era così, proprio come sapevo che non era soltanto per il caldo che lasciavo spalancate le imposte. 
La mia forza di volontà era sufficiente soltanto perché non fissassi con insistenza il danzare delle tende bianche, ma la mia attenzione era concentrata sul loro fruscio, alla ricerca di un qualche segnale dell'aumento del numero di inquilini nella stanza.
Era inutile continuare a girarci attorno: se non riuscivo a dormire, non era certo “per il trauma degli eventi che mi avevano scombussolato la vita”, come riteneva Marlene. 
Il vero motivo era Gabriel. Era sparito da tre giorni.
E da tre giorni lasciavo aperta la finestra, sperando sempre di vederlo intrufolarsi in camera da lì.
Sospirai, girandomi su un fianco, e avvicinai il polso destro al viso, osservando il piccolo pendente dal tenue bagliore rosato che mi aveva dato Cassandra. 
Quella piccola pietra permetteva di capire se ci si trovava vicino a un angelo, illuminandosi di rosa, o di un demone, diventando nera e bollente; nel secondo caso, era importante che ci rifugiassimo in una Chiesa quanto più velocemente possibile. 
Anche Axel e Marlene ne avevano uno uguale, ma da molto più tempo di me: da quando erano stati battezzati, dicevano, dato che anche loro, come me, avevano angeli in famiglia.  
Solo che loro non avevano dovuto rischiare di perdere la loro anima per scoprirlo; erano sempre stati consapevoli del fatto che angeli e demoni esistevano eccome e che spesso si intrufolavano nelle vite di uomini e donne, chi per proteggerli, chi per destinarli all'Inferno.
Erano rimasti piuttosto stupiti quando avevano capito che a me non era stato detto nulla fino a quel momento, e sconvolti nel sapere che avevo incontrato di persona un demone, vendendogli l'anima (evitai di precisare in cambio di cosa... se prima ero certa che per Nicolas fosse il prezzo giusto da pagare, adesso mi vergognavo di aver firmato quel pezzo di carta).
Axel e Marlene raccontarono di trovarsi nella villa del nonno da quasi una settimana, prima che mi aggiungessi io, e che erano presenti anche altri due ragazzi oltre noi; erano rinchiusi nel battistero vicino alla cappella, lo stesso dove avevo ricevuto il battesimo quando ero bambina.
Entrambi avevano perduto la loro anima. 
Le poche volte che, passeggiando nel giardino, ero passata vicino a quella sorta di prigione, avevo notato che degli angeli ne stavano costantemente a guardia, vigili e piuttosto numerosi, in effetti.
Ma né Axel, né tantomeno Marlene (che, tra l'altro, riteneva fosse sbagliato da parte nostra parlare di questi argomenti, figurarsi indagare), sapevano spiegarmi il perché di tutta quella agitazione. 
Erano soltanto umani infondo, no?
Gabriel mi aveva sempre detto che non sarebbe cambiato praticamente nulla una volta avessi perso la mia anima, finché ero in vita. A meno che lui non avesse mentito, tutto questo non aveva senso. 
All'inizio provai a fare qualche domanda a Cassandra; ma le risposte che ricevevo erano sempre vaghe e inutili, come “E' per la vostra sicurezza” o “Sempre meglio essere cauti”.
Dopo un po', smisi di chiedere.
E se non avevo ricevuto risposte in questo caso, non mi feci nemmeno passare per la testa di chiedere dove fosse Gabriel. Già sapevo che sarebbe stato inutile.
Quel pomeriggio, seduta sul divanetto del salotto, avevo cercato di origliare la conversazione tra Cassandra e un altro angelo, lo stesso che confabulava furioso col nonno il giorno che avevo rimesso piede alla villa, con la speranza che stessero parlando di lui. Temendo che gli altri angeli lì nella stanza, o Marlene e Axel, intuissero ciò che stavo facendo, non avevo potuto che ascoltare poche frasi sconnesse. Alla fine, non capii quasi niente, e ottenni solo il risultato di sentirmi ancora più confusa e frustrata di prima.
Ormai, non potevo fare altro che aspettare che quella pietra diventasse nera, bruciandomi la pelle.
Aspettare e sperare.
Guardai l'ora sulla sveglia: le quattro del mattino.
Dove sei, Gabriel?

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Capitolo 15
*** Verde d'erba ***


CAPITOLO 15
Verde d'erba.


