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di Leopoldo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** WMHS ***
Capitolo 3: *** Il Passato non è mai passato ***
Capitolo 4: *** A tutti piace il football ***
Capitolo 5: *** Tutta la Verità, nient'altro che la Verità ***
Capitolo 6: *** Un'illusoria parvenza di normalità ***
Capitolo 7: *** Prime impressioni ***
Capitolo 8: *** Il mio lavoro ***
Capitolo 9: *** Il mio ringraziamento. Pt 1. ***
Capitolo 10: *** Il mio ringraziamento. Pt 2. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Prologo.

 

Silenzio.

Ultimamente ce n’è tanto nella sua vita, eppure non è mai stato un tipo particolarmente quieto o di poche parole.

Ha sempre pensato che i vuoti che si creano durante una chiacchierata debbano essere riempiti ad ogni costo, rischiando anche di sembrare idioti, perché nulla è peggio del silenzio. Eppure …

 

“Non sei molto loquace, oggi”

 

Sposta i suoi occhi nocciola dal muro anonimo dell’ufficio in cui è seduto per fissarli in quelli del suo interlocutore.

“Beh, stamattina mi sono svegliato e mi sono reso conto di essere molto filosofico” mormora abbozzando un sorriso, afferrando la targhetta dorata appoggiata alla scrivania e iniziando a tracciare i contorni del nome. LT. Cooter Menkins, Psicologo.

 

“Ah sì? Sentiamo, perché pensi di esserlo?”

 

“Lei, dottore, è come una puttana. Solo che al posto di essere pagato per scopare gli sfigati che non riescono a trovare una donna vera, viene pagato per stare a sentire quelli che vanno giù di testa, come me” conclude, riappoggiando la targhetta al proprio posto. “È o non è un pensiero altamente filosofico?”

 

L’uomo scuote appena il capo, facendo dondolare la penna tra il pollice e l’indice. “Questa è una perla, te lo devo concedere”

 

Ridacchia, grattandosi la nuca. “La può usare, se vuole. Ne ho delle migliori da parte”

 

“Preferirei …” mormora, prendendo il suo fascicolo “… sapere come hai dormito stanotte”

 

“Sono andato a letto dopo le undici, non ricordo esattamente l’ora, e mi sono svegliato qualche minuto prima della sveglia che avevo puntato alle otto e venti” risponde con  sincerità, mentre il dottore annota.

 

“Nove ore di sonno. Molto bene. Direi che hai riacquistato il tuo normale ritmo biologico”

 

Annuisce distrattamente, evitando con estrema accuratezza anche solo di pensare a come fosse disperata la situazione appena tre mesi fa, quando nove ore di sonno le accumulava forse in una settimana.

 

“Hai avuto incubi, stanotte?”

 

“No, dottore. Altrimenti l’avrei chiamata”

 

“Bene” mormora scrivendo anche questa risposta. “Hai avuto attacchi di panico o di rabbia, improvvisi black-out, stati confusionali o flashback ieri pomeriggio, ieri sera e questa mattina?”

 

“No” risponde con sicurezza. “Anzi, aspetti un secondo. Ho avuto un leggero attacco di panico quando ho visto che hanno sostituito Liz con quel imbrattacarte occhialuto” ridacchia, indicando con il pollice la porta alle sue spalle.

 

Noah, sii serio, per favore”

 

“Non si può neanche più scherzare” borbotta a denti stretti, sbuffando prima di rimettersi seduto in maniera composta. “Non ho manifestato alcuno dei disturbi che ha elencato, né ieri né oggi né nelle ultime settimane”

 

“Magnifico” si concede l’uomo, poggiando subito dopo la penna per guardare il paziente negli occhi. “Se ti dicessi che ti ritengo idoneo a tornare alla vita civile, tu cosa risponderesti?

 

Noah appoggia una mano sulla bocca, picchiettando l’indice sulla punta del naso.

“Sono sinceramente sorpreso” riflette ad alta voce, cercando di non tradire il proprio stato d’animo con tremolii della voce o smorfie del volto. “Però mi sento davvero bene, molto meglio di come sono stato negli ultimi anni a dirle la verità”

 

“Hai il sentore di essere di essere migliorato e lo pensi realmente” nota lo psicologo, piacevolmente stupito. “Cosa ti disturba?”

 

Sorride, muovendo la testa avanti e indietro come se stesse annuendo. “Lei è la prima persona che riesce a capire sempre cosa mi passa per la testa. La prima” ridacchia appena, scuotendo il capo. “È triste, non trova?”

 

“Sto facendo il mio lavoro. Il fatto che riesca a capire i miei pazienti è basilare” risponde in tono conciliante. “Tuttavia vorrei che rispondessi alla domanda. Cosa ti disturba?”

 

“Non … non sono sicuro di avere ancora una famiglia … o un posto dove andare”

 

Il dottore chiude la cartella, cercando di risultare il più amichevole possibile. “Per quel poco che so della tua esperienza familiare, non mi sento di esprimere giudizi. Considerando l’esperienza generale della mia lunga carriera, invece, mi sento di assicurarti che la paura di tornare a casa c’è sempre e che nella maggior parte dei casi loro ti stanno aspettando a braccia aperte”

 

Rimane fermo a fissare gli scarponi che indossa per qualche istante, cercando di metabolizzare la cosa. La sua esperienza familiare fa schifo, ecco perché non ha intenzione di esprimere giudizi.

“Forse ha ragione lei” esala, nemmeno troppo convinto.

 

Il dottor Menkins rimugina attentamente. Fa questo mestiere da troppo tempo per non sapere che, dietro a quegli esoscheletri di muscoli e rabbia e a quelle facce da killer, si nascondono ragazzi profondamente fragili.

“Possiamo aspettare una settimana ancora, se preferisci prenderti del tempo per pensare”

 

Nah … la faccenda rimane la stessa, sia che me ne vada ora che mi metta ad aspettare. E poi, se lo lasci dire, la sua faccia e Fort Benning mi hanno davvero rotto i coglioni”

 

L’uomo si gratta l’accenno di barba, sorridendo divertito. “Professionalmente parlando sono molto soddisfatto del tuo percorso di recupero. Personalmente parlando, credo che mi mancheranno le tue … perle

 

“Quando me le pubblicheranno gliene manderò una copia autografata”

 

Cooter ride di gusto, scribacchiando qualcosa sulla cartella e apponendovi un timbro. “Ora sei ufficialmente un soggetto recuperato e il tuo congedo permanente inizierà domani mattina”

 

Noah si mette sull’attenti all’improvviso, facendo il saluto. E per una volta è estremamente serio. “Grazie di tutto, Tenente Menkins”

 

Il dottore rimane basito per un attimo prima di rispondere al saluto. “Se mai avrai ancora una reminescenza dei tuoi disturbi, non esitare a chiamare”

 

Alza la mano a mo’ di ulteriore saluto quando ormai è già fuori dalla stanza. Getta un’occhiata sfuggente agli altri soldati presenti in sala d’attesa e, per un attimo, nei loro occhi rivede ciò che è stato. Un fantasma.

 

Deglutisce a vuoto, infilando all’istante Ray-Ban da sole e berretto color sabbia.

Vedendo quegli sguardi persi nel vuoto, quei volti scavati e quei corpi tesi e nervosi, improvvisamente il ritorno a casa fa un po’ meno paura. Perché la parte difficile, quella davvero tosta, ormai è alle spalle.

 

E se tutto andrà finalmente come deve andare, Noah Puckerman non dovrà indossare mai più la divisa dell’esercito degli Stati Uniti in vita sua.

 

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Iniziare a lavorare come supplente è sempre un compito arduo.

 

Innanzitutto, hai tra le mani un contratto a tempo della durata stimata intorno al ‘boh, magari un mese, magari due’. Certezze economiche? Garanzie lavorative? Che diavolo significa?

 

In secondo luogo, se sei è alle prese con uno dei primi lavori tutti si sentono in diritto di metterti i piedi in testa. Gli studenti sanno che hai il potere di una formica di fronte ad una lente d’ingrandimento ed un bambino dispettoso in un giorno di caldo afoso, i professori sanno che non puoi opporti e richiedono favori a nastro, favori che ovviamente non puoi permetterti di rifiutare per la speranza di fare bella impressione.

 

Inoltre, se hai la sfiga di essere una bella donna –o un bell’uomo, ma non è questo il caso e generalmente per i maschi è sempre più facile– le battutine e gli sguardi degli studenti sono nulla in confronto all’indivia delle arpie con la cattedra fissa e alle allusioni dei colleghi uomini.

 

Quinn Fabray, in un ipotetico diagramma di Eulero-Venn della questione, sarebbe l’incrocio perfetto dei tre gruppi sopracitati.

Bisogna però dire che essere ignorata dal resto degli insegnanti donne, alla resa dei conti, non le dispiace più di tanto.

 

Ama mangiare in silenzio, anche se sarebbe più corretto dire che è un tipo di persona che apprezza la quiete in generale, perché le dà la possibilità di fare la cosa che preferisce: leggere. In particolare, ultimamente è in fissa con Paulo Coelho.

L’anno scolastico è iniziato da soli due giorni ed ha già divorato ‘L’alchimista’. Un altro mese di pause pranzo così e avrà finito la pila di libri mai iniziati che giace nella sua libreria.

 

“Scusami?”

 

Solleva lo sguardo dal libro che tiene appoggiato davanti a sé, sperando ardentemente che a chiunque appartenga quella voce particolarmente bassa e profonda non abbia intenzione di chiederle di uscire per approfondire ‘lo scambio’ tra materie scolastiche. È già successo, sì.

 

“Ciao, sono Ken Tanaka, coach della squadra di football e durante l’inverno anche di quella di basket”

 

È bloccata. Non riesce a muovere un muscolo. Perché quel bestione sovrappeso con una maglietta attillata che mette in evidenza la pancia, pantaloncini da ginnastica lunghi fino a metà coscia e i calzettoni lunghi indossa un cavolo di marsupio! Un m-a-r-s-u-p-i-o. Oh Dei.  

“Q-quinn … Quinn Fabray” balbetta, accorgendosi che il silenzio dura da troppo tempo.

 

“Sei la supplente di letteratura, vero?” ammicca –oh Dei, lo sta facendo– appoggiando il piede su una delle sedie libere per –oh Dei, oh Dei, oh Dei– mettere in evidenza il marsupio.

 

“Spero di no” si lascia scappare. Stringe le labbra subito dopo, sperando di non esserci andata troppo pesante. Quando lo vede ridere per quella che non è stata assolutamente una battuta, si trova a pentirsi di non aver davvero osato troppo.

 

“Sembri simpatica, bene. Ti rivelerò un segreto” sussurra piegando il busto verso di lei e facendole segno con l’indice di fare altrettanto. Ovviamente lei non si sposta di una virgola, anzi, si sposta leggermente all’indietro nel tentativo di allontanarsi, ma l’uomo non sembra notalo. “Qui dentro non ci sono molte persone simpatiche, sono praticamente tutti dei vecchiacci ad un passo dalla pensione. O dalla morte, dipende”

 

“Grazie per l’informazione” sorride, o almeno nei suoi intenti dovrebbe essere così. Ancora una volta, non appena Ken Tanaka il coach ride, non riesce ad impedirsi di auto-maledirsi per essere sempre così gentile con tutti. Dovrebbe essere più cattiva, Santana glielo dice sempre.

 

“Allora, miss supplente …” le fa credendo di essere simpatico, infilando i pollici –oh Dei, perché?!– nell’elastico dei pantaloncini “… da quanto tempo sei a Lima?”

 

“Un paio di settimane”

Non dovrebbe essere prevenuta nei suoi confronti, no? Magari vuole fare solo conversazione ed è completamente diverso dal professor Hall di fisica, dal professor Taylor di educazione civica o da tutti gli altri insegnanti che l’hanno approcciata in questa e nell’altra scuola dove ha insegnato. Giusto?

 

“Potrei farti da guida per la città”

Sbagliato.

 

“Ti ringrazio ma Lima non mi sembra così grande da aver bisogno di un guida” sbotta, un tantino più acida di quanto non volesse esserlo. È solo che a volte è davvero snervante.

 

“Oh. Sì … chiaro, bene. Lo capisco”

 

Dannati sensi di colpa.

“E poi devo ancora finire di sballare di scatoloni” aggiunge, sorridendo per davvero stavolta, tentando di addolcire il tono.

 

“Hai bisogno di una mano? Ho braccia piuttosto forti che-”

 

“No, grazie” lo gela, secca e schietta. Santana sì che in questo momento sarebbe fiera di lei.

 

Finalmente coach Ken pare afferrare il concetto e si congeda con un borbottio che sembra un ‘Ciao’ ma potrebbe anche non esserlo, permettendo a Quinn di leggere il libro e dedicarsi al pranzo, un magnifico sandwich con bacon, una sottiletta di cheddar e foglie di lattuga che non servono a nulla, se non farla sentire un po’ meno in colpa verso il suo stomaco.

 

Forse è stata troppo dura, prevenuta e sì, pure stronza, nei confronti di un uomo che sembrava solo voler essere gentile con lei. Perché era solo apparenza, è piuttosto chiaro. Come si può ignorare quello che non ha detto ma si capiva benissimo dal suo sguardo, dal suo tono e dai suoi –oh Dei, li sognerà sicuramente stanotte– ammiccamenti? 

A sua parziale discolpa, questo almeno ha provato a fare finta per i primi due secondi.

 

La verità è che certe volte le persone infantili non si nascondono tra gli studenti, bensì nel corpo docenti. E per una volta non le dispiacerebbe trovare un collega o una collega con cui riuscire ad andare d’accordo, anche solo per i pochi mesi del suo contratto da supplente.

 

Pochi mesi, già. Perché a Natale poi potrebbe trovarsi nella condizione di doversi spostare e cambiare casa di nuovo, è una situazione tutt’altro che impossibile. Però è questa la vita che si è scelta, l’ha voluta esattamente così in ogni singola sfaccettatura, non può lamentarsi.

Può solo sperare di avere fortuna e trovare persone diverse da quello che ha incontrato fin’ora. Anche se, viste le premesse, sembra davvero una gara in salita. 

 

 

 

Note dell'autore: 

Eccoci qui, la mia prima long -nessuno l'aveva chiesta, lo so. Non ho idea di quanto sarà lunga in termini di capitoli anche ho già preparato la scaletta con gli avvenimenti principali. Ci sarà da sudare, però, questo ve lo posso anticipare.

 

Quinn e Puck, già. Non lasciatevi ingannare, però. Mano a mano che si andrà avanti con la storia, entreranno in gioco altri personaggi. Non sarà una storia limitata solamente a loro due, diciamo. E ci saranno un paio di sorprese.

 

Il rating è arancione per sicurezza. Alcune tematiche, soprattutto quelle di Noah, sono un po’ forti e anche il linguaggio non è proprio da docente di Yale, ecco.

 

Che altro dire? Direi basta.

Se qualcuno ha domande, appunti, consigli, critiche, correzioni, insulti o qualsiasi altra cosa non esiti a chiedere, anche solo per posta privata. Fatemi sapere se vale la pena continuare o meno perché mi sta prendendo.

 

Al prossimo capitolo, che è già pronto, sarà molto più lungo del prologo ed è solo da sistemare. Direi intorno al giovedì della prossima settimana, giorno più giorno meno.

Grazie a chiunque leggerà!

Pace. 

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Capitolo 2
*** WMHS ***


Capitolo 1. McKinley High School.

 

Su una scala di valutazione crescente da uno a dieci, Quinn porrebbe le sue prime due settimane da insegnante del liceo McKinley sulla tacca dell’otto, ovvero molto più vicino a quanto mai avrebbe sperato di sognare che a quanto si sarebbe aspettata.

 

Molto di questo fortunato inizio dipende dal fatto che la professoressa di cui ha preso momentaneamente il posto si occupa di insegnare Letteratura solo ai freshman (primo anno) e ai sophomore (secondo anno), i quali, se paragonati ai terribili junior e senior che si vedono ciondolare nei corridoi con l’aria di chi ce l’ha con il mondo, sono le creature più docili del mondo.

 

Dopo le prime fasi di studio reciproco, la giovane insegnante ha potuto iniziare tranquillamente il programma lasciatole dalla titolare della cattedra, riscontrando tra i suoi allievi non solo un inaspettato silenzio, quanto un notevole livello di attenzione.  

 

 

“… e questi sono gli autori di cui parleremo nei prossimi mesi” conclude, appoggiando il pennarello sulla cattedra e sorridendo genuinamente notando come tutti stiano copiando dalla lavagna ancora prima che possa dir loro di farlo. “Sappiate che la prima valutazione dell’anno verterà su una ricerca su uno di questi, quindi se volete già iniziare a cercare qualcosa per conto vostro siete liberi di farlo”

 

Una mano si alza di scatto. È di una ragazza mora con la frangetta che Quinn ha già identificato come ‘quella che pensa solo ai voti’. È brutto schematizzare gli studenti secondo modelli di comportamento predefiniti ma è una tecnica che spesso si rivela azzeccata.

“Dimmi pure, Mary”

 

“Volevo sapere se dovremo fare tutti la ricerca sullo stesso autore o se ognuno può scegliere quello che preferisce” squittisce con l’aria più seria di quanto i suoi sedici anni al massimo le consentano.

 

“Sarete liberissimi di scegliere l’autore che vi piacerà di più” sorride alla classe, facendo scattare di nuovo la corsa all’appunto. “E saranno ricerche individuali, così avrò modo di farmi una bella idea su ciascuno di voi e lavorerete tutti allo stesso modo. O almeno si spera” aggiunge, ottenendo qualche risatina e qualche timido ‘Cavolo’ dal fondo della classe.

 

“Altre domande?” chiede, attendendo pazientemente che tutti facciano no con la testa. “Direi che ormai …”

 Con precisione assolutamente non voluta ma comunque chirurgica la campanella di fine ora suona esattamente in questo momento.

“… la lezione è finita. Ci vediamo dopodomani”

 

Afferra dalla cattedra il cancellino e inizia a pulire la lavagna. Non ha più lezioni oggi ma in questo modo si porta avanti per il giorno seguente, visto che, come ha potuto constatare, i bidelli devono avere qualche problema al collo che impedisce loro di alzare la testa. Non si spiega altrimenti il fatto che si limitino a pulire i pavimenti, lasciando così com’è tutto ciò che si trova più in alto di cinque centimetri.

 

“Posso parlare un secondo, professoressa Fabray?”

 

Scatta come una molla, voltandosi talmente in fretta da rischiare uno strappo alla schiena. Non è una reazione esagerata, no, figuratevi. È che attende la prima domanda dopo una sua lezione da così tanto tempo –insegna da un anno e due settiamanei, eh– che è quasi tentata dal mettersi a piangere.

“Sì?” sussurra, sull’orlo della commozione, alla ragazza con chioma bionda raccolta in una coda e la divisa rossa e bianca delle Cheerios, le cheerleader della scuola, ferma davanti alla cattedra. “Hai una domanda, Stacey?” chiede tornando calma, facendo sfoggio della sua notevole memoria.

 

“Volevo chiederle se … ecco, sarebbe disposta a dare la sua disponibilità per la creazione di un club del libro come attività extrascolastica”

 

Quinn aggrotta le sopracciglia, spiazzata, appoggiando una mano sulla cattedra. “Beh, non saprei come aiutarti” ammette sinceramente.

 

“Deve solo …” farfuglia la giovane, tirando fuori un foglio dal quaderno firmato ‘Cheerios’ che tiene premuto al petto “… mettere la firma qui. Abbiamo solo bisogno di un prof. che faccia da responsabile”

 

Come potrebbe dire di no ad una richiesta del genere? Proprio lei, poi.

Prende il foglio dalle mani della cheerleader ed inizia a leggerlo attentamente, sperando di non fare la figura dell’incapace visto che è la prima volta che si trova in una situazione del genere.

“In cosa consiste il ruolo di responsabile, esattamente?”

 

“Deve solo mettere la firma e portare la richiesta al preside Figgins” risponde Stacey in tono particolarmente entusiasta. “Non deve venire a scuola delle ore in più, non deve correggere compiti o scrivere verbali sui nostri incontri. Nulla, ci basta solo la sua firma”

 

“Sembra una cosa alla mia portata” scherza, facendo sorridere la ragazza. “L’unico problema potrebbe derivare dal fatto che sono una semplice sostituta. Dovrei parlare con il preside”

 

“Io e le altre gliene saremmo eternamente grate!” esclama addirittura con un piccolo saltello di gioia.

 

“Che entusiasmo”

 

Stacey abbassa lo sguardo mentre le guancie le si imporporano appena di rosso. “È che … sì, insomma, ci abbiamo provato tutto l’anno scorso a convincere la professoressa May e lei ha sempre detto no”

 

“Come mai? Insomma, non mi sembra una richiesta così esagerata” chiede, incuriosita dalla faccenda.

 

La ragazza si guarda intorno per vedere che non ci sia nessuno, si avvicina alla professoressa e bisbiglia “Discriminazione sociale”

 

“Discriminazione … sociale?”

Il suo famoso sopracciglio sinistro si solleva in automatico. È dotato di vita propria, non può farci nulla.

 

“Il fatto è che molte delle ragazze che vogliono partecipare sono Cheerios … cioè cheerleader …” spiega un po’ avvilita “… e secondo la May useremmo la classe che la scuola metterebbe a disposizione solo per fare le nostre ‘cose da oche giulive’” dice virgolettando con la mano libera l’ultima parte del discorso.

 

“Oche giulive sa molto di professoressa May, in effetti” mormora assorta Quinn, ripensando ai brevi ma intensi dialoghi avuti con la donna, mentre Stacey annuisce grata.

 

“La verità è che molte di noi vorrebbero andare al college e studiare liberal arts” riprende la ragazza, sempre più avvilita. “Solo che … ecco, ci hanno detto che in molti istituti guardano la provenienza dei crediti liceali e così ci servono tante attività extrascolastiche in campo umanistico”

 

“Giornalino scolastico, dibattito, club del libro, questo genere di cose in pratica” elenca la professoressa facendola annuire ancora. “E tu cosa vorresti studiare al college?”

 

“Giornalismo”

 

C’è qualcosa in Quinn di diverso da buona parte delle altre donne venticinquenni, un’anima profondamente materna e sensibile che non riesce davvero a resistere ad un luccichio ed un sorriso così appassionato.

“In teoria ora dovrei andare a casa. Però … beh, al momento a casa non devo fare nulla quindi direi che posso approfittarne per andare a parlare dal preside Figgins”

 

“Davvero lo farebbe?”

 

“Certo. Da professoressa di letteratura, seppur temporanea, non posso che incentivare la diffusione della lettura tra i miei studenti” sorride per quella che sarà la centesima volta negli ultimi dieci minuti. “Solo a condizione di poter partecipare anche io, di tanto in tanto, se e quando avrò dei pomeriggi liberi”

 

“Certo!”

 

“Bene” sorride –sembra che non possa fare altro, ma è solo l’effetto della prima volta in cui un suo studente le chiede qualcosa. Guarda poi l’orologio, accorgendosi di quanto sia effettivamente tardi. “Non vorrei fare la maestrina, ma non credi di essere in ritardo mostruoso per la prossima ora?”

 

Stacey vola via alla velocità della luce, lasciandosi dietro una scia di “Accidenti!” misti a “Grazie mille!”

 

Per un attimo Quinn è stata tentata dal temporeggiare e chiedere a qualcuno dei suoi colleghi un’opinione in merito alla faccenda prima di parlare con il preside perché, nonostante l’innocenza e la purezza di questa ragazza, se un’insegnante che lavora qui da anni come la May sospetta qualcosa sarebbe da incoscienti ignorarla.

 

Però ora, dopo il colpo di genio del ‘partecipare di tanto in tanto’, è piuttosto sicura di poter tenere la faccenda sotto controllo.

Inoltre anche lei è stata cheerleader ai tempi, anzi capo-cheerleader, e la cosa della discriminazione sociale è vera. Per ciò che ha potuto provare sulla sua pelle, se indossi una divisa e dici di voler studiare per diventare professoressa la maggior parte delle volte ti becchi occhiate scettiche e, nel resto dei casi, delle risatine ironiche.

Perché le persone, soprattutto al liceo, non guardano chi c’è dentro alla divisa, la loro attenzione è attirata solo dall’armatura. E se hai i pompon allora sei di certo stupida.

 

Infila le cose nella tracolla di cuoio che le ha regalato la madre il giorno della laurea, tenendo il foglio di Stacey tra le mani, e si mette in marcia verso l’ufficio del preside.

 

Arrivata sulla soglia rimane un attimo imbambolata, guardando alternativamente alla sua destra e alla sua sinistra.

La sua memoria su nomi, volti e caratteri delle persone sarà pure eccezionale, ma il suo senso dell’orientamento non lo è nemmeno per sogno.

 

Alla fine opta per andare a sinistra, anche perché è piuttosto sicura che a destra ci sia la sala insegnanti, ed approfitta del vuoto nel corridoio per leggere di nuovo la lista delle persone che parteciperanno al club del libro.

Sorride scorgendo il nome Stacey Evans sotto alla dicitura ‘Presidente/Presidentessa’. È decisamente furba, la signorina.

 

Sta per scorrere la lista dei nomi dei partecipanti –a quanto può leggere, ne servono almeno cinque per aprire il club– per vedere se effettivamente siano tutte femmine, quando un rumore di passi diverso da quello dei suoi scarponcini le fa alzare lo sguardo dal foglio.

 

Ed i suoi occhi, un particolare miscuglio di marrone chiaro e verde, incrociano un uomo, anzi un marcantonio con tanto di cresta da ultimo dei Moicani in testa, intento a sistemarsi un cartellino sulla giacca di pelle.

 

Non appena il lui si accorge di essere osservato sposta istantaneamente la sua attenzione sulla giovane professoressa, sorridendo in una maniera così maliziosa che non può essere fraintesa.

 

Quinn distoglie lo sguardo arrossendo vistosamente, aumentando il passo e passandogli accanto più veloce che può, profondamente a disagio per la certezza che lui la stia ancora fissando.

 

Non smette di camminare speditamente nemmeno voltato l’angolo, finendo per ritrovarsi in maniera del tutto casuale davanti alla presidenza.

Solo a questo punto si volta all’indietro, trovando il corridoio ovviamente deserto. Si porta una mano sulla guancia ancora calda, cercando di capire chi diavolo potesse essere quel tizio.

 

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Lima è praticamente la stessa di com’era quando se n’era andato in Georgia.

Ecco, forse è meno trafficata e un po’ più abbandonata a sé stessa di un tempo, ma per una cittadina con poche attività ad alto impiego la crisi potrebbe essere stata un motivo sufficiente di spopolamento.

 

Il clima, se possibile, è persino peggiorato. È a Lima da una settimana e, nonostante sia appena la prima metà di Settembre, non ha ancora beccato un singolo giorno di sole. Niente, nemmeno dieci minuti di cielo sereno. Nuvole o pioggia, ecco cos’ha da offrire questo buco di città per il suo grande ritorno.

 

Ritorno, poi … può essere chiamato ritorno alloggiare una settimana in un motel uscendo dalla propria camera solo per mangiare?

 

La verità è che arrivare in Ohio e nella sua città natale è stato semplice, farsi vedere dalla ‘sua famiglia’ non così tanto.

Troppe cose sono in ballo, molte dei quali lo spaventano da morire.

Primo fra tutti, come potrebbe reagire sua sorella minore, l’unica con cui ha sempre cercato di rimanere in contatto con ogni mezzo possibile?

È spiegare il vero motivo per cui abbia finalmente deciso di tornare la parte che più lo terrorizza.

 

Dalla paura è passato poi ad avere attacchi di ansia e panico, uno dei quali così grave da costringerlo a chiamare il Dottor Menkins.

 

 

Ora, però, è pronto. O meglio, è abbastanza sicuro di esserlo. Almeno per quanto riguarda sua sorella. Gli altri invece … loro non è per niente intenzionato a vederli, non ancora.

 

Per questo ha deciso di incontrarla nell’unico posto in cui nessuno di loro potrebbe interromperli. Il McKinley, il suo vecchio e caro liceo.

Se solo i suoi muri potessero parlare …

 

Attraversa il parcheggio con calma, godendosi appieno quel senso di nostalgia che lo assale incontrollato. Ah, quante sveltine, quante risse e quanti secchioni gettati nell’immondizia!

 

Ecco, il liceo è una di quelle poche cose di Lima di cui è felice non sia cambiato nulla.

 

Sale i gradini che portano all’ingresso, sfiorando con le dita il freddo metallo del poggia-mano.

È addirittura costretto ad aggiustarsi gli occhiali da vista che gli ha prescritto l’altro medico per cercare un modo di trattenere la commozione mentre varca l’ingresso.

 

A sinistra ci sono le aule per i club e i laboratori di scienze e chimica; lungo il corridoio centrale ci sono le aule ‘normali’ e, sul fondo, la strada per gli spogliatoi, la palestra e l’accesso al campo da football; a destra gli uffici amministrativi, la mensa e la sala insegnanti.

“Non è cambiato nulla” mormora sorridente, gustandosi il piacere di quell’odore simile a varichina con un pizzico di plastica bruciata che si alza dai pavimenti e il mormorio degli studenti e dei professori che esce dalle classi.

 

“Posso aiutarti?”

 

Effettivamente non è proprio tutto uguale. “Una volta la segreteria non era vicino alla presidenza?” chiede avvicinandosi alla specie di sportello con vetro antiproiettile delle banche da cui proviene la voce che l’ha richiamato sull’attenti. “Che mi venga un accidenti! Becky Jackson!” esclama sorpreso, riconoscendo nella ragazza la giovane affetta da sindrome di Down da cui copiava i compiti di matematica.

 

“Se non sei uno studente, un insegnante o un membro del personale non puoi stare qui” ribatte lei, smorzandogli l’entusiasmo, ligia al dovere già quando era più piccola.

 

D’accordo, d’accordo, ho capito l’antifona” sbuffa prendendo il portafogli dalla tasca posteriori dei jeans e porgendole la patente. “Sono Noah Puckerman, un ex studente che tra l’altro conosci benissimo. Sono venuto qui per parlare con mia sorella”

 

Becky analizza attentamente il documento, poi confronta la foto con il volto di Puck e, per finire, inizia a pigiare tasti sulla tastiera del computer che ha al suo fianco.

“Risulta un Noah Wayne Puckerman tra gli ex studenti. Sei tu?”

 

“Esattamente”

Con notevole presenza di spirito si trattiene dal commentare o fare le sue solite battute cafone perché sa bene che gli costerebbero automaticamente la possibilità di entrare.

 

“Allora devi metterti questo …” gli fa porgendogli la patente e un cartellino con scritto ‘Visitor’ “… e devi tenerlo sempre in bella vista”

 

“Agli ordini, generale Jackson

Rimette la patente nel portafoglio e questi nella tasca, cercando anche un posto non troppo fastidioso dove appendere il cartellino.

 

“Tua sorella sta facendo algebra in questo momento. L’aula si trova-”

 

“L’ultima aula prima degli spogliatoi” la interrompe, facendo tintinnare il metallo del cartellino tra le dita. “Non ci sono stato spesso ma lo ricordo lo stesso”

 

“Puckerman?” lo richiama quando ormai lui si è già voltato.

 

“Eh?”

 

“Sei diventato un bel pezzo di manzo” gli fa Becky con un occhiolino.

 

“Lo sono sempre stato” ribatte sornione, alzando poi la mano per salutarla prima di infilarsi nel corridoio centrale.

 

Sembrano passati secoli da quando era un semplice spaccone della squadra di football con la fama del duro e dello sciupa femmine sempre ad un passo dalla sospensione. Invece sono solo nove anni, mese più mese meno.

 

È tanto, a conti fatti un terzo esatto della sua vita, eppure nella sua testa il periodo di servizio sotto le armi è stato mille volte più lungo e spossante del resto, molto più di quanto avesse mai potuto immaginare.

 

Anche se, in quanto a cose stancanti, il cartellino che gli ha dato Becky si candida ad un posto sul podio nella sua personale classifica all time.

Quei maledetti dentini di metallo potrebbero rovinare la sua preziosa giacca di pelle, l’unico indumento del suo armadio a cui tiene davvero.

Potrebbe appenderlo al colletto della polo che porta sotto ma, dopo aver provato ed essersi graffiato il mento, si rende conto dell’idiozia del tentativo.

 

In pratica, un veterano dell’esercito perfettamente addestrato sta lottando con un cartellino di plastica e non sta affatto vincendo. Anzi, non sta nemmeno pareggiando.

 

È sul punto di rinunciare e costringersi ad attaccare quello strumento di tortura sotto mentite spoglie alla giacca quando un rumore di passi gli fa attivare i suoi famosi sensi da Puckzilla.

Quelli che ad un orecchio inesperto risulterebbero comunissimi tacchi bassi, ad un vero marpione come Noah Puckerman si rivelano per quello che sono in realtà, ovvero scarponcini da donna, pratici ma al tempo stesso eleganti.

 

La cosa migliore della faccenda, comunque, è la donna a cui appartengono.

Non riesce a trattenersi dal sorride maliziosamente mentre i suoi occhietti da predatore scrutano la bionda che cammina verso di lui e che lo stava fissando –eh già, beccata!

 

Ha pochi secondi di visuale pulita prima che questa, una professoressa a giudicare dal modo di vestire, dalla borsa di cuoio e dal viso molto più da donna che da adolescente, lo superi quasi di corsa.

 

Eppure sono decisamente più che sufficienti per fargli esclamare tra sé e sé un convintissimo “Con professoresse del genere non avrei mai marinato la scuola”

 

Una bella donna, non ha davvero nulla da dire a riguardo. Certo non ha potuto esaminare tutto tutto –compreso il retro, ha preferito non girarsi per non sembrare un cafone–, ma basta quel viso rasente la perfezione perché il voto finale della sconosciuta risulti nettamente più alto della media delle donne di Lima. O almeno delle donne che c’erano a Lima quando era ancora un liceale.

 

A quanto pare, tornare non è stata un’idea così pessima. Imposizione dettata dalla mancanza di opzioni più che idea, tra l’altro, neanche avesse potuto decidere in piena e totale autonomia tra due alternative.

 

Prima che possa rendersene pienamente conto, il momento della verità è arrivato.

Il cartellino è appeso sul bordo della sua giacca, in bella vista, e la porta dell’aula ‘Algebra’ è proprio di fronte al suo faccione.

 

Prende un respiro, poi un altro e un altro ancora. Ce la può fare, si tratta solo di bussare ad una porta. Bussare e farsi vedere dalla propria sorella minore, da cui non si fa vedere il carne ed ossa da quando è partito e a cui ha sempre raccontato un decimo di quella che è stata la sua esperienza nello US Army. Facile.

 

Una ventina di respiri profondi e tentennamenti vari dopo, decide di rompere gli indugi. Due colpi decisi con le nocche e via.

 

Non si aspetta di certo che la porta si spalanchi subito e una delle sue vecchie professoresse faccia capolino dalla classe in tutta la sua possente bassezza.

“Tu non sei il bidello che ho mandato a chiamare venti minuti fa per i miei pennarelli”

 

“Professoressa Hagberg …” sorride furbescamente, accarezzandosi la testa e la cresta per fargliela notare “… non si ricorda di me?”

 

L’anziana donna solleva gli occhiali da vista appesi al collo e li sostituisce a quelli che ha già indosso, squadrandolo dal basso in alto un paio di volte.

“Non credo riuscirei a dimenticarmi di te nemmeno tra cent’anni, dannato somaro!” ridacchia la donna dandogli una pacca nemmeno troppo amichevole sul braccio. “Cosa ci fai qui? Non vorrai mica iniziare a frequentare le mie lezioni dopo il diploma, vero?”

 

“In realtà no, anche se sono molto felice di vedere che si mantiene ancora bene”

 

La professoressa si liscia i corti capelli castani tagliati a caschetto, lusingata, facendo pure l’occhiolino al suo ex alunno.

“Mi avevano detto che ti eri arruolato”

 

“Oh, sì” mormora cercando di distogliere lo sguardo dalle rughe che le adornano il viso e la pappagorgia piuttosto evidente, cose che già erano presenti anni fa e che il tempo ha solo aggravato. “Sono in congedo e sono venuto per passare a salutare mia sorella”

 

“Te la vado a chiamare subito” risponde sorridente, comprendendo al volo la fretta che lo anima. “Deborah, puoi uscire un secondo? Ho bisogno di parlare con te!” urla, con la sua voce gracchiante, sporgendo la testa all’interno della classe e sovrastando il brusio che la sua assenza ha provocato.

 

“Grazie, professoressa Hagberg”

 

La donna gli fa cenno con la mano che non fa niente prima di sorridergli fiera.

“Ha ottimi voti, non disturba e frequenta tutte le lezioni, non sembra nemmeno tua sorella. Cerca di non corromperla, d’accordo?”

 

Noah ride di gusto, facendole semplicemente ok con il pollice.

 

“Ora, se vuoi scusarmi, vado a prendere il mio pennarello nero” dichiara con estrema serietà, scostando il ragazzone con un braccio. O, almeno, provandoci. “Per la cronaca, per far uscire tua sorella da scuola anticipatamente devi passare dal Preside per avere il permesso”

 

“Ah” farfuglia in imbarazzo, passandosi una mano sulla collottola. “G-grazie. Di nuovo”

 

“Prof, di cosa voleva parl … io non … oh

 

Ritrovarsi davanti una persona cara dopo quasi nove anni –chiamate telefoniche e Skype non valgono– è sicuramente una delle esperienze più emozionanti che si possano mai avere.

 

Deborah, la sua adorata sorellina, la bambina che ha praticamente cresciuto al posto di sua madre, che dormiva con lui dopo gli incubi e che in qualche occasione l’ha pure aiutato a rimorchiare, è già diventata una donna.

La divisa da Cheerios le dona moltissimo, così come la coda in cui sono raccolti i suoi lunghi capelli bruni, scuri come i suoi. Gli occhio nocciola, spalancati per la sorpresa, lo stanno fissando e l’unica cosa che vorrebbe fare è fare un passo ed abbracciarla. A volte, però, le emozioni tradiscono e Noah rimane fermo, pietrificato, senza riuscire a dire nulla.

 

Anche la ragazza è immobile, quasi voglia imitare il fratello come faceva quando era piccola, un’espressione indecifrabile dipinta sul volto.

 

Quello che Noah non può sapere è che è la paura il sentimento che emerge in maniera più prepotente tra tutti quelli che le animano il petto.

La paura irrazionale che si tratti di uno dei suoi sogni che fa ogni notte la paralizza e il terrore che se provasse ad allungarsi per stringere il suo adorato fratellone questo scomparirebbe facendola risvegliare sola nel letto, come sempre, le impedisce di essere contenta.

 

“S-sei tu? Sei tornato?”

 

“Sono in congedo permanente …” mormora, riscuotendosi appena dalla catalessi “… quindi credo di sì … principessa

 

Sentendosi chiamare in quel modo, con quel nomignolo tanto banale per il mondo quanto speciale per lei, qualcosa le si rompe dentro.

 

Un singhiozzo, poi un altro. Si ritrova a piangere come una fontana e a tuffarsi tra le braccia di Noah prima che suo fratello riesca a fare un passo verso di lei.

 

Il ragazzone reagisce in automatico alla sua vicinanza, stringendola più forte che può in modo da trasmetterle tutto il calore che sente.

Le appoggia poi la testa sul petto, vista la differenza di altezza, per farle sentire il ritmo del suo cuore impazzito. Ha atteso questo momento da sempre, l’ha sognato –esattamente come la sorella– e ad un certo punto ha temuto che potesse non succedere mai. Non così, non con lui in piedi e lei piangente di gioia.

 

Le lascia un dolce bacio tra i capelli, sentendola tremare vistosamente al contatto, e inizia poi ad accarezzarle piano la schiena.

“N-non … non sarei dovuto stare via così tanto” farfuglia, commosso, mentre le lenti degli occhiali da vista si inumidiscono rapidamente.

 

Noah Puckerman è una di quelle persone che commette parecchi errori e si trova spesso nei guai, anche se la maggior parte delle volte non per colpe sue.

Quando però Deborah si stacca dal suo abbraccio, si pulisce il volto con le mani e gli sorride, dicendogli “Mi senti mancato da morire”, molte delle paure che lo accompagnano da diversi anno a questa parte svaniscono.

Forse ha fatto bene a tornare, anche solo per un momento come questo.

 

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Ottenere il permesso da Figgins non è stato poi così difficile.

Infatti il preside, un ometto sulla sessantina di origine probabilmente pakistana o indiana –comunque sud est asiatico– si è dimostrato ben disposto nei confronti dell’iniziativa, assicurandole che il suo ruolo di semplice supplente non avrebbe costituito un problema e lodando al tempo stesso lo spirito con cui si è fatta carico della richiesta delle sue alunne.

 

A Quinn è sembrata una cosa esagerata ma, quando Figgins le ha promesso di farle avere a disposizione tutti i libri della biblioteca della scuola oltre alla classe in cui far riunire il club, non ha trovato nulla da ridire.

Con il tempo, poi, avrà modi capire che quell’uomo non fa mai niente per niente. Ma questa è un’altra storia.

 

Appena uscita dalla presidenza, piuttosto soddisfatta e trionfante, si dirige in sala insegnanti, desiderosa di prendersi una tazza di caffè bollente prima di tornare a casa e affrontare le solite faccende spezza schiena. Bucato, pulizia, pranzo. Uno strazio, insomma.

 

Una volta arrivata, però, rimane un attimo spiazzata nel vedere un ragazzo piuttosto elegante intento ad armeggiare con la macchinetta del caffè. Non si aspettava di trovare nessun professore, figurarsi uno studente.

“Mi dispiace, non puoi stare in sala insegnanti. Se hai bisogno di parlare con un tuo docente devi fermarlo in classe” 

 

Il ‘ragazzo’ ride in maniera piuttosto sguaiata, girandosi verso Quinn.

“Non so se essere onorato o offeso per essere stato scambiato con un adolescente” ridacchia, spostandosi da un lato il ciuffo castano. “Kurt Hummel, professore di francese”

 

“I-io … sono mortificata, davvero! S-scusami” farfuglia, divampando per l’imbarazzo.

Effettivamente non è nuova a figuracce del genere, però scambiare un insegnante per uno studente è davvero da guinness.

 

“Tranquilla, ho deciso di sentirmi lusingato” sorride prima di indicare la brocca piena di liquido scuro che tiene in mano. “Posso offrirtene una tazza?”

 

“C-certo” balbetta, arrossendo di nuovo. “Comunque io sono Quinn Fabray, supplente di Letteratura. Piacere di conoscerti”

 

“Il piacere è tutto mio, soprattutto considerando il notevole gusto che dimostri nel vestirti. Il cardigan a mezze maniche è veramente un tocco di classe”

 

La donna alza un sopracciglio, gettando un’occhiata scettica prima al proprio capo d’abbigliamento, poi all’uomo –fatica parecchio a non scambiarlo ancora per un ragazzino, forse per il viso così giovanile o forse per la voce.

“… grazie?”

 

“Ti sembrerò un maniaco o qualcosa del genere” le sorride, sistemando le due tazze in cui ha versato il caffè su un tavolino e facendole segno di sedersi. “Il fatto è che sono decisamente un … patito della moda, anche se mi piacerebbe pensare di essere un vero esperto …” spiega, armeggiando con lo zucchero “… e un’insegnante che indossa qualcosa di diverso da maglioni di lana o flanella grossi due dita è una piacevole novità”

 

“… grazie?” ripete, piuttosto smossa dall’ambiguità della discussione, sbattendo gli occhi un paio di volte. 

 

“Ti sto mettendo in difficoltà, vero?” borbotta, storcendo appena il naso.

 

“Oh, no, no, no” si affretta a dire, agitando le mani. “È che … sono abituata a professori che ci provano, uno che mi fa i complimenti per come sono vestita è …”

 

“Strano?”

 

“Una piacevole novità” sorride, riprendendo le parole che l’altro ha usato poco prima. “Comunque questo modello l’ha fatto una mia vecchia amica del liceo che ogni tanto mi manda qualcosa di suo” spiega, cercando si sbrogliare la matassa di imbarazzo che aleggia su di loro.

 

“Effettivamente stavo per chiederti di che marca fosse” ribatte lui, di nuovo sorridente. “La tua amica è famosa?” chiede, prendendo un lungo sorso di caffè.

 

“Non quanto vorrebbe” fa Quinn con una smorfia, pensando all’amica Santana in una delle sue migliaia di telefonate mirate esclusivamente al lamentarsi del suo capo. “Non ancora, almeno. È solo agli inizi, però è già arrivata a Vogue. Il problema è che a lei non basta, lei vuole tutto e subito”

 

Gli occhi azzurri di Kurt scintillano e, per un secondo, Quinn è convinta che si stia per sputargli addosso. Poi riacquista un briciolo di controllo, trovando dentro di sé la forza necessaria a non esplodere e deglutire.

Vogue. Tu hai appena detto quella parola”

 

“S-sì … lavora lì, anche se secondo lei è solo un trampolino di lancio per la sua carriera. È parecchio … ambiziosa”

 

“Non prenderla nel verso sbagliato, ma io … credo di amarti” dichiara con serietà impressionante, facendola impallidire dal terrore. “Stai pur certa che se non giocassi per l’altra squadra ti avrei già chiesto la mano”

 

“Questa è senza ombra di dubbio la discussione più sconclusionata e bizzarra di tutta la mia vita” ridacchia Quinn, dopo qualche secondo di apnea, sorprendendosi di sentirsi a suo agio con il suo interlocutore. Ed è strano, per una diffidente e solitaria come lei, chiacchierare in tutta tranquillità con uno sconosciuto, per lo più piuttosto stravagante.

 

“Dal mio punto di vista la cosa è decisamente positiva” mormora con una certa sfumatura di tristezza nella voce. “Come ben presto imparerai, visto che è decisamente scontato che tu non sia di qui, Lima è il posto più monotono del mondo”

 

“Come fai a sapere che non sono di qui?” sorride, incuriosita.

 

“Perché le persone di questa città sono tutte uguali. È questo posto …” borbotta indicando intorno a sé con le mani “… che ti ingrigisce, ti deprime e … ti rende uguale a tutti gli altri”

 

“Tu non sembri così”

Certo, lo conosce da quanto? Cinque, dieci minuti? Però c’è qualcosa in questo Kurt Hummel, una specie di luce, che è impossibile non notare. 

 

“Lo nascondo bene” ammette sforzandosi palesemente di sorridere. “Ma non parliamo di queste cose tristi. Dimmi, cosa hai fatto di male per essere spedita al McKinley?”

 

“Ho chiesto un posto in una piccola città per fare esperienza, visto che la mia prima prova in un liceo l’ho avuta a Chicago ed stata … traumatica, se così posso dire” spiega, armeggiando con la tazza di caffè.

 

“Quindi sei dell’Illinois?”

 

“No, in realtà sono nata ad Ames, Iowa” precisa immediatamente. “Quando avevo otto anni i miei si sono trasferiti a Chicago per lavoro e lì ho frequentato tutte le scuole, college compreso”

 

“Capisco che se l’esperienza là sia stata difficile tu abbia sentito la necessità di cambiare, però … senza offesa, perché proprio l’Ohio?”

 

“Ho chiesto un posto tranquillo, uno qualsiasi, e mi hanno chiesto se ero disponibile a venire qui. Ho accettato soprattutto per il fatto che Lima è piccola, circa come Ames, forse un pelo più grande, e a dirla tutta mi mancava vivere in un posto del genere. Le metropoli non fanno proprio per me”

 

“Capisco” commenta semplicemente Kurt, lasciando cadere la conversazione in un silenzio che però non è per nulla imbarazzato.

