Vita

di ladyBrooke
(/viewuser.php?uid=325734)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** prologo ***


 
C’era una volta, ma adesso non c’è più.
C’era una volta una graziosa bambina, ma non era una principessa.
C’era una volta una graziosa bambina che aveva tre grandi sogni, ma non c’entra il genio della lampada.
C’era una volta una graziosa bambina che aveva tre grandi sogni ed era convinta che si sarebbero realizzati, ma questo come avrai potuto immaginare, non è una fiaba.
Una vita felice, un buon lavoro e una famiglia.
Chiara era cresciuta con questi ideali per la mente, dalle scuole elementari fino all’università.
Era convinta che prima o poi la sua vita avrebbe preso una piega diversa, era convinta che si sarebbe fatta strada tra le persone importanti con la sua forza, la voglia di fare, l’intelligenza e per le sue altre grandi doti.
Non sarebbe più importato a nessuno da che classe sociale provenissero i suoi genitori, l’avrebbero accettata così come fosse.
L’unico grande difetto di Chiara era appunto questo, la sua ingenuità.
Solo i figli dei potenti a loro volta diventano potenti, i figli dei poveri devono soltanto sopportare, senza fiatare, l’incapacità dei loro
coetanei egocentrici e masochisti.
Chiara purtroppo l’aveva capito troppo tardi, e i suoi sogni, le sue ambizioni, sono crollati in un attimo, insieme a lei.
Per fortuna che il buon Dio è misericordioso, e che almeno un sogno glielo avrebbe fatto realizzare.
Infatti, in una sera piovosa di agosto, precisamente il 14 agosto in un piccolo e lurido ospedale, la nostra eroina Chiara riuscì a realizzare il suo primo, ma anche ultimo scopo nella vita.
Dal suo grembo nacque una bambina, un fagottino con le guance tutte rosse, i capelli colore cenere e due grandissimi occhi azzurri con una piccola macchia color cioccolato all’ interno dell’ iride sinistra.
Quegli occhi erano così belli, ma Chiara riuscì solo a vederli diversi, fuori dal normale, e per questo se ne rattristò molto.
Infine con le sue ultime forze riuscì a pronunciare il nome della bambina all’ infermiera che si trovava vicino a lei:”Stella, si chiama Stella perché anche nei suoi giorni più bui dovrà riuscire a splendere da sola, dovrà sopravvivere alle tenebre che ogni giorno incontrerà, e spero un giorno riuscirà ad arrivare in alto, superando le persone mediocri che hanno calpestato sua madre perché lei sarà guidata da qualcosa che loro si sono dimenticati di avere, il cuore”.
Detto questo Chiara riguardò la sua bambina per pochi minuti e gli mise al collo un piccolo ciondolo, una stellina d’oro con incisa la lettera C, poi si spense in silenzio per non disturbare i sogni che la piccola in quel momento stava facendo.
Se non altro Chiara aveva capito qualcosa di fondamentale dalla vita: se non hai più niente inizia a sognare, sarà l’unica cosa che nessuno potrà portarti via.
Mia cara Stella, da questo momento in poi affronterai il percorso più difficile e tortuoso mai fatto, pieno di strade, autostrade, scorciatoie, ma soprattutto vicoli ciechi, tranquilla, tutti prima o poi ci passiamo, è la vita.


 

 

Ciao a tutti!!! Premetto che questa è la primissima storia che scrivo in vita mia e non so se vi piacerà... Detto questo vi lascio al prossimo capitolo, ciao belli.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** capitolo 1 ***


