Nuvole

di Artemisia89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Grazia. [Pilla] ***
Capitolo 3: *** Distanza. [Genoa] ***
Capitolo 4: *** Profondità. [Bridget] ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Chiara

Giusto due parole sulla trama di Sword of Mana: l'essenziale per far capire alla Lady qualcosa su questo RPG che mi ha letteralmente assorbito per una settimana, tanto da spingermi a scrivere questa fanfiction.

Re Granz aveva per moglie la principessa di un mondo chiamato Malvolio, un mondo di esseri soprannaturali, quasi demoni. La principessa, incantata dalla musica del Re, si chiamava Medusa. Decisero di sposarsi nonostante la maledizione fosse pronta ad incombere sulle loro teste: una maledizione provocata dall'aver infranto una certa legge secondo cui le unioni tra umani e malvolio erano vietate. Medusa, raggiunse Granz nel suo regno e si sposarono presso l'Altare del Tempo, ebbero un figlio di nome Devius che costruì un immenso palazzo nel territorio di Jedd e che riempì di uccelli di ogni specie. La stanza in cui dimorò la madre durante il periodo in cui era vicina alla morte era una stanza bellissima e con grandi gabbie, comunicante con gli accessi alle torri del palazzo. Medusa ormai continuava a peggiorare, si decise di farla tornare a Malvolio: i protagonisti della storia, per arrestare l'avanzare della maledizione tentano di infrangere il luogo della loro unione - l'Altare del Tempo - , ma troppo tardi. Medusa muore tra le braccia del figlio Devius, che promette vendetta contro coloro che, piuttosto che usare la magia del Mana, hanno preferito lasciarla morire. Allora i protagonisti della storia, entrano a palazzo Devius e dirigendosi nella parte più alta della torre uccidono un Devius consumato dal rancore.Ho voluto scrivere la storia delle domestiche di palazzo Devius, donne Malvolio, fredde, difficili da amare come il piccolo Tus racconta, eppure tanto devastate da ciò che si è consumato in quel palazzo bello e fragile come vetro. Vuoto, dopo la scomparsa dei padroni. Violato, e ora abitato solo da loro che tentano inutilmente di rimettere in piedi loro stesse, di raccogliere i cocci di ciò che è rimasto.

Ogni personaggio appartiene al legittimo creatore, ovvero l'eminentissima Squaresoft, ma le storie create sulle ragazze sono mie figliocce.

 

Queste pagine, sono dedicate a Lady Antares Degona Lienan, per la sua compagnia che trascende il piacevole, per tutte le volte in cui mi ha ascoltato e ha saputo portarmi via, costringendomi ad alzare gli occhi verso il cielo.
Per tutte le volte in cui mi sono sentita un guscio vuoto: sappi che hai fatto rifiorire in me qualcosa.

 

Sperando che non ti sia del tutto sgradevole.

Grazie.
Artemisia

 

 

 

Prologo

 

 

 

 

Dopo molto, molto tempo mi ritrovai a pensare alle ragazze a servizio a palazzo Devius. Non che fossero pensieri facili, affatto. Erano ragazze difficili quelle, erano idee pallide di mondi lontani.

Avevi l’impressione di sfiorarle, mentre poi ti ritrovavi ad accarezzare l’aria, e a guardare già le loro schiene diventare sempre più piccole, i loro occhi diventare sempre più chiari e le note delle loro canzoni svanire nei corridoi del palazzo.

Fondamentalmente erano idee legate ad altre idee, protagoniste silenziose, in un certo senso, di pochi chilometri quadrati. Prime ballerine di un palcoscenico di luci e di ombre, di giardini notturni, di dimore di uccelli dalle piume dei colori dei sogni. Sentivi il gorgogliare dell’acqua accompagnare discreto i loro passi attraverso il palazzo, e il vento che faceva muovere i veli delle mille finestre, desideroso come non mai di far ondeggiare le loro vesti.

 

La prima volta che entrai a palazzo Devius, sentì la pelle accapponarsi per il pesante flusso magico: l’aria era tranquilla, ma sentivi addosso, in maniera inequivocabile, uno sguardo velato dalla malattia.