Faceva così caldo che avevo abbandonato i jeans quella mattina, preferendo un abito corto di cotone chiaro, per poi avere la brillante idea di sedermi sull'erba. 
Probabilmente adesso avevo originali striature verdi sul posteriore di un bianco altrimenti immacolato.
Ma si stava così bene, all'ombra delle fitte fronde, con la schiena poggiata al tronco del mio albero preferito, che non ero riuscita a convincermi ad alzarmi per recuperare una felpa da mettermi sotto. Il cinguettio allegro degli uccellini e il frusciare del vento leggero che mi accarezzava il viso mi avevano completamente rilassato; o, forse, erano le ore di sonno che mi mancavano a farmi sentire così intontita, in realtà. 
Con un libro aperto alla prima pagina in grembo, del quale avevo letto si e no il titolo, fissavo distrattamente i fili d'erba che ondeggiavano leggeri, di un verde lucente di sole, o più cupo nell'ombra.
Probabilmente Axel e Marlene erano ancora in casa, come anche il nonno: entrambi sembravano ammirarlo profondamente, soprattutto Marlene, perciò non era così sorprendente che spendessero al chiuso una giornata come questa per vederlo. 
Io, al contrario, mi ero catapultata fuori appena avevo sentito accennare al suo arrivo. Decisamente non avevo voglia di vederlo, e ancora meno di parlare con lui. Per fortuna erano tornate le belle giornate, altrimenti mi sarebbe toccato stare fuori sotto la pioggia o fingere un patetico malore pur di evitarlo; mi era andata bene, infondo. 
Stiracchiai le gambe, notando con la coda dell'occhio che anche le mie converse si erano inverdite e contemplando la vaga idea di schiacciare un pisolino proprio lì, dato che ero troppo stanca persino per pensare ancora a Gabriel. 
Stavo per chiudere gli occhi quando sentii bruciarmi la pelle.
“Ah!” esclamai, stringendomi il polso con l'altra mano, la pietra nera e impenetrabile. Sapevo che mi sarei scottata bruttamente la pelle se non fossi schizzata nella cappelletta vicina, ma continuai a restare immobile. Cassandra mi aveva spiegato che la zona era stata benedetta in ogni angolo, perciò sarebbe stato molto difficile entrare per i demoni; e, se anche fossero stati abbastanza forti da riuscirci, con tutti gli angeli che c'erano non sarebbero certo durati molto. Sarebbe stato stupido anche provarci, da parte loro.
Perciò, quella pietra non poteva brillare che per una persona.
Mi alzai, ignorando del tutto il bruciore che provavo ogni volta che il pendente si scontrava con la mia pelle, decisa a tornare di corsa alla villa, ma non fu necessario che muovessi un passo: a pochi metri da me, un bellissimo gatto dal manto nero e dai conturbanti occhi verdi mi osservava con il suo solito cipiglio compiaciuto. 
“Gabriel!”
Il felino fece un passo avanti e svanì, ritrasformandosi nell'alto e flessuoso demone dalla pelle bronzea e il sorriso furbo che conoscevo... con la sua consueta strafottenza.
“Al suo servizio, miss.” mi salutò, facendo un lieve inchino.
Sorrisi, incapace di trattenere l'entusiasmo: “Finalmente sei tornato! Si può sapere dov'eri finito? Sei sparito per giorni!” 
Nel mio piano iniziale avrei dovuto essere fredda e dura, per fargliela pagare di avermi lasciata sola in mezzo a tutti quegli angeli inquietanti ma, ovviamente, non mi riuscì: mio malgrado, avevo sentito troppo la sua mancanza.
“Un po' qui, un po' là..” divagò, avvicinandosi a me di qualche passo, le mani infilate nelle tasche dei jeans scuri. Per il caldo aveva slacciato un po' di più la camicia chiara, e mi trovai a seguire distrattamente il profilo del suo collo, parlando.
“Nemmeno tu vuoi dirmi che succede?” gli chiesi scocciata, tornando a guardarlo negli occhi.
Sogghignò, inclinando il capo a sinistra, sempre con quella sua strana abitudine di non battere gli occhi mentre parlava: “Ho dovuto sbrigare qualche... commissione, per il nonnino.”
Inarcai un sopracciglio, guardandolo dal basso. Mi sentivo sempre una nana con lui in giro, accidenti.
“E da quando lavorate assieme?”
Fece un altro passo, sempre più vicino: “Da quando abbiamo interessi comuni, se così si può dire.”
Era davvero un'impresa restare concentrata quando stava a un soffio da me, con quel profumo intenso, quello sguardo magnetico, le labbra scure. Mi sentivo andare a fuoco le guance, ma, per la prima volta nella mia vita, me ne fregai altamente.
“Anche tu vuoi proteggere l'intera umanità dalle forze del male, tenendo chiuse le Porte dell'Inferno?” lo canzonai, sapendo bene che degli umani gli fregava ben poco. 
L'avevo capito, ormai.
Sorrise appena, sistemandomi distrattamente i capelli dietro l'orecchio, abbassando gli occhi: “Non proprio. È solo una l'umana che mi interessa.”
Era talmente vicino da tramortirmi, confondermi, togliermi il fiato. Non riuscivo a smettere di guardagli la bocca, la lingua mentre parlava... altre volte aveva usato il suo fascino contro di me, ma non mi ero mai sentita così. Forse, fu anche per questo che non tolsi il braccialetto: in un certo qual modo, il bruciore che mi provocava era la manifestazione esterna di quello che Gabriel mi stava facendo provare. E... beh, mi piaceva, parecchio.
Non mi ero mai lasciata andare come in quel momento. 
Ma lui era un demone. Non potevo fidarmi. Non dovevo.
“Ci tieni così tanto alla mia anima?”
Mi accarezzò la guancia con la punta delle dita, guardandomi attentamente, e appoggiò la fronte contro la mia. La sua pelle era fredda.
“Non nel senso che intendi tu.”
Mi tremavano le gambe, così tanto che ero sorpresa di riuscire a stare in piedi. 
Non era mai stato così serio, così intenso. E non mi era mai sembrato così sincero. 
È un demone, scema. Sta mentendo, è ovvio... no?
No. Non era ovvio nemmeno un po'. 
Teneva gli occhi chiusi adesso, e le ciglia scure gli sfioravano le guance per quanto erano lunghe. 
“Gabriel...”
“Mmh..”
“Per favore, devi dirmi che succede.”
Aprì gli occhi, incontrando i miei: “D'accordo. Ma voglio qualcosa in cambio.”
Lo guardai storto: “Non ho intenzione di venderti la mia anima una seconda volta, sappilo.” sbuffai, non potendo credere alle mie orecchie.
Scosse la testa: “Non intendo siglare nessun altro Contratto con te, Alice. Mai più, te lo prometto.”
Appoggiai una mano sul suo petto, reprimendo il brivido che mi percorse la schiena a quel contatto, e lo allontanai un po' da me. Dovevo restare lucida.
“E quanto potrà mai contare la parola di un demone?”
Le sue labbra si tesero in un sorriso incerto, che non animò i suoi occhi, di colpo duri e freddi: “Non ti fidi proprio, vero? Devo dire che, per averci messo solo quattro giorni, i pennuti ti hanno addomesticato bene.”
Strinsi la mascella, offesa: “Non ho nulla a che spartire con quella gente, Gabriel. Cerco solo di essere meno stupida e ingenua, questa volta.”
Ci fissammo in cagnesco per qualche secondo, prima che lui sospirasse e infrangesse il silenzio: “Come ti ho già detto, i demoni non sono liberi di entrare e uscire dall'Inferno, ma devono seguire delle regole. A quanto pare, alcuni devono essersi stancati di doverle rispettare, e vogliono aprire le Porte dell'Inferno per avere libero accesso al mondo umano. Le regole, Alice, esistono per una ragione precisa; se questi pazzi avessero successo, sarebbe il caos.”
Annuii: “Questa parte la so. Volevo sapere cosa sei andato a fare per conto del nonno.”
Sollevò un sopracciglio al mio tono saccente, facendomi arrossire dalla vergogna, e infilò di nuovo le mani in tasca: “Per gli angeli non funziona come i demoni. È assai raro che possano scendere dal P...” si interruppe e contrasse il viso in una smorfia: “Beh, hai capito. Sono molto pochi, quindi. In caso si arrivasse ad uno scontro, pur non sapendo con esattezza il numero degli avversari, non mi sorprenderebbe se si trovassero in minoranza. Perciò, sono andato a cercare man forte dove ero certo di poterne trovare. Inoltre, avevo bisogno di alcune informazioni utili.”
Di nuovo, annuii, e abbassandomi lentamente tornai a sedermi contro l'albero. Con la mano battei per terra, e lui si mise vicino a me, spalla contro spalla, la sua lucida scarpa nera contro la mia azzurra, macchiata di verde. 
“Ti fai aiutare da altri demoni?”
“Si... c'è chi mi deve dei favori.” 
Mi girai a fissarlo, studiando il suo profilo; la fronte dritta, gli occhi felini socchiusi, persi nel vuoto, quel naso un po' lungo, le labbra scure e sottili, la mascella tesa, il collo... era davvero bello da morire. 
“Scusa se ti ho trattato male prima..” mormorai, dispiaciuta.
“Mmh... finite le domande?” 
“Per ora si. Ma sono davvero dispiaciuta, Gabriel... ah aspetta! Ma io come... insomma, come devo chiamarti?” chiesi, rendendomi conto di stare usando ancora il nome del nonno.
Si girò verso di me, ridacchiando: “Come preferisci tu... mica mi offendo.” e ammiccò, divertito. 
Arrossii e gli sorrisi a mia volta. 
“Comunque.. quante domande hai fatto?” chiese, appoggiando una mano sulla mia guancia girandosi verso di me, più vicino di quanto pensassi. Mi fermò il mento con una mano, impedendomi di guardare altrove. Deglutii, riconoscendo in lui quella tensione felina che mi faceva perdere la testa.
“Cos.. non so, un paio forse..”
Il mio cuore perse un battito quando capii che quel suo sguardo famelico era rivolto alle mie labbra. 
Oh cazzo. E adesso?
“Erano tre. Nemmeno così tante, e hai già perso il conto? Perdere colpi alla tua giovane età è preoccupante...” sussurrò, sempre più vicino.
Il suo profumo in intontiva talmente che non riuscii a reagire alla provocazione... accidenti, perché era così maledettamente sexy?
“Che... che importa delle domande?” balbettai, quasi senza fiato.
Sentii le sue dita scorrere tra i miei capelli, intrecciandovisi. 
Non respiravo più.
“Ti avevo detto che avresti dovuto darmi qualcosa in cambio...”
Le sue labbra erano a un soffio dalle mie. 
“Io non ho mai...” 
“Lo so, miss. Lo so.”
Poi mi baciò.
Dio.

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Capitolo 16
*** Guastafeste ***


CAPITOLO 16
Guastafeste.



Il Limbo era soffocante. 
Brulicava di artigli, zanne, lunghe corna ricurve, ali strappate, gemiti, urla: un groviglio confuso di odori e suoni, tanto intenso da stordirla.
Liel se ne stava a occhi chiusi, il capo reclinato all'indietro, lasciandosi cullare da quel suo piccolo, caldo e inebriante Inferno personale. Scossa da ondate di brividi, passò la lingua lunga e gonfia sulle labbra, graffiandosi la pelle delle cosce con le sue unghie velenose... quanto le mancava quel senso di perdizione, l'abbandonarsi alla follia, alla rabbia, alla passione. 
Nessun vincolo. Nessuna costrizione.
Libera.
Sorrise. Presto, quella depravazione avrebbe oscurato l'intero mondo degli umani. Nessun demone sarebbe più stato lontano da casa a lungo, allora. 
Liel.
La Succube aprì i grandi occhi rossi e schiuse le labbra, cessando di respirare. Non si aspettava quella chiamata... non così presto.
Mio signore.
Al sussurro della demonessa seguì un improvviso schiocco e il tintinnare di vetri infranti al suolo, alle sue spalle. 
Un'altro brivido scosse la scosse... ma non era di piacere, questa volta.
Li hai tutti, mi auguro.
La Succube deglutì. 
Un gelo pungente le feriva la pelle scoperta della schiena, al ritmo del lento respiro del suo interlocutore, ricacciando pigramente indietro la sensazione di gioia che l'aveva pervasa pochi attimi prima. 
Aveva paura, adesso. Paura da non reggere.
No, Mio Signore... non ancora...
Liel urlò quando si sentì afferrare brutalmente per i capelli, costretta a tirare la testa indietro e inarcare dolorosamente la schiena dalla forza del suo assalitore, i cui artigli le affondarono lentamente nel collo; l'odore del suo stesso sangue, che le colava denso addosso, sporcandole le braccia e i capelli, le tramortì i sensi, soffocandola. 
Non c'era mai stato tanto silenzio, nel Limbo. 
Sono proprio curioso di sapere perché, Liel. Perché sei così incapace?
La demonessa gemette, costretta a inarcarsi ancora di più, mentre il sospiro gelido del demone le graffiava la pelle del viso.
Non abbiamo molto tempo e adesso, per colpa della tua stupidità, rischiamo di mandare tutto a puttane. Liel, piccola Liel, dimmi... c'è una motivazione valida perché io non debba farti a pezzi subito?
La demonessa si irrigidì, trattenendo il fiato, gli occhi sgranati fissi al soffitto nebuloso del Limbo; ma prima che potesse dire qualcosa per difendersi, il demone le infilò le lunghe dita in bocca, tenendole la mascella esageratamente aperta, e le afferrò la lingua, tirandola fino a farle male.
Liel gemette.
Ti prego...
Il demone lasciò scivolare l'altra mano lungo il corpo della Succube, lentamente.
Oh, Liel... sei buona solo a scopare, non è vero?
Le passò la lingua gelida sul collo, lentamente, facendole provare l'ennesimo brivido.
Ripensandoci... no, non mi servi nemmeno a quello.
Liel ebbe a malapena il tempo di comprendere il significato di quelle parole. Sussultò quando il demone la trafisse, attraversandola da parte a parte, per poi ritirare il braccio di colpo, lasciandola accasciarsi sul pavimento, preda di forti spasmi. Il corpo della demonessa si ridusse lentamente in cenere, mentre il suo spirito tornava a legarsi agli Inferi.
I vetri infranti tintinnarono sul pavimento, poi si sollevarono e ricomposero l'enorme specchio.
Kamir.
Non appena il demone pronunciò quel nome, una figura minuta con il volto nascosto da un cappuccio comparve inginocchiata nel punto esatto dove Liel era morta.
Sai cosa devi fare. Vedi di non deludermi anche tu.
La figura incappucciata annuì, dileguandosi in un denso vapore grigiastro.