 

“Sai …” fa la donna dopo aver mandato giù il caffè “… fino a ieri ero un po’ preoccupata dal fatto che l’età media del corpo docenti sfondi abbondantemente i cinquanta. Sono davvero contenta di aver conosciuto qualcuno di giovane come te”

 

“Direi che ho avuto un’intuizione felice scegliendo di venire in sala insegnanti proprio in questo momento” concorda Kurt, agitando la tazza a mo’ di brindisi. “Sono tornato qui da un anno e mezzo e tu sei la prima persona con cui riesco a parlare senza beccarmi un’occhiataccia”

 

“Sarà perché ho gusto nel vestire” scherza, senza però ottenendo una reazione positiva dall’altro che abbassa mestamente lo sguardo.

 

“Penso dipenda più dal fatto che sei la prima persona a Lima a cui dico di essere gay che non fa nemmeno una smorfia. È per questo che ho capito subito che non sei di qui”

 

Un “Oh” sorpreso le sfugge dalle labbra, ed è l’unica reazione che si sente di avere. Preferisce rimanere in silenzio ed evitare commenti di alcun tipo anche se, nella sua mente, è ben chiaro cosa farebbe Santana se fosse al suo posto. Un massacro.

 

“Tranquilla, farà anche schifo ma ci sono abituato. Non crucciarti per questo” le sorride gentilmente notandola momentaneamente distratta.

 

Quinn, sentendosi in colpa, opta immediatamente per cambiare discorso. E, con sua somma sorpresa, scopre come parlare con Kurt sia destramente facile e la chiacchierata non finisca mai in un momento di ristagno in cui nessuno dei due sa cosa dire.

 

Il tempo passa così in fretta che, quando la campanella suona, entrambi si trovano a guardare l’ora, sorpresi.

 

“È già passata un’ora?” borbotta Kurt, con una nuova smorfia, alzandosi dal suo posto evidentemente contrariato. “Incredibile, di solito il tempo in questo posso non passa mai”

 

“Se ti va possiamo prendere un caffè anche domani” mormora Quinn. “Sono a Lima da un mese ormai ed ho davvero bisogno di un amico” dichiara, facendo ridere Kurt.

 

“Accetto con piacere” le risponde il ragazzo, sorridente molto più sinceramente di quanto abbia fatto finora.

 

Anche Quinn è altrettanto sorridente. È riuscita ad aprirsi di più in un’ora scarso con lui che con tutte le persone che ha conosciuto dal college in poi. Lima, dopotutto, non offre solo vecchi bavosi e appiccicosi.

 

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Come in uno di quei filmetti da due soldi in cui quando al protagonista succede una cosa brutta piove e quando invece gliene capita una buona c’è il sole, Lima sembra aver apprezzato lo sforzo di Noah.

Difatti la pioggia ha deciso finalmente di concedere una tregua e i due fratelli ne hanno approfittato subito.

Visto che il preside Figgins non gli ha concesso di portare via la sorella per una mera questione burocratica –a quanto pare se il nome non è tra quelli indicati dai genitori nessuno può accompagnare un minorenne fuori dall’istituto, nemmeno se si tratta di un fratello, robe dell’altro mondo–, quale posto migliore se non il vecchio spazio verde dove passavano le loro giornate quando erano piccoli per raccontarsi come hanno trascorso questi anni di dolorosa separazione?

 

 

“… non so che altro aggiungere. Il resto, come si dice, è storia. Ho passato gli ultimi sei mesi in terapia fino ad una settimana fa quando il dottore mi ha dichiarato pronto e … eccomi qui”

 

Deborah, a braccetto con il fratellone, si mordicchia il labbro, pensierosa. “Avresti dovuto dirmelo anziché mandarmi quelle mail criptiche che non mi facevano capire nulla”

 

“Era quello il loro scopo: non farti capire” sorride, appoggiando la mano libera sulla cuffietta bianca che adorna il capo della sorella. “Se non fossi riuscito a riprendermi ti avrei fatta chiamare”

 

La ragazza trattiene uno sbuffo e si limita a gettargli un’occhiata scettica, scuotendo appena il capo, senza nascondere però un bel sorriso. Come potrebbe mettere il broncio in una situazione del genere? Come potrebbe arrabbiarsi quando il suo fratello è tornato praticamente solo per lei?

 

“Ora tocca a te” decreta Noah dopo qualche secondo, interrompendo come sua consuetudine il silenzio.

 

“Beh, non c’è molto” farfuglia con un’alzata di spalla. “Ho una media della A meno, sono una Cheerios, ho un ragazzo, faccio da baby sitter ma anche da dog sitter perché ho visto che ci sono più cani che bambini a Lima” butta lì velocemente, sperando in questo modo di non fargli capire quella parte del discorso. “Credo sia tutto”

 

“Sono molto fiero di te per la media scolastica” le sorride Noah, comprendendo finalmente il motivo del sorriso della Hagberg. “E quanto ti frutta al mese?”

 

“Parecchio. Quasi trecento quando va male, quasi quattrocento quando va bene”

 

Oh” mormora, sinceramente ammirato. “Potrei entrare anche io nel giro, ho una certa esperienza nel far rigare dritto i mocciosi”

 

Deborah scoppia a ridere, aggrappandosi al braccio del fratello per non cadere a terra.

 

“Che ho detto di così divertente?”

 

La ragazza si tira su in piedi, passandosi una mano sulla faccia per tentare di smettere di ghignare.

Prende un respiro gigante, balbettando poi un “Immagina la scena” che rimane incompleto perché non riesce a resistere oltre e scoppia di nuovo a ridere.

 

“A me sembra che tu stia esagerando” sospira Noah, fermandosi in mezzo al sentiero che taglia a metà il parco per consentirle di riprendersi.

 

Le ci vogliono un paio di minuti abbondanti per acquistare una parvenza di serietà e dire “Ok, ok, ora ci sono. Immagina la scena …” tossisce, prima di tentare di imitare la voce bassa e roca del fratello “… salve signora, sono Noah Puckerman, ex soldato dell’esercito. Sono qui per accudire i vostri pargoli

 

“Non fa ridere” decreta lui, lapidario.

 

“A me sì, molto” sbuffa invece lei, offesa dal modo di fare del fratello. “Se continuavo ancora un po’ finivo con il farmela addosso”

 

“Era una tattica per evitare l’argomento ragazzo, ti conosco come le mie tasche” la gela, obbligandola a mordersi un labbro per l’imbarazzo di essere stata miseramente beccata. “Tranquilla, stavo solo pensando al modo più carino per chiederti nome e cognome di costui” aggiunge guardandola dritta negli occhi con fare tremendamente serioso. “Lo sa che hai un fratello in grado di ammazzarlo a mani nude, vero?”

 

“Non fare il fratello gelosone che non ti si addice per niente” borbotta, riprendendogli il braccio per incoraggiarlo a camminare di nuovo. “Devon è un bravo ragazzo, mi piace molto e mi tratta benissimo”

 

“Dunque si chiama Devon, ho già ridotto il campo di ricerca” sorride Noah, schivando a stento uno scappellotto della sorella.

“Da quanto state insieme?”

 

“Un anno e un mese” mormora palesemente in imbarazzo, combattuta tra la difficoltà nel parlare di queste cose al fratello e dalla voglia estrema di renderlo partecipe delle sua vita.

 

“Ha già osato … ha già osato?”

 

“Non sono tenuta a rispondere” decreta, avvampando dalla punta dei piedi a quella dei capelli.

 

Cazzo! Questo Devon è già morto” ringhia come un animale feroce, stringendo i pugni. “Anzi no … è un uomo morto che cammina”

 

“Io almeno ho aspettato di essere sicura di essere innamorata … e ho diciassette anni! Tu quanti anni avevi, fratellone?”

 

“Non è la stessa cosa” borbotta a denti stretti.

 

“Perché sono una ragazza?”

 

“Perché sei mia sorella!” sbotta agitandosi molto più di quanto sarebbe lecito attendersi da uno con il suo … ma sì, chiamiamolo curriculum sessuale. “T-ti … ti tenevo in braccio fino all’altro ieri! Mi ricordo ancora quando correvi in camera mia perché avevi gli incubi! Sei troppo piccola per fare … quello

 

Invece che continuare a protestare o fargli notare come non avrebbe mai pensato che Puckzilla sarebbe finito con il trasformarsi in un puritano, Deborah lo tira per la giacca di pelle per farlo fermare e l’abbraccia con più forza che può.

“Non andare via mai più”

 

“O-ok” farfuglia sorpreso, ricambiando la stretta. “Promesso”

 

Potrà anche essere una quasi donna, potrà anche avere un ragazzo con cui ha fatto sesso e potrà anche essere ad un solo anno e mezzo –forse qualcosa in più– dal diploma ma certe fragilità le porta ancora con sé e, molto probabilmente, le conserverà per sempre.

 

“Se mi prometti anche che non gli farai del male fisico …” gli fa lei senza allentare la presa sul fratello “… potrei presentarti Devon”

 

“Al massimo ti concedo la clausola ‘non lo ucciderò appena entrerà nel mio campo visivo’”

 

“Dagli una possibilità, è un bravo ragazzo” piagnucola, giocandosi la carta segreta in dote ad ogni sorellina minore. L’aria da cucciolo.

 

“Affare fatto” le concede, ovviamente, con un sospiro, cedendo a quegli occhioni grandi e a quel broncio che le ricorda quello di una bambina di otto anni di sua conoscenza che si divertiva a rubare i biscotti e a mangiarli prima di cena, dando a lui la colpa.

 

A conti fatti, la cosa più bella per Noah non è aver ritrovato Deborah e un rapporto paradossalmente ancora più solido di quanto avesse una volta. Non è nemmeno il fatto che lei voglia riprenderlo con sé e nella sua vita ad ogni costo.

È il fatto che lo capisca nonostante gli anni passati distanti, motivo per cui non gli ha chiesto come mai sia venuto da lei senza avvertire sua madre. Lei sa, lei lo conosce.

 

 

 

 

 

Note dell’autore.

 

Avevo detto giovedì, però non ho resistito. Era già lì, pronto, mi sembrava brutto non metterlo.

Questo capitolo è abbastanza importante, ho lasciato qualche indizio e ho introdotto diversi personaggi fondamentali.

Andiamo con ordine.

-Stacey Evans, la Cheerios bionda, non è un personaggio inventato. O meglio, compare in Glee ma come bambina. Io l’ho semplicemente … fatta crescere. Sarà importante.

-Deborah Puckerman, la sorellina di Noah. Anche per lei vale lo stesso di Stacey, solo che in Glee non ha nome e perciò gliel’ho dovuto mettere io.

-Kurt. Cosa ci fa a Lima? Perché insegna francese a McKinley? Domande a cui risponderò più avanti, ovviamente. L’amicizia con Quinn l’ho messa perché mi sono piaciuti in quelle due/tre interazioni che hanno fatto fare loro durante la prima stagione e, ovviamente, mi serve ai fini del proseguimento della trama.

 

Grazie a chi ha letto il primo, pochi ma buoni :), e a chi leggerà questo.

E come al solito, chiunque abbia consigli o correzioni o insulti o qualsiasi altra cosa può anche mandarmi un messaggio privato.

Alla prossima settimana, dire.

Pace.

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Capitolo 3
*** Il Passato non è mai passato ***


Capitolo 2. Il Passato non è mai passato. 

 

Per la prima volta da quando è diventata un’insegnante vera e propria, seppur come supplente, Quinn Fabray può affermare con assoluta certezza di aver finalmente ingranato la marcia giusta.

 

Non solo perché le impressioni dei primi tempi si sono rivelate esatte, visto che i suoi studenti continuano ad essere attenti, interessati e disciplinati, quanto perché finalmente è riuscita a provare quel senso di orgoglio di cui le hanno parlato i suoi vecchi insegnanti quando era ancora al liceo e sognava di diventare professoressa. 

 

A due settimane da quella piccola vittoria personale ottenuta in presidenza, infatti, il Club del libro del McKinley High School è pronto ad inaugurare la sua prima seduta ufficiale. E lei è lì, a guardare, quasi commossa dal sapere che ciò che ha davanti è praticamente merito suo.

 

Stacey Evans ha già preso il suo posto vicino alla lavagna della stanza –a quanto pare l’unica aula disponibile come sede è un quadrato di sei metri quadri a dir tanto in cui le persone devono sedersi le une sulle altre per starci–, sorridente come forse nemmeno un vincitore della lotteria nazionale potrebbe essere.

“Ragazze, benvenute alla prima riunione del nostro club!”

 

Le ragazze, un gruppo ben assortito di circa venti persone che variano da Cheerios a ‘normali’ studentesse, applaudono e fischiano mostrando tutto il loro apprezzamento.

 

“Prima di iniziare, vorrei ringraziare a nome di tutte le persona che ci ha permesso di trovarci qui, oggi. La professoressa Quinn Fabray!”

 

Quinn sobbalza contro lo stipite della porta a cui si è appoggiata mentre le teste delle ragazze si voltano contemporaneamente verso di lei e, imitando l’esempio di Stacey, le rivolgono un applauso. Timido e scoordinato, ma c’è.

 

“Non importa … su, non è necessario. Ho solo portato un foglio in presidenza” sminuisce la supplente, vagamente in imbarazzo.

 

“Non è cosa da poco” le fa notare una.

 

“La professoressa di prima aveva il culo talmente pesante che persino portare un foglio le risultava troppo difficile” aggiunge una Cheerio.

 

“Non penso sia il caso di offendere la professoressa May, ragazze” tenta Quinn, ottenendo come risposta qualche mugugno di protesta e un qualcosa di simile a “Perché non sa quante gliene tiriamo alle spalle” che fa scoppiare a ridere tutti e le strappa un sorriso incerto. Crudeli.

 

“Prof, se vuole unirsi a noi oggi dobbiamo decidere quale libro leggere per primo” fa Stacey per cercare di riprendere le redini della seduta.

 

“Oggi non posso proprio, ragazze” rifiuta, a malincuore, facendo una smorfia dispiaciuta che non ammette molte obiezioni. “Mi sono fermata solo per assicurarmi che vi avessero dato l’aula e il permesso per prendere i libri dalla biblioteca”

 

“Ma è la prima riunione! E il primo libro!” insiste la presidentessa del club. “Insomma, dobbiamo partire con letture semplici o impegnate? ‘A Game of Thrones’ o ‘Orgoglio e pregiudizio’?”

 

Mm” mormora, improvvisamente interessata e pensierosa, valutando attentamente le due proposte. “Non ho mai sentito parlare del primo che hai … no!”

Vorrebbe davvero restare, vorrebbe davvero consigliare e suggerire, raccontare e menzionare, citare e spoilerare, perché è nella sua natura di essere umano ancor prima che di professoressa di Letteratura.

“Mi dispiace. Davvero, mi spiace tantissimo. Oggi ho un impegno improrogabile che mi aspetta” ripete, più a sé stessa che al gruppo di ragazze.

 

Quante volte l’avrà detto nella sua pur giovane vita? Tante, troppe, abbastanza da perdere il conto.

Perché il suo impegno improrogabile non è uno di quelli che si può mettere da parte, è uno di quelli che conservi fino alla fine dei tuoi giorni.

Tuttavia non vuole e non può lamentarsi: sapeva perfettamente a cosa sarebbe andata incontro facendo la scelta che ha fatto ed era altrettanto consapevole di tutto quello a cui avrebbe rinunciato nell’immediato.

 

“Fossi in voi leggerei ‘Orgoglio e pregiudizio’” aggiunge, sorridendo, prima di salutare il gruppo e dirigersi al parcheggio, stavolta a colpo quasi sicuro –ormai ha sviluppato una discreta padronanza della planimetria della scuola.

 

Nonostante sia stata interrotta e quasi bloccata in aula da Stacey, quando entra in macchina –il primo scassone che è riuscita a trovare, a Chicago non la usava mai– si rende conto di avere ancora un quarto d’ora prima del suono della campanella della scuola elementare.

 

Appoggia la borsa di cuoio sul sedile del passeggero e ne tira fuori un rossetto, muovendo poi lo specchietto retrovisore finché non riesce a vedere bene il suo riflesso.

Avere un aspetto sempre perfetto o almeno curato è uno dei pochi vezzi che si porta dietro dal liceo e, probabilmente, lo conserverà per sempre. Non le piace per niente avere un’aria sciatta, soprattutto quando deve farsi vedere dove sta andando ora.

 

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Il dottor Menkins gli ha spiegato più volte che il ritorno alla vita civile è una fase terribilmente delicata nella vita di un soldato.

 

Quando passi mesi in situazioni pericolose, ogni persona che incroci potrebbe essere un nemico e non puoi abbassare la concentrazione nemmeno per un secondo, il tuo corpo è sottoposto ad un continuo stress psicofisico che lo logora e, per riprendere un ritmo accettabile, ci vogliono tempo e pazienza.

 

Non cambia solo questo, ma anche il modo di concepire i rapporti con gli altri.

La maggior parte dei veterani e dei reduci parla di un legame speciale, un senso di fratellanza unico che si sviluppa tra compagni d’arme, tra persone che si trovano uniti ad affrontare gli stessi pericoli giorno dopo giorno contando solamente gli uni sugli altri.

Solo legami speciali, difficili se non impossibili da ricreare nella vita ‘reale’.

 

Forse è per questi motivi che da quando ha rimesso piede a Lima ha la netta sensazione di essere come uno spettro che spia la vita degli abitanti della sua città natale senza che questi lo possano vedere. 

Non saprebbe come spiegarlo meglio, anche se il proverbio ‘sentirsi come un pesce fuor d’acqua’ rispecchia abbastanza bene la sua situazione: ha contatti con sua sorella, il proprietario del motel e i ragazzini che lavorano al fast-food di fronte alla sua casa temporanea. Fine. 

 

A Fort Benning, durante i mesi di cure, era tutto diverso. Era circondato da militari, poteva parlare con commilitoni alle prese con la riabilitazione come lui e c’era sempre il dottore a cui rivolgersi nelle situazioni più intricate.

 

E uno degli ultimi consigli del Tenente Cooter Menkins è stato proprio di cercare di consolidare i vecchi legami e di creare di crearne di nuovi, di reinserirsi nel contesto delle relazioni interpersonali prima che in quello lavorativo e sociale.

Insomma, Deborah è stata la prima fondamentale tappa di un percorso molto più complesso e accidentato, soprattutto perché di legami vecchi così forti ne ha sì e no tre o quattro.

 

Tra questi, un nome spicca sugli altri. Qualcuno che potrebbe aiutarlo, di nuovo, ci potrebbe essere, oggi come allora. Un lavoro, magari, o semplicemente un amico con cui parlare apertamente … è questo di cui ha bisogno, giusto? Una mano per piantare di nuovo le radici.

La prossima tappa è Burt.

 

Burt Hummel è stato tante cose per Noah quando era un ragazzino attaccabrighe. Tra tutte, è stato soprattutto la cosa più simile ad una figura paterna che abbia mai avuto.

 

Quando avevano … no, non può più parlare di loro

Quando vinse le sue paure e decise di arruolarsi subito dopo il diploma, lui fu la prima persona a cui riuscì a confessarlo.

Non dimenticherà mai quel momento.

 

*

“Ehi” mormorò un po’ in imbarazzo e un po’ impaurito, attirando l’attenzione dell’uomo che, dopo averlo sentito, uscì di slancio da sotto una scintillante Opel Astra Elegance grigia.

 

“Oh, Puck” lo salutò con un sorrisone dopo essersi tolto l’immancabile berretto per asciugarsi la fronte. “Devi vedere questa macchina come è ridotta dopo solo due mesi dall’uscita dal concessionario” ridacchiò, agitando una mano in direzione dell’Opel. “Una manna per me, non c’è che dire”

 

“Devo parlarti, Burt”

 

L’uomo assunse istantaneamente un’espressione seria, facendo un paio di passi verso di lui.

“Sì, figliolo?”

 

“Tra una settimana salirò sul bus diretto a Fort Benning. Mi arruolo”

 

Burt rimuginò parecchio sul come prendere quella notizia. Si passò un paio di volte il berretto sotto il naso, pensieroso, prima di provare a parlare.

“Non lo stai facendo per-”

 

“Assolutamente no” lo interruppe, risoluto e determinato. “È una decisione mia, presa da solo e … ci penso da tre mesi. Tre. Fottuti. Mesi. È tanto per uno come me” sorrise, ricevendo di rimando solo una smorfia. “Sono sicuro”

 

“Ok, volevo solo controllare” sospirò, rassegnato, prendendo tempo per cercare parole adatte alla situazione e che evidentemente non riusciva a trovare.

 

“Qui non c’è futuro per me, non c’è un cazzo di niente … e, anche se per caso ci fosse, col cazzo che rimarrei a Lima”

 

“Va bene, ho capito” lo assecondò, appoggiandogli poi una mano sulla spassa con il suo modo di fare un po’ burbero ma intimamente buono. “La porta della mia officina è sempre aperta nel caso … beh, nel caso cambiassi idea”

 

“Grazie, Burt”

 

“Vedi di non fare scherzi e di tornare sulle tue gambe, mi raccomando … ragazzo mio”

*

 

“Se non te la senti possiamo anche tornare un altro giorno”

 

“No, no, sono più che pronto” risponde immediatamente a Deborah, seduta sul sedile del passeggero di quella che sarebbe la sua auto ma di cui è stata praticamente scippata dal fratello.

“Sto solo … hai presente quando hai … uno ha quella cosa … come si chiama la sensazione di rivivere un momento del passato?”

 

“Un déjà vu”

 

“Esatto! Un déjà vu e …” indugia, non osservando lo sguardo divertito della sorellina “… niente. Vuoi venire con me?”

 

“Preferisco rimanere qui”

 

Annuisce un paio di volte prima di aprire lo sportello e scendere, appuntandosi mentalmente di ringraziarla di nuovo per la sua discrezione una volta affrontato Burt.

 

Affrontare, già, perché il proprietario del ‘Hummel Tires & Lube’ è un pezzo importantissimo del suo passato e non c’è un modo semplice di confrontarsi con esso.

Prende un respiro gigante prima di entrare in officina dall’ingresso riservato ai meccanici. 

 

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Si accarezza piano il braccio, maledicendosi per aver lasciato il giacchetto in macchina.

Non fa così freddo, ma il cielo coperto non aiuta per niente a tenerla al caldo, soprattutto considerando che è ferma nello stesso punto da una decina di minuti.

 

Si guarda intorno, scuotendo appena il capo.

Il fatto che sia nettamente più giovane di ognuna delle persone radunate all’ingresso della scuola non la disturbava nemmeno le prime volte, figurarsi oggi.

Continua a non capire come le persone possano giudicare chi non conoscono solo dall’aspetto, ma i commenti e le occhiatine fanno parte del modo in cui ha deciso di vivere la propria vita e lo accetta. Nessuno rimpianto. Almeno da questo punto di vista ha sempre cercato di rimanere coerente con sé stessa.

 

Finalmente i primi bambini escono dalla porta di corsa, raggiungendo i propri genitori.

 

Ovviamente lei non è mai la prima. È troppo ordinata e tiene troppo alle sue cose per uscire alla svelta. No, assolutamente, lei non lo fa. Lei rimane seduta composta, rimette tutte le matite e le penne nell’astuccio, sistema i fogli nei raccoglitori e li mette nello zainetto con cura e precisione.  

 

Sorride come solo una mamma sa fare quando la vede uscire, lo zainetto verde –il suo colore preferito– sulle spalle, i capelli dorati che le ricadono sulle spalle, la frangia che ama alla follia sulla fronte e un sorriso che le parte da un orecchio e le arriva all’altro.

Sta chiacchierando con una bambina con i capelli ramati un po’ più bassa di lei ed è davvero sollevata per questo. Di certo non è una timidona, anzi, tutto il contrario, ma farsi nuovi amici in una nuova scuola è sempre un’operazione complicata.

 

“Mamma!”

 

Si rende conto che anche lei l’ha vista solo quando le si aggancia alle gambe, rischiando seriamente di farla cadere per la forza della slancio.

“Ciao amore mio” la saluta, istantaneamente allegra, accarezzandole piano la testa. “Come è andata oggi?”

 

Beniffimo!” trilla, sfoggiando con orgoglio il buco dove una volta c’erano gli incisivi superiori  che da caduti le hanno fruttato ben due dollari. “Ho una nuova amica!” sorride, indicando la bambina che è rimasta un po’ in disparte a giocherellare con la punta delle scarpette e il terreno.

“Lei è Karen!”

 

“Ciao Karen” le sorride. “Io sono Quinn, la mamma di Beth

 

“C-ciao Quinn” le risponde, adorabilmente titubante. Ha grandi occhioli nocciola da cerbiatto e il nasino spruzzato di lentiggini. “P-piacere di conoscerti”

 

“Piacere mio” ridacchia, sorpresa da tanta educazione, mentre Beth inizia a tirarle la gonna per attirare su di sé tutta l’attenzione della mamma. “Cosa c’è, peste?”

 

“Non fono una pefte” sbuffa, gonfiando le guance nella sua più celebre espressione imbronciata. “Oggi abbiamo giocato con i numeri!” trilla, riacquistando subito l’allegria.

 

“Con i numeri? E come avete fatto, tesoro?” le sorride, accarezzandole il capo, mantenendosi comunque vigile su Karen che continua a guardarsi intorno, siuramente alla ricerca dei suoi genitori che non sono ancora arrivati.

 

“La maeftra ci ha dato un numero … io avevo il quattro … e poi li abbiamo meffi sul banco e poi dovevi dire … uhm … quello che c’è prima e dopo il quattro. Karen aveva il tre e cofì abbiamo parlato e fiamo diventate amiche!”

 

“Che bello, tesoro” sorride, osservando incuriosita la stellina dorata appiccicata alla mano paffuta della bambina. “E questa per cos’è?”

 

“Perché ho meffo tutti in fila dall’uno al dieci fenfa fbagliare!”

 

“Sei bravissima” sorride di nuovo. “Karen, ti vengono a prendere i tuoi genitori di solito?” si rivolge poi alla piccola che sta pian piano allontanandosi.

 

“Oh … sì, la mia mami mi viene a prendere però lavora e arriva sempre tardi”

 

Quinn riprende a guardarsi intorno, notando come ormai l’ingresso della scuola sia praticamente vuoto a parte un paio di genitori impegnati come lei a chiacchierare con i propri figli.

“Possiamo aspettare qui finché non arriva la tua mami. Vero, Beth?”

 

Lo squittio eccitato di sua figlia che prende per mano Karen all’istante le fa capire che no, non è un problema per lei rimanere di più.

Non le piace neanche un po’ l’idea di lasciare solo un bambino, fosse anche solo per un paio di minuti. Se fosse lei ad essere ritardo le piacerebbe molto che Beth rimanesse con qualcuno perché, nonostante le abbia detto più e più volte che nel caso in cui non riesca a trovarla deve rimanere dentro le mura scolastiche, è sicura che non lo farebbe. È troppo … espansiva per rimanere dentro ad aspettare.

 

Secondo motivo, potrebbe anche fare amicizia con una mamma, cosa che non è mai riuscita a fare. È molto più giovane della maggior parte delle donne –e degli uomini, molto pochi– che ha avuto modo di vedere fin’ora e in più è decisamente stupenda, fatto che molto spesso può generare una certa frustrazione.

È uno dei sogni che ha nel cassetto delle cose da riuscire ad ottenere, esattamente come lo era ‘ricevere la domanda a fine lezione’ e ‘avere un amico insegnante’ fino a due settimane fa. Lima da questo punto di vista sembra essere in grado di esaudire ogni sua richiesta.

 

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Continua a galleggiare nell’officina, trovandola tanto uguale a com’era quanto intimamente diversa. Perché manca un pezzo fondamentale: il capo.

 

Conosce Burt Hummel da troppo tempo per non sapere che il suo orario di lavoro va dalle otto alle diciotto, dal lunedì al sabato, e che per nessuno motivo abbandonerebbe la sua officina ad una manica di sbarbati come quelli che ha davanti.

 

Eppure, nessuno dei meccanici che ha visto passare è Burt. E non riesce a concepire come questo posso essere possibile. Non è capace di stare seduto in ufficio a comandare, è uno di quelli che prende attrezzi e olio di gomiti e si mette in prima linea a faticare.

 

“Mi dispiace amico, qui non puoi stare” gli fa un ragazzo in tuta blu, l’unico ad averlo notato fermo in mezzo ai piedi. Si pulisce le mani con uno straccio, facendo poi un cenno con la testa verso l’altro lato del suo negozio. “Se hai bisogno di una mano per sistemare l’auto devi prima passare dall’altra parte”

 

“Veramente …” si sporge per leggere il nome sulla tuta “… Ryder, volevo parlare con Burt”

 

“Il signor Hummel è in pensione da anni” gli fa con fare ovvio il meccanico, sistemandosi di lato un ciuffo particolarmente lungo di capelli castani.

 

Pensione?”

 

“Sì. Diciamo che passa ogni tanto a vedere come vanno le cose e per salutare noi e i clienti, ma lui non mette mano in un motore da parecchio. È solo …” appoggia le mani sui fianchi, ruotando lo sguardo verso l’alto per cercare la parola giusta “… il proprietario formale, credo si dica così. È il capo che risulta sui documenti me non lo è più nella realtà”

 

“Ha avuto dei gravi problemi di salute che l’hanno costretto a smettere di lavorare, vero?” chiede allibito. “Perché il Burt Hummel che conosco io la parola pensione non l’avrebbe mai nemmeno presa in considerazione”

 

“Non sei il primo che me lo dice” ammette il ragazzotto con un sorriso che fa venire i nervi a Noah. “Effettivamente è stato parecchio male. Io non c’ero ancora quando è successo, ma Phil …” indica con il pollice un uomo chinato dentro un cofano “… mi ha detto che ha avuto una specie di infarto qui, a lavoro”

 

Per un momento il pensiero che l’uomo che l’ha cresciuto per anni quasi come fosse stato davvero suo padre sia morto gli toglie il fiato. Per fortuna si ricorda che quel Ryder gli ha detto poco prima, ovvero che passa di quando in quando, quindi tira un enorme sospiro di sollievo.

 

“Di cosa volevi parlargli?” gli chiede il ragazzo, attirando di nuovo la sua attenzione. “Non che io voglia farmi gli affari tuoi, amico, è solo per vedere se posso aiutarti in qualche modo”

 

“Cerco un lavoro”

 

“Allora non posso aiutarti” gli fa particolarmente dispiaciuto, grattandosi la folta chioma castana. “Delle assunzioni si occupa ancora Burt”

 

“Quindi …” mormora Noah, riflettendo ad alta voce “… per avere un colloquio di lavoro devo venire in officina fintantoché non riesco a beccarlo?”

 

“No” ridacchia lui. “Compili un breve … uhm… è una specie di questionario, in realtà, e la segretaria lo invia a Burt via fax”

 

“Una volta bastava una chiacchierata con lui e voglia di fare” farfuglia abbastanza dubbioso, alzando poi le spalle. “Passami uno di questi fogli da compilare, và”

 

Ryder annuisce e si congeda con un sorriso, lasciando a Noah il tempo per pensare a cosa effettivamente stia succedendo.

 

Burt è stato male, molto male, tanto male da essere costretto a lasciare il lavoro.

Burt non c’è e, nonostante si fosse preparato per sostenere una conversazione che sarebbe finita sicuramente su qualcosa difficile da ricordare o da raccontare e nonostante il senso di profonda tristezza per il dolore che deve aver provato il signor Hummel, la cosa un po’ lo solleva. Una parte di lui non è ancora pronta a ciò che seguirà riallacciare i rapporti con lui.

 

Oltre a ciò, probabilmente non avrà il lavoro come sperava ma sarà Burt a venirlo a cercare quando leggerà il suo nome su quel foglio. Per qualche strano motivo, la cosa lo solleva ancora di più. Perché la vede come una sorta di ‘vediamo se ci tiene ancora a me’, nel senso che se questo incontro non avverrà sarà solo per volontà di Burt e, se così sarà, almeno avrà risparmiato una difficile chiacchierata. 

 

“Ecco qui” lo sorprende Ryder, arrivandogli alle spalle all’improvviso. “Compilalo e riportamelo, qualcuno poi lo invierà a Burt. In un paio di giorni avrai la sua risposta”

 

Noah legge rapidamente i campi principali, come nome, cognome, contatto telefonico, numero di previdenza sociale e impieghi precedenti, prima di richiamare Ryder che si era già avviato per tornare al lavoro con un fischio. “Se hai una penna te lo compilo subito”

 

Via il dente, via il dolore.

 

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Da quando è riuscita ad insegnare alla figlia come si fa ad usare un telefono, Quinn ha scoperto che osservare Beth alle prese con le chiamate della zia è una delle cose che più la rilassano.

Il modo in cui tiene il telefono con entrambe la manine, le smorfie che fa quando capisce che la sta prendendo un po’ in giro e le risate genuine in cui si esibisce ogni tre per due la riconciliano sempre con il mondo.

 

“… cofì la maeftra mi ha meffo una ftellina fulla mano!”

 

Quinn sorride, nascondendo il volto dietro uno dei suoi libri, perché sua figlia è l’unica persona al mondo in grado di non annoiare la zia con i racconti delle sue giornate. L’unica e no, non è un’esagerazione.

 

Ftellina!” ripete, gonfiando subito le guanciotte. “Uffi, mi fono caduti i dentini! … eh, intanto io ho due dollari e tu no!”

 

Quasi si strozza con la sua saliva, non tanto per il modo in cui si è difesa da vera Fabray, quando per l’occhiata vittoriosa che la bimba, seduta sul tappeto, le scocca voltandosi.

 

“Ok, te ne poffo dare uno. Tanto ne ho due, che me ne faccio di due?” chiede alla zia ma rivolgendosi per sicurezza anche alla madre.

 

“Glielo puoi dare solo se viene qui a prenderlo” le suggerisce Quinn, facendola illuminare.

 

“Te lo regalo folo se vieni qui!” trilla subito dopo Beth, ridacchiando non appena sente la risposta.

“Ok, ora ti paffo la mami” sbuffa, imbronciandosi per l’offesa che le è appena stata fatta, salvo poi ridere di nuovo mezzo secondo dopo. “Anche io ti voglio bene!”

 

Quinn, seduta comodamente sul divano, fa una piega alla pagina del libro prima di sporgersi per afferra il suo telefonino dalle mani della figlia che, una volta liberatasi dal fardello, torna felice a colorare il suo album degli animali.

 

“Buonasera, straniera” sorride, appoggiando il cellulare all’orecchio. “Lo sai vero che non si rubano i soldi ai bambini, soprattutto se si parla di mia figlia?”

Fottiti, Fabray. Un regalo è un regalo, chi sono io per rifiutarlo?

Quinn ridacchia estremamente divertita, mordendosi un labbro non appena si focalizza sul pensiero di quanto la ragazza con cui sta parlando le manchi da morire.

Comunque, tralasciando quanto la mia baby sia un amore e quanto mi piaccia sentire il ‘tutto il Beth minuto-per-minuto’, ti ho chiamata per un altro motivo

“Quale?” chiede, corrucciandosi per il tono serio della migliore amica.

Sei in quello scherzo geografico da un mese ormai. Non hai ancora trovato un contadinotto ignorante che ti dia una bella sturata alle condutture?!

“Santana!” esclama, indignata, facendo poi segno con la mano ad una confusa Beth di tornare a colorare l’album. “Sei fortunata che ci sono delle orecchie innocenti ad ascoltare, altrimenti ti ci avrei mandata sicuramente” soffia, passandosi la mano libera lungo una ciocca bionda.

Lo prendo come un no?

“Ho conosciuto una sola persona da quando sono qui ed è molto più gay di te e Sebastian messi assieme”

Su questo permettimi di dissentire

Rotea gli occhi verso il soffitto, sospirando per il tono forzatamente malizioso usato dall’amica.

Comunque lo dico per il tuo bene. A me fa piacere se ti circondi di gai marinai come questo Turt–

“Kurt”

… come preferisci. Il punto è che hai bisogno di scopare! S c o p a r e! Scopare!” 

“Credo che chiuderò qui questa conversazione ormai ampliamente degenerata” sospira, massaggiandosi la tempia opposta all’orecchio a cui è appoggiato il telefono.

Ok, come vuoi. Lo dico per il tuo bene ma …  non mi dilungo oltre se questo è quello che vuoi

“Grazie a Dio”

Almeno esci! Chiedi a questo Kurt di farti da guida e metti le chiappe fuori da casa. Devi vedere persone nuove, conoscere gente, fare amicizia … divertiti, Quinn, hai solo venticinque anni

“Ho delle responsabilità”

Verso Beth, concordo, ma vorrei ricordarti che ne hai anche verso te stessa. Ormai la piccola può resistere a casa con una baby sitter, dai

“… ci penserò” concede dopo diversi secondi di silenzio in cui ha guardato Beth colorare il suo album con lo stesso impegno con cui un supereroe tenta di salvare il mondo.

Conoscendoti è già una vittoria. A proposito del tipo gay, Sebastian vorrebbe una foto

“Conoscendo Sebastian, mi capisci bene se ti dico che non lo farò” ridacchia, facendo ridere anche l’altra.

Capisco benissimo. Ora ti devo proprio lasciare, Quinn. Ho ancora un paio di bozzetti da finire e non ho la minima intenzione di essere sgridata … Dios mio, sgridata. Senti cosa mi sta facendo quella malata di mente della Wright?! Sto regredendo! E poi, ascolta questa perché è grossa. Viene dall’Ohio! Cioè, capisci? Viene da un buco e pretende di insegnare a me lo stile! No dico … a me!

“Dovresti esserle un minimo riconoscente, non credi?” la riprende da brava mammina, ottenendo uno sbuffo come risposta. “Ti sta aprendo un mondo e sai meglio di me cosa vuol dire potersi vantare di aver lavorato per Vogue”

Dici così perché non la conosci. È così … gentile e disponibile che … ugh, rabbrividisco. Lei sgrida, capisci? Dove sono finite le Miranda Priestly che ti vessano, ti urlano contro e ti umiliano per un caffè? Uhm?

“Colpa mia, dimentico sempre il tuo lato masochista” ridacchia, sorridendo alla pagina tutta colorata che le sta mostrando Beth. “Ti lascio ai tuoi lavori e ai tuoi scleri. Salutami Seb”

In cambio dai un bacio alla mia figlioccia. A domani, Fabray

“A domani, Lopez”

 

L’amicizia tra lei e Santana affonda le radici in una giornata afosa di tanti anni fa quando la famiglia Lopez aveva accolto ufficialmente i nuovi coinquilini dell’appartamento di fronte, i signori Fabray, offrendosi di ospitarli a cena.

Una volta lasciate sole a giocare, le bimbe più piccole delle due famiglie –Quinn ha una sorella maggiore, Frannie, di circa dieci anni più grande di lei, con cui non ha mai veramente legato– si erano subito sfidate a ‘chi ha la bambola più bella?’.

 

Quel giorno nacque la loro amicizia, tanto profonda quanto difficile da capire per gli altri. Un’amicizia costellata fin dall’inizio di grandi litigi e profonde invidie, una costante e non sempre leale rivalità a fare da filo conduttore.

Alla resa dei conti, però, nei momenti di vera difficoltà ci sono sempre state l’una per l’altra. Sempre, anche quando il resto del mondo aveva voltato loro le spalle.

Per amicizie così, vale la pena sopportare qualche discussione e qualche volgarità, anche se, al posto di qualche, sarebbe meglio metterci tante.

 

Appoggia il cellulare sul divano, lasciando un bacio tra i capelli di Beth prima di stendersi vicino a lei e consigliarla su come colorare i vari animali.

Anche se al momento sta bene più che bene così, in un futuro non troppo distante potrebbe davvero cercare di seguire il consiglio di Santana. In fondo ha ragione quando dice che ha solo venticinque anni, è che a volte se ne dimentica.

 

 

 

 

Note dell’autore.

 

Partiamo dalle cose importanti, ovvero i ringraziamenti a chi ha letto, commentato, messo nelle preferite, seguite e da ricordare la one-shot di ieri. Wow, siete grandi! Totalmente inaspettato, sono senza parole.

Per quanto riguarda questa fan fiction, una menzione particolare a COMETIPARE che ha commentato entrambi i capitoli precedenti. Grazie davvero!

 

Passando alle inutili note a margine, ho aggiunto Kurt tra i personaggi nelle note perché mi sto accorgendo, più vado avanti nella storia, che il suo ruolo è sempre più importante e si ritaglierà sempre più spazio.

Poi … la parte in corsivo scritta al passato e inserita tra gli asterischi ** è un flashback, lo scrivo per sicurezza. Nell’ultimo pezzo, ho scritto il dialogo tra Quinn e Santana tutto attaccato e con alcune parti in corsivo per distinguere la telefonata da un discorso normale.

 

Ultima cosa, Beth. Non è figlia di Puck, direi che è una bella bomba. Il padre farà la sua comparsa? Sì, più avanti, ma non aspettatevi il grande stronzo perché non ci sarà.

E parla in quel modo, ovvero f al posto delle s perché ha perso gli incisivi davanti. Se urta o da fastidio, lo cancello.

 

Altre cose non mi vengono in mente, a parte ovviamente la più importante. AUGURI a tutte le donne, vi mando una mimosa virtuale!

Lo so, sono un ruffiano.

 

Come al solito per qualsiasi cosa contattatemi con una recensione o per messaggio privato, vi risponderò il prima possibile!

Al prossimo weekend con il capitolo 3.

Pace.

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Capitolo 4
*** A tutti piace il football ***


Capitolo 3. A tutti piace il football.

 

You are young and life is long and there is time to kill today

And then one day you find ten years have got behind you

No one told you when to run, you missed the starting gun

 

Si sistema l’asciugamano in testa e chiude gli occhi, non potendo fare a meno di godere fisicamente per l’assolo di chitarra elettrica di David Gilmour.

 

C’è stato un periodo, quando era un giovane bulletto che sognava qualcosa ben al di sopra delle sue possibilità, in cui lui e … altri ragazzi della sua età avevano messo su una band per fare le cover dei Pink Floyd, degli AC/DC e di tante altre rock band di questo genere. Lui ovviamente era la chitarra solista.

Erano obiettivamente scarsi ma conserva ancora in maniera nitida nella mente il piacevole ricordo del senso di libertà che gli dava strimpellare con la chitarra, ululare al microfono e cercare gli spartiti nei negozi di musica.

 

Butta istintivamente un’occhiata alla vecchia custodia di cuoio nero, dello stesso colore della giacca di pelle, appoggiata contro il muro vicino alla porta del piccolo bagno della sua camera di motel.

Dio, come gli piacerebbe poterla suonare ancora una volta.

 

Il secondo gesto istintivo che fa è stringere a pugno la mano sinistra, osservando come pian piano le dita si chiudano su sé stesse e si pieghino, fermandosi a poca distanza dal loro limite naturale. Manca poco, pochissimo.

 

Mentre la meravigliosa ‘Time’ dei Pink Floyd continua a riempire la stanza, Noah si rimette al lavoro, terminando di asciugarsi.

 

Getta poi il telo bagnato su una sedia che ha preso in prestito dalla camera vicina, frugando nel borsone verde scuro alla ricerca di un paio di mutande pulite.

La soluzione motel sta cominciando a diventare decisamente scomoda e, se solo Burt si decidesse a contattarlo, potrebbe affittare un appartamento con la sicurezza di uno stipendio.

 

Non che i soldi siano un problema così impellente, ecco. Nonostante metà dei suoi guadagni siano finiti mensilmente nel conto di sua madre, ha da parte un gruzzolo consistente per un ventisettenne disoccupato, senza considerare il piccolo indennizzo che lo US Army gli farà recapitare sul suo conto fino a che non troverà lavoro.

 

E non è nemmeno il motel in sé a infastidirlo, molto più pulito e silenzioso del suo vecchio appartamentino a Fort Benning.

 

Quello che lo scoccia realmente è il fatto che, nonostante le rassicurazioni di Ryder sulla risposta che sarebbe dovuta arrivare entro due giorni, non è ancora stato contattato da Burt e di tempo ne è passato il doppio di quando avesse messo in preventivo.

 

Perché questa attesa? Burt non vuole vederlo? Oppure non ha ancora ricevuto il suo questionario? E se quel tizio gli avesse raccontato solo delle balle per farlo allontanare dall’officina?

 

Impreca tra i denti, cercando in tutti i modi di darsi una controllata. Arrabbiarsi per questa storia non può che avere ripercussioni negative sulla vita che sta provando a rifarsi.

 

Approfitta di uno dei tanti consigli che gli ha dato il dottore quando era in terapia, concentrandosi sui propri respiri per calmarsi. Non può fare nulla a questo punto, se non aspettare e vedere. Solo il tempo potrà dirgli come Burt reagirà al suo ritorno.

 

Si gratta con notevole finezza una chiappa, sedendosi poi sul bordo del letto ed allungandosi verso il comodino per afferrare una boccetta di medicinale.

Svita velocemente il tappo che fa anche da contagocce e preme la plastica morbida in modo da riempirlo. Ci impiega diversi secondi più del necessario per colpa delle sue grandi dita tozze, condendo il tutto con qualche bella esclamazione di rabbia, ma alla fine ce la fa.

Appoggia trionfalmente la boccetta sul comodino, portando le dita a tenere spalancate le palpebre dell’occhio sinistro.

 

Quando le prime due gocce arrivano a destinazione è costretto a fermarsi per il senso di assillante bruciore che prova. Stringe forte le palpebre in modo da non far uscire il medicinale, attendendo che l’irritazione passi per tornare in posizione.

Ripete l’operazione altre quattro volte per arrivare al conto totale di dieci gocce. Sorride, soddisfatto di sé, rimettendo il tappo alla boccetta e stravaccandosi completamente sul letto, godendosi la musica di sottofondo.

 

Un altro mese circa di trattamento e poi dovrà consultare un oculista della zona per sapere come procede la riabilitazione del suo occhio. Anche se, a giudicare da come riesca a vedere sempre più nitidamente e sempre meno sfocato dalla parte sinistra, è piuttosto sicuro che stia andando tutto per il meglio.

 

And I am not frightened of dying, any time will do,
I don’t mind. Why should I be frightened of dying?
There’s no reason for it, you’ve gotta go sometime

 

Le parole di ‘The Great Gig in the Sky’ gli fanno aprire gli occhi di scatto mentre diversi ricordi iniziano pian piano a passargli davanti.

 

La sua mano sale istintivamente fino a sfiorare il sopracciglio. C’è una cicatrice chiara che parte da lì, lambisce l’estremità dell’occhio e termina verso lo zigomo. Grazie all’abilità dei chirurghi delle basi tedesche in cui è stato ricoverato per diverso tempo e alla sua scorza dura non si vede quasi per niente, ma c’è.

 

Esattamente come il lungo taglio che parte dalla base del collo e arriva poco sotto il pettorale sinistro. C’è e questo si vedrebbe pure se non fosse per il tatuaggio maori che ne copre la maggior parte e che comunque distoglie l’attenzione dalla cicatrice.

 

E ne ha ancora, più o meno evidenti, nate tutte lo stesso giorno. Spiccano lucenti sulla sua pelle come se fossero un monito, un incentivo a ricordare lo spartiacque della sua esistenza.

Prima era solo un cane rabbioso accecato dall’odio, tanto menefreghista nei confronti della propria vita quanto impavido dinanzi alla morte; dopo, di nuovo un essere umano desideroso di tornare a vivere.    

 

Non è stato del tutto sincero con Deborah. Ha omesso questa parte, ovvero i circa due mesi che hanno preceduto il ritorno a Fort Benning e l’inizio del difficile percorso che sta tutt’ora intraprendendo, ma l’ha fatto solo per proteggerla. E, in tutta sincerità, ammettere con Menkins che è dovuto arrivare ad un battito di ciglia dalla morte per scegliere la vita gli è ampiamente bastato. Per il momento è giusto che non sappia che l’unica cosa che l’ha tenuto aggrappato alla speranza per quei lunghi ed atroci mesi è stata lei. È un fardello troppo grande anche solo da capire per una ragazzina, questo è il suo pensiero.  

 

Tre colpi alla porta della camera, forti e decisi, lo distraggono dai suoi cupi pensieri.