L’acqua che si gettava nelle fontane a volte formava dei vortici con cui la luce dei candelabri giocava: il marmo era talmente bianco che tutto sembrava di perla. Il pavimento invece, sembrava un vetro che desse sull’oceano. C’era una sorta di ansia pigra, a palazzo Devius. Un‘atmosfera sonnacchiosa, rassegnata, di dolente attesa.

C’era un’attesa di morte.

 

Le ragazze di palazzo Devius avevano pelle bianchissima, capelli ramati, occhi di cielo. I loro abiti semplici, se possibile, le facevano apparire ancora più belle. A volte, quando la luce della luna entrata da una finestra metteva in risalto un particolare del volto o delle gambe, la bellezza che si accumulava si condensava in un'idea di nuvola.

Di nuvole esenti da morale, staccate da terra senza far parte del cielo.

Così, nuvole a mezz’aria, che per quanto qualcuno si potesse sforzare, erano davvero impossibili da raggiungere, sebbene sembrassero sempre molto vicine.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Grazia. [Pilla] ***


Chiara

Nuvole

[Quattro idee]

 

 

 

 

1.       Grazia. [Pilla]

 

 

Punto numero uno. Punto numero due. Al terzo punto ne salti uno, al quarto torni indietro. E ricominci.

Punto numero uno. Punto numero due, punto numero tre, al quarto ne salti uno, al quinto torni indietro.

 

E ricominci.

 

 

Pilla era metodica: era la quinta essenza della routine. Si alzava tutti i giorni alle sei, eccetto che nei giorni liberi o di festa (in quelli aveva il permesso di alzarsi all’ora che più le aggradava), e le sue giornate erano scandite da mille impegni divisi alla perfezione. Dopo la sveglia e le abluzioni mattutine, puliva la sua camera, indossava la veste di servizio e scendeva in giardino. Mentre le altre si occupavano a turno delle fontane e delle piante, lei si preoccupava di dar da mangiare agli animali e, nonostante il loro benessere fosse ufficio di Philumena, in special modo agli uccelli: puliva le gabbie, cambiava l’acqua, riempiva le ciotole con miglio e frumento, li accarezzava quando glielo permettevano, e poi tornava a Palazzo. Gli orari in cui di solito si pranzava erano i meno impegnativi: la loro padrona in fin dei conti non traeva alcun benessere dal cibo e tutte le ragazze si limitavano a preparare una cena frugale di frutta e verdura. Gli unici veri alimenti di cui cibarsi senza avere paura.

Nelle prime ore del pomeriggio, dopo aver pranzato e pulito la cucina, Pilla riposava, come tutte le altre. Il caldo a Jadd sapeva essere più che opprimente e lei era quella che meno di tutte lo sopportava: aveva sempre la veste appiccicata addosso, quasi come se fosse una seconda pelle.

Odiava Jedd, con tutta se stessa e questo Medusa lo sapeva fin troppo bene, ma l’aveva chiamata al suo seguito lo stesso.

E lei, non aveva potuto di certo opporsi alla sua Principessa.

 

Nel pomeriggio, Pilla finalmente, si dedicava a quello che per lei contava di più: raggiungeva una certa sala del minareto ovest e sedendosi ad una precisa finestra, prendeva in mano il suo lavoro. Era stata sua madre, a Malvolio, ad insegnarle a ricamare, ma aveva scoperto quanto le piacesse disegnare sulla stoffa con ago e filo, soltanto nell’adolescenza. Inizialmente si trattava di piccoli animali: pesci, cigni, farfalle. Poi cervi, leoni, pappagalli dalle mille piume colorate, ondinee e driadi. Poi era passata ai paesaggi, e infine ai ritratti. E lì, si confondeva perché nella stessa tela, sembravano due lavori inconciliabili. Finché Medusa, per il giorno del suo matrimonio, non le aveva richiesto una cosa ben precisa.

Erano venticinque metri di stoffa, e non aveva che venticinque giorni di tempo. Quando Pilla si azzardò a chiedere quale fosse il soggetto del ricamo, Medusa le disse che voleva Malvolio.

<< Tutto? >>. Tutto quanto. In 25 metri di seta banca e purissima, Pilla doveva stillare un universo.