Mi ero sempre chiesta come fosse, un bacio.
Quando guardavo quei film romantici con amori impossibili o le serie TV dove l'avventura si intreccia con la passione, nel momento in cui i protagonisti si scambiavano il loro primo bacio, mi ero sempre chiesta, aldilà della recitazione talvolta pessima degli attori, capace di rovinare l'intera scena, che sensazione si prova. Le farfalle nello stomaco? Brividi? Viene naturale, oppure no? 
Non è che non avessi mai avuto occasione di provare, in realtà. Quando ero più piccola i miei genitori mi portavano sempre in campeggio con altre famiglie, d'estate; lì stavo con altri bambini, più o meno ogni anno gli stessi, perciò era stato facile fare amicizia. A quattordici anni legai particolarmente con un ragazzino, si chiamava Aaron: mi piaceva, parecchio. Giocavamo sempre insieme e adoravamo mangiare il gelato la sera, dopo cena, su un tronco d'albero poco distante dal campo. Una di queste sere si era seduto un pò più vicino del solito e, finito il gelato, mi aveva preso per mano. Ovviamente, io ero diventata tutta rossa e non riuscivo a guardarlo negli occhi, limitandomi a fissargli il naso, che si faceva mano a mano più vicino. Il mio cuore batteva fortissimo, tanto che ricordavo di aver avuto paura che scoppiasse. Quando arrivò a un soffio dalle mie labbra, mia madre mi chiamò, e io mi voltai verso la sua voce. Fu un attimo, e il bacio di Aaron si perse sulla mia guancia. Non sapendo cosa dire o fare, lo salutai e schizzai via il più rapidamente possibile, rifugiandomi nel sacco a pelo della mia tenda.
Il giorno dopo io e la mia famiglia ripartimmo per la città e dall'estate seguente cominciammo ad andare al mare, invece che in campeggio.
Qualche volta avevo provato a immaginare cosa avrei provato se non mi fossi girata e Aaron fosse riuscito a baciarmi.
Inutile dire che con l'immaginazione non ero arrivata nemmeno lontanamente vicina a capire cosa si prova.
Mi sentivo il viso in fiamme e il mio cuore batteva all'impazzata; avevo la pelle d'oca, i brividi e le farfalle che, dallo stomaco, se ne erano andate un pò ovunque. Non riuscivo a pensare a niente che non fossero le mani di Gabriel sul mio viso, sul collo, tra i miei capelli, il suo profumo ovunque intorno a me, le sue ciglia che mi solleticavano le guance. Le sue labbra erano morbide e dolci contro le mie, che schiusi leggermente per sentire il suo sapore sulla lingua, il suo respiro legarsi al mio, sfiorandogli la guancia con la punta delle dita. Morse appena il mio labbro inferiore, tirandolo un pò, e fancedomi rabbrividire. Poi, d'improvviso, si fermò, appoggiando la fronte contro la mia, gli occhi ancora chiusi; d'istinto mi sporsi di nuovo verso di lui, cercando la sua bocca, ma interpose un dito tra le nostre labbra per imperdirmi di avvicinarmi ulteriormente.
"Cosa.." sussurrai appena, ma la sua voce superò la mia:"Non si può proprio avere un pò di privacy eh."
Sussultai, e voltandomi incontrai gli occhi spenti e freddi dell'angelo di nome Cameron: mi sentii profondamente in imbarazzo...pensavo fossimo soli. Eppure, l'angelo non tradì il minimo accenno di emozione, che fosse disgusto o rimprovero; fissava Gabriel coi suoi tristi occhi grigi dall'aria vagamente annoiata, velati dalla frangia di capelli biondo chiaro, fermo in mezzo ai fiori. Le catene benedette, avvolte alle sue braccia e al suo busto, scintillavano minacciosamente al sole.
"Il Maestro ti vuole, demone."
Gabriel sospirò, alzando gli occhi al cielo:"Si, lo sospettavo. E' proprio impaziente, accidenti. Che palla al piede.."
Si alzò in piedi con un movimento fluido, poi mi tese la mano, ammiccando:"Se mi fai compagnia, forse riesco a non strozzarlo, il vecchiaccio."
Sorrisi, accettando la sua mano:"Sempre che non lo faccia prima io" sussurrai, cercando di non farmi sentire dall'angelo. 
Gabriel ridacchiò, intrecciando le dita alle mie, e si diresse verso il guastafeste:"Dov'è che dobbiamo andare?"
"Seguimi."
Rimasi tra le nuvole per tutto il percorso dalla radura alla villa del nonno, consapevole soltanto della presenza del demone accanto a me, delle nostre mani strette. Solo adesso mi sentivo veramente al sicuro: sarebbe andato tutto bene.

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Capitolo 17
*** Riunione tra le piume ***