 

“Arrivo!” grugnisce a voce alta, recuperando velocemente un paio di pantaloni ed abbassando il volume dello stereo. “Chi diavolo è alla nove del mattino?!” ringhia tra sé e sé. È stato abbastanza chiaro con il proprietario circa il fatto che alle pulizie avrebbe pensato da solo ed è impossibile che in un giovedì mattina feriale qualcuno abbia il coraggio di protestare per le musica alta. Che poi, trattandosi di ‘The Other Side of the Moon’, per Noah è impossibile concepire come qualcuno possa avere il coraggio di protestare. Dovrebbero ascoltare tutti ed imparare, altroché.

 

Ogni suo istinto bellicoso si placa all’improvviso insieme alle parole di odio quando, dopo aver aperto la porta, si ritrova davanti una ragazza dai lunghi capelli castani e un sorriso accecante.

 

Sorriso che scompare immediatamente, finendo per essere sostituito da un’espressione confusa e da un rossore diffuso sulle gote dopo che i suoi occhi di un azzurro brillante hanno vagato per qualche istante sul torso scoperto di Noah.

“S-scusami” balbetta, incrociando le braccia al petto per stringersi nel golfino blu scuro che indossa. “Credo che il signore alla reception abbia sbagliato a dirmi il numero della stanza”

 

“Credo anche io” risponde burbero. Potrebbe anche essere più gentile visto che si tratta di una ragazza –carina, per di più–, ma ha sempre avuto la convinzione che uno scocciatore rimane tale indipendentemente da sesso, età, etnia e grado di bellezza. 

 

“M-mi spiace, non volevo disturbarla” mormora ancora più in impaccio, allontanandosi dalla porta per iniziare a trafficare nella borsetta appesa al braccio.

 

Richiude la porta senza nemmeno rispondere o salutare, fregandosene di essere sembrato un cafone. La sua unica preoccupazione è rialzare il volume dello stereo e tornare a riposarsi perché l’occhio ha iniziato a bruciare.

Prima di tutto non ha la minima intenzione di rimettersi altre gocce, cazzo! In secondo luogo, deve assolutamente avere un aspetto minaccioso per le sei.  

 

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Si versa una tazza di caffè appena fatto, inspirando a pieni polmoni il forte aroma della bevanda.

Fare la prima lezione di giornata è sfiancante non solo per il fatto che gli studenti, svegli da poco meno di mezz’ora, sono stanchi, assonnati e difficilmente gestibili, ma anche per il fatto che vale lo stesso ragionamento per l’insegnante che deve provare a tenerli svegli.

 

“Oh, ma andiamo!”

 

Si volta, appoggiando il sedere sul tavolo di legno per ammirare Kurt intento a lasciare segnacci rossi su una pila di fogli, probabilmente i test che ha fatto fare ai suoi studenti il giorno prima.

 

“Come si fa a scrivere cose del genere?” sbotta, cercando con lo sguardo Quinn per condividere con lei il proprio dolore. “Lo fanno apposta, non ci sono altre spiegazioni!”

 

La giovane insegnante ridacchia appena per il tono sconvolto del ragazzo, appoggiando la propria tazza sul tavolino per prendere quella di Kurt dalla piccola dispensa e riempirla di caffè.

 

“Prova con questo” gli sorride, porgendogli la bevanda calda e sedendosi al suo tavolo.

 

“Ci vorrebbe molto di più per aiutarmi a uscire da questo inferno di strafalcioni grammaticali, ma ti ringrazio comunque per il gesto” sorride di rimando, appoggiando la penna rossa su un foglio così segnato da coprire quasi completamente il testo in nero.

 

In ormai un mese di conoscenza, Quinn può affermare con assoluta certezza come Kurt sia un amico fantastico.

 

Innanzitutto, proprio come lei a suo tempo non fece strane reazioni di fronte alla sua omosessualità –cosa tanto normale per lei quanto incredibile per lui–, il giovane professore di francese ha evitato i soliti commenti quando gli ha confessato di essere una madre single con una figlia di sei anni. Niente ‘che fine ha fatto quello che ti ha messa incinta’ oppure ‘come fai a crescere una bambina con uno stipendio da supplente’ o ben più terribile ‘a cosa pensavi a diciannove anni per finire con il farti ingravidare?’ o simili.

Ha semplicemente ascoltato quello che Quinn si è sentita di raccontargli e, una volta fatto questo, ha chiesto di poter vedere una foto, squittendo qualcosa circa quanto sembrasse ‘dolce con quel musetto’ e imponendole di poterla conoscere al più presto.

Beth, ovviamente, l’ha adorato dal primo istante e Kurt ha dimostrato di saperci fare tantissimo con i bambini.

 

In secondo luogo è una persona di una cultura personale impressionante, amante come lei della lettura e del teatro, con una particolare predilezione per i musical.

Ha scoperto che parlare con lui è facile e gli argomenti non finiscono mai. È una sensazione piacevole a cui non è abituata ed è comprensibile dopo anni vissuti con una bimba piccola come unica interlocutrice, eccenzion fatta per le poche chiamate e le ancora più rare visite di Santana.

 

Ultimo ma non ultimo, ha un gusto estetico tremendamente sviluppato, come ha potuto constatare nelle ben tre occasioni in cui l’ha portata a fare shopping al centro commerciale della città, una delle quali con Beth a rimorchio.

Inutile dire che nell’ultima occasione è tornata a casa con una sporta piena di vestitini autunnali per la sua bambina, molti dei quali probabilmente non reggeranno più di una settimana al suo moto perpetuo.

 

“No, ok, fin’ora abbiamo scherzato ma questo è troppo” sbotto Kurt, indicando con la penna un punto sul foglio che Quinn si affretta a guardare, parecchio curiosa. “C’è scritto Parì!”

 

“Cosa vuol dire?” sorride la ragazza, non cogliendo al volo.

 

“Non vuol dire niente, ha semplicemente scritto la pronuncia di Parigi anziché il nome e basta” geme, massaggiandosi le tempie con i polsi.

 

Quinn si lascia scappare una grossa risata, estremamente divertita dall’espressione assolutamente distrutta dell’amico più che dall’errore del test in sé.

 

“Ok, basta per un po’ altrimenti esplodo” borbotta, prendendo un sorso generoso di caffè. “E questa roba non serve. Oh, Lima Bean, perché non sei aperto anche la mattina?”

 

“Fa solo un buon odore, il sapore invece sembra caffè d’orzo” annuisce la bionda, picchiettando con fare comprensivo la mano su quella di Kurt che ha lasciato cadere la penna. “Per quanto riguarda i test, questo …” sorride, indicandolo “… è il motivo per cui preferisco farne il meno possibile” 

 

“Ah, sì? E come valuti i tuoi studenti?”

 

“Sono felice che tu me l’abbia chiesto” sorride Quinn, già pronta a ricevere un commento entusiasta dall’amico sul suo metodo di insegnamento. “Ricerche individuali da fare a casa e temi da fare in classe. Cerco di stimolarli a leggere, a documentari e a sviluppare una loro coscienza critica”

 

Kurt inarca elegantemente un sopracciglio che da solo è abbastanza significativo su cosa ne pensi della cosa, ma decide comunque di farlo capire chiaramente anche con le parole.

“Qui? Al McKinley di Lima, Ohio?” dice con voce sembra più acuta, prima di scoppiare a ridere. “Il più intelligente della mia classe pensa che la Francia sia un paese di ubriaconi che bevono vino a colazione e di mangiatori di lumache” le spiega facendo svolazzare un foglio in aria, probabilmente il test del ‘migliore’ a cui fa riferimento. “Molti di loro non hanno idea di cosa succeda a più di un palmo dal loro naso e seguono la massa senza nemmeno riuscire a capire il perché fanno quel che fanno, figurarsi se sono in grado di sviluppare una coscienza critica”

 

Quinn rimane un attimo ammutolita per l’impeto e la durezza delle parole di Kurt, tanto che è lo stesso insegnante di francese a riprendere a parlare.

 

“Scusa, non sono obiettivo quando parlo di questa scuola” si giustifica, negando alla donna la possibilità di captare il suo sguardo fissando il contenuto della tazza che ha in mano. “È che … per anni mi sono scontrato con la realtà di questo posto. E io … ho semplicemente perso la fiducia nelle persone che vivono in questa città”

 

Non è la prima volta che le menziona il suo passato da liceale al McKinley ma, ogni dannata volta, non è riuscita ad andare a fondo del problema, sia per discrezione, sia per educazione, sia per mancanza di confidenza.  

Ora, però, è piuttosto sicura di poter osare.

“Cosa ti è capitato, Kurt?”

 

“Ero semplicemente l’unico gay dichiarato della scuola, niente di più, niente di meno” sospira, l’aria assorta di chi rivanga eventi dolorosi nella propria mente. “Diciamo che, per assicurarsi che non me ne dimenticassi mai, non perdevano occasione per ricordarmelo. Testa nel water, volteggi nella pattumiera e … lo so che è difficile da credere ma non sto dicendo bugie … granite. Mi lanciavano addosso delle granite”

 

“Mi dispiace” prova Quinn, appoggiando timidamente una mano su quella più vicina di Kurt. “Deve essere orribile camminare qui dopo quello che hai dovuto passare”

 

“Non più di tanto” mente, e se persino lei che non lo conosce bene se ne rende conto così facilmente, o Kurt è un pessimo bugiardo o fa troppa fatica a nascondere la sua inquietudine. “Poi il liceo non è stato proprio tutto tutto da buttare. Verso la metà del mio terzo anno mio padre si è risposato con donna meravigliosa, Carole, e le cose sono migliorate”

 

“Come mai?” chiede, incuriosita. Anche perché prima d’ora non avevano mai parlato di famiglia.

 

“Perché Finn, suo figlio, è diventato il mio fratellastro e di colpo mi sono ritrovato a vivere sotto il tetto con uno dei più popolari della scuola, il quarterback della squadra di football”

 

“Sembra quasi una cosa da telefilm” sorride Quinn, rallegrata dal miglioramento repentino d’umore del collega.

 

“Molte delle cose successe dopo lo potrebbero essere, in effetti” concorda Kurt, rispondendo al sorriso. “Alla fine di quell’anno, non senza drammi, eravamo riusciti a creare un gruppo affiatato di amici. Da una parte c’ero io con le mie due migliori amiche, Rachel e Mercedes, e dall’altra Finn con i suoi due migliori amici …” si prende una pausa, diversi secondi di nervosismo in cui Quinn non sa se fare o dire qualcosa “… Puck e Sam”

 

“Non siete più in contatto?” chiede, titubante, non riuscendo a cogliere al volo quanto Kurt faccia fatica a parlarne.

 

“Con Rachel e Finn sì, praticamente tutti i giorni. Ora vivono a New York, una storia incredibile la loro” ride il professore, ma è una risata amara. Deglutisce un paio di volte prima di ricominciare a parlare con un tono di voce troppo debole e spezzato per non far capire che qualcosa non va. “Mercedes si è trasferita in California anni fa e … d-da allora non la sento più”

 

Quinn capisce che non è il caso di andare oltre e quindi annuisce e basta, prendendo con tanta e finta indifferenza il cellulare dalla tasca per mandare uno smile a Santana via sms, che sicuramente non è un’idea geniale ma è meglio che rimanere a fissare Kurt in difficoltà.

 

“S-scusami, davvero” soffia il professore di francese dopo un minuto abbondante di silenzio. “Sono troppo emotivo su certi argomenti, me lo dicono tutti”

 

La donna annuisce ancora, giocherellando con la custodia del suo iPhone. Forse potrebbe … seguire il consiglio di Santana? Forse?

“Stavo pensando ad una cosa” mormora titubante, attirando maggiormente l’attenzione di Kurt. “Di sera, a Lima, cosa c’è da fare?”

 

“Non molto, in realtà. Cinema, bowling … soliti cliché da paesino di periferia” spiega con una nota polemica non celata. “Spostandosi a Columbus è meglio ma fare quasi tre ore di macchina tra andata e ritorno è scomodo”

 

“Abbastanza” concorda Quinn, visibilmente delusa.

 

“Ti piace il football?” chiede  Kurt, rianimatosi all’improvviso.

 

“Non molto, in realtà. Perché?”

 

“Oggi, alle sei, la squadra del liceo fa il suo esordio nel torneo regionale e, dopo la partita, di solito organizzano una sorta di festa a base di birra, hot-dog e pesca di beneficenza”

 

“Non ti facevo un fan di questo tipo di cose” scherza Quinn, ricevendo un’occhiataccia come risposta.

 

“Carole fa parte del comitato cittadino che gestisce questi eventi, non posso non esserci”

 

La bionda ci riflette un po’ su, combattuta dalla repulsione fisica che prova verso il football dopo quattro anni passati a sventolare pompon e la voglia di ‘darsi una mossa’, come le ha consigliato Santana. C’è solo un problema …

“Secondo te posso portare Beth senza temere parolacce, bestemmie e risse?”

 

Ovviamente

 

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Oh, il campo da football!

Quanti ricordi, quante sensazioni, quanta gioia dopo una vittoria ottenuta combattendo con le unghie, i denti e i placcaggi per una yard alla volta.

 

Se respira a fondo può sentire distintamente l’odore dell’erba sui vestiti e il puzzo di sudore dello spogliatoio, chiude gli occhi riesce ancora a udire gli applausi del pubblico e, se si concentra bene, può percepire ancora il dolore ad ogni muscolo del corpo una volta finita la partita.

 

“Sei diventato parecchio pensieroso, sai?”

 

“E tu invece un’impertinente” sbuffa, cercando con nemmeno troppa convinzione di darle un pizzico sulla gamba. “Perché non sei insieme a tutte le altre cheerleader invece che qui ad infastidire me?” chiede indicando con un cenno del capo il gruppetto di Cheerios che si scalda a bordo campo, a debita distanza dai giocatori delle due squadre per non distrarli.

 

“Sono del primo anno, sono qui solo per fare scena” fa spallucce Deborah, indifferente. “E poi, anche se fossero quelle serie, non sarei andata comunque. È la prima volta che vedo una partita dal vivo con te seduto vicino”

 

“Già” è l’unica parola che gli esce dalle labbra per diversi secondi. Sua sorella ha ragione, è diventato davvero pensieroso. “Quando mi sono seduto, la prima cosa che mi è venuta in mente è l’immagine di te che saltellavi proprio su una di queste panche ad ogni mio touchdown”

 

Deborah gli stringe un braccio e appoggia il capo sulla spalla, accoccolandosi senza alcuna vergogna contro il suo adorato fratellone. Sono pur sempre in pubblico e gli spalti sono pieni, ma non gliene potrebbe fregare di meno. “Venivo ad ogni partita per vederti giocare, ero la tua fan numero uno. Mi ricordo che c’erano anche Stacey, Steven, la signora Evans, il signor Hummel, Kurt, Mercedes e … Noah?”

Si interrompe, preoccupata, quando lo sente irrigidirsi nella sua presa.

“Cosa c’è?”

 

“Non parlare di loro, n-non … non nominare … lei” balbetta, tremendamente serio ed agitato. Può persino sentire distintamente il suo battito accelerato.

 

“O-ok, d’accordo” sussurra, decisamente a disagio. “Scusami”

 

“Ci sto ancora lavorando” cerca di rimediare lui, provando a calmarsi. Impresa difficile ad occhio e croce. “Io la odio e non posso … non riesco a smettere di farlo. Io lo so che non dovrei ma è più forte di me. E … sono spaventato dall’odio che ancora provo, ma soprattutto dal fatto che questo odio n-non … non è nulla in confronto alla rabbia che provo verso quel bastardo senza palle

 

Silenzio.

 

“… parli di Finn?”

 

Di nuovo silenzio.

Deborah era troppo piccola per ricordarsi esattamente cosa sia successo tra il suo fratellone e gli altri e non ha mai avuto modo di approfondire la cosa. Più che altro non ne ha mai avuto modo visto che gli unici due con cui avrebbe potuto parlarne, ovvero Noah e Kurt, per un motivo o per un altro non sono mai stati disponibili ad un dialogo del genere.

 

“Qual è il tuo ragazzo?” chiede Noah, rompendo il silenzio che dura già da un paio di minuti, mentre i Titans del liceo McKinley fanno il loro ingresso nel campo per un breve riscaldamento, accolti da timidi applausi del pubblico.

 

“Numero otto, capelli castani”

 

L’omaccione annuisce, ignorando il tono di rimprovero della sorella, e strizza le palpebre per sforzare la vista dell’occhio sinistro, ancora appannato, e riuscire a distinguere il famigerato approfittatore di sorelle tra la massa di giocatori in divisa rossa e pantaloncini bianchi.

“Ruolo?”

 

“Wide receiver” sorride Deborah, saltando in piedi e iniziando a mulinare le braccia al cielo non appena si accorge che uno dei giocatori, molto probabilmente il suo ragazzo, l’ha notata tra il pubblico e la sta salutando dal campo. “Quello è Devon”

 

Ragazzo non troppo alto e snello, come ci si aspetta da uno che gioca nel suo ruolo, capelli castani arruffati e … basta, non riesce a distinguere altro dalla sua posizione. Eppure sono dati sufficienti a fargli affermare con assoluta certezza che “Ha una faccia da scemo”

 

Uno schiaffo parecchio forte gli arriva sulla nuca, accompagnato da un paio di risate dalle persone che sono sedute vicino loro e si stanno godendo la scenetta prepartita.

“Smettila subito, ok?”

 

“Sto solo dicendo quello che vedo” si giustifica con un borbottio, accompagnato da qualche ahia mentre si passa la mano sul punto dolorante. “Almeno è bravo?” chiede con una punta di ironia mal celata.

 

“Molto” risponde Deborah, piccata, incrociando le braccia al petto, ormai staccatasi del tutto dal fratello che si sta rivelando più insopportabile che mai.

 

Molto non è una risposta” borbotta infatti Noah. “Che media di ricezioni per lancio ha? Quanti touchdown ha segnato? Quante yard ha percorso la scorsa stagione? Da questo si capisce se uno è bravo o meno”

 

“Pensi davvero che sappia tutto queste cose? Non sono mica un osservatore collegiale, io faccio la baby sitter” sbuffa la ragazza, indispettita, fulminando li fratellone con uno sguardo. “Ero certa che sarebbe finita così”

 

“Così come?” chiede, aggrottando le sopracciglia.

 

“Da scimmione idiota”

 

Il ragazzone scuote la testa un paio di volte, grugnendo qualcosa di simile a “Non è vero” mentre un fischio lungo e prolungato esce dagli altoparlanti.

L’impianto acustico del campo da football del McKinley era vecchio già quando era al liceo sua madre, figurarsi come può essere ora. Difatti riesce ad assordare per bene l’intero pubblico prima di iniziare a trasmettere una versione lenta e gracchiante dell’inno.

 

Noah scatta un piedi con una specie di balzo, portando il braccio sinistro dietro la schiena e la mano destra sulla fronte in un rigido saluto militare di cui, diversi anni fa, avrebbe riso e anche di gusto.

Ma questa è una di quelle cose che rimane sottopelle, una delle meno fastidiose ad essere onesti, perché si tratta di un gesto che ha ripetuto per anni e anni, visto fare da tutti i suoi compagni d’arme ogni giorno di ogni settimana di ogni mese e non può proprio farne a meno.

 

Quando l’inno termina e le due squadre entrano in campo per il calcio d’inizio, Noah sa esattamente di avere lo sguardo di Deborah su di se ma, per una volta, preferisce rimanere in silenzio e guardare la partita.

 

Perché sua sorella ha ragione, si è comportato un po’ da idiota. Però, a sua parziale discolpa, è così che si è sempre immaginato si debba comportare un fratello maggiore: protettivo, geloso e un po’ stronzo verso i fidanzati della sorellina.

E non è un errore, se l’è sempre dovuto immaginare perché quando era a Lima Debs era troppo piccola e, essendosi arruolato, non ha potuto essere presente quando serviva.

 

Come gli accade spesso ultimamente, è così concentrato sui propri pensieri da estraniarsi completamente dal resto del mondo. Proprio per questo rischia di perdersi il primo touchdown dei Titans.

 

Rischia solamente, però, perché il signore seduto proprio davanti a lui schizza in piedi molto prima del resto del pubblico, distraendolo e facendolo riconcentrare sul campo.

 

E di questo dovrebbe essere grato perché, senza quel signore stranamente agitato, si sarebbe perso un lancio straordinario del quarterback dei padroni di casa, un ragazzo con il numero sei piuttosto ben piazzato, l’altrettanta straordinaria corsa del suo arcinemico Devon, la sua presa sull’ovale tutt’altro che semplice e il balletto con cui il ragazzo di sua sorella festeggia i primi sei punti per i Titans dopo solo trenta secondi di partita.

 

Si concede un timido applauso mentre il resto della folla è in delirio, Deborah urlante al suo fianco compresa.

 

“Allora? Che ne dici?” gli chiede puntandogli il dito contro in un evidente segno di sfida.

 

“Bella meta, te lo concedo” sorride furbescamente, osservandola riaccomodarsi al suo posto. “Così lui è diventato quello per cui tifare e saltare sulla panca, uh?”

 

La ragazza abbassa lo sguardo, leggermente in imbarazzo, giocherellando con il bordo della sua felpa come fa sempre quando è un po’ nervosa.

“Solo perché tu non giochi più” gli sorride di rimando, guardandolo negli occhi. “Sarò sempre la tua fan numero uno”

 

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“Allora, Quinn, ti stai divertendo?”

 

La giovane insegnante distoglie lo sguardo da Beth, impegnata in un racconto mozzafiato –nel senso che non mette le pause tra una parola e un’altra, le pronuncia tutte attaccate– con Burt Hummel, il padre di Kurt, per incontrare il sorriso rassicurante di Carole, la matrigna del suo collega.

 

“Oh sì, molto”

E non è una bugia. Contrariamente ad ogni sua aspettativa, infatti, non solo guardare la partita le è piaciuto ma per qualche misterioso motivo Beth è rimasta seduta composta per tutto il tempo, saltando di gioia insieme al pubblico più per trasporto che per vero interesse.

 

“Tua figlia è un amore”

 

“La ringrazio” sorride fiera, rivolgendo un’altra occhiata di controlla alla sua bambina, ancora alle prese con Burt. Ad essere onesti, quando Kurt gli ha presentato questo uomo un po’ attempato, con il volto scavato e stanco ma un fisico comunque robusto, vestito con camicia di flanella, jeans abbastanza consunti e cappellino da baseball, non è riuscita ad impedirsi di rimanere, usando un blando eufemismo, sorpresa.

Si aspettava un signore distinto ed elegante, è inutile negarlo. Parlandoci, però, le sono bastate una paio d’ore per capire che sì, quell’uomo è esattamente il tipo che potrebbe crescere un fiore raro come Kurt e, in secondo luogo, che non sarebbe dispiaciuto nemmeno lei averlo al posto di suo padre Russell.

“Se posso dire una cosa, a me piace molto come avete organizzato questo … stand? Posso chiamarlo così?” chiede, indicando le due tavolate portate in campo subito dopo la fine della partita.

 

“Credo di sì” annuisce la donna, un po’ in carne in effetti, ma comunque molto dolce e materna. “L’idea è venuta per caso  a me e ad una mia amica, Claire, che è la signora bionda che fa gli scontrini. Lei faceva già parte dell’associazione civica, io ero solo una casalinga con una passione per la cucina e, per colpa di mio marito e di mio figlio Finn, con una notevole esperienza in fatto di birra e di uomini che guardano il football”

 

Quinn ridacchia divertita, perché non ha difficoltà a immaginare Burt seduto sul divano, mentre ne ha molte a pensare a cosa faceva Kurt durante la visione delle partite in tv.

 

“Claire ha sempre avuto molto a cuore l’aiuto ai più sfortunati, infatti molto di quello che percepisce di pensione lo devolve alla mensa dei poveri” continua Carole, piacevolmente colpita dall’attenzione di Quinn alle sue parole. “Solo che, come puoi immaginare, una sola persona non basta. Una volta mi stavo lamentando di Burt con lei. Le dissi qualcosa del tipo … ogni volta che andiamo a vedere il football, mio marito si lamenta sempre di come gli tocchi aspettare di essere a casa per gustarsi un hot-dog! Lei ha fatto il collegamento ed è venuto fuori questo. Lo facciamo ad ogni partita dei Titans e ricaviamo abbastanza per aiutare i bisognosi”

 

“Un’iniziativa bellissima, signora-”

 

“Carole” la interrompe, con un sorriso. “Solo Carole, e lui è solo Burt. E dacci pure del tu”

 

Quinn annuisce, sorridente. I genitori di Kurt sono fantastici, non può dire nulla. E se l’ha capito dopo un paio d’ore di conoscenza, lo sono in maniera inconfutabile.

 

“Mami” la richiama Beth, tirandole la maglietta per farsi guardare. “Io, Kurt e il fuo papi poffiamo andare alla pefca?”

 

“Magari vinciamo qualcosa di carino” sorride anche il giovane insegnante di francese, stranamente silenzioso durante tutta la serata, accarezzando la testolina bionda della piccola Fabray in miniatura.

 

È buffo come funzioni la fiducia. Non lascerebbe Beth da sola con Santana, che è la persona più importante della sua vita dopo sua figlia, ma è fortemente tentata dall’affidarla a una persona che conosce da un mese a dire tanto e una persona che, pur essendo il patrigno del suo amico, è in pratica uno sconosciuto.  Eppure …

“Va bene” sbuffa alla fine, dopo aver riflettuto sul fatto che può comunque tenerla sott’occhio dal punto in cui si trova ora. “Ma rimani sempre vicina a Kurt, ok? Sempre, anche se vinci qualcosa e vuoi a tutti i costi farmelo vedere”

 

“Ok!” annuisce Beth, smagliante ed accecante con il suo sorriso bucato.

 

“Tieni, Kurt” aggiunge Quinn allungando una banconota da dieci dollari al ragazzo che però scuote la testa.

 

“Offro io” interviene Burt. “È il minimo che possa fare dopo che tua figlia mi ha raccontato per filo e per segno la storia delle tre scimmiette che non conoscevo assolutamente” sorride, facendo ridacchiare Beth. “Permettermi di insistere”

 

“Grazie sign- … grazie, Burt”

 

Quando il terzetto è un po’ più lontano, ovviamente sempre sotto il suo sguardo indagatore, la risata di Carole le fa sollevare automaticamente il sopracciglio.

 

“Come ti ho già detto, tua figlia è un amore. Burt è già stato conquistato” spiega la donna. “Tu non puoi saperlo, ma il motivo per cui non ha ordinato un hot-dog con tutto sopra e birra come noi è che diversi anni fa ha avuto un grave infarto. Quindi … beh, non ne può mangiare ma ogni volta che arriva alla cassa e se ne ricorda mette sempre il muso. Oggi no”

 

“Beth fa quell’effetto praticamente ad ogni persona che incontra” asserisce Quinn, pensando a Santana e Sebastian, la regina e il re dei musoni di tutto l’Universo. “Anche a me, sempre”

 

La chiacchierata prosegue tranquilla, permettendo a Quinn di osservare Beth alle prese con il banchetto della pesca di beneficenza e al tempo stesso di scambiare con Carole aneddoti su come è stato crescere i rispettivi figli.

Inoltre, in questo modo la giovane insegnante viene a sapere diverse cose che Kurt ha omesso. Come ad esempio che sua madre è morta quando era piccolo, esattamente come il marito di Carole, un militare deceduto durante la Prima guerra del Golfo.

 

Quando, spinta dalla curiosità, sta per chiedere cosa sia successo nel gruppetto di amici di Kurt e perché il ragazzo abbia difficoltà a parlare dei due amici di Finn, Sam e Puck se non ricorda male, il suo cellulare squilla.

“Scusami un secondo, Carole” mormora, prendendo fuori l’apparecchio dalla borsetta. “È il … il padre di Beth” aggiunge dopo aver letto il nome comparso sullo schermo. “Se Beth torna mentre sono al telefono puoi pensarci tu a tenerla qui?”

 

“Certamente”

 

Sorride, grata, accettando la chiamata mentre si alza dal tavolo dove hanno mangiato e inizia a camminare, tenendo comunque Beth nel campo visivo.

“Pronto?”

Buonasera, splendore. Come stanno le mie bionde?

Quinn sorride, di nuovo, stavolta per quel modo di fare che, nonostante tutta l’acqua passata sotto i ponti, riesce sempre a scaldarle il cuore.

“Le tue bionde stanno bene, hanno la pancia piena di hot-dog e patatine e si sono divertite un mondo ad una partita di … no, non te lo dico. Indovinalo tu che sport piace a Beth”

Fin troppo facile. Football

La donna spalanca la bocca, sorpresa, salvo poi ricordarsi con chi sta parlando, l’uomo dall’istinto infallibile.

“Ok, come hai fatto? Hai una specie di satellite puntato su di noi?”

Certo che sì. No, dai, l’ho sparata e ci ho preso. Senti … io ho ancora del lavoro da fare qui ma … tra un paio di settimane pensavo di passare a salutarvi. Che ne dici? Disturbo?

“No che non disturbi!” esclama, quasi offesa, prima di abbassare il tono di voce perché  tecnicamente sarebbe in luogo pubblico. “Lo sai bene che Beth muore dalla voglia di vederti. Non devi nemmeno chiedere”

Fantastico! Senti … posso salutarla?

“Oh” mormora, guardando la bambina vicino a Kurt, intenta a ballare o qualcosa di simile. “Ora sta giocando. Posso andarla a chiamare se-”

No, no, tranquilla. Lasciala giocare

“Ti faccio chiamare comunque dopo, ok?”

Sarebbe perfetto. E … non dirle niente, per favore. Della visita dico. Non vorrei mai sentire la sua vocetta delusa nel caso venisse fuori un problema che faccia saltare tutto

“Christian … fai in modo di venire lo stesso. Manchi tanto, soprattutto a lei”

Mi spiace, Q. Faccio quel che posso. Ora vado, aspetto la chiamata di Beth. A presto

 

Quinn sospira, passandosi una mano sulla fronte. Forse ha esagerato nel tono o nel modo. Sa perfettamente di non avere nulla da rimproverare a Christian, né su come decise allora di prendersi cura di lei dopo la scoperta della gravidanza inattesa né sul modo in cui sta vicino a Beth senza essere assillante nei suoi confronti. È difficile per tutti, l’hanno sempre saputo. Ad essere onesti, a volte non le dispiacerebbe avere qualcuno di presente trecentosessantacinque giorni all’anno. Solo a volte, però, perché basta il sorriso di Beth che torna vincitrice dalla pesca a riscaldarle il cuore come faceva sempre Chris.

 

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Suo padre che, dopo una serata bella tosta passata fuori, gli chiede di rimanere qualche minuto con lui prima di tornare al suo appartamento è decisamente una cosa molto bizzarra.

Suo padre che sorseggia il the ancora di più.

 

“Papà … cosa dovevi dirmi?”

 

Burt non è mai stato un uomo dalle grandi parole, più che altro si è sempre espresso con i gesti.  

Ed è esattamente così che fa anche in questa occasione. Prende una rivista di automobili dal tavolino in vetro che Carole ha insistito per mettere tra il divano e la televisione, la apre, ne estrae un foglio ripiegato a metà e lo porge al figlio.

 

“Che cos’è, papà?” farfuglia Kurt, già nervoso. “Non sono gli esiti degli ultimi esami che hai fatto, vero? Perché sarebbe un modo davvero crudele di dirmi che-”

 

“Leggi quel fax, Buddy

 

“Potrei essere meno duro visto che … oh

Si interrompe da solo questa volta dopo aver letto il nome che compare sul modulo di assunzione dell’officina di suo padre.

“Puckerman … Noah Puckerman è tornato?”

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore.

 

Tecnicamente avrei dovuto pubblicare questo capitolo mercoledì per postare il prossimo entro lunedì. Purtroppo ho avuto diversi problemi di natura famigliare, motivo per cui spero di pubblicare il prossimo capitolo entro il weekend della prossima settimana.

 

Spazio per i dettagli tecnici: le due canzoni di cui ho preso i pezzetti nella prima parte sono ‘Time’ e ‘The Great Gig in the Sky’ dei Pink Floyd, entrambi dall’album ‘The Dark Side of the Moon’. Vi invito a cercare la traduzione dei pezzetti su internet, capirete di più del capitolo, e a sentire le canzoni. Sono meravigliose.  

 

Che dire? Non molto, in realtà. Spero che non sia stato troppo noioso. Me ne rendo conto, forse ho esagerato con i pensieri e le introspezioni ma … era necessario. Inoltre spero sia piaciuto l’ultima parte, il breve confronto tra Kurt e Burt, probabilmente dal prossimo capitolo aggiungerò anche il punto di vista di Kurt oltre a quello di Kurt e Quinn. A proposito, Buddy è uno dei soprannomi più tipici con cui i genitori chiamano i propri figli, almeno stando a quello che ho trovato su internet.

 

Ho introdotto Christian, ho introdotto Devon, ho introdotto Finn e qualcosa del rapporto con Puck e Kurt … e ho nascosto una bella sorpresina da qualche parte che riprenderò più avanti.

 

Molto presto ci sarà questo benedetto incontro tra Quinn e Puck, promesso.

 

Ringrazio chi legge, chi commenta –grazie mille, COMETIPARE ;)-, chi ha messo nei preferiti, nei seguiti e nei da ricordare. GRAZIE!

 

Rinnovo l’invito a chiedermi qualsiasi cosa nel caso abbiate dubbi, sia per recensioni che per messaggio privato.

Alla prossima settimana!

Pace.

 

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Capitolo 5
*** Tutta la Verità, nient'altro che la Verità ***


Capitolo 4. Tutta la Verità, nient’altro che la Verità

 

 

“Potresti essere meno duro visto che … oh”

Si interruppe da solo dopo aver letto il nome scritto in cima al modulo di assunzione dell’officina di suo padre.

“Puckerman … Noah Puckerman è tornato?”

 

“A meno che non sia uno scherzo ben congeniato, deve essere lui” sospirò suo padre, sollevando la visiera dell’inseparabile cappello per guardare meglio gli occhi incerti del figlio. “In più ho chiesto a Ryder di darmi una descrizione fisica del tipo che ha compilato quel modulo e sì, appena mi ha detto che era uno abbastanza alto e piuttosto massiccio con una cresta e il resto del cranio rasato ho capito. È davvero lui”

 

Kurt continuò a stringere per diversi lunghissimi secondi il foglio tra le dita, provando senza successo ad articolare un singolo suono.

“I-io non …” balbettò dopo un po’ “… non capisco. Ma … quando?”

 

“Cinque giorni fa più o meno. Se invece mi chiedi da quando è a Lima, non saprei come risponderti. Potrebbe essere una settimana come un paio di mesi o più”

 

“… Dio mio”

 

“Addirittura, Kurt?!” sorrise suo padre, nel tentativo di smorzare la tensione, giocando sul fatto che un tipo non credente come suo figlio potesse essere così sconvolto dall’invocare il Suo nome.

 

“Perché?” lo ignorò lui, gesticolando e facendo svolazzare il foglio per il nervosismo. “Insomma … perché in questo modo? Poteva … poteva venire da te, da me o … questa è stata la sua casa per un anno, cazzo!”

 

“Buddy …” lo richiamò suo padre, appoggiandogli una mano sulla gamba “… respira, per favore. L’ultima volta che è stato a Lima non se ne è andato in maniera felice, potrebbe essere ancora arrabbiato oppure credere che noi siamo ancora furiosi con lui”

 

“Ma è successo più di nove anni fa!” sbottò Kurt, incredulo. “Non me lo ricorderei nemmeno se non fosse … lo sai” mentì, sperando tuttavia di tirare acqua al suo mulino e convincere Burt.

 

“Sto solo facendo delle ipotesi. Un’altra idea che mi sono fatto è che non sia più il Puck che siamo abituati a conoscere” aggiunse a bassa voce, studiando con accuratezza le espressioni sul volto del figlio.

 

“I-in … in che senso?” chiese Kurt, più disorientato che spaventato dall’idea.

 

“Che quello che è successo quel giorno non sia stato un episodio isolato. La guerra ti incrina qualcosa dentro, indipendentemente da quanto uno sia forte di testa. Hai presente quello che è successo al padre di Finn?”

 

Un reduce di guerra congedato con disonore e diventato dipendente da droghe e medicinali una volta tornata in America che, piuttosto che farsi vedere ridotto in quello stato da sua moglie e suo figlio, era scappato di casa, finendo con il morire come un cane a Cincinnati per overdose … certo che l’aveva presente.

“S-sì”

 

“Ora …” riprese Burt, notando lo sguardo turbato del figlio “… non dico che questo sia il caso ma non mi sento di escludere nulla e mi limito ai fatti. In questo momento so solo che è tornato qui e vuole incontrarmi, anche solo per avere un lavoretto in officina. Domani lo chiamerò e fisserò un colloquio”

 

“Non l’hai ancora fatto?”

 

“Non sei l’unico ad essere scioccato da questa vicenda, Buddy, ho voluto prendermi del tempo per assimilare la cosa” si difese all’istante dopo aver sentito un briciolo di accusa nella domanda di Kurt. “E prima voleva mettere te al corrente di tutto”

 

“Posso venire anche io al colloq-”

 

“No” lo fermò subito il padre, brusco. “Devo prima valutare diverse cose per non mettergli troppa pressione e … non sappiamo nemmeno se vuole riallacciare i vecchi rapporti. Dobbiamo andare con i piedi di piombo, usare calma, pazienza ed essere disposti ad ascoltare e perdonare.”

 

“Non sono d’accordo, è uno degli amici più cari che abbia mai avuto e ho il diritto di rivederlo!” ribatté immediatamente Kurt, ricevendo uno sguardo di disapprovazione dal padre.

 

“Quel giorno ricordo perfettamente che tu gli dissi di non volerlo rivedere mai più in vita tua. Aspetta” lo anticipò, alzando la mano per fermare le sue proteste. “Io so che tu eri solo sconvolto e che ora sai di aver esagerato. Lui invece no. Aspettiamo e vediamo come comportarci, ok? Magari ha solo paura di non essere ben accetto. Sarebbe in perfetto stile  Noah Puckerman, non credi anche tu?”

 

“Sì però … va bene, hai ragione” concesse, mordendosi il labbro. “Non è detto che voglia rivedermi dopo quello che è successo” ammise a malincuore, stringendo con forza il pezzo di carta che aveva ancora tra le mani.

 

“Puoi dormire nella tua vecchia stanza per stanotte, Buddy”

 

Sorrise di cuore all’affermazione di Burt. Ormai dovrebbe aver capito quanto sua padre sia per distacco il migliore del mondo ma ogni volta riesce a sorprenderlo di più.

“Grazie”

 

“Di nulla” disse l’uomo, facendo leva sulle ginocchia per alzarsi dal divano. “Ci dovrebbe essere del latte fresco in frigo. Vuoi che te ne scaldo un po’?”

 

Miglior. Papà. Di. Tutto. L’Universo.  

 

 

Nasconde il cumulo di pensieri riguardo alla chiacchierata con suo padre della sera prima che gli affollano la mente dietro ad un generoso sorso di latte macchiato scremato dal bicchiere del Lima Bean, scrutando con lo sguardo le persone che affollano il suo bar preferito della città. Sono ragazzini, per lo più, e una discreta parte di loro è impegnata a guardare sottecchi Quinn. Non è difficile immaginare il perché.

 

“Tutto ok?” chiede la ragazza in questione, sollevando lo sguardo dall’elenco di baby-sitter che le ha fornito Carole non appena si sente osservata dall’amico.

È da quando si sono incontrati a scuola diverse ore prima che si è accorta che c’è qualcosa che non va e glielo ha già chiesto due o tre volte, evidentemente nella speranza che decida di confidarsi con lei, senza mai però risultare troppo insistente.

 

“In realtà no” ammette Kurt, finalmente, sorridendo quando vede Quinn agitarsi sulla sedia, puntellarsi sui gomiti e sporgersi verso di lui per dedicargli la sua completa attenzione.

“Quella mattina, quando ti ho raccontato del mio gruppetto di amici del liceo, ho menzionato un certo Puck” inizia, tentennante.

 

“Me lo ricordo” annuisce la giovane insegnante con un tono preoccupato. “Gli è successo qualcosa?”

 

“No, no. Almeno, per quello che so non credo” mormora, palesemente abbattuto dalla consapevolezza di non sapere nulla. “È che … manca da Lima da anni e anni e … la sera in cui siamo andati a vedere la partita di football al McKinley mio padre mi ha detto che è tornato”

 

“La cosa sembra turbarti molto” nota la ragazza, anche se non è necessario un genio per capirlo. “Non dovresti essere contento?”

 

“Nove anni fa, l’ultima volta che l’ho visto, gli ho detto che per me … n-non … che per me era come se non esistesse più” confessa, abbassando lo sguardo per il peso di quel ricordo.

 

“Ouch” mormora Quinn, cominciando evidentemente a capire. “È stato un litigio così brutto? Era forse … il tuo ragazzo?”

 

“Cosa?! No no no! Che dici!” farfuglia, arrossendo clamorosamente. “Non dire mai più una cosa del genere, ok? Io e Puck, insieme … santo Cielo” commenta rabbrividendo.

 

“Scusa, pensavo di aver intuito cosa fosse successo” sorride la giovane insegnante, interpretando l’imbarazzo dell’amico come una mezza ammissione di verità. Se solo lo conoscesse meglio, saprebbe che diventa rosso anche quando alla tv dicono la parola ‘sesso’, e se conoscesse la fama da donnaiolo di Noah Puckerman non ne ipotizzerebbe una relazione con l’amico.  

 

“Magari fosse così semplice, Quinn” sorride amaramente Kurt. “Io … non pensavo che sarebbe tornato dopo quello che è successo”

 

“Cos’è successo di così terribile?”

 

“Ha spaccato la faccia al mio fratellastro, Finn, e ha … spintonato via e praticamente insultato chiunque tentasse di mettersi in mezzo tra loro due” sospira, scuotendo il capo di fronte al ricordo di tanta violenza. “Quando finalmente siamo riusciti a separarli e abbiamo portato Finn ospedale, è venuto fuori che aveva il setto nasale rotto e lo zigomo fratturato. Hanno dovuto operarlo”

 

“Cavolo … ma è terribile!” esclama Quinn, scioccata. “Perché questa … cosa?”

 

“Non c’è un perché, non c’è una spiegazione vera” risponde Kurt, facendo ruotare il bicchiere di caffè tra le dita. “Lui non ci ha più parlato e, dopo aver saputo che Finn non aveva intenzione di sporgere denuncia, non l’abbiamo nemmeno più rivisto. Abbiamo solo delle idee e delle ipotesi, anche se Finn non ha mai voluto parlarne”

 

“Ci deve essere qualcosa” mormora la ragazza, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Anche se non conosco questo tizio, non può essere scattato così all’improvviso. Poi con uno dei suoi migliori amici, giusto?”

 

“In effetti hai ragione. Puck aveva un motivo, l’ha urlato più volte in maniera piuttosto chiara. Era convinto che … che fosse stato Finn ad uccidere Sam

 

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La casa degli Hummel-Hudson non è cambiata molto nel corso degli anni. È solo più vuota, ma è perfettamente normale. L’ultima volta che ci aveva messo piede era un ragazzino e, dietro la porta, c’erano sempre Finn sul divano e Kurt in camera sua con le sue amiche ad aspettarlo.

 

Quello che è cambiato e anche di molto è Burt. È come se fosse invecchiato del doppio rispetto ai nove anni effettivamente passati dall’ultima volta in cui i loro sguardi si sono incrociati, quel giorno di tanti anni prima al cimitero della città.

 

Il suo volto è molto scavato, stanco, affaticato, e dell’uomo piuttosto enorme ed in carne che ricorda, forse anche in maniera esagerata per via del timore che sapeva incutere agli occhi di un diciassettenne, non è rimasto molto.

Eppure, il suo sguardo è ancora lì, tagliente e penetrante, e non si è spostato di un millimetro dalla sua faccia dall’istante in cui ha messo piede in casa. La cosa strana, però, è che non ha ancora detto nulla. E il silenzio di Burt è più letale della doppietta arrugginita che tiene in soffitta.

 

“Sono tornato sulle mie gambe”

Forse non è la cosa più intelligente da dire in un momento come questo, è vero, ma è la prima che gli è venuta in mente per riempire uno dei silenzi più pesanti che abbia mai dovuto affrontare.

 

“Lo vedo”

 

… ok, molto probabilmente serve altro.

“Mi hanno detto che hai avuto una specie di infarto, o qualcosa del genere. Ora stai bene?”

 

“Ti hanno detto bene. E ho avuto anche una specie di tumore alla prostata. Ora, come vedi, sono sano come un pesce”

 

Noah annuisce un paio di volte, facendo ruotare lo sguardo sul televisore e sul muro dietro ad esso. Fatto questo, si alza dal divano su cui ha preso posto in maniera decisa, dando le spalle a Burt.

“Sono felice che tu stia bene ed è stato un piacere rivederti. Per quella domanda di lavoro … facciamo finta che abbiamo scherzato. Addio” saluta, dirigendosi immediatamente verso l’uscita. Non sarebbe dovuta andare così. Proprio no.

 

“Cosa credevi che sarebbe successo, uhm?” lo incalza Burt, alzandosi a sua volta. “Hai pestato a sangue mio figlio-”

 

“Figliastro” lo corregge, fronteggiandolo. Di certo non si aspettava di finire con il litigare con lui, e molto probabilmente nemmeno il signor Hummel visto che aveva detto a Kurt che avrebbe ‘valutato la situazione’, ma certe dinamiche sono imprevedibili e vecchi dissapori ormai sopiti possono tornare a galla senza preavviso.

 

“Lo considero al pari di Kurt e tu questo dovresti saperlo meglio di tutti”

 

Noah allarga le braccia, facendo spallucce.

 

“Hai spaccato la faccia di Finn e non hai nemmeno avuto la decenza di chiedergli scusa, senza considerare che lo hai fatto di fronte a Carole e ad una famiglia in lutto” dice puntandogli il dito sul petto. “E non è tutto. Hai idea di cosa sia successo tra Kurt e Mercedes dopo la tua bella sparata?”

 

“Parliamo di nove anni fa, Burt” dice con irreale serenità, appoggiando una mano sul dito teso dell’uomo.

 

“Non importa. Perché tu hai deciso di andartene e non pagare le conseguenze delle tue azioni e-” 

 

“Io pago le conseguenze delle mie azioni e di quelle delle altre persone da quando ho sette anni, Burt!” grida, liberando la sua ira. “Perciò non venirmi a rinfacciare certe cose, perché sono l’ultima persona che può essere giudicata su questo!”

 

Il padre di Kurt si allontana di una passo, spiazzato, rendendosi conto di non aver seguito i consigli che lui stesso aveva dato a suo figlio. Calma, pazienza, ascolto, perdono.

 

“Sono qui, ora, per cercare di buttare il passato alle spalle. Non vado fiero di nulla di quello che ho fatto negli ultimi tempi ma … ho pagato a sufficienza per tutto e anche di più” aggiunge Noah, cercando di calmarsi ancora una volta con il respiro. “Tu mi dicesti che la tua officina sarebbe sempre stata aperta. La tua offerta è ancora valida sì o no?”

 

“Non funziona così, ragazzo” mormora Burt togliendosi il cappellino da baseball. “Il passato non si butta alle spalle semplicemente facendo finta che non sia mai accaduto. Per voltare pagina, devi prima scrivere la parola fine in fondo al foglio”

 

“E se non avessi la forza di voltarla, quella pagina?” sospira Noah, rivelando parte della sua angoscia. “Non siamo tutti come te o Kurt”

 

“Per esserne sicuro devi prima provarci” gli ricorda, rimettendosi il capello ed addolcendo il tono di voce per quanto sia possibile ad uno come lui. “Partiamo dall’inizio, che ne dici?”

 

“O-ok” concede dopo qualche secondo di riflessione. Tanto cos’ha da perdere? “Cosa vuoi sapere?”