Sogno. Stavo facendo un bel sogno, almeno credo.
Amavo dormire, non perché sono una persona pigra ma perché quando chiudo gli occhi il mondo dentro di me diventa qualcosa di meraviglioso, magico, forse è proprio questa la sua bellezza, il fatto che quello che succederà là dentro non potrà mai succedere nel mondo reale, il fatto che in quel momento sai di essere al sicuro, sai di essere amata.
Ovviamente i sogni non sono fatti per restare lì nella tua mente in eterno,o meglio, tu non potrai stare nei sogni in eterno.
Infatti, quel giorno, a svegliarmi da quel paradiso ci pensò suor Carlottina che, insieme alle altre ragazze della casa, intonarono un “tanti auguri” alquanto terrificante; c’era chi urlava, chi sbadigliava e chi, come Alessandra, si limava tranquillamente le unghie e si limitava a lanciarmi delle occhiatacce solo perché le avevo rovinato il suo “sonno di bellezza”.
Quando quella, possiamo definirla canzone finì, suor Carlottina, o come mi piaceva chiamare suor Charlott, mi lesse a voce alta un foglio di carta che assomigliava a un biglietto di auguri:”Alla nostra cara Stella, che ci illumina ogni giorno con il suo bel sorriso e la sua bella voce, auguriamo un felicissimo sedicesimo compleanno, con affetto suor Calottina, suor Clelia e le tue amate sorelle.”
Avevo sentito bene?! Sedici anni, iniziai a urlare per la  felicità mentre le altre ragazze mi guardavano scioccate, ma io non riuscivo a contenere la mia infinita gioia.
Mi alzai dal letto talmente velocemente che barcollai e inciampai sui miei stessi piedi, le altre iniziarono a ridere mentre la suora scosse lentamente la testa, come rassegnata.
Anche se avevo sedici anni il mio senso dell’ equilibrio non era affatto cresciuto con me, anzi, forse era anche peggiorato.
Mi vestii e andai a fare colazione con tutte le altre, là trovai anche suor Clelia già seduta a capo tavola, con il suo classico sguardo che incute timore, mi squadrò dall’ alto al basso, mi augurò buon compleanno e mi invitò a sedere al mio solito posto. Suor Clelia era la madre superiore, noi la chiamavamo la “boss”, perché era sempre pronta a impartire ordini, non si stancava mai,era a lei che bisognava chiedere per fare qualunque cosa, anche la più banale,ma adesso finalmente ero libera, libera dalle sue raccomandazioni e libera dalle sue lunghissime prediche, finalmente potevo uscire con le mie amiche o restare fuori senza chiederle il permesso, dovevo solo rispettare il coprifuoco e dovevo rientrare a casa per l’ora dei pasti.
Per sfruttare a pieno i miei momenti di libertà feci velocemente colazione e decisi di andare a casa di Cecilia, la mia migliore amica.
Mentre camminavo accesi il cellulare e fui inondata da tantissimi messaggi di auguri, fui sorpresa di non trovare quello di Cecilia, di solito era lei la prima a inviarmi il messaggio a mezzanotte precise, forse, sarà senza credito pensai, e mi affrettai verso casa sua.
La sua casa distava dalla casa famiglia non più di 50 metri, oltrepassata la chiesa e il parco c’erano degli enormi palazzoni orrendi del comune, lei viveva in uno di questi, al nono piano.
I genitori di Cecilia erano tutti e due infermieri e non guadagnavano tanto, e poi, quasi tutti i soldi che avevano risparmiato li avevano spesi per le cure della loro unica figlia.
Due anni fa Cecilia si ammalò di leucemia, quello fu per la sua famiglia un periodo terribile, mi ricordo sua madre Cinzia era diventata sempre più magra, mentre suo padre Enzo da uomo spiritoso e allegro che era diventò triste e silenzioso.
Solo Cecilia cambiò in meglio, diventò più forte e sicura, insomma, diventò una vera e propria guerriera.
Quella volta che gli chiesi se avesse paura della morte mi rispose:” Non ho paura della morte, se il mio Dio vorrà, mi farà guarire altrimenti mi chiamerà alla sua casa e io sarò felice lo stesso!”
Da allora, oltre ad essere la mia migliore amica Cecilia diventò anche il mio punto di riferimento, l’esempio da seguire, la mia eroina.
Poi, l’anno scorso successe il miracolo.
 Il 24 dicembre, mentre io ero a provare i canti in chiesa per la messa di Natale insieme al coro, Cecilia, che non era a cantare con noi perché era a fare un controllo in ospedale mi chiamò, stava piangendo, mi parlava anzi, mi urlava, ma io non riuscivo a capire quello che diceva, ero spaventata, pensavo fosse una brutta notizia.
Chiesi a suor Charlott di interrompere le prove per portarmi in ospedale.
Entrai correndo nel reparto pediatria e trovai Cecilia che piangeva, aveva il viso tutto sfigurato, continuavano a scendere dal suo viso tante lacrime calde, mi guardò e mi sorrise, un sorriso bellissimo, naturale, gioioso, come se fosse successo qualcosa di estremamente bello, un miracolo.
Si, successe proprio un miracolo, ci abbracciammo fortissimo e lei disse:” C’è l’ho fatta, ho sconfitto la morte!”, cominciammo a piangere come delle cretine, poi corremmo per tutto l’ospedale, uscimmo e andammo nel nostro posto speciale, che solo noi due conoscevamo, si trovava in un boschetto vicino a casa nostra dove c’era un vecchissimo salice piangente, tutto incurvato che creava il nostro luogo magico, nessuno era mai entrato in quel posto, era soltanto nostro.
In quel luogo io e lei ci promisimo amicizia eterna, da quel momento non eravamo più amiche, né sorelle, eravamo un’ unica persona.
Io ero felice perché lei era felice, lei stava piangendo di gioia perché io stavo piangendo di gioia, ma soprattutto, io vivevo perché lei viveva.
 