 
CAPITOLO 17



Tante volte mi ero chiesto come fossero i Cieli. 
Secoli fa, prima di incontrare di persona degli angeli, avevo immaginato un luogo dove tutti sorridevano continuamente, sempre gentili e talmente dolci da dare la nausea. 
Ora, che il vecchio pennuto fosse lievemente incapace di espressività mi era più che chiaro; d'altronde aveva qualche migliaio di anni, probabilmente a furia di sorridere a un certo punto gli si erano anchilosati i muscoli facciali. Non sapevo dire perché anche la sua voce e i suoi occhi restassero sempre noiosamente inespressivi... probabilmente non voleva essere ridicolo, con la faccia da pesce morto e lo sguardo attivo e allegro. Avrebbe stonato, no?
Certo, vedere tutti questi giovani pennuti assieme confondeva parecchio la mia immagine dei Luoghi Celesti: nessuno dei dodici angeli presenti accennava un sorriso o aveva un'aria dolce e gentile. Giusto un paio lasciavano vagamente intravedere il loro stato emotivo, lanciando occhiate a metà tra il sorpreso e il disgustato alle mani intrecciate mie e di Alice. 
Trasportando questa immagine e sostituendola alla precedente, tutta sorrisi e dolcezze, i Cieli dovevano essere veramente deprimenti; ovvio che poi ne scendessero angeli picchiatelli come il caro nonnino. 
E pensare che tutti gli umani non vedevano l'ora di andarci. 
Bah. 
Erano un po' fuori di brocca anche gli umani, era evidente.
A parte Alice. Lei preferiva chiaramente me ai pennuti. Il che era veramente fantastico. Come al solito, una parte della mia testa era concentrata ad ascoltare il battito del suo cuore, il ritmo del suo respiro, al mio fianco. La sua mano era piccola e soffice, nella mia.
"Alice, raggiungi Axel e Marlene di sopra. Muoviti."
Ma perché ogni volta che il vecchio le parlava avevo il triplo della voglia di staccargli la testa? Ci doveva essere una spiegazione scientifica, per questa domanda. 
Incontrai gli occhi di Alice e le feci l'occhiolino, spingendola delicatamente verso le scale:"A dopo, miss."
Mi guardò ancora per qualche istante, poi si allontanò:"A dopo."
Avevo la vaga sensazione che credeva avrei insistito per farla restare, ma non potevo contrariare troppo il suo caro nonnino se volevo restare con lei.
"Andiamo."
Seguii buono buono gli angeli fino a una stanza piena di scaffali carichi di libri, un divano dalla forma strana e poltroncine varie; la luce gialla e calda rendeva l'ambiente più accogliente e disinvolto. Mi sorprese: i pennuti ci sapevano fare con l'arredamento.
"Allora, Iblis?" mi incalzò Gabriel, appoggiando entrambe le mani sull'unico, enorme tavolo nella stanza.
"Sei parecchio impaziente eh?" ridacchiai, accasciandomi su una delle poltrone. Era comoda, e nemmeno poco.
"Non abbiamo tempo per i tuoi giochetti Iblis. Rispondi."
"Ok ok. Non ti scaldare. Xadje è dalla nostra parte."
Cassandra, una delle poche femmine presenti e tra i pochi pennuti ancora in grado di esprimere emozioni, mi fissò ad occhi sbarrati:"Xadje la Guardiana della Soglia? Davvero?"
Sorrisi:"Proprio lei, con tutti i suoi sottoposti. O quantomeno, i più affidabili."
Sembrava proprio sbalordita. Beh, l'odio di Xadje nei confronti dei pennuti non era certo una novità, come neanche la sua indifferenza verso gli eventi che non la riguardavano in prima persona. 
"Mi doveva un favore. Poi non a caso è la Guardiana, e si stava già muovendo per capirne di più. Vista la dimensione del problema, ha concluso che fosse meglio collaborare con voi pennuti piuttosto che scontrarsi, per questa volta."
"Ti doveva un favore?" chiese Gabriel, sollevando un sopracciglio. Accidenti. Allora i suoi muscoli facciali non erano malridotti come credevo.
"Esatto."
"Che tipo di favore?"
Ridacchiai:"Direi che non ti riguarda, vecchio."
Restammo a fissarci in cagnesco per qualche istante. O meglio, lui mi guardava con aria truce, io sostenevo allegramente il suo sguardo. 
"Come posso essere sicuro di potermi fidare, Iblis?"
Alzai gli occhi al cielo, annoiato dalla domanda a dir poco banale:"Per quel che riguarda me, la risposta alla tua domanda è al piano di sopra, come ormai ben sai. Per Xadje garantisco io. A questo proposito, suggerirei di ampliare la tolleranza per la presenza demoniaca anche a lei, così che possa entrare qui dentro. Lei si fida dei suoi sicari, io un po' meno; facendo entrare solo lei, non corriamo di certo rischi di sorta."
Un'altro pennuto, di cui non conoscevo il nome ma che, a giudicare dalle cicatrici, doveva aver partecipato a parecchi thè all'inglese con i demoni, intervenne:"E dovremmo lasciare che una demonessa di tale potenza entri ed esca da questa casa? E' pura follia, Gabriel!"
Storsi il naso:"Ti informo, caro piumino, che Xadje è una Nobile tanto quanto lo sono io. Se lasciate entrare me, non vedo perché lei dovrebbe restare fuori... a meno che non pensi che io sia più debole, e in tal caso potrei prenderla sul personale."
Gabriel si rivolse al suo collega, ignorando completamente la mia uscita:"Non ho molta scelta. Non siamo in molti e dobbiamo sia proteggere i discendenti che impedire l'apertura delle Porte. Abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile, dovunque arrivi. Per quanto possa scocciarmi dirlo... dobbiamo fidarci di Iblis."
Non potevo credere alle mie orecchie. Mi aveva commosso, accidenti!
"Non ti avevo mai sentito dire qualcosa di così sensato. Mi hai lasciato senza parole, ed è tutto dire!" commentai, rilassandomi ulteriormente sulla poltroncina.
"Piantala di fare l'idiota, Iblis. Che altro hai da riferire?"
Sbuffai:"Xadje sta cercando altri demoni che possano dare man forte e ha inviato alcuni suoi sottoposti a indagare, all'Inferno. Per ora, risulta chiaro che ad agire tra gli umani sono stati demoni di basso rango, il che ha un senso: se il piano fosse andato in fumo, i mandanti non avrebbero corso rischi, non venendo mai scoperti. Probabilmente, avrebbero cercato di incastrare me o uno dei pochi altri Nobili invischiati, viste le voci totalmente insensate che sono arrivate a Xadje: le era stato riferito che a capo di tutto stavo io, o qualcosa del genere. Tuttavia, deve essere stato un demone veramente potente ad organizzare tutto questo, o più di uno. L'incantesimo per spalancare le Porte non può essere eseguito da uno spiritello qualunque: ne verrebbe consumato."
Gabriel annuì, lo sguardo perso nel legno del tavolo:"Perciò dobbiamo aspettare altre informazioni, prima di agire."
"Si e no. Io darò la caccia ai demoni coinvolti presenti qui nel mondo umano, sapranno dirmi di più. Nel frattempo, cercherò anche informazioni riguardo l'incanto che distrugge il Sigillo delle Porte infernali. Xadje indagherà negli Inferi; una parte del suo esercito protegge questo posto, appena al di fuori della barriera benedetta. Voi dovete occuparvi dei discendenti che ancora hanno l'anima, e proteggerli. Una volta saputo abbastanza, potremo dare un taglio a questa situazione."
Gli angeli si volsero a guardare il loro capo, sorpresi del fatto che avessi già pensato a cosa fare, forse. Gabriel guardava l'angolo di giardino visibile attraverso le finestre, preso da chissà quali pensieri; la vena poetica era tipica dei piumini, lo sapevo bene.
"D'accordo. Ma Cameron ti accompagnerà nelle tue indagini esterne, Iblis."
Sbuffai di nuovo. Già che doveva fare il capo pennuto diffidente, poteva almeno darmi una compagnia più allegra, no?
"Molto bene" dissi, alzandomi e stiracchiandomi:"Abbiamo finito?"
Gabriel annuì, ancora perso a osservare gli esterni.
Uscii in fretta dalla stanza: tutta quell'aura angelica era sfiancante per me e benché la zona benedetta tollerasse la mia presenza, l'aria era pungente e irritante sulla mia pelle. Anche se avrei voluto raggiungere Alice, sapevo che uscirne un po' mi avrebbe fatto solo che bene.
In pochi secondi mi trasformai e schizzai in cielo, allontanandomi dalla villa del vecchio, seguendo l'attraente impulso del Limbo di Xadje. Dovevo riferirle quanto deciso.

Me ne stavo sdraiata e ferma, sul letto, fissando il soffitto. 
Una minuscola parte di me avrebbe voluto scendere al piano di sotto, per cercare di origliare quello che, lo sapevo, Gabriel aveva evitato di dirmi. 
Ma la gran parte del mio cervello era impegnata a rivivere quel bacio. 
Il mio primo bacio.
Mi sentivo ancora le guance in fiamme e la pelle d'oca, mentre ripensavo ai suoi occhi, alle sue mani tra i miei capelli.
Intenso da togliere il fiato, santo cielo. 
Avevo un po' paura di aver fatto un casino e averlo baciato da schifo, ma non mi importava particolarmente. Ero troppo su di giri per farmi dei problemi, in quel momento.
Prima di lanciarmi sul letto avevo rinfrescato e fasciato il polso, piuttosto malmesso dopo aver tenuto il bracciale bollente per tutto quel tempo, e avevo tolto le scarpe appena dopo aver spalancato la finestra. Per fortuna, il vestito non si era macchiato come pensavo.
Chiusi gli occhi, respirando piano e profondamente, rilassata tra le lenzuola profumate.
Sobbalzai quando sentii bussare alla porta. 
Mi sistemai velocemente i capelli, sperando di non somigliare a uno spaventapasseri, e tossicchiai per schiarirmi la gola prima di parlare:"Avanti!"

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Capitolo 18
*** Sorpresa. ***