 

Il primo giorno, aveva pianto. Il secondo aveva chiesto di uscire. Il terzo aveva cercato di scappare dalla torre, inutilmente. Sentiva su di se lo sguardo onniveggente di Medusa che bucava le pareti e la scrutava dentro. Il quarto giorno, tentò di contattare i suoi genitori, il quinto minacciò di tagliare in mille pezzi la seta.  Il sesto giorno, si affacciò dalla finestra.

Era l’alba. Non un’alba fuligginosa, umida di rugiada, fredda. Era un’alba nitida, calda, dorata. L’odiata Malvolio, di solito così ombrosa e scura, le appariva sotto una luce diversa. Le chiome degli alti alberi, lasciavano che la luce disegnasse a terra giochi di ombre ammalianti, e i vetri delle case riflettevano il cielo con un bagliore quasi fatale. I volti delle persone che cominciavano a popolare strade e quartieri, avevano sorrisi minuscoli, assonnati, ma puri.

A Pilla piacque: il settimo giorno, cominciò a ricamare.

Quando Medusa, il giorno del suo matrimonio, aprì davanti a tutta la Corte l’arazzo che Pilla aveva ultimato entro i venticinque giorni richiesti, fece molta fatica a mantenere la sua proverbiale compostezza. L’arazzo conteneva la sua Malvolio e i suoi sudditi. Ne conteneva l’anima.

 

Ordinò che venisse chiuso e riposto. Pilla sorrise. Ordinò che si preparasse per il viaggio verso il regno di Granz. Il sorriso di Pilla, si pietrificò sul suo volto, per poi sgretolarsi.

 

Pilla odiava i cambiamenti: non riusciva ad abituarvisi. Li odiava come odiava Jedd e Granz intero. Troppo eterogeneo il regno, troppo calda la città, troppo imprevedibili gli umani, troppo effimeri, come i cambiamenti.

Non facevi in tempo ad accettarli, che già scomparivano. Troppo tutto.

Così quando Medusa, la voce stanca e gli occhi vacui, le chiese un arazzo di Jadd, Pilla chinò lo sguardo a terra per non mostrare il disappunto nei suoi occhi. Non di nuovo, pensava, non di nuovo Dea, ti prego non di nuovo.

Ma evidentemente la Dea, non la stava ascoltando in quel momento.

 

Pilla impiegò tre giorni per scegliere la seta più adatta, altri tre giorni per il minareto, un giorno per la finestra. Aveva tanti fili di colori diversi con sé, ciononostante, uscì in paese per comprarne altri. Velata nei suoi veli candidi, uscì dal palazzo veloce come una nuvola, e ancor più velocemente vi fece ritorno.

Filo d’oro, filo di sabbia, filo di notte.

 

Cominciava a ricamare nel tardo pomeriggio, quando ormai il sole era calato e la notte avvolgeva Jedd: disegnava dune sabbiose, tetti ricoperti di stoffe, vasi d’oro e cammelli sonnacchiosi. Disegnava madri chine sui propri figli e libri abbandonati su tappeti. E uccelli, gli uccelli di palazzo Devius che vigilavano sulle stanze e sul giardino. Ne disegnò perfino il canto, che si alzava dalle gabbie aperte e che sfiorava l’acqua delle fontane.

Ricamava, ricamava, ricamava sfruttando la sua vista fino all’inverosimile. Quando si svegliava, i suoi occhi erano arrossati e irritati, ma le iridi slavate sembravano brillare.

 

Finì l’arazzo, lo mostrò a Medusa. Lei la guardò.

Le sorrise.

Pilla, sentì le mani tremare e gli occhi farsi lucidi come di febbre.

 

Ordinò che venisse chiuso e riposto. Pilla non sorrise. Ordinò che lei rimanesse a palazzo Devius insieme alle altre ragazze. E Pilla questa volta pianse.

 

 

Pilla era metodica: era la quinta essenza della routine. Odiava i cambiamenti: li trovava nemici ingiusti, contro cui non si poteva combattere, per questo li sfuggiva con le sue giornate costruite e progettate nei minimi particolari. Era orgogliosa di aver creato un paradiso di eternità.

Ma Medusa, con la sua morte, aveva distrutto tutto quanto un’altra volta.