 

“Perché hai sempre pensato che l’incidente di Finn con la sua arma non sia stato un vero incidente?”

 

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Oh Dio … potrebbe essere vero?”

 

Kurt scuote il capo, facendo no un paio di volte. “Sam è morto in Afghanistan. Era … era un soldato. Quando è successo, Finn era a New York con me”

 

“Ma allora … perché?” chiede Quinn, sempre più confusa e sempre più coinvolta in questa storia.

 

“Non lo so con esattezza, te l’ho già detto. Però mi sono fatto una mia idea” mormora Kurt. “Prima, però, devi sapere che Puck non ha avuto alle spalle un’esperienza familiare felice. Suo padre era una bastardo che si muoveva da una donna all’altra, fregandosene di lasciare figli qua e là, sfruttando le persone per avere i loro soldi. Sua madre, invece, non ha molte colpe se non il riuscire a dire di no a quell’uomo

 

“Questo cosa c’entra?” storce il naso la giovane insegnante.

 

“C’entra per un semplice motivo. La famiglia di Puck erano Sam e Finn. Si conoscevano fin dall’asilo … me l’ha raccontato il mio fratellastro … ed erano inseparabili”

 

“Quindi mi stai dicendo che si sono arruolati assieme nell’esercito?”

 

“So cosa stai pensando” fa Kurt, captando la smorfia nel volto della bionda. “Non l’hanno fatto per uno stupido patto di fratellanza. Cioè, in parte per quello, ma ognuno di loro aveva motivazioni sufficientemente valide da resistere alle proteste di tutti noi. Senza dimenticare che non era passato nemmeno un anno dall’11 Settembre

 

“Non ci sono mai motivazioni valide per prendere in mano un fucile” farfuglia Quinn, con una punta polemica. “Aspetta un secondo … non hai detto che Finn era a New York con te? Si è arruolato da un’altra parte o …?”

 

“Non ha mai terminato l’addestramento” le spiega, togliendo le mani dal bicchiere per intrecciare le dita sul tavolino. “Un giorno si è semplicemente presentato alla nostra porta, leggermente zoppicante, dicendo di essere stato rispedito a casa. Poi abbiamo scoperto che si era accidentalmente sparato alla gamba mentre puliva ‘Rachel’, il suo fucile”

 

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“Quale idiota si spara da solo con il proprio fucile? Fucile tra l’altro senza cartucciera e che gli ufficiale fanno scaricare ogni volta, per sicurezza, prima di iniziare la pulizia”

 

Burt incrocia le braccia al petto, evidentemente immerso nei suoi pensieri e dubbi. “Mi è sempre sembrato strano, però … non mi ha mai dato modo di dubitare della sua parola e lui ha spergiurato in più di un’occasione di non averlo fatto di proposito”

 

“Quando pulisci l’arma non solo è scarica ma, sempre per sicurezza, la canna non viene mai rivolta verso parti del proprio corpo quando è ancora montata al resto del fucile” insiste Noah, esponendo la sua versione dei fatti. “Si è ritrovato seppellito dalla merda del lavoro duro a cui non è mai stato abituato e dalla nostalgia di Rachel che continuava a tempestarlo di lettere e chiamate. Sapeva bene che l’unico modo per andarsene dall’esercito dopo aver firmato è in una bara, per sopraggiunti limiti d’età, per handicap fisici o problemi di natura mentale” conta sulle dita, chiudendo poi pollice ed indice. “Sparandosi ha spuntato le ultime due caselle”

 

“Ok, ammettiamo pure che l’abbia fatto apposta” concede Burt. “Anche se fosse stato là con voi, cosa sarebbe potuto cambiare?”

 

“Nulla” risponde prontamente Noah, sorprendendo l’uomo per la durezza della voce. “Ma ha tradito i suoi fratelli, bastava questo visto che con il suo gesto aveva infangato il buon nome del 194esimo Fanteria. E … a quel tempo mi sembrava una motivazione sufficiente. Aveva abbandonato me e Sam, poi … poi anche Sam se ne è andato”

 

Burt lo scruta attentamente, esaminando il modo in cui i suoi pugni sono stretti e il suo capo è reclinato verso il basso in modo da evitare il suo sguardo.

“Lo odi ancora, non è così?”

 

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“Si è sparato da solo?” chiede Quinn, allucinata dalla mole di informazioni che le sta dando Kurt e dalla loro natura. Sembra davvero un racconto tratto da un film più che una storia vera.

 

“Lui ci disse che era stato un incidente. Mercedes però mi raccontò in più di un’occasione che secondo Sam e Puck l’aveva fatto di proposito per poter tornare da Rachel”

 

“Ok. La verità, alla fine, qual è?”

 

“Non lo so” ammette sinceramente Kurt. “So solo che Finn non ha terminato il suo addestramento e che la compagnia di cui anche lui avrebbe dovuto fare parte è stata mandata in Afghanistan verso la fine di quell’anno. Era il 2002”

 

“E il tuo amico … insomma, è morto in quella missione” mormora Quinn, sinceramente dispiaciuta non appena vede gli occhi dell’amico riempirsi rapidamente di lacrime. “N-non devi parlarne più se non ti va, ok?”

 

“N-no, è solo … Sam era un ragazzo d’oro, d-davvero buono come un pezzo di pane e ogni volta che ci penso m-mi … uff” sospira, prendendo un tovagliolino dal contenitore posto in mezzo al tavolino. “Nove anni sono tanti, eppure … fa ancora male, come ognuna delle discussioni e delle litigate nate dopo”

 

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“Ragazzo” sospira Burt, in piedi vicino a Noah, appoggiandogli una mano sulla spalla. “Non puoi pensare di buttarti il passato alle spalle se non superi questo odio”

 

“Non posso. Lui è … è come mio padre. E non mi venire a dire che non è vero, perché entrambi hanno abbandonato la loro famiglia. Per me lui e Sam erano fratelli di sangue, li mettevo sullo stesso piano di Deborah. E tu lo sai meglio di chiunque altro

 

Burt sbuffa di nuovo, girando attorno al divano per tornare al suo posto e prendersi qualche secondo di riflessione. Sospira per la terza volta nel giro di venti secondi, grattandosi il mento liscio. “Forse allora dovresti parlarne con qualcuno

 

“Uno psicologo?” chiede Noah, lasciandosi scappare una breve risata vuota. “Ci sono stato in terapia e no, non ha funzionato. Mi ha aiutato in tante cose ma su questo proprio no”

 

“E come hai intenzione di risolverla?”

 

“Perché insisti tanto?” chiede ancora Noah, scuotendo il capo. “Per me il problema non esiste nemmeno. Farò finta che sia morto quel giorno insieme a Sam, come ho fatto fin’ora tra l’altro”

 

“Il problema non è tuo, ma mio. Ti ho accolto in questa famiglia esattamente come feci con Carole e Finn, e sarei pure disposto ad accettarti di nuovo se riuscissi a-”

 

“Non chiederò scusa a Finn” lo interrompe, deciso. “Anzi, non solo non ho la minima intenzione di farlo, ma è lui a doversi prostrare ai miei piedi, dei genitori di Sam, di sua sorella e di suo fratello, dei ragazzi del 194esimo e piangere per il nostro perdono

 

“Non mi lasci altra scelta, ragazzo” mormora Burt, dispiaciuto. “Non posso fare finta di niente, correndo il rischio poi di vederti azzannare il collo di Finn alla prima occasione come una bestia fuori controllo”

 

“Non sono più quel cane rabbioso, Burt, e mi infastidisce molto che tu non voglia nemmeno darmi un occasione di dimostrarlo per colpa di quel sacco di merda” decreta, secco e autoritario, mettendosi in piedi. “Pensavo fossi una persona diversa, davvero, eppure fate tutti lo stesso errore. Scegliete sempre di stare dalla parte di chi non merita alcuna fiducia

 

“Non sono tua madre, ragazzo” lo richiama mentre ormai Noah è già con un piede nel piccolo corridoio che conduce alla porta d’ingresso. “Così come Finn non è tuo padre. Riesci a rendertene conto, vero?”

 

“Sì, me ne rendo perfettamente conto” sorride, ironico, voltandosi verso Burt per una manciata di secondi. “Per questo mi fa così male sapere che vi siete comportati esattamente come loro”

 

Se questo non è un addio, beh … poco ci manca.

Mentre si avvia verso la macchina, un’improvvisa sensazione di caldo gli arriva dalla guancia. Se la sfiora con le dita, accorgendosi solo ora di stare piangendo. Da quanto tempo va avanti? Non saprebbe dirlo, in realtà, ma non gli importa più di tanto.

Quello che conta davvero è che Burt ha avvalorato una delle ipotesi che gli frullano nella testa da una vita: non si può contare mai su nessuno all’infuori di sé stessi e dei propri fratelli. Ha solo Deborah e i suoi commilitoni, esattamente come nove anni fa, esattamente come è sempre stato nella sua giovane vita.

 

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“Kurt, davvero, non è necessario che tu continui a parlarne. Ho capito più o meno cosa è successo” tenta di sorridere Quinn, allungando al ragazzo uno dei suoi fazzolettini di carta, molto più morbidi dei tovagliolini del bar.

 

“O-ok” annuisce l’insegnante, cercando di darsi un contegno dopo aver notato di avere addosso lo sguardo di praticamente tutto il locale. “Ora l-lui è tornato e non ho la minima idea di come comportarmi. M-mio padre … lui mi ha detto che l’avrebbe chiamato oggi, quindi potrebbero già essersi incontrati o stare parlando in questo momento, credo che lo scoprirò solo s-stasera. E i-io … non so se è il caso d-di intromettermi”

 

Stavolta è il turno di Quinn di annuire. Anche se Kurt non lo può sapere, lei non è nuova a situazioni in cui le persone appaiono e scompaiono, lasciando gli altri nella condizione di non sapere come comportarsi.

“Se potessi dirgli una sola cosa, quale sarebbe?”

 

“Mi dispiace di non aver capito il tuo dolore” è la risposta che arriva subito, segno che ci sta pensando da davvero tanto tempo. “Ma se lui non ci rivuole nella sua vita … e io lo capisco, davvero, n-nessuno ha … pensato a lui. Dopotutto, Sam era davvero la sua famiglia

 

“Forse dovresti dirglielo in ogni caso” asserisce Quinn con certezza. “Forse è questo che vorrebbe sapere, che tu hai pensato a lui in tutto questo tempo”

 

Kurt farfuglia qualcosa in risposta, un soffio troppo debole per essere udito persino da lui stesso. La sua testa è completamente concentrata su altro per rendersi conto di come Quinn continui ad insistere con sicurezza che tra lui e Puck ci fosse qualcosa di amoroso. Una convinzione completamente sbagliata.

 

“Resta il fatto che non ho la minima intenzione di lasciarti qui da solo” borbotta la bionda dopo aver buttato uno sguardo allo schermo del suo iPhone. “Perciò, ora tu vieni con me a prendere Beth, ti ascolti il racconto di tutta la sua giornata scolastica in ogni minimo dettaglio e dovrai anche convincerla che tu non sei il suo principe azzurro”

 

“Lo pensa davvero?” ridacchia Kurt, tra un singhiozzo e l’altro.  

 

“Certo che lo pensa davvero” sorride Quinn, risparmiando al ragazzo il racconto delle duecento volte in cui Beth le ha chiesto quando avrebbe potuto rivederlo. “Vedrai la faccia che farà non appena capirà che ci sei anche tu ad aspettarla fuori dalle elementari”

 

“Il solo pensare a quella bambina iperattiva mi fa già stare un po’ meglio” ammette Kurt, facendo annuire Quinn.

 

“Beth fa questo effetto praticamente ad ogni persona che incontra” gli fa con un occhiolino, ripetendo praticamente le stesse parole che ha detto a Carole non più tardi di diciotto ore fa. “Anche a me, sempre”

 

Una volta che entrambi si sono alzati, la giovane insegnante prende a braccetto Kurt, sorridendogli non appena gli occhi azzurri leggermente arrossati del suo amico lo guardano grati.

Per la prima volta in questa giornata, dopo aver assistito impotente al dolore del professore di francese, riesce a sentirsi finalmente utile a qualcosa. Ed è una sensazione che non le dispiace affatto, visto che si tratta di un lato dell’amicizia che con Santana e Sebastian, dei pezzi di ghiaccio dal punto di vista emotivo, non ha mai potuto esplorare.

 

“Qualsiasi cosa deciderai di fare, io ti aiuterò” aggiunge una volta fuori dal locale, rendendosi conto che è la prima volta che lo dice senza doversi aspettare come risposta una richiesta di omicidio e occultamente di cadavere –vedi Santana– o di rapimento e legamento di un individuo ad un letto –vedi Sebastian.

 

“Ti sono molto grato, Quinn. E grazie per essere rimasta ad ascoltarmi tutt’oggi”

 

 

 

 

 

Note dell’autore.

 

Capitolo leggerino, eh? Decisamente molti dialoghi e molte informazioni, spero non risulti noioso ma, come il precedente, è necessario. Avrei inserito un altro pezzetto in fondo ma quattromila e passa parole di solo dialogo sono un po’ tante, ho preferito evitare.

 

Come vi è sembrata l’idea di incastrare i due confronti tra di loro? A me sembrava carina, soprattutto per rendere il tutto meno pesante e più scorrevole. Fatemi sapere la vostra, è un esperimento e posso sempre cambiarlo se è poco chiaro o infastidisce.

 

… Sam. Povero piccolo Sammy Evans :(! In origine sarebbe dovuto morire Finn ma, a quel punto, metà delle cose avrebbero perso il loro senso. Inoltre, tra i due il personaggio che preferisco nel telefilm è Sam, con ampio distacco tra l’altro, e visto che scrivo su Glee per migliorare, far morire uno dei personaggi che mi stanno più antipatici, ovvero Finn, sarebbe stato troppo scontato.

In questo modo, invece, devo scrivere di uno che mi sta davvero sulle palle. È una sorta di sfida, diciamo. E mi spiace da morire per Sam, cosa che spero trapeli dalle parole dei personaggi della storia. Sarebbe stato più difficile scriverlo per Finn :)

 

Spero che il tutto sia realistico, anche se ho seguito per larghi tratti ciò che è successo nel telefilm, stiamo parlando di Glee quindi ………

 

Per domande, correzioni, dubbi, suggerimenti, insulti e cose del genere vi invito nuovamente a lasciare un commento o, se preferite, a mandare un messaggio di posta a cui risponderò il più rapidamente possibile. Chiedo scusa per eventuali refusi, ripetizioni, errorini, etc, ma sono molto di fretta. 

Il prossimo capitolo sarà meno pesante per quanto possibile e spero di postarlo entro venerdì!

Grazie a chiunque abbia letto, messo nelle seguite, preferite e da ricordare. Un GRAZIE immenso invece alle due buone anime che hanno recensito lo scorso capitolo, rendendomi partecipe di ciò che pensano sulla storia. Me molto felice!

Alla prossima!

Pace.

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Capitolo 6
*** Un'illusoria parvenza di normalità ***


Capitolo 5. Un’illusoria parvenza di normalità.

 

“… e da quel giorno Kurt è decisamente un’altra persona, sempre mogio e abbattuto. Credo abbia anche litigato con suo padre, però non ne sono sicura perché non è stato molto loquace ultimamente. Secondo te cosa dovrei fare?”

Lo schermo del suo portatile non emana alcun suono per diversi secondi ma è piuttosto sicura che non sia colpa del computer o della connessione internet che, dopo un mese di attesa, sono finalmente venuti ad allacciarle.

“Ma almeno mi stai ascoltando?”

 

Santana Lopez in tutto il suo splendore annuisce un paio di volte, senza però fiatare o sollevare gli occhi da qualcosa che non rientra nell’inquadratura della webcam del computer della latina.

Sì, ovvio. È che non capisco il perché di questa conversazione

 

“Beh …” mormora Quinn, aggrottando le sopracciglia “… volevo solo un consiglio su come comportarmi, perché … boh, mi spiace tanto vedere quanto Kurt ci stia male e-”

 

No, aspetta un secondo” la interrompe Santana, puntando finalmente le sue iridi scure nella camera. “Questo l’ho capito. Non ho capito il perché tu ti stia facendo prendere tanto

 

“In che senso?”

 

A me fa piacere che tu abbia trovato un amico … Dios, fa così tanto bambina di dieci anni, non trovi?” sbuffa con una risatina, abbassando lo sguardo quando vede la smorfia infastidita sul volto dell’amica. “Seriamente, è eccezionale considerato … beh, che stiamo parlando di te. Il problema è questo: ti ricordi che il tuo contratto scade a dicembre e dopo dovrai trasferirti da Lima, vero?

 

“Oh”

L’ha dimenticato. Si è fatta così prendere dai suoi studenti, da Kurt e la sua famiglia, dalle avventure scolastiche di Beth e tutto il resto da averlo completamente rimosso.

Istintivamente raggiunge una pila di fogli abbandonati sulla scrivania tra cui, pochi giorni dopo essersi trasferita nel suo nuovo appartamento, aveva sistemato le offerte per il secondo semestre.

 

Quinn, ci sei ancora?

 

La bionda annuisce, agitando un paio di fogli davanti allo schermo del suo portatile.

“Cleveland e Akron”

 

Cosa sarebbero quei … ah, ok, niente, ho capito” afferma Santana, notando subito dopo la sfumatura di delusione sul viso di Quinn. “Dai, vedi il lato positivo. Non devi trasferirti dall’Ohio

 

“Sì, almeno questo. È che … è diverso da com’era l’anno scorso. Allora bastava cambiare linea della metro o scendere due fermate dopo per arrivare alla nuova scuola e …” sospira, ravvivandosi i lunghi capelli biondi in un gesto di nervosismo “… lo sapevo che sarebbe stata dura, lo so da quando ho deciso di fare l’insegnante, ma-”

 

Ti dispiace comunque, lo so, è la stessa cosa che ho provato quando mi sono trasferita a New York” la interrompe Santana, stavolta per regalarle uno dei suoi pochi sorrisi veri. “Sarà dura, soprattutto per Beth, ma la mia figlioccia è una bambina intelligente e capirà. E prima o poi ti troverai un posticino bellissimo in cui ti offriranno una cattedra fissa e … allora sarai a posto

 

“… sei inquietante quanto sei gentile e rassicurante” sorride Quinn, trattenendo a stento una risata.

 

Lo so, è per questo che non lo sono mai” risponde la latina con un occhiolino, prima di voltarsi all’improvviso per parlare con un uomo, probabilmente un collega, di cui Quinn però può vedere solo dal busto in giù. Effettivamente Santana starebbe lavorando –lei è fortunata da questo punto di vista perché il martedì ha solo due ore e alle undici e mezza è già a casa–, ma non è una persona che si fa problemi di questo genere.

 

Approfittando della breve interruzione, la giovane insegnante non può trattenersi dal pensare a come in un paio di mesi le sue prospettive sul suo lavoro di sostituta della professoressa May si siano ribaltate e come Lima non sia più solo un paesino tranquillo che le ricorda Ames, il suo paese di origine, ma qualcosa di più.

Per la prima volta da tanti anni è a suo agio nel posto in cui si trova e non dipende solo da Kurt. Beth ha le sue amichette, lei ha fatto amicizia con i loro genitori, le persone non sembrano più nemmeno guardarla storta quando gira per la città con sua figlia e c’è una sorta di pace, un’aura di serenità che le sembra di poter toccare ogni volta che si alza al mattino con il sorriso stampato in faccia.

 

Scusa, era uno degli editorialisti” fa Santana con un tono stranamente incerto, destandola dai suoi pensieri. “Credo … credo mi abbia appena detto che una delle mie creazioni per la stagione invernale sarà sul prossimo numero

 

“E lo dici così?” esclama Quinn, saltando in piedi. “È fantastico!”

 

S-sì è che …” farfuglia la latina, fissando la webcam con lo sguardo vuoto “… credo di essere sottoshock o qualcosa del genere

 

Quinn ride, si agita rimettendosi a sedere e cerca di dare un senso alla mole di pensieri positivi che le invadono la mente. “Uscirai su Vogue come stilista!” trilla entusiasta, scuotendo lo schermo del portatile in modo da scuotere metaforicamente anche Santana.

 

U-uscirò su Vogue … come stilista” ripete meccanicamente la latina, acquistando pian piano consapevolezza di ciò che le sta uscendo dalla bocca. “Uscirò su Vogue come stilista … uscirò come stilista! Dai cazzo!

 

È troppo contenta per la sua migliore amica per riprenderla per il linguaggio –una deformazione professionale, ormai. Si limita a sorridere e ad annuire mentre Santana si alza dalla sua scrivania, rischiando quasi di inciampare nella sedia, e scompare dalla visuale.

Dei suoi festeggiamenti può solo sentire i gridolini eccitati e il rumore dei tacchi che colpiscono ripetutamente il pavimento, segno che sta saltando o correndo intorno alla scrivania, difficile dirlo.

 

“Ne hai ancora per molto?” sbuffa fintamente indispettita Quinn dopo qualche istante di silenzio assoluto, sorridendo poi non appena Santana torna a sedersi, il volto stravolto dalla felicità.

 

Dovremmo … festeggiare” ansima, per lo sforzo, sistemandosi la camicetta rossa. “Dovresti venire … a NY City con Beth

 

“Oppure potresti venire tu” ammicca la bionda. “Sappiamo entrambe che il tuo capo non avrebbe alcun problema ad esonerarti dal lavoro per un weekend” mormora, senza smettere di sorridere. “E potresti portare anche Sebastian, sono secoli che non lo vedo”

 

Forse è meglio così” scherza Santana, prima di assumere la sua solita aria, quella da perfida manipolatrice spara sentenze. “A proposito di Smythe … mi è giunta voce che il paparino arriva in città

 

Quinn si corruccia appena, perplessa dalla certezza di non averne fatto parola con nessuno. “Sì, in effetti mi ha chiamato ieri sera per dirmi che sarebbe arrivato in giornata. Ma tu come diavolo fai a … lascia perdere” sbuffa, dopo ave visto l’amica picchiettarsi sulla fronte per indicare il suo fantomatico ‘terzo occhio sensitivo messicano’. “Te l’avrà detto Seb, non fare troppe scene”

 

Fidati, ho un sesto senso per certe cose” la rassicura immediatamente la latina con la stessa serietà con cui solo i matti possono dire una vaccata del genere. “E Beth lo sa o glielo abbiamo tenuto nascosto anche sto giro?

 

“Non mi piace il tono che usi” si rabbuia Quinn. “So anche cosa stai per dire, ma nulla ti impedirà di farlo comunque, giusto?”

 

No, infatti” annuisce vigorosamente Santana. “Devi dire a Christian che deve smetterla di giocare con voi due e di iniziare a prendersi le sue responsabilità. È comodo nascondersi dietro ai propri impegni e fare il genitore durante le feste. Cosa crede, che durante il resto dell’anno Beth si cresca da sola?

 

“Dovrei essere io a dire queste cose, peccato che non le pensi” mormora l’insegnante, molto più acidamente di quanto vorrebbe. “Vorrà pur dire qualcosa per te o, visto che non fa parte di come Santana Lopez vede il mondo, non conta nulla?”

 

Non conta nulla perché sei ancora cotta di lui. E non provare a negare, è evidente persino per un morto

 

“Non è assolutamente vero!”

 

Guarda che io non giudico. Anzi … lui e il suo fratellino smuovono persino me, il che è tutto dire” asserisce con convinzione, prendendosi un minuto per fissare verso l’alto, Dio solo sa il perché. “Dico solo che non sei obiettiva quando parli di lui, non lo sei mai stata

 

“Sei incredibile, davvero” ride ironicamente Quinn, scuotendo il capo. “Riesci sempre a rovinare i momenti belli con le tue uscite del cazzo. Perché tiri fuori questo ogni volta che Chris viene da me e da Beth?”

 

Perché a volte sei troppo ingenua, Q” risponde Santana, ma lo fa in modo quasi dolce se estrapolato dal resto della discussione. “Lui ha fatto tante cose per voi, è innegabile, però … dovresti pretendere di più da lui, è pur sempre il padre, non uno zio per finta come me

 

“Senza Chris probabilmente avrei abortito, senza Chris non avrei mai potuto frequentare l’università … senza di lui quasi sicuramente ora lavorerei part time da qualche parte come cameriera o commessa, infelice, a rimpiangere di non aver … non ci voglio nemmeno pensare” sbotta Quinn, puntando il dito contro lo schermo.

 

Oh, che carino. Quindi più che un padre è una sorta di bancomat, giusto?” chiede con finta innocenza Santana, sfarfallando le ciglia.

 

La bionda si lascia scappare un verso, uno di quelli di chi è al limite della sopportazione. “Non è forse il motivo per cui la tua abuela e tuo padre non sanno che sei omosessuale?” sputa con cattiveria, perché nessuno mette i piedi in testa a Quinn Fabray. “E a sua volta non c’entra nulla con il fatto che l’appartamentino che hai affittato nell’Upper East Side costa il doppio del tuo stipendio, giusto?”

 

Oh sì, nessuno può farlo, nemmeno Santana Lopez.

 

Prima che la supplente del McKinley possa interrompere la conversazione via Skype, impedendo ad una discussione già partita per la tangente di esplodere in qualcosa di peggio, la latina fa una di quelle cose che nessuno che la conosca bene quanto Quinn si aspetterebbe mai da una come lei.

Mi dispiace, Q, ho esagerato

 

“… c-come?”

 

Sì, ho esagerato. È che … lo sai no?” farfuglia, in difficoltà proprio perché non è abituata a chiedere scusa. “Christian non mi è mai piaciuto e … sono stata carina e rassicurante prima, è scritto nel mio Dna che subito dopo debba tornare ad essere stronza. Scusa, hai ragione tu, sono l’ultima persona che può giudicarti

 

“… c-come?” ripete Quinn, temendo di aver sbattuto la testa mentre stava chiudendo la conversazione e di essere piombata in un sogno. “Cioè, scuse accettate. Ma capisco perché lo fai … vuoi bene a me e Beth e vuoi il meglio per noi”

 

Parole tue, non mie” decreta Santana, riuscendo a strapparle un sorriso. “Davvero Q, non volevo. Ok, forse volevo, è che  non mi aspettavo che ti saresti incazzata così tanto, ecco

 

“Stai … stai lasciando perdere?” chiede la bionda, strabuzzando gli occhi non appena l’amica annuisce. “Stai per morire?”

 

Spererei proprio di no, sto per uscire su Vogue

 

“Beh, sì … hai ragione anche tu” ammette Quinn, ancora incredula. “Quindi siamo a posto?”

 

Ovvio. Ci sentiamo quando il coso se ne sarà andato, dai” le fa Santana, improvvisamente frettolosa, come se si sia lasciata sfuggire troppo.

 

“O-ok, allora a presto. E ancora complimenti”

 

Quando la latina interrompe la conversazione, Quinn rimane a fissare lo schermo del suo portatile per qualche secondo, prima di richiuderlo lentamente e sempre con lo sguardo perso di chi è immerso nei propri pensieri.

Perché Santana Lopez non chiede scusa mai, nemmeno quando ha torto marcio, figurarsi in un’occasione come questa in cui è straconvinta di avere ragione.

E l’unica spiegazione logica per un comportamento del genere, escludendo a quanto dice lei  la malattia terminale, è la seguente: ne ha combinata una davvero ma davvero immensa, talmente grande da far passare in secondo piano gli insulti a Christian Smythe e a come Quinn si rapporta con lui. Si salvi chi può, insomma.

 

A strapparla per l’ennesima volta dalle sue congetture ci pensa un sms inaspettato di Kurt.

-Ho bisogno del tuo aiuto per fare una cosa. Ti chiamo finite le lezioni-

 

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L’incontro con Burt è stato paragonabile al ricevere una vagonata di mattoni in testa per Noah. Se l’era immaginato diverse volte ma mai, mai, si sarebbe potuto prospettare un’accoglienza così fredda e al tempo stesso accusatoria. Soprattutto da parte dell’uomo che, in circostanze secondo lui peggiori, non aveva esitato ad aprirgli la porta della propria casa quando Noah si era ritrovato senza alcun posto in cui andare.

 

Per una volta è stato eccessivamente infantile, forse, o semplicemente troppo speranzoso. Fatto sta che se la condizione necessaria per tornare ad avere Burt Hummel nella propria vita è addirittura chiedere scusa a Finn … beh, potrà essere cambiato e non essere più ‘quella persona’ furiosa e sempre al limite di uno scatto di nervi, potrà anche essersi reso conto di aver sbagliato in moltissime altre cose, però su questo non è disposto a parlamentare.

Finn Hudson non esiste più, per lui.

 

Non è stato per niente facile accettare il nuovo stato di cose, per Noah, tanto da trovarsi addirittura costretto ad andare in Georgia per un paio di giorni per poter parlare con il dottor Menkins di persona.

Rabbia, sfiducia, delusione … cambieranno le persone e i tempi in cui succedono, ma sembra davvero che certe cose siano sempre destinate a ripetersi nel corso della vita del giovane ex soldato.

 

E da quell’incontro, è giusto ricordarlo, dipendevano anche altre cose. Il lavoro in officina, tanto per cominciare, e, di conseguenza, la possibilità di lasciare il motel e poter mantenere l’affitto di un appartamento.

Perché sì, i risparmi ci sono e non sono certo pochi considerando la sua gestione monetaria non proprio parsimoniosa, se così possiamo chiamarla, ma il loro scopo è quello di pagare le rate del college nel caso Deborah decida di proseguire i suoi studi, ovvero un’altra di quelle cose di cui la sorella non è ancora stata informata. Stanno decisamente cominciando a diventare un po’ troppe, no?

 

In ogni caso, nelle due settimane trascorse dall’incontro-scontro con Burt, Noah ha dovuto fare i conti con una realtà che, passando gran parte degli ultimi anni all’estero, non ha potuto toccare con mano: la recessione economica.

 

Lima non aveva un granché da offrire nemmeno dieci anni fa, in effetti, e il tempo e la crisi non hanno decisamente aiutato. Si è presentato nell’altra officina di riparazioni d’auto della città, più per ripicca che per puro desiderio di fare il meccanico, ricevendo un ‘mi spiace, non assumiamo’ come risposta.

Tre paroline che gli hanno ripetuto praticamente ovunque abbia portato il suo striminzito curriculum, partendo da ‘Jim, il vostro rivenditore d’auto di fiducia’, passando per ‘Breadstix’ e finendo con il centro commerciale. Nada de nada.  

 

Poi, quasi per magia, gli si è presentata un’occasione. E a fornirgliela è stato Devon, il ragazzo della sua sorellina che, proprio tramite Deborah –per qualche motivo Noah non ha ancora avuto il piacere di fare la sua conoscenza di persona, davvero strano–, gli ha parlato del negozio di suo nonno e del fatto che è a corto di personale. Un’occasione da cogliere al volo e un motivo in meno per odiarlo per aver deflorato sua sorella. Giusto? Giusto?

 

 

Ora che si trova all’interno del famoso negozio del nonno e ha la possibilità di vedere di cosa si tratti, però, l’odio nei confronti di quel ragazzo sta subendo una brusca impennata. Perché intorno ad uno smarrito Noah ci sono solo materassi. Materassi ovunque. È come se fosse finito in una …

 

“Benvenuto ne ‘La terra del materasso’, giovane cliente!” l’apostrofa un uomo piuttosto in sovrappeso in giacca e cravatta, sbucando da dietro un enorme pila di materassi. “Se ti serve un materasso nuovo per conciliare il tuo sonno, questo è il posto giusto!”

 

“… sì, certo. Sto cercando il signor Gordon Slawski” lo gela, smorzandone l’entusiasmo. “Sono Noah Puckerman, mi ha mandato qui suo nipote”

 

“Ma sono io Gordon Slawski!” squittisce allegro l’omone, strappandogli una mano dalla tasca e stringendogliela con forza. “Devon mi ha detto che cerchi un lavoro e potrei essere la persona giusta per offrirtene uno!”

 

“Può  smettere di urlare … per favore?”

 

“Oh, sì, mi spiace … posso chiamarti Noah?” chiede, abbassando immediatamente il volume della voce. “Certo che posso” annuisce, rosso in viso per qualche genere di motivo, probabilmente l’affanno per essere sbucato con un saltello, prima ancora che l’ex soldato possa anche solo abbozzare una risposta. “Dicevo … ah, sì, che mia moglie con gli anni è diventata sempre più sorda ed ora devo urlare per farmi capire. Quindi è per questo che parlo così forte. Capisco che possa essere fastidioso, però-”

 

“Tornando al lavoro …” lo interrompe Noah, cercando di riportarlo alla cosa che gli preme di più. Potrebbe sembrare un atteggiamento indolente, il peggiore da tenere durante un colloquio. Eppure …

 

“Già, tornando al lavoro” conferma l’omone, salvo poi interrompersi ed indicare il ragazzone che ha di fronte con un sorriso furbo e l’indice della mano. “Sei un tipo diretto, mi piace. Quindi, stavo dicendo … quali sono le tue credenziali?”

 

“Ho un diploma di scuola superiore ma ho iniziato a lavorare prima, da quando avevo sedici anni” inizia Noah, estraendo il curriculum dal taschino posteriore dei jeans. “Per la precisione come apprendista meccanico, in un’officina della città. A diciotto anni mi sono arruolato nell’esercito e pochi mesi fa ho ottenuto il congedo”

 

“Se sei arrivato qui, la tua ricerca di lavoro non deve essere andata un granché bene, uhm?” punge mister Slawski, dimostrando un’arguzia totalmente inaspettata visto l’aspetto e il modo in cui si è posta fin’ora.

 

“Ammetto di non aver mai pensato a rispondere venditore di materassi quando mi chiedevano che lavoro avrei voluto fare da grande” fa con onestà Noah. “Però sono un tipo che ha voglia di fare, che non si tira mai indietro di fronte ad un compito, che sa dare retta alle direttive del capo e, se necessario, sa farsi ubbidire. E voglio fortemente questo lavoro

 

“Beh …” mormora il proprietario de ‘La terra del materasso’, sistemandosi il nodo della cravatta “… dipendesse solo dallo spirito sicuramente saresti già assunto. Hai grinta e sembri bello massiccio, il che non fa male … come te la cavi con il montaggio delle intelaiature dei letti?”

 

“Non saprei, posso sempre imparare. Sono bravo nei lavori manuali”

 

“Uhm …” rimugina ancora l’uomo, sempre più pensieroso “ … e saresti anche disposto a scaricare manualmente il camion di trasporti se per qualche malaugurata ipotesi il muletto dovesse rompersi?”

 

“Certo” asserisce Noah. In fondo fa pesi tutte le mattine e quando era ancora di stanza a Fort Benning era il numero tre di tutte le compagnie come peso sollevato, senza considerare che i materassi, finché sono avvolti nel cellofan, si possono sempre trascinare per terra.

 

“Bene, perché è per questo che Barry, quello che tu potresti sostituire, se ne è … diciamo … andato” mormora Mr. Slawski, tamburellando le dita sul mento.

 

“Non riteneva che scaricare un camion fosse tra i suoi compiti?”

 

“Gli sono uscite un paio di ernie la scorsa settimana, durante una consegna” ammette l’uomo, aggiungendo senza apparente motivazione una risatina con annesso ‘grugnito da maiale’, una delle peggiori risate possibili tra l’altro. “Non sono un mostro che ride di queste cose, ma Barry diceva sempre che sono fuori forma e che rischio di spezzarmi a metà solo piegandomi a raccogliere una matita e … lasciamo stare, ok?”

 

Le persone così dispersive non sono mai state le preferite di Noah, bisogna dirlo. Ma sopportare questo tizio facendo finta di sorridere alle sue freddure o alle sue storielle è un prezzo che è disposto a pagare pur di avere un lavoro.

“No, ho capito. Lui diceva agli altri di mettersi in forma e alla fine è rimasto bloccato con la schiena. Cristallino e soprattutto divertente

 

“Sì, beh, anche se ci capisce benissimo che fingi apprezzo lo stesso lo sforzo” ridacchia –ancora la risata a maialino, argh– l’uomo battendo la mano sul braccio di Noah che continua a non sapere come comportarsi. “Che ne diresti di fare un giro del negozio mentre ti racconto un po’ cosa dovresti fare se decidessi di prenderti in prova?”

 

“P-prova?”

 

Slawski annuisce, facendo leva con la mano sulla schiena di Noah per farlo camminare. “Siamo in piena recessione, caro il mio … scusa, mi sono dimenticato il tuo nome”

 

“Tutti mi chiamano Puck, è molto più semplice da ricordare di Noah Puckerman” ironizza, inutilmente maligno. È pur sempre il suo quasi/forse capo.

 

“Puck, d’accordo. Dicevo … siamo in crisi, non posso assumerti così, perché mi sembri simpatico e mio nipote insiste nell’elogiarti quasi avesse un debito di sangue nei tuoi confronti” gli spiega, non sapendo nemmeno quanto sia vicino alla realtà dei fatti. “Ti assumo come facchino e nel frattempo tu vedi come funzionano le cose qui da noi. Un mese o due di prova e poi, se ti dimostri capace oltre che simpatico, ti assumo”

 

“Avevo capito che stesse cercando un venditore ma … beh, stando così le cose mi pare giusto” è costretto ad ammettere Noah. “E quanto sarebbe la paga di un facchino in prova?”

 

Mr. ‘La terra del materasso’ ride –potrebbe rifiutare il lavoro solo per la sua risata– ancora, estremamente divertito. “Te l’ho già detto che mi piacciono i tipi diretti?”

 

Il fatto che sembri un lavoro di sola fatica e che tra un paio di mesi potrebbe trovarsi di nuovo alla ricerca di un posto non lo disturbano più di tanto. Come mai tanta fretta, direte voi? Di sicuro non è l’esasperazione di non trovare nessuno disposto ad assumerlo visto che, pur avendo chiesto praticamente ovunque in città, è alla ricerca solo da una settimana a dire tanto. 

Il motivo vero è che, in questo momento, Noah ha un bisogno disperato di dimostrare a sé stesso di poter andare avanti anche senza il supporto di Burt. E da questo punto di vista questo lavoro gli serve davvero, non stava affatto mentendo.

 

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Quando Kurt le aveva scritto di aver bisogno di una mano per qualcosa di non meglio specificato, la prima cosa a cui Quinn è riuscita a pensare è stata Puck, il motivo per cui nelle ultime due settimane il suo collega è stato terribilmente distante, apatico e inconsolabilmente triste. Inutile dire che ci ha preso alla grande.

 

“American Family Motel” mormora la ragazza, leggendo ad alta voce una copia del curriculum che Puck ha spedito a Burt. “Strano nome per un motel. Tra l’altro … perché vive in un motel? Non ha una famiglia da cui tornare?”

 

“Te l’ho detto, situazione famigliare difficile” risponde con il tono un po’ seccato Kurt, intento a guidare la sua macchina nel fastidioso seppur esiguo traffico di Lima. “Suo padre è una specie di presenza che aleggia dappertutto e da nessuna parte in particolare; sua madre invece l’ha cacciato di casa durante l’ultimo anno di superiori e da allora non si parlano più”

 

“E io che mi lamentavo della mia, di famiglia” sospira Quinn, rilassandosi contro i sedili piuttosto comodi dell’auto del suo amico. Getta poi uno sguardo a Beth, seduta dietro e rimasta stranamente silenziosa per tutto il viaggio. Fatto più unico che raro considerando soprattutto che è appena uscita da scuola e quindi di cose da dire ne avrebbe un’infinità. “Tutto bene, tesoro?” chiede per sicurezza.

 

“Mami …” fa la piccola, senza smettere per un secondo di guardarsi intorno e accarezzare la pelle dei sedili “… mi piace quefta macchina. La cambiamo con la noftra?” chiede a sua volta, strappando una risata cristallina alla madre e un sorriso sincero a Kurt.

 

“Quando diventerò un’insegnante di ruolo ti prometto che ne prenderemo una bella come questa” concede la donna, sapendo bene che certe volte Beth può essere dura da convincere a mollare l’osso.

 

“E quando è?”

 

“Spero il prima possibile, tesoro” sorride Quinn, allungandosi per riuscire a pizzicare una della gambe della bimba e farle il solletico, un modo come un altro per distrarla e impedire alla conversazione di continuare. Con i bambini è decisamente più facile.

 

Beth però, dopo una serie di risatine e ‘No, mami, bafta’, è di nuovo pronta a ricominciare a fare domande sulla questione macchina.

Per fortuna di Quinn, prima che la bimba possa avere il tempo materiale di tornare alla carica, Kurt si infila nel piccolo parcheggio del motel e si ferma, mormorando un contrito “Ci siamo”

 

La bionda lo osserva cercare di togliersi la cintura con una serie di movimenti tentennati, ognuno impregnato di nervosismo più del precedente, prima di allungarsi e aiutarlo.

“Cosa vuoi che faccia? Che chieda al proprietario del motel in che camera andare?”

 

“N-no, quello no … è nella numero 8” mormora, continuando a mostrare evidenti segni di tensione. “È che … non so proprio cosa succederà e … potrei aver bisogno di un’amica. Potrei aver bisogno di te

 

“Per chiamare la polizia nel caso … uhm … ti dia un cazzotto?”

 

Gli occhi azzurri di Kurt la fissano per qualche secondo, esterrefatti. Poi lui si lascia andare ad un timido sorriso. “Sono sicuro che non succederà” farfuglia, come se la cosa fosse divertente. “Ti chiedo solo di aspettare qui … e grazie

 

Quinn annuisce e gli sfiora il braccio per fargli capire che è tutto ok. Solo quando la portiera si richiude e Kurt si avvia a passo deciso verso il porticato dell’edificio basso del motel, la bionda si lascia andare ad un verso di frustrazione.

 

C’è qualcosa in tutto questo che non le piace. Come fa Kurt a sapere che, esattamente come il suo fratellastro, non finirà con il prendersi un pugno sul naso?

 

“Dove fiamo mami?”

 

Quinn sospira ancora, slacciandosi la cintura per poter girarsi verso la figlia. “Da un amico di Kurt. Mentre aspettiamo, perché non mi racconti la tua giornata a scuola? La mia è stata noiosissimissima

 

Beth ride divertita per l’espressione buffa della madre e poi inizia immediatamente il suo show personale chiamato ‘tutto il Beth minuto per minuto’.

Quinn invece allunga una mano per quella della figlia, cercando di concentrarsi sul suo racconto e di pensare all’unico consiglio che vale quando si rischia di mettersi in mezzo a problemi di cui non si conosco la soluzione: farsi i fatti propri. Già, le ultime parole famose.

 

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Un contratto da facchino in prova per un mese, ecco cos’è riuscito a strappare Noah Puckerman da ‘La terra dal materasso’.

 

“Maledetto ciccione” borbotta, scuro in viso, ripiegando il bozzetto del contratto di assunzione che dovrà firmare la prossima settimana. “Mi sono fatto fregare dal suo lardo”

 

In fondo, però, non è nemmeno così arrabbiato. Gli rode solo l’essere partito con l’idea di fare il venditore ed essere invece finito con il diventare il facchino. Cosa che, se solo riuscisse a ragionare a mente fredda, gli sarebbe sembrata strana fin dall’inizio: chi è la persona che assume uno su consiglio del nipote mettendolo subito a fare un mestiere di cui non conosce nulla?

 

Borbotta qualche altro insulto tra i denti, muovendosi per la stanza senza una meta e controllando l’ora sull’orologio da polso. Per parlare con Deborah e dirle del suo nuovo lavoro deve infatti aspettare la fine dei suoi allenamenti con le cheerleader.

 

Visto quanto tempo manca ancora, opta per la migliore distrazione possibile: la musica. Si avvia verso lo stereo, pensando già a quale disco avviare. Forse oggi è la giornata giusta per mettere su i Led Zeppelin.

 

Toc, toc, toc.

 

Si gira verso la porta, sorpreso, buttando immediatamente un occhio all’orologio –ci ha appena guardato. Che memoria, eh?

Chi diavolo potrebbe essere? Burt no, ovviamente, non dopo quello che si sono detti. Deborah sicuramente è ad allenarsi, i suoi commilitoni sono partiti da poco più di un mese per l’Iraq … insomma, non ci sono molte alternative.

 

Per questo rimane impietrito quando, aprendo la porta, si trova di fronte Kurt. O meglio, la versione un po’ più adulta del Kurt che conosce.

“C-ciao Noah” sussurra timidamente il ragazzo. “Sono Kurt” aggiunge, quasi abbia paura che si possa essere scordato di lui o che non lo riconosca.

 

L’istinto, a volte, gioca brutti scherzi. E questo è uno di quei casi.

Perché ancora prima di potergli fargli dire qualcos’altro, Noah ha già urlato un “Vattene via!” talmente forte da essere stato udito persino dai suoi commilitoni e ha già richiuso la porta in faccia a Kurt.

 

Le sue mani stanno tremando, così come il resto del suo corpo. Se ne accorge solo quando riesce a riscuotersi dal suo torpore e a fissare il legno della porta che ha appena richiuso con violenza. Le sensazioni che prova non sono diverse da quelle che ha già sentito in tante altre occasioni, fin troppe di più di quante ne meriterebbe una persona normale. È la paura che muove il suo istinto, lo fa da quando ne abbia memoria. E al tempo stesso si odia per quello che ha fatto ma davvero, non avrebbe potuto fare altrimenti. Non ora, non dopo aver parlato con Burt.

 

Toc, toc, toc.

 

“Ti ho detto di andartene, Kurt” geme, appoggiando la fronte contro la porta. “Per favore”

 

“Non sono Kurt” gli risponde una voce femminile. “Aprimi un secondo, devo dirti una cosa importante”

 

C-chi sei?”

 

“Hai solo un modo per scoprirlo, Puck

 

Noah si morde forte un labbro, sforzando ogni neurone del suo cervello per ricordare a chi possa appartenere quella voce abbastanza bassa e delicata. Rachel no, Mercedes nemmeno e … ha avuto troppe ragazze per potersele ricordare tutte.

A quanto sembra però lei sa bene chi è, quindi è facile aspettarsi che sia un’amica di Kurt.

Sospira, chiudendo gli occhi per qualche secondo. L’istinto, ancora una volta, vorrebbe tenere quella porta sigillata. Eppure …

 

La apre con un gesto brusco, pronto a richiuderla nel momento esatto in cui avrà riconosciuto la persona a cui appartiene quella voce.

 

A dispetto di ogni sua previsione, però, si trova a rilassarsi pian piano mentre i suoi occhi chiari scrutano la donna dai lunghi capelli biondi che si trova davanti. Non riesce a ricordarsi chi sia, eppure c’è qualcosa in lei che gli sembra famigliare. Di sicuro non gli occhi, perché un paio così particolare, un misto di verde e marrone chiaro, sono troppo difficili da dimenticare. Dove l’ha già vista?

 

Dall’altra parte, anche la bionda sembra sorpresa di vederlo, cosa piuttosto strana visto che ha bussato alla sua porta e l’ha chiamato Puck.

 

Non appena solleva lo sguardo da quegli occhi particolarmente magnetici e riesce ad intravedere Kurt, abbastanza lontano da non sentire ma non troppo da non farsi vedere, è quasi tentato di dare retta al suo istinto e chiudere la porta in faccia anche a lei.

Si trattiene ancora una volta dal farlo. Il motivo stavolta c’è: vicino ad Hummel c’è una bambina, una specie di angioletto di non più di cinque anni che le ricorda tremendamente … lei, la sorella di Sam.

 

“Grazie per avermi aperto. Io mi chiamo Quinn e non ti conosco, se non per quello che mi ha detto Kurt” inizia la giovane donna, indicando Hummel con una mano e attirando l’attenzione su di sé. “Non so cosa sia successo … non devo spiegarti certo il perché ... sono sicura che non siano fatti miei e, se fossi io al tuo posto, non mi ascolterei. Anzi … non era nemmeno mia intenzione immischiarmi fino a due minuti fa. Però una cosa mi sento in dovere di dirtela. Qualsiasi cosa ti abbia fatto lui, gli pesa enormemente. Perché è vero, non lo conosco da molto, ma da quando ha saputo di te sta molto male e … quanto pensi sia evidente se me ne sono accorta io?”