CAPITOLO 18


Cercavo disperatamente di sistemare il nido d'uccelli che avevo al posto dei capelli, spicciandoli con le dita, mentre mi tiravo su a sedere e biascicavo un "Avanti!" molto poco convinto. 
"Spero non sia un brutto momento."
Mi paralizzai con le mani ancora nei capelli, osservando l'ultima persona che mi sarei mai immaginata di vedere entrare nella mia camera. 
In realtà, non sapevo se fosse propriamente corretto definirla una "persona", dato che si trattava di una creatura divina, di un angelo. 
Ma che cavolo di problemi mi sto facendo? Mica legge nei pensieri, santo cielo! Perché gli angeli non li leggono... vero?
Mi detti mentalmente una manata sulla fronte mentre Cassandra prendeva posto sul letto di fronte al mio, dove dormiva Marlene. 
A essere sincera, non l'avevo mai guardata con reale attenzione e interesse come feci in quel momento, tanto ero stata ossessionata dal pensiero di Gabriel in quei giorni. Era alta e slanciata, con il fisico asciutto e allenato di chi ama dedicarsi ad attività sportive, il che non era poi così strano ripensando al nostro primo incontro: aveva colpito Gabriel così forte da farlo franare a terra con tutta la sedia a cui era legato. 
Aveva lunghi capelli mossi, biondo grano, ai lati del viso a cuore; la sua pelle era abbronzata, come se fosse appena tornata da una vacanza ai tropici, e i suoi occhi azzurri brillavano di forza e determinazione. 
Era davvero bella ed esprimeva sicurezza e autostima da tutti i pori. 
Mi faceva sentire veramente minuscola.
"Ehm... C'è qualcosa che... ecco..." balbettai, non sapendo davvero cosa dire. Insomma, non c'era veramente niente che condividessimo, niente che potesse in qualche modo giustificare la sua presenza nella mia stanza, a meno che non fosse successo qualcosa di grave. Ma neanche questo aveva senso, dato che non mi informavano mai di nulla, gli angeli.
Cassandra sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, per poi spingersi in avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia:"Volevo farti una domanda, Alice. Mi chiedevo se quanto ha riferito Cameron fosse... vero."
Corrugai la fronte, a dir poco confusa. Se con lei avevo poco o niente a che fare, figurarsi con Cameron: mi faceva una paura allucinante.
"A che proposito?"
L'angelo sollevò un sopracciglio:"A proposito di te e del demone di nome Iblis."
Ebbi un momento di incertezza prima di risponderle:"Ti riferisci al fatto che oggi ci ha.. ehm... visti... nella radura?"
"Esattamente."
Storsi il naso, infastidita. Gli angeli sono anche pettegoli, allora!
"Non vedo come la cosa possa riguardarti!" sbottai, alzandomi in piedi e raccogliendo le scarpe che avevo seminato a caso per la camera quando ero rientrata, volendo rimetterle al loro posto sul fondo dell'armadio.
Sentii chiaramente il profondo sospiro che precedette le parole di Cassandra:"Alice, io non metto in dubbio che Iblis abbia il suo fascino. E' un demone, e se c'è una cosa che i demoni sanno fare bene, oltre che imbrogliare, è proprio ammaliare. Sono sensuali, felini e... bugiardi, Alice. Dicono esattamente quello che tu vorresti sentirti dire nel momento esatto in cui hai bisogno di sentirlo, ma molto raramente sono sinceri. E..."
"Piantala!" scattai, voltandomi di nuovo verso di lei. Stringevo le sottili ante dell'armadio con tanta forza da sentir dolore alle dita. 
In realtà, mi aspettavo che prima o poi uno di loro sarebbe venuto a dirmi qualcosa del genere, ma non avrei mai creduto che sarebbe stato oggi, poco tempo dopo aver finalmente avuto Gabriel tra le mie mani. Era crudele, cercare di macchiare la mia felicità così.
"Alice, so che ora come ora pensi lo stia dicendo soltanto perché io sono un angelo e Iblis è mio nemico, ma..."
"Si, è esattamente quello che penso! Tu non lo conosci, non sai..."
"Cosa?! Ragazzina ti informo del fatto che sono in giro da qualche decennio in più di te, conosco i demoni, so bene cosa il tuo caro Iblis ha fatto prima di incontrarti!" urlò, avanzando di mezzo passo verso di me, sovrastandomi con la sua altezza.
"Tu non sai lui davvero com'è..." iniziai, odiando profondamente il l'incertezza nella mia voce.
"Ah no? Io so che ha ucciso senza pensarci due volte, che ha rubato anime coi più infimi inganni, che ha distrutto famiglie, vite, anime, giocando con i sentimenti più profondi e fragili degli esseri umani, con il solo e unico scopo di divertirsi. E lo so, perché c'ero, perché gli do la caccia assieme a tuo nonno da decenni, desiderando nient'altro che mettere fine a questo scempio! E tu vieni a dire a me che non lo conosco? Direi che i fatti sono più chiari delle parole!"
Tremavo e mi sentivo sull'orlo delle lacrime. Sapevo bene che Gabriel era un demone e che, come tale, di certo il suo passato non doveva essere dei più rosei. Ci avevo già pensato altre volte, avevo anche deciso che volevo saperne di più di lui, che volevo sapere cosa aveva fatto prima di farsi portare dentro casa mia peloso e bagnato, avvolto nella giacca di mia madre. Eppure, sentirselo dire con parole simili sembrava rendere tutto ancora più orribile, sbagliato e crudele di quanto non avessi immaginato. 
E faceva male, male davvero.
"Io... il passato è passato, Gabriel non è più.."
Cassandra scoppiò a ridere, buttando indietro la testa e tenedosi la pancia con la mano:"Non posso crederci! Non posso davvero crederci! Tu pensi sinceramente che un demone, un figlio del peccato, possa cambiare?! I diavoli non cambiano, ragazzina, semmai affinano la tecnica. Cielo, da come parli sembri sinceramente convinta che si sia affezionato a te. Se così è, liberati in fretta di questa fantasie infantili: i demoni non amano. Mai. Non perché tu non sia una ragazza che possa far nascere certi sentimenti in un uomo, ci mancherebbe. E' che... non è nella loro natura, capisci? Si lasciano trascinare da emozioni momentanee e passeggere, brevi quanto inconsistenti."
Ogni parola pronunciata dall'angelo era come una stilettata, una lama che affondava nei punti più delicati del mio cuore, a braccetto con tutte le mie incertezze. 
I demoni non cambiano.
I demoni non sanno amare.

E per quanto non riuscissi a staccarmi dal ricordo di Gabriel nella radura, di Gabriel così vicino, così mio, per quanto cercassi di tenere a mente che volevano solo allontanarmi da lui, una parte di me si lasciava trascinare dai dubbi che le parole di Cassandra vi avevano insinuato. Come una malattia, ma veloce quanto una nube tossica, quei dubbi intaccarono i miei ricordi, annerendoli e rovinandoli. 
I capelli mi nascondevano il viso, impedendo all'angelo di scorgere la mia espressione, mentre fissavo assorta i miei piedi coperti dai calzini verdi sul tappeto color lavanda. 
"Quello che voglio dire Alice è: stai attenta e non fidarti di Iblis. Non mi sorprenderebbe se cercasse di nuovo di rubarti l'anima. Detto questo, ora vado, c'è un sacco di lavoro da fare!" concluse, uscendo dalla mia camera e chiudendosi la porta alle spalle. 
Indubbiamente, aveva intuito che la chiacchierata aveva sortito il suo effetto senza bisogno di dilungarsi oltre. 
Dopo qualche minuto decisi di muovermi e tornai ad accoccolarmi al centro del mio letto: stavolta, non fantasticavo su nessun bacio. Mi sentivo solo terribilmente triste e a pezzi. 

Il giardino inverosimilmente enorme che circondava la villa era strapieno di alberi vecchissimi, grandi e frondosi, che fungevano da nascondiglio perfetto: al riparo da occhi indiscreti, osservavo Alice. 
Se ne stava seduta sul tappeto al centro della camera che divideva con un'altro dei discendenti, una ragazzina magrissima e a dir poco anonima, coi capelli corti e troppo ordinati, per i miei gusti. 