 

 

 

Punto numero uno. Punto numero due. Al terzo punto ne salti uno, al quarto torni indietro. E ricominci.

Punto numero uno. Punto numero due, punto numero tre, al quarto ne salti uno, al quinto torni indietro.

 

E ricominci.

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Capitolo 3
*** Distanza. [Genoa] ***


Chiara

 

2.       Distanza. [Genoa]

 

 

 

Mentre le altre dovevano camminare a debita distanza da Medusa e il figlio Devius, Genoa, in quanto capo-domestica, aveva il privilegio di camminare ad un solo passo di distanza e mai alle loro spalle. Aveva la fortuna di ammirare i ricami che Pilla cuciva sulle vesti di seta della Principessa, e il grigiore argenteo dei capelli del figlio.

Di tutte quante, era quella meno lontana dai cuori dei sovrani, ma tra tutte le altre era quella più distante dal mondo.

 

 

Sin da piccola, Genoa aveva dipinta sul volto una tacita espressione di saggezza. Sorrideva sempre, di un sorriso tenue e disarmante, che schiacciava i pensieri e li seppelliva sotto una coltre di serenità. Aveva mani abili, sottili, adatte per dare ordini ed eseguirli: Medusa non ebbe esitazioni quando si trattò di scegliere una domestica che prendesse nelle mani le redini di Palazzo Devius. E quando si trattò di partire, Genoa non mise giù pianti né lamentele. Fece i suoi bagagli, salutò la famiglia, diede l’addio alla propria casa, a Malvolio  e, sorridendo, partì per il regno di Granz.

Sapeva essere decisa, dura, risoluta senza perdere il solito sorriso. Aveva la dote essere una fanciulla pragmatica senza perdere l’alone etereo che la circondava: si curava dell’interno della casa e dei suoi abitanti, tanto bene quanto dell’esterno. Si occupava dell’amministrazione del palazzo, della contabilità e dei rapporti con la popolazione di Jadd.

Genoa era benvoluta da tutti, perché era amabile e conosceva i rapporti tra le persone. Accadeva raramente ma, quando qualcuno era così caparbio o così disperato, capitava che osassero avvicinarla e le chiedessero ad occhi bassi consiglio su questa o l’altra questione. Allora Genoa sorrideva e gli parlava di distanza: il modo migliore per vivere, diceva sempre, è conoscere le distanze tra le persone. Quando conosci quella, quando sai qual è il tuo posto, puoi muoverti senza aver paura di urtare nessuno. Il tale ringraziava e se ne andava, lasciandola sola. Allora lei riapriva le porte del palazzo e tornava dentro.

 

Medusa chiamava spesso Genoa nella sua camera: si informava dell’andamento della casa, dello stato di salute delle ragazze, delle loro esigenze. Genoa rispondeva a tutte le domande della Regina, con chiarezza e precisione. Parlava con meticolosità dei lavori con cui si stava ampliando il giardino, della pulizia delle fontane, dei nuovi uccelli che arrivavano da ogni parte del regno; raccontava dei nuovi arazzi che Pilla stava progettando e delle canzoni che Philumena stava componendo, le raccontava di come Briget facesse entrare di nascosto gatti randagi per nutrirli con gli avanzi delle cene e di Presio che continuava ad allenarsi in solitudine presso la cascata della parte nord del giardino.

 

<< Gatti randagi? >> chiese Medusa, quando Genoa terminò il suo resoconto. Si, Regina, gatti randagi.  Dovrei proibirlo a Bridget. Medusa rimase a guardarla e poi scoppiò a ridere. Genoa si morse le labbra sottili, confusa.

 

Genoa non aveva occupazioni durante il tempo libero, semplicemente perché in fin dei conti non aveva davvero un tempo libero, ma tra un’occupazione e un’altra scriveva lettere per la sua famiglia.

 

 

Cara madre,

Jadd si trova in mezzo ad un deserto. Palazzo Devius sembra l’unico posto vivibile in centinaia e centinaia di chilometri (sono una strana unità di misura di questo reame, padre). Dovreste vederlo, è bellissimo. Altissime torri di marmo bianco, intagli alle pareti, fontane di acqua limpida, giardini che sembrano indurre al sonno. Ma cara madre, non si può dormire qui…

 

Interrompeva la lettera, per una commissione, poi la continuava a sera.