 

Noah non risponde, limitandosi a fissare il pavimento. Chi è questa Quinn? E perché sembra sapere così tante cose?

 

“Ti chiedo di ascoltare cosa vuole dirti, solo questo. Poi potrai mandarlo via e non parlargli più ma … se c’è stato qualcosa tra voi penso che tu gli debba almeno questo, no?”

 

L’ex soldato aggrotta le sopracciglia, piuttosto sicuro di aver capito male o, in caso contrario, sicuro di star fraintendendo il significato di quel ‘qualcosa tra voi’. Ancora una volta, però, rimane in silenzio.

 

“Capisco quanto ti dia fastidio che sia io, una persona che non conosci, a dirti cosa fare” riprende la donna, in tono estremamente più dolce rispetto a quello deciso usato poco fa. “Ma, per favore, ascolta Kurt e poi valuta cosa fare. Solo … ascoltalo

 

Chi cazzo sei?’, ‘Chi diavolo ti credi di essere per farti gli affari miei?’, ‘Cosa pensi che dovrei farmene dei tuoi consigli?’, ‘Fatti i cazzi tuoi, stronza!’, etc etc etc … la cosa strana non è che tutte queste domande passino nella testa di Noah, no, perché la situazione che sta vivendo è quasi surreale. La cosa veramente strana è come ognuna di queste venga schiacciata da una sola affermazione che si sta facendo largo tra i suoi pensieri: ‘A chi importa chi sia questa o chi si creda di essere se ha così fottutamente ragione?

 

“Credo … credo che farò come dici, sì” farfuglia, accarezzandosi la collottola.  

 

“Sto solo cercando di aiutare un amico” risponde con un sorriso che fa sorridere anche lui di rimando. “Magari sto aiutando anche te, chi lo sa” aggiunge, prima di girare i tacchi.

 

Il nervosismo sale mentre osserva i due parlottare e aumenta in maniera vertiginosa quando Kurt, dopo una carezza alla bambina, si dirige verso di lui.

Solo un enorme sforzo di volontà gli impedisce di mandare a quel paese tutto e rintanarsi di nuovo in camera ma, dopo le parole di quella bionda, l’odio per non aver parlato con Kurt è molto più forte della paura.

 

L’imbarazzo è il terzo sentimento che arriva a contorcergli lo stomaco non appena il giovane Hummel gli arriva di fronte. Perché né lui né Kurt dicono nulla, limitandosi ad aprire la bocca un paio di volte senza emettere un singolo suono, probabilmente spaventati dal dire qualcosa di sbagliato –Noah sicuramente, su Kurt può solo immaginarlo.

 

Quando ormai la situazione sembra in una fase di stallo, Puck si fa da parte, permettendo a Kurt di entrare.

“A-accomodati” balbetta, incerto sul come procedere. Che ne è stato del vecchio Puckzilla determinato e sicuro di sé?

“Mi dispiace di averti chiuso la porta in faccia” mormora dopo altri secondi di silenzio, imitando Kurt e fissando il pavimento. “È che … posso essere sincero? Avevo paura”

 

“D-di me?”

 

“No. Cioè …

Ha detto di essere sincero, no? Allora è giusto continuare ad esserlo.

Kurt non risponde e non sembra dare segni di vita, quindi Noah interpreta il suo comportamento come una specie di via libera.

“La bionda di prima … lei mi ha detto di … che dovevi dirmi una cosa. Cosa devi dirmi?”

 

“Mi dispiace di non essere mai riuscito a capire fino in fondo il tuo dolore”

 

Oh. Allora … oh.

 

“Ora, se non vuoi più parlarmi, ti posso capire” aggiunge Kurt, mentre ora è il turno di Puck di cercare di assimilare la cosa. “Però ci ho pensato molto in questi anni e … tu hai sbagliato, penso che tu te ne renda conto, ma noi? Noi abbiamo sbagliato quanto te e tutti, ognuno di noi, sapeva quanto fossi legato a Sam. Più di me, più di Mercedes … come i suoi fratelli, ne sono sicuro. Perciò sì … mi spiace di non aver capito il tuo dolore. Di … d-di essere stato egoista”  

 

Avete presente la sensazione che si prova dopo aver raggiunto qualcosa di agognato per tanto tempo? Ecco, quello è ciò che sta provando Noah.

E non è l’essere giustificato, l’essere perdonato o qualsiasi cosa di questo genere. È, più semplicemente, l’essere capito per la prima volta nella sua vita.

“Mi rendo conto solo ora di …” mormora all’improvviso, cogliendo di sorpresa Kurt “… di aver rovinato il rapporto tra te e Mercedes dicendo … urlando davanti a tutti della cotta che avevi per lui. Perciò … scusami, se puoi

 

“L’avevo già persa” ammette Kurt. “Quando abbiamo saputo di Sam … noi non eravamo più nemmeno così amici. Non so come sia successo, so solo che … quello che tu hai detto al funerale non è stato altro che un buon motivo per rendere tutto … definitivo

 

“Capisco” mormora Puck, nervoso. E ora? Cosa dire adesso? Chi saprebbe cosa dire in un momento come questo?

 

Io ti perdono. Tu puoi … puoi perdonare me?”

 

Le parole di Kurt lo colpiscono come una granata e lui sa bene cosa voglia dire. “… per c-cosa?”

 

“Per aver detto … per aver detto che avrei preferito che a morire … insomma … che fosse …”

 

“Non ho mai dato peso a quelle parole, Kurt” lo interrompe, rivolgendogli un sorriso stentato. “Ti ho praticamente spinto io a dirle e … sì, all’epoca le pensavo anche io”

 

“Dillo, per favore”

 

“T-ti perdono” balbetta, abbastanza confuso dall’atteggiamento dell’amico.

 

“Ti perdono” ripete Hummel, sollevando lo sguardo e mostrando gli occhi lucidi. “Non mi importa di niente di quello che è successo, di quello che hai fatto, di quello che è successo … ho perso troppe persone importanti nella mia vita e … ho bisogno di te

 

A volte miliardi di parole non servono a nulla, a volte ne bastano appena quattro per dire tutto. E Noah capisce, guardando Kurt piangere per lui, per il dolore della sua assenza, che non tutte le cose complicate sono destinate a non risolversi

Perché sicuramente dire ti perdono non basta, non vuol dire nulla se buttato lì così, praticamente di getto. Ma non è questo il caso. Kurt non ha detto ti perdono perché l’ha rivisto dopo nove anni, bensì perché ha pensato nove anni a quello che è successo.

 

L’abbraccio in cui Puck stringe Kurt è la logica conseguenza e, se ve lo state chiedendo, non sta piangendo anche lui. Ha solo fastidio all’occhio offeso.

 

Ovviamente non funziona così, non si cancella il passato così facilmente con due parole e un abbraccio. Ad essere onesti, però, è un buon inizio per aiutarsi a voltare pagina.

 

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“Sorpresa!”

 

“Papà! Papà!”

Quinn si porta la mano sulla bocca, come fa sempre quando vede Beth allungarsi per aprire la porta, sgranare i suoi occhioni verdi e lanciarsi addosso al padre.

Non è mai stata una persona particolarmente emotiva o, per meglio dire, non ha mai apprezzato le manifestazioni eccessive dei propri sentimenti, ma vedere la sua piccola volare tra le braccia di Christian e stringerlo forte, magari sussurrandogli quanto gli è mancato come sta facendo in questo momento, è semplicemente troppo.

 

“Mi sei mancata da morire, scricciolo” ridacchia l’uomo, sollevando senza fatica Beth e sostenendo il suo peso con un braccio, permettendole di allacciare le braccine dietro al suo collo. “Allora è vero che ti sono caduti i denti davanti” nota con un sorriso, mentre la bimba annuisce con vigore. “E la Fatina dei denti ti ha portato i due dollari che ti spettano?”

 

!” esclama contenta. “Ce li ho nafcofti in camera” aggiunge a bassa voce perché, ovviamente, è bene tenere certe cose segrete.

 

“Fai bene a tenerli nascosti, scricciolo. E ciao anche a te, splendore” si rivolge finalmente alla donna in piedi davanti a lui, donandole pure uno dei famosi sorrisi marchio Smythe.

 

Fino a qualche tempo fa l’imbarazzo era tale che persino salutarsi, per questi due, era una cosa complicata e il classico dubbio tra ‘ci abbracciamo e basta?’ o ‘potremmo darci un bacio sulla guancia, non c’è nulla di male’ era la regola. Perché le cose tra Quinn e Christian erano complicate ancora prima di Beth, questo bisogna dirlo.

 

Oggi, invece, le cose sono cambiate, sono più leggere.

“Ciao Chris” lo saluta, allungandosi per lasciare un bacio a sciocco sulla sua guancia e pizzicandogliela tra le dita, evitando almeno per il momento di fare commenti sul leggero strato di peluria che la ricopre. “Come è andato il volo?”

 

Tokio Los Angeles non tanto bene, c’è stata parecchia turbolenza … grazie” fa a Quinn che, vedendolo un attimo in difficoltà, ha preso il trolley dalla sua mano e l’ha tirato dentro all’appartamento, chiudendo la porta alle sue spalle. “Los Angeles Columbus con scalo a Detroit invece è andato bene, anche perché ero così stanco che ho passato tutta la durata del volo a dormire della grossa”

 

“Papi ieri ho preso un ‘braviffima’ a fcuola! E la maeftra mi ha dato una ftellina! Fai che ne ho già … fette? Vieni a vedere la mia cameretta, dai!” si agita Beth, attirando l’attenzione del padre. “È bella e grande e ho un lettino grandiffimo

 

“Certo, scricciolo” ridacchia Chris, osservando prima la faccina entusiasta della figlia e poi il sorriso dipinto sul volto di Quinn. “Prima, però, pensavo di darti i regalini che ti ho portato”

 

“Oooooh” esclama Beth, facendo ridere i genitori, mettendosi subito a guardare oltre le spalle del padre. “Dove fono?”

 

“Tesoro, lascia almeno il tempo a tuo padre di rilassarsi un secondo”

 

“Tranquilla Q, va bene così” la tranquillizza, tornando a concentrarsi su Beth. “Comunque i souvenir sono nella mia valigia” sorride Chris, mettendo giù la figlia ma tenendole comunque una mano. “Potresti … aiutarmi a mettere il trolley sul tavolo, per favore?” chiede a Quinn che esegue subito, curiosa probabilmente quanto la figlia.

 

“Spero che tu non ci abbia speso troppo” fa la bionda, ottenendo un’occhiata di sbieco da parte di Chris, una di quelle che vogliono dire ‘Ti prego, stai parlando con uno Smythe, noi possiamo’.

 

“Ho speso il giusto” commenta semplicemente, aprendo la valigia in modo da ostruire la visuale a Beth, la cui testolina sporge di poco dal bordo della tavola. “Pronta?”

 

Fì!

 

Il primo oggetto che Chris estrae dalla valigia lascia Quinn di stucco, perché tra tutte le cose che aveva pensato di vedere spuntare dopo un viaggio in Giappone, un peluche grigio e bianco a forma di cuscino, con le orecchie grandi, gli occhi a palla bianchi e una foglia sulla fronte, è decisamente l’ultima che potesse aspettarsi.

 

“Che cos’è?” chiede, davvero curiosa, mentre la figlia non si fa troppi problemi e sta già abbracciando il suo regalo, contenta.

 

“Un coniglio!” esclama contenta la bimba. “Mami, è morbidiffimo!”

 

“Non è proprio un coniglio, è più un incrocio tra un procione e un orso” la corregge Chris, da bravo sapientone qual è. “Si chiama Totoro ed è uno spirito della Natura! … non fare quella faccia, Q …” sorride a Quinn, intendo a scuotere il capo perché ha già intuito come si evolverà la faccenda “… e sii contenta che sia riuscito a limitarmi e a non comprarle la versione a grandezza naturale, un metro e cinquanta di pura coccolosità”

 

“Ringraziamo Dio per questo” concorda, mascherando malamente un sorriso dietro la mano con cui sta facendo finta di massaggiarsi la tempia. Un bambino nascosto nel corpo di un adulto, ecco cos’è Christian Smythe in realtà.

 

“Sai cos’è uno spirito della Natura, scricciolo?” chiede alla figlia che, ovviamente, fa no no con la testa. “Per questo motivo ti ho preso anche questo” sorride di nuovo, appoggiando un cofanetto bello grande su cui campeggia la scritta ‘Studio Ghibli, Inc.’.

 

Fono cartoni?” chiede Beth, estasiata e al tempo stesso incerta, evidentemente dispiaciuta dal dover abbandonare il suo Totoro per poter aprire il cofanetto.

 

“Sono più che cartoni” fa Chris, allargando le braccia per rendere chiaro il concetto. “E sono bellissimi. Scommetto quello che vuoi che ti piaceranno anche più di quelli che hai visto fin’ora”

 

“Dopo li guardiamo, mami?” squittisce Beth, sempre più eccitata, rivolgendo i suoi occhioni verdi alla madre che non può fare a meno di annuire e sorridere.

 

“Sono sicura che tuo padre aveva già pensato a questa possibilità” mormora comunque, lanciando una frecciatina nemmeno troppo velata a Chris il quale, con la solita semplicità, si limita furbescamente a fare spallucce.

 

“Per te sono stato davvero combattuto, quindi-”

 

“Quindi spero che tu non mi abbia preso nulla, testone” l’ammonisce con lo stesso tono severo che usa le rare volte il cui Beth deve essere ripresa.

 

“Mi conosci, no?” sorride Chris. “Ho davvero fatto fatica a trovare qualcosa che non solo ti potesse piacere ma che avresti anche potuto utilizzare. Alla fine …” sorride di nuovo, appoggiando una scatola sottile e ampia di fronte a Quinn “… ho optato per queste

 

“Io lo sapevo, sei sempre il solito. Avrei scommesso che mi avresti … oh

È facile predicare bene, lo è meno quando si ha a che fare con un regalo d’impatto –enorme impatta a giudicare dal modo in cui rimane ferma con il coperchio della scatola in mano e un’espressione quantomeno sbigottita in volto– di cui ci si innamora all’istante.

 

“Che cosa sono mami?” chiede Beth, incuriosita dalla reazione della madre.

 

“Sono delle cinture un po’ particolari, si chiamano obi” le risponde Chris, mentre Quinn continua a non trovare le parole adatte a descrivere quanto quel regalo le piaccia. “Di solito si indossano sugli abiti della tradizione giapponese ma la commessa del negozio dove le ho comprate mi ha assicurato che si possono usare tranquillamente come accessori anche sui vestiti ‘normali’”

 

Beth, a differenza della madre che quantomeno è riuscita ad appoggiare il coperchio della scatola sul tavolo è sta sfiorando il tessuto colorato, non sembra gradire particolarmente, molto più concentrata sull’avere finalmente il padre per sé.

“Vieni a vedere la mia camera, dai!” prega l’uomo, strattonandogli con decisione la camicia.

 

“Arrivo subito, dammi un solo secondo” le fa il padre, tirando fuori dal trolley –avrà dovuto pagare un patrimonio di sovrattasse sul trasporto visto quanta roba c’è dentro– un libro piuttosto massiccio. “Non mi sono azzardato ad addentrami nella letteratura giapponese … perché sì, ne capisco poco di quella nostrana figurarsi straniera … e ho deciso di non farmi picchiare da te portandoti dei manga, quindi ti ho preso questa” spiega a Quinn, porgendole il libro. “Parla un po’ di tutto, dalla geografia alla storia passando per le tradizioni. Ci ho dato un’occhiata, è fatto molto bene. Spero ti possa piacere”

 

“G-grazie, Chris … sono regali meravigliosi” gli sorride Quinn, di rimando, estremamente sorpresa dal tipo di presente piuttosto che dagli oggetti in sé. A volte tende a dimenticarlo ma l’uomo che le è appena passato vicino seguendo Beth verso la sua camera è la persona che più la conosce meglio al mondo insieme a Santana.

 

Mentre prende tra le mani uno degli obi, su cui tra l’altro è stampato un bellissimo motivo floreale, le parole della sua migliore amica ritornano dall’antro del cervello in cui le aveva tenute nascoste per tutto il pomeriggio escono prepotentemente.

E si scopre, come sempre quando vede Christian con Beth o quando la sua sola presenza gli fa tornare alla mente una valanga di sensazioni mai completamente seppellite per via della complessità e al tempo stesso dell’ambiguità del loro rapporto.

 

Sospira, pensierosa, dopo essersi accorta di stare sorridendo praticamente dal momento in cui quell’uomo è entrato in casa.

 

Il difetto peggiore di Santana Lopez? Che ha quasi sempre ragione.

 

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“Esci anche stasera?”

 

Deborah inchioda, usando la porta che si affaccia sul soggiorno per fermare la sua corsa a perdifiato. Sperata di passare il controllo indenne, peccato.

“Sì, mi vedo con Devon … perché?” chiede, cercando di mascherare il leggero nervosismo che le prende la bocca dello stomaco ogni volta che mente a sua madre. Non le piace farlo, così come non le piace il modo in cui gli unici due famigliari che ha al mondo non si rivolgano la parola da anni, ma per suo fratello Noah è disposta anche a dire una bugia.

 

Una donna sulla cinquantina con lunghi capelli bruni si sporge dal divano, osservando insistentemente gli occhi della figlia.

“Vedi di non fare cavolate” le ricorda, evitando fortunatamente la solita paternale che chiunque abbia una madre e sia stato adolescente ha ricevuto. “E torna a casa presto, domani hai scuola”

 

“Ok, mamma. Non mi aspettare alzata”

 

Solo quando la porta di casa Puckerman si richiude alle sue spalle Deborah riprende a respirare normalmente. Onestamente trova un po’ ridicolo questa storia del mentire e non dire a sua madre del ritorno di Noah, soprattutto considerato che Lima non è una metropoli, forse non è nemmeno una cittadina vera e propria e, prima o poi, da qualcuno lo verrà a sapere in ogni caso. 

 

Sbuffa, vagamente infastidita, infilandosi nella sua piccola Ka color bronzo. Appoggia la borsa sul sedile passeggero e mette in moto al volo, quasi abbia una colonna di Uruk Hai alle spalle. Purtroppo, è semplicemente una guidatrice molto aggressiva.

 

La cosa che più la colpisce di tutto quello che le sta succedendo è quanto suo fratello sia cambiato, non solo confrontando colui che è partito con chi è tornato. Il mutamento è stato quasi radicale perfino rispetto a com’era appena un anno fa. 

Quella che più la infastidisce è la perenne sensazione di non sapere la totalità di ciò che gli è capitato. Sa della terapia, ma cosa l’ha scatenata? E, ancora, sa a grandi linee della tremenda litigata avvenuta al funerale di Sam anni fa più qualcosina che Noah si è lasciato sfuggire dopo la discussione con Burt di due settimane fa, ma la verità nessuno gliela ha mai detta. Non sarebbe più semplice se suo fratello si confidasse completamente con lei? Crede che sia ancora la mocciosa che aveva paura del buio? Probabilissimo, conoscendo Noah.

 

Ferma la macchina dopo nemmeno cinque minuti di viaggio, accostando sul ciglio della strada e prendendo fuori il cellulare dalla tasca dei suoi jeans ingannare l’attesa.

Peccato che non abbia quasi il tempo di sbloccare il telefono visto che, circa un secondo e mezzo dopo che ha spostato il cambio sulla P di parcheggio, la portiera sul lato del passeggero si apra.

 

“Mi spiace” sorride la giovane ragazza, cercando di mantenere un’espressione seria. “Abbiamo cambiato i materassi due anni fa, siamo a posto così”

 

Lo sguardo pieno di odio e il dito medio che le rivolge Noah ancor prima di essersi messo a sedere vale interamente la spiacevole sensazione di dover mentire a loro madre.

 

“Wow, abbiamo una comica tra noi” borbotta l’uomo, allacciando la cintura. “Davvero simpatica, non c’è che dire. E comunque io non li vendo i dannati materassi, li imballo e li trasporto”

 

“Davvero?” mormora Deborah, un po’ meno in vena di battute di poco fa. “Perché Devon mi aveva detto che-”

 

“Già, quello che tu hai poi detto a me” la interrompe, borbottando ancora. “Peccato che il nonno sia decisamente più sveglio del nipote, a quanto pare”

 

“Effettivamente erano quasi due giorni che non prendevi Dev per il culo” commenta Deborah, rimettendo in moto. “Solito posto?”

 

“Per me è uguale, volevo solo parlare con te di persona”

 

La ragazza sorride, evitando di dire ad alta voce a quel ruffiano di suo fratello quanto le piaccia sapere di poter essere importante per lui, soprattutto dopo che lui ha fatto e sta facendo ancora tanto per prendersi cura di lei.

“Quindi …” riprende Deborah, dopo un paio di minuti di silenzio che non sono decisamente da Noah Puckerman “… guadagnerò più di te?”

 

“Una comica nata” ripete il fratello, stavolta sorridendo. “Spererei in tempi brevi di essere preso definitivamente e di fare il venditore più che scaricare camion. Per il momento però il mercato offre questo e non me la sono sentita di rifiutare”  

 

“Messaggio ricevuto, niente più prese in giro” ridacchia Deborah, facendogli l’occhiolino.

 

“Puoi farlo, tranquilla, ormai sto facendo l’abitudine alle tue continue frecciatine catt- ahia!” geme, massaggiandosi la nuca su cui la dolce sorellina ha appena stampato una cinquina.

 

L’ex soldato scoppia a ridere subito dopo, anticipando di pochi istanti la ragazza al volante.

Il loro rapporto è cambiato, si potrebbe dire che è maturato con loro, e la verità è che a nessuno dei due dispiace troppo la direzione che sta prendendo. Un amore fraterno che nemmeno la distanza è riuscito a scalfire e, al tempo stesso, un rapporto tra pari di reciproca condivisione dei propri problemi/vittorie, cosa non così scontata vista la differenza di età.

 

“Da domani inizio a lavorare e direi che posso già cominciare a cercare un appartamentino in affitto” riprende Noah. “Vorrei che tu venissi con me”

 

“Ovvio” cinguetta Deborah. “E per i mobili potremmo … ah già, ci pensi tu all’arredamento. Partiamo con i materassi?”

 

“Farò finta di non aver sentito” borbotta Noah. “Comunque ai mobili non ci penseremo solo noi. Nel senso che … potrei chiedere a Kurt di dare una mano”

 

“Sarebbe una figata visto il suo gusto estetico” concorda la ragazza, cercando di non ridere. Perché sa già, senza nemmeno bisogno di guardare, che Noah non si aspettava una reazione del genere. “Cosa c’è?” cinguetta con innocenza, osservando con la coda dell’occhio l’espressione confusa di suo fratello.

 

“Beh … se chiedo una mano a Kurt vuol dire che abbiamo fatto pace. La cosa però non sembra averti molto sorpresa” spiega, perplesso. A meno che …

“Tu lo sapevi, vero?” le fa, puntandole un dito contro con fare accusatorio.

 

“Diciamo che lui potrebbe avermi chiesto dove ti nascondevi e io potrei avergli detto il numero della tua camera di motel” tenta, molto meno convinta della bontà della propria azione. “Guarda che gli ho parlato solo dopo che tu e Burt avete discusso. Ed è stato lui a cercare me, non il contrario” precisa immediatamente. “Sei … arrabbiato?”

 

“No, è che … non me l’aspettavo” risponde tranquillamente Noah. Che motivo avrebbe di arrabbiarsi? “Non sapevo foste in contatto, ecco”

 

“Lui, suo padre e Carole sono gli unici che abbiano provato a stare vicino a me e agli Evans” farfuglia, improvvisamente seria come se un peso le si sia posato sulle spalle. È questo dunque che loro sentono ogni volta che torna fuori quella storia?

“E poi a scuola lo vedo sempre, è un mio professore. Spesso ci fermiamo a parlare del più e del meno, a volte mi offre un caffè della sala insegnanti”

 

“Ci tiene davvero a noi

 

“Già” asserisce Deborah, prendendosi un attimo per sé per riuscire a parcheggiare al meglio di fronte al locale appena fuori Lima dove possono passare in tranquillità le loro serate tra fratelli. “Io non so esattamente cosa sia successo e non sono sicura siano esattamente fatti miei” riprende dopo qualche secondo, usando quasi le stesse parole di Quinn e sorprendendo Noah. “Però posso dirti che Kurt è stato malissimo. Suo papà stava male e tutti i suoi amici erano sparpagliati in giro per l’America. O il mondo. O peggio. Perciò … cerca di ricordatelo, ok?”

 

Eccolo qui, l’imbarazzante momento in cui tua sorella di dieci anni più giovane di te ti insegna, anche se in maniera inconsapevole, una delle lezioni più importanti: di certe persone non si può dubitare.

“Me ne ricorderò, promesso”

 

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Beth solitamente non è una bambina capricciosa, non lo è mai stata. È proprio per questo che è per Quinn è quasi una tragedia vederla puntare i piedi, urlare, piangere, dimenarsi come un’ossessa fino al punto di tremare per la rabbia come sta facendo ora. Una reazione ancor più inaspettata visto la spensieratezza e la gioia che ha manifestato durante tutta la serata e persino al momento di prepararsi per la nanna.

 

“Che succede?” farfuglia Christian, entrando in bagno con un’espressione preoccupata in volto.

 

Quinn si porta indietro i capelli, sospirando e lasciando passare il padre di Beth per permettergli di sollevare la figlia, avvolta nel suo pigiamino verde, e di stringerla tra le braccia per cercare di calmarla.

“Non vuole che tu dorma sul divano”

 

L’uomo annuisce, cogliendo al volo. “Perché, scricciolo?” chiede comunque, rivolgendosi direttamente a Beth che pian piano sta smettendo di piangere. “Vuoi che venga a dormire con te?”

 

“E la m-mam-mma” singhiozza la piccola contro la spalla del padre. “N-nel lettone”

 

“Facciamo così, scricciolo” fa Chris dopo qualche secondo passato a scrutare gli occhi nervosi di Quinn. “Ora io ti porto nel lettone, ti soffio il nasino e ti rimbocco le coperte. Io e la mamma abbiamo alcune cose di cui parlare, però ti prometto che dormiremo tutti insieme stanotte. Ok?”

 

Quinn è tentata dal rispondere alla semplicità con cui l’uomo sembra affrontare una questione molto più complicata di quel che può apparire ma, di fronte al sorriso sghembo che Beth rivolge ad entrambi, soddisfatta di aver raggiunto il suo scopo, è costretta a mordersi la lingua.

 

Lo fa solo per i dieci minuti che Chris impiega a mettere a letto sua figlia perché, non appena torna in bagno per parlare con lei sfoggiando un’aria trionfante, non può trattenersi.

“Che diavolo pensi di fare?” sibila tra i denti, evitando accuratamente di urlare.

 

“Accontento nostra figlia” risponde con snervante nonchalance Chris. “Sono anche io imbarazzato dal dormire con te dopo tanto tempo, cosa credi?”

 

“N-non è questo” cerca di dire con sicurezza Quinn, sperando di non arrossire. “È che non vorrei che Beth-”

 

“Che Beth cosa? Si illudesse di qualcosa?” chiede Chris, per fortuna senza il solito sorriso strafottente da Smythe. “Si rende conto perfettamente della situazione e non scambierà il dormire assieme per una notte con il tornare assieme dei suoi genitori”

 

“Tu … tu non … tu la idealizzi troppo. Non è così matura” lo gela la bionda, assumendo un’espressione dura. “Come pretendi che capisca certe cose?”

 

“Lei lo capisce, punto. Come capisce che siamo una famiglia, nonostante tutto, e capisce che le voglio un bene dell’anima e farei di tutto per lei”

 

“No, non lo capisce” ribatte Quinn, testarda. “Perché se lo capisse come dici tu, non avrebbe passato le ultime settimane a chiedermi perché non eri ancora venuto a trovarci qui a Lima”

 

Ecco qui la cosa che non è mai riuscita a dire ad alta voce: accusare Christian Smythe di aver sbagliato. Non è un’accusa vera e propria come lo sarebbe aver gridato ad alta voce ‘sei un genitori incapace perché non sei presente. Anzi, non puoi nemmeno considerarti suo padre perché non ci sei mai’, ma l’effetto è praticamente lo stesso.

 

E non è stata Santana a svegliarla dalla sua, come l’ha definita la stessa latina, ingenuità e non è stata la discussione avuta in mattinata a convincerla ad affrontare questo argomento. È stata la stessa Beth che ormai è abbastanza grande da manifestare il proprio disagio emotivo come ha fatto durante le ultime settimane e poco fa con quella scenata.

 

“Merda” geme Chris, colpito dalla rivelazione della donna come da una scarica di pugni alla stomaco, lasciandosi cadere sul bordo della vasca da bagno. “Merda” ripete, sconsolato, passandosi una mano sul volto. “Non pensa che la odi o qualcosa del genere, vero?”

 

“Non lo pensa” lo rassicura immediatamente Quinn, limitandosi  poi a scuotere la testa un paio di volte e a sedersi di fianco a Chris per lasciarlo alle sue solite elucubrazioni mentali.

 

“Forse … dovrei accettare il lavoro che nell’azienda di famiglia, tornare a Chicago e trasferirmi stabilmente lì” sospira l’uomo dopo diversi secondi di riflessione, cercando conferme nello sguardo della bionda.

 

“Ma non è quello che vuoi”

 

“Nemmeno vedere mia figlia una volta ogni due o tre mesi lo è” ribatte Chris. “E, se dovessi scegliere a cosa rinunciare, sai bene quale sarebbe la mia decisione. La stessa che prenderesti anche tu” 

 

“Lo so” sorride Quinn, passando amichevolmente la mano tra i corti capelli bruni a spazzola del padre di sua figlia. “Comunque non c’è bisogno di cambiamenti così drastici. Beth sa benissimo quanto tieni a lei e io so quanto saresti disposto a sacrificare per la sua felicità. Ti chiedo solo di … essere un po’ più presente, ecco”

 

 “Devo solo … con questo ultimo lavoro probabilmente mi sono assicurato una promozione e un bell’ufficio” fa Chris, guardando di nuovo gli occhi verdi-marroni della bionda al suo fianco. “Se così fosse potrei aumentare il numero delle mie visite ad almeno un paio di volte al mese”

 

“Beth ne sarebbe molto felice” assicura Quinn, sorridendo. “Per quanto riguarda il dormire tutti assieme forse … forse non è un’idea così malvagia

 

“Dici?” sorride Chris in maniera tutt’altro che allegra. “Perché in questi due minuti scarsi mi hai fatto rivalutare praticamente ogni cosa pensassi di sapere su mia figlia e … non so, nella mia testa sembra tutto una stronzata gigantesca”

 

“Penso che sia quello di cui ha bisogno in questo momento” ribadisce Quinn, quasi con assoluta certezza. “Con il mio lavoro probabilmente già a gennaio sarò in un’altra città e dovrà salutare le sue amichette. Credo … credo abbia bisogno di capire che noi ci siamo e ci saremo sempre, ecco”

 

Dopo aver valutato attentamente le sue  parole, Chris si alza, afferra il polso di Quinn e la solleva dal bordo della vasca, stringendola in un forte abbraccio che vale più di mille parole. E no, non è un modo di dire, perché lei sa perfettamente cosa racchiuda quel gesto: affetto, gratitudine e tanto altro, tutte cose che gli tutti gli Smythe sono incapaci di dire ad alta voce, probabilmente per il tipo di educazione ricevuta.

 

“Grazie di tutto, Q” aggiunge l’uomo, poggiando delicatamente le labbra sulla fronte della bionda, non troppo più bassa di lui. “Ora … potremmo andare a fare un caffè, parlare un po’ di cosa combini in città e andare a letto”

 

“Ci sto”

 

Il suo difetto peggiore? Che, pur sapendo alla perfezione cosa sia meglio per sua figlia, non sia mai stata in grado di capire cosa sia meglio per sé stessa.

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore.

 

Scusatemi per il ritardo, se potete.

 

Ecco, direi che questo è il modo migliore per iniziare queste note. Lo so, avrei dovuto pubblicarlo la settimana scorsa –mio Dio, mi fa male anche solo leggerlo–, peccato che il problema di cui ho accennato nelle note dello scorso capitolo nelle ultime due settimane è triplicato. Purtroppo non è una stima sparata a caso: un po’ di tempo fa era mio nonno materno a stare male, ora sono in tre visto che si sono aggiunti entrambi i miei nonni paterni.

 

Per fortuna non è nulla di così grave –a parte per il nonno materno che ora sta bene ma vederlo andare via in ambulanza non una ma due volte, di cui una il giorno di Pasqua non è stato bellissimo–, altrimenti ora non sarei nemmeno qui a scrivere, ecco.

 

Tutto questo per dire cosa? Che il ritardo è dovuto al fatto che mi sono dovuto abituare al nuovo ritmo di cose da fare e alla nuova situazione, quindi … mi spiace e spero proprio di non dover mai avere ritardi così abnormi. Almeno, questo è quello che mi auguro, si vive molto alla giornata ultimamente.

 

Passando al capitolo, la cosa migliore del fiume di parole che ho scritto è il titolo. Spero che a voi piaccia anche il resto :)

 

Come avrete capito, l’amicizia di Quinn e Santana è molto particolare, molto diretta e anche un po’ cruda. Me l’immagino così, considerando i soggetti con cui abbiamo a che fare. E cosa nasconde la bella Santana? Nulla di tragico, promesso! Anzi …

 

Il lavoro da far fare a Puck è stato senza dubbio la parte più difficile che abbia mai scritto. Ero indeciso tra questo coso dei materassi dove i ragazzi hanno cantato Jump –mi manca la prima stagione– e il market dove lui e Finn hanno lavorato, sempre nella prima stagione se non sbaglio. Alla fine ho scelto la Terra del materasso ma solo perché il tipo aveva una faccia buffa :)

 

Sul confronto Puck-Kurt-Quinn non ho molto da dire, spero ardentemente che vi sia piaciuto. Di sicuro non vi aspettavate un primo incontro del genere per la Quick ma … beh, da qui è tutto in discesa anche se, come ho scritto nelle note del prologo, non sarà una di quelle storie ci conosciamo, andiamo a letto, ti amo, sposiamoci nell’altro di due settimane. Su Kurt e Puck la cosa non è finita, ahimé. Ci saranno altri confronti e saranno belli tosti. Soprattutto dovrò farvi capire come mai anche Kurt sembra molto più insicuro di quello che è in Glee e come mai sia tornato a Lima. 

 

Christian … già, il fratellone etero di Sebastian. All’inizio volevo usare uno dei personaggi già esistenti per il suo ruolo, peccato che nessuno mi convincesse molto. Così ho pensato di crearne uno io, cercando al tempo stesso di dargli un legame con il Glee di Murphy. Non so, ditemi voi. Ovviamente il rapporto che ha con Quinn sarà spiegato molto meglio e lo vedremo attraverso gli occhi di Puck.

 

Sulla parte dei souvenir sono andato molto a tentoni e per sentito dire da un’amica fissata con il Giappone, quindi spero di non aver scritto troppe str- cavolate.

 

Ringrazio chi ha letto ed è arrivato fin qui, coloro che hanno messo tra ricordati, preferiti etc e le tre gentilissime persone che hanno commentato. Mi auguro che vi sia piaciuto e che abbiate passato delle bellissime vacanze pasquali! Ovviamente gli auguri li faccio a tutti, nessuna preferenza. Solo che a loro di più :)

 

Come al solito, per dubbi, domande, correzioni, suggerimenti, insulti non abbiate timore a farvi sentire.

Spero –quante volte l’ho scritto in dieci righe?– a molto presto.

Pace.

 

 

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Capitolo 7
*** Prime impressioni ***


Capitolo 6. Prime impressioni.

 

Quando si vuole disperatamente qualcosa, di solito, una volta che si è raggiunto l’oggetto dei propri desideri, si finisce con il chiedersi se ne sia valsa la pena o, in altri casi, che utilizzo se ne possa fare effettivamente.

Spesso lo stesso ragionamento lo si può applicare alle persone, ovviamente con le debite proporzioni ed in maniera più sfumata e molto meno drastica.

 

Questa è esattamente la situazione in cui si trova Kurt.

Da quando ha saputo che Noah Puckerman era di nuovo a Lima, non ha fatto altro che pensare ad un modo per riavere il suo vecchio amico vicino, ha discusso piuttosto animatamente con suo padre una volta che Burt gli ha spiegato come sia andato il suo incontro con Puck e, successivamente, ha agito di testa sua ignorando i suoi consigli paterni, circuendo Ryder –uno dei meccanici dell’officina– e pregando Deborah per sapere dove trovarlo.

 

Ora che ha finalmente ottenuto il suo scopo, però, non è più sicuro di aver fatto la cosa giusta. Perché l’uomo che ha avuto modo di riavvicinare dopo tanti anni passati lontano sembra il fratello del Noah Puckerman che ricorda. Sembra molto meno sicuro di sé e molto più attento a ciò che dice, quasi abbia paura di rivelare qualcosa di troppo; nelle ultime due settimane i loro contatti si sono limitati a brevi chiacchierate telefoniche, qualche sms e qualche pomeriggio trascorso alla ricerca di un appartamento.

 

La cosa peggiore, però, è senza ombra di dubbio il momento in cui si crea quel silenzio carico di imbarazzo quando, per sbaglio, uno dei due tira fuori un argomento non gradito. Ha scoperto in uno di questi momenti –molti più numerosi di quanto sarebbe lecito attendersi da due amici come loro– che Puck si adombra in maniera incontrollabile quando si nomina Rachel o la famiglia Evans, e che Kurt stesso è piuttosto suscettibile quando l’altro chiede del periodo post liceo, del perché sia finito con il fare l’insegnante e della sua vita sentimentale.

In pratica, eliminando sport e arte, al tempo stesso campo preferito di uno e bestia nera dell’altro, i loro argomenti possibile si riducono al tempo, al lavoro e al possibile arredamento da comprare quando Puck troverà il suo nuovo appartamento.

 

È triste, lo sanno entrambi. E Burt li aveva avvertiti dicendo loro che preferendo la via più facile e non affrontando i problemi o, peggio, facendo finta che siano perdonati e dimenticati.  

Ma a volte, e di nuovo entrambi ne sono perfettamente consapevoli, vivere in una bolla artificiosa con qualcuno è meglio che vivere soli. Forse, però, devono solo abituarsi al nuovo stato di cose. Sperano che sia così, in effetti.

 

 

Anche perché, mentre stanno visitando l’ennesimo appartamentino in centro a Lima, un bilocale con un affitto inspiegabilmente alto che Puck non ha la minima intenzione di prendere in considerazione ma sta guardando comunque per far perdere tempo al proprietario che tira esageratamente sul prezzo, Kurt si limita a imitare i gesti dell’amico e, di tanto in tanto, fare qualche domanda di cortesia o dire banalità.

“Domani è Halloween”

Ecco, appunto.

 

“La cosa mi lascia parecchio indifferente” risponde Puck, tirando fuori dalla cintura portattrezzi che usa a lavoro un metro non appena il proprietario spunta nella camera da letto per controllare cosa stiano facendo.

 

Kurt si sforza di non ridere, riuscendo almeno a sorridere grazie al fatto di dare le spalle all’uomo. Non sarà esattamente il vecchio Puckzilla ma qualche colpo di genio lo tira fuori comunque.

“Beh, di solito anche a me. Però … Ryder mi ha parlato di una festa che fanno qui vicino”

 

“Chi sarebbe?” farfuglia l’altro, giocherellando con il metro.

 

“Quello che lavora da mio padre” gli ricorda per l’ennesima volta. “Non potremmo andare da qualche altra parte invece che perdere tempo qui?” aggiunge con una punta di isteria e di imbarazzo quando Puck appoggia il metro sul cavallo dei pantaloni ed inizia a comportarsi come un bambino demente.

 

“Ancora cinque minuti” ridacchia lui, riponendo finalmente l’arnese nella cintura. “Sai … quel Ryder a prima vista mi aveva dato una brutta impressione, tipo di essere una specie di fastidioso bimbetto, invece … è uno ok

 

“Sì, è ok” conferma Kurt, non cogliendo l’ironia di Puck. “Anche se è ancora giovane, secondo papà potrebbe essere lui a gestire l’officina un domani. Quindi … per la festa?”

 

“Non so” sospira Noah, appoggiandosi con la schiena al muro. “Ci sarà anche la tua amica?” chiede, con finto disinteresse. È da due settimane che si rode il fegato cercando di ricordare dove l’abbia già vista e, per la prima volta, è riuscito ad arrivare all’argomento in maniera naturale.

 

“Parli di Quinn?”

 

“Ah, si chiama così la tizia che ha fatto irruzione nella mia stanza?” scherza, abbozzando un sorriso. “La conosci da molto?”

 

“Dall’inizio di quest’anno scolastico” sorride di rimando Kurt. “Fa la supplente al McKinley”

 

Noah si illumina all’improvviso, ricordandosi finalmente dove l’abbia effettivamente già vista. La mattina in cui è andato a cercare Deborah a scuola, certo!

“L’avevo completamente rimosso” mormora sovrappensiero.

 

“Come?”

 

“Niente di che. Stavo pensando che … l’ho incrociata qualche tempo fa mentre andavo da Debs, di sfuggita” gli spiega, grattandosi la parte posteriore della cresta. “Comunque, tornando a noi … vi conoscete solo da un paio di mesi?”

 

“È poco, in effetti, eppure mi sembra di aver trovato qualcuno di … importante” si giustifica, quasi, captando una nota di stupore nella voce dell’amico. “Sai, no? Qualcuno di cui fidarsi, qualcuno che ti aiuta se glielo chiedi, qualcuno con cui puoi confidarti su tutto

 

“Qualcuno che parla con una persona che non conosce per impedire ad un idiota di fare l’idiota per l’ennesima volta” aggiunge Noah, strappandogli un nuovo sorriso.

 

“Già, qualcosa del genere. Posso … posso chiederti perché ti interessa?”

 

Il facchino de ‘La terra del materasso’ si lascia andare ad una grossa risata, capendo immediatamente il perché di quella domanda. Lui era Puckzilla non troppo tempo fa, il terrore delle gonne di Lima.

“Tranquillo, non ho alcuna intenzione di provarci” lo rassicura, battendogli amichevolmente la mano sulla spalla e rischiando di fracassargli una scapola. “Come ti ho già detto, l’avevo intravista a scuola e, quando l’ho rivista al motel, ho avuto quella sensazione … quella cosa che ti prende quando hai di fronte qualcuno che hai già visto e non riesci in alcun modo a ricordarti dove. Volevo solo sapere chi fosse”

 

“Potevi semplicemente chiedere” borbotta Kurt, dolorante. “Anche se ormai non penso ti interessi saperlo, credo verrà. Non ne sono sicurissimo al cento percento, lo scopro domani sera. Dipende tutto da sua figlia”

 

“Uhm” rimugina il ragazzo. “Quella bambina bionda? Mi sembra grandicella, mentre lei mi abbastanza giovane” mormora, grattandosi il mento leggermente ispido. Poi, prima che Kurt possa dire una parola, scrolla le spalle. “Beh, non penso sia fatti miei. Andiamo?”

 

Il giovane professore annuisce, senza smettere un secondo di massaggiarsi la spalla dolente, seguendo poi Noah fuori dalla stanza. Un viaggio molto breve, a dir la verità, perché proprio appostato dietro all’angolo c’è il proprietario, intento a sorridere mellifluo.

“Allora … che ne dite? Vi piace?”

 

“Costa troppo” lo gela all’istante Puck, scostandosi per passare oltre, ignorando gli insulti che gli arrivano dietro dall’uomo per avergli fatto perdere tempo inutilmente. Il vecchio e caro Puck, a Kurt sono mancati da morire momenti come questo, l’arrossire e il vergognarsi per lui dopo una figuraccia, il ridere di gusto ripensandoci un minuto dopo.

 

“Te l’ho detto che la festa è in maschera?” butta lì Kurt una volta che sono entrati in ascensore, facendo storcere il naso e non poco a Noah. Che scenata.

 

“In maschera no, dai. Non siamo bambini di dieci anni” farfuglia infatti il ragazzo, infilando le mani nelle tasche dei jeans piuttosto contrariato. Che pessimo attore.

“Non avrei poi nemmeno un costume da mettere. E non ho la minima intenzione di spenderci dei soldi. E Halloween è domani” spara in raffica dopo una frazione di secondo, facendo ridacchiare Kurt.

 

“Per il costume ti posso dare un mano io” sorride furbescamente Hummel, ben sapendo dove lui voglia andare a parare. “Sempre che tu voglia ancora venire”  

 

Il ghigno che si dipinge sulle labbra di Noah smaschera il suo pessimo trucco. “Se me lo fai tu vengo”

 

È davvero bello vedere come certe cose non cambino davvero mai, nonostante tutto.

 

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Felice.

Erano anni che Quinn Fabray non si sentiva così in pace con il mondo, così contenta di svegliarsi la mattina e affrontare un nuovo giorno.

 

Prima di tutto, adora i suoi studenti. Tutti, dal primo all’ultimo, in un modo che non credeva possibile. Sono attenti, sono interessati, hanno portato le ricerche che aveva assegnato loro in tempo, facendo tra l’altro degli ottimi lavori, ed è riuscita ad instaurare con loro un bel rapporto di complicità.

 

In secondo luogo, Christian. Dopo lo sfogo –il primo che gli abbia fatto così direttamente, ripensandoci ancora non ci crede– nel bagno sembra aver davvero recepito il messaggio. Chiama praticamente ogni sera, cosa che prima non faceva o, per lo meno, non con costanza, e, soprattutto, negli ultimi due weekend è venuto a Lima ben due volte, annunciando di essere stato promosso e di poter venire a trovare sua figlia molto più spesso di quanto facesse prima.

 

L’ultimo motivo che spiega la sua nuova e ritrovata felicità è Beth. Quella meravigliosa bambina l’ha sempre fatta sentire speciale solo per il fatto di averla messa al mondo ed è stata gioiosa e luminosa praticamente dal primo respiro, ma qui a Lima, a parte i malumori dovuti alla lontananza dal suo papà, è come se fosse ancora più contenta del solito.

 

 

“Sembra proprio che tua figlia si stia divertendo”

 

Si ridesta dal suo groviglio di pensieri, scoccando un sorriso gentile a Kate, la mamma della piccola Karen, che, per l’occasione, sfoggia un costume da Morticia Addams con tanto di trucco cadaverico –chissà quanto tempo ha speso per prepararsi.

È stata propria la donna ad invitare Quinn e Beth a casa sua alla festa che organizza ogni anno per Halloween, un piccolo party che comprende cena a base di pizza, cartone a tema, il giro nel quartiere per fare dolcetto o scherzetto e, per finire, un pigiama party.

“Domani avrà male alle guance per quanto ha riso” concorda la giovane supplente. “E alla pancia, visto quante caramelle sta mangiando”

 

“Siamo messe tutte nella stessa situazione, non preoccuparti” ridacchia la padrona di casa. “Piuttosto, se posso, da cosa è vestita Beth?”

 

“Da aviatrice”

 

“… un vestito insolito. Anche se, se devo essere sincera, la rende ancora più adorabile” squittisce Kate, molto probabilmente eccessivamente smielata. Qualcuno ha detto elezioni di rappresentate di classe in arrivo? Risposta esatta.

 

“Non dirlo a me” sospira rassegnata Quinn, mandando amichevolmente a quel paese Christian con la mente. Perché, ovviamente, se Beth si è vestita così è solo ed esclusivamente colpa sua e dei suoi cartoni animati giapponesi.

Da quando ha visto ‘Porco rosso’, poi, la piccola biondina non ha fatto altro che pregare la madre di portarla su un idrovolante o, in alternativa, di portarla nel Mar Adriatico a cercare i pirati dell’aria.