Aveva messo un pigiama leggero, con la maglietta piena di piccole ciliegie e i pantaloncini a righe verticali, corti abbastanza da lasciar interamente nude le lunghe gambe bianche, incrociate. I capelli rosso scuro erano mossi in onde disordinate, come lingue di fuoco, attorno al viso un pò infantile e stranamente serio; anche i suoi occhi, verdi come il mare, sembravano cupi e tristi. 
Nonostante non riuscissi a non pensare a quanto fosse maledettamente bella, questa sua malinconia mi preoccupava e rendeva piuttosto irrequieto.
Portai la sigaretta alle labbra e aspirai il fumo, sentendo la gola bruciare, poi espirai. Avevo trovato il pacchetto nelle tasche dei miei jeans, ma non ricordavo assolutamente come ci fosse finito. Era semivuoto, perciò avevo deciso di darci il colpo di grazia per poi buttarlo, giusto perché altrimenti mi sembrava uno spreco. Non ero propriamente un fumatore accanito, ma talvolta avevo voglia di una sigaretta, un po' per capriccio, un po' perché qualunque brutto vizio era ben accetto, per me.
Vidi la discendente col caschetto scuro alzarsi e andare ad aprire la porta al nuovo venuto, probabilmente il terzo discendente. Staccai la schiena dal tronco, seguendo con gli occhi il ragazzone biondo fare il suo ingresso nella stanza e accomodarsi vicino ad Alice. 
Axel. 
Così lo chiamò la tipa bruna, Melinda. O Meringa. Non mi ricordavo il nome esatto al momento.
Questo Axel non mi piaceva proprio. Troppo amichevole con Alice, troppo simile a lei: entrambi discendenti di angeli, entrambi costretti a starsene giorni e giorni entro il perimetro della proprietà del vecchio pennuto, entrambi in pericolo e lontani da casa. E la moretta, Marisa, non era certo particolarmente invitante. 
Se fossi entrato nella testa del biondo e avessi dato un'occhiatina ai suoi pensieri, sicuramente lo avrei trovato alquanto interessato alle gambe nude di Alice, o alle sue labbra. 
Non potendo permettermi di farlo fuori, dopo le dovute torture, evitai di ficcanasare. Dovevo fare il bravo, per Alice.
Anche Maristella (Marina? Non mi veniva proprio in mente, accidenti!) si sedette a terra, di fronte agli altri due. 
Aguzzai l'orecchio, curioso di sentire qualcosa della loro conversazione.
"Oggi pomeriggio la pietra è diventata nera! Come ha fatto un demone a entrare? La zona è benedetta! E... Alice tu non eri nella Chiesa! Che fine avevi fatto?" esordì il ragazzo, sembrando molto preoccupato. 
Feci una smorfia: come se ci fosse il minimo rischio per Alice a stare con me. Idiota. E non era poi così difficile stare qui se si aveva resistenza, benedizione o meno. Era fastidioso, pizzicava un po', ma niente di insopportabile. Il vero ostacolo da superare erano le guardie, più che altro.
"Il demone che è entrato collabora con mio nonno, non è un rischio." rispose Alice, con voce atona. 
Non si era mai riferita a me in maniera così distaccata. Non riuscivo a capire cosa avesse: che mai poteva essere successo durante la mia assenza per turbarla così?
"Cosa? Demoni che collaborano?! Dici davvero?" squittì la brunetta, portando le mani alla bocca.
"Si. Ce ne sono parecchi." 
"E... tra di loro c'è anche quello che... beh ti... ti ha... rubato l'anima?" chiese cautamente Axel, guardandola incuriosito.
"...Si. Beh, in realtà è grazie a lui che abbiamo trovato rinforzi. Altrimenti, saremmo in svantaggio numerico piuttosto netto, da quanto ho capito." rispose Alice, restando sempre stranamente seria.
Il biondo la fissava a occhi sgranati:"E tu come fai a sapere tutte queste cose? Voglio dire, sei qui da meno di noi, eppure sei informatissima!" 
"Io faccio domande, Ax. E comunque, è stato il demone a dirmelo."
Lo aveva chiamato Ax. 
Mentre io ero il demone. 
Ci teneva proprio che lo facessi a pezzi, al coglione con l'abbronzatura.
"Allora non è detto che sia vero! I demoni sono bugiardi, scorretti e doppiogiochisti. Non c'è certo da fidarsi!" intervenne la tipa col caschetto, stringendo il cuscino al petto.
Molto bene. Duplice omicidio, stasera.
"Non credo mentisse." si limitò a dire Alice, senza pronunciare una sola parola in mia difesa. 
Cominciavo a sentirmi sinceramente offeso, ma d'altra parte potevo capire: un demone è pur sempre un demone. Che fosse diffidente, per quanto la cosa potesse non andarmi giù, era più che lecito; solo, non riuscivo a capire come mai proprio adesso.
"In ogni caso, dovresti stargli alla larga! Se cercasse di rubarti di nuovo l'anima?" disse Marlene, sporgendosi in avanti.
Avevo sentito più che abbastanza.
Con un gesto della mano spalancai le ante della finestra, spaventando i tre, che si voltarono a occhi sgranati. Mi trovarono appollaiato al davanzale dell finestra, ancora impossibilitato a entrare fintanto che qualcuno non mi avesse dato il permesso. Ignorai completamente i gridolini della ragazzina, come anche lo scatto di Axel, che si mise in piedi; guardavo Alice negli occhi, sorpresi ma anche più luminosi, adesso. Non le avevano ancora fatto il lavaggio del cervello completo, allora. 
"Si può sapere chi cazzo sei?!" urlò il biondo, così forte da spaccarmi un timpano. 
Insopportabile. 
Ogni volta che si trovavano in una situazione nuova o pericolosa, tutto ciò che riuscivano a fare gli umani era urlare come fottute scimmie impazzite. Resistetti a stento all'impulso di strappargli la lingua.
"Credo che se tu guardassi quell'aggeggio inutile e, aggiungerei, anche alquanto da checca che hai al polso, sapresti rispondere alla tua domanda quanto mai stupida. Se, invece, ma ne dubito, fossi interessato a conoscere il mio nome, mi chiamo Iblis. O Gabriel, se ti risulta più facile. Verrei a stringerti la mano, Ax, ma fintanto che non mi lasciate entrare non posso, temo."
Anche mentre rispondevo al biondo non avevo staccato gli occhi da Alice, sintonizzandomi col battito del suo cuore, ora leggermente agitato. Con la coda dell'occhio notai che Marlene si era rifugiata sul letto, raggomitolandosi sul cuscino:"Entrare qui? Scordatelo, demone maledetto!" 
"Per me va bene. Entra, dai."
La voce di Alice zittì gli altri due, che smisero subito di agitarsi e la fissarono allibiti. 
Visto che la camera era di fatto di Alice, i vincoli che mi tenevano fuori si dissolsero alle sue parole, e io potei infilarmi dentro e togliermi da quella scomoda posizione.
Nonostante il mio sguardo insistente l'avesse fatta arrossire fino alla punta dei capelli, percepivo che Alice era ancora rigida e si teneva bene a distanza da me; perciò decisi di non avvicinarmi a mia volta, per non mettermi ulteriormente nei guai.
"Sei arrabbiata con me?" le chiesi, a voce bassa.
Abbassò gli occhi, guardandosi le mani:"No."
Bugia. O mezza verità. In ogni caso, qualcosa non andava. Era frustrante costringermi a non leggerle la mente, ma mi aveva chiesto di non farlo, perciò dovevo andare a tentoni.
"Mmm... ok. Allora te la senti di venire con me?" proposi, infilando le mani in tasca.
Sollevò di scatto la testa, la fronte aggrottata:"Dove?"
Sorrisi:"Sorpresa."
"Alice non andare! Vuole farti del male!" intervenne Marlene, allungando una mano, ma decisa a non spostarsi dal suo angolino. 
La incenerii con lo sguardo:"Non voglio farle niente di niente, piccola idiota." sibilai, con la mezza idea di regalarle qualche incubo stanotte. 
Alice si alzò, tornando a essere il punto focale della mia attenzione, e mi si avvicinò di qualche passo. Il suo profumo mi avvolse, confondendomi.
"Vengo. E' lontano?"
"Non proprio." risposi, offrendole la mano. 
La guardò un istante, esitando, prima di stringerla nella sua.
"Tornerò tutta intera, non preoccupatevi."
"Aspetta! E noi cosa dovremmo dire a Gabriel?!" la bloccò Axel, chiaramente sconvolto da quello che vedeva. 
"La verità. Che sono fuori con Iblis." 