 

…c’è sempre molto da fare. Devo occuparmi dei conti del Palazzo e devo coordinare le ragazze. Questo posto è immenso. Non si fa in tempo a pulire l’ala ovest che già le altre tre sono prede della sabbia sottile del deserto vicino. E poi la Regina mi fa viaggiare molto, dice che si fida più di me che dei suoi ambasciatori. Sto ad un solo passo di distanza da lei, madre, ne sei felice?

 

 

 

Poi, i viaggi finirono.

Prima Genoa conosceva la distanza che separava Palazzo Devius dal deserto di Vetro e la bella cittadina di Wendel con la sua cattedrale dalle punte aguzze, conosceva il piccolo villaggio di Topoi e ogni metro che lo separava dalle pianure di Menos e dalle paludi in cui un giorno aveva perso una scarpetta. Medusa la tenne segregata in casa, negli ultimi mesi. La chiamava di continuo nella sua stanza, al secondo piano del palazzo ed esigeva rapporti sempre più dettagliati e minuziosi. Era sempre più severa, sempre più nervosa.

Genoa dimenticò i deserti, i laghi, i villaggi e le grandi città: davanti a se si delineava una mappa in cui trovavano posto due stanchi occhi vuoti di ghiaccio, un naso piccolo e imperioso, lunghi capelli rossi ondeggianti, una bocca dischiusa, livida.

Capì che la Regina, dal momento che la vita prendeva le distanze da lei, si affannava a memorizzare i dettagli anche più insignificanti della stanza più misera del palazzo.

Si morse le labbra, ma eseguì gli ordini fino all’ultimo.

 

Quando gli stranieri giunsero a Palazzo Devius, giunsero con spade. Poteva sentire il singhiozzare silenzioso di Brilla, il tremare della sua pelle sotto le lenzuola, ne fiutava la paura.  Lei però era diversa. Stava ritta alla porta che portava alla torre, senza lacrime sulle ciglia.

<< Nella torre del Signor Devius c’è una porta chiusa a chiave, – disse impassibile – il modo per aprirla è nel suono delle campane. >>

Sabbia del deserto su ognuno di loro, schegge dell’Altare del tempo sui loro abiti, schegge di morte tra tutti noi.

 

 

Io si madre cara, sono così felice. La signora Medusa attende delle visite importanti e dopo ancora sta preparando un viaggio: credo che riuscirò a mandarti dei dipinti di questo posto, voglio che anche tu lo veda. Un giorno, se la signora me lo permetterà, magari potrò tornare ad abbracciarti madre.

Vi voglio bene.

Genoa

 

 

 

 

 

Genoa diceva sempre che nella vita si ha bisogno di punti di riferimento: non monumenti attorno a cui girare e mai allontanarsi, ma punti da segnare in rosso su mappe. Per vivere avevi bisogno di punti eterni, inamovibili a cui stare sempre ad un passo di distanza, punti da cui allontanarsi per poi tornare senza perdersi per strada. E Genoa, credeva di averlo trovato nella Regina di Granz.

Ma dopo la morte di Medusa, si trovò sbigottita e sperduta senza quel punto rosso: insieme a lei, realizzò inorridendo, era scomparsa anche la sua idea di distanza.

 

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Capitolo 4
*** Profondità. [Bridget] ***


Chiara

 

3.       Profondità. [Bridget]

 

 

Li faceva entrare di notte, quando le altre dormivano e il palazzo sprofondava nel sonno, avvolgendo anche la signora Medusa. Scendeva nel giardino, e furtiva come un’ombra sfuggente anche agli animali, si avvicinava al muro sud, quello che il tempo e le intemperie avevano reso più debole. Da una crepa più grosse delle altre, i piccoli gatti entravano uno a uno. Cinque, dieci, quindici. I loro miagolii si udivano appena nella notte.