Bussai alla porta e mi venne ad aprire Cecilia, ancora in pigiama, il suo viso era ricoperto di rughette formatesi per via del suo cuscino, gli occhi si aprivano a malapena perché erano pieni di sgarbelle(cispa) e aveva ancora dei residui di trucco sulla faccia.
Quando mi vide mi sorrise e a quel punto scoppiai a ridere, mentre lei mi guardava con aria interrogativa.
“Appena svegliata?” gli chiesi,”si vede così tanto” mi rispose facendomi entrare; la casa era talmente disordinata che sembrava ci fosse stata la terza guerra mondiale.
Vestiti dappertutto come se qualcuno avesse avuto fretta di partire, portafotografie rotti, ma la cosa che faceva rabbrividire era l’odore, c’era puzza di fumo, di qualcosa andato a male, qualcosa di morto, putrefatto.
Mi misi d’ istinto la mano davanti alla faccia poi, capendo che mi stava fissando, la tolsi e finsi un sorriso.
“è successo qualcosa?” chiesi indicando tutte le cose sparse per terra, lei mi guardò e abbassò la testa come per non farmi vedere che espressione avesse in quel momento la sua faccia.
“I miei genitori” disse “hanno litigato, niente di importante però!”, mentre lei andò in cucina io aprì la finestra, poi la vidi prendere il cartone del latte e a iniziare a bere a canna, poi rise per via della mia faccia disgustata.
“A proposito di bere dal cartone del latte,sai che cos’altro e disgustoso?” domandai ironica mentre lei faceva finta di essere offesa “dimenticarsi del compleanno della tua migliore amica” conclusi lanciandole un asciugamano in faccia.
Lei mi guardò prima con aria svampita, poi iniziò piano piano a capire e dal suo viso iniziarono a scendere una, poi due e in seguito tantissime altre lacrime, iniziò a piangere come una disperata.
Io rimasi lì, come impietrita, dopo quel 24 dicembre non avevo più visto Cecilia piangere e in quel momento mi assalì un enorme senso di colpa.
“Dai non piangere” gli dissi “può capitare tranquilla, non è mica la fine del mondo!” e l’abbracciai.
“Scusa, non me ne sono proprio ricordata, sai com’è in questi giorni…” “com’è?” gli chiesi,”niente” rispose, ci fu un’ attimo di silenzio, era chiaro che mi stava nascondendo qual cosa.
”Scusami ancora” disse “ come posso farmi perdonare?”, io ci pensai un po’ e poi gli risposi”che ne dici se vieni a mangiare da noi, alla casa famiglia, e poi andiamo a fare compere in centro?”.
Sorrise subito, ma poi diventò in un attimo seria” no scusa, ma non posso, sono impegnata” disse mangiando un po’ di cereali.
Io non la capivo, non aveva mai rinunciato a una buona passeggiata in centro e oggi, che era pure il compleanno della sua migliore amica, decide di diventare incredibilmente pigra e noiosa.
“Perché?” gli chiesi, mi stava iniziando a infastidire, non aveva il diritto di rovinarmi quella bellissima giornata solo perché si era svegliata male.
“Non ti interessa” mi rispose fredda.
Io non capivo, non mi aveva mai nascosto niente. 
Noi ci dicevamo tutto, non avevamo mai avuto segreti.
“Ceci sono la tua migliore amica, me lo puoi anche dire”, ma lei mi rispose, quasi infastidita”Io non ti devo dire proprio niente, se non lo sai anche io ho una vita sociale e non ho sempre voglia di passare tutti i pomeriggi con te!”.
Ero incredibilmente arrabbiata,furiosa, volevo spaccare tutto, presi la mia borsa e corsi via.
Correre per me è fondamentale, solo correndo riesco a pensare, a ragionare, solo correndo riesco a sentirmi libera, riesco a sentirmi sicura.
Le gambe iniziano a muoversi magicamente e a quel punto non è più il tuo cervello a controllarle, ma il tuo cuore.
Ora fermarsi è impossibile, sarebbe solo un dolore per te stesso e quindi continui a correre, ormai non ti importa più della fatica e del dolore, perché sai che fermandoti fai solo peggio.
È il dolore a spingerti a non smettere, fino a quando la paura di non farcela ti blocca.
Corsi, corsi e corsi, fino a quando mi decisi a fermarmi per prendere fiato, e mi trovai lì, nell’unico luogo in cui non dovevo trovarmi, nell’unico luogo che aveva a che fare con il mio passato, l’unico luogo che mi conosceva da sempre.