Angolo autrice 

Ciao a tutti coloro che sono arrivati alla fine del capitolo e hanno dato un'occhiatina a questa mia nota!
Innanzi tutto, grazie di cuore a tutti: grazie a chi legge la mia storia, a chi la segue, la recensisce e l'ha inserita tra le preferite o le ricordate. Probabilmente non avrei proseguito con lo stesso entusiasmo se non fosse stato per voi!
So che forse questo capitolo può sembrare quasi inutile, perché non ci sono grossi passi avanti nella ricerca dei demoni che vogliono aprire le Porte dell'Inferno, ma vi garantisco che invece è importante: è l'inizio di un passo avanti (o indietro? Chi lo sa!) della storia tra Alice e Gabriel e permetterà di conoscerli poi ancora meglio nei capitoli futuri!
Sul mio pc questo capitolo risulta di sette\otto pagine, e mi scuso se è un pò troppo lungo, ma spero non lo troviate noioso!
Un bacio, Deep 

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Capitolo 19
*** Posto sicuro ***


CAPITOLO 19


Non avevo nessuna idea di dove Gabriel mi stesse portando, inoltrandosi nei boschi che circondavano la proprietà del nonno a lunghe falcate, tanto che io dovevo quasi correre per stargli dietro. La sua mano stringeva saldamente la mia e io non riuscivo a staccare gli occhi dalle sue dita lunghe se non per sbirciare il terreno, preoccupata all'idea di inciampare su una radice o un qualche sasso particolarmente grande. 
Da quando eravamo usciti dalla mia stanza non aveva aperto bocca, e di questo gli ero grata: le parole di Cassandra erano impresse a fuoco nella mia mente e mi rendevano diffidente e impaurita nei confronti di Gabriel.
Ma dopo il pomeriggio appena trascorso non potevo certo troncare tutto così, da un minuto all'altro. Per quanto fossi vagamente spaventata e confusa, non potevo onestamente credere di non significare niente per Gabriel, e non ci avrei creduto fino a quando non avessi sentito uscire dalla sua bocca la frase: "Non conti niente per me, sei solo un gioco".
Non sapevo dove mi stesse portando o cosa volesse fare, ma al dubbio e al rimorso preferivo di gran lunga avere risposte, per quanto rischioso potesse essere ottenerle, per quanto dolorose potessero essere; non gli avrei mai consegnato una seconda volta la mia anima, per nessuna ragione al mondo, e se questo era il suo obiettivo di stanotte allora... avrebbe dovuto uccidermi. O catturarmi e tormentarmi. Mi andava bene, purché riuscissi ad ottenere le risposte che volevo e a risolvere le mie incertezze, che ora come ora erano più laceranti di qualsiasi tortura. 
Ero talmente assorta nei miei pensieri che non mi accorsi che Gabriel si era fermato, e gli finii addosso, rimanendo senza fiato all'impatto: il suo corpo era talmente solido che mi sembrò di schiantarmi contro una parete di cemento. 
"Tutto ok?" chiese, sbirciando nella mia direzione con un sopracciglio alzato e un mezzo sorriso.
Avvampai, come al solito, e annuii, mantenendo lo sguardo ostinatamente puntato sulle nostre mani.
Sapevo che se avessi incontrato i suoi occhi i miei neuroni se ne sarebbero andati a farsi friggere, e così tutti i miei buoni propositi, perciò evitai accuratamente di guardarlo in viso.
"Se sei sicura..." disse, prima di puntare il braccio libero di fronte a sè, sussurando qualcosa in una lingua a me assolutamente incomprensibile. Tesa come una corda di violino, fissai ad occhi spalancati gli alberi e l'erba davanti a noi, cercando di capire cosa dovesse succedere: ma l'aria rimase immobile e un gufo tubò indisturbato tra i rami.
Che Gabriel abbia fatto cilecca con l'incantesimo? O anatema o quello che è?
"Tsk... io non faccio mai cilecca, miss!" 
Mi voltai di scatto verso di lui, intenzionata a dirgliene quattro per la sua insopportabile mania di mancare di rispetto alla mia privacy, quando uno schiocco mi distrasse. Tornai a guardare avanti e rimasi senza fiato: a pochi passi da noi si era aperto una sorta di varco. 
Sembrava uno squarcio, dai contorni frastagliati e irregolari, come se Gabriel avesse preso un coltello e strappato la tela di un pittore dove era rappresentato il giardino del nonno. Oltre i lembi fluttuanti non riuscivo a distinguere nient'altro che oscurità, sibilante di un vento bollente che doveva soffiare dall'altro lato.
"Che... che cos'è?" chiesi, accennando un passo indietro.
"Questo è il mio Limbo, Alice. Prima le signore" sogghignò, facendo un ampio gesto di invito con la mano libera.
"E che diavolo sarebbe un Limbo? Non ci finiscono i non battezzati?"
Gabriel ridacchiò: "Quella è la versione di Dante Alighieri, miss. Non propriamente azzeccata, direi. Un Limbo è un luogo che si trova a metà tra l'al di qua e l'aldilà. A metà tra il mondo degli umani, l'Inferno e il Paradiso."
Lo fissai, sconvolta, per poi voltarmi nuovamente verso il varco.
"E che ci andiamo a fare nel Limbo?"
"Presta attenzione, il mio Limbo. Ogni demone può crearsene uno suo, così da avere un posto sicuro in cui andare quando il resto del mondo diventa troppo... soffocante. O se deve sparire dall circolazione per un po'. Personalmente, mi ci rifugio quando non ho voglia di far niente, nemmeno di pensare. Nessuno oltre me vi ha mai messo piede, fino ad ora."
Appena sentii quelle parole strinsi le labbra, tenendo lo sguardo basso per qualche minuto. 
"Non sei costretta a venire, se non vuoi..." sussurrò, lasciando la mia mano. 
Scossi la testa: "Lo so. Vengo. Ma c'è un pavimento qua dentro? No perché sai, non sembra proprio, e io non so volare!" 
"Tu no, ma io si."
"Cos..?" 
Non riuscii a finire la frase perché un corpo solido e scuro mi avvolse, trascinandomi all'interno di quella fessura dimensionale, lasciandomi poi andare dopo qualche istante, con delicatezza, e sparendo nel buio. 
Mi ritrovai immersa nell'oscurità, ma coi piedi saldamente piantati su qualcosa di solido, per fortuna. 
Il nero che mi circondava era così denso da impedirmi di distinguere qualunque qualcosa oltre il mio respiro, che si condensava stranamente in piccole nuvolette nonostante la temperatura fosse tutt'altro che bassa.
"Gabriel? Gabriel, dove sei? Non è divertente, vieni fuori! Non si vede niente qui!" urlai, con una voce talmente stridula da non sembrare nemmeno la mia. 
Di colpo delle luci si accesero, rischiarando l'ambiente in maniera tanto improvvisa e intensa che dovetti coprirmi gli occhi dal fastidio. 
Mi guardai intorno, spaesata. Mi trovavo in una camera molto spaziosa, dalle pareti color crema; il soffitto era interamente ricoperto da eleganti pannelli di legno lucido, il pavimento in parquet. In un caminetto in stile moderno scoppiettava allegro un fuoco, consumando la legna in tutta fretta. Appena di fronte al camino, poco lontano da me, c'era un divano molto invitante, rosso, affiancato da una poltroncina blu orientata a formare con esso un angolo retto. Sotto i miei piedi c'era un soffice tappeto riccamente decorato, dall'aria vagamente preziosa, tanto che mi preoccupai di rovinarlo con le mie scarpe. Appena oltre il divanetto, a qualche metro di distanza, un enorme letto matrimoniale faceva bella mostra di sé su una pedana rialzata, con le lenzuola chiare in netto contrasto con la base in legno nero. Delle lunghe tende porpora e crema coprivano la parete di fondo della stanza, lasciandomi intuire che dovesse esserci qualche altra camera più avanti, probabilmente il bagno e la cucina, o chissà che altro.
Era un luogo accogliente e rilassante, dove sarei venuta volentieri per staccare un po' la spina: ed era esattamente questa la ragione per cui Gabriel ci andava, a quanto aveva detto. 
Non appena il suo nome si formò nella mia mente, Gabriel comparve nella stanza, appoggiato al camino con le braccia incrociate sul petto. I suoi occhi arsero nei miei, e incontrarli mi provocò un piacevole brivido lungo la spina dorsale. Come al solito, arrossii fino alla punta dei capelli.
"Ehm... è carino, sai. Molto." cincischiai, non riuscendo a trovare niente di più intelligente da dire.
"Mmh." 
"Come... come mai non... ci fai venire nessuno?"
Sollevò un sopracciglio alla mia domanda, senza abbandonare la sua solita espressione arrogante. "Faccia da schiaffi", avrebbe detto mia madre.
"Perché non ho mai voluto nessuno qui dentro, prima d'ora." 
"Ah." 
Cosa? E' tutto quello che riesci a dire, accidenti?! Dio, sei proprio una  stupida!
"Cosa c'è che non va, Alice?"
Sussultai quando interruppe il filo dei miei pensieri: "Cosa? Non... non c'è nulla che non vada, è tutto ok. Niente, davvero!"
Sospirò: "Bugiarda."
"Ehi! Non sono una bugiarda! E smettila di leggermi nei pensieri!"
"Non sono nella tua mente, credimi. Non è necessario, si vede benissimo che menti. Alice... sei sulla difensiva, fredda e distante. Cosa c'è che non va? E' successo qualcosa? Ho fatto qualcosa?" chiese, staccandosi dal camino e avvicinandosi di qualche passo.
Io non sapevo da che parte cominciare, come dire quello che volevo dire. Insomma, mi aveva appena detto che ero la prima persona che avesse mai voluto portare nel suo Limbo, anche se lo aveva fatto in maniera implicita, e io ero venuta per sapere se gliene importasse davvero qualcosa di me. Mi sentivo così dannatamente stupida.
"Alice..."
"Ho parlato con Cassandra. O meglio, lei è venuta da me perché... perché Cameron ci aveva visti nella radura. E mi ha detto delle cose..." 
"Cosa?"
"Io..." non riuscivo a guardarlo negli occhi, tenevo lo sguardo ostinatamente puntato sui ricami del tappeto.
In un secondo, Gabriel mi fu davanti, vicinissimo, e mi sollevò il viso con la mano: "Cosa ti ha detto Cassandra, Alice?" ripetè, lentamente.
"Che mi stai ingannando. Che probabilmente vuoi la mia anima e nient'altro, e che lo sa con certezza dato che ti conosce bene. O almeno, meglio di quanto non ti conosca io, forse."
Nonostante mi avesse alzato il mento, continuavo a non guardarlo negli occhi, non ne avevo il coraggio.
Codarda! 
"...E tu le hai creduto?"
"No. Si. Cioè, non lo so. Mi hai promesso che non avresti mai più cercato di prenderti la mia anima, e io ci credo. Ma... alcune delle cose che ha detto... ecco, un po' le penso anche io."
Allontanò la mano dal mio viso e sospirò, di nuovo: "Ok, sediamoci e parliamone. In cosa concordi con lei?"
Sfiorandomi il gomito mi spinse verso il divano, dove mi sedetti con lui vicino. In qualche modo, trovai il coraggio di guardarlo in faccia: non sembrava arrabbiato nè offeso o infastidito. Aveva un'espressione assorta, concentrata, che non riuscii a interpretare.
"Ecco... tu sei un demone e... non conosco la tua storia, ma di certo non ti sarai comportato... 'bene', molto spesso."
"Diciamo pure che non mi sono 'comportato bene' mai, Alice. Si, è vero." 