 

 

Bridget non ha orecchie appuntite: ha occhi scuri, capelli di un folgorante biondo grano e pelle lievemente abbronzata dai giorni passati sotto il sole cocente di Jadd e del deserto che la circonda. Ha le labbra piene e i denti bianchissimi, come perle di fiume. Quando parla, la sua voce è squillante: ha sempre sorrisi per tutti. Adora vivere, ama i suoi tre fratelli per i quali è una madre, ama correre sulla sabbia per poi scivolare sulle dune, ama parlare alla luna quando è alta e piena nel cielo e le piace ballare in cerchio quando il vecchio Ahmed comincia a suonare nella piazzetta che fa angolo alla sua casa. Le piacciono i gatti.

Bridget non è una Malvolio, è umana in ogni sua cellula, ma nonostante ciò è una domestica di Palazzo Devius.

 

Aveva cominciato a lavorare nella locanda di Jadd, giovanissima. Aveva 11 anni quando il padre le mise nelle mani il primo vassoio e 13 quando si trovò a sostituire la madre. Non ci furono più corse nel deserto, né chiacchierate con la luna ma solo lavoro duro per lei che doveva occuparsi dei tre fratellini e spaccarsi la schiena nella locanda del padre: i suoi occhi neri, sembrarono perdersi d’intensità, ma il suo sorriso continuava a splendere incessantemente, come una stella.

Bridget non aveva mai avuto nulla a che fare con Palazzo Devius, prima che suo padre la mandasse per una consegna: era primo pomeriggio, e faceva un tale caldo che in strada non si vedeva nemmeno l’ombra di un passante. La merce sulla sua schiena pesava, e il sudore sulla sua fronte le rigava le guancie e le bagnava il velo ocra che aveva avvolto attorno al viso. I mosaici blu del Palazzo le sembrarono una promessa di salvezza, più che di frescura, e quando le alte porte di legno chiaro si aprirono davanti a lei, si ritrovò a entrare ad occhi chiusi per meglio gustare il sapore del sollievo.

Genoa, chiudendo dietro di lei il portone, rimase a guardarla basita per un attimo e poi le si posizionò davanti. Rimase a contemplare quella fanciulla dalla pelle color miele, dal viso così ingenuamente infantile sfigurato da una crescita troppo precoce.

<< Mi scusi. >> Bridget aprì gli occhi di scatto, restando folgorata dalla bellezza della donna che aveva davanti e dal paradiso che la circondava. Spaventata, con un inchino veloce rovesciò tutta la merce sul pavimento di marmo e corse via.

 

La seconda volta, Bridget notò con dispiacere che le sudavano le mani: durante il tragitto si era ripetuta mille volte di stare calma, e duemila volte aveva ripetuto il discorso di scuse che avrebbe fatto a quella signorina dalle orecchie appuntite. Doveva solo di ricordarsi di stare calma, calma, calma Bridget, calma…

 

Bussò una volta. Due volte. Alla terza Genoa le aprì le porte e Bridget venne nuovamente accolta da quel suono di uccelli e cascate d’acqua che aveva sentito la prima volta. L’aria fresca che veleggiava per palazzo Devius l’abbracciò, lasciandola senza fiato. Genoa le sorrise e le disse che se quella volta non aveva intenzione di rovesciare tutta la merce sul pavimento, la signora Medusa avrebbe condiviso con lei una tazza di tè. Bridget, che non aveva visto che l’ombra del nome della signora che dimorava a Palazzo Devius, sussultò a sentire una simile proposta. Mentre Genoa le faceva strada tra corridoi, scale e sale in cui alle fontane si abbeveravano uccelli maestosi, si vergognò delle sue vesti povere, della sua pelle così scura.

Ma quando la vide, si vergognò di essere umana.

 

Medusa, principessa del mondo di Malvolio e Regina del regno di Granz, era semisdraiata su un prezioso letto rifinito con intarsi di tartaruga, avorio e madreperla. Il vestito verde chiarissimo aveva i riflessi della luce che passa attraverso le foglie e Bridget, poté affermare in seguito di non aver mai visto ricami tanto elaborati come quelli che impreziosivano il suo abito. I lunghi e mossi capelli rossi, ondeggiavano ad ogni minimo soffio di vento che entrava dalle finestre che circondavano l’intera sala. La pelle, bianchissima come latte era macchiata solo dagli occhi azzurro ghiaccio e dalle labbra rosse come sangue. Accanto a lei, l’uomo più bello che avesse mai visto, gettava uno sguardo svagato fuori dalla finestra.