 

Lo so che questi capitoli potranno sembrare un po' noiosi, ma servono per comprendere meglio la storia, abbiate un po' di pazienza. Vorrei soltanto dire che la nostra protagonista Stella non è una ragazza "dal fazzoletto facile" anzi, come si vedrà dal prossimo capitolo è molto coraggiosa e da come si vedrà nel corso della storia... Beh, questo lo scoprirete da soli!!!

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** capitolo 2 ***


In quel luogo maledetto, esattamente 16 anni fa mia madre perse la vita.

Di quell’ ospedale ormai non è rimasta più traccia, era stato praticamente raso al suolo, era rimasta solo quella piccola chiesetta sconsacrata dove un tempo i pazienti andavano a pregare, intorno ad essa era cresciuta una folta vegetazione.
Un luogo desolato, era quello che in quel momento mi serviva.
Scrissi a suor Clelia che rimanevo a casa di Cecilia a festeggiare e che sarei ritornata per l’ora di cena.
Mentii, ma non avevo altra scelta, loro non sopportavano l’idea che andassi ogni volta in questo luogo, da loro ritenuto pericoloso.
Infatti, essendo abbandonato, verso sera si riempie di spacciatori e malintenzionati, quel posto è stato testimone di atroci delitti.
Mi arrivò sul cellulare una chiamata da parte della suora, ma io la rifiutai e spensi il cellulare, in quel momento avevo intenzione di parlare con solo una persona.