“Non sai la fatica che ho fatto per trovarle una tuta da meccanico e il cappellino da aviatore con gli occhialoni” fa alla padrona di casa, cercando di seguire il consiglio di Kurt e provare a fare più conversazione –sì, è ancora la bimba sovrappeso e timidina che era alle medie da questo punto di vista.

 

“Ti capisco benissimo” le dice offrendole cortesemente un bicchiere di aranciata. “Karen  ha deciso che quest’anno si sarebbe vestita da piratessa, non chiedermi perché, e, come puoi vedere, non c’è stato verso di farle cambiare idea”

 

“Almeno in questo modo non hanno corso il rischio di vestirsi tutte da principesse Disney” tenta Quinn, abbozzando una battuta.

 

“Penso sia il primo anno che non succede” ridacchia effettivamente Kate. “Comunque se devi andare anche tu puoi farlo, eh. Non sentirti obbligata a rimanere qui per farmi compagnia”

 

Come nelle migliori tradizioni, gli altri genitori, una volta smollati i figli a casa di Kate, hanno subito salutato e sono ripartiti alla velocità della luce, molto probabilmente perché, giunti al secondo anno di questa festicciola, sono già più sereni.

“Tranquilla, posso aspettare ancora un po’ se non ti scoccia avermi tra i piedi” tenta gentilmente. “Per Beth è il primo pigiama party … non che non abbia mai dormito lontana da me, ecco, è successo diverse volte … sempre da parenti o amici stretti, però. Non vorrei cambiasse idea all’ultimo momento”

 

“Capisco perfettamente” annuisce la donna, prima di osservare un attimo Beth intenta a giocare piuttosto animatamente con Karen e un’altra bambina. “Comunque, ci sarò io in caso di problemi. E Deborah dormirà nel seminterrato con loro” aggiunge, facendo un cenno in direzione della baby-sitter mora seduta sul divano a monitorare la situazione e che ha accompagnato personalmente le bimbe in giro per il quartiere.

 

Quando era arrivata e Quinn aveva chiesto chi fosse, le era sembrato un po’ strana la presenza addirittura di una baby-sitter. Poi però, quando tutte le bambine erano arrivate, la giovane supplente si è resa conto che sì, avendo a che fare con otto bambine eccitate dallo zucchero dei dolciumi un paio di occhi in più servono eccome.

“Se la cava molto bene” riflette ad alta voce. La ricerca di una persona a cui affidare Beth ogni tanto per uscire con Kurt o anche solo per avere un paio d’ore di riposo purtroppo non ha ancora avuto successo. Questo perché, chi per un motivo e chi per un altro, nessuna delle candidate di Carole le è sembrata giusta. “E le bambine sembrano adorarla”

 

“Praticamente è la baby-sitter di tutte” spiega Kate. “Conosce Karen da un paio d’anni ormai e, da quando ha avuto lei, non ha mai voluto altre persone. Inoltre mi ha sempre dimostrato di meritare la mia fiducia. E quella di tutte le altre mamme, ovviamente”

 

“Potrei anche provare come se la cava con Beth. Magari più avanti” conclude i propri pensieri a voce alta, facendo annuire Kate.

Non è così sicura di lasciare sua figlia a casa con qualcuno, così come non lo era di farla dormire qui e di farla partecipare a questo pigiama party. È sempre stata molto protettiva con lei, persino troppo secondo Santana, ma lei non può capire. Lei non ha mai regolato la propria vita in funzione di un altro essere vivente e, finché continuerà ad avere veleno in circolo al posto del sangue, probabilmente non lo capirà mai.

 

“Posso chiederti una cosa?” la richiama Kate. “Sempre che tu voglia rispondere. Non vorrei essere troppo indiscreta”

 

“Dimmi” concede dopo un attimo di esitazione. Tanto, prima o poi, le fanno tutti la stessa domanda …

 

“C’è … uhm … un padre?”

 

“Sì, c’è” risponde veloce come un fulmine, onde evitare fraintendimenti. “Non stiamo più insieme, non siamo sposati o divorziati, ma c’è e siamo in buonissimi rapporti. È anche piuttosto presente per Beth. E dico piuttosto perché, per lavoro, è quasi sempre in viaggio”

 

“Non volevo sembrare inappropriata, era solo una semplice curiosità” mormora Kate, quasi che il tono di Quinn forse appena un po’ scocciato l’abbia demolita psicologicamente.

 

“Non c’è problema” le fa, cercando quantomeno di essere sincera. Però è più forte di lei, certe cose la infastidiscono e non è l’argomento, visto che, quando Kurt, dopo diverso tempo di conoscenza, le ha fatto una domanda simile ha risposto in tutta tranquillità. È la certezza che a Kate –ad essere onesti, lo stesso discorso varrebbe anche per tutte le altre mamme e papà che ha conosciuto alle elementari– interessi solo fare pettegolezzo. Sa bene di essere troppo propensa a dare giudizi, a volte lo è persino più di Santana, ma, nella maggior parte dei casi, ci prende.

 

Le vecchie abitudini sono dure a morire.

 

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“Allora? Che impressione ti fa questo posto?”

 

Tra le cose che Kurt si è dimenticato di dirgli, quella più importante è sicuramente che la festa fosse stata organizzata in mezzo alla campagna appena fuori Lima.

Per essere precisi, in un anonimo capannone grigio dove qualcuno ha avuto la buona idea di appendere qualche addobbo di Halloween, giusto per ricordare il perché del party, e di portare le casse per la musica. Casse piuttosto potenti a giudicare dalla chiarezza con cui il suono arriva al parcheggio improvvisato in cui si trovano Kurt e Noah pur essendo la porta del capannone chiusa.

“Ci sarà moltissimo alcol, un rumore assordante …” mormora Puck, osservando con attenzione un ragazzo intento a barcollare poco lontano da loro “… direi che è un po’ presto per essere già così ubriachi”

 

“Andiamo da Ryder a prendere i biglietti per l’ingresso, dai” ridacchia Kurt, allungando un cappello a Puck. “Dimentichi questo. Senza cappello il costume perde metà del suo effetto scenico, ricordatelo”

 

“Sì, sì, come dici tu” borbotta seguendolo come un cagnolino che è appena stato bastonato. Motivo?

Si è fatto conciare da gangster della mafia. Tra tutti i vestiti che sa benissimo le mani di Kurt siano in grado di realizzare con della stoffa e una macchina da cucire, tra tutte le idee brillanti che Hummel ha sempre avuto quando erano al liceo … un mafioso?

Ok, forse in un solo giorno non poteva aspettarsi chissà che, però il confronto con il costume di Kurt è impietoso. Un Willy Wonka perfetto a dir poco tanto che, quando glielo aveva mostrato in anteprima esclusiva, ci aveva messo un attimo per richiudere la mascella che si era spalancata per la meraviglia.

L’unico lato positivo di tutta la faccenda è che non gli ha chiesto di vestirsi da Umpa Lumpa.

 

Ryder, ovviamente, non c’è. Davanti all’ingresso del capannone c’è solo un grosso buttafuori pelato –perché sono sempre tutti pelati o rasati?– e due ragazze che fumano una sigaretta.

Mentre Kurt afferra il cellulare per chiamarlo, Puck getta un’occhiata alle due. Una sola, fugace e senza doppi fini, giusto per capire un po’ l’età media del posto. Il fatto che siano entrambe in minigonna –una dovrebbe essere una strega, l’altra un diavolo o un angelo nero– non c’entra nulla, ovviamente.

 

Si toglie il cappello, facendo un inchino degno del miglior Padrino quando una lo nota. A giudicare dal modo in cui lei parla subito all’amica e dalla velocità con cui questa si giri verso di lui potrebbe anche aver fatto una bella impressione. Poi, però, guardandole meglio, si accorge –o gli sembra, con il buio e i travestimenti è difficile vedere bene– di quanto siano giovani. Troppo giovani per uno della sua età, quindi rimette il capello al volo e si volta subito verso Kurt.

“Novità?”

 

Kurt si limita ad indicare in direzione del parcheggio e di un paio di fari luminosi che si avvicinano dalla stessa strada da cui sono arrivati loro.

“Dovrebbe essere lui, se non mi ha raccontato una cazzata”

 

“Da quando dici le parolacce, Kurtie?” sorride furbescamente Puck prima di fare una faccia indignata e, di conseguenza, di beccarsi una gomitata decisa tra le costole, una di quelle belle dolorose.

 

“Idiota. Non ho più sedici anni, ho superato quella fase da un pezzo” borbotta Hummel incamminandosi verso le macchine. “E non credere che non ti abbia visto provarci con quelle due. Potrebbero avere l’età di tua sorella”

 

Noah ignora il ‘provarci’ evidentemente esagerato, concentrandosi più sul resto. “Non è che alla fine scopriamo davvero che è una festa da teenager, vero?”

 

Silenzio.

 

Kurt” riprende lui, cercando di osservare il viso dell’amico. “Ti sei informato prima, giusto? … per l’amor del cielo, rispondi!”

 

“Beh … ecco … no” è costretto ad ammettere l’insegnante di francese, un attimo in difficoltà. “In fondo Ryder non è tanto più giovane di noi, tre o quattro anni più o meno. E poi ho saputo di questa festa ieri. In un giorno cosa puoi pretendere?”

 

“Kurt” ripete, stavolta in tono molto più divertito. “Non sei mai stato un asso con le balle, ma questa … il costume che indossi non si fa in una notte, genio”

 

“Cavolo” borbotta l’altro, facendolo sorridere. “Non ci ho pensato, ok? Non mettermi in croce per questo”

 

Noah vorrebbe chiedergli da quando si è messo ad usare modi di dire che richiamino alla religione o, in alternativa, ricordargli che non è lui quello che rischia di trovarsi ad una festa con i proprio studenti. Poi rinuncia, più che deciso a non perdersi la faccia di Kurt nel caso succeda qualcosa del genere.

 

Inoltre, la macchina che prima stava arrivando è entrata nel pseudo parcheggio del party, non troppo lontano da loro.

 

“Mi sembra la sua macchina” mormora Kurt, incerto, avvicinandosi ulteriormente. “Sì, dai, deve essere per forza lui”

 

Puck non sembra tanto sicuro, in realtà, e lo è ancora di meno quando dal lato del guidatore scende una figura piuttosto ambigua, impossibile dire se si tratti di maschio o femmina, con indosso un costume da Cappellaio Matto talmente ben fatto da impedire a chiunque di riconoscere chi ci sia sotto.

 

“Ciao Ryder” fa invece Kurt con ammirevole certezza. Cosa che non fa altro che alimentare il sospetto di Noah visto che, evidentemente, Hummel conosceva il suo costume.

 

“Scusate il ritardo, colpa mia” si giustifica, dando una specie di cinque strano a Kurt. Poi, tutto sorridente, si avvicina a Noah, rivolgendogli un sorrisone.

“Ehi, amico” gli fa porgendogli il pugno chiuso che, suo malgrado, è costretto ad accettare. “Tutto bene? Ho sentito che lavori alla Terra del materasso adesso”

 

“Già, ho trovato un posticino lì” cerca di sorridere. Non riesce a sopportarlo, è proprio una questione di pelle visto che sembra essere un ragazzo a modo e anche parecchio gentile.

 

 “Mi spiace che Burt non ti abbia preso, ci saremmo divertiti insieme”

 

Noah annuisce distrattamente, più che intenzionato a non toccare l’argomento officina e Burt. Non ancora, per lo meno.

 

“Lascia che ti presenti la mia ragazza” sorride –e non riesce davvero a capire se sia così di suo o se si stia pavoneggiando davvero– indicando una ragazza che Puck non aveva notato prima. È vestita da Alice, con capelli biondi, cerchietto nero, vestito azzurra con gonna lunga fino al ginocchio e tutto il resto. “Marley, lui è Puck”

 

La ragazza ha la stessa espressione di un cerbiatto che sta per essere investito da un camion ma Noah, con un pizzico di educazione che non guasta mai, fa finta di niente.

“Noah Puckerman” le fa, porgendole la mano. “Puck per gli amici. Bello il costume, molto dettagliato”

 

“G-grazie” balbetta la ragazza dopo qualche secondi di inspiegabile silenzio, stringendo la mano di Noah. “M-marley Rose, molto piacere”

 

Kurt gliela strappa da davanti prima che possa dire qualcosa, iniziando a farle complimenti sul costume e domande per sapere se se lo sia fatto da sola in casa.

Alza le spalle, rassegnato all’idea di avere a che fare con persone dal comportamento inspiegabile, rendendosi poi conto di aver un dubbio irrisolto.

“Non ci sono persone con meno di ventuno anni in questa festa, giusto?” chiede a Ryder, intento a trafficare nelle tasche della giacca e dei pantaloni.

 

“Certo” borbotta continuando nella sua ricerca. “L’ha organizzata uno con cui andavo al liceo” spiega, alzando finalmente lo sguardo verso Noah. “Mi ha spiegato che per avere i permessi per il capannone, gli alcolici e il resto gli hanno fatto una testa così di raccomandazioni e gli hanno detto che se beccano per caso un minorenne qui lo sommergono di multe”

 

“Meno male” sorride, sinceramente rincuorato. Non ha di certo l’intenzione di rimorchiare questa sera, anche se non ci sarebbe niente di male, e non ha mai nemmeno avuto pregiudizi riguardo alle persone più giovani di lui, ma il solo pensiero di vedere una ragazza dell’età di sua sorella ballargli di fianco lo destabilizza. E non poco.

“Che cercavi prima?”

 

“I nostri pass!” esulta Ryder, quasi, agitando cinque cartoncini colorati sotto il naso di Noah. “Ma … non manca qualcuno?”

Alla faccia del pensiero rapido, eh?

 

“Lo prendo io” spunta Kurt, dal nulla. “Quinn arriva più tardi e sarebbe anche da andare a prendere” sospira poi, guardando Noah negli occhi. “Però sono secoli che non bevo qualcosa ad una festa. O che vado ad una festa. O che-”

 

“Faccio io l’autista designato, rompiscatole” lo interrompe lui prima che possa continuare la sua pantomima. “Tanto non ho nemmeno voglia di bere” alza le spalle, prendendo due cartoncini dalla mano di Ryder. Ed è così davvero. Da diversi anni a questa parte ha smesso di consumare tutto l’alcol che beveva da ragazzo, limitandosi ad una birra fresca di tanto in tanto.

 

Mentre si gira per avvicinarsi all’entrata non può fare a meno di notare due paia di occhi azzurri che lo fissano con una certa intensità. Con suo enorme stupore, non è Kurt, sorpreso e commosso dal suo ‘eroico sacrificio’.

È la tipa di Ryder, quella Marley, che, dopo aver incrociato il suo sguardo, fissa immediatamente da un’altra parte. Che diavolo vuole?

 

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Dopo la domanda su Christian, Kate ha saggiamente optato per parlare di tutt’altro. La scuola, il lavoro di Quinn, la crisi, la maleducazione degli adolescenti moderni e altri argomenti di questo tipo.

 

Poi è arrivato il momento di rintanarsi nel seminterrato a guardare l’ultimo cartone prima di dormire e, dopo essersi assicurata che la baby-sitter non decidesse di puntare su un horror –ormai dovreste aver capito quanto è diffidente, non meravigliatevi– e aver augurato la buonanotte a Beth e alle altre bambine, Quinn ha deciso di attendere fuori l’arrivo di Kurt. Kate non ha stranamente avuto nulla da obiettare.

 

 

Per fortuna, non le tocca aspettare nemmeno troppo, appena due minuti a dir tanto, prima di vedere arrivare il fuoristrada nero di Kurt.

Alza la mano per farsi notare, avvicinandosi poi al bordo della strada. È piuttosto sicura che, non appena gli racconterà di cosa è successo, riceverà una bella dose di rimproveri e una quantità esagerata di ‘Sei sempre la solita, perché non provi ad essere un po’ più diplomatica?’.

 

Quando la macchina si ferma davanti a lei, apre la portiera e si tuffa dentro, iniziando subito a parlare. “Indovina cosa mi ha chiesto la signora Kate non appena siamo rimaste sole? Se Beth ha un papà! Ma io non-”

 

“Ehm” sente tossire dal lato del passeggero e già da questo capisce che non è Kurt quello seduto al volante. “Kurt è alla festa, sono io l’autista designato”

 

Quinn rimane un attimo immobile, paralizzata dalla consapevolezza di non aver fatto una bella figura. Osserva per qualche l’amico di Kurt, Puck, in completo elegante scuro a righe bianche, prima di mormorare uno striminzito “Ok, bene” e concentrare la propria attenzione sulla cintura di sicurezza.

 

L’unica cosa che impedisce ad un silenzio piuttosto disteso di calare nell’abitacolo è la musica non troppo alta dello stereo.

Quinn gira la testa di poco, in modo da osservare fuori dal finestrino, sforzandosi disperatamente di non prendere il cellulare per chiamare Kurt e seppellirlo sotto una montagna di insulti.

Cosa può dire ad una persona che non conosce, se non indirettamente, e a cui, l’unica volta in cui si sono parlati, ha praticamente detto come comportarsi in una faccenda che non la riguardava minimamente?

 

“Credo che debba ringraziarti per … beh, lo sai

 

Quinn si volta dall’altra parte, osservando il profilo dell’uomo seduto vicino a lei. Cappello in testa, occhio chiaro rivolto alla strada, la barba tagliata di recente e le labbra incurvate in una specie di sorriso.

 

“Comunque non siamo stati presentati” le fa, allungando la mano. “Noah Puckerman, anche se tutti mi chiamano Puck”

 

Poteva andare peggio, dai.

“Quinn Fabray” gli sorride, stringendogli rapidamente la mano. “Io … beh, prego. Non è da me intromettermi così nelle cose degli altri …” butta lì immediatamente, ripetendo in parte cose che ha già detto e che ci tiene a ripetere “… ma se è servito a risolvere almeno in parte le cose tra te e Kurt mi sento un po’ meno … ficcanaso

 

I minuti successivi passano molto più veloci, accompagnati dal rumore costante delle dita della mano destra di Puck che tamburellano sul volante, seguendo il ritmo di una canzone che, se non sbaglia, dovrebbe essere dei Foo Fighters.

 

Quando la melodia termina, Quinn si sente il dovere di dire qualcosa.

“Sei vestito da … gentiluomo?”

 

Puck scuote la testa, guardandola per il tempo necessario a fare una faccia schifata. “Gangster” borbotta. “Idea pessima di Kurt”

 

Quinn lascia andare una breve risata che strappa un sorriso anche al conducente. “Lui è vestito da Willy Wonka se non sbaglio, giusto?” chiede, pur sapendo già la risposta. Non appena lui annuisce, prosegue. “Poteva metterci un po’ più d’impegno nel fare il tuo, allora”

 

“Uhm …” mormora lui, fermandosi ad un semaforo “… da quanto sapeva di questa festa? Lo sai?”

 

“Almeno tre settimane, se non di più” risponde, tenendo per sé il resto dei suoi pensieri, ovvero che se lo ricorda bene perché il giorno spesso ha dato un più ad un suo studente del primo anno per aver risposto perfettamente ad una domanda tutt’altro che semplice.

 

“Maledetto” borbotta, senza aggiungere altro. Si volta verso di lei, dritta in faccia, concentrandosi poi sulla maschera che porta appoggiata appena sopra la fronte. Sorride prima di dire “Tu, invece, che scusa hai?”

 

Se avesse un briciolo di confidenza in più, lo manderebbe amichevolmente a quel paese. Ok, il suo costume non è bello. Anzi, non è nemmeno un costume visto che consiste in una maschera con le orecchie da gatto, un naso e un paio di baffi disegnati con il pennarello, però … cavolo! Non voleva nemmeno venirci a questa festa, figurarsi vestirsi.

“Me lo ha fatto mia figlia” mente senza pudore, sperando che, come al solito, la carta Beth agisca sulla coscienza delle persone e le induca a sentirsi malvagie. “Perché?”

 

Puck invece ride, genuinamente divertito. “Mi ricordo che ad una festa come questa, quando era ancora al liceo, mia sorella decise di prepararmi lei il vestito. Da mummia. Ti dico solo che aveva sette anni e la carta igienica era tenuta assieme con dei fermagli … quelli da ufficio, per intenderci”

 

“L’hai indossato lo stesso” afferma, senza nemmeno fare una domanda. C’è una sfumatura nel modo in cui l’ha detto che le ricorda qualcosa: amore incondizionato.

 

“Certo. Non ho mai indossato vestito più bello” sorride. “Tua figlia, invece, quanti anni ha?”

 

“Sei” sputa. E non è un modo di dire, l’ha letteralmente scagliato fuori dalle labbra con una certa dose di cattiveria. Perché sa benissimo quale sarà la prossima domanda …

 

“E si chiama Beth, non è vero?”

 

Annuisce, pronta a gelarlo come con Kate.

 

“Sei anni penso sia una delle età migliori. Non so tua figlia, ma mia sorella era ancora in una fase … di tranquillità, non so se mi spiego” fa, cercando senza successo consenso nello sguardo vagamente sorpreso di Quinn. “Non sono più bambine piccole ma non sono nemmeno grandi. Un … un limbo piacevole e perfetto”

 

“Credo … c-credo di sì”

Dire che è rimasta senza parole sarebbe un’esagerazione. Piacevolmente colpita, ecco. Non lo conosce abbastanza per sapere se sta usando il tatto, se è solo uno che si fa i fatti suoi o è uno furbo che, captando le parole dette quando è entrata in macchina, ha capito su quale terreno è meglio non arrampicarsi.

 

“Ah, a proposito” riprende lui, infilando una mano dentro la giacca ed estraendone un cartoncino. “Questo è il tuo biglietto per entrare alle festa”

 

“E a chi lo devo dare?” mormora, rigirandoselo tra le mani.

 

“Te lo chiedono loro quando entri, tranquilla” sorride ancora lui. “Non sarà mica la prima festa a cui vai, dai”

 

“Da almeno sette anni sì” lo stupisce lei, facendolo voltare. “Avevo mia figlia, gli studi … probabilmente anche se ci fossi potuta andare, non ci sarei andata. Non sono una … una ragazza da festa” spiega, osservando rigorosamente dritta davanti a sé.

 

Percepisce distintamente lo sguardo di Puck addosso per un paio di secondi, prima di sentirlo dire “Allora non rimarrai delusa dalla festa di stasera. C’è della musica normale, pur non essendo il mio genere, e nemmeno troppi ubriachi. Mi aspettavo molto di peggio”

 

La sta … rassicurando?

“Speriamo” mormora semplicemente, appoggiando al sedile. Sono appena usciti da Lima quindi, se Kurt le ha detto cose giuste, dovrebbero essere quasi arrivati.

Forse, alla fine dei conti, c’è un motivo se Kurt voleva disperatamente riaverlo nella propria vita –sempre ammesso che non fosse davvero il suo ragazzo, cosa che non si sente ancora di escludere. La sua prima impressione su Noah Puckerman, al netto di quello che sa su di lui, è molto più che positiva. Quantomeno non l'ha mandata a quel paese per non essersi fatta i fatti suoi, il suo più grande terrore. 

 

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Prende un’altra boccata dalla sigaretta che ha scroccato ad un tipo –non ha mai fumato veramente, ha sempre approfittato della generosità degli altri da questo punto di vista–, continuando ad osservare la campagna e le luci di Lima. È una cosa quasi poetica, in effetti, se non fosse per la musica a palla alle sue spalle e il fischio che gli rimbomba nelle orecchie.

 

Sta sorridendo perché, sorprendentemente, si sta divertendo e, ancor più sorprendentemente, la festa è bella. E lo deve essere davvero, considerando quanto sia sobrio.

Gli altri … beh, Kurt è allegrotto andante, Ryder molto più di lui e Marley, povera ragazza, gli sta facendo da balia.

Sotto molti aspetti, Quinn è la sorpresa della serata. Da una con la grinta che ha potuto vedere quel giorno al motel non si aspettava tanta timidezza. È impacciata, molto poco a suo agio. Diceva davvero quando parlava della sua incompatibilità con le feste. Ha bevuto mezzo drink prima di fare una faccia schifatissima, regalando il resto a Ryder, e non si è staccata da Kurt, limitandosi a muovere i piedi. Non riesce a non trovarla … carina. Senza contare quanto sia oggettivamente molto bella.

Forse, in un altro mondo, se non fosse così incasinato …

 

Ride, da solo, pensando a quanto possa essere diventato patetico. Una risata silenziosa e vuota che riflette in gran parte il suo stato d’animo attuale. Perché è vero, si sta divertendo, ma nulla potrebbe fargli dimenticare gli esiti delle visite a cui si è sottoposto appena due giorni fa.

 

Da un lato, l’occhio è guarito perfettamente. Non avrà più bisogno di gocce, occhiali e altre cose di questo genere. Il che, visto le previsioni nefaste che gli avevano preventivato dopo l’operazione, è fantastico.

Dall’altro, però, c’è la mano sinistra. Non migliora, non guarisce, è così da mesi ormai. Non riesce ancora a chiudere completamente il pugno, il polso fa male apparentemente senza motivo e, a fine giornata, si accorge spesso che sia più gonfio del destro.

Gli hanno assegnato altra fisioterapia, gli hanno anche raccomandato di evitare di sforzarla eccessivamente –meno male che il muletto è stato riparato, altrimenti addio periodo di prova dal buon vecchio Mr. Slawski– e gli hanno persino consigliato di usare creme e ghiaccio per il gonfiore.

Tutti i dottori che l’hanno visitato, però, sono stati concordi nell’affermare che probabilmente non riuscirà a recuperare la piena funzionalità della mano. Uno gli ha già addirittura parlato già di una piccola pensione di invalidità.

 

Poi ci sarebbe anche il resto ma, ormai, ha deciso ormai di rinunciare definitivamente ad affrontare un passato che minaccia costantemente di inondare il suo presente. Se il passato vuole tornare fuori è libero di farlo, come Kurt, e in qualche modo cercherà di farci i conti. Più o meno. In caso contrario, non proverà più a forzare le cose, come ha fatto con Burt.

 

Getta la sigaretta, non ancora terminata, a terra, spegnendola con la punta della scarpa lucida da gangster.

 

Infila le mani in tasca, rimette il capello e torna verso il capannone. Il sorriso torna sul suo viso e, per una volta, non sta fingendo. Dopotutto, persino lui ha diritto ad un po’ di serenità.

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore:

 

Ta-da-da-dan! Ce l’ho fatta! Non pensavo ci sarei riuscito, invece, dopo solo un mese, ecco a voi il nuovo capitolo. Perdonatemi, se potete. Davvero, mi inginocchio e mi rimetto alla vostra clemenza. Non ho scusanti di nessun tipo.

 

Spero solo vi sia piaciuto il capitolo. L’ho scritto e cancellato solo ottanta volte. Ad essere onesti non mi convince ancora, però … va beh. :/

 

È un po’ un fillerino –e io li odio anche, sono davvero una causa persa– ma volevo smorzare un attimo la tensione dei precedenti capitoli e … chi di voi ha capito perché Marley fissa Puck?

Avevo pensato di mettere la scena della festa direttamente. Poi però, dopo averla scritta, mi sono reso conto che non avrei fatto altro che mettere giù i pensieri di uno o dell’altro personaggio e avrei finito con l’essere ripetitivo.

 

Non ho molto altro da dire, se non grazie ancora, mille, di cuore alle anime pie che seguono ancora e seguiranno la storia. La finirò ad ogni costo, ve lo prometto. Croce sul cuore.

 

Detto questo, ho iniziato a progettare qualcos’altro.

Una raccolta di one shot Quick, un insieme di what if, future fic, AU, crossover e chi più ne ha più ne metta. L’ho già detto che sarebbero esclusivamente Quick? Sono stato costretto –sì, Vale, lo so che non leggerai mai queste cose ma ce l’ho con te– recentemente a riguardare la prima stagione di Glee e … beh, sono stato illuminato da idee su idee su loro due. Erano bellissimi insieme.

Che ne dite? Secondo voi potrebbe piacere come cosa?

Attendo fiducioso consigli, suggerimenti o bordate di fischi. Come ogni volta, per chi non ha voglia o tempo o qualsiasi cosa di commentare, basta mandarmi un messaggio privato.

 

Grazie per la pazienza, per aver letto, per chi ha commentato (<3) e così via.

A presto –spero!

Pace.  

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Capitolo 8
*** Il mio lavoro ***


Capitolo 7. Il mio lavoro. 

 

 

Esiste solo una cosa in grado di trasformare il solito buon umore con cui Quinn si sveglia, in particolar modo da quando vive a Lima, in pessimo: la telefonata di sua madre quando si avvicina il giorno del Ringraziamento.

 

… e verranno anche i parenti da Ames, compreso lo zio Lou. Hai presente lo zio Lou, quello che gira con le bombole d’ossigeno? Ci sarà anche lui alle cena a casa di tua sorella

Quinn nasconde un sospiro dietro la mano, pregando mentalmente sé stessa di non esplodere. “Mi fa piacere” farfuglia a denti stretti, osservando distrattamente il parcheggio del McKinley.

Perché tu e Beth non vi unite a noi?

“Forse perché Frannie non ci ha invitate? E non l’ha fatto nemmeno l’anno scorso o quello prima?” sbotta in un attimo di rabbia, massaggiandosi nervosamente la testa con la mano libera dal telefonino.

Tesoro, tua sorella … lei … dà per scontato la vostra presenza, ecco. Sono sicura che se ti presentassi con Beth sarebbe molto contenta

“Immagino” borbotta ironica, rabbrividendo per una folata improvvisa di vento. Ci ha messo un po’ ad arrivare, ma alla fine anche Lima, dopo uno stranamente mite Ottobre, è stata baciata dal freddo inverno.

“Perché non vieni tu, per una volta, alla mia cena del Ringraziamento?” butta lì, in un gesto che sembrerebbe istintivo e irrazionale ma non lo è. Conosce già la risposta di Judy Fabray.  

Beh … veramente … io ho già detto a Frannie che sarei andata da lei, non mi sembra cortese cambiare idea all’ultimo momento

Un sorriso amaro si dipinge sulle labbra di Quinn. Tutti gli anni sua madre usa sempre la stessa identica scusa.

Forse, però … mi sembrano secoli che non vedo mia nipote

Come? Ha sentito bene o se l’è immaginato?

“A-anche a lei farebbe piacere vedere la nonna” mormora, allibita, sorpresa e persino un po’ speranzosa. “Potresti darmi una mano con il tacchino e il resto, non sono proprio capace di cucinare per tante persone”

Tante persone? Non … non si parla solo di te e Beth?

“Ci saranno anche Santana, Chris e suo fratello” sussurra, inconsapevolmente spaventata dall’idea di dire qualcosa di sbagliato. Ha sempre voluto bene a sua madre e ha sempre tenuto molto alla sua opinione, nonostante tutto.

… ecco, allora … non … Quinn, io-

“Lo so che non ti piacciono Santana e Sebastian perché sono gay” la interrompe con un tono supplichevole. “So anche che odi Christian e non riesci a sopportare la sua vicinanza però ti prego, fallo per tua nipote. E per me

Mi chiedi troppo, Quinn. Non posso passare il tempo a litigare con una persona come … come quell’uomo ipocrita e meschino che ti manipola a suo piacimento

Quinn si passa rapidamente una mano sugli occhi, cercando di impedire anche ad una sola lacrima di scendere. Non ne vale la pena.

Mi chiedo come mai tu invece continui a permettergli di starti vicino e di stare vicino a Beth. Dovresti davvero … stai ridendo?!

Sì, sta ridendo. Una risata ironica, persino triste, frutto dell’ennesima occasione in cui ha osato sperare di poter ricevere da Judy Fabray ciò che ci si aspetta comunemente da una madre.

“Sai, mamma” calca sull’ultima parola, caricandola del massimo disprezzo di cui sia capace. “A volte io mi chiedo se sei consapevole di avere un’altra figlia oltre a Frannie o se fai finta che io non esista, visto che deve essere molto brutto per te ricordarsi ogni volta che non sono sposata, ho una figlia ma non un uomo al mio fianco e non faccio la casalinga

Termina la chiamata con un gesto secco ancor prima di poter sentire la risposta di sua madre, sempre ammesso che abbia provato davvero a darne una.

Ogni anno, alla vigilia di ogni dannatissima festa, per Quinn è sempre la stessa storia. Sembra quasi che Judy faccia apposta per farla innervosire e farle scaricare tutta la tensione che accumula durante il resto dell’anno.

E probabilmente le chiede tanto obbligandola a stare in presenza di Chris, però è ingiusto non riconoscergli nessun merito. Senza dimenticare che lui, pur avendo mille difetti e mille colpe, non ha mai alzato la voce, insultato o mancato di rispetto a Judy o a suo padre. Mai, nemmeno una volta.

 

“Professore Fabray, ha un momento?”

 

Sobbalza spaventata dalla voce alle sue spalle che l’ha colta completamente di sorpresa. Deve anche aver fatto una faccia molto strana –o terrorizzata– a giudicare dal modo in cui il Preside Figgins ridacchia. 

“S-signor preside …” balbetta, cercando di riprendersi dallo spavento “… non l’ho sentita arrivare”

 

“L’ho notato” sorride furbescamente. “Come le chiedevo poco fa, avrei bisogno di parlarle un momento”

 

“Mi dica”

 

“Ormai siamo a metà Novembre e, se non sbaglio, il suo contratto di supplenza scade esattamente tra un mese” le spiega, aspettando di vederla annuire prima di proseguire. “Probabilmente una professionista come lei avrà già trovato una sistemazione per il resto dell’anno scolastico, eppure … eppure vorrei lo stesso proporre di sostituire la professoressa May fino a giugno. Del prossimo anno scolastico”

 

Dire che Quinn sia spiazzata dalle parole di Figgins sarebbe riduttivo. Ormai aveva già preventivato di doversi trasferire a Cleveland prima delle feste natalizie, invece …

“Un anno e mezzo? Ma … s-si può?”

 

Figgins annuisce severamente un paio di volte, solenne come al solito –spesso quando non importa.

“La professoressa May ha deciso di usufruire di tutti i giorni di malattia e di ferie che ha accumulato in questi anni in una volta sola. Visto i riscontri entusiasti e la dedizione ai suoi alunni che ha dimostrato prendendo a cuore la causa del club del libro, ho pensato fosse naturale chiedere a lei” spiega, attendendo una risposta da Quinn che però non arriva. “Ovviamente il suo contratto verrà adeguato, se questo è il problema” aggiunge, mal interpretando l’esitazione della giovane insegnante.

 

“No no, assolutamente!” fa subito lei, agitando nervosamente le mani davanti a sé. “Ero solo … nulla. Sono entusiasta di questo lavoro e non posso fare altro che ringraziarla”

 

Figgins si esibisce in un sorriso vagamente demoniaco e piuttosto inquietante, allungando poi la mano a Quinn. “Abbiamo un accordo?”

 

“Direi di sì” ridacchia lei, accettando la stretta.

 

“Allora la aspetto nel mio ufficio, finite le lezioni, per mettere la cosa nero su bianco” afferma con la solita pomposità, non attendendo nemmeno una risposta. Gira i tacchi e torna dentro l’edificio scolastico, dipinta sul volto l’aria di chi ha appena vinto la lotteria.

 

Quinn, da persona a modo e piuttosto paziente quale è, riesce addirittura ad aspettare che la schiena bella dritta del preside sparisca in fondo al corridoio prima di guardarsi intorno e, una volta sicura che non si sia nessuno, iniziare a saltellare sul posto.

 

“Un po’ di contegno, su” ridacchia da sola dopo qualche saltello, sistemandosi il cappotto lungo beige che indossa.

Dopo la chiamata di sua madre, nulla avrebbe potuto sollevarle il morale tranne questa splendida notizia. Non è al settimo cielo, di più.

 

Un magnifico sorriso si incastona sul suo viso leggermente arrossato per il freddo mentre infila una mano nella borsetta per cercare il cellulare.

Un sms a Santana è automatico e doveroso, nonostante la sua presunta migliore amica continui a comportarsi in modo strano da qualche tempo a questa parte. Sembra sempre di fretta, molto spesso è fredda con lei e praticamente sempre accampa scuse per interrompere le telefonate quando iniziano a diventare troppo lunghe.

È innegabile che tutto ciò la infastidisca ma, per sua fortuna, presto Santana arriverà a Lima per il Ringraziamento e nessuno –nessuno, mai, in nessun caso, in nessun Universo– riesce a sfuggire a Quinn quando si trova faccia a faccia con lei.

-Non dovrò andare a Cleveland! Starò a Lima per un altro anno e mezzo! Chiamami appena puoi, Satana-

 

Soddisfatta, decide di inviare un altro sms, stavolta a Kurt, con la speranza che non abbia la suoneria attiva e che il suo cellulare non si metta a squillare nel bel mezzo della lezione che sta facendo.

 

Mentre rinfila il telefono nella borsa e si volta per imitare Figgins e tornare dentro le mura del McKinley, un pensiero divertente la fa sorridere, se possibile, un poco di più. Stando alle parole del Preside, gran parte del merito della sua riconferma va a Stacey Evans e al suo club del libro. Forse meriterebbero un regalo, magari per Natale.

 

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Quando il capo ti convoca nel suo ufficio e passa i primi due minuti buoni del tempo a guardarti con l’aria di chi ha appena rubato un dolcetto ad un bambino e se ne vergogna profondamente, non è mai una buona cosa.

Inoltre, per qualche strano motivo, Puck nell’ultimo periodo non è esattamente un campione di ottimismo.

 

“Signor Slawski, non ho molta voglia di rimanere altri dieci minuti a fissare la sua faccia, anche se la trovo estremamente simpatica” sbotta Noah ad un certo punto, artigliando con le mani i braccioli della poltroncina su cui è seduto. Non è mai stato nemmeno un campione di pazienza, se è per questo. “Perciò, tagliamo le testa al toro. Sono licenziato?”

 

“Beh, ecco …” gigioneggia l’uomo, mugugnando qualcosa tra le labbra “… non ho le possibilità economiche per rinnovare il tuo periodo di prova anche per il prossimo mese”

 

Puck si lascia andare contro la sedia, piegando la testa all’indietro e sbuffando piuttosto forte. Lo sapeva, se lo sentiva, ne era certo.

 

“Mi dispiace tanto. Sei un bravissimo ragazzo e un gran lavoratore, ma-”

 

“In un mese cosa può essere cambiato talmente tanto da non poterti più permettere uno stipendio da facchino in prova?” grugnisce scocciato, tornando a fissare l’uomo in faccia e abbandonando definitivamente il lei. Tanto non è più il suo capo, no?

 

“Purtroppo le vendite continuano a stentare e … la crisi è impietosa, lo sai” farfuglia Mr. Slawski, rosso in viso, forse per l’imbarazzo o forse solo per lo sforzo.

 

“Lo erano anche un mese fa” gli ricorda, duro, trascinando la sedia più vicino alla scrivania. “Se ho fatto qualcosa di sbagliato, se qualche cliente si è lamentato di me o qualsiasi altra cosa di questo tipo, io devo saperlo. Ok?”

 

“No, no, no, no, no” mitraglia il proprietario de ‘La terra del materasso’, evidentemente intimorito, appiattendosi il più possibile contro la sedia e tentando di allargare con un dito il colletto della camicia. “Assolutamente no, Puck. È solo che … Barry è già abile ed arruolabile, quindi non … non ho più bisogno di un sostituto”

 

La poltroncina di Noah scivola sul parquet dell’ufficio di Gordon Slawski con un rumore di plastica piuttosto fastidioso mentre lui si alza in piedi, decisamente minaccioso, puntando un dito in direzione del suo ormai ex datore di lavoro.

“Io non mi faccio prendere per il culo in questo modo”

 

Il suo tono di voce è talmente calmo e fermo che, paradossalmente, se quelle stesse parole le avesse urlate non avrebbe avuto un decimo dell’effetto che invece ha ottenuto.

 

“Io non mi faccio prendere per il culo” ripete più forte, giusto per essere chiaro, mentre ormai la faccia di Mr. Slawski è diventata bordeaux. “Perciò, ora tu mi dici la verità. Tutte quelle promesse del cazzo tipo … fai due mesi di prova e poi, se sei capace oltre che simpatico, ti assumo … erano vere o avevi solo bisogno di un tappabuchi per il tizio con la schiena rotta?”

 

Il povero Gordon rimane impietrito per diversi secondi, qualche gocciolina di sudore che gli cola sulla tempia. Indipendentemente dal fatto che Noah sia stato un soldato, un uomo alto più di un metro e ottanta decisamente muscoloso e con il collo che pulsa per la rabbia fa sempre paura, specialmente se sai di avere la coscienza sporca.

Lui non può saperlo ma la sua grande fortuna è non averlo incontrato appena un anno fa.

 

Anche perché il Noah di oggi riesce a riprendere il controllo sui propri nervi prima di esplodere, respirando a fondo un paio di volte prima di tornare a sedersi. La vena del collo, però, pulsa lo stesso e il suo volto è livido di rabbia.

“Sto aspettando” sibila tra i denti, nascondendo la bocca dietro le dita della mano.

 

“M-mi vergogno molto a-ad ammett-terlo ma …” balbetta Slawski dopo aver allentato il nodo della cravatta “… è come dici tu. Purtroppo l’infortunio a Barry è capitato in un momento davvero denso di richieste e … ho un’azienda di dirigere, certe volte sono costretto a prendere discussioni discutibili. Non mi aspetto che tu capisca”

 

“No, infatti non capisco” replica piccato. “Non poteva dirlo fin dall’inizio? Almeno avrei evitato di cercare per settimane un appartamento che ora non posso più permettermi”

In realtà sta dicendo una bugia. Non ha ancora trovato un posto che soddisfi le sue esigenze, nonostante non sia un tipo che si fa troppi problemi, però, visto che ormai non ha più un lavoro, almeno può tornare al motel con la soddisfazione di averlo fatto sentire una merda per come è stato trattato.

 

“Sono mortificato” farfuglia Gordon Slawski, chinando il capo con fare colpevole.

 

“Puoi chiedere scusa quanto ti pare, tanto non cambierai le cose. Sono senza uno stipendio, ho due mesi di anticipo da pagare e una gran voglia di spaccarti i denti” ringhia appoggiando una mano sulla scrivania, sorridendo compiaciuto quando lo vede sobbalzare per lo spavento. Certo, una denuncia per aggressione è decisamente l’ultima cosa di cui ha bisogno, però un pugno su quella facciona non guasterebbe affatto.

“Addio”

 

Detto questo, Noah gli scocca un’ultima occhiata omicida e si alza senza aggiungere altro, afferrando il giubbotto di jeans che aveva appoggiato sulla poltroncina ed uscendo dall’ufficio di Slawski.  

 

È umiliato, incazzato e decisamente frustrato. Ogni piccola vittoria finisce con il venir travolta da una valanga di sconfitte e di schifo.  

Pur essendo un combattente e pur avendo deciso che riuscirà a rimettere in piedi la propria vita ad ogni costo, più tempo passa a Lima e più gli viene voglia di tornare in Georgia.

 

Infila il giubbotto non appena mette piede fuori da ‘La terra del materasso’, rabbrividendo istantaneamente al contatto con l’aria di metà Novembre, talmente gelida da fargli pizzicare il volto e gli occhi.

 

Infila una mano nei jeans ed estrae il cellulare. Scorre la rubrica alla ricerca del numero di sua sorella ma, prima di avviare la chiamata, opta per rinunciare. Sicuramente Debs tirerebbe fuori una montagna di proteste, di cause legali e altre cose che non è per niente in grado di reggere psicologicamente, senza contare che il rischio che lo costringa a parlare finalmente con quel coglione –ebbene sì, ha deciso di chiamarlo così d’ora in poi– del suo ragazzo è alto.

 

Scorre ancora la rubrica, soffermandosi su un nome che aveva completamente rimosso. Forse … no, meglio evitare.

Scende fino ad arrivare alla K di Kurt e fa partire la chiamata. Ha decisamente bisogno di parlare con qualcuno che abbia già finito il liceo. 

 

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Questa è la grande serata e no, non perché festeggerà l’allungamento del contratto con il McKinley andando al cinema da sola con Kurt. O meglio, è anche per quello, ma soprattutto per il fatto che questa è la prima sera in cui lascerà Beth a casa con Deborah.

 

Le ci sono volute due settimane prima di lasciarsi convincere ad avere una sorta di colloquio, salvo poi scoprire che tutto quello che le madri delle compagne di scuola di Beth dicono la verità.

Sembra proprio una ragazza sveglia, giudiziosa, piuttosto attenta ai dettagli e meticolosa nell’appuntarseli tutti.

Subito dopo la chiacchierata che hanno avuto l’ha invitata a trascorrere qualche ora con Beth, facendo finta che lei non ci fosse, per vedere se alla figlia sarebbe piaciuta e se fosse riuscita a non farle combinare guai. Inutile dire come è andata a finire.

Non è ancora convinta al cento percento, soprattutto dopo aver imparato che Deborah è una studentessa del McKinley –cosa che l’ha davvero scioccata, visto che le era sembrata una collegiale–, però tra tutte le aspiranti babysitter che ha esaminato lei è decisamente quella con più punti a favore.

 

“Allora io vado” comunica Quinn ad alta voce, infilando il cappotto nero pesante che ha dovuto tirare fuori dall’armadio per combattere il freddo atroce che è sceso su Lima nelle ultime ore.

 

“Dai, Beth, vai a salutare la tua mamma”

 

La piccola si sporge dal divano con un sorrisone gigantesco, appesi al collo gli occhiali da aviatrice da cui non si separa mai.

“Ciao mami, divertiti con Kurt” la saluta con la manina, voltandosi subito dopo per tornare a guardare la televisione.

 

Oh beh, c’è da dire che la storia della babysitter non l’ha sconvolta troppo. Anzi, per niente.

 

È costretta, suo malgrado, a tornare nel soggiorno, acchiapparla al volo ed ad issarsela tra le braccia per distoglierla dai suoi cartoni, affondando immediatamente le dita nel suo pancino per colpirla nel suo arcinoto punto debole.

“Non mi saluti come si deve, eh? Allora io mi vendico”

 

“No, mami, basta!” trilla la bambina, dimenandosi nella stretta della madre e sfoggiando i suoi nuovi incisivi ormai spuntati completamente.

 

“Solo se mi saluti per bene” mormora Quinn mettendo un finto muso e interrompendo il solletico per sentire la risposta.

 

Solo a questo punto Beth, dopo averci pensato ancora qualche secondo, allunga le mani per abbracciare la madre, lasciandole un bacio con schiocco sulla guancia.

“Buona serata, mami”  

 

“Anche a te, Bi” annuisce compiaciuta Quinn, rimettendo la figlia al suo posto.

 

Deborah, seduta acconto a Beth sul divano, e i suoi grandi occhi da cerbiatta dalle iridi scure la stanno fissando, un sorriso sincero dipinto sulle labbra.

 

“Potresti … accompagnarti alla porta?” le fa, accompagnando il tutto con un gesto eloquente della testa. Deve farle –per la settima volta– le ultime raccomandazioni.

 

“Ma certo” le risponde la babysitter, forte della sua ormai biennale esperienza con i genitori apprensivi, cogliendo al volo. Regala una carezza sul capo a Beth, che risponde con una risatina, e raggiunge Quinn, già ferma ad aspettarla sulla porta.

 

“Ti ho lasciato il mio numero di cellulare? E quello del padre di Beth?”

 

Deborah soffoca una risata facendo una smorfia e piegando la testa verso il basso, tirando poi fuori dalla tasca anteriore della felpa un quadernetto con la copertina bianca e rossa.

“Ho il suo, quello di …” apre verso la fine ed inizia a leggere “… Christian S. aperta parentesi papà chiusa parentesi, di Santana L. e di Sebastian S. aperta parentesi solo in caso di emergenza estrema chiusa parentesi

 

“E quello della polizia? E dell’ambulanza? … ok. Ti prego, fai finta che non abbia detto quello che ho appena detto” farfuglia, piuttosto imbarazzata, notando l’espressione eloquente stampata sul volto di Deborah.