 

Con un cenno della testa, chiese a Genoa di uscire e a Bridget di avvicinarsi. Bridget si mosse senza rendersene pienamente conto, e le fu davanti. Si sentì squadrare ad ogni passo, da quegli occhi duri e brillanti come il diamante.

 

<< Come ti chiami? >>

Bridget, signora.

<< Quanti anni hai? >>

17, signora.

<< Hai una famiglia? >>

Mio padre che è proprietario della locanda del paese e tre fratellini piccoli, signora.

<< E tu lavori da tuo padre? >>

Si, signora.

<< Da domani lavorerai qui. Genoa e le altre ragazze ti spiegheranno tutto quanto. >>

Silenzio.

 

Silenzio.

 

Silenzio.

L’uomo distolse lo sguardo dalla finestra e lo posò su Bridget. L’uomo con i capelli d’argento.

 

<< Puoi andare. >>

Silenzio, tanto silenzio.

 

I primi giorni Bridget aveva paura dei suoi passi: i suoi facevano rumore, non come quelli delle altre. Riecheggiavano in tutto il palazzo, e quando qualcosa le cadeva, i muri le rimandavano indietro un fracasso distorto che le faceva salire le lacrime agli occhi. Non c’era nulla di umano, in quel palazzo. Tranne lei, e lei era sola.

Voleva tornare indietro, voleva tornare alla locanda.

Ma la risposta di Medusa era stata cristallina.

Così se lei non poteva tornare al mondo esterno, avrebbe fatto in modo che il mondo esterno tornasse da lei.

 

Cominciò a comportarsi come una domestica vera: aveva una padronanza eccellente delle proprie mansioni e lavorava più duramente delle altre. Si svegliava sempre un’ora prima e quando terminava i propri compiti, svolgeva quelli delle altre, sempre con il sorriso sulle labbra. La dolcezza che infondeva in ogni minimo gesto, la rese amabile agli occhi di tutti, uccelli compresi, i quali le regalavano canti che facevano esplodere di musica il palazzo. Quando capitava allora, lei si sedeva sul bordo della fontana, e spruzzava con l’acqua gli uccelli che facevano altrettanto con lei. Si bagnavano le lunghe ali e le volavano attorno, bagnandole le spalle, il volto, i capelli. Lei continuava a sorridere, con i suoi occhi dolci.

E probabilmente, fu tutta colpa di quei sorrisi.

 

Quando il laccio di sguardi attorno a lei si allentò, e tutte le altre, sebbene non la riconoscessero come una loro pari, la accettarono, Bridget si sentì pronta per attuare il suo piano. Aveva visitato a fondo il giardino e aveva trovato nel muro più a sud, una crepa di larghezza sufficiente per far passare i suoi gatti. Cioè, non che fossero proprio suoi, ma con il tempo si era ritrovata a fare da madre anche a tutti loro.

I gatti passarono con fatica, ma passarono. Le accarezzavano le caviglie e spingevano la testa contro le sue gambe: Bridget sorridendo si abbassava, lasciando cadere a terra il cibo che aveva portato per loro.

Ogni notte rimaneva a guardarli, finché non se ne andavano. Ripuliva tutto e sprofondava in un sonno più che meritato.

 

La terza notte, successe il fattaccio.

 

L’uomo dai capelli grigi non era stato che una fugace apparizione durante le tre settimane che aveva trascorso a palazzo Devius: non era una che faceva domande, non indagò su chi fosse anche se sospettò si trattasse del figlio della signora Medusa. Non lo aveva ipotizzato semplicemente perché il taglio degli occhi, e i lineamenti del viso erano pressoché identici, quanto per l’aria di rassegnazione che poltriva in fondo al loro sguardo.

Ma la terza notte, mentre aspettava che gli ultimi gatti finissero la loro parte, se lo trovò accanto.

Così, in silenzio.

 

Lo guardò, ebbe paura di essere scoperta. Non temere, le disse. Ti disturbo?