"Già. Io pensavo che... non so, pensavo che forse adesso non ti importasse poi più di tanto cacciare anime o rubare cose o... insomma, che potessi cambiare un po' in questo senso, smettere di fare del male a persone innocenti. Ma Cassandra... ecco lei ritiene che i demoni non cambiano, che non possono."
Gabriel annuì impercettibilmente, con lo sguardo perso nel vuoto: "C'è altro?"
Esitai un momento prima di rispondere: "Si. Lei ha detto che i demoni non amano. Nel senso, non provano emozioni intense in generale, ma solo cose passeggere, passioni brevi. E che per questa ragione, probabilmente ti stai prendendo gioco di me. E io... ecco io mi chiedevo se fosse vero..."
"Che puttana." 
Sussultai: "Cosa?!"
Gabriel rise, scuotendo la testa, per poi voltarsi verso di me: "Pardòn, miss, mi è sfuggita. E poi, dicono che gli angeli sono buoni, innocenti e altruisti. Ah, senza parole, davvero!"
"Che vuoi dire?" chiesi, corrugando la fronte.
"Voglio dire che ha sparato un sacco di stronzate, Alice. Si, come ho già detto non sono stato esattamente un 'bravo ragazzo' in passato, ragionevolmente non lo sono nemmeno adesso, nè lo sarò mai. Per quel che vale, ci sto provando, sto provando a essere un po' meno scorretto ed egoista... per te. Avrei potuto portarti via non appena compreso il pericolo che stavi correndo, rinchiuderti qui con me fino a quando non fosse stato risolto e forse anche dopo, senza tenere conto dei tuoi sentimenti... credimi, ci ho pensato parecchio. Ma ho capito che non lo avresti voluto, che sarebbe stato sbagliato, assolutamente scorretto da parte mia; perciò non ho preso a calci nel culo quei quattro pennuti e sono rimasto per aiutare, perciò collaboro con gli angeli, con Gabriel. Perché era la 'cosa giusta' da fare, quello che tu avresti fatto al posto mio."
A ogni parola che pronunciava, mi sentivo sempre più in colpa, una completa idiota. Accidenti.
"E comunque, Cassandra ha mentito. Non sul mio passato, mi guardo bene dal dire una cosa del genere, ma sul fatto di cambiare. Un demone, Alice, è un Angelo Perduto: e una strada persa si può... ritrovare, se è ciò che si desidera. Non è raro che un demone torni a essere un angelo o viceversa, che un angelo si trasformi in un demone. Inutile dire che tuo nonno e i suoi compari sono sulla strada." 
Quasi mi cadde la mascella a quella rivelazione. Non potevo crederci: "Quindi tu potresti tornare a essere un angelo?" chiesi. Eppure, nell'esatto istante in cui pronunciai quelle parole, una parte di me si spaventò all'idea, mentre l'immagine di Iblis si sovrapponeva a quella terrificante di Cameron. Per assurdo che fosse, non volevo che questo accadesse.
"Teoricamente, si. Praticamente... Alice, sono sincero, non voglio. Gli angeli... beh è complesso da spiegare, ma ci provo. In Paradiso è diverso, molto diverso. Lì è tutto perfetto, lontano anni luce dal mondo umano e dalle sue incoerenze e sofferenze e lì gli angeli sono felici. Almeno a quanto so, lì sono veramente buoni e sereni, cullati in quel luogo da sogno, pieno di amore e gioia. Ma appena scendono nel mondo umano, il loro animo si corrompe e si macchia e gli angeli soffrono e perdono il senno perché sono lontani dalla bellezza che conoscevano; sai, una volta scesi fra gli umani non possono più tornare indietro, perciò sono così pochi gli Angeli Caduti. E' una condizione dura, perché spesso sono forzati a compiere azioni che li rendono peccatori, crudeli, oscuri, pur di proteggere le anime degli umani, e questo li consuma. Probabilmente Cassandra ha provato disgusto per se stessa quando ti ha mentito in quel modo; probabilmente, un giorno verrà a implorare il tuo perdono per ciò che ha fatto. Io sono figlio di demoni, non sono mai stato un angelo prima: per questa ragione, se ora cambiassi e mi trasformassi, non potrei mai varcare le Porte del Paradiso. Sarei costretto a vivere nella sofferenza, spezzato in due tra la mia natura e il mio dovere, con impresso nella mente il ricordo della libertà che ho avuto come demone, quando vivevo senza alcun rimorso, senza alcun disgusto verso me stesso, ma incapace di tollerare l'idea di vivere ancora nel peccato. Sarebbe orribile, credimi."
Rimasi in religioso silenzio per tutto il tempo, ascoltando con attenzione ogni sua parola, e continuai a non parlare anche dopo che aveva finito di spiegarsi, metabolizzando le informazioni che mi aveva dato. Nella mia fantasia, gli angeli erano creature delizione, perfette e delicate, che non conoscevano la sofferenza; i demoni, mostri senza cuore, costretti a odiare tutto e tutti e vivere in una condizione penosa e crudele. Ora mi rendevo conto che la realtà era profondamente diversa dall'immaginazione, ora capivo ogni singolo sguardo infinitamente triste del nonno. Mi scoprii a provare pena per lui.
"Per quanto riguarda i miei sentimenti, Cassandra non è stata onesta, di nuovo. Vedi Alice, ho letto spesso nella mente degli umani e siete molto... confusi, soprattutto sui sentimenti. Provate un milione di cose insieme, talvolta anche emozioni contrastanti tra loro nello stesso momento, e per questa ragione siete molto, molto incoerenti e spesso non riuscite a distinguere esattamente cosa provate per qualcosa o qualcuno. Per noi demoni è diverso. Noi sappiamo capire meglio cosa proviamo perché ne abbiamo una percezione incredibilmente più intensa, quasi stordente. Non so se si può definire amore o affetto quello che provo per te, non lo so perché non l'ho mai provato prima. So solo che è talmente forte che quando sono con te, non riesco a fare altro che concentrarmi su di te: calamiti la mia attenzione, i miei pensieri, i miei desideri e non riesco a essere lucido con te intorno."
Non mi guardò mentre parlava, e per qualche strana ragione pensai che fosse per timidezza, come se ammettere quello che provava per me lo imbarazzasse un po'. Il mio cuore batteva forte come un tamburo, cercando di balzare fuori dalla cassa toracica: andando avanti di questo passo, sarei svenuta con tutte queste rivelazioni.
Cercai di non andare in iperventilazione e intrecciai le dita alle sue, non trovando niente da dire che sembrasse quantomeno sensato, dato che la mia intelligenza era andata a farsi benedire.
"Beh, non hai niente da dire? Non mi credi?" mi incalzò, cercando di incontrare il mio sguardo sfuggente.
"No, no, io... ti credo. Davvero. E' che sono sorpresa, non mi aspettavo... "
"Non ti aspettavi tutta questa sincerità? Devo ammettere che ne sono sorpreso anche io, in effetti. Sono talmente incredibile che mi sbalordisco da solo, accidenti!" ridacchiò, palesemente soddisfatto di sè. 
Alzai gli occhi al cielo: "Non montarti la testa, hai solo fatto il tuo dovere!"
Mi guardò e ritrovai la sua solita espressione giocosa e provocatoria, di nuovo priva di tensione. Sospettai però che avesse in mente qualcosa, e mi venne la pelle d'oca al pensiero.
"Ah si? Avrei fatto il mio dovere eh... e senti un po', quando avresti intenzione di fare il tuo, miss?" sussurrò, avvicinandosi tanto che il mio naso adesso sfiorava il suo. L'ennesimo brivido mi percorse la schiena e il mio respiro accelerò, mentre il mio corpo si tendeva nel desiderio di un contatto con il suo. Non mi ero mai sentita così in tutta la mia vita, a parte forse poche ore prima, nella radura. 
"Che... che intendi dire?" borbottai, incapace di staccare gli occhi dalle sue labbra, che si tesero nel suo solito sorriso da Stregatto, scoprendo i denti bianchissimi.
"Che non sarebbe male se.." cominciò, baciandomi sulla guancia, pianissimo: "...riprendessimo..." proseguì, baciandomi l'angolo della bocca: "...da dove siamo stati interrotti, qualche ora fa." concluse, a un soffio dalle mie labbra.
A dire il vero, non so cosa mi prese in quel momento: non ero mai stata il tipo che prende l'iniziativa, men che meno con qualcuno che aveva molta più esperienza di me e che perciò era perfettamente padrone di sè in situazioni simili. Probabilmente, mi limitai a spegnere il cervello e basta. Gli infilai le dita fra i capelli, tirandoglieli un po', e lo strinsi a me, baciandolo con un'intensità di cui non mi credevo nemmeno capace. Evidentemente, nemmeno Gabriel se l'aspettava, perché perse l'equilibrio sbilanciando me indietro: affondai con le spalle nel divano, e il suo corpo premette contro il mio, regalandomi il contatto che tanto aspettavo e un sollievo istantaneo. La sua lingua scivolò tra le mie labbra, stuzzicando la mia, mentre le sue mani percorrevano il mio corpo dalla spalla, alla vita ai fianchi, giù fino alle ginocchia. Non riuscivo a pensare a niente, a malapena respiravo, troppo presa da tutte quelle sensazioni. Il suo corpo non mi pesava addosso, ma lo sentivo bollente contro il mio, e più il bacio andava avanti più si faceva profondo, e più volevo Gabriel vicino. Piegai le gambe e le avvolsi attorno ai suoi fianchi, accarezzandogli la schiena, percependo con chiarezza estrema ogni singolo muscolo guizzare sotto le mie dita.
Dio mio santissimo!
"Ah, maledizione!" sbottò, staccandosi di colpo.
Ero senza fiato e leggermente disorientata, ma in qualche modo riuscii a ricordarmi come si parla: "Cos.. cosa?"
"Dovresti smetterla di pronunciare quel nome, cazzo! Mi fa accapponare la pelle!"
"Ma di che cosa stai..." ma prima di concludere la frase, capii a cosa si riferiva  e scoppiai a ridere: "Così impari a leggermi nei pensieri!"
Sbuffò: "Ma a me piace farlo. Soprattutto quando sei così su di giri..." mi stuzzicò, lasciandomi una scia di baci umidi lungo la mascella e sul collo. Avvampai al pensiero di cosa potesse aver scovato nella mia testa pochi istanti prima. 
"Alice?"
"Si?"
"Che diavolo hai fatto al polso?" chiese, sollevandomi il braccio destro, dove la fasciatura copriva l'ustione che mi ero fatta oggi.
"Ah già... mi sono fatta male con quel ciondolo, oggi. Sarei dovuta filare nella cappella, ma sono rimasta con te..."
Mi guardò un istante, corrucciato, poi fece una smorfia: "Aggeggio inutile. Non metterlo più!" 
"E come faccio a sapere se devo scappare?" 
"Così." rispose, baciandomi la mano. Non appena lo fece, lingue nere la avvolsero, in sottili arabeschi complessi, un tatuaggio indelebile sulla mia pelle chiarissima.
"Che diavolo..."
"E' un incantesimo. Ti lega a questo posto, al mio Limbo. Ogni volta che ti sentirai in pericolo, o anche solo leggermente insicura, pensa a questo posto e ti troverai qui, al sicuro. Ok?"
Sorrisi: "Ok."
Ogni paura, ogni incertezza, era svanita. Ero in pericolo perché qualcuno voleva impossessarsi della mia anima, ero nei guai perché ero sparita con un demone senza curarmi delle regole del nonno, ero confusa perché non avevo mai provato emozioni così intense. Ma lì, su quel divano, tra le braccia del mio Iblis, io ero al sicuro. 

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