 

“Non si preoccupi, non è la madre più apprensiva con cui mi trovo a lavorare” le sorride la ragazza, infilando le mani nella tasche posteriori dei jeans con l’intento di smorzare un attimo la situazione. “La più strana in assoluto aveva installato un impianto di videocamere a circuito chiuso apposta per me … cioè, per evitare che rubassi ed essere sicura che non trattassi male suo figlio. Ok, ci sta essere preoccupate, però c’è un limite a tutto, no?”

 

Oh, le telecamere! Perché non le è venuto in mente prima?

“… che esagerazione, certo, hai ragione” ridacchia nervosamente dopo essersi accorta che Deborah sta aspettando che dica qualcosa. “Ovviamente non ci sono videocamere, tranquilla”

 

La giovane babysitter annuisce timidamente, dondolandosi appena avanti ed indietro.

 

“Ricordati” riprende Quinn. “A letto alle nove e trenta precise e la televisione deve essere spenta almeno un’ora prima che vada a nanna. Poi … ah, già” mormora, prendendo dalla borsetta il portafoglio. “Quanto abbiamo detto?”

 

“Facciamo la prossima volta, sempre ammesso che Beth voglia ancora me” sorride Deborah, agitando le mani e spingendo praticamente il portafoglio nella borsa. “Faccio così, di solito”

 

“… ok, perfetto” fa Quinn, evitando di fare obiezioni od osservazioni per mancanza totale di esperienza. “La cena è solo da scaldare, nella dispensa ci devono essere anche delle patatine se per caso ti venisse fame anche se non credo di fare più tardi delle undici o-”

 

“Si diverta” la interrompe la ragazza, impedendole di rendersi ancora più ridicola di quanto già non abbia fatto.

 

“Beh … divertitevi anche voi” concede Quinn, uscendo di casa in fretta dopo aver lanciato un ultimo sguardo al divano.

 

Scende gli scalini del condominio saltandone qualcuno, scivolando rapidamente fino alla macchina.

Una volta ferma sul sedile del guidatore, si lascia andare ad un lungo sospiro e appoggia la testa sul volante, sperando di non aver fatto una brutta figura. O almeno, di non averla fatta così brutta.

 

Prolungare di proposito questa chiacchierata per rimanere a casa un altro po’ è un trucco vecchio come il mondo, anche patetico se vogliamo, però è la prima volta che Beth rimane con qualcuno che non sia un parente e la cosa le mette un’ansia pazzesca.

 

“Solo Dio sa cosa farò quando sarà adolescente” pensa a voce alta, scuotendo la testa da sola. Sa perfettamente di essere troppo apprensiva, ma non può farci davvero nulla.

 

Allaccia la cintura e mette in moto, direzione casa di Kurt e poi, se riesce a non impazzire nel mentre ed a fiondarsi a casa, cinema.

 

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Si porta alle labbra la bottiglia di vetro, prendendo un sorso non troppo lungo ma sufficiente a farlo rabbrividire quando quel sapore amarognolo entra in contatto con le sue papille gustative. Niente, non riesce proprio a farsela piacere.

 

“Nessuno ti obbliga a bere birra se non ti piace” lo sbeffeggia Puck con un ghigno, prendendo a sua volta un sorso.

 

“Lo faccio per farti compagnia, stupido orso” borbotta Kurt, appoggiando la bottiglia sul tavolino –rigorosamente su un poggia bicchieri– con il chiaro intento di non berne mai più. “Oppure potremmo parlare di come mai ti trovi spaparanzato sul mio divano in silenzio quando mezz’ora fa al telefono sembravi sull’orlo di una crisi di nervi”

 

“Mi hanno licenziato” sbuffa Noah, giocherellando con l’etichetta della birra. “Anzi, mi hanno cacciato a calci”

 

“E questo lo hai già detto. Ok, quel tipo è stato un vero stronzo, ma da qui a deprimersi ce ne passa” tenta Kurt, appoggiando una mano sulla spalla dell’amico. Questo è il momento in cui può finalmente fare un breccia nelle difese che Puck ha eretto e non ha la minima intenzione di lasciarselo scappare. “Stiamo parlando di un lavoro come facchino in prova per un negozio di materassi. Che altro c’è?”

 

“Da dove cominciare …” si tira su, appoggiando momentaneamente la birra vicino a quella di Kurt e guardandolo negli occhi “… sono stanco di vivere in un motel, sono a corto di soldi e dopo aver girato tutta Lima quello era l’unico lavoro che sono stato in grado di trovare” elenca contando con le dita. “Sono tre ottime ragione, scegli tu quella che ti piace di più” conclude con un’alzata di spalle, riprendendo immediatamente la bottiglia per un sorso.

 

“Guarda che non c’è mica bisogno di fare così, sto solo cercando di aiutarti” l’apostrofa Kurt, abbastanza seccato dal comportamento di Noah. 

 

“Sì, hai ragione, scusami” sospira Puck subito dopo, lasciandosi ricadere pesantemente contro il divano. “È solo che … è frustrante

 

“Ok, lo capisco. Per questo ti chiedo di parlarne” tenta Kurt, sorridendo quando l’amico si volta un attimo per un’occhiata veloce. “Partiamo dai soldi. Non avevi dei risparmi da parte?”

 

“Ne ho, però mi servono per … per fare altro, non posso toccarli”

 

“Li hai investiti in qualche obbligazione o cose del genere?” chiede Kurt, curioso, non cogliendo il fatto che quel non posso sia in realtà un non voglio.

 

“Voglio usarli per mandare Debs al college o, se non vuole andarci, per aiutarla a fare qualsiasi cosa voglia fare” spiega, scrollando le spalle con finta indifferenza. “È il mio … regalo per il suo diploma

 

“Oh, Puck, è una delle cose più tenere che abbia mai sentito” commenta Kurt, un pochino commosso.

È passato troppo tempo e ha evidentemente finito con il dimenticare quanto Noah sia sempre stato protettivo e dolce con la sorellina. Eppure la sua meraviglia era stata enorme quando, negli anni del liceo in cui lo conosceva ancora solamente per la fama di bulletto, criminale e predatore, aveva scoperto questo lato della sua personalità. 

 

“Farei di tutto per lei, lo sai”

 

Kurt annuisce, perso nei suoi pensieri, incrociando le braccia al petto e picchiettandosi l’indice sul mento. “Potrei prestarti io dei soldi, ho qualche risparmio da parte”

 

“Assolutamente no”

Il tono di voce di Puck è così severo ed autoritario da fargli sollevare un sopracciglio per lo stupore.

“Non ho intenzione di prendere dei soldi da altri senza nemmeno la sicurezza di poterli restituire”

 

“Era solo un’idea” si scusa, quasi. “Sentiamo. Tu invece cosa proponi?” aggiunge, scettico, aspettando una risposta prima di ricordargli un paio di cose.

 

“Beh …” mormora Noah, accarezzandosi la cresta con la mano libera “… mentre scorrevo la rubrica per chiamare te, ho trovato il numero di un vecchio amico che avevo completamente rimosso. Era in un altro plotone della mia stessa compagnia e, prima di abbandonare l’esercito, mi aveva detto di chiamarlo nel caso avessi mai avuto bisogno di un lavoro”

 

“Rinunciare ad un prestito da un amico per andare a cercare un lavoro chissà dove e che potrebbe anche non esserci. O non essere mai esistito. Logico” sorride ironico Kurt, beccandosi un’occhiata in tralice dall’amico. “Sai che, se non ti conoscessi così bene, penserei che stai cercando un modo per allontanarti da Lima? Di nuovo?”

 

Puck apre la bocca per rispondere con qualcosa di offensivo, tipo ‘fottiti’, salvo poi optare per un sorso di birra. Scuote appena la testa, digrignando i denti per far finta di non aver colto il sarcasmo dell’amico.

E visto che mi conosci bene, cosa pensi che stia facendo?”

 

“L’idiota, come tuo solito” l’apostrofa Kurt, mettendogli una mano sulla spalla per farlo voltare. “Credi che gli Evans non mi abbiano detto dell’assegno mensile che gli hai fatto recapitare puntualmente fino ad un anno fa?” mormora a voce stranamente bassa, puntandogli contro il dito con fare accusatorio. “Pensi che non ricordi della tua settimana da barbone passata in giro per Lima prima di accettare di venire a vivere da noi?”

 

Gli occhi cerulei di Kurt scrutano con fermezza quelli nocciola di Puck, sostenendo senza timore il suo sguardo duro.

 

Poi, però, il campanello trilla un paio di volte, ed entrambi si alzano in piedi, ognuno dei due con una preoccupazione diversa.

 

“T-tuo padre?” balbetta Noah, allungando istintivamente una mano verso la giacca.

 

Il giovane professore opta per ignorare –almeno momentaneamente– questa reazione quantomeno eccessiva, scuotendo il capo una paio di volte.

“Quinn” aggiunge immediatamente. “Le avevo detto di passare di qui per festeggiare il suo nuovo contratto di due anni”

 

“Oh” sospira Puck, ricadendo sul divano. “Almeno a qualcuno non fanno promesse che non vengono mantenute” sorride, molto più sollevato.

 

“Non credere che la nostra discussione sia finita qui” gli fa, minaccioso, prima di andare al citofono. “Sì?”

 

Sono Quinn. Sono un po’ in ritardo, scusami

 

Almeno lei non se ne è dimenticata.

“Tranquilla” ridacchia abbastanza nervosamente Kurt, dandole il tiro ed aprendo la porta dell’appartamento.

Getta poi un’occhiata alle sue spalle dopo aver captato qualche rumore sospetto e, difatti, becca Noah intento ad infilarsi la giacca di jeans.

“Che stai facendo?”

 

“Mi cavo dai piedi?” fa lui, retoricamente, sistemandosi il colletto della giacca. “Non dovete festeggiare?”

 

“Sì, però non ti lascio andare via cos-”

 

“Eccomi, ce l’ho fatta!”

 

 Kurt sobbalza, colto completamente di sorpresa dalla voce squillante di Quinn.

“C-ciao” farfuglia voltandosi, permettendo all’amica leggermente ansante di entrare.

 

“Tutta colpa della babysitter. Cioè, è mia perché non volevo andare via, però …” si interrompe, voltandosi un attimo verso Kurt intento a chiudere la porta “… ciao Puck

 

“Ciao Quinn” mormora lui, infilando le mani in tasca. “Congratulazioni per il tuo lavoro”

 

“Oh, beh … grazie mille. Ho interrotto qualcosa, per caso?” sorride maliziosamente la professoressa, beccandosi una manata non troppo forte ma nemmeno troppo indiscreta sul sedere da Kurt.

 

“Dacci un taglio, Fabray” l’apostrofa usando il cognome, chiaro segnale di insofferenza sull’argomento, facendola ridacchiare.

 

“Stavo giusto andando via” aggiunge Noah.

 

Un attimo dopo, però, sui tre cala un silenzio improvviso. Sono in piedi, si guardano l’uno con l’altro e nessuno dice niente, soprattutto perché nessuno sa bene se sia il caso di parlare o meno.

 

“So che ti avevo promesso un cinema, tesoro” inizia Kurt, rivolgendosi a Quinn con un nomignolo che mostra una volta di più quanto in fretta i due abbiano legato. “Però Puck è appena stato licenziato e-”

 

“Kurt” lo interrompe Noah, un’espressione truce dipinta sul volto. “Non penso che a lei interessi. È venuti qui per festeggiare, non per parlare dei fatti miei” calca sulle ultime tre parole, sperando che l’amico colga e smetta.

 

Certe volte, però, Kurt Hummel sa essere sordo a certe richieste. O molto, molto subdolo.

Tanto sa già tutto di te” alza le spalle, schietto. “E poi, forse abbiamo qui l’unica persona al mondo in grado di farti ragionare. Perché non approfittarne?”

 

Noah scuote il capo, incredulo. “Perché, ma è solo un’ipotesi, vorrebbe divertirsi anziché passare la serata ad ascoltare i miei problemi?” chiede allargando le braccia e guardando Quinn, cercando il suo sostegno. 

 

“Ordiniamo una pizza e guardiamo qualche vecchio dvd” insiste Kurt, facendo passare una mano intorno alle spalle della collega, ancora immobile nel punto esatto in cui si trovava dopo essere entrata nell’appartamento. “Ti prometto che questo weekend faremo ciò che vorrai tu. E pago io la babysitter”

 

“O-ok” concede alla fine Quinn, rivolgendo uno sguardo dispiaciuto ad un sempre più sconsolato Puck.

 

Kurt sorride, soddisfatto della sua testardaggine. Un po’ gli dispiace rovinare un bel momento a Quinn. Dall’altro lato, però, non ha la minima intenzione di permettere a Noah di scappare ancora e, se il prezzo per intrappolarlo qui è sacrificare un cinema con l’amica, è ben felice di pagarlo.

 

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“Scusa la mia ignoranza, ma non puoi fare domanda per entrare nella polizia? Dopotutto sei un ex soldato, no?”

 

Puck fa no con la testa, appoggiando i gomiti sul tavolo e chiudendo una mano nell’altra proprio davanti al suo viso.

“Non ho la minima idea di come funzioni” ammette in tutta onestà, prendendosi un paio di secondi per riflettere sulla domanda di Quinn. “Potrei dare un’occhiata su internet, però ... l’idea di mettere di nuovo una divisa non mi fa fare i salti di gioia, proprio no”

 

“Allora vedi che sei tu ad essere schizzinoso?” tenta Kurt, notando l’espressione un po’ più cupa del solito di Puck.

 

“Su questo ti devo dar ragione” ridacchia Noah, sforzandosi di accantonare il momento di leggero abbattimento.

 

“Puoi sempre chiedere a tua sorella di insegnarti a fare il babysitter” scherza ancora Kurt, dando una gomitata a Quinn per distogliere la sua attenzione da una fetta gigante di pizza con le verdure. “Tu lo prenderesti uno così per tenere Beth?”

 

La giovane insegnante prende un po’ di tempo mandando giù il boccone e pulendosi la bocca con un tovagliolo, approfittandone per squadrare il volto semiserio di Noah. La sua attenzione si sofferma a lungo sulla cresta che si erge sul cranio rasato e poi sulle spalle massicce.

No” decreta prima di scoppiare a ridere, seguita a ruota da Kurt.

 

Debs ha fatto la stessa identica battuta, solo che lei ha diciassette anni e voi dieci di più” borbotta Puck, versandosi un bicchiere d’acqua. “Tirate voi le conclusioni”

 

“Eddai, brontolone, si fa per fare due risate.

 

Quinn, invece, sta avendo una specie di illuminazione mistica. “Come hai detto che si chiama tua sorella?” chiede con uno strano tono di voce.

 

“Deborah. Potresti anche averla vista o averla addirittura in classe, è una junior del McKinley” spiega, indicando poi Kurt. “Lui le insegna francese”

 

“No, no. Io insegno solo agli studenti dei primi due anni” riflette lei, iniziando a chiedersi quante probabilità ci siano. “Fa la babysitter, no? E, per caso, ha i capelli bruni molto scuri e molto lunghi, gli occhi nocciola e una Ka arancione scuro?”

 

“Color bronzo” mormora Puck, aggrottando le sopracciglia. “Come fai a sapere tutte queste cose?”

 

“Perché in questo momento è a casa mia e sta facendo da babysitter a mia figlia” risponde Quinn, non riuscendo a credere alle sue stesse parole. “Dio, è una delle coincidenze più clamorose che abbia mai visto”

 

“Incredibile” concorda Kurt, usando una mano per appoggiare il volto sorridente.

 

“Adesso che ci penso mi ha pure detto il suo cognome ma non avevo collegato a te” aggiunge Quinn, sistemandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio, prima di iniziare a raccontare della festa di Halloween in cui l’ha vista ed è rimasta impressionata e abbia deciso di darle una chance.

“… ed ha un quaderno dove si appunta tutto, in modo da non dimenticarsi nulla”

 

“Non pensavo fosse così seria” mormora Puck con un sorriso sincero, passandosi una mano sul collo. “Almeno uno dei due è abbastanza maturo da essere bravo in qualcosa, giusto?” ridacchia, profondamente soddisfatto di tanti complimenti per la sorellina, lasciando però gli altri due di stucco.

 

Quinn annuisce in maniera stentata, quasi forzata, prima di gettare un’occhiata a Kurt.

“Credo sia solo questione di metodo” butta lì, neanche stesse parlando con un alunno che non si applica. “Anche io quest’anno ho dovuto inserirmi in una nuova realtà, sai, no? Forse ti serve solo un … inizio, un punto di partenza

 

“Sì, beh, è la stessa cosa che avevo pensato anche io” afferma Puck, condividendo le parole della ragazza. “Mi serve un buon lavoro e da domani riprenderà a cercarlo. Come dicevo prima con lui, un vecchio commilitone qualche anno fa mi disse di rivolgermi a lui se mai avessi bisogno di un lavoro”

 

“E se non fosse il lavoro?” li interrompe Kurt, attirando su di sé gli sguardi degli altri due. “Perché non una casa?” chiede cercando un contatto visivo con Noah. “Perché non vieni a vivere qui, nella camera libera, finché non trovi un lavoro?”

 

 

 

 

 

Note dell’autore.

 

Avevo detto giovedì/venerdì, ho aggiornato lunedì … dai, ce l’ho quasi fatta. In realtà avrei potuto pubblicare anche ieri però non ho avuto tempo. Pessimo.

Non ho molto da dire su questo capitolo, se non che odio la madre di Quinn e non sarà meno odiosa in questa fic, e che nel prossimo capitolo avremo non una, non due, bensì tre diverse cene del Ringraziamento. Se riuscirò a tirare fuori dalla mia testa esattamente ciò che immagino, il prossimo capitolo potrebbe essere uno dei più interessanti tra quelli che ho pubblicato.

Ah, scopriremo finalmente perché Santana è strana con Quinn. E forse anche la cosa di Marley, però devo valutare ancora un paio di cose. 

 

Detto questo, ringrazio di cuore le fantastiche persone che hanno letto lo scorso capitolo, chi l’ha commentato e tutti coloro che hanno aggiunge ‘Home’ tra i preferiti, i seguiti e di da ricordare. Grazie mille, davvero, non so come ringraziarvi. Cioè, un modo ci sarebbe, ovvero aggiornare più in fretta, me ne rendo conto anche io, però il tempo è quello che è. Sorry.

 

Passando alla raccolta di one-shot, invece, dopo aver ringraziato chi ha letto e le due buone anime che hanno inserito la raccolta nelle seguite, devo essere molto onesto. Non so quando aggiornerò ancora. Spero –e credo– dopo il prossimo capitolo di Home. E, visto che, esattamente come mi aspettavo, nessuno ha commentato e nessuno ha dato il proprio voto, deciderò io quale scrivere. *risata da Dottor Male*

 

Ora, dopo aver ringraziato ancora chi è arrivato fin qui e aver rinnovato l’invito a farmi sentire le vostre opinioni in qualunque modo riteniate opportuno, direi che ho terminato anche le note.

Alla prossima, augurandomi che sia il prima possibile.

Pace.

 

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Capitolo 9
*** Il mio ringraziamento. Pt 1. ***


Capitolo 8. Il mio ringraziamento. Parte 1.

 

Condividere l’appartamento con Kurt è stata la scelta migliore sotto molto punti di vista.

 

Certo, essendo lui Noah Puckerman, prima di accettare l’offerta –o, per meglio dire, l’incredibile ed inaspettata offerta d’aiuto dell’amico– ha dovuto pensarci su un paio di giorni, assaporando di nuovo la triste solitudine del motel e la frustrazione di essere senza lavoro.

 

Alla fine ha sì accettato, ma ha voluto imporre lo stesso qualche condizione. Dopo il secco no di Kurt al pagamento di un affitto, anche solo simbolico, è riuscito ad accordarsi per una somma mensile di duecentocinquanta dollari per le spese di base: bollette, internet, cibi, bevande e beni d’uso comune. Una piccola vittoria dell’orgoglio, niente di più, niente di meno.

 

Dopo aver passato i primi giorni a liberare l’armadio della sua nuova camera dalla montagna –no, nessuna esagerazione– di vestiti che Kurt non ricordava più nemmeno di avere, il resto è stato tutto in discesa. Passare dal consumare cibo da asporto a manicaretti fatti in casa e dal trascorrere buona parte delle serate –quelle in cui non è uscito con Debs– a guardare la tv steso sul letto del motel a chiacchierare con Kurt o andare a fare un giro per locali con lui e, occasionalmente, con Quinn, sono stati decisamente un toccasana.

 

Hanno iniziato anche a parlare degli ‘argomenti tabù’, ovviamente con calma e senza forzare nessuno. Tranne oggi. Oggi ognuno deve andare per la sua strada.

 

 

“Mi dispiace lasciarti qui da solo”

 

Puck ridacchia, afferrando il telecomando per saltare la pubblicità della partita di football e cercare qualcosa che riempia quei pochi minuti di interruzione.

“Ho mezza confezione di diet coke, il numero del takeaway cinese e addirittura una birra” sorride, osservando Kurt intento ad infilarsi … “… quella che hai sui pantaloni è una coda di qualche animale?”

 

“Non accetto critiche sul gusto estetico da un uomo adulto che gira ancora con quella cresta”

 

Puck alza le mani in segno di resa, tornando a guardare la televisione. “Mi sembri nervoso” commenta con finta casualità.

 

“Perché so già cosa succederà nelle prossime ore” risponde Kurt con un sospiro, prendendo posto vicino a Noah sul divano. “Carole si lascerà sfuggire qualcosa che Finn non coglierà. Rachel, invece, capirà sicuramente. E farà domande. Tante domande”

 

“Non credo di essere un buon argomento di conversazione durante il Ringraziamento” scherza Puck, beccandosi una spallata giocosa dall’amico. “Adesso, a parte gli scherzi. Sentiti libero di rispondere a qualsiasi domanda. A me semplicemente non interessano loro due e, anche se me li trovassi davanti, continuerei a fare finta che non esistano più”

 

Kurt sospira, di nuovo, cercando di captare con la coda dell’occhio qualche reazione di Noah. Nulla, sembra davvero indifferente all’argomento.

“Credo che tu abbia dimenticato cosa vuol dire avere a che fare con Rachel Berry”

 

Stavolta Puck si irrigidisce appena, stringendo più forte il telecomando, prima di rispondere. “Credimi, ho subito stress peggiore dell’essere tampinato da quella egocentrica e le mie orecchie hanno sentito rumori in grado di spaccare timpani molto più efficacemente della sua voce”

 

“Già …” ridacchia Kurt, alzandosi in pieni per andare a prendere una camicia “… te lo sei dimenticato davvero”

 

Noah scrolla le spalle, rimettendo sulla partita senza dire altro.

Quando, durante l’ormai unica chiamata mensile che si concede, il dottor Menkins gli ha confermato di essere molto soddisfatto del suo percorso di reinserimento, si era sentito per la prima volta in dovere di parlargli di Finn.

Certo, ovviamente di quello che era stato il loro passato, di come si era sentito tradito dopo la sua partenza per NYC e di cosa successe al funerale lo psicologo era già stato informato.

Durante l’ultima chiamata Noah gli ha raccontato di come il solo nominarlo lo faccia ancora imbestialire a tal punto da fargli perdere la testa. E, per la prima volta, Menkins gli ha chiesto di parlargli nel dettaglio della sua infanzia, cosa che l’ha lasciato parecchio di stucco. E ancora non ha capito il perché di quelle domande.

 

“Dove hai detto che è andata tua sorella?”

 

“Dai parenti a Dayton” sbuffa Noah, alzando di proposito il volume del televisore.

 

“Non sapevo che aveste parenti a Dayton” commenta Kurt, molto più pettegolo di quanto ricordasse Puck, sfilandogli il telecomando dalle mani e togliendo il sonoro per poter parlare senza urlare.

 

“Parenti da parte di madre con cui pensavo ormai non avesse più contatti”

 

Il giovane insegnante annuisce, perplesso da come Puck riesca sempre a non nominare mai il nome di sua madre. Deve avere una specie di dono nell’ignorare gli altri.

 

“Sarà andata da loro in ginocchio dopo che mio padre le ha rubato tutti i soldi ed è scappato. Di nuovo” aggiunge Noah, quasi divertito dalle parole appena pronunciate. 

 

Al liceo, prima che i due diventassero amici, Kurt era sicuro che molti dei comportamenti di Puck il bullo fossero dovuti ad una carenza d’affetto. Diceva spesso, a Rachel e Mercedes, come ‘qualche abbraccio in più quando era piccolo lo avrebbe aiutato a crescere meglio’.

Imparando a conoscerlo aveva poi capito che non era mancanza d’affetto, ma odio. Un profondo odio verso suo padre e, allora solo in parte, verso la madre, in grado di alimentare una mancanza totale di fiducia nei confronti degli altri.

Odio che non è nulla se paragonato a quello che cova adesso dentro sé.

“Non dovresti essere così duro con lei, Noah” tenta, molto cautamente. “Dopotutto, anche lei, come te, è una vittima di tuo padre”

 

“No” sibila con un tono terribilmente duro e che non ammette alcun tipo di replica. “Era una vittima quando se ne è andato la prima volta. Forse lo è stata anche quando è tornato in qualche modo l’ha convinta a rimettersi con lui ancora. Dopo no. Nessuna persona sana di mente si fa prendere per il culo così tante volte dallo stesso individuo. E poi c’era Debs, cazzo … non è una vittima, Kurt”

Non ha bisogno di aggiungere ‘il discorso è chiuso’ perché, cavolo, chiunque capirebbe che qualsiasi altro commento lo porterebbe ad arrabbiarsi sul serio.

 

Persino Kurt, deciso più che mai ad abbattere il muro del silenzio che circonda Noah Puckerman. Ma non lo farà ora, non con davanti a sé un pomeriggio e una serata tutt’altro che semplice.

“Ok, lo capisco” sospira, arrendendosi. “Dico solo di … ascoltare le sue ragione, come hai fatto con me”

 

Puck scuote il capo senza smettere per un secondo di guardare la televisione. “Credi davvero che possa anche solo paragonare te e a mia madre? Lei mi ha cacciato, tu mi hai accolto. Quando hai saputo del mio ritorno, tu mi sei venuto a cercare” si volta, finalmente, mostrando un’espressione incredibile neutra visto l’argomento di cui sta parlando. “Pensi davvero che lei non abbia già capito o saputo di me?”

 

Kurt si morde il labbro, improvvisamente a disagio. Non ci aveva pensato fin’ora però sì, effettivamente Lima non è una metropoli e non è davvero pensabile che in tre mesi nessun conoscente della madre di Noah l’abbia visto senza avvisare la donna.

 

“Pensi davvero che Carole non abbia già spifferato tutto a Finn? E che lui non abbia svuotato il sacco con Rachel?” insiste Puck, fissando insistentemente gli occhi azzurri di Kurt. “C’è una cosa che ho imparato durante il mio servizio. Quando due schieramenti nemici sanno che scontrarsi provocherebbe perdite eccessive da entrambe le parti, semplicemente evitano di scannarsi”

 

Da quando Puck sa essere così freddo e arguto? È davvero cambiato fino a questo punto?

“Beh ma … Rachel … lei sicuramente-” balbetta Kurt prima di venir interrotto da una risata.

 

“Si arrabbierà e ti farà dannare l’anima fino a che non le racconterai tutto. Ma lo farà solo con te. Lo status quo attuale va bene a tutti, vedrai” gli spiega in tono talmente serio che una parte di lui si convince che Puck abbia davvero ragione.

 

Eppure Rachel …

Il trillo della sveglia del cellulare lo ferma prima che possa aprire la bocca per rispondergli. Si avvia sul tavolo, dove l’ha appoggiato in precedenza, per spegnerlo. È l’allarme che gli ricorda che mancano solo sei ore alla cena e deve assolutamente andare ad aiutare Carole.

“Cavolo” borbotta tra i denti. Non può andarsene ora. 

 

“Direi che ci vediamo più tardi” gli fa Puck, apparentemente senza alcuna intenzione di muoversi dalla sua comoda posizione stravaccata. “Cercherò ad ogni costo di non sporcare il divano con il cinese”

 

“Azzardi a lasciare anche solo una macchia e … sei diventato un mago a cambiare discorso”

 

“Buon Ringraziamento, Kurt”

 

Kurt sospira, rassegnandosi all’idea di non poter proseguire in alcun modo questa conversazione senza scontentare o far incavolare tutti. “Sì, certo, anche a te” mormora, sconfitto, raccogliendo le sue cose e avviandosi verso la porta.

Che sia dannato il suo spirito culinario che gli impone di aiutare sempre Carole durante le feste.

 

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Usa il dorso della mano per spostare dalla fronte una ciocca bionda sfuggita alla coda, sbuffando subito dopo perché, per colpa del suo gesto, ha perso il segno del libro di ricette che sta usando per preparare la cena.

 

“Cazzo!” sbotta, lasciando ricadere il cucchiaio nella ciotola piena di grumi da cui, molto teoricamente, dovrebbe riuscire a tirare fuori un’insalata di patate. 

 

“Mami? Hai detto una parolaccia?” cinguetta Beth con tono di rimprovero, saltando giù dalla sua sedia per correre a fronteggiare la madre. È adorabile con il suo vestitino con i tacchini –quando l’ha visto al centro commerciale non ha potuto resistere e l’ha preso– e lo è ancora di più mentre mette il broncio e tiene le mani appoggiate alla vita cercando di imitare la posa arrabbiata della madre.

 

“Sì, l’ho fatto” annuisce Quinn, mettendo su una finta espressione triste. “Mi perdoni?”

 

“… ok” concede la piccola dopo un’attenta riflessione, tornando al posto con un sorriso soddisfatto. “Quando arrivano papi e la zia San?”

 

“C’è anche lo zio Seb, tesoro” le ricorda sfogliando distrattamente il libro di ricette per tornare a quello che le interessa. Non riesce a non ridere quando Beth si lascia andare ad uno sconsolatissimo ‘Uffa’. Passano gli anni ma, per quanto si sforzi di convincerla che, essendo fratello di suo padre, Sebastian sia più zio di Santana, non riesce a farglielo piacere. Forse perché, quando ancora era una neonata, si metteva addosso una colonia così forte da farla piangere solo avvicinandosi o forse perché, molto probabilmente per via dei geni Smythe, è sempre stato restio a manifestare affetto per sua nipote. Chissà.

“Dovrebbero essere qui a minuti” aggiunge quando Beth inizia a fissarla speranzosa con i suoi occhietti verdi.

 

In realtà sono in ritardo di almeno un’ora abbondante e la cosa la sta facendo abbastanza innervosire, soprattutto considerato che, se fossero arrivati in orario, lei ora non starebbe affrontando –e perdendo– una sfida personale con una ciotola di patate.

 

Ci pensiamo noi Smythe alla cena” borbotta a denti stretti, imitando la voce bassa di Chris. Avrebbe dovuto sapere che sarebbe finita in questo modo. Non è mai stata un fenomeno ai fornelli, sa preparare cose semplici e poco impegnative, tutto il contrario di ciò che richiede una cena ad hoc del Ringraziamento. Ed è ancora alle prese con l’insalata di patate, figurarsi quando deve preparare il ripieno del tacchino o, peggio, quando deve infilarcelo dentro.

 

Ci vogliono altri venti minuti prima che il campanello suoni, accolto con un sospiro di sollievo da Quinn.

La professoressa lascia andare la castagna bollita che sta sbucciando e lancia il coltello nel lavandino, muovendosi con la stessa foga di Beth, già partita di scatto per andare incontro ai tanto attesi ‘papi’ e ‘zia San’.

 

Peccato solo che il primo a comparire quando Quinn apre la porta sia Sebastian, alle prese con la sua solita espressione scocciata.

“La prossima volta che ti trasferisci, abbi almeno la decenza di scegliere un posto con un aeroporto decente” esordisce il ragazzo, di quasi quattro anni più giovane di Chris, lasciando un bacio a stampo sulla guancia di Quinn e una carezza sulla testa di Beth, già intenta a guardare alle sue spalle per cercare le persone che le interessano davvero.

 

Chiunque, osservando i fratelli Smythe uno vicino all’altro, è istintivamente portato a chiedersi se siano fatti con lo stesso stampino. Stessi brillanti occhi verdi, stessi lineamenti forti del viso, stesso fisico alto e slanciato, stesso modo di sorridere incurvando le labbra in una specie di ghigno.

Quinn, invece, no. Perché lei ha avuto modo di conoscerli bene entrambi e, in tutta onestà, non esiste al mondo una persona più diversa da Chris di quanto lo sia suo fratello.

 

“Me ne ricorderò la prossima volta, tranquillo” gli fa, ironica. “Buon Ringraziamento, comunque”

 

Sebastian alza una mano, passando Quinn per dirigersi verso l’interno dell’appartamento borbottando qualcosa a bassa voce.

 

“Papà!”

 

La vocetta trionfante di Beth le permette di ignorare la voglia improvvisa di prendere a pugni quello che a tutti gli effetti dovrebbe essere un suo quasi parente acquisito, sorridendo istantaneamente non appena vede il corpicino della figlia roteare in cielo tra le braccia sicure di Chris.

“Siamo stati fermi sulla pista qui a Lima per più di mezz’ora, per questo abbiamo fatto tardi”

 

“Tranquillo, non c’è problema” mente, sorridendo non appena le iridi verdi di Chris si incastonano al suo sguardo. C’è una strana euforia che alleggia nel padre di sua figlia e non è la prima volta che la nota. È qualcosa che sembra nato dopo quella famosa semidiscussione in bagno e la sua decisione di fare di tutto pur di vedere Beth più che può, il qualcosa che la costringe a ridere quando qualcuno –Santana o sua madre o chiunque che sia– parla di quanto quell’uomo sia egoista e menefreghista.

 

“Buon Ringraziamento, splendore” le sorride, caricandosi Beth di lato per potersi avvicinare e lasciarle un bacio sulla guancia. “Non ti arrabbiare” aggiunge Chris mormorando praticamente contro la sua pelle.

 

Quinn si allontana appena, inarcando un sopracciglio come solo lei sa fare. Arrabbiare?

“Per cosa? Che hai fatto?”

 

Chris fa un paio di cenni dietro di sé, verso la porta. Mima qualcosa con le labbra, non permettendole però di capire nulla.

“Allora, scricciolo. Perché non facciamo vedere allo zio Sebby che super squadra di cuochi siamo io e te? Ti va?”

 

Beth, però, non sembra convintissima. Guarda anche lei in direzione della porta come sta facendo sua madre, aspettando di vedersi spuntare la zia da un momento all’altro. Borbotta qualcosa che fa ridacchiare Chris, prima di guardare il padre negli occhi.

 

“Ok, niente zio Sebby. Alla cena ci pensiamo io e te, solo noi, ok?”

 

Stavolta Beth annuisce al primo colpo, muovendosi per farsi mettere a terra e correre entusiasta verso la cucina.

Prima di seguirla, Chris lancia a Quinn un’occhiata enigmatica, un misto tra una supplica e un rimprovero che ovviamente la professoressa non è in grado di capire.

 

“Ehi, Q. Buon Ringraziamento”

 

Quinn si volta verso la porta, sorridente nel sentire la voce della sua migliore amica. Fa un passo verso di lei, arrestandosi però subito dopo, perplessa per ciò che sta vedendo.  

 

Santana è ferma sulla soglia, lo sguardo basso di chi è colpevole e la mano destra stretta a qualcosa. Anzi, sporgendosi appena la giovane professoressa riesce a vedere che si tratta di qualcuno. Nello specifico, una biondina sorridente che le fa ciao ciao con la manina.

“Quinn, lei è Brittany. La mia ragazza

 

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Burt e Finn spaparanzati sul divano a guardare le partite di football in televisione con una birra in mano –rigorosamente analcolica, per suo padre– e delle patatine nell’altra –per suo padre gallette integrali- mentre lui, Carole e Rachel chiacchierano allegramente in cucina preparando la cena. Insomma, ci sono tutti gli elementi per parlare di una tradizionale cena del Ringraziamento a casa Hummel-Hudson-Berry.

 

La cosa, bisogna dirlo, spaventa e al tempo stesso irrita Kurt. E se Puck avesse ragione?

 

“Scusate” mormora Rachel, rientrando in cucina dopo essersi assentata per qualche minuto per una chiamata. “Erano i miei papà. Hanno detto che sono appena usciti dal supermarket, stanno arrivando e si scusano per il ritardo”

 

“Se conosco bene i tuoi genitori avranno impiegato almeno due ore per scegliere il vino” le sorride Carole con quell’aria materna che la contraddistingue sempre.

 

“Probabile” ammette Rachel, scambiandosi un’occhiata con Kurt.

 

Ecco, è questa l’unica cosa strana. Le occhiate che la nanerottola le lancia in continuazione ogni volta che nessun altro li sta guardando. È davvero irritante, soprattutto perché faceva così anche quando era un’adolescente frustrata che voleva sapere a tutti i costi se messaggiava con qualche ragazzo.

Certe cose, evidentemente, non cambiano mai.

 

“Allora, come è andato il provino che hai fatto la settimana scorsa?” butta lì Kurt, giusto perché non sa cosa dire, sperando addirittura di distrarla.

 

“Ho superato un paio di selezioni” gongola Rachel, come fa sempre quando si parla della sua carriera da attrice. “Forse questa volta è quella buona”

 

Essersi laureata con il massimo dei voti alla prestigiosa NYADA non le era bastato per fare il grande salto di qualità. Solo comparsate o ruoli poco importanti, mai per una produzione sufficientemente seria da restare aperta più di una stagione.

Ormai, a ventisette anni, Rachel è al punto della carriera in cui o si svolta o si affonda. Kurt lo sa, forse meglio di lei, per questo sa anche cosa dire.

“Sono sicuro che ti prenderanno, hai troppo talento per essere ignorata. Così potrò avere una buona scusa per farmi ospitare da voi e godermi un po’ della mia città”

 

Gli occhi nocciola di Rachel sbrilluccinano –probabilmente non ha nemmeno sentito la seconda parte delle parole di Kurt– mentre la minuta brunetta stringe le mani al petto e farfuglia un sentito “Grazie Kurtie”

 

“Dovere, tesoro”

 

Il rapporto tra i due non era cominciato subito bene, ai tempi del liceo. Così simili, eppure così lontani, avevano iniziato con il combattersi, erano poi passati a rispettarsi reciprocamente e, dopo essersi conosciuti meglio grazie ai corsi statali organizzati dalla NYADA, per finire, con l’ammirarsi in una sincera amicizia.

 

“Mi manchi un sacco, sai?” se ne esce dal nulla Rachel, giocherellando con la cover del suo iPhone. “A New York, dico” sente il bisogno di aggiungere, come se ce ne fosse bisogno.

 

Carole intuisce subito, saggia com’è, e, accampando come scusa il dover controllare che Burt non abbia rubato il bere e il cibo unto a Finn, esce rapidamente di scena.

 

“Mi manchi anche tu” replica cautamente Kurt, immaginando già cosa l’amica voglia da lui ma rimanendone comunque sorpreso. Non è la prima volta che ne parlano ma, di solito, lo fa al telefono e dopo una brutta delusione.

 

“Al provino ho visto Adam” sorride la ragazza, facendo ruotare gli occhi al cielo a Kurt. “Mi ha chiesto di te”

 

“Rachel” mugugna il professore, appena infastidito dal sentirsi nominare a tradimento il suo ex. “Prima che inizia a raccontarmi dell’ultimo spettacolo di Broadway che sei andata a vedere con Finn, vorrei chiarire un punto. Mi manca moltissimo vivere con te, quasi quanto mi manca NY. Voglio che tu capisca, però, che non tornerò”

Il suo tono è serio ma non tanto da impedire a Rachel di provare ad interromperlo. Alza una mano per bloccarla, sorridendole per addolcirla.

“È un capitolo chiuso della mia vita e non voglio rivangare il passato con i se e con i ma”

 

Rachel annuisce, anche se si vede lontano un miglio che non è intenzionata a fermarsi. Anche su questo, lei e Kurt sono molto simili: quando addentano l’osso, difficilmente lo mollano.

“Dico solo che ora tua padre sta bene e-”

 

“Anche l’altra volta stava bene, Rachel” la interrompe, piuttosto brusco. “Tu non capisci … n-non posso perdere anche lui … sarò qui se succederà di nuovo qualcosa. Devo essere qui”

 

La sua voce trema appena per via dei ricordi dolorosi che riguardano suo padre e sua madre. Rachel lo sa, per questo china mestamente il capo e mugugna, molto mogia “Mi dispiace, Kurt”

 

Il professore di francese sospira, appoggiandosi al bancone con un mano mentre si passa l’altra sul ciuffo. Osserva Rachel, sinceramente dispiaciuta, e sospira ancora. Forse è il momento di tirare fuori tutto.

“Dai, avanti. Parliamo dell’altra cosa”

 

“Di che parli?” aggrotta le sopracciglia la brunetta, apparentemente sorpresa. Kurt, però, la conosce abbastanza per sapere quando Rachel reciti e simuli le proprie reazioni naturali dietro ad una maschera.

 

“Non attacca con me, tesoro” l’apostrofa, calcando ironicamente sull’ultima parole. “Noah Puckerman è tornato, non fare la finta tonta perché sono sicuro al cento percento che tu lo sapessi già”

 

Rachel non è propriamente una persona equilibrata, non lo è mai stata e non ha mai simulato di esserlo.

Perciò Kurt non è troppo sorpreso quando la vede ridurre gli occhi a due fessure e stringere le labbra tra loro, le braccia distese lungo il corpo.

“Avresti potuto dirmelo” sibila, stranamente a bassa voce, guardando alternativamente la porta e il ragazzo in piedi davanti a lei.

 

“Avresti potuto dirmi che lo sapevi” ribatte Kurt, senza scomporsi più di tanto.

 

Rachel lascia andare una specie di grugnito, evidentemente indisposta dal fatto di non poter urlare. Si limita a battere i piedi un paio di volte, bruciando Kurt con uno sguardo furente. “Finn … sai, lui … ci sta male ancora” balbetta, provando di dare una spiegazione valida. “Non potevo … insomma, tirarlo  in mezzo”

 

Kurt sciocca la lingua, trattenendosi appena prima di ridere. Perché Rachel sta insultando sia la sua che la propria intelligenza, non c’è altra spiegazione plausibile.

“Mio fratello non sarà un genio, lo sappiamo tutti, però credi davvero che non sappia niente?” borbotta, indicando il soggiorno con un cenno del capo. “Tu come l’hai saputo?”

 

La brunetta si mordicchia un labbro, rilassando appena un poco il corpo testo. “Mio papà Hiram l’ha visto qualche tempo fa al supermercato”

 

“Pensi che Carole non glielo abbia detto? Perché sembrate tutti indifferenti? Davvero a nessuno interessa sapere cosa gli è successo?”

Per un momento, le parole di Noah gli rimbombano prepotentemente in testa. Che abbia davvero così tanta ragione?

 

“Ha spaccato la faccia a tuo fratello e gli ha dato dell’assassino, Kurt” le ricorda con appena una punta d’isteria nella voce. “Non sono cose su cui le persone normali passano sopra” lo provoca, evidentemente senza farlo apposta. “E poi, a lui, in questi anni, è importato qualcosa di noi?”

 

“Immagino di no” è costretto ad ammettere Kurt, ripensando a quello che gli ha ripetuto Puck qualche ora fa. “Esattamente come noi ce ne siamo fregati di come stesse dopo la morte di Sam. Siamo stati egoisti, Rach. Ottusi ed egoisti. Era un fratello per lui

 

È inutile, lo può leggere nei suoi occhi nocciola: ci sono cose che è meglio lasciarsi alle spalle, perché tornare indietro di così tanto per una persona a cui non interessa? 

“Cosa vuoi che ti dica?” mormora Rachel dopo diversi istanti di silenzio.

 

Già, cosa vuoi che ti dica?

“Promettimi che penserai a tutto quello che è successo e che non farai finta di niente. Non posso chiederti altro, perciò mi limito a questo”

 

Ancora una volta, gli occhi cerulei di Kurt si fissano in quelli castani dell’amica di una vita. “Lo posso fare” concede, sempre dopo averci pensato su qualche secondo. Sospira, ravvivandosi i capelli con un gesto di malcelato nervosismo. “S-sta bene?”

 

Kurt sorride, perché in qualche modo è riuscito a fare qualcosa. Già, ma cosa? Questo solo il tempo potrà dirlo.

“Credo bene. È fragile, però, molto più di prima” spiega, cercando attentamente le parole adatte.

 

Rachel annuisce ma, prima che riesca a dire altro, Carole irrompe in cucina con un genuino sorriso dipinto sul volto.

“Tutto a posto. Finn sta facendo il figlio responsabile e Burt non sta nemmeno brontolando” ridacchia la donna, pulendosi le mani sul proprio grembiule. “Ed ora a noi, questa cena non si preparerà certo da sola”

 

Per l’ennesima volta, Rachel si scambia un’occhiata con Kurt. Stavolta, però, ciò che vuole dirgli è chiarissimo. Parleremo ancora, tranquillo.

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore.

 

Chiedo perdono per il ritardo di questo capitolo però ho dovuto riscriverlo diverse volte prima di metterlo giù in modo che mi convincesse abbastanza.

 

Ho spezzato il capitolo a metà perché stava diventando qualcosa di giga enorme, più di diecimila parole. Quindi, per comodità di lettura e di pubblicazione, ho fatto così. Spero vi piaccia.

 

Non ho molto da dire sul capitolo in sé, quindi mi limiterò a parlare della storia in generale. Purtroppo sto facendo molta fatica a portarla avanti come vorrei. Apro il documento di Word e difficilmente inizio a scrivere subito come facevo all’inizio, cosa non molto normale considerando che le idee ci sono e la storia sta entrando nel vivo.

Ho poco tempo per scrivere e non posso ‘sprecarlo’ davanti ad uno schermo che non riesco a riempire di parole.

Senza considerare che non riesco a capire se la storia piaccia ancora. Anzi, dai ‘dati’ che posso osservare si dedurrebbe proprio il contrario. E la cosa, per quanto ci provi, mi dispiace e credo influisca negativamente sulla scrittura stessa.

 

Ho detto più volte che sono disposto a tutto pur di finire la storia, però … mi sto chiedendo se ne valga ancora la pena, ecco. Boh, non so … ditemi voi cosa ne pensate.

Magari è solo il momento, non so che dire.

 

Sperando che passi, ci vediamo al prossimo capitolo. È scritto per due terzi, quindi entro la giovedì prossimo non dovrei avere problemi a postarlo.

Pace. 

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Capitolo 10
*** Il mio ringraziamento. Pt 2. ***


Capitolo 8. Il mio ringraziamento. Parte 2.

 

La cena non sta andando male, di più.

Checché ne dica Rachel, Finn sa. O, perlomeno, sospetta qualcosa.

 

È distratto, svagato, silenzioso e, rispetto ai suoi standard, ha mangiato pochissimo. Ha rivolto la parola a Kurt sì e no due volte, evita il suo sguardo ed è difficile persino per i signori Berry far finta di non rendersi conto di quanto gli pesi essere in questa casa.

 

A differenza del compagno, però, Hiram Berry non è di certo famoso per la sua sottigliezza o per la sua capacità di passare sopra a certe cose.

Soprattutto se ha un attimo esagerato con il vino, se suo marito LeRoy è troppo impegnato a chiacchierare per tenerlo al guinzaglio e non ha ancora digerito, nonostante siano passati anni, la fuga voluta di sua figlia e di Finn a Las Vegas per sposarsi prima della fine del liceo.

“La nostra compagnia non ti aggrada, Finn?”

 

“Papà!” “Hiram!” lo richiamano insieme Rachel ed il compagno, gettandogli un’occhiataccia.  

 

“Come?” borbotta invece Finn, intento a giocherellare con i resti del suo budino al caramello mezzo mangiucchiato. “Dice a me?”