Entrai lì, era un luogo silenzioso, talmente silenzioso da sentire lo scroscio delle foglie dell’albero di pesco che era a fianco alla chiesa.
Delle piastrelle non rimaneva molto, il pavimento era ricoperto da uno strato spesso di polvere, in alcune parti delle pareti si potevano notare i frammenti dei dipinti che ornavano la chiesa.
L’elemento più particolare però era la luce, la maggior parte della chiesa era buia, tenebrosa, ma dalla grande finestra posta vicino a un vecchissimo organo entrava un bellissimo fascio di luce colorata che illuminava il crocifisso e la navata centrale.
Non c’era nessuno,mi misi in centro alla chiesa, mi distesi a pancia in su e guardai il soffitto.
Su di esso c’era un dipinto, rovinato come le pareti dal tempo, lo sfondo era di un azzurrino molto chiaro.
 A me piaceva pensare che un tempo quell’azzurrino fosse stato un blu notte e quel dipinto rappresentasse una notte stellata e che in centro ci fosse stata la stella più grande che mi guardava e mi proteggeva, mia madre.
Presi in mano, la collana che mi aveva donato prima di morire, era l’unico oggetto suo, l’unico che in un certo senso mi riconducesse da lei, era il più prezioso che avessi.
Lo strinsi in mano, lo stringevo come se con quell’azione riuscissi ad abbracciare mia madre, lo appoggia sul mio petto e il cuore inizio a battere all’impazzata, come se si fosse risvegliata in me una nuova emozione, gioia, affetto, malinconia, solitudine si univano per creare una bellissima ma dolorosa sensazione.

Iniziai a parlare con lei.

Fin da piccola, quando vedevo le altre bambine con i loro genitori, chiedevo a suor Carlottina dove fosse la mia mamma, lei rispondeva che era nel cielo, per osservarmi meglio e che se avessi avuto bisogno di lei l’avrei trovata nella casa del signore.
La prima volta che mi misi a pancia all’aria per parlare con lei fu quando avevo tre anni, dovevo consegnarle il regalo per la festa della mamma,da allora ogni volta che dovevo parlare con qualcuno per qualunque cosa andavo da lei.

“Mamma” sussurrai “e da 16 anni che vivo senza di te, e da 16 anni che non ricevo un tuo sorriso, o una tua carezza, o un tuo abbraccio.
Nessuno può capire come mi sento. Sola.
Mamma, vorrei svegliarmi un giorno e vederti a fianco a me, vorrei che mi preparassi la colazione, vorrei che mi consolassi, vorrei che mi sgridassi, vorrei che tu sia orgogliosa di me.
Mamma, non riuscirò mai ad essere felice, perché tu non ci sei, ho paura di prendere una strada sbagliata perché non ci sei tu a guidarmi, ho paura di perdermi, ho paura di perderti.
Mamma, ti prego, stammi vicino, non abbandonarmi.
Sii orgogliosa di me.”

Restai là non so quanto, per minuti o forse ore, quando sentii un rumore di passi, sembravano di un uomo e per un attimo ebbi paura, uno spacciatore, un drogato? Brividi freddi cominciarono a formarsi sulla mia pelle, gocce di sudore iniziarono a scivolare dalla mia fronte e dalle mie mani, sentivo i polmoni contorcesi su se stessi, come se volessero trattenere tutta l’aria possibile.
Strinsi più forte il ciondolo tanto da farmi male, gocce di sangue iniziarono a uscire dalla mia mano.
Lacrime calde iniziarono a bagnare il mio viso, in quel momento tutta la malinconia che avevo si era trasformata in puro terrore.

“Perché? Perché ero venuta in quel posto? Perché sono stata così incosciente?”. Mentre mi facevo tutte quelle domande, delle immagini iniziarono ad affiorare nella mia mente, titoli di giornali che parlavano di ragazzine stuprate e poi uccise, immagini di funerali con le bare bianche, immagini di persone a me care piangere dal dolore; ma la cosa che in quel momento non riuscivo a sopportare era che non vedevo.
Non vedevo più i miei sogni, le mie aspirazioni, non riuscivo più a vedere il mio futuro e questo mi bruciava il cuore.
Sedici anni. Se quella mattina mi sentivo un’adulta in quel momento capivo di essere solo una bambina. “ sono troppo giovane per morire” pensai “ho ancora tutta la vita davanti, io voglio vivere, io devo vivere”.