 

Devius, figlio della Regina Medusa, stava accanto a lei. Seduti insieme su una panchina del giardino: una domestica umana e un principe Malvolio.

Ogni notte, lui la raggiungeva, e le si sedeva accanto, sulla panchina di legno chiaro. Non parlavano molto e quando lo facevano occorrevano frasi brevi per capirsi.

 

<< Mia madre ti ama. >>

Non mi permette di uscire dal palazzo, Devius.

<< Perché ti ama teneramente. >>

Silenzio.

<< Avrei fatto la stessa scelta al suo posto. >>

Perché sono umana?

<< Non solo. >>

I capelli di Devius brillavano della stessa luce della Luna. Gli occhi di Bridget coloravano di notte tutto quanto.

<< Ti ama perché sei amore. >>

Brillava tutto, tutto quanto, nel silenzio.

 

Nel possesso di Devius, e nella prigione in cui Medusa aveva deciso di rinchiuderla, Bridget si sentiva stranamente al sicuro. Non stava male, anzi. Preferì la comoda schiavitù a cui era sottoposta, piuttosto che la libertà dura che doveva subire ogni giorno a Jadd. Era libera, ma doveva lavorare duramente alla locanda senza essere pagata e occuparsi dei suoi fratelli senza alcun riconoscimento da parte del padre: sfioriva e nemmeno se ne accorgeva. All’interno del palazzo invece aveva amore. Era schiava, si, ma poteva svolgere lavori meno massacranti e quel che guadagnava, aveva risollevato quel che restava della sua famiglia.

Cominciava a considerare Medusa, come una madre lontana, chiusa nella sua stanza. Le sue carezze non avevano forma, ma la raggiungevano comunque e dovunque. Aleggiava un senso di protezione attorno a lei.

 

Medusa mandò a chiamare Bridget. Devius non c’era, era fuori. Dove, non si sapeva.

 

<< Odi ancora questo posto, Bridget? >>

Ha importanza, signora?

<< No. >>

Lo amo, signora.

<< Stai bene qui? >>

Si signora. Come non lo sono stata mai.

<< Ti andrebbe di restare per sempre? >>

La voce era quella di Devius, apparso alle sue spalle. Sussurrò quella frase a pochi centimetri dal suo orecchio. Medusa ebbe la sensazione di aver già vissuto mille e mille volte quell’attimo.

 

Si, per tutti gli Dei del mio e del tuo mondo Devius. Si, voglio restare per sempre. Insieme a voi, per sempre.

 

 

Bridget non vide entrare gli stranieri armati di spade, ma sentì il clangore del ferro e il rumore dei loro bastoni sul lucido pavimento. Via via. Stranieri, via. Lo avrebbe urlato se solo la voce fosse uscita dalla sua gola.

Con il volto affogato nel cuscino, le sembrò di sentire il cuore spezzarsi. Non vedeva che il nulla, non sentiva che rumore.

Ridatele il silenzio.

 

I passi di lui, andarono a soffocare i rumori che si avvicinavano per le scale. Lievi, ma li sentì in tutta la loro pienezza. Era lui.

Si sedette sul letto, accanto al fianco di lei, così pesantemente sdraiata. Le sciolse i capelli, cominciò ad accarezzarli, per lunghi e lunghi minuti.

In silenzio.

Lasciò scorrere le sue dita tra quei capelli d’oro, mentre con l’altra mano le accarezzava le guancia, il collo, la schiena. Dopo qualche attimo la voltò, la costrinse a mettersi seduta, la guidò a se.

Un faccia a faccia spietato, pensò Bridget. Non anche tu Devius, ne morirei.

Nessuna distanza tra i loro nasi, già un abisso tra le loro anime.

 

<< Bridget. >>

Silenzio.

Le prese le mani strette a pugno e con delicatezza le riaprì, come se fossero dei fiori. Apparvero dei palmi bianchi come il latte davanti ai suoi occhi. Un profumo di vita si sprigionò da quelle mani: si toccò il petto e le sfiorò con le labbra.

<< Il mio cuore, nelle tue mani. >>

Le baciò la fronte, e si alzò, con un frusciare del mantello e dei suoi capelli argentei.

 

 

Bridget sentì piombarle addosso un silenzio di tomba.

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