 

“Sì, come parlavo con te le altre dieci volte in cui ti ho rivolto una domanda e come risposta sono riuscito ad ottenere al massimo un’alzata di spalla” commenta pungente l’uomo, ignorando i richiami a mezza voce di Rachel e LeRoy che gli sta tirando la manica del maglioncino.

 

“Non l’ho fatto di proposito” mugugna Finn con un tono talmente apatico da avere come unico effetto quello di innervosire l’uomo ancora di più. “Chiedo scusa a tutti se non sono stato molto di compagnia questa sera, ma ho altre cose per la testa”

 

Detto questo, si alza dalla sedia, borbotta un poco convinto “Con permesso” e lascia la sala da pranzo per dirigersi verso le scale, quasi certamente con l’intento di rifugiarsi nella vecchia camera dove dormiva quando era al liceo.

 

Passano gli anni, eppure certe cose non cambiano davvero mai. Kurt getta un’occhiata a Rachel, la quale ricambia con uno sguardo preoccupato e scuote appena il capo.

Esattamente come quando era un adolescente in preda alle sue turbe giovanili, Finn, messo di fronte a situazioni di forte stress che non sa come affrontare o che sa già saranno dolorose da accettare, fugge.

 

“Spero che tu sia soddisfatto di te stesso, ora” gracchia LeRoy, strappando dalla portata del marito il bicchiere con un gesto tanto rabbioso quanto eloquente.

 

“Non era mia intenzione” mormora dispiaciuto Hiram, sistemandosi nervosamente gli occhiali prima di rivolgersi a Burt e Carole. “Insomma, volevo solo … uhm … credo sia stato il vino”

 

“Volevi solo cosa, testone?” sbuffa LeRoy, nonostante Rachel tenti timidamente di dissuaderlo dall’insistere vista l’aria afflitta dell’altro genitore. “Lo stavi provando deliberatamente. Come pensavi avrebbe reagito?”

 

“Credo che …” annaspa l’uomo, tamponandosi la fronte sudata con il suo fazzoletto da taschino “… sì, andrò a sciacquarmi il viso. Scusate”

 

Kurt non può non sentirsi in colpa mentre lo vede caracollare verso il bagno degli ospiti, perché è chiaro come il Sole che il motivo per cui Finn sia stato strano tutto il giorno sia –seppur indirettamente- lui.

 

E non dev’essere l’unico a pensarlo visto il clima pesante che si respira in sala da pranzo. Rachel è chiaramente combattuta dal desiderio di andare a vedere come sta Finn e dalla quasi certezza che, se per caso lo facesse, finirebbero con il litigare; Carole ha le guance rosse per l’imbarazzo –dovuto a cosa, poi, nessuno lo sa- e non ha fiatato nemmeno quando Hiram si è rivolto direttamente a lei; Burt … beh, Burt sta fissando suo figlio con insistenza dal momento esatto in cui Finn si è alzato per andare al piano di sopra.

 

“Chiedo scusa a nome di mio marito” interviene LeRoy dopo qualche istante di pesante silenzio. “Lo farà anche lui non appena tornerà di qua, ne sono certo, ma preferisco sempre mettere le mani avanti”

 

“Non c’è alcun problema” tenta di sorridere Carole, riuscendo a fare poco più che una smorfia.

 

“Il suo problema è che non regge il vino” aggiunge l’uomo afroamericano, ignorando la sua risposta. “Mi ricordo, ad esempio, che durante il Natale del ’95 ha fatto una scenata di fronte ai nostri amici perché era convinto che Rachel, alla tenera età di un solo anno, volesse già più bene a me che a lui”

 

Stavolta Carole ride davvero, imitata presto da Rachel.

 

“Oh, sì” sorride LeRoy, comportandosi da attore consumato qual è. In pochi avrebbero saputo risolvere una situazione del genere cambiando così rapidamente discorso. “E ne ho altri di aneddoti simili. L’alcol tira sempre il lato peggiore di quel testone. O il migliore, quando devo poi intrattenere gli amici”

 

Kurt però non ha il tempo di concentrarsi sul nuovo argomento di conversazione visto che, con un brusco cenno del capo, suo padre gli ha fatto capire in modo piuttosto eloquente di seguirlo lontano da orecchie indiscrete.

 

“Vado a prendere un’altra fetta di torta alla banana con le noci” si giustifica il professore di francese alzandosi ed appoggiando il tovagliolo sul tavolo. “Carole, questa volta ti sei davvero superata. Qualcuno di vuoi vuole altro dolce?”

 

Non ricevendo altro se non un coro di risposte negative, Kurt si dirige rapidamente in cucina, dove il padre lo sta già aspettando, le braccia incrociate al petto e un’espressione severa –molto più del solito- dipinta sul volto.

 

“Capisci, ora?” borbotta a voce bassa non appena il figlio richiude la porta alle sue spalle. “Capisci per quale motivo non posso permettermi il lusso di riaccogliere Noah Puckerman come se niente fosse?”

 

“Perché per una volta un bambinone che non cresce mai non mangia da solo metà cena del Ringraziamento?” risponde questi, piccato più del dovuto, già infastidito dalla piega della serata senza bisogno che Burt decida di contribuire con una ramanzina.

 

“Kurt, non essere ingiusto”

 

“Sì, hai ragione, scusami” sospira Kurt, rendendosi conto di aver effettivamente esagerato.

Afferra un bicchiere dalla credenza e lo riempie con un po’ d’acqua di rubinetto, sperando che qualche sorso fresco lo aiuti a calmarsi e schiarirsi le idee.

“È che …” riprende, rivolgendosi al padre che ha atteso pazientemente “… questa faccenda è … sconvolgente. Mi sta facendo riflettere su cose che davo per scontate e me le sta facendo rivalutare una ad una”

 

Burt annuisce gravemente ma non dice nulla, limitandosi ad osservare il figlio per qualche secondo.

“Speravo che sarebbe successo, sai?”

 

“Uhm?” mormora Kurt, preso in contropiede dall’improvvisa affermazione del padre e dal suo tono apparentemente tranquillo.

 

“Che Puck tornasse per sistemare il casino che lasciato quando se ne è andato. Tante persone sono ancora ferme a quel funerale ed a quello che ha significato, molte più di quante si possa immaginare”

 

“Cosa vuoi dire?” chiede Kurt, anche se una parte di lui sa bene il significato di quelle parole.

 

“Lo sai bene cosa voglio dire” mormora Burt, serio, dimostrando ancora una volta di conoscerlo troppo bene per poter essere preso in giro.

 

Se le persone avessero superato quello che è successo, il ritorno di Noah Puckerman non sarebbe avvenuto così, nell’ombra ed in segreto, e di certo non avrebbe scatenato reazioni così estreme. Sarebbe stata una festa, non un elemento in grado di spaccare famiglie solide come la loro. Per non parlare degli Evans, di Deborah, della signora Puckerman …

“Allora non capisco una cosa” fa Kurt, dando sfogo ad una domanda che gli ronza in testa da tanto e che non è riuscito ancora a fare a suo padre.

“Perché gli hai chiuso la porta dell’officina e di questa casa in faccia?”

 

“Non ero pronto. E nemmeno lui lo era, altrimenti non avremmo discusso come se ogni cosa fosse successa da appena qualche giorno” gli risponde un tentennante Burt, portandosi nervosamente una mano sul capo per sistemare il cappellino che, visto il giorno di festa, non porta. “Come hai visto poco fa, in molti di noi non lo sono ancora”

 

Suo padre è un grande uomo, Kurt lo sa bene, anche e soprattutto perché, come in questo caso, non nasconde i propri errori ed i propri limiti. È arrabbiato con Noah, o almeno lo era, e sa che la loro discussione avrebbe potuto avere conseguenze devastanti. Ne è pentito, si vede da un miglio di distanza.

“Nemmeno io, ad occhio e croce” ammette Kurt, smorzando la tensione con un sorriso.

 

“Ah no? Per questo l’hai cercato, l’hai perdonato e l’hai accolto in casa tua?” lo coglie in contropiede per la seconda volta Burt, avvicinandosi per appoggiargli una mano sulla spalla come fa sempre quando ha bisogno di avere l’attenzione totale di qualcuno.

“Saper perdonare le persone è un dono raro, Kurt, un dono che tu hai preso decisamente da tua madre”

 

“Non aveva nulla per cui chiedere scusa” spiega con estrema semplicità, ricambiando il sorriso che il padre fa alle sue parole. “Ho solo provato a mettermi nei suoi panni per qualche minuto, tutto qui”

 

“E pensi che sia poco?” scuote il capo Burt, incredulo. “Figliolo … sei diventato un uomo migliore di quanto avessi mai osato sperare. Migliore di me, questo è sicuro, e pure di tuo fratello. Dannazione, non sai che voglia avrei di andare giù e riportarlo a tavola tirandogli l’orecchio”

 

“Vuoi che vada a parlare con Finn?” chiede Kurt dopo aver deglutito il nodo che gli si è formato in gola per la commozione dovuta alle belle parole del suo adorato padre.

“Da quando sei così criptico?”

 

“Voglio che tu faccia ciò che ritieni giusto, visto e considerato che, se qualcuno di noi può fare qualcosa per aiutare Puck, beh … quello sei tu”

 

Detto questo, Burt gli picchia la sua manona sulla spalla e si dirige verso la credenza, prendendo un piatto su cui poi metterà la fetta di torta di cui ha parlato Kurt per svignarsela in cucina.

 

Il giovane professore non impiega troppo tempo a capire cosa sia necessario fare.

“Credo che sia giusto che vada a parlargli”

 

“Magari dopo cena, uh?” gli sorride Burt, porgendogli il piatto con sopra la torta di Carole. “Non vorrei dare ai signori Berry altri motivi per essere scontenti di questa cena”

 

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La cena è andata molto bene, decisamente al di sopra delle sue aspettative.

Chris ha fatto il Chris, intrattenendo tutti con i suoi aneddoti dei viaggi dall’altro capo del mondo nei momenti in cui nessun altro sapeva cosa dire, Sebastian si è fatto passare il muso presto, rendendosi conto di essere abbastanza inopportuno, e Brittany … beh, nonostante un primo momento di imbarazzo, la ragazza con cui si è presentata Santana –ovviamente senza avvertire che ci sarebbe stato un ospite in più, ma questo è il meno della faccenda– si è dimostrata particolarmente affabile, abbastanza divertente, se pur in alcune occasioni abbastanza incomprensibile sue uscite strampalate, e incredibilmente a suo agio con Beth.

 

La piccola, dopo circa venti minuti in cucina, si era infatti stufata e, mentre Quinn e i fratelli scemotti erano alle prese con un tacchino particolarmente ostico, si era messa a giocare proprio con Brittany.

Non le sono sfuggiti i sorrisi e gli sguardi di Santana rivolti alla sua ‘fidanzata’, sguardi che parlando di qualsiasi essere umano potrebbero essere definiti innamorati, ma della sua migliore amica ...

 

 

Migliore amica che, a dispetto di ogni legge dell’Universo, ora le sta dando una mano a lavare i piatti. Dal modo in cui lo sta facendo, però, è evidente come sia la prima volta che ci prova in tutta la sua vita.

 

“Non sei capace, San” l’apostrofa Quinn, passando la spugna sulle posate sporche con la velocità ed l’efficacia dell’esperienza. 

 

Santana rimette il piatto che sta ‘lavando’ da almeno dieci minuti nel lavello, appoggiando il sedere sul ripiano della cucina con l’aria abbattuta.

“Ok, a casa uso la lavastoviglie. Mi hai beccata, sceriffo Fabray”

 

“Non fare la vittima, sai benissimo che non ti perdonerò così facilmente” la riprende senza spostare lo sguardo dalle mani e da ciò che sta lavando.

 

“Oh, andiamo-”


“State insieme da luglio!” sbotta, lasciando cadere le posate dentro il lavello con un gesto secco. “Luglio, maledizione” riprende, abbassando il tono di voce per non attirare troppo l’attenzione delle persone nell’altra stanza. “E siamo a Dicembre quasi. Ti sembra normale? Hai tenuto nascosto a me … a me, cazzo, la tua migliore amica … la tua prima relazione seria? … sei ingiustificabile” sibila, seriamente ferita, costringendola ad abbassare lo sguardo per il modo in cui la sta guardando.

 

“Mi dispiace” mormora Santana, colpevole. “È che … avevo paura”

 

“Di cosa? Di me?” chiede Quinn, perplessa, inarcando ancora il suo famoso sopracciglio.

 

“Certo che no. Di quello che stavo provando” si morde il labbro Santana, chiaramente in difficoltà. E la sua migliore amica la conosce abbastanza bene per sapere che, quando è così, l’amica sta parlando dei suoi sentimenti. “Brittany è … diversa, non so come spiegartelo. È come se fossimo la parte buona e la parte cattiva di una stessa persona. Ci … ci completiamo” conclude, sorridente, prima di spalancare gli occhi quando vede il sorriso ebete dipinto sul volto di Quinn che, molto probabilmente, è identico al suo. “E ommioddio non posso credere a quello che ho appena detto”

 

In un secondo le braccia di Quinn la stringono, forte, e, dopo una breve esitazione dovuta alla famosa allergia di Santana ai contatti fisici che non degenerano in qualcosa di sessuale, la latina ricambia l’abbraccio. Non le importa molto del fatto che le mani dell’amica siano bagnate e quasi certamente le stiano bagnando anche il vestito, è troppo contenta per non fregarsene.

 

“Sei innamorata” le sussurra Quinn, sfiorandole il collo con la punta del naso in un eccesso di euforia. “È meraviglioso, San. Sono molto felice per te”

 

“Anche io, credo” ridacchia Santana, allontanandosi poco dopo. Va bene tutto, ma c’è un limite al contatto fisico. “Mi stai perdonando?”

 

“Certo che no” ghigna Quinn, tornando alle posate. “Non pensare sia così facile. Però, se mi raccontassi qualcosa di più …”

 

Santana sospira, rassegnata, preparandosi mentalmente a sopportare il lato più invadente della personalità dell’amica. “Non è stato un colpo di fulmine o altro, se è questo che vuoi sapere. Ci siamo conosciute in discoteca e l’ho portata a casa”

 

“Molto fine”

 

“Cosa ti aspettavi? Un carrozza fatta di zucche?” alza le spalle Santana, perplessa. “La differenza tra Brittany e le altre con cui sono stata è che non mi ha dato fastidio svegliarmici vicino. E … uhm, non riesco proprio ad annoiarmi quando sono con lei” ammette, ringraziando la carnagione olivastra che nasconde il rossore che si sta diffondendo sulle guance.

 

“Qualcuno potrebbe dire che stai diventando quasi sentimentale” scherza Quinn, stuzzicandola. Ormai le è quasi passato tutto, nonostante in questi mesi si sia chiesta spesso cosa avesse l’amica di sempre, arrivando perfino a preoccuparsi ed a domandarsi se non le fosse accaduto qualcosa di grave.

 

“Forse” sorride Santana, optando per stare alla scherzo.

 

“L’unica cosa che mi brucia è il fatto che tu sia stata così strana per tutti questi mesi. Pensavi davvero che non sarei stata contenta per te?”

 

“No … cioè, in parte sì, ma non solo. È la prima volta che mi sto ponendo … certe domande. Insomma … lo sai, no? avrò il coraggio di fare sul serio se le cose dovessero continuare così? Riuscirò a presentarla ai miei senza morire d’infarto? Quella roba lì”

 

“Alla tenera età di venticinque anni stai sperimentando cosa vuol dire diventare una persona adulta. Sono f-ouch!” esclama indignata, massaggiandosi la spalla appena colpita da un pugno a tradimento. “Sei scema?”

 

“Te lo sei meritato” ghigna trionfalmente Santana. “A proposito di essere adulti. Senti, Seb ha trovato un locale qui vicino in cui andare a ballare e volevo portarci Brittany. Non ti dispiace se andiamo, vero?”

 

“Certo che no” annuisce Quinn senza nascondere una certa sorpresa, dovuta in parte al repentino cambiamento di discorso e in parte all’idea dell’amica. “Però se fate tardi-”

 

“Abbiamo prenotato in un motel qui vicino” la interrompe l’amica di sempre, intuendo la sua preoccupazione. “Sai, no, Sebastian rimorchierà sicuramente e …” balbetta, abbassando lo sguardo vista l’improvvisa difficoltà “… beh, ecco, io-”

 

“Sì, capisco, non c’è bisogno di arrossire” interviene in suo soccorso Quinn, facendole l’occhiolino. È ridicolmente piacevole vedere Santana per la prima volta imbarazzarsi sull’argomento sesso.  

 

“Bene” mormora lei, lisciandosi nervosamente le mani sulla maglietta per scacciare la tensione. “Torneremo qui domattina abbastanza presto, così posso passare più tempo che posso con la mia figlioccia”

 

“Sai già che la troverai in piedi ad aspettarti”

 

“Allora … è tutto a posto? Noi siamo a posto?” chiede Santana in tono abbastanza preoccupato, indicando prima sé stessa e poi l’amica con un gesto della mano.

 

“Tutto sistemato, tranquilla” ridacchia Quinn, faticando e non poco per trattenersi dall’abbracciarla ancora. L’unica cosa che la trattiene è il non sapere come potrebbe reagire l’amica ad un eccesso di affetto. “Però la prossima volta non tenermi così in pensiero”

 

“Promesso. Vado a prepararmi”

 

Quinn non può non sorridere osservando la sua migliore amica così raggiante. Se è tutto merito di Brittany, come sembra, quella ragazza è stata artefice di un vero miracolo.

 

Con la mente sgombra ed un’aura di insistente felicità ad accerchiarla, la giovane professoressa impiega pochi minuti per finire di lavare ed asciugare gli ultimi piatti e altri utensili usati durante la grande cena.

 

Una volta sistemato ogni cosa al proprio posto, Quinn si toglie il grembiulino bianco da massaia che tanto poco sopporta e si dirige verso il piccolo soggiorno del suo appartamento.

Lo spettacolo che si trova di fronte, però, è molto diverso da quello che ha lasciato.

Beth, infatti, è seduta a tavola, la faccina tenuta sollevata dalle braccia che mostra un’espressione estremamente insoddisfatta.

 

“Perché hai il broncio, tesoro?” le chiede Quinn, inarcando un sopracciglio per la perplessità. Le dona anche una carezza sul capo ma la bambina si limita ad imbronciarsi di più, quasi sia arrabbiata con lei.

 

“Vorrebbe andare a ballare con Brittany e Santana” le viene in soccorso Chris, anch’egli seduto al tavolo anziché sul divano come suo solito. “Solo che poi ha scoperto che anche Seb sarebbe andato con loro. Questo è il risultato” conclude, indicando Beth.

 

“Non vuoi restare qui con mamma e papà?” tenta Quinn, abbastanza sicura di poter sistemare la faccenda in poco tempo. “Possiamo ballare qui, se vuoi” sorride, anche per la faccia schifata che ha fatto Chris un secondo dopo la sua proposta.

 

“Ma io volevo ballare con zia San e BrittBritt” bofonchia la bambina, quasi sull’orlo delle lacrime, guardando la sua mamma con gli occhioni sgranati per tentare di ottenere il suo aiuto.

 

“Domani mattina balleremo per ore intere, va bene piccola BeBe?”

 

Quinn si volta in direzione delle camere, incuriosita dalla voce e dal nomignolo. La prima cosa che vede sono due gambe lunghissime, toniche e snelle.

Appartengono a Brittany, la ragazza di Santana, che la giovane professoressa non esiterebbe a definire ‘tirata da corsa’. Indossa un vestito blu scuro con le maniche lunghe che le arriva fino a metà coscia, un paio di scarponcini abbinati con il tacco ed è decisamente più truccata di prima.

 

Istintivamente, mentre la ragazza si avvicina al tavolo per parlare con Beth, torna a voltarsi verso Chris per vedere cosa stia facendo. Con sua somma sorpresa, nonostante la bellezza scintillante che ha di fronte, lo trova intento ad armeggiare con il suo costosissimo tablet, cosa che le fa istantaneamente inarcare le sopracciglia.

 

“Te lo prometto” fa Brittany, allungando un mignolo verso Beth che, piuttosto soddisfatta, lo stringe immediatamente.

 

“Ok, BrittBritt”

 

“Grande!” trilla Brittany, genuinamente soddisfatta. “Vieni di là con me per aiutare Santana a sistemarsi i capelli?”

 

“Sì!” trilla anche la bambina, imitandone il tono entusiasta.

 

“Tu hai idea di cosa è appena successo?” chiede Quinn, non appena le due biondine sono sparite dai radar. In tutta onestà è abbastanza infastidita, anche se non saprebbe dire se lo sia per la confidenza con cui Brittany tratta sua figlia o per il fatto che sia riuscita in un minuto a farle passare il broncio.

 

“Non mi angustierei troppo” alza le spalle Chris, senza staccare gli occhi dal tablet. “Vanno così d’accordo perché hanno più o meno la stessa età mentale”

 

“Chris!” esclama Quinn, sinceramente stizzita. Come si permette di parlare così di una persona? Della compagna di una loro amica d’infanzia, poi.

 

“Oh, andiamo, lo pensi anche tu”

 

“Beh, ecco, veramente …” balbetta, trovandosi in difficoltà visto che Chris ha ragione e l’unico motivo per cui non l’ha ancora fatto notare ad alta voce è la ferma volontà di non fare un torto a Santana “… ok, forse è un po’ infantile, ma è una persona simpatica e gentile”

 

Chris annuisce e non dice niente, limitandosi a sfoggiare il sorrisetto tronfio che fa sempre quando sa di avere ragione.

 

“Sebastian?” gli chiede Quinn, più per cambiare discorso che per reale interesse. Si aspettava di vederselo apparire davanti a lamentarsi non appena ha terminato di lavare i piatti, invece non è ancora arrivato. Strano.

 

“Già andato. Credo fosse in astinenza da alcol. O da sesso. O entrambe le cose”

 

“Dovresti parlargli” mormora la professoressa, sedendosi dove prima c’era Beth, esattamente di fianco al padre di sua figlia.

 

“Sai bene che non lo farò” sospira Chris in tono lamentoso, riponendo con cura il tablet nella custodia. “Lo conosci, no? Sarebbe inutile, forse addirittura dannoso. Va bene così”

 

Il rapporto tra i due fratelli Smythe è davvero difficile da comprendere. Sono legati a doppio filo, anche se non lo danno a vedere, e si vogliono davvero bene, anche se fanno di tutto per dimostrare il contrario. Eppure praticano questa filosofia, il vivi e lascia vivere, che Quinn trova sempre faticosa da accettare.

 

Non che il rapporto con la sua di sorella sia migliore, è vero, però …

 

“C’è una cosa di cui dovrei parlarti” le fa Chris, riscuotendola dalle sue profonde riflessioni sulla propria situazione famigliare. “Pensavo di passare le feste di Natale con Beth, se per te non è un problema”

 

Quinn aggrotta le sopracciglia, sperando di aver capito male.

“Senza di me?” chiede, confusa, appoggiando una mano sul petto quasi a volersi indicare.

 

“Con te, ovviamente. Volevo portarla a Disneyland”

 

“Non sono convinta” ammette senza troppi giri di parole, come fa sempre quando si parla di Beth. “Orlando è lontano”

 

“Veramente pensavo più a Parigi” la corregge Chris, sfoggiando il suo odioso sorrisetto. Se l’era preparata in anticipo per farle prendere un colpo, questo è certo.

 

“P-parigi?” balbetta infatti Quinn, totalmente spiazzata dalla proposta. In più, e questo Chris lo sa perfettamente visto che è stato proprio lui a portarcela l’unica volta in cui ha viaggiato oltre oceano, una miriade di ricordi la travolge come un fiume in piena.

Loro due, diciannove e diciassette anni, nella loro prima vacanza insieme, quattro giorni indimenticabili a Parigi.

 

È piuttosto sicura di essere arrossita, ma Chris fa finta di niente.

“Sai come la penso su queste cose. Prima inizia a viaggiare, meglio è. In più, sbrigata la faccenda Disneyland in un paio di giorni, possiamo visitare la città”

 

“N-non so cosa dire”

 

“Ovviamente Santana ha già detto che ci sarà e che si porterà dietro la sua ragazza nuova fiammante. E le ho già viste imboscarsi nel bagno dell’aereo. Due volte. In una tratta di un’ora e mezza. Quindi vedi tu se è il caso di lasciarmi solo con loro o no”

 

Quinn sente il viso andare letteralmente a fuoco come poche altre volte le è capitato. E la cosa la spaventa abbastanza, soprattutto perché non riesce davvero a capire cosa voglia Chris da lei.

Essere un bravo genitore o qualcosa in più? E se volesse riprendere le cose da dove le avevano lasciate anni fa?

 

Per sua fortuna, i passi veloci di Beth che corre verso il soggiorno le corrono in aiuto. Si alza dal tavolo e le va incontro, cercando di fare finta di non provare ancora qualcosa per quell’uomo.

Come le aveva detto Santana, ma questa è un’altra storia.

 

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Fa ancora qualche passo nel ripostiglio, cercando di evitare di inciampare negli scatoloni che ha portato in precedenza.

 

Si volta, leggermente ansante, rivolgendosi alla donna decisamente corpulenta che sta sulla soglia della porta e ne osserva ogni mossa con un gran sorriso.

“Li appoggio qui?”

 

“Lì va benissimo, grazie” gli fa in tono mieloso, unendo le mani in una sorta di preghiera di ringraziamento. “Caro ragazzo, chissà cosa avremmo fatto se non fossi arrivato tu”

 

“Sono venuto per aiutare, signora Rose” boccheggia lasciando cadere a terra gli enormi contenitori per alimenti, ormai puliti e pronti ad essere imballati.

Si passa il dorso della mano sulla fronte, decisamente sudata, lasciandosi poi andare ad un sospiro di sollievo per lo sforzo appena compiuto.

 

“Che caro ragazzo” ripete la donnona, facendogli segno di tornare nella parte principale del rifugio per senzatetto di Lima.

 

Aveva detto a Kurt che sarebbe rimasto a casa, è vero, ma, una volta arrivato il momento di mangiare e dopo aver scoperto che l’unico ristorante della città aperto e disponibile al take-away fosse quello cinese, Puck non se l’è più sentita di rimanere da solo per il Ringraziamento.

 

Ecco perché ora si trova qui, in una grande sala da pranzo ormai deserta, leggermente affaticato per il facchinaggio e l’aver servito per ore la cena ai bisognosi, molto soddisfatto di sé stesso.

 

Si guarda intorno, infilando le mani nelle tasche dei jeans.

“Questo posto è cambiato. È molto diverso da come lo ricordavo io” spiega alla signora Rose, una delle responsabili del servizio offerto ai poveri.

 

“Devi essere mancato da molto tempo” le fa la donna. “Il rifugio è stato ampliato e ristrutturato ormai quattro anni fa”

 

“Sì, in effetti manco da molto” le sorride Noah, continuando a camminare tra i tavoli. “Una volta se ne occupava una vecchietta piuttosto scorbutica, bassa, con i capelli cotonati e gli occhiali. Aveva anche un bastone da passeggio, se non sbaglio”

 

“Oh, la signora Milligan. Purtroppo se ne è andata diversi anni fa. Con le sue ultime volontà ha lasciato l’intera eredità al rifugio ed ha imposto che fosse allargato per accogliere più persone possibili. Era un donna incredibile”

 

Incredibile a dire poco. Era molto più arzilla e giovanile di quanto sembrasse, tirava certi colpi ai polpacci con quel dannato bastone che, al solo pensiero, Noah potrebbe giurare di sentire ancora male.

 

Quando la situazione in casa era insopportabile ed i litigi con sua madre inevitabili, era qui che si rifugiava per un pasto caldo ed un letto. Prima che gli Hummel lo accogliessero definitivamente in casa loro, ovvio.

 

“Un altro pezzo del mio passato che se ne va” mormora addolorato, mordendosi il labbro.

 

“Hai detto qualcosa?”

 

“No, nulla” sorride alla signora Rose, ringraziando la sorte per averlo fatto parlare a voce così bassa. “Se non c’è altro da fare, io a questo punto andrei a casa”

 

“Oh sì sì sì, hai fatto anche troppo” lo rassicura la donna, salutando con una mano una delle altre responsabili del centro prima di fare strada verso l’uscita. “Anche io, a dire la verità, sto aspettando che mia figlia mi passi a prendere per andare a casa”

 

Puck è quasi tentato dal chiederle come mai non abbia passato il giorno del Ringraziamento con sua figlia, poi si ricorda che non è educato e, soprattutto, non sono fatti suoi, quindi rinuncia.

È che c’è qualcosa in questa donna che lo invoglia ad aprirsi, a raccontarle tutto. Forse perché sembra terribilmente materna o forse perché è così gentile.

 

La sberla dovuta all’aria fredda che lo colpisce non appena mette piede fuori dal rifugio lo costringe a stringersi nel vecchio giubbotto di pelle, ricordo diventato ormai reliquia di quello che è stato al tempo del liceo.

 

Un dubbio atroce lo assale all’improvviso: dove ha parcheggiato la macchina?

 

“Mamma, qui!”

 

Si volta lentamente, totalmente immerso nel tentativo di ricordarsi dove cavolo l’abbia messa, incuriosito dalla voce che, se l’udito non lo inganna, gli è quasi familiare.

 

La ragazza a cui appartiene, in effetti, l’ha già vista da qualche parte e, a giudicare dal modo in cui spalanca gli occhi non appena lo vede, anche lei sta pensando più o meno alla stessa cosa.

C’è solo un problema: Noah non ha la minima idea di chi sia e di come si chiami.

 

“P-puck?!”

 

E lei invece sì.

“Cavolo” borbotta a denti, domandandosi come si faccia ad avere una memoria così pessima. “Oh, ciao” saluta con finto entusiasmo.

 

“Marley, conosci questo ragazzo?” interviene la signora Rose, salvandogli la vita. Marley, la ragazza dell’amico di Kurt! Ecco chi è!

 

Il tempo di realizzare chi sia e subito gli viene naturale incurvare le sopracciglia in un’espressione di fastidio. Lei è la tizia che lo fissava alla festa di Halloween.

 

“Cosa ci fai qui?” boccheggia la ragazza, riprendendo però a parlare prima che Noah possa replicare. “Ho assolutamente bisogno di dirti una cosa”

 

“Io nel frattempo vado a sedermi in macchina” fa la signora Rose, indicando la monovolume parcheggiata dall’altro lato della strada. “Le gambe mi stanno uccidendo”

 

“Il fatto che ci incontriamo sempre non può essere un segno del destino” sussurra Marley, fissandolo intensamente non appena la madre è lontana.

 

“Ok, chiariamo subito questa cosa” sospira Puck, sicuro di aver capito dove lei voglia andare a parare e distendendo le braccia per frapporre le mani tra sé e Marley. “Non so quale malsana idea ti stia passando per la testa, ma ti posso assicurare che non ti sto pedinando”

 

“Pedinando?” farfuglia la ragazza, sbattendo ripetutamente le palpebre. “No, cosa hai capito? Non intendevo in quel senso” cerca di rassicurarlo, agitando le mani nervosamente. “Io … senti, c’è una persona che devi assolutamente incontrare. È un tuo parente, uno che non conosci”

 

“Parente del tipo … zio alla lontana o roba del genere?” chiede con una smorfia di disgusto, visto che la sua mente non riesce a pensare ad altro che a suo padre. “Perché nel caso non mi interessa proprio nulla”

 

“No, nulla del genere. Lui sa che tu esisti, ma tu invece no” tenta di spiegargli, iniziando a frugare nella borsetta. “Gli ho parlato di te dopo l’incontro in albergo e mi ha detto che vorrebbe incontrarti, però ha paura della tua reazione” aggiunge, allungandogli un pezzetto di carta.

 

C’è un numero di telefono e, poco sotto, un nome. Rabbrividisce leggendo le prime due lettere, J ed A. Fortunatamente, non si tratta di suo padre James.

“Jacob” legge, visceralmente sollevato. “Chi è?”

 

“Non spetta a me dirlo, purtroppo” mormora in tono abbattuto, quasi le dispiaccia per lui. “Chiamalo, lui ti dirà tutto”

 

Detto questo, gira i tacchi e se ne va, senza nemmeno salutare. Si volta solo quando raggiunge la portiera del lato guidatore della macchina, per un secondo, prima di salire e mettere in moto.

 

Jacob … non ha mai conosciuto una persona con un nome del genere, non a Lima almeno. Ce n’era uno a Fort Benning, forse? E chi se lo ricorda? E cos’è questa storia del non te lo posso dire?

 

Noah sbuffa ed infila il biglietto in tasca, lisciandosi un sopracciglio con la mano libera. C’è un problema decisamente più impellente da risolvere: la macchina.

 

Ci impiega solo altri cinque minuti prima di ricordarsi che no, lui la macchina non ce l’ha visto che Kurt si è portato dietro la sua e quella di Debs è a casa per non far insospettire i vicini.

 

Con una memoria del genere quel Jacob potrebbe essere chiunque, tanto non se ne ricorderebbe comunque.

 

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Per tutto il resto della serata, Kurt non ha fatto altre che pensare a come riuscire a parlare con Finn riguardo quello che è successo.

Avrebbe potuto entrare in camera sua e chiudere la porta a chiave, minacciandolo di non aprire finché il fratellastro non si fosse deciso a starlo ad ascoltare; avrebbe potuto punzecchiarlo fino a farlo reagire in modo da non farlo scappare; avrebbe potuto chiedere a Rachel di restare a dargli una mano.

 

Insomma, ci sarebbero stati tanti modi più o meno efficaci per permettergli di parlare con Finn, eppure ha deciso di usare l’unico che abbia mai funzionato davvero.

 

 

Ha atteso pazientemente che i Berry tornassero a casa –con Rachel al seguito, piuttosto furiosa con Finn per il suo comportamento- e che Burt e Carole si mettessero a letto, ma finalmente ora si trova davanti alla camera del suo fratellastro con un vassoio in mano.

 

Non bussa nemmeno, anche perché poco prima di andare via Rachel ci ha provato ed ha ottenuto come risposta un amorevole “Vattene via”, motivo tra l’altro della sua arrabbiatura –che impiegherà un bel po’ ad andarsene, tra parentesi.

Afferra semplicemente la maniglia, usando il fianco per mantenere il vassoio dritto ed evitare di ribaltarlo, ed entra, scoprendo con sua enorme meraviglia che la porta non è chiusa a chiave.

 

L’immagine che gli si palesa davanti è abbastanza grottesca: Finn è sdraiato sul letto che usava quando era al liceo, gli spuntano le caviglie dal bordo del letto –è diventato ancora più alto, cosa che sembra davvero difficile da credere visto quanto fosse enorme già da adolescente- e sta leggendo una specie di libro rilegato in pelle illuminato dalla debole luce di una abat-jour.

“Cos-” sobbalza con qualche secondo di ritardo, notando il fratellastro sulla soglia. “Oh, Kurt, sei tu” mormora abbassando il tono di voce e nascondendo immediatamente il libro alla sua vista.

 

“Disturbo?”

 

“No, no” lo rassicura, facendogli segno di venire avanti. “Non riuscivo a prendere sonno e così … beh, ingannavo il tempo”

 

“Latte caldo e biscotti aiuterebbero?” gli sorride Kurt, appoggiando il vassoio sul comodino e notando con soddisfazione come l’espressione di Finn si rassereni all’istante alla vista dei due bicchieri colmi e del piattino ripieno di delizie al cioccolato.

 

Quando i loro genitori si erano conosciuti ed avevano deciso di sposarsi dopo solo un anno di relazione, questi due erano poco più che conoscenti.

Così, anche per aiutarlo a superare l’imbarazzo, Kurt aveva inventato questo espediente, combinando la passione di Finn per i dolci con la sua tendenza a parlare –spesso a straparlare- durante i pasti, quasi il cibo lo aiutasse –e lo aiuti ancora- a sbloccarsi.

 

“Quante volte abbiamo mangiato sta roba in piena notte per stare ore a parlare?” chiede Finn dopo aver spazzolato da solo almeno la metà dei biscotti e quasi tutto il suo latte, mentre Kurt ha preso la sedia della scrivania e si è sistemato comodamente vicino al bordo del letto in paziente attesa.

 

“Non so, ho smesso di contarle una volta arrivati a cento” sorride Hummel, sempre in tono conciliante, facendosi violenza sul suo lato estremamente ordinato per ignorare l’enorme quantità di briciole che si stanno sparpagliando sul letto.

 

“Rachel?”

 

“A casa dai suoi” risponde Kurt, alzando un sopracciglio nel vedere un biscotto intero sparire in un unico boccone. Scuote appena il capo, obbligandosi a rimanere concentrato. “Conoscendola non ti parlerà per almeno due giorni”

 

“Le passerà” scrolla le spalle Finn, mascherando il suo dispiacere dietro una finta noncuranza. “Passa tutto, prima o poi” aggiunge, duro, fissando il suo sguardo dritto nelle iridi azzurre di Kurt.

 

Anche se non ce n’è affatto bisogno, questo non fa altro che alimentare la certezza del professore circa le cause della svagatezza mostrata dal fratellastro sin dal primo momento in cui è arrivato con Rachel.

 

Kurt annuisce, accavallando le gambe ed appoggiando le mani, intrecciate l’una con l’altra, sul ginocchio.

“Posso chiederti come fai-“

 

“A sapere che Puck è tornato e vive con te?” lo interrompe Finn. “Mamma. Lo so praticamente dal giorno in cui si è trasferito nel tuo appartamento”

 

“Sei arrabbiato?”

 

“Non lo so” ammette lui, lasciando trasparire dal suo tono una certe confusione. “All’inizio sì, lo ero, ma poi … poi mi sono messo a pensare a … a tante cose, tutto quello che è successo in questi anni”

 

Kurt aspetta per qualche istante che continui la frase ma, vedendolo rimanere in silenzio a fissare il muro davanti a lui, decide di dargli una leggere spintarella verbale.

“E?”

 

Finn si volta verso di lui, prima di rispondergli, e lo sorprende mostrando sul suo viso un sorriso sincero.

“Vorrei spaccargli il naso, così siamo pari, e insieme vorrei dargli il cinque ed andare berci una birra insieme perché mi manca. È un-“

 

“Casino, lo so” completa Kurt per lui, cercando di fargli capire che la situazione è la stessa per tutti.

 

“Lui ti ha … insomma, parlato di me o-o di Rachel?” gli chiede Finn, tentennante.

 

E Kurt è davvero dispiaciuto di dovergli rispondere sinceramente, perché ci rimarrà sicuramente male, ma al tempo stesso è contento di sentire questa domanda, pronunciato con questo tono incerto, perché vuol dire che nonostante tutto ci tiene ancora a Noah.

“No. È ancora in una fase di negazione della vostra esistenza”

 

“Come abbiamo fatto lui con noi per tutto questo tempo, no?”

 

“Più o meno” annuisce Kurt, piuttosto sorpreso dall’ennesima ammissione di Finn. Se questa discussione, per qualche strano motivo, fosse avvenuta diversi mesi fa, quasi sicuramente per Puck si sarebbero stati solo odio ed insulti, nemmeno troppo velati, non comprensione.

 

“Hai già parlato con Rachel?”

 

“Ha detto che ci avrebbe pensato su. Immagino si riferisse a come comportarsi nei confronti di Noah”

 

“Con me non ha parlato” borbotta Finn, facendo ruotare al fratellastro gli occhi al cielo. Sembra offeso da questa cosa, anche se Kurt è certo che sappia bene il perché la sua fidanzata, una persona che lo conosce bene come le sue tasche, abbia preferito aspettare.

 

“Sapeva che avresti reagito così” commenta infatti in tono leggermente piccato, chiedendosi se e quando Finn riuscirà mai ad abbandonare certi comportamenti infantili.

 

“E nemmeno tu me ne hai parlato” lo ignora Finn, indicandolo. Se prima solamente sembrava offeso, ora lo è di certo. “Credete che io sia ancora un bambino? Ho ventisette anni, Kurt, sono un uomo adulto che è in grado di gestire cose come … come questa”

 

“Solo i bambini devono ricordare ad alta voce quanti anni hanno per darsi un tono” lo gela, schioccando addirittura la lingua dopo aver finito di parlare.

 

Finn apre la bocca e la richiude un paio di volte, non riuscendo a trovare nulla da ribattere ad un colpo del genere.

 

Dall’altro lato della barricata, Kurt è tutto fuorché dispiaciuto per ciò che ha detto. Per quanto bene gli possa volere, e gliene vuole tantissimo, negare che Finn Hudson sia una persona fondamentalmente infantile è impossibile ed il fatto che sia Finn stesso a farlo lo infastidisce ancora di più.

 

Eppure seguire il consiglio di suo padre, per quanto criptico egli sia stato, non è stata di certo una perdita di tempo. Ha scoperto che il suo fratellastro ha davvero pensato a Puck e, cosa assolutamente non scontata, gli è ancora profondamente legato.

 

Sta per alzarsi per andare in camera sua, convinto che ormai non ci sia rimasto alcunché da fare qui, quando la voce di Finn rompe il silenzio.

“Ogni volta che torno in questa casa e in questa camera, io …” mormora, allungando la mano oltre il bordo del letto, dalla parte opposta rispetto a dove si trova Kurt, e sollevando il libro che stava sfogliando poco fa “… vedi questi album?” aggiunge, indicando anche la pila appoggiata sulla scrivania che Kurt non aveva notato quando era andato a prendere la sedia.

“Li ha fatti mia madre. Sai cosa c’è dentro?”

 

“Credo di sì”

 

Ma a Finn non basta questa risposta, quindi decide di mostrargli una pagina a caso del book che ha in mano. Ed una foto la ricopre interamente. Ci sono lui, Sam e Puck, addosso le divise da football del McKinley, intenti a festeggiare il primo ed unico titolo nazionale che il loro vecchio liceo abbia mai conquistato.

“Siamo noi. Ci siete anche voi, eh …” mormora, quasi dispiaciuto, sfogliando le pagine fino a trovare un’istantanea di un’uscita di gruppo in cui compaiono anche Kurt, Mercedes, Rachel e una tipa rimorchiata da Puck al momento “… ma noi tre … noi tre siamo in tutti gli album, dal primo all’ultimo”

 

Kurt non sa cosa dire, colpito ed al tempo stesso commosso di fronte ad una delle poche volte in cui il suo fratellastro ha deciso di aprirsi totalmente con lui.

Ancora più di prima, alle parole di suo padre sulle persone che non hanno ancora superato la morte di Sam si aggiunge l’ennesima dimostrazione del fatto che questa ferita non si è ancora rimarginata. 

 

“Non doveva andare così, non doveva finire in questo modo. Tu non hai idea di quante volte … di quanto io ancora desideri tornare indietro e … essere là con loro” geme Finn, sicuramente turbato, forse addirittura in lacrime –la luce è troppo fioca per permettergli di avere un’immagine precisa del volto del fratellastro.

 

“Come potevi? Sei stato congedato per l’incidente con il fucile, anche se avessi voluto non ce l’avresti potuta fare” ricorda Kurt, senza alcuna malizia, credendo addirittura di capire cosa provochi tanto dolore in lui.

 

Però Finn ha una reazione strana, quasi sia stato colto alla sprovvista o, addirittura, come se abbia detto troppo, quasi si sia lasciato scappare un dettaglio che avrebbe dovuto rimanere nascosto.

“I-io … sì, hai ragione” concorda fin troppo frettolosamente, richiudendo all’istante l’album di foto e lasciandolo cadere a terra con un sonoro tonfo.

 

Sembra diventato improvvisamente nervoso e maldestro, tanto che Kurt, vedendolo trafficare ed abbattere senza un motivo gran parte degli oggetti che lo circondano nel tentativo di recuperare le cose che gli stanno cadendo, è costretto a chiedergli: “Tutto bene?”

 

“Sto cominciando a sentire la pesantezza della giornata, tutto qui” mormora Finn con un tono palesemente finto.

 

Kurt sospira ma non controbatte, perplesso dall’improvviso mutamento nell’atteggiamento del fratellastro al punto tale da non accorgersi del motivo per cui questo cambiamento sia avvenuto, nonostante sia abbastanza palese.

 

Si alza in piedi, raccogliendo al volo il vassoio prima che uno dei gomiti di Finn lo colpisca facendo rovesciare il suo contenuto sulla moquette della camera.

“Parlerai con Rachel quando tornerete a New York? Riguardo Puck, intendo” chiede, cercando di ottenere una rassicurazione sul fatto che l’intera conversazione non sia stata vana.

 

“Sicuramente” risponde Finn, riuscendo ad essere abbastanza convincente. “Buonanotte, Kurt”

 

“Buonanotte”

 

Mentre si avvia lentamente verso le scale per portare il vassoio in cucina tentando di fare meno rumore possibile, una strana euforia si diffonde nel suo corpo.

E se Puck non avesse ragione? E se per una volta le cose fossero più facili di quanto avesse previsto non più tardi di qualche ora fa?

Sperare, in fondo, non costa nulla.

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore.

 

Era dal 26 di Giugno che non toccavo questa storia.

Poi, la scorsa settimana, una volta tornato dalle vacanze, me la sono riletta tutta, mi sono riguardato gli appunti che ho preso per i personaggi e mi sono detto: no, adesso la riprendo.

Ed eccoci qui.

 

Non troverò scuse per questo ritardo, forse avevo solo bisogno di un po’ di tempo.

 

Che dire? Di cose in questo capitolo ne sono successe. Finalmente il mistero di Marley è svelato. Se non avete ancora capito, vi posso dire che Jacob compare tra i nuovi personaggi della quarta stagione, solo che spesso lo chiamano usando un soprannome :)

 

Ah, in questo AU Rachel e Finn sono andati a Las Vegas per sposarsi più o meno nello stesso periodo in cui hanno organizzato il matrimonio nella serie. Se ne parlerà più avanti, ma visto che ne ho accennato all’inizio di questo capitolo mi sembrava giusto spiegarlo.

Non c’è molto altro a dire il vero.

 

Visto che non so quanto in fretta riuscirò ad aggiornare –spero molto presto visto quanto poco ci abbia messo a riscrivere da capo questo capitolo-, vi lascio una piccola anteprima di quel che succederà nel prossimo capitolo. È in corsivo, ma solo per differenziarlo dal resto delle note.

 

 

“Cosa dovevate fare? Una corsetta?”

 

“S-sì per … insomma, smaltire i due giorni di cibi esageratamente grassi e … non ridere, però, mi fai sembrare stupida”

 

“No, no, per carità. È che … fatico ad immaginarmi Kurt in tuta. Odiava le ore di educazione fisica”

 

“Lo posso capire. Io ero una cheerleader e odiavo correre. Preferivo di gran lunga provare le coreografie”

 

“Eri una cheerleader? Davvero?”

 

“Dovrei sentirmi lusingata dal tuo commento sorpreso? Perché non stai giudicando la mia forma fisica” “Oh Santo Cielo, lo stai facendo!”

 

“Non mi permetterei mai”

 

 

 

Ringrazio chiunque continuerà a leggere questa storia nonostante tutto. Un abbraccio a tutti voi e grazie per essere arrivati sin qui! :)

Pace.

 

 

Nota a margine, piuttosto importante ma che non riguarda la storia.

 

Concludo prendendomi qualche rigo per parlare di Cory Monteith, visto che in questo capitolo compare Finn. 

Non ero un fan, non lo seguivo sui social network e, ovviamente, non lo conoscevo.

Quando muore un ragazzo di trent’anni in un questo modo, però, è sempre una tragedia e bisogna in ogni caso prendersi un secondo per riflettere. Non importa che lavoro faccia, quanto sia famoso o quanto gli ci sia affezionati.

Non mi permetterai mai di fare inutili paternali, di scrivere frasi stucchevoli per commemorarlo o altro. L’unica cosa che mi sento di dire è in realtà un augurio. Che nonostante il dolore e la tristezza che lo hanno portato ad assumere droghe ed abusarne, ci sia stato, in un momento qualsiasi della sua vita, un attimo in cui sia riuscito a dire: ehi, sono davvero felice. 

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