Intanto lo sconosciuto era entrato in chiesa, sentivo i passi avvicinarsi sempre più, ed io, ero sempre là, nella stessa posizione, immobile.
L’unica cosa che riuscii a fare fu chiudere gli occhi, anche se la mia curiosità mi imponeva di guardarlo in faccia, la mia paura bloccava ogni mio tentativo di aprirli.
Si fermò proprio affianco a me, si inginocchiò e iniziò a ridere, senti il suo alito addosso al mio, puzzava, un odore nauseabondo, un mix di alcool, droga e fumo.

Cosa fare adesso? Solo ora mi rendevo conto di quanto fosse stato sciocco da parte mia non avere accettato di fare quei corsi di arti marziali che mi avevano offerto un po’ di anni fa.
La mia mano si strinse a pugno, aprì gli occhi immediatamente e gli tirai un pugno in faccia, poi mi alzai in piedi, mentre lui era steso a terra.
Sembrava morto.

Era un uomo verso la cinquantina, magro e alto, aveva i capelli lunghi e un po’ di barba scura, che circondava le labbra tutte screpolate, dalla bocca usciva molto sangue e ad un certo punto un senso di colpa mi assalì.
In mano aveva una mela marcia morsicata.

Mi avvicinai lentamente al corpo disteso a terra, lo scossi con i piedi, ma non si mosse.
Mi allontanai, mi sedetti a terra, e stetti là a guardarlo.
Dopo un po’ di tempo, iniziò a muoversi, mugugnò qualcosa, si cercò di alzare fece qualche passo e poi cadde a terra.
Continuava a parlare, ma io non capivo cosa diceva, poi si accorse della mia presenza.
Prima mi sorrise, ma poi ebbe un ghigno di dolore e si ricordò probabilmente del pugno che gli avevo dato e per un attimo sembrò quasi che avesse paura di me, ma subito si ricompose e mi ringhiò in faccia.

Non mi fece paura, semmai un po’ pena.

“Chi sei?”gli domandai esitante, ma non ricevetti risposta.
Mi alzai, stavo per andarmene quando finalmente lui mi rispose:” Sono il tuo peggiore incubo baby, sono la persona che nessuno vorrebbe incontrare per strada, la gente si allontana da me, ha paura. Io sono il dolore, l’invidia, la cattiveria. Io sono il male, piccola”.
Si stava alzando, pensava di avermi impaurito, ovviamente si sbagliava. Corsi da lui e gli diedi un calcio là, dove il sole non batte, lui dolorante si accasciò a terra dal dolore, la sua faccia aveva preso un colorito bluastro.
”Chi sei?” chiesi ancora, lui mi guardò,mi fissò, probabilmente mi odiava, mi temeva, probabilmente in questo momento aveva voglia di prendere un coltello e di uccidermi, ma a me non importava.
“Garred” ansimò “mi chiamo Garred”.

Stavo per rispondergli ma, guardando fuori, mi accorsi che il sole stava tramontando e, in un attimo, corsi fuori dalla chiesa e mi avviai verso la casa famiglia.
Ripensai allo sconosciuto che avevo incontrato, ma ripensai soprattutto alla chiesetta, mi dispiaceva abbandonare quel posto, forse perché ritenevo quella la mia vera casa.

La casa è dove c’è la famiglia, dove ci si sente al sicuro,dove si è realmente felice, e là, mi sentivo realmente felice.

Arrivata davanti al portone d’ ingresso, non volevo entrare, sapevo cosa sarebbe successo se avessi varcato la soglia, ma non avevo altra scelta.
Dovevo proprio rompere quella sensazione di tranquillità che mi si era creata nel pomeriggio? La risposta era sì.

Dovevo affrontare la realtà.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1658606